Sovana

36
Sveama Suana Sovana Il gioiello della Maremma e della storia

Transcript of Sovana

Sveama – Suana – Sovana Il gioiello della Maremma e della storia

2

C’è una certa difficoltà a parlare in

modo lineare di Sovana. Conviene

seguire un percorso cronologico che

però non coincide con i passi che

porteranno il visitatore ad aggirarsi

per il borgo, oppure è meglio

seguire un criterio topografico, con

la fatica di dover compiere continui

balzi storici, anche molto ampi?

Seguiremo un criterio misto, forse

più faticoso ma che anticipa le

sequenze di ciò che vedremo

domani e che, nello stesso tempo,

cerca di seguire un filo logico.

3

Dall'apice di una breve

discesa, dopo aver

soffermato lo sguardo,

venendo da Pitigliano,

sulla sinistra, sulla roccia

chiamata la Mano di

Orlando [improbabile

assedio di Sovana da

parte di Carlo Magno], ci

appariranno i resti

smozzati del mastio di un

castello, ultimo avanzo,

assieme alle rossigne

mura di cotto, di quel che

fu la seconda e più

gloriosa capitale della

grande contea

aldobrandesca.

4

Sul pianoro c'è la

cittadina del Medio-

evo, allusiva a un

doppio destino, quello

dell'età feudale più

remota e quello del

trionfo dell'età comu-

nale. In basso, ci sono

la necropoli e le

tagliate etrusche,

anch'esse ripartite

attorno ad un doppio

messaggio: quello

dell'età più arcaica e

quello dell'ellenismo,

trionfante con la

Tomba Ildebranda.

Laggiù, ben radicata

nella Madre Terra e

segnata da una

religiosità remota, la

radice etrusca; qui, la

più recente

irriducibilità longobarda ed il sogno cristiano. In tutto quattro transizioni e due metamorfosi delle età

dell'uomo che aspettano la comunione delle vostre sensazioni quando visiteremo i luoghi. A queste

transizioni ne dobbiamo però aggiungere una quinta, ancora più remota, considerando anche l'insediamento

protostorico ritrovato dietro l’abside della Cattedrale.

Come una perla adagiata

nell'incavo dell'altopiano,

circondata da colli e

scolpita tra burroni e

forre, Sovana si staglia

improvvisa, con un

profilìo di edifici indistinti

i cui colori si confondono

con quelli della campagna

circostante. Sovana

sembrerebbe tutta qui. Ciò

che intravediamo

rappresenta l’ingresso di

un lungo viaggio nella

storia. Poco più avanti del

castello, dagli anni dopo il

Mille emergeranno, come

lo smalto cloisenné dei

gioielli barbarici, la

Loggia del Capitano, il

Palazzetto Comunale e la

più discosta Cattedrale.

5

Del periodo dello splendore rimane il piccolo gioiello attuale, abitato da circa duecento persone, immerso

come una Brigadoon mediterranea in un'atmosfera medievale (chi ricorda quel film del 1954 di Vincente

Minnelli con Van Johnson, Gene Kelly e Cyd Charisse?). Come dicono le guide, improvvisamente ci si

immerge nel Medioevo. Non a caso il San Francesco di Rossellini fu ambientato proprio qui.

Il Medioevo... ormai sono superate le

romantiche rappresentazioni che

facevano di quell'età il territorio di un

eroico e tenebroso fascino gotico; così

come sono false le interpretazioni

illuministiche che riducevano quell'epoca

a una indistinta oscurità... eppure, senza

ricadere in vecchi stereotipi, dobbiamo

ricordare che l' Alto Medioevo segnò per

davvero un discrimine, un luogo del

tempo in cui la storia sembrò chiudersi in

se stessa. La vita quotidiana e i grandi

rivolgimenti politici e militari apparvero

alle coscienze più vigili come il preludio

della fine del mondo.

L' Alto Medioevo costituisce una

specie di "buco nero" nella storia

dell'umanità occidentale. Parliamo della

peste ricorrente che spopolava le campagne e le città; parliamo dell'insicurezza quotidiana della vita;

parliamo delle invasioni e delle guerre continue; parliamo del declino delle città (in Italia, tuttavia, mai del

tutto completo); parliamo della definitiva eclisse dei valori dell'età classica; parliamo del clima irrigidito che

provocò una piovosità straordinaria; parliamo delle terribili carestie; parliamo del nuovo predominio della

foresta, delle selve e delle paludi. Prima dell'età longobarda il proprietario romano, l'ecclesiastico, l'in-

tellettuale, il mercante potevano pensare alla loro epoca in termini di decadenza, certo, e di disperato

degrado, ma anche di speranza per una possibile restaurazione, per un ritorno all'ordine antico. In fondo

l'Impero romano d'Oriente era ancora vitale. Gloriosa e ancora temibile, Bisanzio indicava un modello

concreto, un'idea alla quale riferirsi, ma anche un'effettiva possibilità di intervento e di ricupero dell’antica

grandezza militare.

Con l'avvento dei longobardi questa possibile

prospettiva, questa speranza, vennero

cancellate: quasi d'un tratto fu chiaro che il

futuro non avrebbe ripetuto il passato. Davanti

all'umanità impaurita c'era ormai l'ignoto, la

morte personale e, quasi sicuramente, anche

quella del mondo. Quel che ne pensassero i ceti

subalterni non lo sapremo mai, anche se

possiamo immaginare che la loro condizione

sociale e materiale non cambiasse granché,

salvo una più accentuata insicurezza personale.

Insomma, ciò che durante i lunghi decenni

delle invasioni barbariche e della distruttiva

guerra goto-bizantina poteva considerarsi una

possibile parentesi, tragica ma transitoria, ora

appariva un esito definitivo: affiorava nella co-

scienza collettiva l’irreversibilità e l’enormità di quanto era accaduto. Fu come se le menti più attente e

coscienti dell'epoca si risvegliassero improvvisamente in un mondo totalmente alieno. A un tratto, tutti i

valori che avevano comunque nutrito la lunga decadenza dell'Impero d'Occidente persero di attualità e di

attuabilità: di fronte alle popolazioni si aprì un futuro sconosciuto.

6

Il mondo sembrò fermarsi e

prepararsi a finire: "Stiamo per

assistere alla fine del mondo",

ripeteva continuamente l'angosciato

papa Gregorio Magno. Altro che la

favola ottocentesca dei terrori legati

all'attesa fine del mondo a ridosso

dell'anno Mille! Fu allora, nell'Alto

Medioevo, a partire da quel tragico,

spaventoso sesto secolo e fino

all'approdo dell'Impero carolingio,

che l'idea della fine universale

apparve come una possibilità

concreta nelle menti di popolazioni

sempre più rade, in balia della

violenza e dell'ignoranza. Il potere

dell'invisibile prese una fisionomia

demoniaca, riemersero le visioni

notturne e si assistette al ritorno di

pratiche magiche e esoteriche, persino al rifiorire di culti pagani.

Tornarono anche le antiche suggestioni e credenze degli Etruschi nelle lande maremmane? Non lo

sappiamo, ma solo nel 744 la Chiesa riuscì a far chiudere gli ultimi templi dei gentili e, da quella data, le

credenze e i culti pagani vennero confinati nelle campagne. Di fatto, nell'Occidente e nell'Oriente, prese

piede una ricca demonologia, che avrebbe trovato poi con Dante la sintesi della Divina Commedia. Lo

storico Fumagalli chiama questo periodo "il dominio della notte." Le pratiche magiche dilagavano dovunque,

persino nelle chiese e nei conventi!

Sono qui, in questa epoca, le radici più prossime di quel millenarismo cristiano che riemerge

prepotentemente nel corso della storia, ogni qualvolta si verifica un passaggio d'epoca, ogni qualvolta crolla

un assetto sociale e culturale che sembrava definitivo. E del resto, nel campo della cultura e della scienza, la

svolta del VI secolo rasentò la perdita totale delle conoscenze fino ad allora accumulate: la scienza

raggiunse, nell’Europa occidentale, il suo livello più basso.

I resti rosseggianti della

rocca aldobrandesca e la

stessa topografia dei luoghi,

stanno lì a testimoniare la

tenacia della vita e della

storia, segni inequivocabili

che non c'è mai distruzione

assoluta e che persino mentre

tutto il mondo sembra

crollare e perdere il senso

della propria direzione, la

ricostruzione è tuttavia già in

marcia e che, sempre, uomini

e donne, tenacemente e lungo

nuove vie che solo in un

secondo tempo (il tempo

degli storici) saranno chiare,

gettano i germi di un nuovo

inizio.

7

Insomma, non vi

traggano in inganno i

resti troppo segnati dal

tempo del castello.

Sovana fu città forte e

combattiva nelle aspre

contese che videro il

trionfo dei Comuni e

prepararono l’avvento

del Rinascimento

italiano. Federico II,

nonostante un lungo

assedio, nel 1240, non

riuscì a conquistarla e

dovette accontentarsi di

un giuramento formale

dell’Aldobrandeschi.

Ora dobbiamo compiere un

breve excursus storico per

avere un quadro meno

confuso di ciò che vedremo.

Sovana fiorì dapprima fra il

VII ed il VI secolo dell’evo

antico, nel periodo della

massima espansione etrusca,

rivale di Vulci, dalla quale

venne sconfitta. Un sovanese

è infatti raffigurato nella

celebre Tomba François. Ma

l’esistenza di Sovana è

molto più antica.

8

Sul pianoro

immediatamente

a sud-ovest della

Cattedrale, in

fondo al borgo

attuale, sotto un

uliveto e un

impianto di viti,

sono stati scavati

diversi strati

archeologici, le

cui indagini sono

terminate da

poco. Lì, dietro

l’abside, sono

stati ritrovati

anche i resti di

una precedente

chiesa dell’VIII

secolo. Gli scavi

hanno messo in

luce

un’impressionant

e continuità di

frequentazione del sito che si affaccia su una gola attraversata da un torrente. Si parte con il neolitico, dal

2.500 circa, ma una più intensa frequentazione dell’area si ebbe dall'età del rame e del bronzo.

E qui, sul pianoro di

Sovana, sono stati

ritrovati i fondi di

capanne dell’età del

bronzo finale (metà

XII – X secolo

dell’evo antico) sorrette da pali

perimetrali e centrali;

dei muri di argilla e di

incannicciata non è

rimasto nulla. La

frequentazione

continuò nel periodo

etrusco orientalizzante

e arcaico, con case a

pianta rettangolare su

grandi pali perimetrali.

Dopo un periodo di

abbandono del sito

(ma non

dell’insediamento

complessivo) la zona fu destinata ad attività produttive, con una fornace del IV-III secolo e diversi altri

impianti di servizio, frammisti ad abitazioni private. In epoca imperiale il sito fu utilizzato come cava di tufo

e poi come necropoli (di cui rimangono tracce e reperti), il cui uso continuò con la conquista longobarda, di

cui rimangono alcune sepolture. Dopo la conquista romana, Sovana era divenuta municipio. In seguito alla

9

caduta dell’impero romano passò sotto il dominio ecclesiastico e poi degli Aldobrandeschi, gente di stirpe

longobarda.

I Bizantini, attestati nel

caposaldo di Cosa e di Orbetello

(siamo nel 580 dell’era volgare,

all'incirca), contrastarono a

lungo i tentativi del duca

longobardo di Spoleto di impa-

dronirsi di Sovana e di chiudere

così il corridoio che permetteva

il collegamento tra Roma,

ancora bizantina, e l'Esarcato di

Ravenna. Finalmente Sovana fu

forse conquistata una prima

volta dai Longobardi nel 592,

ma fu poi probabilmente ripresa

dai bizantini.

Tuttavia, dopo la morte

di Gregorio Magno, nel 604,

Sovana entrò in possesso del

Duca di Spoleto Ariulfo.

Trecento anni dopo, la città

divenne la sede del Comitato aldobrandesco, in seguito all'abbandono di Roselle, divenuta poco sicura per le

continue incursioni saracene, ungare e normanne.

Sovana fu sede vescovile fin dall'epoca in cui il cristianesimo cominciò a diffondersi nell'alto Lazio.

È registrata la presenza di Maurizio, vescovo di Sovana, nel Concilio che si tenne Roma nel 679.

Ora, prima di entrare nel

borgo attuale e dopo

questa troppo lunga

introduzione storica,

diamo uno sguardo a come

si presentava nei primi

anni del Novecento la

piazza del Pretorio e una

veduta dal castello

aldobrandesco

10

E poi come si presenta

oggi la stessa piazza,

guardando verso il

castello, anche in una

visione notturna.

Girando lo sguardo, dal Palazzetto comunale si svolgono le due stradine che raggiungono la Cattedrale, lo

sperone preistorico e gli altri edifici.

11

Un po’ anticipato, subito dopo i resti irriconoscibili di San Mamiliano, c’è il Palazzo Bourbon Del Monte del

XVII secolo, una famiglia marchionale dell’alta valle tiberina, imparentata con gli Sforza e con gli Orsini, di

cui abbiamo visto un edificio anche a Sansepolcro. La facciata a rustico ha uno stile severo e fu ottenuta per

sopraelevazione di una Loggia pubblica già esistente. Forse testimonia degli sforzi dei granduchi toscani di

restituire la vita a Sovana, la cui decadenza e spopolamento dovuti alla malaria, ne avevano fatto un borgo

fantasma. Infatti, sotto i Medici e più tardi i Lorena, per ripopolare il luogo, vennero fatti venire a Sovana

greci, friulani, lombardi e lorenesi: ma la malaria riportò la miseria. Tutti gli immigrati vennero infatti

spazzati via dal male e dalle difficili condizioni ambientali.

Santa Maria, sulla

piazza, è del sec. XII-

XIII. L’ingresso è sul

fianco destro, perché

la facciata venne

ostruita dal Palazzo

Bourbon Del Monte. Il

campanile è posteriore

al XVII secolo.

12

L’interno è romanico con

qualche inserzione gotica.

La cosa più preziosa dal

punto di vista artistico è il

ciborio preromanico, che

termina con un baldacchino

a tronco di cono, il cui

candore contrasta con il

quasi buio delle tre navate.

Fu fatto tra l’VIII e il IX

secolo e forse apparteneva

originariamente alla chiesa

primitiva che fu distrutta per

costruire la Cattedrale.

Ci sono anche alcuni affreschi più tardi, dei primi del Cinquecento. Altri affreschi sono nella cappella di

fronte all’entrata, attribuiti ad allievi o imitatori del pittore senese Bernardino Fungai (seconda metà del

1400).

13

Qui uno scorcio del tetto e

delle volte.

Il Pretorio, romanico, costruito tra il XII e il XIII secolo, riadattato dai senesi. Prima del restauro tra le

finestre emergeva una trave, indicata come “la forca dei giustiziati”. All’interno, un affresco del XVI secolo

di suola senese (Madonna in trono con bambino). Al piano superiore i resti di altri due affreschi e lo stemma

della città: leone bianco rampante in campo rosso. Subito dopo c’è la Loggia del Capitano.

14

Il Palazzetto comunale con

un campanile a vela,

risalente all’incirca ai

secoli XII-XIII, quando il

Comune di Sovana

raggiunse il massimo di

libertà. Destinato a uffici

pubblici ha funzionato

anche da deposito degli

scavi del villaggio

preistorico.

Percorreremo poi l’unica strada interna di Sovana degna di questo nome.

15

Più avanti, procedendo dalla piazza centrale lungo l'unica via selciata che porta alla Cattedrale, ci imbattiamo

in una dimora singolare. Secondo la leggenda, questa è la casa natale di Ildebrando da Sovana, cioè di papa

Gregorio VII: quello della lotta per le investiture, quello che scomunicò l'imperatore Enrico IV e l'umiliò a

Canossa, forse alla presenza di uno degli Aldobrandeschi. Fu Gregorio il vero e tenace fondatore e

teorizzatore del primato della Chiesa e del papa sui principi e sugli stati. Nei ventisette assiomi a lui attribuiti

(il famoso Dictatus Papae) si legge tra l’altro che:

solo lui può usare le insegne imperiali

solo al Papa tutti i principi devono baciare i piedi

solo il suo nome venga pronunciato nelle chiese

solo a lui è permesso di deporre gli imperatori.

A suo ricordo è intitolata la più grande tomba etrusca dei dintorni.

È ancora discusso se

Gregorio VII sia stato uno

degli Aldobrandeschi. Lo

storico Gregorovius

scriveva di lui che: "Nel

genio dominatore di costui

viveva lo spirito austero e

magnanimo dei romani

antichi [...] La sua impor-

tanza sta in ciò, che con

una delle più violente

rivoluzioni note alla storia

mutò alle radici il rapporto

che era sussistito sino a

quel momento tra il mondo

e la Chiesa, tra la Chiesa e

il potere secolare. Fu il

Cesare della Roma papale.

La sua meta politica fu il

16

potere assoluto del pontefice." Per raggiungere gli obbiettivi di una piena autonomia della Chiesa

dall'Impero, dapprima, e di una stabile supremazia poi, Gregorio VII utilizzò tutte le armi spirituali e

materiali di cui disponeva. Altre ne mise a punto lui stesso, come quella del miles sancti Petri, embrione di

ciò che sarà poi nel basso Medioevo l'istituto della cavalleria.

Sta di fatto che proprio

Gregorio VII amplierà di

molto i domini aldobrandeschi.

Ma ciò non prova tanto

l'esistenza di legami familiari,

quanto il fatto che nel conflitto

con l'Imperatore i conti,

tradizionalmente ghibellini, si

schierarono dalla parte della

Chiesa. Ci guadagnarono,

perché nel 1269 l'Abbazia

romana delle Tre fontane dette

loro in enfiteusi il proprio

feudo maremmano (da

Marsiliana a Montauto, a Cap-

albio all'Argentario). La

contea aldobrandesca divenne

così una delle più grandi

d’Italia. Intanto, Ildebrando il

Rosso, fratello dell'Omberto

dantesco, attorno al 1259,

aveva trasferito la sede della contea da Sovana a Pitigliano, meglio difendibile. Da quell'epoca, la storia della

contea aldobrandesca divenne la storia dei conti di Pitigliano, ma Sovana rimase la culla della casata e fu a

Sovana che Margherita, figlia di Ildebrando, ultima contessa aldobrandesca, sposò Guido da Montfort.

La storia di Margherita (mi sia permessa un’autocitazione) è straordinaria e penso che sia bene raccontarne

qualcosa. Dopo si potranno guardare in modo diverso i resti della rocca e le pietre medievali di Sovana.

Quella di Margherita è stata una vita di tragedie, amori e tradimenti, nel solco delle migliori tradizioni del

genere: una vita di trame e di lotte per mantenere il possesso dei feudi ormai declinanti, sullo sfondo della

più splendida storia europea. Un romantico ci impazzirebbe sopra dall'entusiasmo.

17

In ogni caso, circolano persino dei fumetti ispirati alla sua storia.

Nel febbraio del 1270 Ildebrando Aldobrandeschi, soprannominato il Rosso, dette in sposa la giovane figlia

Margherita a Guido di Montfort, vicario generale in Toscana di Carlo d'Angiò, il conquistatore del regno

napoletano, il vincitore e carnefice di Corradino di Svevia. Questo Guido di Montfort era un gran

personaggio e un indomito combattente, discendente di una delle casate protagoniste del feudalesimo

europeo. A lui l'Angiò aveva concesso in feudo anche molte altre terre, costituendo così un controllo stra-

tegico unitario sulla Toscana. Ma la felicità e la tranquillità degli sposi durò appena un anno. Nel marzo del

1271 Guido di Montfort raggiunse Carlo d'Angiò a Viterbo per l'elezione del Papa e là pugnalò a morte, nella

chiesa di San Silvestro, Enrico di Cornovaglia, nipote di Enrico III di Inghilterra e pronipote di Giovanni

Senzaterra, re di Inghilterra e fratello di Riccardo Cuor di Leone. La vittima, che era un suo cugino, tornava

dalla Crociata di Tunisi. Non soddisfatto di averlo ucciso, Guido trascinò il cadavere del congiunto per i

capelli sul sagrato della chiesa e poi si dette alla fuga, nascondendosi nel suo feudo di Maremma. Nessuno

tentò di arrestarlo.

18

Perché un così efferato delitto, compiuto a freddo, nei confronti di un incolpevole? Per saperlo dovremo

entrare nella grande storia europea, in un crocevia della nascita della democrazia occidentale, delle istituzioni

parlamentari e delle prime guerre di religione. Qui basterà ricordare che il nonno di Guido, un grande

feudatario, è famoso per aver sconfitto e massacrato gli Albigesi al comando della crociata indetta dal papa, e

per aver dominando tutta la Francia meridionale; che il padre Simone si era trasferito in Inghilterra

assumendo l'investitura diretta del feudo di Leicester, ereditato dalla madre. In Inghilterra Simone sposò una

sorella del re Enrico III Plantageneto e riconquistò la Guascogna per la corona inglese. In seguito, dopo aver

rifiutato la reggenza di Francia, era divenuto il capo dei riformatori inglesi, il difensore di quella Magna

Charta che Giovanni Senzaterra aveva dovuto forzatamente concedere. Entrato in contrasto con la corona,

nella battaglia di Lewes del 1264 Simone di Montfort aveva sconfitto le truppe reali. L'anno dopo, aveva

convocato quello che è passato alla storia come il primo Parlamento inglese, facendovi intervenire non solo i

nobili e gli ecclesiastici, ma anche due rappresentanti del popolo per ogni circoscrizione del regno.

Il dominio di Simone di

Montfort sull'Inghilterra,

simile a quello tenuto in

seguito da Cromwell, durò

tuttavia poco: i tempi non

erano ancora maturi. Scon-

fitto nella battaglia di

Evesham dal principe

Edoardo, cugino di Guido di

Montfort e fratello di Enrico

di Cornovaglia non volle

arrendersi. Il suo cadavere

fu oltraggiato: i genitali

tagliati gli vennero messi in

bocca e la sua testa, staccata

dal busto, fu portata in

trionfo dai suoi nemici più

acerrimi.

19

Simone è diventato un

martire caro alla fantasia

popolare. C’è anche una

filastrocca recitata dai

bambini inglesi che ne

esalta la figura, oltre a

diversi inni e canzoni. Gli

è persino intitolata

l’Università politecnica di

Leicester.

Sei anni dopo la

morte del padre, dunque,

all'apice della propria

potenza militare e politica,

Simone di Montfort si

trovò di fronte il fratello di

colui che ad Evesham

aveva permesso oppure

ordinato lo strazio del

cadavere del padre. Fu

vendetta. Il delitto mise a

rumore le corti europee,

ma protetto dall’Angiò, Guido sfuggì anche ai tentativi della corte d’Inghilterra di catturarlo.

Presto perdonato dal papa, dopo essere stato scomunicato e espropriato di tutti i suoi beni, Guido non fu però

liberato dalla prigionia che qualche anno dopo. Ma Dante lo colloca all’Inferno (XII Canto), nel cerchio dei

20

violenti contro il prossimo, isolato per la gravità della sua azione. Comunque, Guido venne messo di nuovo a

capo di importanti spedizioni e, tra l’altro, combatté con successo i ghibellini di Guido di Montefeltro. Nel

1285 morivano Carlo d'Angiò e Martino V, ma non prima che il Montfort fosse reintegrato dal papa in tutti i

suoi diritti. L'anno successivo Guido di Montfort si imbarcava all'Argentario, a capo di milizie senesi, per

unirsi alla flotta francese che discendeva l'Italia con l'obbiettivo di contrastare l'offensiva aragonese in

Sicilia. Nel 1287, in una battaglia navale contro gli Aragonesi lanciati alla conquista di Napoli, Guido venne

fatto prigioniero e poco dopo moriva.

A questo punto inizia

la seconda parte della

storia di Margherita,

l'ultima degli

Aldobrandeschi: quella

parte che la colloca

nello spartiacque fra il

mondo medioevale e

l'incipiente ma non

meno drammatico

Rinascimento, quella

parte che la vedrebbe a

giusto titolo inserita fra

le eroine di Stendhal.

Raccontarla qui

sarebbe troppo lungo.

Basterà ricordare che

in seguito si sposò altre

tre volte, fu accusata di

bigamia per essere

stata l’amante di Nello

di Pietra, sospettato di

aver ucciso Pia de’ Tolomei per avere campo libero con la contessa.

Perseguitata da Bonifacio VIII che voleva impadronirsi dei suoi estesi feudi, e insidiata da Orviento

e Siena che volevano impadronirsi della contrada per conquistare uno sbocco al mare, sposò un Orsini.

Quando costui morì, Margherita (che aveva avuto due figlie legittime e un figlio illegittimo morto in tenera

età da Nello Pannocchieschi), fu costretta a sposare un nipote di Bonifacio VIII: un matrimonio presto

annullato dallo stesso papa che l’accusò di bigamia. Accerchiata da Siena e da Orvieto, si risposò con un

esponente del ramo di Santa Fiora degli Aldobrandeschi e con lui combattè altre furiose battaglie. Morto

costui e sconfitta, si rifugiò a Roma dagli Orsini e dal 1313, non si hanno più sue notizie. Come scrisse con

sufficiente retorica il Ciacci, nella storia della famiglia, "l'ala ormai stanca dell'aquila aldobrandesca si piegò

su di lei." La tradizione e gli autori che se ne sono occupati riferiscono che Margherita fosse molto bella. C'è

stato chi l'ha considerata come una svergognata seduttrice come nel caso dell’inattendibile Bruscalupi che

così la dipinge: “La contessa Margherita era stata in sua gioventù e continuava tuttavia a essere una donna

empia e rotta ad ogni scostumatezza...”, passando sotto silenzio le mascalzonate di Bonifacio VIII, primo

responsabile della sua rovina per espliciti interessi familiari. E c’è invece chi l'ha descritta come una creatura

soave, benché indomita, vittima delle circostanze e dei tempi di ferro.

Dopo alcuni anni i senesi conquistarono la città, nel frattempo passata agli Orsini, e saccheggiarono

anche gli edifici sacri. La campana del Duomo fu portata come trofeo a Siena e collocata sul campanile della

Cattedrale, dove si trova ancora oggi, ed è chiamata la Sovana. Più tardi, nel 1560 Sovana, dopo essere stata

a lungo feudo degli Orsini, fu annessa alla Toscana e fu sede di un Capitano di giustizia.

21

Ma, visto che abbiamo citato Dante, nella Divina Commedia trova ospitalità anche un altro Aldobrandeschi,

seppure nel Purgatorio, laddove i superbi debbono andare piegati sotto il peso di enormi massi. Si tratta di

Omberto, zio di Margherita, di cui per brevità non racconterò qui la storia.

Cosa rimase del fulgore aldobrandesco di Sovana? Un pittore inglese dell’Ottocento ce la restituisce così.

22

Riprendiamo il nostro cammino e arriviamo alla Cattedrale, intitolata a Pietro e Paolo. Costruita non prima

dell'XI-XII secolo su un precedente più piccolo edificio sacro (resti incastonati nei muri) è il simbolo in

pietra di un mutamento culturale profondo. Per i critici dell'arte, questa chiesa è uno dei maggiori esempi di

architettura romanica in trasformazione nella Toscana meridionale: segnerebbe anzi il passaggio dallo stile

romanico a quello gotico. Ancora una transizione. Il fascino della storia sta nel suo divenire, nel suo

processo, piuttosto che in un inesistente approdo. Alla facciata fu addossato l’edificio episcopale, di cui

rimangono degli ornamenti, per cui l’ingresso è laterale e la sua modestia contrasta fascinosamente con

l’interno severo e composto.

Per quanto, il portale possiede una

sua bellezza e un’espressività

immediatamente medievale. E anche

le finestre, pur nella rozzezza del tufo

sono notevoli.

23

Ma la bellezza della chiesa è nella sua struttura interna, che possiede una sua solennità essenziale e spoglia,

divisa in tre navate, con pilastri alternati bianchi e neri su cui si innestano le volte a crociera della navata.

L’abside è scandita da lesene con archetti ed è orientata a levante. La navata di destra, con archi tipicamente

gotici, contrasta con quelli a tutto sesto delle altre. Sembrerebbe che la Cattedrale sia opera di due diverse

maestranze: una originaria dall’alto Lazio e l’altra del senese. I capitelli sono di tradizione lombarda. Nella

navata destra c’è l’urna di San Mamiliano, evangelizzatore di Sovana.

Il fonte battesimale

è dei primi decenni

del Quattrocento.

Degli arredi mobili,

vale la pena di citare

un dipinto del

Manenti (1671,

Martirio di San

Pietro), della scuola

di Caravaggio; e una

tela attribuita alla

scuola di Andrea

Del Sarto (seconda

metà del XVI,

Madonna con

bambino ecc.). Nella

navata di destra è un

cippo romano con

una dedica alle

ninfe.

24

Vale la pena di vistare la cripta, se è accessibile.

Ma ora torniamo indietro, anche nel tempo, apprestandoci ad entrare nell’identità etrusca di Sovana.

25

I percorsi, come abbiamo visto dal cartello topografico, sono vari e noi ne sceglieremo solo due, pur dando

qualche occhiata alle immagini di alcuni monumenti. Con l’occasione parleremo di qualche aspetto della vita

etrusca, intanto guardando la cartina che mostra la massima espansione di questo popolo, che quasi riuscì a

unificare una parte notevole dell’Italia prima dell’espansione romana.

L’immagine di un

colombario ricavato in

una tomba etrusca

26

e quella della Tomba

del Sileno, corredati dei

demoni infernali

immaginati dagli

Etruschi, ci dà modo di

parlare un po’ della

loro religione e della

loro notoria bravura

nell’interpretare i

segnali celesti. Gli

etruschi erano

considerati tra i più

esperto aruspici (la

cosiddetta disciplina

etrusca, di cui parlano

gli autori romani).

Furono uno dei popoli

più superstiziosi mai

esistiti ma, appunto per

questo, erano

considerati tra le genti

più devote e attente al

volere dei celesti. Arnobio, scrittore cristiano dei primi secoli, accusava l'Etruria di essere generatrice e

madre di tutte le superstizioni. Ora, penso che Arnobio avesse del tutto ragione per quanto riguarda

l'Occidente; ma penso anche che non avesse tutte le carte in regola per dimostrarsi così scandalizzato. Il

mondo etrusco-romano era animato da presenze soprannaturali onnipresenti. Ognuno aveva il suo genio,

trasformato dal cristianesimo nel successivo angelo custode. Ogni attività umana era presieduta e controllata

da una divinità. Tra le divinità maggiori e gli uomini c'erano schiere di spiriti, ninfe o Lasa in forma di esseri

alati. Questi esseri erano rappresentati in veste celestiale, se svolgevano funzioni collegate alla parte benigna

del cielo oppure in forme mostruose, se si collegavano ad attività infernali. I bambini credono che se il vento

soffia è evidente che vuole soffiare. (J. Piaget) Tutte le cose sono animate. Il passo successivo è, per

l’appunto, che se il vento soffia è qualcuno che lo fa soffiare. Ma questo qualcuno cosa ci vuole dire?

Diciamo che parecchio di quest’ultimo meccanismo è rimasto, se ancora oggi è linguaggio e spesso credenza

comune dire “è un segno del cielo” di fronte ad un qualche accadimento.

Che cos'era, la cosiddetta

disciplina per la quale

andavano famosi? Adriano

Maggiani - un etruscologo -

la spiega così: “Non era

soltanto una tecnica per

formulare profezie e

previsioni, era un insieme di

nozioni di precetti, raccolti e

ordinati secondo precisi

criteri che potevano spiegare

tutta la realtà in quanto

sistema rigorosamente

strutturato di leggi e norme

dipendenti coerentemente da

un complesso di dogmi,

frutto di rivelazione divina”.

La rivelazione divina era

quella del fanciullo Tagete,

ma anche della ninfa o Lasa

Vegoia che, in veste

27

angelica, si era soffermata in particolare sui fenomeni dei fulmini, dettando i libri che permettevano la loro

interpretazione. Le saette venivano lanciate da diverse divinità, ma il padre di tutti gli dei, Tinia, ne poteva

scagliare di ben tre specie diverse. La più terribile di esse, il fulmine perentorio, poteva essere lanciato solo

con una decisione collettiva, cioè dopo che Tinia si era consultato con una costellazione di divinità

misteriose, chiamate Di involutes o Di consentes. Ma il punto essenziale è che proprio a partire dalla

concezione che gli Etruschi avevano sulle cause dei fenomeni celesti emerge la loro particolare mentalità. Le

cose per loro - avvertiva Plinio il Vecchio - non hanno un significato in quanto avvengono, ma avvengono

per mostrare un significato. In altre parole, la folgore non scaturisce dal cozzo delle nubi, ma le nubi si

scontrano per far scaturire il fulmine, in quanto la divinità ha deciso di inviare un messaggio. Beh, insomma,

non indaghiamo a fondo su ciò che crede la gente ancora oggi.

Presa la macchina, scenderemo

verso Poggio Felceto, per iniziare

una lunga passeggiata,

cominciando dalla famosa Tomba

Ildebranda. Tra le tombe a tempio

dell’area, in generale assai rare in

tutta l’Etruria, la Ildebranda è

davvero unica, oltre ad essere la

più grande.

Si tratta di un

edificio ellenistico

etrusco del III-II

secolo scolpito nel

tufo poroso, con

podio, colonnato,

fregi e camera

sottostante con il

soffitto a lacunari,

preceduto da un

dromos. L’edificio

era interamente

coperto di stucco

(escluse le scalinate

e le pareti del

dromos e della

camera funeraria) e

dipinto a vivaci

colori. Di questi

ultimi rimangono

alcuni relitti dietro

il colonnato

principale. Il tono

dominante era dato dagli zoccoli in rosso vivace, dal bianco-giallo dello stucco e da fregi policromi di

elementi vegetali gialli, rossi, verdi scuri e verdi chiari.

28

Nel tempio etrusco la parte più importante era il podio, a differenza di quello greco, in cui la parte

fondamentale era la cella interna abitata dal dio. Resti dei rilievi con figure e con ornamenti sono

intravedibili, nonostante l’avanzata corrosione dovuta alla friabilità della pietra.

Il dromos, leggermente rastremato in alto, conserva ancora i fori per la chiusura di accesso alla camera

sepolcrale. La quale ultima è singolarmente rozza (oltre che antecedente) in confronto alla magnificenza del

tempio soprastante. Bianchi Bandinelli sostiene che, nonostante l’ampiezza dell’ambiente, si trattava della

sepoltura singola di un personaggio insigne. L’intera area doveva avere comunque una destinazione

familiare, considerando che il dromos taglia quello di un’altra tomba, di epoca precedente. Nel complesso,

solo nel 1974 è stata rinvenuta una nuova tomba a camera che ha restituito intatto il corredo funebre, non

intaccato evidentemente dai tombaroli che sfondarono il retro dell’altro ambiente per cercare senza successo

tesori.

La diapositiva ci mostra una ricostruzione di

un tempio etrusco alla cui tipologia dovettero

ispirarsi i committenti della Tomba

Ildebranda. Come vedete la policromia

accesa contrasta non poco con l’immagine

tutta mattoni e statue bianche tramandataci

dal classicismo settecentesco, da

Winckelman, in particolare. In effetti la

capacità architettonica degli etruschi fu

notevole.

29

Qui ne vediamo alcuni esempi, assieme alla ragione per cui in generale nulla si è salvato delle case etrusche,

costruite con un’armatura di graticci di legno. Per inciso, l’arco a volta romano è di origine etrusca.

Il che ci porta a

compiere un rapido

excursus su alcune

delle eredità

etrusche passate ai

romani, che

debbono molto di

più di quanto

ammisero i loro

annalisti alla civiltà

dei tirreni. Tecnica

della granulazione

dell’oro, idraulica e

strade, mezzi di

trasporto, la groma

per misurazione dei

campi e parte del

vocabolario,

attraverso i romani,

furono ereditate

dalle età posteriori.

30

Deviando poi, se vorremo, in altri sentieri della stessa area, sarà possibile visitare anche la Tomba del Tifone,

cosiddetta per una testa con code di serpente molto corrosa, del II secolo. Si tratta di una tomba a timpano, la

cui camera sepolcrale, è completamente scomparsa.

Anche la Tomba Pola (o

Grotta Pola), su un’altra

biforcazione del sentiero,

presenta una

conformazione a tempio,

sia pure meno elaborata

dell’Ildebranda. Di

fronte c’è un complesso

di tombe a dado del III

secolo. In origine più

grandiosa delle tombe di

Norchia, ne è rimasta in

piedi una sola colonna

(ma ce n’erano altre

sette). La fronte era

anche qui coperta di

stucco dipinto a diversi

colori. La camera

sepolcrale, “servita da un

profondo dromos” è

lunga 18 metri e mezzo e

contornata da banchi

31

lungo le pareti, la cui struttura lascia pensare che gli inumati fossero messi in casse.

Torneremo un po’ indietro, attraversando la provinciale, avviandoci a scoprire uno dei famosi cavoni

etruschi. Lungo il suo percorso incontreremo fosse di sepoltura e tombe.

Alcune tombe sono

classicamente “a dado”, diffuse

soprattutto nella Tuscia

viterbese.

32

Lungo il percorso incontreremo anche questi costoni in cui si aprono le tombe. Hanno l’aria di aver avuto

una frequentazione anche preistorica.

Ma la tomba notevole

di questo ultimo

itinerario è quella

della Sirena del II-II

secolo, chiamata

anche Tomba di

Scilla. La facciata

riprende lo schema di

una casa etrusca ed è

sormontata da un

frontone con una

creatura alata con due

code pisciformi: due

figure alate e nude la

fiancheggiano. Le

sirene erano

considerate, tra le

altre incombenze, protettrici delle

tombe.

33

Dentro la cavità sta il letto conviviale ai cui lati erano due divinità dell’Oltretomba; probabilmente la dea

della morte Vanth e il demone Culsu. Sopra il letto i relitti di una scritta nuli (xta) vel velus, dove vel è un

nome proprio.

Ma cos’erano i cavoni etruschi? Scavata nel tufo, approfondita dalle acque, una rete di strade collegava le

città etrusche della zona. Una prima spiegazione suggerisce che i tratti di strada incassata servissero a

34

mantenersi in quota per superare più facilmente una morfologia ricca di pianori, di forre, di torrenti, di

burroni improvvisi. Molte di queste "tagliate", nel primo tratto, erano utilizzate per seppellire i morti, come

entrò più tardi nelle usanze romane. Entrati in un cavone, è facile suggestionarsi e immaginare la processione

funebre, con la salma adagiata sul carro, le cui ruote hanno lasciato con il tempo solchi talvolta ancora visibi-

li. Immaginiamo la scena dei familiari, accompagnati dal sacerdote e dalla musica, che nelle ricorrenze

religiose si recavano a sacrificare e a banchettare presso la tomba dei loro avi.

Una interpretazione più suggestiva (e anche molto azzardata) del significato delle tagliate, nega che si tratti

di strade nel senso banale del termine e sostiene che la rete dei cavoni sia da collegare ad azioni magiche,

legate alla sacralizzazione del territorio, cioè al tentativo di armonizzare il sotto ed il sopra del mondo.

L'intero sistema dei cavoni (multipli, paralleli, spesso fra loro confluenti o organizzati secondo una spirale,

specialmente nel pitiglianese) farebbe poi riferimento all'area del Fanum Voltumne, cioè allo spazio sacro

attorno al lago di Bolsena, centro religioso unificante e segreto dei popoli delle dodici città dell'Etruria.

Su un costone, in alto (non so se riusciremo a vederlo) c’è una croce uncinata etrusca (una svastica), simbolo

del sole o della vita, preceduta da una breve scritta.

Per aggiungere una

suggestione all'altra, si

può persino immaginare

che la fitta costruzione

dei posteriori romitori

cristiani, talvolta situati

proprio al culmine delle

tagliate (come proprio

nel caso del cavone che

visiteremo), costituisca

l'eco di quel

rovesciamento dei valori

operato dai cristiani nei

confronti del

paganesimo, per cui i

santi eremiti sarebbero

andati a fare le loro

prove di resistenza al

diavolo proprio laddove

il mondo sotterraneo

dell’antico paganesimo

affiorava alla superficie

e minacciava la salvezza del mondo. Del resto, non è un caso che tutte le potenze infernali dantesche, salvo

Lucifero, provengano dalla mitologia pagana.

35

E ora, completata la nostra ricognizione, facciamo la conoscenza con qualche volto etrusco, rappresentato da

manufatti d’epoca e da disegni tratti dalle pitture. Sembra che le donne fossero molto belle e anche piuttosto

autonome: ma questa è un’altra storia.

Non vi pare di trovare una certa aria di famiglia? Non molto distante da qui, a Murlo, nel senese, c’è la più

alta percentuale di eredità genetica etrusca, che è peraltro altissima in tutta la Toscana. Gli etruschi

scomparsi delle favolette giornalistiche e delle credenze tramandateci da informazioni approssimative non

esistono, perché i loro discendenti sono ancora tra noi.

36

Bibliografia essenziale

Albini P., Cara Maremma. Vagabondaggi nella terra della memoria, Valentano, Scipioni, 1995

Albini P., Margherita Aldobrandeschi. Ultima Signora della Maremma, Valentano, Scipioni, 2000

Autori Vari, Itinerari sovanesi, 1989

Bianchi Bandinelli R., Sovana. Topografia ed arte. Contributo alla conoscenza dell’architettura

etrusca, Firenze, Rinascimento del libro, 1929

Biondi A., Sovana. “Città di Geremia”. Guida storico-turistica, Pitigliano, A.T.L.A., 1989

Bruscalupi G., Storia della contea di Pitigliano, rist. anastatica ed. 1906, Roma, Multigrafica

editrice, 1975

Cavoli A., Leggende della Maremma e della Tuscia. L’immaginario collettivo in settanta

testimonianze religiose e profane, Valentano, Scipioni, s.d.

Collavini S.M., "Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus". Gli Aldobrandeschi da "conti" a

"principi territoriali" (secoli IX-XIII), Firenze. ETS, 1998

Negroni Catacchio N. (a cura di), Preistoria e protostoria in Etruria. La cultura di Rinaldone:

Ricerche e scavi, Milano, Università, 1993

Pallottino M., Etruscologia, Milano, Hoepli, 1990, VII ed.

Repetti E., Dizionario Fisico Storico della Toscana, rist. anastatica Firenze, 1833 [nel Web

http://www.archeogr.unisi.it/repetti/]

Salviati F. et alt., Il Duomo di Sovana, GAR, 1982

Vatti R., Sovana, Pitigliano, Sorano: profili di città etrusche, Valentano, Scipioni, 1987

Tracce musicali Clark Curtis, Il lamento di Tristano (XIV sec. Italia)

Mina Mazzini, Dalla terra (Magnificat adattamento di Marco Frisina; Voi ch'amate lo criatore,

laudario di Cortona, XII sec.)

Peire Vidal (1175-1206), Bem pac d’inver. I trovatori nei castelli e nelle corti d’Europa, 1995

Synaulia, La musica dell'antica Roma, vol. I, track 20