SPICCIOLI DI ECONOMIA...Massimo Savastano 5 SECONDA LEZIONE La global economy nel difficile rapporto...

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SPICCIOLI DI ECONOMIA Breve corso su questioni di attualità economica I cittadini di oggi pongono molte domande su questioni di economia spicciola, confrontandosi con temi fino a poco tempo fa sconosciuti, come quello dello SPREAD, ma che ormai fanno parte non solo dell’immaginario collettivo bensì pure delle loro conversazioni e del loro quotidiano. Crescita, equità e lavoro: bisogna aspettare a braccia conserte le scelte di politica economica? 2019 - Nova MASSIMO SAVASTANO LICEO SCIENTIFICO GALILEI - BORGOMANERO 2019 - Novantesimo della Grande Crisi

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Le sentenze non definitive

SPICCIOLI DI ECONOMIA Breve corso su questioni di attualità economica I cittadini di oggi pongono molte domande su questioni di economia spicciola, confrontandosi con temi fino a poco tempo fa sconosciuti, come quello dello SPREAD, ma che ormai fanno parte non solo dell’immaginario collettivo bensì pure delle loro conversazioni e del loro quotidiano. Crescita, equità e lavoro: bisogna aspettare a braccia conserte le scelte di politica economica?

2019

-

Nova

ntesi

mo

della

Gran

de

Crisi

MASSIMO SAVASTANO LICEO SCIENTIFICO GALILEI - BORGOMANERO

2019 - Novantesimo della Grande Crisi

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INTRODUZIONE

Le domande

di economia

sempre più

diffuse tra

normali

cittadini

Scoppiata la crisi economica internazionale nel 2007, le preoccupazioni proprie e

peculiari dei diversi operatori economici sono divenute vere e proprie trepidazioni di

tutti i cittadini. Si tratta di una storica svolta epocale e culturale: oggi più che richieste

alla classe dirigente e politica, le persone pongono una serie di domande ormai ricorrenti

sulla bocca dei più: sul lavoro, sulle pensioni, sulla moneta unica, sull’utilità di far parte

dell’Unione europea, sulle banche, ovvero sulle questioni di economia spicciola che

incrociano e toccano la vita di ognuno di loro. E soprattutto, gli italiani sono sempre più

interessati a sapere se il Paese sarà in grado di sostenere un periodo di crescita

prolungato e stabile, nonostante le bordate della crisi economica e gli urti dell’instabilità

politica, un periodo che garantisca il più possibile equità sociale e lavoro per tutti.

In una società che reclama cittadini attivi e responsabili, è importante divenire italiani

che non vogliono più farsi strumentalizzare e incantare da velleitarie e fantomatiche

promesse elettorali, per conoscere in maniera alquanto plastica un universo che non è

proprietà esclusiva degli addetti ai lavori ma è una realtà con cui si deve imparare a

coabitare e con cui fare i conti tutti i giorni: l’economia. Proprio così: l’economia, che

può sembrare un mondo distante anni luce e incomprensibile, più la si comprende più

può aprire gli occhi a tutte quelle persone che, con le mani in tasca,si limitano a prestar

fede a coloro che promettono facili soluzioni a problemi complicati.

Questo corso, che si svolgerà nel 2019 a esattamente 90 anni dalla Grande Crisi,

rappresenta l’opzione, da parte di chi sta compiendo studi impegnativi, come quelli

liceali, di condurre la propria vita – a prescindere dalle scelte specifiche che si

compiranno in ambito lavorativo e professionale – in modo pieno e consapevole, senza

delegare aspetti pratici a burocrati e tecnici, ma divenendo protagonisti di una storia che

ci impone di condurre qualsiasi attività secondo una visione dell’umano che persegua in

qualsiasi modo la giustizia sociale e permetta all’uomo di diventare sempre più uomo.

Obiettivi del

corso Competenze Conoscenze Abilità

1) Riconoscere il ruolo

dello Stato nella

organizzazione dei

popoli.

2) Conoscere le diverse

forme che può

assumere lo Stato

nell’esercizio della

sovranità.

3) Riconoscere i valori

fondamentali posti

dalla Costituzione alla

base della nostra

convivenza sociale.

4) Collocare l’esperienza

personale nel tessuto

sociale della comunità

nel rispetto dei valori

espressi dalla

Costituzione.

1) Conoscere le scelte

di valore contenute

nei principi

fondamentali della

Costituzione.

2) Conoscere i

concetti di

globalizzazione e

multinazionali con

i loro aspetti

positivi e risvolti

problematici.

3) Conoscere alcuni

concetti economici

fondamentali:

economia reale e

monetaria, finanza

speculativa, spread,

banche e altri

concetti di attualità

economica.

1) Comprendere

articoli di giornale

sulle attuali

questioni

economiche.

2) Saper valutare i

rischi che può

comportare la

globalizzazione.

3) Riconoscere

l’eccessivo potere

delle

multinazionali e

loro commissioni

con la mafia

economica.

4) Riconoscere in una

certa situazione il

profilo di un valore

fondamentale

costituzionalmente

protetto.

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PRIMA LEZIONE

L’escalation

di “suicidi

economici”

dalla Grande

Crisi ad oggi

Per poter distinguere a breve ciò che caratterizza l’economia reale, differenziandola

dall’economia monetaria e, quindi, per non confondere il capitalismo in sé con una suo

aspetto patologico qual è la finanza speculativa, può prestarci un valido supporto

l’esamina della diversa tipologia di operatori economici che, dal 1929 ad oggi, si sono

avvicendati in una drammatica escalation di “suicidi economici”. A raccontarlo è

Arnaldo Vitangeli, in suo articolo del 12 marzo 2014:

Suicidi a catena tra i banchieri della J.P. Morgan.

Come Nel 1929 “volano” i finanzieri Arnaldo Vitangeli, Mar 12, 2014 FINA INTERNAZIONALE PRIMO PIANO

Cosa sta accadendo o sta per accadere ai vertici della finanza mondiale, e più in particolare nella JP Morgan e nella Deutsche Bank? Uno dei ricordi emblematici della crisi del 1929 è quello di finanzieri che, caduti in rovina in pochi giorni, salivano all’ultimo piano dell’edificio della Borsa e dall’alto si gettavano in strada. Ebbene: la stampa italiana sembra non essersene accorta, tutta intenta a seguire il parto cesareo del governo Renzi ed il totoministri conseguente, ma nell’arco di otto giorni, tra il 26 gennaio ed il 3 febbraio scorso, da Londra a New York, a Washington, si sono suicidati ben quattro banchieri. E l’epidemia non accenna a finire: martedì 18 febbraio un altro suicidio, questa volta ad Hong Kong. Tre indizi, si dice, fanno una prova. Qui siamo già a cinque. Ma prova di cosa? Questo è il punto, su cui, per ora, si possono solo formulare ipotesi. Intanto vediamo, più in dettaglio, quel che è accaduto. Il 26 gennaio William Broeksmit, 58 anni, ex direttore esecutivo della Deutsche Bank si è impiccato nella sua casa di Kensington, uno dei più esclusivi e lussuosi quartieri di Londra. E fin qui si poteva anche supporre che fosse il gesto disperato di un uomo non più giovane che non si rassegnava alla perdita del suo lavoro, e con esso del suo privilegiato “status” economico e sociale. Ma due giorni dopo, sempre a Londra, è Gabriel Magee, banchiere della J.P. Morgan che si lancia dal tetto della sede della banca. Il giorno successivo, cioè il 29 gennaio, dall’altro lato dell’Atlantico, Mike Dueker, di 50 anni, economista capo presso la società americana Russell Investments si toglie la vita gettandosi da un ponte, nei pressi di Washington. Segue il suo esempio, cinque giorni dopo, Ryane Crane, di soli 37 anni, direttore esecutivo della JP Morgaan Chase di New York, trovato morto nella sua casa di Stamford, nel Connecticut.La lista, per ora, si conclude con un trader di 33 anni di JP Morgan Charter House Asia (il nome non viene riportato) che si è gettato dal tetto del grattacielo sede della banca ad Hong Kong. Abbiamo ricordato i suicidi di finanzieri rovinati e disperati durante il crollo della Borsa del 1929 in America perché a Londra e negli Stati Uniti alcuni osservano che episodi di questo genere accadono quando qualche grande multinazionale nasconde perdite gigantesche. E ciò fa temere che possa innescarsi, all’improvviso, una nuova crisi finanziaria globale, come quella di cui il fallimento della Lehman Brothers fu il detonatore. Una cosa è certa: la JP Morgan e la Deutsche Bank si contendono il primato mondiale sul terreno di quelle “armi di distruzione di massa” che sono i derivati, con contratti del valore nominale di decine e decine di trilioni di dollari. Ed ambedue hanno sul collo le indagini delle autorità monetarie, con una serie di contestazioni e di denunce. Se l’epidemia dei suicidi continua, è segno che davvero qualcosa di terribile sta bollendo in pentola, ed a sciogliere il mistero saranno i fatti.

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Le domande

di economia

sempre più

frequenti tra

normali

cittadini

Dai finanzieri caduti in rovina nel Ventinove agli illustri banchieri dei nostri giorni; cosa

sta capitando ai vertici della finanza mondiale? Perché i suicidi riguardano dapprima

esponenti della borsa e poi delle banche? Non solo: perché, in Italia, avvertita la crisi

economica in tutta la sua portata, quella innescata dai derivati sui mutui sub-prime, si

sono susseguiti molti suicidi di imprenditori (piccoli e medi), questi ultimi

rappresentanti non più dell’economia monetaria bensì dell’economia reale? Siamo negli

anni in cui le scelte dei governi del Vecchio Continente appaiono ampiamente

influenzate e compromesse dai diktat delle banche della “zona euro”, tanto che il

governo Berlusconi, che fu decretato da una maggioranza plebiscitaria, nel 2011 venne

costretto in fretta e furia a rassegnare le dimissioni e a lasciare il posto al governo

“tecnico-europeo” di Mario Monti, già commissario europeo. La fine drammatica di

finanzieri, imprenditori e banchieri, è forse indice e spia di un cambiamento irreversibile

degli assetti di mercato (quel mercato che rappresenta da sempre un ibrido tra economia

reale e finanza speculativa ma che ora appare a prevalenza di finanza speculativa), tanto

che oggi leggi di mercato dettano l’agenda dei governi nazionali? E che differenze ci

sono tra la Grande Crisi del 29 e quella di oggi? Le questioni

di economia

sul tappeto

della nostra

discussione

“Non mi riconosco più in questo Stato. Questo Paese non è democratico. In Italia ci

sono troppe leggi che frenano lo sviluppo economico. La normativa sulle imprese è

soffocante. La mobilità del lavoro dovrebbe favorire l’occupazione. Lo Stato non fa più

investimenti pubblici. Vogliamo più impresa privata e meno Stato. Lo Stato deve ridurre

la spesa pubblica. Basta tasse. La globalizzazione ha fatto perdere potere allo Stato”.

Ma possiamo dire che l’economia si riduca a queste, seppur lecite, lamentele o

considerazioni allo stato larvale di un basico sapere economico? Per comprendere

qualcosa in più di questo incerto scenario, in rapido e costante e incontrollato

cambiamento, dobbiamo confrontarci con alcuni concetti fondamentali della scienza

economica, quei rudimenta che possono trarre nell’inganno di ridurre la dottrina

economica in spiccioli ma che, tutto sommato, vanno a scandagliare le grandi questioni

economiche che si ripercuotono sugli spiccioli di tutti i cittadini. Eccoli.

- Quale differenza intercorre tra economia reale e finanza speculativa? La finanza

speculativa è solo un derivato del mercato borsistico o un male più antico?

- Che cos’è il debito pubblico? E perché è compromesso dai debiti delle banche?

- Cosa si intende per crescita economica? E perché l’Italia stenta a crescere di nuovo?

E perché l’instabilità politica frena la crescita?

- Perché le banche non aiutano più le imprese? Per questo si sono suicidati molti

imprenditori? E che cosa sono spread e quantitative easing?

- Perché gli italiani sono i più tassati o tartassati d’Europa? E perché in Italia è

patologico il tasso d’evasione fiscale?

- Si andrà più in pensione? Cosa è la riforma Fornero e cosa si intende per sistema

pensionistico contributivo e retributivo?

- Come funzionano i mercati? Cosa sono mercati finanziari e Borsa? Cosa sono i

derivati? E i mutui sub-prime?

- Chi tutela il piccolo risparmiatore?

- Ci conviene restare nella Unione europea?

- L’euro è un danno per l’economia italiana?

- Cosa si intende per reddito di cittadinanza e quota 100?

- Cosa è una legge di bilancio e perché l’Europa può sanzionare uno Stato membro per

la manovra finanziaria varata dal suo parlamento nazionale?

Queste e tante altre tematiche possono aiutarci leggere e a comprendere le notizie

economiche anche dei principali quotidiani nazionali e internazionali.

Alla prossima lezione!

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SECONDA LEZIONE

La global

economy nel

difficile

rapporto tra

Stato ed

economia

Iniziamo il nostro percorso con una lunga virata che prende il volo sulle note di I vow to

thee my Country, e che ci riporterà dentro la maestosa sala dei concerti londinesi, un

palazzo ottocentesco che si ispira architettonicamente agli anfiteatri romani, la Royal

Albert Hall, dove ogni anno si svolge il Festival of Remembrance, la domenica

successiva all’11 novembre, per commemorare sia la fine della Prima Guerra Mondiale

sia i caduti di ambo i conflitti mondiali. Abbiamo ascoltato l’intera nazione britannica

cantare questo celebre inno patriottico, tutta in piedi, dalla Regina Elisabetta fino

all’ultimo dei suoi sudditi, senza distinzione alcuna. Potremmo dire che, a prescindere

dalla situazione economica di ognuno o, meglio, pur divisi dall’economia, gli inglesi si

ritrovano fieri e uniti dentro lo Stato e grazie allo Stato. Proprio così, abbiamo assistito

al miracolo di un popolo che ripone ancora la sua fiducia nello Stato. Quello Stato che,

quantunque scosso da tempeste epocali – come la Brexit –, resta l’unico baluardo a

difesa della libertà e della dignità di ogni cittadino. L’idea di

Stato “oltre la

Manica”

Lo stile inglese è unico per il suo fondersi di liturgia sacra e ritualità civile. Di certo, tale

singolarità non la si può motivare asserendo in modo alquanto approssimativo che nel

Regno Unito il capo dello Stato e il capo della chiesa anglicana sono la stessa persona.

Le ragioni sono molto più complesse e profonde e si possono sintetizzare con qualche

battuta del prezioso testo – che vi consiglio di leggere per comprendere fino in fondo la

cultura inglese che, prima di tutto, è cultura giuridica e politica, più ancora che

economica – del professor Claudio Martinelli, “Diritto e diritti oltre la Manica. Perché

gli inglesi amano tanto il loro sistema giuridico”. Anzitutto, “in Inghilterra, prima, e in

Gran Bretagna, poi, cultura e civilizzazione si fondono in una storia in cui tradizione

e innovazione si completano a vicenda, in cui la libertà si intreccia con l’affermazione

dei diritti, in cui lo spirito di un popolo è tutt’uno con le sue istituzioni, in cui

l’identità della nazione si plasma nella storia dei suoi istituti giuridici e la politica

costituisce lo strumento per tenere insieme una società multiforme e plurale”. Non

solo – e qui prestiamo molta attenzione ai prodromi dell’idea stessa di Stato e al

significato vero e proprio della sovranità nazionale: “Già da prima dell’invasione

normanna, la monarchia medievale inglese poggia e trova legittimità in un continuo

rapporto di scambio tra il re e la classe nobiliare. Ne consegue che le decisioni del re

che possono alterare gli equilibri sanciti tra il monarca e i nobili devono godere del

consenso di questi ultimi per avere valore giuridico. Si afferma pertanto da subito il

concetto che le decisioni politiche, specialmente quelle relative ai tributi, debbano

essere il frutto di un bargaining, di una contrattazione, tra i diversi soggetti dotati di

rilevanti funzioni sociali. Questa visione negoziale della politica e del diritto viene

progressivamente fatta propria dai soggetti sociali più influenti, divenendo patrimonio

comune non solo alla grande nobiltà terriera, tradizionalmente vicina al sovrano, ma

un po’ a tutti i corpi sociali, laici (come le corporazioni) o religiosi (come le

confraternite), rurali o urbanizzati. Non dimentichiamo, inoltre, che il potere del re

trovava un preciso limite nel necessario rispetto anche da parte sua di tutte le norme

di carattere consuetudinario che, fin da prima della formazione del regno, regolavano

la vita civile e la cui sistematizzazione aveva dato vita alla common law. Diritto, limiti

ai poteri, autorevolezza della classe giurisdizionale che deve custodire la legalità: sono

questi i caratteri fondamentali che segneranno lo spartiacque tra l’Isola e il

Continente e che le consentiranno un anticipo nella tempistica sulla strada della

modernità rispetto alle altre esperienze nazionali fortemente legate, invece, al ruolo

«costituente» dell’assolutismo monarchico e del principio di sovranità”. Insomma, se

nel Continente c’era solo una legge morale a limitare il potere del re, in Inghilterra c’è

già una legge giuridica, ovvero la legge in quanto tale, la legge vera e propria.

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L’attuale

“pensiero

debole”

dello Stato

“al di qual

della

Manica”

L’entità denominata Stato oggi è ben presente a tutti, in modo tangibile quale entità

pervasiva e persino opprimente, ma “di cui difficilmente potremmo pensare di fare a

meno” (C. Martinelli, Le radici del costituzionalismo). Nella cultura greca vi è una sua

anticipazione nel concetto di Polis, mentre per i romani si utilizzavano espressioni come

Res Publica, Regnum, Imperium, per identificare una certa organizzazione dei poteri

pubblici. Tuttavia, è solo con la formazione dello Stato moderno che si comincia ad

utilizzare la parola Stato con il termine attuale che configura quella forma

particolarmente accentratrice del potere che fu lo Stato assoluto. È a patire dal

Sedicesimo secolo che “trova attuazione l’idea della formazione di un’entità politico-

giuridica caratterizzata dalla compresenza di almeno tre elementi, indispensabili per

poter dire di essere in presenza di uno Stato: sovranità, popolo, territorio. Lo Stato,

cioè, consiste nell’organizzazione della vita pubblica di un popolo, che occupa un ben

determinato territorio, su cui viene esercitata in via esclusiva una forma di sovranità”

(C. Martinelli, ibidem). Nell’ordinamento medievale, non si può parlare di una vera e

propria forma di Stato perché non sussiste simultaneamente la suddetta terna dei classici

elementi costitutivi dello Stato. Soprattutto, è assente un’entità superiorem non

recognoscens, mentre sono evanescenti i concetti di sovranità, nazione, indirizzo

politico. Inoltre, i beni collettivi non vengono garantiti dalle strutture pubbliche,

piuttosto sono assicurati dalla Chiesa – tant’è che Paolo Grossi si spinge a qualificare

l’ordinamento medievale quale “diritto senza Stato”. L’era dei

mercanti Attorno al Cinquecento, si accentuano quei caratteri di trasformazione socio-economica

che erano già stati enucleati nell’ultima fase del Medioevo. Da un’economia agricola

curtense di sussistenza, dove il feudo doveva sostanzialmente bastare a se stesso, si

passa sempre più ad un’economia di scambio, favorita anche dal progresso delle

tecniche di coltivazione che innescano un incremento della produzione. Simili fattori di

innovazione e un’espansione del manufatto artigianale, che per sua stessa natura si

presta agli scambi, inducono “i sistemi economici ad aprirsi alle prime forme di

capitalismo finanziario. Nascono le banche e i titoli di credito (determinante in tal

senso il ruolo assunto dai banchieri italiani e olandesi del ‘400-‘500), nonché una

nuova classe sociale molto più dinamica ed intraprendente rispetto alla nobiltà o al

clero, cresciuti attorno ai privilegi medievali: la borghesia” (C. Martinelli, ibidem).

Tuttavia, la borghesia conduce i propri traffici commerciali senza farsi carico per via

diretta di responsabilità politiche nella conduzione dello Stato, limitandosi a richiedere

ai poteri pubblici una serie di “servizi” atti a favorire il nuovo modo di impostare le

relazioni economiche. Infatti, la vecchia struttura giuridica basata sulle corporazioni non

riesce a contenere le nuove professioni, le nuove tecniche produttive, i nuovi ceti sociali,

cioè tutti quegli elementi di innovazione cui occorrono nuove regole di funzionamento e,

perciò, una nuova produzione di leggi rinnovata e omogenea su tutto il territorio dello

Stato. Già qui rileva come non si possa comprendere la genesi dello Stato moderno a

prescindere dall’economia. Su questo punto è lungimirante la riflessione che compie

John Kenneth Galbraith, economista di fama mondiale dell’Università di Princeton, nel

suo celebre testo Soldi. Conoscere le logiche del denaro per capire le grandi crisi: “la

storia dei soldi testimonia in modo impressionante le disavventure e la follia che

frequentemente si accompagna alla gestione degli affari monetari. Mi riferisco a uno

dei grandi errori di ogni tempo: il rapporto con il denaro, specialmente con cospicue

quantità di esso, trasmette una pericolosa quanto irresistibile impressione di

intelligenza, almeno fino al giorno della resa dei conti”. E quando arriva la resa dei

conti, allora diventa sempre più chiaro come il mercato non stia in piedi da sé senza un

minimo intervento di quello Stato che ha contribuito a far sorgere, perché il ciclo

economico, tra crescita e inflazione, se ne sta lì ad attestare che non c’è nulla di stabile

nel mercato. Ergo, meglio tenersi stretto lo Stato.

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La nascita

dello Stato

moderno

Tutto il complesso di interessi economici che la nuova classe borghese porta con sé si

salda, poi, con le mire espansionistiche di molti sovrani. Il re desidera ampliare i confini

del territorio su cui esercita il dominio politico, imponendo il diritto dello Stato a nuovi

spazi che rappresentano maggiori opportunità redditizie. Il ché si lega direttamente con

gli interessi degli operatori economici che possono usufruire, finalmente, di nuovi

mercati e talvolta anche di prodotti sconosciuti, come quelli che emersero dalla scoperta

dell’America. Ecco perché si è giunti persino a sostenere che “nasce così come

inevitabile corollario dell’affermazione dell’idea di Stato anche il colonialismo” (C.

Martinelli, ibidem). Tutti i fattori fin qui evidenziati hanno comportato un accentramento

dei poteri nelle mani del sovrano che, progressivamente, si è trovato a capo di una

struttura di organi sempre più forte, stabile, organizzata, in grado di trasmettere i

comandi del re su tutto il territorio di sua competenza, in modo capillare, condizionando

pesantemente la vita dei sudditi che lo abitano. È in questo preciso momento che si

forma in maniera chiara e precisa l’entità politico-giuridica che da oltre 500 anni viene

definita Stato, formata dall’inscindibile compresenza di sovranità, popolo e territorio. Lo

Stato assoluto è la prima vera forma di Stato moderno. Sembra un paradosso ma è in tale

contesto che affonda le sue radici l’idea dello Stato come bene di tutti e come garanzia

del bene collettivo. Seguiamo con attenzione una riflessione che ce ne svela il senso:

“Lo Stato assoluto non è necessariamente uno Stato dispotico e, generalmente, il re

non si comporta come un satrapo capriccioso, forte del fatto di essere privo di

controlli e di limiti. Se il sovrano medievale concepisce il suo comando sul territorio e

sul popolo come una relazione di tipo privatistico-patrimoniale, e quindi il regno come

una proprietà della sua persona, i dettami dello Stato assoluto invece impongono una

scissione tra la Corona, cioè la funzione di comando e di rappresentanza che una

dinastia si tramanda attraverso le norme di diritto pubblico che disciplinano la

successione al trono, e il Re (o la Regina), cioè la persona che di volta in volta è

chiamato a ricoprire quella posizione. Il ché consente di spersonalizzare la Monarchia

conferendole quei crismi di rappresentanza della continuità e dell’unità dello Stato, in

coerenza con i nuovi concetti di Sovranità e Nazione che fanno da substrato ideale a

questo processo di razionalizzazione dell’organizzazione dello Stato. Il sovrano

assoluto quando agisce sa di farlo in nome degli interessi dello Stato e della Nazione

ed elabora un proprio indirizzo politico, certamente non discutibile, ma escogitato per

quelli che egli crede essere gli interessi del Regno. Naturalmente la Storia è piena di

esempi di cattiva gestione di questo potere, ma questo dipende più dalla capacità di

ogni singolo monarca che non dai presupposti ideologici di quella forma di Stato.

Inoltre bisogna notare che il Sovrano, pur legibus solutus, normalmente tende a non

violare gratuitamente alcuni capisaldi normativi, soprattutto quelli derivanti dal diritto

naturale e consuetudinario, avvertiti dalla popolazione come cogenti e imprescindibili

per la vita civile. Comunque, non vi è dubbio che pur con questi limiti, il Monarca

inglobi su di sé le grandi funzioni e i grandi poteri dello Stato. Egli è al tempo stesso il

rappresentante dell’unità nazionale, il legislatore, la guida del governo e anche il

massimo giudice. In questo contesto si inserisce in modo pienamente coerente la

formazione di una stabile burocrazia professionale come strumento di governo nelle

mani del Re” (C. Martinelli, ibidem). Lo Stato

assoluto e

l’economia

Badate: il Regno di Luigi XIV (1661-1715) rappresenta bene l’essenza dell’Assolutismo

anche da un punto di vista economico, tanto sul piano teorico quanto sul versante della

prassi. In quel periodo storico. Infatti, le politiche economiche degli Stati si conformano

ai dettami del mercantilismo, una dottrina economica che misurava la ricchezza di una

nazione sulla base della quantità d’oro e d’argento presente nelle proprie riserve,

ritenendo che le importazioni fossero causa di impoverimento, mentre le esportazioni un

genere di arricchimento nell’attirare dentro il territorio dello Stato quei metalli preziosi.

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Teoria

mercantilista Per il mercantilismo, appunto, la ricchezza rappresentava una quantità definita che si

spostava dagli Stati compratori, che impoverivano, a quelli venditori che si arricchivano.

Questa teoria orientò e condizionò per ben due secoli le scelte politiche dei sovrani,

finché venne superata, sul finire del ‘700, dalle intuizioni liberiste dell’economista e

filosofo scozzese Adam Smith, il cui capolavoro fu il testo datato 1776 e intitolato La

ricchezza delle nazioni. Fu proprio il ministro delle finanze del Re Sole, Jean-Baptiste

Colbert, a impostare una politica mercantilistica attraverso più direttrici: aumento della

produzione industriale perseguita attraverso interventi diretti o indiretti dello Stato atti a

moltiplicare le esportazioni; maggiore impulso ai commerci interni con il superamento

delle corporazioni e l’abolizione dei dazi interni al territorio statale; innalzamento di

barriere protezionistiche per scoraggiare le importazioni (qui potremmo discettare su

quanto siano datati e forse anacronistici i dazi con cui il Presidente Trump tenta di

salvaguardare e rilanciare l’economia americana); inasprimenti fiscali e abolizione di

taluni privilegi di origine medievale; sostegno allo sviluppo coloniale assicurato dalle

ingenti risorse destinate alle forze armate (qui è ben visibile un parallelismo tra moderne

corporation e colonialismo, nel loro comune tentativo di estendere la propria potenza

economica sfruttando materie prime e forza-lavoro di Stati più poveri al solo scopo di

sottopagarle). Questa politica passa alla storia col termine di Colbertismo. Non sfugge a

nessuno come “una politica economica così interventista e dirigista fosse possibile solo

grazie alla concentrazione del potere negli organi del governo nazionale che facevano

capo al monarca e alla forza, giuridica e di fatto, con cui veniva esercitato” (C.

Martinelli, ibidem). Si può, a ragione, concludere che lo Stato moderno sorge dal

superamento della frammentazione del potere dell’età medievale; da un suo

accentramento funzionale ad una guida forte e sicura di un popolo che attraverso la

propria storia, cultura, lingua, religione, costumi si fa nazione, acquisendo quindi

coscienza di sé come comunità di spirito. L’idea di

Stato in

Thomas

Hobbes

Non potendomi dilungare oltre, per capire l’importanza dello Stato e la sua preminenza

rispetto alla sfera economica (che – fate caso – non rappresenta uno dei poteri della

Teoria tripartita di Montesquieu, limitata ai poteri legislativo, esecutivo e giudiziario,

perché l’economia non unisce il popolo in una comunità di spirito ma lo ripartisce in

classi sociali), preferisco rimarcare l’alto valore simbolico che Thomas Hobbes

attribuisce allo Stato nella sua riflessione filosofica. Lo Stato non è nient’altro che il

prodotto finale di un atto di volontà generale di uscita dal minaccioso stato di natura, in

cui vige la volontà del più forte, per approdare a quello della conservazione della vita,

dell’affermazione della socialità, dell’ordine e della pace. L’accordo per uscire dallo

stato di natura ha come scopo di intervenire sulle sue insicurezze, determinate dalla

assenza di un potere unico che faccia da guida; pertanto, è necessario che tutti cedano

una porzione del potere individuale ad un unico soggetto, nelle cui mani concentrare

tutto il potere. È con un “patto di unione” che i singoli si obbligano a obbedire ai

comandi di colui cui è stata trasferita la somma dei poteri individuali. Grazie a questo

patto si entra in uno stato di civilizzazione e da una condizione di guerra e violenza si

approda alla pace e alla sicurezza. Per uscire da una simile condizione, il popolo italiano,

dopo la drammatica esperienza nazifascista, ha consegnato al Parlamento Costituente il

compito di fondare lo Stato su una Carta pattizia, fondata cioè sul medesimo patto di

unione hobbesiano, per aspirare alla pace, alla sicurezza e alla prosperità. Nessuna teoria

economica, tantomeno quella mercantilista, è riuscita a scongiurare il dramma di

conflitti come quelli mondiali. Di contro, le moderne carte costituzionali, che hanno

sancito nel proprio catalogo dei diritti inviolabili anche i diritti socio-economici, hanno

assicurato al nostro Continente ben oltre 70 anni senza più l’ombra di conflitti di siffatte

proporzioni. Non vi sfugga questo passaggio, anche soffermando la vostra riflessione su

un racconto di politica economica mercantilista e dei suoi rilevanti limiti.

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Massimo Savastano

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La

speculazione

finanziaria di

John Law

Contemporaneamente allo sviluppo delle banche, verso il Seicento, i cicli di euforia e di

panico innescati dall’economia si alternarono periodicamente, giusto il tempo necessario

perché la gente dimenticasse l’ultimo disastro e perché i geni finanziari di una

generazione morissero screditati e venissero sostituiti da nuovi operatori ai quali i

creduli potessero affidarsi a occhi chiusi. La storia di John Law dimostra che senza uno

Stato guidato dall’idea del bene collettivo, la speculazione finanziaria, al pari del gioco

d’azzardo, è un male di per sé e può costituire la degenerazione criminogena del futuro

sistema capitalistico. Lo vedremo. Ebbene, Law dimostrò, forse meglio di chiunque

altro, che cosa poteva fare una banca con il denaro, e al denaro.

Le banche John Kenneth Galbraith Soldi. Conoscere le logiche del denaro per capire le grandi crisi (cfr. pp. 28-34)

Law arrivò in Francia nel 1716. Originario della Scozia, era fuggito dall’Inghilterra per un’accusa di omicidio. Dissipata una cospicua eredità, per qualche anno si guadagnò da vivere come giocatore. Già in precedenza, in Scozia, in Olanda e in Italia, Law aveva cercato di vendere la sua grande idea, quella di una banca che rilasciasse banconote, a chi chiedeva prestiti, garantite dalle proprietà terriere nazionali. Law, tuttavia, incontrò molte difficoltà con scozzesi e olandesi troppo privi di immaginazione. La Francia era invece terreno fertile, anche perché qui Law presentò una variante basata su proprietà terriere più lontane. Luigi XIV [il nostro Re Sole - ndr] era morto l’anno precedente l’arrivo di Law. Le condizioni finanziare del regno erano spaventose [a proposito di Colbertismo - ndr]: le spese superavano del doppio le entrate, la tesoreria era cronicamente vuota. Il duca di Saint-Simon giunse persino a proporre la franca soluzione di dichiarare la bancarotta della nazione, cioè di cancellare tutti i debiti e ricominciare da capo [ossia da zero franchi - ndr]. Mentre Luigi XV ha solo sette anni e il reggente in sua vece è il duca Filippo d’Orléans, arriva Law. Si racconta che avesse conosciuto Filippo in una bisca e che questi rimase impressionato dal genio finanziario dello scozzese. Un regio editto del 2 maggio 1716 concesse a Law e a suo fratello il diritto di fondare una banca con un capitale di sei milioni di livres, pari a un quarto di milione di sterline inglesi. La banca era anche autorizzata a emettere banconote. E lo fece in forma di prestiti, e il primo richiedente fu proprio lo Stato ridotto alla bancarotta. Le banconote erano inoltre valute legali per il pagamento delle tasse. All’inizio esse erano accettabili non solo per le tasse ma per ogni altro uso, giacché Law aveva promesso conversioni in monete con lo stesso peso in metallo alla data della loro emissione, mentre il re di Francia aveva continuato a ridurre il peso della moneta francese, speculando sulla riduzione del metallo impiegato. Di conseguenza, sembrò che Law offrisse una garanzia contro le malversazioni regie. Ecco perché all’inizio le banconote di Law godettero di uno straordinario prestigio. Di certo, l’iniziativa di Law servì a migliorare e a salvare la situazione economica del governo. I prestiti concessi a imprenditori privati fecero aumentare i prezzi. Law aprì diverse filiali della sua banca nelle maggiori città di tutto il regno. Quindi, la sua banca privata divenne una compagnia privilegiata, la Banque Royale. Se Law si fosse fermato qui, verrebbe ricordato per il suo modesto contributo alla storia della banca. Il capitale in contante sottoscritto dagli azionisti sarebbe stato sufficiente a soddisfare tutti i detentori di banconote che avessero cercato di convertirle. Ma forse nessun uomo, dopo una partenza così promettente, sarebbe stato capace di fermarsi. È una sorta di dipendenza come quella dal gioco d’azzardo. Dato i guadagni, fu decisa una nuova emissione. Se una cosa ha funzionato bene, moltiplicandola dovrebbe funzionare meglio. Law escogitò anche il modo di ricostruire le riserve con le quali la Banque Royale garantiva la sempre crescente quantità di banconote emesse e non effettivamente garantite.

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Rispolverò la sua idea originaria di una banca imperniata sulla proprietà terriera e fondò la Compagnia del Mississippi con l’intento di sfruttare e portare in Francia i ricchissimi depositi di oro vaneggiati nel sottosuolo della Louisiana, sperando di incrementare i profitti anche del commercio (oltre ad offrire una solida garanzia per le banconote emesse). La Compagnia diverrà in seguito la Compagnia delle Indie, che otterrà l’esclusiva dei commerci con India, Cina e Mari del Sud. Quali ulteriori fonti di guadagno, le furono concessi altresì il monopolio dei tabacchi, il diritto di coniare monete e l’appalto delle tasse. La fase successiva fu l’immissione sul mercato di azioni di quella che era divenuta, ormai, la prima forma di conglomerato finanziario-commerciale (si potrebbe obiettare, la prima forma di economia inquinata dalla speculazione finanziaria). La folla di coloro che cercarono di comprare le azioni era fittissima, il baccano della vendita assordante. Le operazioni si svolsero nella vecchia borsa di Rue Quincampoix. Uomini che all’inizio dell’anno avevano investito poche migliaia di lire, si ritrovarono milionari nel giro di pochi mesi, se non settimane (da qui il soprannome millionaires). Durante l’anno, una quantità sempre maggiore di titoli del conglomerato venne offerta in pasto agli investitori. Intanto, però, la Banque Royale continuò ad aumentare i suoi prestiti, e di conseguenza le banconote con cui venivano ritirati. Ma la vendita delle azioni non originò il cospicuo capitale che sarebbe occorso per lo sfruttamento della Louisiana. Per questo, in seguito a un vantaggioso accordo col reggente della banca, il ricavato delle vendite dei titoli del Mississippi non finì nel Mississippi ma convertito in prestiti per coprire le spese del governo francese. Del progetto di Law di estrarre l’oro della Louisiana sarebbero rimasti solo gli interessi sul prestito. In sintesi, Law prestava le banconote della banca al governo francese e a privati cittadini, per pagare i loro debiti. Le stesse banconote venivano, a loro volta, usate dai creditori che le incassavano per acquistare azioni della Compagnia del Mississippi, il cui ricavato veniva dato ancora al governo per pagare le spese e rimborsare i creditori, che continuavano a spendere le banconote per comprare altre azioni, il cui ricavato serviva a far fronte ad altre spese governative. E così all’infinito, allargando ogni volta il ciclo che era ormai degenerato in un incontrollato circolo vizioso. Nessuno si accorse che il governo, pieno di debiti, e non la Louisiana, era il vero oggetto dell’investimento. Law era diventato l’uomo più stimato della Francia. Convinto, come accade a ogni genio finanziario, della infallibilità delle proprie idee, con i suoi prestiti e le relative banconote cominciò a finanziare sistematicamente industrie e opere pubbliche. Il problema erano, ovviamente, le banconote. All’inizio del 1720 il principe di Conti, a quanto pare offeso per non essere riuscito a comprare azioni al prezzo che lui riteneva equo, mandò alla Banca di Law un fascio di banconote perché venissero convertite in moneta solida. Si trattava di una somma davvero ingente e ci vollero tre carri per portare via l’oro e l’argento. Law impose al reggente della sua banca di farsi restituire buona parte del metallo che il principe aveva ricevuto in cambio. Ma molti altri, mossi da un profondo istinto, s’affrettarono a convertire i biglietti di Law e a trasferire il metallo in Inghilterra e in Olanda. Venuta meno la fiducia degli investitori, Law fece sfilare per Parigi dei mendicanti con utensili e pale, illudendo tutti che si stavano recando in Louisiana a estrarre l’oro. Ma giunti al porto, la maggior parte di loro scappò via e non stette al gioco di fingere di imbarcarsi. La notizia che Parigi era affollata di mendicanti anziché di oro sconvolse gli investitori. Fu la fine del boom. Alla sede parigina della Banca si formò una coda interminabile di investitori che volevano la conversione delle banconote in contante. Law non era più il genio finanziario e dovette scappare a Venezia dove visse il suo ultimo decennio di vita in assoluta povertà. Per il duca di Saint-Simon la banca di Law sarebbe stata una buona idea ma non in Francia, perché i francesi mancavano della necessaria moderazione.

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La crisi di

un’economia

senza regole e

senza Stato

Voi vi chiederete perché sto miscelando l’economia con il diritto. In realtà, per

comprendere le due crisi economiche e i concetti di base dell’economia, occorre rifarsi

alla tecnica della recirculatio, una ripesa retroattiva e correlativa degli argomenti. Se

l’economia pretende di fare a meno di quello Stato, di quella sovranità delegata per

rappresentanza dal popolo, con cui è stato possibile passare dallo stato di caos in cui

vige la legge del più forte allo stato di civilizzazione, la deriva che l’attende è ricreare un

far-west economico in cui la legge è quella di chi ha più potere in termini monetari,

ovvero del più ricco. Non può bastare la spiegazione economica della bancarotta degli

affari di Law per cui la condizione dello stato di salute di una banca è che “depositanti o

detentori di banconote si presentassero relativamente poco numerosi a chiedere il

solido contante. Ora, quando si spargeva la voce che una banca non era in grado di

pagare, accorrevano tutti, e spesso con molta urgenza” (Galbraith, ibidem), cosicché

soltanto i primi arrivati si vedevano convertire le banconote. Non è un caso che la

disperazione di chi si vedeva delle banconote prive di copertura sia la stessa dei

correntisti americani, inglesi e greci, nei primi anni della crisi economica internazionale

attuale. Un’economia solida non può reggersi su un’altrettanto solida illusione, o

diverremmo tutti schiavi di un gioco di suggestione collettiva. Nei suoi studi di neuro-

economia, il Premio Nobel per l’Economia Vernon L. Smith concluse che le persone in

certi contesti compiono scelte che contraddicono la teoria formale della razionalità,

messa a punto dagli studiosi, ma “anziché giungere alla conclusione di definirli

irrazionali, qualcuno si chieda se non sia piuttosto doveroso riesaminare ipotesi

accettate e indagare su quali nuovi concetti e disegni sperimentali possano aiutarci a

migliorare la comprensione del comportamento”. Orbene, in assenza di condizioni per

il rispetto delle regole di scambio da parte dell’individuo stesso o della comunità, si

tende a produrre conseguenze indesiderate con il rischio di compromettere i mercati e di

farli fallire. In tal modo, per Smith, pur rimanendo nella sfera della razionalità, “il gioco

dello scambio cede il passo al gioco del furto” (V. L. Smith, La razionalità

nell’economia. Fra teoria e analisi sperimentale). Ancora, non sarebbe più corretto

discettare di crimini dei colletti bianchi che hanno ridotto il mercato a una bisca

clandestina, anziché farlo dipendere dall’andamento scostante del grado di fiducia di

creditori e correntisti di una banca? Faccio riferimento ad alcuni autori per comprendere

meglio questo delicato passaggio. Joan Robinson contribuisce a fornire una definizione

per qualificare in senso tecnico le distorsioni economiche di mercato e cioè, alla lettera,

nel contesto mondiale dove “in alcune industrie l’accesso è più agevole che in altre,

esiste una distorsione sistematica dello schema di investimento, che è qualcosa che si

aggiunge all’instabilità generale che la politica dell’occupazione ha il compito di

controllare, agli errori di calcolo che possono capitare in qualunque sistema, agli

errori di direzione degli investimenti dovuti all’influenza della speculazione. È ad essa

che Keynes si riferiva quando disse: «Quando lo sviluppo di capitale di un paese

diventa un sottoprodotto delle attività di un casino da giuoco, è probabile che vi sia

qualcosa che non va bene»” (J. Robinson, Ideologia e scienza economica). A sua volta,

parlando dell’avidità dei grandi manifattori tessili, persino il maestro della scienza

economica, Adam Smith, è intervenuto per bordare le distorsioni del mercato nei limiti

di quel meccanismo in cui “non è con la vendita del loro lavoro, ma con quella del

lavoro finito dei tessitori, che i nostri grandi manifattori tessili fanno profitti. Come è

loro interesse vendere i prodotti finiti al massimo prezzo possibile, così è loro interesse

acquistare i materiali al minor prezzo possibile. Estorcendo dal legislatore premi

all’esportazione delle loro tele di lino ed elevati dazi sull’importazione di tutte le tele

estere. Incoraggiando l’importazione dei filati di lino esteri, e perciò mettendola in

concorrenza con quella prodotta dai nostri lavoratori, essi cercano di comprare il

lavoro dei poveri filatori al più basso prezzo possibile.

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È loro preoccupazione tenere bassi i salari dei loro tessitori come i guadagni dei

poveri filatori, e non è affatto a favore dei lavoratori che essi cercano di elevare il

prezzo del prodotto finito o di abbassare quello dei materiali grezzi. È l’industria

svolta a favore dei ricchi e dei potenti, che viene principalmente incoraggiata dal

nostro sistema mercantile” (A. Smith, La ricchezza delle nazioni). Per esser precisi, la

globalizzazione del capitalismo avrebbe mantenuto la stessa logica, semmai invertendo

il procedimento del sistema mercantile, vale a dire abbattendo le frontiere per vendere

ovunque senza dazi ed esportando le aziende nei paesi dove si possa ottenere il prodotto

finito con una manodopera al minor costo possibile. L’implicazione, però, è sempre la

medesima e cioè che si finisce per avere di mira tutto, eccetto l’interesse delle nazioni.

Ecco, quindi, qual è stato l’esito paradossale ed economicamente irrazionale di

quell’economia che vuole fare a meno di regole, di quel fittizio libero mercato che non

vuole interferenze di alcun tipo da parte dello Stato, di quella finanza che si dimostra

allergica e quasi incompatibile ai principi di diritto e legalità . La profezia di

Saramago Il nichilismo della finanza speculativa che ha compromesso la tenuta economica, persino

in quei Paesi considerati virtuosi, trova la sua fantomatica anticipazione letteraria nel

romanzo Cecità, del Nobel portoghese José Saramago. Pubblicato a Lisbona a metà anni

Novanta, all’indomani della caduta del muro di Berlino, si tratta di un’opera che

permette di esaminare ancor più criticamente anomalie e contraddizioni di economia e

mercato, il cui indice più visibile sono le ambiguità e le contraddizioni della finanza

globalizzata rese sempre più evidenti dalla crisi economica internazionale del 2007. In

un tempo e in un luogo non precisati, all’improvviso l’intera popolazione perde la vista

per una inspiegabile epidemia, non però nel senso di un blackout bensì di una sorta di

caos visivo in cui si vede indistintamente tutto bianco, per effetto di un ripiegamento

individualistico sui propri bisogni che non lascia intercettare quelli dei consociati. Le

reazioni psicologiche sono devastanti, l’esplosione di terrore e violenza è inarrestabile,

gli effetti della patologia collettiva sulla convivenza sociale sono drammatici. E il

racconto immaginario sembra assumere sempre più i tratti della grande metafora di

un’umanità bestiale e feroce, incapace di vedere e di distinguere razionalmente le cose e

in grado di produrre solo abbruttimento, crudeltà e degradazione. Lo stato

economico

del

“Leviatano”

Non ci sono più regole per nessuno, ognuno segue i propri istinti e i propri bisogni, ciò

che vale sono l’egoismo, il potere e la sopraffazione a danno dei più deboli, la guerra di

tutti contro tutti, quasi ci si fosse dimenticati di secoli di battaglie per la democrazia. La

città popolata da abitanti ciechi regredisce allo stato del Leviatano hobessiano, che

assume i contorni di un’economia aggressiva per infrangere ogni spazio di civiltà. E che

la denuncia del Nobel portoghese ricada sul buio della ragione – o, meglio, il sonno

della ragione, se ci si vuole riferire al titolo del dipinto del pittore spagnolo Francisco

Gova (Il sonno della ragione genera mostri) – in cui ristagna la storia contemporanea, lo

certifica la presa di coscienza – espressa con estrema lucidità da uno dei personaggi del

romanzo che hanno perso la vista – del dissesto dell’uomo per cui “ognuno si comporta

secondo la propria morale, io la penso così e non intendo cambiare idea” (J.

Saramago, Cecità). Nell’indagare le cause della degenerazione di questo villaggio – che

sembra non avere coordinate spazio-temporali, forse per rispecchiarsi in qualsiasi

coordinata dello spazio e del tempo –, Saramago offre una chiave di lettura con cui

dissotterrare la radice di quel concetto debole di legalità che ha prevalso, ovvero

“secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che non vedono,

ciechi che, pur vedendo, non vedono” (ibidem). In tal modo, lo scrittore, ha

diagnosticato il virus della storia contemporanea non quale causa di un malessere sociale

ma quale sintomatologia di un’alterazione ben più grave, ovvero il virus di un’economia

malata a livello globale, dentro quella che il filosofo Habermas chiama senza remore

“costellazione postnazionale”.

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Il racconto di

Cecità C’è un passaggio di Cecità che eleva il romanzo a profezia dell’attuale crisi (in un

momento storico in cui era impensabile il default o fallimento di una qualunque banca),

quando racconta il panico tra migliaia di risparmiatori, confluiti in interminabili code

dinnanzi agli istituti di credito. Ed è segnatamente quanto è accaduto in questi anni,

specie in Grecia, alla stregua dei creditori della kafkiana banca di Law. Anni durante i

quali “in principio fu un pandemonio, le persone per paura di ritrovarsi cieche e

sfornite, si precipitarono nelle banche per ritirare i propri soldi, penavano di doversi

premunire per il futuro, ed è comprensibile, se uno sa di non poter lavorare più,

l’unico rimedio, finché durano, è quello di far ricorso alle economie fatte in periodi di

prosperità e previsioni a lungo termine, supponendo che si sia avuta effettivamente la

prudenza di andare accumulando i risparmi granello su granello, il risultato della

fulminea corsa fu che in ventiquattr’ore erano fallite alcune delle principali banche.

Ma il peggio venne dopo, quando le banche si videro assalite da orde infuriate di

ciechi e non, ma tutti disperati. Tutto il sistema bancario crollò in un soffio, come un

castello di carte, e non perché il possesso di denaro avesse cessato di essere

apprezzato, prova ne sia che chi ce l’ha non vuole mollarlo” (ibidem). Saramago, nel

percepire il senso di una storia che si è spinta sull’orlo del baratro, ha offerto in tempi

non sospetti la risposta più calzante persino all’obiezione mossa dalla Regina

d’Inghilterra agli economisti della London School of Economics a riguardo della bolla

speculativa dei subprime: “Se questi fenomeni erano così grandi ed evidenti, come è

stato possibile che nessuno se ne sia accorto?”. Perché il sistema bancario si è dissolto

come un castello di carta o una bolla di sapone? Cosa significa “bolla speculativa”? Per

la precisione, la spirale micidiale ideata da Law o, per essere più espliciti, una colossale

bugia finanziaria di cui si è enunciata la teoria senza offrirne la dimostrazione (nasce

dalle bugie del Patron Tanzi ai giornalisti, durante le conferenze stampa sullo stato di

solidità della sua società, anche la bancarotta della multinazionale Parmalat). Ebbene,

conclude Saramago, se le cose sono andate così è perché “tutti i racconti sono come

quelli della creazione dell’universo, nessuno c’era, nessuno vi ha assistito, ma tutti

sanno cosa è accaduto”. O meglio, questo capita quando ci si ostina ancora a credere

alla mano invisibile del mercato, con cui a risolvere tutti i suoi fallimenti interverrebbe

spontaneamente lo stesso mercato, un ferito che si medica da sé. Charlotte

Link: la

global

economy

come

scoperta

dell’acqua

calda

C’è un’altra scrittrice che ci aiuta a leggere trasversalmente gli insuccessi economici

degli affari di Law e delle due grandi crisi, del Ventinove e di oggi: le conseguenze

attuali dell’economia globalizzata a noi contemporanea sembrano identiche a quelle

descritte, verosimilmente, in un suo romanzo storico che offre un breve resoconto della

situazione finanziaria tedesca del 1923, in cui si respira già un clima prossimo al crollo

di Wall Street: “L’inflazione si era annunciata già da molto tempo, ma quasi nessuno

aveva immaginato che fosse tanto repentina e soprattutto senza fondo. La gente

spendeva sempre più soldi per sempre meno roba. Chi possedeva beni di valore era in

grado, con un po’ di abilità, di costruirsi una fortuna, mentre chi riceveva un salario

rimaneva irrimediabilmente indietro. La classe media boccheggiava. Le piccole

imprese finivano in bancarotta, mentre le grandi si allargavano ancora di più. Chi

tornava a casa la sera con lo stipendio poteva essere sicuro di non acquistarci

praticamente niente già il mattino successivo” (C. Link, Venti di tempesta). Poi, nel

delineare questo scenario disincantato e drammatico, la Link si fa sfuggire un pungente

commento, che si attaglia perfettamente all’attuale situazione economica: “Ci aspettano

tempi molto duri. Interi settori economici sono andati distrutti, migliaia di imprese

hanno fatto bancarotta, la disoccupazione aumenterà, forse tornerà l’inflazione,

fame, mancanza di alloggi… tutte quelle belle tragedie che logorano sempre più un

popolo. Lo indeboliscono e lo espongono alle aggressioni… Ogni colpo subito dalla

repubblica è un punto in più per i nazisti. Queste persone mi fanno paura. Non posso

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liquidarli come pazzi innocui. Sanno fin troppo bene dove andare a colpire.

Conoscono i punti deboli della gente e li utilizzano per i loro scopi”. Cosa ci vuole dire

la celebre scrittrice tedesca? Quale lezione di storia ci sta impartendo? Le sua pagine

sono il triste presagio di come globalizzazione e multinazionali siano il prodotto di un

sistema economico escogitato ben prima di fine Millennio. O meglio, globalizzazione e

multinazionali rappresentano l’«eterno rischio», ossia il «rischio ciclico» – attenendoci

alla visione storica di Erodoto – di fare arricchire un esiguo numero di operatori

economici che affollano il mercato e che, pur agendo apparentemente in nome del

principio di libero mercato, in realtà fanno affari in quell’area grigia che è espressione

del senso più deteriore del libero mercato, ovvero di quella sorta di «terra di nessuno» in

cui l’assenza di regole certe consente di agire da affaristi senza scrupoli, lucrando ai

danni di molti, specie dei più deboli, le aziende o i privati cittadini che rappresentano la

controparte di holding company legali e corporation criminali. La global economy,

quindi, va posta sotto accusa allorché degeneri e si deteriori nella logica del lassez-faire

di cui si avvale e si avvantaggia la finanza speculativa mentre sfrutta e vanifica i risultati

conseguiti dall’economia reale che, attraverso la produzione di beni e servizi, si è

accollata interamente i rischi connessi al sistema capitalistico. Non ci sono

regole di

mercato?

In seguito, nello stesso verso dell’opera letteraria di Saramago si è indirizzata anche la

riflessione condotta in ambito economico. Basti pensare alla visione totalmente

pessimistica di Serge Latouche, che traduce la metafora di Cecità nel degradare delle

rigorose regole del sistema economico. In particolare, gli oggetti del consumo di massa

non sarebbero più lo strumento e l’obiettivo di un’arte di vivere, quanto piuttosto il

combustibile di una pulsione ossessiva di cui si diviene tossicodipendenti. La razionalità

del’ordine economico, allora, viene stravolta dall’incognita della propria irrazionalità,

quella che per Latouche si potrebbe – perlomeno – contenere grazie a economie che

perseguano obiettivi estranei al calcolo economico, distinguendo i fini dai mezzi,

supposto che “quando l’economia invade tutte le altre sfere, niente più può dare senso

al calcolo. L’unico senso è fare sempre più denaro, o fare denaro col denaro, senza

limiti. È quello che viene proposto a tutti e che pochi possono realizzare. Questo

totalitarismo dell’economia è destinato a portare, nel tempo, alla morte dell’economia,

e forse dell’umanità stessa. L’assurdità di una vita di cui l’economia è insieme il

mezzo e il fine si smaschera. La monetarizzazione di tutto e di ogni cosa alla quale

oggi assistiamo provoca il collasso delle significazioni” (S. Latouche, L’invenzione

dell’economia). Ed è singolare anche la risultanza della dissertazione di Paul Bairoch, al

termine della sua accurata analisi della storia economica, che scopre attraversata in

filigrana dalla «cecità» di un’economia privata di ogni legge razionale: vale a dire “se

dovessi riassumere l’essenza di ciò che la storia economica può dare alla scienza

economica, direi che non vi è alcuna «legge» o regola dell’economia che sia valida

per ogni periodo storico o struttura economica” (Bairoch P., Economia e storia

mondiale. I miti e i paradossi delle leggi dell’economia in un saggio polemico e

provocatorio). E piuttosto contrariato, Bairoch assesta un urto violento e, insieme quello

decisivo, per l’intero sistema economico: “in larghissima misura, la storia moderna è

caratterizzata più che da continuità economiche da discontinuità. Ciò significa che

non vi sono leggi assolute in economia?” (ibidem). La

Costituzione

per salvare il

mercato

La risposta a questo annoso dilemma, che costituisce anche miglior soluzione specie per

le ripetute crisi in cui va ad arenarsi il mercato stesso, è rappresentata dalle moderne

carte costituzionali liberali, e con orgoglio sottolineiamo la Costituzione italiana, un

capolavoro di ingegneria giuridica di giusnaturalismo e giuspositivismo, giacché

“nell’epoca moderna, l’idea di Costituzione è intimamente legata alla necessità di

avere uno strumento giuridico parlamentare autorevole, in grado di limitare il potere

e garantire le libertà.

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Le Costituzioni rispecchiano quell’architettura dello Stato che si fonda sull’idea che il

potere sia intrinsecamente pericoloso per gli individui, e quindi sia indispensabile

proteggere le loro libertà con un’organizzazione dello Stato che ripudi

l’accentramento di poteri nelle mani di un unico soggetto e si fondi sulla divisione del

potere in diverse funzioni dello Stato appannaggio di diversi organi. Questa idea

rivoluzionaria si è andata affermando nei secoli con la fissazione in Costituzione di

limiti, modalità e condizioni di esercizio del potere politico nel rispetto dei diritti della

persona umana, nonché nel perseguimento di valori superiori rispetto alla

contingenza di chi, di volta in volta, detiene il potere. Limiti, modalità e valori

potranno variare in relazione al periodo storico di riferimento o alla nazione di cui si

sta specificamente trattando. Ergo, esiste un costituzionalismo liberale, uno

rivoluzionario, uno democratico, così come ci saranno Costituzioni concesse dal

sovrano (ottriate), oppure di origine pattizia e, quindi, redatte da un’Assemblea

costituente. E ancora, ci saranno costituzioni brevi e lunghe, flessibili e rigide, che

stabiliscono per il proprio Stato forme di governo diverse. Elemento distintivo di tutte

queste esperienze è la volontà di affermazione della Libertà attraverso la limitazione

del Potere, come sancisce l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino, del 1789: un popolo che non riconosce i diritti dell’uomo e non attua la

divisione dei poteri, non ha la Costituzione” (C. Martinelli, ibidem). Nessuna

democrazia

né libertà di

mercato

senza lo Stato

di diritto

Questa lunga premessa induce a dichiarare con fermezza che oggi è in corso lo scontro

decisivo per la nostra democrazia, nonché per la stessa legalità. È lo scontro tra

l'egemonia di mercato e lo Stato di diritto. In un Report divulgato da JP Morgan, nel

2013, vengono additate le costituzioni dei Paesi europei periferici, tra cui l’Italia, come

ostacolo reale alla possibilità di crescita economica specie perché, vi si legge, adottate

“in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che

appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”. Ma inadatte

a che? A supportare questo fallimentare sistema economico depredato della propria

utilità sociale o a promuovere la riedizione di uno sviluppo fittizio in quanto frodato

dell’uomo stesso, se non la riproduzione di una cultura finanziaria senza alcuna

interferenza da parte del potere politico, che è poi il potere di legiferare in nome e per

conto dell’uomo che rappresenta? No, non è così giacché il manifesto dei diritti

inviolabili dell’uomo, che costituisce il preambolo di ogni Carta costituzionale, presenta

tutto il suo risvolto d’attualità proprio perché blindato a prova di qualsiasi dittatura. Non

si può avere altra certezza: la Costituzione italiana è l’ultimo baluardo eretto in pianta

stabile contro qualsiasi dittatura, non solo fascista, ma anche economica e mafiosa. Non

c’è alternativa: se cediamo a una società di mercato, rinunciamo allo Stato di diritto,

perché i valori di mercato comprimerebbero la legge stessa, fino a scalzarla. Il sistema

economico

costituzionale

Durante gli anni della crisi economica e della globalizzazione si è commesso il grave

errore di mettere da parte la Costituzione, dimenticando che essa rappresenta il miglior

antidoto contro i fallimenti del mercato. Gli articoli 35-47 Cost., inseriti nel catalogo dei

diritti inviolabili dell’uomo e nella parte dei Rapporti economici, sono espressione di un

sistema economico misto nel quale, cioè, viene riconosciuta e affermata l’iniziativa

privata consentendo però allo Stato di interagire col mercato, direttamente (ad es. con le

imprese pubbliche o le compartecipazioni) o con interventi legislativi per indirizzare le

iniziative a un preciso obiettivo – su cui ci soffermeremo analizzando la teoria

economica di Keynes –, quello che l’art. 42 Cost. definisce l’interesse generale

(esplicitato anche dagli artt. 3, 41, 47): l’iniziativa economica privata è libera ma non

può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. È un sistema che non ammette la

ricchezza in forma individualistica o quale accumulazione capitalistica smodata con cui

legittimare ogni sorta di sfruttamento delle risorse naturali e umane. Tecnicamente,

anche per la teoria keynesiana, l’utilità sociale salverà il sistema economico da se stesso.

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Massimo Savastano

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Il fine

costituzionale

dell’economia

La Carta costituzionale è l’opera d’arte composto da quello che venne definito “arco

costituzionale”, l’accordo raggiunto da tutti i partiti con diverse ideologie: il PCI e il PSI

che si fecero garanti degli interessi degli operai e delle classi meno abbienti, la DC che

si ispirava al principio di solidarietà pur nel rispetto della proprietà privata, la destra che

insisteva sulla libertà economica degli imprenditori e degli operatori economici. La

Carta ha permesso di sancire per sempre un principio insuperabile, e non una ideologia

contingente, imprimendo un preciso obiettivo al sistema economico: la funzione sociale

dell’utilizzo e della disposizione dei beni che, quantunque debbano recare vantaggio ai

singoli, non possono mai rivelarsi pregiudizievoli per gli interessi della collettività. Sì i principi,

no le

ideologie

La Costituzione italiana ha guardato ai principi cui si ispiravano le diverse ideologie. È

stata attenta che i più deboli divenissero protagonisti della vita pubblica ma senza

appropriarsi del sistema economico e, cioè, senza statalizzarlo, nel rispetto della lezione

di Arthur Koestler che, dopo aver svolto in Unione Sovietica compiti di rilievo per

l’Internazionale comunista, nel suo libro Buio a mezzogiorno denunciò la divaricazione

tra l’aspirazione positiva al grande progetto, alla realizzazione dell’utopia, e le

conseguenze tragiche che possono derivare da un uso improprio del potere: “Il corpo

caldo, vivente del Partito gli sembrava coperto di piaghe, di piaghe dolenti, di stigmate

sanguinose. Quando e dove nella Storia c’erano mai stati santi così delusivi? Quando

mai una buona causa era stata peggio rappresentata? Se il Partito incarnava la

volontà della Storia, allora la Storia stessa era delusiva. Bisogna trovare la causa

della deficienza del Partito. Tutti i nostri principi erano giusti, ma i risultati sono

sbagliati. Questo è un secolo malato. Abbiamo diagnosticato la malattia e le sue cause

con esattezza microscopica, ma ogni qualvolta abbiamo applicato il bisturi nuovi mali

si sono sviluppati. La nostra volontà era pura e ferma, avremmo dovuto essere amati

dal popolo. Ma il popolo ci odia. Perché siamo tanto odiati? Abbiamo portato al

popolo la verità e sulle nostre labbra essa suona come una bugia. Abbiamo portato la

libertà ed essa appare nelle nostre mani come una sferza. Abbiamo portato la vera

vita, e dove risuona la nostra voce le piante si avvizziscono e s’ode un fruscio di foglie

secche. Abbiamo portato la promessa del futuro, ma la nostra lingua balbettava e

ringhiava”. La Carta apprezzò l’iniziativa economica dei privati ma non la lasciò orfana

dello Stato ampliandone l’orizzonte all’interesse pubblico. La Carta tenne conto anche

dell’interpretazione del principio di equità e della redistribuzione delle ricchezze, che ne

diede la tradizione cristiana ispirandosi, tra l’altro, alla teologia di un padre della chiesa,

Gregorio di Nissa, celebre come “il Nisseno”: “Siamo stati educati a cercare ciò che

basta a conservare la nostra vita fisica, dicendo al Signore: Dacci il pane, non il lusso,

né la ricchezza. Se Dio è la giustizia, non riceve il pane da Dio chi trae il cibo da una

ricchezza avidamente accumulata; tu sei signore dei tuoi voti se la tua agiatezza non

nasce dalle ricchezze altrui, se i tuoi guadagni non scaturiscono dalle lacrime altrui,

se nessuno ha avuto fame perché tu fossi sazio, se nessuno ha dovuto gemere e

sospirare perché tu avessi più del necessario”. Ma la Carta ha blindato la democrazia in

modo che mai nessuna fede potesse ergersi a teocrazia. La felicità di

tutti La Carta ha compiuto il miracolo di laicizzare i principi aspirando alla felicità di tutti i

cittadini e non solo di coloro che aderiscono a una determinata ideologia. L’interesse

generale è il sogno della Carta, fare felici e più ricchi tutti sia materialmente che

culturalmente. La felicità condivisa genera ricchezza, quella individualistica arricchisce

pochissimi e impoverisce tutti. È quanto ha affermato persino Eric Maskin, Premio

Nobel per l’economia nel 2007: “il meccanismo fondamentale per la pace per gli Stati,

per le aziende? Trasformare milioni di poveri in consumatori”. Un capitalismo etico è

possibile? Per Maskin “non solo è possibile, è essenziale. Non parlo solo di etica, ma di

necessità economiche e politiche. Ignorare milioni di persone che soffrono può dare

vita solo a tensioni sociali devastanti. Più sensato trasformarli in consumatori”.

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Il vero

concetto di

imprenditore

e del sistema

economico

Il percorso di laicizzazione dei principi economici, come quelli di ispirazione cristiana, è

sintetizzato nell’opera più celebre di Victor Hugo, i Miserabili. Vi si narra che, verso la

fine del 1815, un uomo, uno sconosciuto, era venuto a stabilirsi in città. Il passaggio

dalla morale cristiana al diritto è simboleggiata dal fatto che in passato quell’uomo fu

arrestato per furto, perché povero e doveva comprare le medicine alla madre molto

malata, ma uscito di prigione un vescovo lo ospitò e lui scappò in piena notte con una

parte di argenteria del prelato; arrestato e condotto dalla gendarmeria al santo vescovo,

questi disse che gliela aveva regalata e che, anzi, doveva portarsi via anche quella che

aveva lasciato lì, mentre all’orecchio del suo ospite sussurrò che con quella preziosa

refurtiva stava comprando la sua anima affinché si servisse di quel patrimonio

unicamente per fare del bene. E fu così, perché quel povero disgraziato spese nel

mercato industriale i soldi ricavati per realizzare l’idea di sostituire la gomma lacca alla

resina. Quel minuscolo mutamento fu una vera rivoluzione che ridusse vertiginosamente

il prezzo della materia prima e aumentò il prezzo della manodopera, con beneficio per

l’intera regione. Fu un’idea geniale, dotata di utilità sociale e realizzata da un ladro che

aveva raccolto l’invito e la scommessa di cambiare e trasformare la sua vita. E la

conclusione di Victor Hugo giunge è che in meno di tre anni l’autore di quel

procedimento si era arricchito, ciò è bene, e aveva arricchito tutto intorno a sé, ciò

è meglio. Ecco cosa manca all’accezione economica di imprenditore: chi fa impresa

non lo fa solo per ottenere profitto ma anche per arrecare benessere alla

collettività, chi fa affari lo fa anche in nome dell’interesse generale. La nostra

parte Rientriamo nella Royal Albert Hall. Chi ama la propria patria, ama anche la patria degli

altri. Senza lo Stato c’è solo un villaggio globale in cui vige la dura legge di

un’economia priva di ogni regola, un’economia cieca. Persino dal mondo dell’economia

si è alzata una voce autorevole per sostenere che l’economia non può fare a meno dello

Stato e dell’interesse generale, quella del Governatore della Banca d’Italia Ignazio

Visco, secondo cui – cito – mettere in comune una parte della sovranità nazionale

all’interno dell’Unione Europea, è l’unica maniera per preservarla. Va da sé, allora,

che per la stessa economia è necessario difendere sovranità nazionale e Stato nel più

ampio “villaggio globale”. A un’economia che non ci considera più cittadini ma sudditi,

a questo sistema di moderna schiavitù, vogliamo resistere. Vogliamo fare la nostra parte,

pagare anche noi il prezzo, versare le imposte giuste perché oggi il pericolo non è più

quello di uno Stato occupato da stranieri, quanto piuttosto dell’alienazione prodotta da

un sistema speculativo finanziario che ci fa sentire stranieri dentro qualunque Stato, ci fa

avvertire che “mi avevano succhiato fuori tutto perché facevo parte di un sistema

brutale che usa le parole solo per vendere. E quel sistema… Non agisce da solo, lo

capite? Fa parte di una società che è… tutta quanta brutale. Comincia tutto

dall’Occupazione, dal fatto che dominiamo un altro popolo, e prosegue… nelle cose

più piccole, per esempio come guidiamo. O come ci comportiamo quando siamo in

coda” (Eshkol Nevo, La simmetria dei desideri). Fieri di appartenere al nostro Stato e al

sistema economico delineato dalla Costituzione, intoniamo le note di questo inno per

indignarci contro un globalismo patologico che incita all’odio contro tutte le patrie: “I

wow to theemy country… Io consacro a te, mia Patria, tutte le cose terrene (e anche di

più), il servizio del mio amore sia intero, completo e perfetto. Sia un amore che non fa

domande, un amore che sa resistere alla prova, capace di sacrificare ciò che si ha di

più caro e il meglio. Un amore che non vacilla mai, un amore capace di pagare

qualsiasi prezzo. Un amore che non trema di fronte al sacrificio finale”. A noi basti un

eroismo economico che crei ricchezza per tutti, altrimenti anziché il nostro bene

inseguiremo il fallimento dell’uomo, deriva di ogni mercato fallimentare nel quale si è

ridotti a barattare i fondamentali diritti umani per una manciata di spiccioli.