Sotto l'arco del sole e della luna

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I miei primi racconti scritti nel 2006

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Sotto l’arco del sole e della lunaracconti di Annibale Bianchini

© 2006 Annibale Bianchini

Il disegno di copertina è stato realizzato da Antonia Pizzetti© 2006 Antonia Pizzetti

NOTA

La presente raccolta di racconti,prelevata gratuitamente dal web,può essere liberamente condivisa

nella sua totalità o nelle singole partie nelle più svariate forme,

a patto che:

- sia sempre citato il nome dell’autore e quello dell’autrice del disegno di copertina;

- sia condivisa a titolo esclusivamente gratuito;- siano mantenuti integri contenuto e forma di ogni racconto.

Ogni altro diritto è riservato.

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AVVERTENZA

Nessuno dei racconti contenuti in questa raccolta è stato scritto dall’autore pensando ad una particolare fascia di lettori.

Tuttavia ritengoindicati per i bambini

i seguenti racconti:- Wendy, la formica trendy- Pastiche- L’allocco- Sorellina- Una storia da non credere.

Ritengo invece che per i loro contenuti sonodel tutto inadatti ai bambini

quelli qui elencati- Ricordy Ladylay?- Daniel Lo Cuba- Non è mai detta l’ultima parola- Essere vivi- Il fascino del non sapere

I restanti racconti potrebbero adattarsi alla sensibilità dei bambini,

ma valutino responsabilmente gli adulti l’opportunità che i piccoli li leggano o li ascoltino.

Annibale Bianchini

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NON HO NIENTE A CUI PENSARE!

“Non ho niente a cui pensare!” si disse Berto quella mattina, appena sveglio... veramente era così ogni mattina. “Cosa farò?!” si chiese mentre si infilava i pantaloni. “Come passerò la mia giornata?” piagnucolò tra sé mentre si allacciava la scarpa sinistra.“Devo assolutamente trovare qualcosa di cui occuparmi!”. E allora si alzò risoluto dal letto e, come ogni mattina, si rivolse a Lilla, sua moglie, dicendole: “Lilla..., cara..., che ne dici se oggi prepariamo il pranzo in giardino?”. Lilla, non ancora del tutto sveglia, rispose: “Non hai ancora fatto colazione e già pensi al pranzo”.“Be’, sai, così ci organizziamo per tempo” disse Berto.“Se è una bella giornata, perché no?” disse Lilla quasi più a se stessa che al marito, visto che Berto se ne era già andato.“Bene” sentì dire Lilla da Berto in cucina “di che padelle hai bisogno per l’evento?”“Evento?” si chiese Lilla mentre usciva dalla camera da letto. “Di che evento stai parlando?”“Preparare il pranzo in giardino” rispose Berto con aria innocente.“Tu... vorresti che io mi mettessi a cucinare in giardino?” disse Lilla puntando il suo dito indice prima su Berto, poi verso di sé ed infine alla porta finestra.“Sì, tu mi dici di cosa hai bisogno e io... te lo porto...” Berto si interruppe di botto, vedendo lo sguardo esterrefatto di Lilla, la quale, dopo un breve istante, disse con voce minacciosamente calma: “Puoi scordartelo!”.“Ma amore!” riprese Berto con tono implorante “Non è bello, romantico, io e te, tu ed io...?”“Non se ne parla” lo interruppe Lilla, versandosi il caffè.

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“Ma ti aiuto io...” rinforzò Berto.“Oh sì, grande aiuto mi daresti” rispose Lilla sarcastica “continuando a chiedermi cosa sto facendo lì, cosa sto facendo là, o a suggerirmi quanto fuoco dare sotto le pentole... E poi mi vorresti dire come faccio a cucinare in giardino?”“Accendo un bel fuoco!” disse Berto entusiasta.Dopo un brevissimo istante con gli occhi sgranati e la bocca spalancata per l’incredulità, Lilla sbottò sillabando: “Sco-rda-te-lo!”. E se ne andò in bagno.“E adesso?” si disse Berto, quasi afflitto dalla reazione di Lilla. “Che faccio tutto il giorno? Mi sento inutile...”.Dal bagno, quasi intuendo i... pensieri del marito, Lilla disse a voce alta: “Sai che devi fare?”“Cosa?” chiese Berto.“Fatti un bel giro in bicicletta, lungo il fiume” propose ironica Lilla.“Ci sono stato ieri!” ribatté Berto.“Ed anche l’altro ieri, e ieri l’altro ancora” gli disse Lilla uscendo dal bagno.Berto la guardò triste. Lilla per tutta risposta gli si avvicinò, gli fece un ampio sorriso, lo baciò sul naso e poi con lo stesso tono ironico gli disse: “Magari stavolta puoi pensare di farti un bel bagno, così ti si raffredda il cervello.” E se ne uscì canticchiando per andare a far la spesa. Berto invece tornò subito a pensare a come occupare la sua giornata e quindi decise che era venuto il momento di togliere le erbacce dal giardino.

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L’ANGELO MIRO

L’angelo Miro aveva proprio le tipiche caratteristiche degli angeli che si vedono in quadri e affreschi di chiese e cattedrali: aveva gli occhi azzurri, i capelli biondi e boccolosi e una naturale candida aria da bravo ragazzo. In effetti l’angelo Miro era un bravo ragazzo, si può forse dire diversamente di un angelo? Fatte le dovute distinzioni tra regole ed eccezioni, in linea di massima no. Miro però - come dire? - faceva storia a sé per quel che riguarda gli angeli, perché, nonostante l’atteggiamento dolcemente integro e sicuro di sé - qualcuno in verità diceva un po’ spavaldo - sotto sotto era molto timido e quindi era spesso agitato e nervoso. Ogni missione che gli era affidata lo metteva in uno stato di tensione tale da stremarlo, tanto che non era difficile trovarlo addormentato su qualche nuvoletta sperduta dove si era rifugiato per studiare il caso di cui si doveva occupare.Miro faceva parte della corale “Voci di Paradiso”, sia come solista (quante ansie!), sia come musicista (se non panico!). Aveva una bellissima voce, era ben intonato e le sue interpretazioni... a dir poco celestiali. Anche come musicista se la cavava molto bene: con la sua lira riusciva a dare ai canti quel tocco personale che li rendeva unici. E non erano in pochi a dire questo.Non è che fosse ben visto da tutti i suoi colleghi, soprattutto dai più anziani, perché Miro... si era innamorato del rock’n’roll: come non capirlo dopo un’eternità di musica celeste! Ogni tanto lo si sentiva in lontananza cantare a squarciagola da qualche cucuzzolo sui monti più alti. In effetti a Miro era stato dato il permesso di suonare il rock’n’roll, ma ad una condizione: che la quiete del Luogo Santo non fosse disturbata da ritmi frenetici e suoni assordanti. Quel giorno fu tale la sua

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gioia che si permise, per la prima ed ultima volta, di lasciare la sala dei colloqui alla velocità della luce; ne chiese scusa col suo primo pezzo rock che aveva intitolato “Come fossi senza ali”. Ah già! Miro era anche autore e compositore, e oltretutto riscuoteva un certo successo con le sue canzoni: lui non l’ha mai saputo, ma c’erano frotte di angeli che si nascondevano fra le nubi o mimetizzandosi tra i ghiacciai per ascoltare le sue composizioni; al solo pensiero, timido com’era, gli sarebbe venuta l’orticaria.Il ritmo della sua vita, come si può intuire, era a dir poco frenetico; fra missioni, prove, studio, rock’n’roll e pisolini inattesi... non è che gli restasse molto tempo. Ma quel poco che gli restava lo passava in compagnia di un vecchio angelo ormai a riposo, che gli raccontava le sue avventure di angelo custode fra gli uomini. Ogni volta Miro restava incantato, con lo sguardo perso fra le nuvole, ripensando a quanto aveva ascoltato; tanto che il vecchio amico doveva chiamarlo quattro, cinque, anche sei volte perché si riavesse da quello stato sognante e ritornasse ai suoi impegni quotidiani. “Tu sarai un grande angelo!”, gli diceva l’amico, sorridendogli. “Lo spero tanto”, rispondeva Miro con aria preoccupata. Allora, Simatro, questo era il nome dell’altro angelo, gli prendeva la testa fra le mani e gli diceva: “Il cuore grande ce l’hai, l’impegno ce lo metti, devi solo trovare l’equilibrio”. “E dove lo trovo?”, ribatteva Miro. “Lascia che sia lui a trovare te e quando meno te lo aspetti tutto ti diventerà chiaro”. Dopo questo invito di Simatro, per la verità un po’ enigmatico, Miro faceva un gran sospiro, abbracciava dolcemente il vecchio amico e tornava alle sue faccende con una calma che ogni volta lo meravigliava, perché nemmeno il suo amore per la musica riusciva a fargli sperimentare una pace di quel genere.

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UN CRICETO NELLO SPECCHIO

Astolfo quella mattina si svegliò di buon ora e come ogni mattina fece i suoi gorgheggi, per iniziare bene la giornata, diceva. Poi come sempre si alzò e andò in bagno, fece i suoi bisogni, come al solito abbondanti - aveva l’abitudine ogni sera di bersi almeno mezzo litro d’acqua prima di coricarsi - , si lavò il viso, per poi asciugarselo con la salvietta. Tutto come al solito, così pareva... Quando però alzò lo sguardo verso lo specchio per pettinarsi, rimase bloccato con le braccia in aria e quanto meno sbalordito: dopo alcuni secondi non potè trattenere un urlo tale che i gorgheggi del mattino al confronto erano dei semplici bisbiglii.“E tu chi sei?” chiese Astolfo con sgomento alla... cosa che vedeva nello specchio.“Sono Oflotsa! Piacere!” rispose ciò che era al di là del vetro.“Pia... piace... re...” riprese cauto Astolfo. “Ma... sembri...?”“Un criceto, lo so” completò Oflotsa “ma non sembro un criceto, lo sono.”“...” Astolfo non riuscì a pronunciare una sola parola.“Be’?” continuò Oflotsa “Non mi dici niente? E’ un bel po’ che non ci parliamo!”Astolfo aprì la bocca per dire qualcosa, ma di fatto prese solo aria. E continuò a guardare nello specchio perplesso.“Non ti ricordi più...” disse quasi deluso il criceto “c’era da aspettarselo. Be’, che dire... hai qualcosa da sgranocchiare?”. Solo allora Astolfo si accorse che Oflotsa aveva le guance rigonfie: “Cos’hanno... le tue guance?”, chiese indicandole titubante e... ancora, a dir poco, perplesso.Toccandosi le guance con le sue zampette il criceto disse: “Ah, queste? E’ la colazione; sai, ho la digestione lenta.”Astolfo non capiva più se stava sognando o se stesse

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impazzendo. Senza dire altro uscì dal bagno per andare a vestirsi.“Ehi, dove vai?” chiese Oflotsa. “Ma che t’è preso? Ti fa questo effetto rivedere gli amici?”. Dopo qualche attimo, non ottenendo la minima risposta da Astolfo, aggiunse: “Ok, io aspetto qui, tanto non ho fretta.” E cominciò a masticare... la sua colazione.Astolfo era in uno stato catatonico, non riusciva a pensare a niente; vagava per la casa senza sapere esattamente dove stesse andando, né cosa dovesse fare. Ma c’era un pensiero che gli martellava in testa, avrebbe voluto non ascoltarlo, ma c’era! Pensava a quella specie di ratto gigantesco che gli parlava niente meno che dallo specchio! ‘No, non è possibile’, disse tra sé e si diresse deciso verso il bagno; ‘non posso aver visto quel che ho visto e per giunta averci parlato!’, pensò cercando di convincersi che era stato solo un sogno. Davanti alla porta del bagno si fermò, soffiò forte e poi entrò. Dallo specchio, Oflotsa, che ancora masticava con cura la sua colazione, disse: “Oh eccoti! Pensavo ti fossi perso.”. Astolfo lo guardò impietrito; benché non si capisse esattamente dove o cosa stesse guardando.“Allora?” chiese il criceto, “Ti ricordi chi sono?”. A quella domanda Astolfo si riprese e mettendosi le mani sui fianchi disse: “Certo che mi ricordo chi sei: sei un’allucinazione! Non so cosa mi capiti stamattina, ma vedo nello specchio un grosso criceto bianco... che mi parla!”.“Suh!” disse comprensivo Oflotsa “fai uno sforzo, basta che mi guardi meglio”.Ecco cos’era ciò che lo disturbava, più dell’apparizione in sé: il muso di quel criceto gli sembrava familiare! E dopo qualche istante, un lungo istante di rimuginamento... di rivalutazione... di “dove mai l’avrò visto?”, cominciò a ridere, a ridere a crepapelle. “Ah, ecco! Ti ricordi adesso, eh?” disse compiaciuto Oflotsa.

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E Astolfo rise ancora di più, non riusciva a fermarsi, mai aveva riso così tanto nella sua vita. “Non immagini... ah ah ah... che scene che mi passano davanti agli occhi!!”. E avanti con le risate, a più non posso. A dire di Oflotsa, Astolfo continuò a ridere fino all’ora di pranzo, non andò nemmeno a lavorare, anzi, il pensiero di andare in ufficio e di ridere in faccia al suo direttore senza potersi trattenere, lo faceva sbellicare ancora di più dalle risa.Quando finalmente si calmò guardò Oflotsa nello specchio: aveva un muso con un’espressione molto buffa, davvero simpatica; e se ne stava lì tranquillo con le sue guanciotte rigonfie e il suo sorrisetto ironico.“Da non credere!” disse Astolfo, più a sé che al criceto. Sta di fatto che da quel giorno continuò a vedere Oflotsa nello specchio. Non si dissero più nulla; ogni tanto Oflotsa si divertiva a prendere in giro Astolfo, imitando i suoi gesti, ma facendoli al contrario, soprattutto quando lo vedeva particolarmente serio e preoccupato. Ed Astolfo, vedendo Oflotsa nello specchio fare i suoi stessi gesti, ma al contrario, si fermava un attimo a guardare l’amico, sorrideva scuotendo la testa e tornava alle sue faccende quotidiane con una nuova leggerezza.

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RICORDI LADYLAY?

“Ti ricordi di Ladylay?” chiese Axelo.“Ladylay...? No” disse Bound “Dovrei?” “Be’, difficile non ricordarsela.” sottolineò Axelo.“Non così difficile, visto che io non me la ricordo” sostenne Bound “Chi è?”.“Ma sì: alta, mora, con un fisico portentoso, simpatica, divertente...”“Una racchia!” concluse Bound.“Macché racchia!” rispose Axelo “Io... mi sono un po’ invaghito di lei!”“Be’, questo non vuol dire niente, tu ti innamori di ogni fanciulla che si mostra appena appena gentile con te” disse ironico Bound.“Ma cosa dici?” disse Axelo risentito “Di cosa parli? Non sai nemmeno di cosa parli!”“Va be’, lasciamo perdere!” mormorò Bound. “Allora... questa Ladylay? Mi spieghi chi è?”.“Mah... non saprei che altro dirti di lei” rispose Axelo.“Ah proprio un tipo da ricordarsela!” affermò Bound “Quante donne ci sono al mondo alte, more, con un certo fisico e divertenti?”“Come Ladylay, poche!” disse Axelo con tono convinto.“Certo!...” disse Bound sostenuto.“Comunque” riprese Axelo “mi ha chiamato.”“Mh!” fece Bound.“L’ultima volta che l’ho vista è stato cinque anni fa” continuò Axelo.“Ah...”“E... mi ha chiesto...”“Sì...?”“...se ricordavo che fine avesse fatto la sua borsa amaranto...”

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“Uhelà! Grande interesse per te, eh?” disse Bound.“Be’, d’altronde dopo cinque anni...” accennò Axelo.“E la prima cosa che ti chiede riguarda la sua borsa?” chiese Bound “Questa me la devi spiegare perché non l’ho capita.”“In effetti... non è la prima cosa che mi ha chiesto...” disse Axelo misterioso.“Ah no? E che cosa ti ha chiesto di così interessante?” Bound cominciò ad incuriosirsi.“Mi ha chiesto di te” disse asciutto Axelo.“Ah!” disse Bound altrettanto asciutto. “E... cosa ti ha chiesto?”“Se ti ricordavi di lei.” rispose Axelo.“Bel problema! Io proprio non mi ricordo di lei!”“E a quanto pare” aggiunse Axelo “nemmeno del prestito che ti ha fatto cinque anni fa”.“Un prestito?” chiese pensieroso Bound.“Più che altro...” disse Axelo non riuscendo a trattenere un sorriso ironico “non l’hai pagata.”“Pagata? Per cosa?!” “L’integerrimo Bound, l’uomo tutto d’un pezzo... Ricordi il mio addio al celibato?” chiese Axelo.“Sì, vagamente, son passati... cinque anni!”. concluse sussurrando Bound e sbiancando in volto.“Ah, vedi che cominci a ricordare?” fece Axelo, agitando scherzosamente il dito indice in segno di rimprovero.“Pensavo di aver fatto un sogno...” iniziò a dire Bound.“...talmente coinvolgente da sembrare vero!” completò Axelo “Risposta esatta! Eri talmente ubriaco da non ricordare assolutamente nulla!” e scoppiò in una gran risata.“Ah, ah, ah...” scandì Bound scuro in faccia; e se ne andò senza aggiungere altro.“Ehi Bound” gli gridò Axelo “una domanda: è più facile che un sogno diventi realtà o è la realtà ad essere soltanto un sogno?”

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BELLO, ALTO E PROFUMATO!

Arturo era un uomo stimato da tutti, molti gli volevano bene, benché lui non capisse bene il perché: conduceva una vita tranquilla, si dava da fare come poteva... Certo è che la sua era una vita un po’ particolare. Perché?! Eh be’, perché Arturo era un uomo alto, bello e sempre profumato e questo significava avere dei privilegi. La sua altezza, per esempio, lo dotava di un punto d’osservazione... come si può dire?... per l’appunto, privilegiato, perché poter osservare il mondo dall’alto permette di tenere sotto controllo le situazioni in maniera più... oculata. Più volte gli è capitato di sventare un tentativo di ruberia da parte di abili borseggiatori mimetizzati tra la folla brulicante: appena ne vedeva uno (ormai poteva riconoscerli con uno sguardo), Arturo gli si metteva dietro senza destare sospetti, e appena si rendeva conto che il furbone era in procinto di attuare il colpo con il classico scontro apparentemente casuale, allungava una gamba (cosa non difficile per Arturo), intercettava con grande maestria il piede del ladro e quello ruzzolava a terra malamente, finendo oltretutto calpestato a più riprese dai pedoni frettolosi.Senza ombra di dubbio, poi, Arturo era un uomo veramente, veramente bello! Questo, a parte essere un elemento di attrazione degli sguardi altrui, e non solo di quelli femminili, non costituiva un gran privilegio, visto che di fatto sembrava non trovare la donna della sua vita. Non ne faceva un dramma, intendiamoci; quando ci pensava lo faceva con semplice curiosità, come si può essere curiosi di capire perché il proprio vicino alzi le persiane di notte e le abbassi di giorno. Sono domande a cui è ben difficile rispondere, ma non è che

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conoscere la risposta sia di vitale importanza. E poi, comunque, lo spirito del cercatore da cui era animato, permetteva ad Arturo di porsi delle domande senza esigere una risposta, almeno non immediata.Quindi, riassumendo, Arturo era innanzitutto alto e bello. Ma il pezzo forte del sior Arturo - così lo chiamava la portinaia del palazzo dove abitava - era il suo profumo. Qualcuno penserà che il nostro, amante com’era della distinzione dei singoli e dell’originalità del loro agire, di fronte ad un uguagliarsi progressivo della società, spendesse fior di quattrini per potersi garantire le migliori essenze del creato e provenienti da ogni dove. Niente di tutto questo! Arturo profumava in modo naturale, si potrebbe perfino azzardare l’ipotesi che esistesse un’essenza di Arturo, e non di un Arturo qualsiasi. La vera questione, però, era che il profumo di Arturo cambiava a seconda delle persone che lo incontravano, benché dire questo non sia precisamente ciò che accadeva. In pratica ogni persona che gli si avvicinava sentiva un profumo diverso: chi di lavanda, chi di mare, chi di pino... E Arturo non riusciva a farsene una ragione, anche perché lui, sì, si sentiva profumato, ma non ha mai saputo definire il proprio profumo. Se dovessi sentire tutti quei profumi, si diceva ogni tanto, penso che sarei morto di emicrania da un bel pezzo! Con tutte le persone che incontrava ogni giorno, poi! Incontrava effettivamente molte persone e gente di ogni tipo: grandi, piccoli, vecchi, vagabondi... proprio di ogni tipo; e difficilmente chi gli stava di fronte gli risultava sgradevole o antipatico; Arturo pensava, ne era intimamente convinto, che il contatto con qualsiasi persona gli avrebbe rivelato qualcosa in più di se stesso e del senso della sua vita su questa terra. Chissà... forse era questo che gli altri percepivano di lui, ne rimanevano affascinati senza capire bene il perché. Già... lui poi non ne parlava mai, ma forse era proprio questo ciò che faceva di Arturo un uomo alto, bello e profumato.

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LA VOCE DI LORENA

Ascoltare la voce di Lorena non era come ascoltare una voce qualunque, perché ogni volta era come sentirla parlare al telefono, tanto più se la si ascoltava ad occhi chiusi. Era stupefacente come, ascoltandola, fosse possibile dimenticarsi completamente del suo aspetto, non perché Lorena fosse una donna brutta, anzi, era bellissima; ma di fatto era ciò che succedeva: chi ascoltava Lorena parlare, bastavano anche pochi secondi, perdeva ogni riferimento fisico e tutto ciò che di lei “vedeva” era il suono della sua voce. Sarà stato forse perché Lorena considerava la comunicazione l’elemento principe per tenere vivo ciò a cui lei credeva di più: il legame tra le persone. D’altro canto, però, Lorena usava molto il telefono per comunicare, diceva che le permetteva di sentire le persone a cui voleva bene il più spesso possibile, anche solo per dirsi ciao e poi riattaccare, si sa, il telefono è utile, ma costa. Forse era questo il punto: il telefono era per Lorena il mezzo di comunicazione privilegiato, perchè, diceva, accorcia le distanze tra le persone senza doversi muovere - già ci si muove troppo ogni giorno... - e in qualche modo la sua voce aveva assunto quel particolare suono che si sente quando si ascolta una persona al telefono. Ascoltare la voce di Lorena era diventato perciò il modo migliore per conoscerla, per capire cosa stesse vivendo e con quale stato d’animo; anche per questo alle persone veniva spontaneo chiudere gli occhi mentre la ascoltavano, per non farsi... distrarre dal suo aspetto. Un momento! E se tutto fosse nato da un insolito convincimento di Lorena? Lei era bellissima, poteva pensare che i suoi uditori la ascoltassero solo per il suo aspetto... e in qualche modo era riuscita a rendere la sua voce l’elemento più

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interessante della sua vita, lasciando che fosse quella a dare l’immagine giusta di se stessa, compresa quella fisica. Chissà... Quel che è certo è che solo Lorena sapeva la verità al riguardo.A volte sentirle raccontare le sue avventure era proprio uno spasso, riusciva spesso a trovare il lato comico delle situazioni e questo, oltre a mettere buon umore, rinnovava il desiderio di ascoltarla ancora. Anche la sua risata era davvero molto coinvolgente, libera, vera, vissuta; niente a che vedere con quelle risatine trattenute di coloro che ritengono ancora che il riso sia una pietanza da servire in caso di evacuazione intestinale repentina... ma per quello è meglio il limone.Ah, quante storie Lorena!Nel tempo la voce di Lorena era cambiata, da un certo momento in poi si capiva che aveva fatto un salto di qualità, in meglio naturalmente; era diventata più calma, più paziente, lo si sentiva anche quando raccontava dei momenti di minore serenità. I cambiamenti erano evidenti a chi ascoltava e non poteva che essere felice per lei, si capiva che aveva trovato una migliore prospettiva nell’affrontare la sua vita. Ascoltare la voce di Lorena significava poterla conoscere bene, non solo superficialmente; ma per alcune persone era diventato l’unico modo di conoscerla, perché, non vedendola da molto tempo, era tutto ciò che ricordavano di lei. Qualcuno, addirittura, si era talmente abituato al connubio Lorena-voce che era arrivato al punto di domandarsi se incontrandola per strada l’avrebbe mai riconosciuta.

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LA STORIA DI OGGIGIORNO

Giornoprima e Giornodopo non si conoscevano, sarebbe stato ben difficile visto che abitavano in due grandi città che erano da considerarsi agli antipodi: infatti Giornoprima viveva a Miricordo, mentre Giornodopo era nato e cresciuto a Prevedo. Come? Che c’è da raccontare su due persone che non si conoscevano e nemmeno, a quanto pare, avrebbero potuto mai incontrarsi? Un passo alla volta!Il fatto è che Giornoprima e Giornodopo avevano un amico in comune, un amico vero, molto vicino ad entrambi, quasi quasi il migliore amico di ciascuno. Il nome dell’amico? Oh, che impazienza! L’amico si chiamava Oggigiorno. Parenti? Macché parenti, insomma!Oggigiorno conosceva sia l’uno che l’altro perché frequentò assiduamente le rispettive città e faceva spola tra Miricordo e Prevedo per occuparsi da vicino di tutte le sue attività e coltivare i suoi interessi. E che interessi!Fu così che... un giorno, o forse in più giorni, conobbe Giornoprima e Giornodopo. Oggigiorno non ricordava chi fosse stato il primo..., ormai erano passati troppi anni; e poi non è fondamentale conservare certe informazioni... a meno che capiti di dover rivendicare un’opzione di eredità che dipende dalla conoscenza della data esatta di acquisizione del grado di parentela minimo richiesto per poter avanzare diritti e pretese di riscossione. Ah, vedi allora che sono parenti?!

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...Può darsi, ma ai fini della storia che si va raccontando, la cosa non suscita il benché minimo interesse.Si può dire che Oggigiorno conobbe Giornoprima e Giornodopo in circostanze molto simili, perché entrambe lavoravano per le rispettive società di cantastorie delle proprie città. All’atto di iscriversi alle due società (erano situate in stati diversi, e si sa, ogni nazione ha i suoi usi e i suoi costumi) Oggigiorno venne accolto e ricevuto proprio dai due futuri amici. Entrambi restarono colpiti dal titolo dell’opera che il cantastorie aveva allegato alla domanda d’iscrizione: “L’arco del Sole e della Luna”.“Non so perché ma penso che sia un racconto interessante” disse Giornoprima.“Deve essere una storia affascinante” disse invece Giornodopo.Oggigiorno rispose ad entrambi porgendo loro una copia del suo scritto e poi sorridendo disse: “Lo legga, così mi dice cosa ne pensa!”Sia Giornoprima che Giornodopo restarono talmente meravigliati della proposta del cortese autore che non riuscirono a dire altro, se non ricambiare il sorriso.Quando tornò alle società di cantastorie per la firma dei documenti di convalida della sua iscrizione, Giornoprima e Giornodopo restituirono a Oggigiorno le copie della sua opera. Leggendo sui loro volti la medesima espressione imbarazzata e titubante, rivolse ad entrambi la stessa domanda:“Non le è piaciuto?”“Be’, non precisamente” risposero tutti e due “è un po’... strano.”“In fondo è la vita a essere strana, non crede?” disse Oggigiorno consegnando il modulo che aveva appena compilato.C’era riuscito di nuovo, senza volerlo naturalmente: per la seconda volta Giornoprima e Giornodopo si meravigliarono del loro avventore e di nuovo rimasero senza parole. Mentre si allontanava lo guardarono incuriositi, notando in lui una calma del tutto particolare, a cui non avevano fatto caso la prima volta

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che lo incontrarono. Da quel momento in poi, ogni volta che Oggigiorno si presentava alla società dei cantastorie di Miricordo e a quella di Prevedo, e si presentava spesso dato che era un autore molto produttivo oltre che molto creativo, Giornoprima e Giornodopo approfittavano per scambiare con lui qualche parola, per cercare di capire quale fosse la filosofia di quello strano cantastorie... Col passar del tempo le poche parole divennero lunghe e intense chiacchierate e i semplici rapporti di sportello si trasformarono in grandi amicizie. Furono queste trasformazioni a meravigliare Oggigiorno, perché nessuno fino a quel momento gli aveva chiesto di lui, dei suoi pensieri e delle sue creazioni.“Mi offri una prospettiva davvero nuova” era solito dire Giornoprima al nuovo grande amico “E’ come se io potessi non pensare più a ciò che sono stato”.Giornodopo invece diceva così a Oggigiorno: “Mi offri una prospettiva davvero nuova, amico mio, è come se potessi non pensare più a ciò che vorrei essere”Le due amicizie durarono per lungo tempo. Ma venne il momento in cui Oggigiorno si rese conto di dover lasciare i suoi amici; non si dimenticò mai di loro, così diversi l’uno dall’altro, eppure così simili... Doveva seguire il suo destino, lui era un cantastorie e quindi era necessario che vivesse nuove esperienze, facesse nuovi incontri, visitasse nuove città, magari le meno conosciute, le meno immaginate, perché potesse raccontare davvero la storia di oggigiorno, la storia che si svolge, ogni giorno, sotto l’arco del sole e della luna.

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WENDY, LA FORMICA TRENDY

“Non mi dirai che vivi ancora in quei cunicoli bui e tetri che la tua tribù ha scavato sotto quella specie di fungo di legno che c’è in mezzo al giardino?” disse Wendy alla vecchia compagna di formicaio Norma.“Be’ sì! Negli stessi cunicoli di quella che è stata anche la tua tribù, carissima!” rispose l’amica con un pizzico di risentimento “Perché? Tu dove vivi?”“Ah” sospirò Wendy “io e le altre esploratrici abbiamo trovato un posto veramente splendido: non c’è terra, non c’è sporcizia ed è tuuuutto bianco!”“Tutto bianco?!” chiese incredula Norma.“E tutto liscio, smaltato, pulito!” sottolineò Wendy.“Ma che posto è? Di cibo ce n’è?” incalzò Norma.“Cibo...?” Wendy ci pensò un attimo “Sì, non ci si può lamentare. Quello che abbonda in alcuni momenti della giornata è...”“E’?...” chiese Norma allungando il collo verso l’amica.“... l’acqua!” concluse Wendy con un sibilo. Norma sgranò i suoi grandi occhi e poi disse preoccupata: “Acqua? Ma l’acqua è nemica delle formiche! E’ pericolosissima!”“Ma noo! Che dici amica mia?” disse Wendy sorridendo “Nessun pericolo, anche perché ormai abbiamo capito quando arriva l’acqua”“E come?” chiese Norma.“Qualche attimo prima, sentiamo dei colpi che fanno tremare il nostro territorio e poi sentiamo una specie di fischio, come se qualcosa si muovesse a gran velocità”“Oh che paura!” esclamò Norma portandosi le mani alla bocca.“Sì, è così!” disse Wendy guardando l’amica negli occhi “Le

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prime volte eravamo in preda al panico, non capivamo ciò che succedeva. Ma col passare dei giorni ci siamo accorte che era per noi un segnale, come l’avvertimento di un amico; e quindi ora, appena lo sentiamo, via!, ognuna va cercarsi un riparo. E solo quando siamo tutte al sicuro arriva l’acqua!”Dopo qualche attimo di silenzio Wendy riprese:“C’è una cosa strana...”“Strana?” chiese Norma incuriosita.“Sì... A volte, oltre ai tremori, ci sono delle folate di vento che vorrebbero scaraventarci chissà dove; e qualche volta” continuò Wendy divertita “qualcuna di noi si è fatta davvero un bel volo, finendo molto più in basso del luogo dove viviamo!”“Come più in basso? Ma dov’è questo posto?” Norma era quasi spaventata.“Fatte le dovute proporzioni...” disse Wendy “è come se vivessimo sul cappello del vostro fungo, mia cara”Norma svenne.“Oh Norma! Norma...” chiamò Wendy amorevole, cercando di svegliare l’amica “Norma... rispondi!”Poi, vedendo che non si riprendeva, la scosse un po’ e urlò: “NORMA!!”Norma ebbe un sussulto. “Oh!... Che c’è? Che è successo?”“Norma! Sei svenuta!” Wendy fece un gran sospiro “Che spavento mi hai fatto prendere!”“Tu spaventata?” gridò isterica Norma “Io mi spavento!! Vivi in un posto stranissimo, bianco, liscio, con l’acqua, i tremori, il vento e ad un fungo di altezza...”.“Ma sì!!” commentò Wendy con aria rapita “Non è meraviglioso? Insolito lo so, ma è così trendy!”Norma non poteva credere alle proprie antenne.“Tu ti sei bevuta il cervello!” disse all’amica.“Ma no, non dire così! Il mondo cambia, mia cara” disse Wendy con occhi sognanti “e anche una formica avrà il diritto di adeguarsi ai tempi, di godere di nuovi spazi e delle nuove tecnologie!”

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“Sarà!” commentò Norma “Io mi trovo molto bene nei miei cunicoli! E adesso che ci penso è ora che torni a casa, tra poco sono di turno. Ti saluto Wendy”E senza aspettare la risposta della vecchia compagna se ne andò.Wendy, da parte sua, non aveva neppure sentito il saluto dell’amica, continuò a pensare estasiata alla fortuna che le era capitata. Mai sarebbe tornata alla vecchia vita, fra terra, cunicoli e quel sistema di vita, molto naturale, certo, ma tanto primitivo. Ormai si sentiva figlia del suo tempo ed essendo tempo di agiatezze, perché non approfittarne?

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DANIEL LO CUBA

C’era una volta un certo Daniel Lo Cuba, il quale, contrariamente a quanto si potrebbe pensare d’impulso, non viveva nell’isola rossa, né c’era mai stato. Lui era un cittadino rispettabile di una cittadina rispettabile, ad una rispettabile distanza dalle città più grandi e più famose. Tanto più rispettabile, diceva Daniel, proprio perché lontana da quelle città. Sento che vorresti sapere quale sia il nome di quella cittadina... Già! Il punto è che io, sinceramente, non me lo ricordo proprio. Daniel me l’ha detto almeno una trentina di volte, ma io, puntualmente, tornavo a chiederglielo e a richiederglielo e a richiederlo... Ciò che ricordo meglio è che lui ci stava bene, gli piaceva la gente, le piazze, i vicoli... Nonostante gli fossero capitate molte buone occasioni per andarsene in capo al mondo a fare ciò che avrebbe ritenuto meglio, non si è mai mosso da... Eh! Proprio non ricordo.Per chi non lo conosceva bene, Daniel Lo Cuba era una specie di fannullone scansafatiche e perdigiorno come pochi ce ne sono al mondo. “Va in giro tutto il giorno, scrive qualche riga su un quaderno, sta seduto per ore senza far nulla... Comoda la vita così!” Questo dicevano di lui le persone che non lo conoscevano. E queste erano le frasi più gentili. Mi dirai: sicuro che gli piacesse la gente della sua città?Ne sono più che sicuro, perché al di là di tutto lui apprezzava la loro sincerità, la schiettezza delle loro opinioni. Per questo non si arrabbiava mai; di fatto nessuna delle persone che non lo conoscevano bene gli ha mai fatto del male.Comunque i suoi concittadini avevano ragione, era lo stesso Daniel a sostenerlo: lui era un fannullone scansafatiche e

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perdigiorno, un lavoro serio e sicuro non l’avrebbe mai intrapreso. A lui piaceva vivere così.Lo so a cosa stai pensando, la tua domanda è lecita: di cosa viveva? Come faceva a mantenersi? Sinceramente non l’ha mai voluto dire neanche a me che l’ho frequentato per quasi tutta la vita e posso dire di conoscerlo molto bene. Ogni volta che cercavo di affrontare l’argomento lui rispondeva: “Non sono affari tuoi!”. Non era nemmeno possibile capire quali fossero le sue disponibilità, se era ricco, se era povero... Vestiva in modo semplice, guidava - raramente - una vecchia utilitaria, viveva in una casa ben tenuta, non era denutrito, non era troppo grasso: “Ho quel che mi serve” ripeteva ai curiosi sospettosi e forse invidiosi della sua situazione di vita. Altrimenti perché fare domande del genere?“Il senso della mia vita è esserci” questa era la filosofia di Daniel Lo Cuba “Di più a che serve?”“Ci sarà pur qualcosa” gli obiettavo io “che ti piacerebbe fare e che ti darebbe maggior soddisfazione!”“...No”Disarmante.“Ma... quello che scrivi sul tuo quaderno” gli chiedevo ogni tanto “perché non lo pubblichi?”“Perché non credo interessi alla gente” rispondeva lui “Anche se...” “Anche se...?” ripetevo io, sperando sempre che fosse la volta buona.“...in verità è a me che non interessa far leggere i miei scritti” concludeva lui. Ed ogni parola in più diventava inutile.Daniel Lo Cuba era una persona da prendere così com’era, senza mezzi termini: o lo si amava o lo si disprezzava. Una cosa era certa: chi non lo conosceva bene ne poteva dire di tutti i colori ed avere anche ragione; ma non avrebbe mai potuto fare a meno della sua presenza in città, perché, se per Daniel Lo Cuba il senso della vita era esserci, per i suoi concittadini esprimere la loro opinione avversa su di lui era il solo modo per

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sostenere che era la loro vita ad avere un senso, non quella di uno pseudo-scrittore sfaccendato che mai avrebbe fatto leggere il contenuto del suo prezioso quaderno a chicchessia. E di questo Daniel Lo Cuba, uomo tutt’altro che intelligente per chi non lo conosceva bene, godeva grandemente.

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NON E’ MAI DETTA L’ULTIMA PAROLA

Miniou e Danielle erano due simpatici e gentili vecchini che vivevano da ormai molto tempo in una casetta di pietre e legno posta sulla scogliera, proprio di fronte all’oceano. Passavano le loro giornate dedicandosi alle numerose coltivazioni che avevano avviato nel loro campo dietro casa. C’erano pomodori, porri, lattuga, fagioli, patate, e poi fragole, pesche, susine... C’era proprio una bella rappresentanza del mondo vegetale.Potrebbe sembrare che i due signori fossero dei commercianti di frutta e verdura, ma tutto il loro lavoro era dedicato ad avere il necessario per poter mangiare in modo adeguato. Non mangiavano solo frutta e verdura, intendiamoci. Potevano cibarsi del pesce fornito dal grande mare e della carne che veniva dagli animali che allevavano loro stessi.Era una vita serena, semplice, scandita dal ritmo delle stagioni. E lo fu finché un giorno arrivò un ospite inatteso, tanto più inatteso perché da molti anni nessumo passava da quelle parti.Era un signore distinto, dai tratti gentili, avvolto in un grande mantello e con un cappello a larghe falde. Era giunto da chissà dove su un bellissimo cavallo chiazzato. Appena arrivò fece ai due vecchini un saluto molto cordiale e chiese loro se avesse potuto fermarsi per la notte. Naturalmente Miniou e Danielle non si tirarono indietro; provenivano da famiglie allargate per le quali era normale ospitare qualche viaggiatore e condividere le proprie risorse. In vista di quella eventualità avevano ricavato nel fienile una stanzetta arredata con un letto a castello, un armadio e una cassettiera e finalmente sarebbe servita a qualcuno. Appena ebbe sistemato il suo bagaglio nella stanza, il viaggiatore tornò dai due anziani per accogliere l’invito a cenare con loro.

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“Non si aspetti una grande cena, eh!” disse Danielle al suo ospite.“Oh, non si preoccupi, signora” rispose lui “sarà una cena molto gradita dopo giorni e giorni di carne salata e qualche frutto trovato qua e là”“Da dove venite?” chiese Miniou, curioso di conoscere quel distinto signore.“Da molto, molto lontano” disse l’ospite “viaggiare è parte integrante della mia vita, non potrei fare altrimenti”“Ed è lecito conoscere il vostro nome?” chiese Danielle gentilmente.“Oh certo! Mi chiamo... Angelo Desmortes.”I due vecchietti rimasero sgomenti.“La vostra fama vi precede, signor Desmortes” disse Miniou quasi sussurrando.“Si dice che dove passa Angelo Desmortes” aggiunse Danielle “la vita non resti per molto tempo ancora”“Purtroppo è la mia maledizione” disse sconsolato Angelo.Vedendolo molto rattristato, Danielle gli si avvicinò e gli chiese: “E da dove viene questa maledizione?”“Mio padre” disse senza esitare Angelo. Dopo qualche istante di silenzio riprese:“Quando sono nato non volle risultassi discendente della sua famiglia e, accanto al nome scelto da mia madre, mi impose questo... marchio”“E per quale motivo?” chiese Danielle.“Disse che dovevo essere riconoscibile al mondo intero come una malattia che non dà scampo, perché nella notte in cui nacqui mia madre morì e lui mi ritenne responsabile dell’accaduto. E da allora la mia fama, come la chiamate voi, non ha fatto altro che perseguitarmi”Miniou e Danielle non sapevano che dire.“Se pensate sia meglio per voi” disse d’un tratto Angelo “che io tolga il disturbo, prenderò le mie cose e non sentirete più parlare di me”

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Miniou e Danielle si guardarono negli occhi, sapevano capirsi benissimo senza dire una parola.“Non c’è ragione perché dobbiate andarvene signor Desmortes” disse Danielle “saremo lieti di ospitarla per questa notte”Dopo un altro breve scambio di occhiate Miniou aggiunse: “Se le fa piacere può fermarsi quanto vuole, basta che ci dia una mano col lavoro”Angelo Desmortes non si aspettava certo un’accoglienza del genere, abituato com’era a fuggire da ogni villaggio o città in cui si era fermato. Finalmente qualcuno aveva superato il timore di averlo vicino anche solo per pochi minuti e forse il suo continuo vagare aveva trovato una meta.Passarono alcuni giorni, ormai i tre erano diventati una famiglia; Angelo si dava da fare quanto più poteva per aiutare Miniou e Danielle, era uno che imparava in fretta e non si tirava indietro di fronte alla fatica. Si diceva di essere stato fortunato a incontrare delle persone tanto buone.Una mattina si alzò come al solito molto presto e uscendo dal fienile pensò di trovare Miniou già al lavoro, cosa che succedeva praticamente ogni giorno; invece non c’era. Così si diresse verso la casa per fare colazione, ma non sentì lo spensierato canto di Danielle che sentiva ogni mattina; e c’era di più: le persiane erano ancora chiuse. Forse mi sono alzato troppo presto, pensò Angelo. Entrato in casa non trovò nessuno. Chiamò i due vecchini, ma non risposero. Allora decise di salire nella loro camera, chiamò di nuovo; aprendo la porta vide che erano ancora a letto.“Ehi dormiglioni!” disse allegro aprendo la finestra e le persiane.Ma i due vecchini non si mossero. Angelo si avvicinò al letto e appena scostò le coperte dai loro volti si rese conto che non si sarebbero più svegliati. Li seppellì in un punto del campo che era stato preparato proprio il giorno prima per una nuova semina e vi costruì

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intorno una piccola staccionata.Poi si diresse alla stanza nel fienile, deciso a raccogliere tutte le sue cose e partire il più presto possibile: il sogno che sembrava essersi trasformato in realtà era di nuovo un semplice sogno, e la sua fama maledetta persisteva.Stava per salire sul suo bel cavallo chiazzato, quando gli venne alla mente ciò che Miniou gli disse dopo che si sentì ringraziare per l’ennesima volta per la sua ospitalità: “Vedi Angelo, non è mai detta l’ultima parola: io e Danielle pensavamo di passare da soli il tempo che ci restava da vivere, mai avremmo pensato che alla nostra veneranda età avremmo ritrovato il piacere di occuparci di qualcuno; per cui tu, caro Angelo, puoi considerarti a casa tua”“D’accordo” disse Angelo un po’ imbarazzato. “E adesso smettila di dire grazie a me e a Danielle per ogni nonnulla” disse Miniou “ti prego, non ne possiamo più di quella parola!” E insieme scoppiarono a ridere.Sì, quella era casa sua ormai e andarsene avrebbe significato vanificare e addirittura disonorare l’accoglienza di Miniou e di Danielle. Così Angelo Desmortes decise di vivere il resto dei suoi giorni su quel pezzo di terra, dove due simpatici e gentili vecchietti gli permisero di nascere una seconda volta e di ritrovare nella semplice vita di tutti i giorni il senso della propria esistenza.

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PASTICHE

Eugenio Lapillola veniva preso in giro da amici e conoscenti sin dall’età della pietra... no... ehm... così indietro nel tempo non può essere...Dunque, vediamo... Eugenio Lapillola veniva preso in giro da amici e conoscenti dall’età... ah già! Che sciocco sono! Eugenio Lapillola veniva preso in giro da amici e conoscenti sin dall’età dell’infanzia, da quando era nato tutti lo chiamavano Pasticca. Tutto cominciò il giorno in cui venne al mondo. Era talmente piccolo e gracile che l’ostetrica di turno, presa dalla commozione e dalla tenerezza, non riuscì a trattenersi e con le lacrime agli occhi disse: “Sembra una pasticca!”Visto il silenzio di tomba che si era creato fra i presenti e gli occhi sconcertati della partoriente, l’ostetrica con un sorriso imbarazzato si corresse: “Sembra... un pasticcino, ecco... eh eh... è questo che volevo dire”Ma ormai il pasticcio... ehm, no... scusate... la frittata era fatta. In poche ore tutto il paese aveva saputo dell’accaduto; e tanto in fretta i compaesani avevano saputo, che riuscirono ad organizzarsi per far trovare sopra il portone della casa del neonato uno striscione di benvenuto, scritto con caratteri ben disegnati e decorato con ghirlande di fiori di carta.Cosa c’era scritto?Ma sì... una semplice frase di benvenuto...Devo dirlo? Devo proprio?Va be’; io, come disse il romano, me ne lavo le mani. Sullo striscione c’era scritto così: “Benvenuto Pasticca! Che tu sia sempre pieno di salute!”Potete immaginare lo sconcerto di mamma e papà Lapillola nel

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giorno di ritorno a casa quando videro... quella specie di augurio strafottente! A quanto pare anche il piccolo Eugenio ne risentì, perché improvvisamente scoppiò in un pianto disperato che nemmeno le tre poppate successive riuscirono a contenere.Gli anni passarono, Pastic... no no no... volevo dire Eugenio cresceva bello sano e forte. Una forza che in parte gli veniva dalla sofferenza dell’essere additato, ma aveva imparato a farsi valere con chi decideva di affrontarlo a viso aperto.A dispetto della sicurezza orgogliosamente esternata, quel soprannome sussurato ogni santo giorno ad ogni angolo del paese gli pesava sempre di più.Compiuta la maggiore età decise di andarsene all’estero, dove nessuno lo conosceva e dove avrebbe potuto costruirsi una nuova vita in santa pace, benché lontano da mamma e papà che amava tanto.Passarono altri anni, nessuno in paese sembrava ricordarsi ormai di Pasticca; o meglio: qualcuno si chiedeva ogni tanto se altri ne avessero avuto notizie, ma non ricevendo risposte certe, tanto meno dai suoi familiari, tornava ad interessarsi delle proprie cose come aveva fatto poco prima.Un giorno arrivò il circo; il tendone venne innalzato proprio accanto al campo sportivo comunale. I manifesti di cui vennero tappezzati i muri di case e palazzi annunciavano festa grande e divertimento garantito. I bambini erano follemente eccitati dalla possibilità di vedere lo spettacolo, perché un circo da quelle parti non era mai arrivato. Oltretutto era il Grande Circo di Francia e questo sembrava incuriosire ancora di più tutti quanti.Il giorno del primo spettacolo tutti i posti sotto il tendone erano occupati e tutti gli spettatori aspettavano con impazienza l’entrata degli artisti per applaudire le loro mirabolanti esibizioni. Così si susseguirono giocolieri, trapezisti, animali, domatori... fino al momento più atteso dai bambini, il momento dei clowns.“Ed ora, mesdames e messieurs” annunciò il direttore con il

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tipico accento francese “sono veramente felice di presentarvi la stella del nostro circo; bambini e bambine, preparatevi a ridere a crepapelle, perché è venuto il momento di far entrare il grande Paaaaastiiiiiiche!!!”E con una musica allegra e spumeggiante arrivò di gran corsa il clown Pastiche, su un triciclo gigante, pieno di colori sfavillanti. Iniziò a girare attorno alla pista, salutando con gran foga tutti i bambini posti in prima fila e dopo i primi giri cominciarono pantomime e ruzzoloni che fecero divertire il piccolo e grande pubblico in maniera superba.Dopo alcuni minuti di risate rimbombanti e grida di gioia, Pastiche simulò uno starnuto: “Eeeeh... eeeeeeehh... eeeeetchù!!” E tutti gli spettatori risposero in coro: “Salute!”Allora Pastiche cominciò a parlare: “Eh già” disse con accento francese “voi ridete, ma qui rischio di prendermi un bel rafredore” E con un fazzoletto che sembrava un asciugamano si soffiò il naso rumorosamente e tutti quanti risero di nuovo a gran voce.“Ah, vi divertite alle mie spale, eh?” disse il clown dopo un altro starnuto.“Ti ci vorrebbe una pasticca!” urlò un bambino dopo un’altro attacco di risa generale. E subito... si fece un silenzio di tomba.“Oh, se è per questo, picolo mio...” disse calmo Pastiche dopo essersi avvicinato “io sono... una pastica vivente!!!” gridò improvvisamente. E togliendo dalla tasca una grande scatola di caramelle cominciò a distribuirle a piene mani a tutti i bambini presenti, mentre la musica con cui era entrato in pista riprese allegra e spumeggiante. Poi, dopo un ultimo lancio di caramelle, il clown Pastiche, al secolo Eugenio Lapillola ribattezzato Pasticca, prese il suo grande triciclo colorato e uscì di scena fra gli applausi scroscianti di grandi e piccini.

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ESSERE VIVI

“Che cosa vorrà dire essere vivi?” si chiese un bel giorno la Morte “Che sensazioni darà vivere? Mi piacerebbe proprio scoprirlo prima o poi!”Non è che le ci volle molto per deciderlo, perché appena un secondo dopo averci pensato si impossessò della vita di un uomo che stava spensieratamente passeggiando nel parco della sua città.Gli ci volle un po’ di tempo per adattarsi al nuovo status di essere vivente...Gli ci volle...? O le ci volle...?No, perché il dubbio esiste: la Morte è maschio o è femmina? E’ donna o uomo? Qualcuno ha una risposta?Intanto, visto che il corpo di cui la Morte quel giorno si servì per saziare la sua curiosità era quello di un uomo, lo considererò maschio. Be’, non è il caso di lanciare i soliti slogan del tipo “sei un maschilista, adeguati ai tempi che le donne ora sanno farsi intendere!” Stereotipi! Da quando si sventola la parità dei sessi non ci si capisce più nulla! Ma ora non è questo che mi interessa raccontare.Tornando al nostro... protagonista, egli restò per qualche minuto nascosto dentro il cespuglio dove aveva scagliato senza preavviso il prescelto a divenire involucro corporeo: la realtà supera sempre la fantasia e per quanto si valutino i cosiddetti pro e contro l’esperienza diretta stravolge parametri e convinzioni. Perciò la Morte dovette abituarsi a distinguere forme e colori, a sentire odori gradevoli e sgradevoli, ad ascoltare suoni provenienti da ogni dove, a provare caldo e freddo... e a percepire il riverbero dello spavento provato dal suo ignaro ospite...

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Comunque non gli ci volle molto per trovare l’equilibrio necessario, era un allievo desideroso di imparare, sufficientemente aperto per assimilare il significato intrinseco di ogni esperienza nel minor tempo necessario. E questo era un vantaggio, soprattutto perché ancora non c’era un maestro.Uscito dal suo nascondiglio, si mise a camminare con andamento rilassato, cercando di imitare il passo che aveva osservato qualche attimo prima di intervenire sul suo... strumento di interazione nel reale. Cominciò ad assaporare il calore del sole sul corpo - fin troppo caldo - o la luce pomeridiana su tutto il mondo circostante; poté sentire anche qualcosa di invisibile che sentiva accarezzargli il viso con delicatezza; poi, osservò rapito due bambini intenti a scrutarsi l’un l’altro con l’aria di chi sta osservando la novità assoluta... o era lo sguardo interrogativo di chi aveva già visto quel faccino che ora lo guardava con occhi curiosi?Già gli stava piacendo tutto, era eccitato, si sentiva felice... Felice?! E che strana sensazione era quella che ora lo stava assalendo?“Gelati! Freschi gelati al gusto di crema, nocciola, banana, avogadro, fragola, lampone!” Morte si sentì inspiegabilmente attratto da quell’annuncio e si avvicinò incuriosito. Visto che se ne restava lì a guardare senza dir niente, l’uomo vestito di bianco gli chiese: “Che gusti, giovanotto?”“Prego?” disse Morte come risvegliato da un lungo sonno.“Lo prendiamo un bel gelato?” propose il gelataio con un sorriso accattivante.“Oh sì, certo, grazie!” rispose Morte.Scusate l’interruzione... Morte, scusami, vorresti vedere come si chiamava il tuo prescelto e dirmelo? Sai, non è il caso di farti chiamare col tuo vero nome. Non è proprio un nome qualsiasi, capisci? Guarda un po’ se ha dei documenti.Sì, allora... si chiamava... Belanger Dionisious.Oh, ora va meglio. Riprendiamo.“Oh sì, certo, grazie!” rispose Dionisious.

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“Cinquanta centesimi” disse l’omino.“Come?” chiese nuovamente il redivivo.“Cinquanta centesimi! Moneta, mio caro! Entiende?” ammiccò l’omino, sfregando velocemente pollice e indice della mano sinistra.“Oh, certo!” disse Dionisious cercando nelle tasche di giacca e pantaloni “Ecco qua... trenta, quaranta e... cinquanta”“Ed ecco il suo gelato!” disse il gelataio con un sorriso soddisfatto.Anche il nostro era soddisfatto, riprese la sua prima passeggiata tra i viventi e cominciò ad assaggiare il suo primo gelato. Non poteva credere alle sue nuove papille gustative! Quel gelato era un nettare mai provato! Tanto era preso dalla nuova entusiasmante esperienza che Dionisious neanche si accorse di venire travolto e sbattuto a terra da una donna sbucata in piena corsa da un sentiero laterale.“Mi scusi! S’è fatto male?” chiese la donna appena ripresero entrambe la posizione eretta.“No, non mi sono fatto niente” rispose Dionisious guardando sconsolato ciò che restava della sua leccornia.“Margie” disse lei allungando la mano.“Mo... ehm, Dionisious” fece lui rispondendo al gesto. Rimase come sospeso quando sentì la mano di Margie nella sua, non poté fare a meno di portare il suo sguardo sulla stretta appena provata e indugiare in quel contatto. “Scusi, sa, quando corro sono in una sorta di trance” disse lei per niente turbata dall’atteggiamento di lui.“Oh no, non fa nulla” ribatté Dionisious lasciando malvolentieri la presa.“Bene, allora... ci si vede...” disse imbarazzata Margie.“Ok, ci si vede” Dionisious rimase a guardarla mentre si allontanava e nello stesso tempo restò in ascolto di tutte le sensazioni che stava sperimentando in quel momento. Provava piacere, imbarazzo,

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si sentiva fremere... C’era però un’emozione fra le altre che in qualche modo lo turbava, ma ancora non riusciva a definirla.Decise di prendersi un altro gelato. Poi, tutto contento di poter riprendere la dolce esperienza interrotta, si diresse verso un assembramento di persone che sembravano divertirsi molto a sentire qualcuno che cantava una canzone molto allegra; si sentì coinvolgere dal ritmo che animava tutti i presenti e si accorse che gli piaceva molto.D’un tratto qualcuno alle spalle gli prese un braccio e gli puntò qualcosa sulla schiena che gli provocò dolore, sentì un fremito che gli partiva dall’intestino e senza avere tempo di reagire fu trascinato dietro un cespuglio lì vicino.“Dammi tutto quello che hai” intimò una voce minacciosa “o finisci al creatore!”Dionisious estrasse il portafogli, si tolse l’orologio, l’anello che aveva a un dito e passò il tutto dietro di sé. Il ladro prese tutto quanto frettolosamente e con uno spintone fece sbattere il malcapitato sul tronco di un albero. Dionisious cadde a terra tramortito.Appena si riprese, si accorse di provare ancora quell’emozione, quella che appena dieci minuti prima non era riuscito a cogliere del tutto, la stessa di cui aveva sentito gli strascichi quando si era impossessato di quel corpo... Cominciò a sudare.Quella era paura, quella era la sensazione che più emergeva fra tutte le altre. E oltretutto, quella non era una paura qualsiasi, quella era... paura di morire.

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L’ALLOCCO

“Non sono un allocco...” andava ripetendosi piagnulando Midùn mentre vagava a testa bassa per il bosco.“Che succede, piccolo uomo?” chiese un nano che lo incontrò per caso.Midùn, tirando su col naso e guardando di sottecchi, rispose:“Niente che ti interessi!”“Oh su, Frasto è qui per aiutarti, non per farsi gli affari tuoi” ribatté il nano.“Frasto? Ma che razza di nome è?” chiese Midùn alzando gli occhi pieni di lacrime.“Be’, sempre meglio che essere chiamato... allocco” disse Frasto con voce benevola.E Midùn scoppiò di nuovo in lacrime.“Su su, piccolo mio!” disse consolatorio il nano “Non è così grave!”“Che ne sai tu?” gridò Midùn cercando di allontanarlo.“Mi vuoi raccontare chi e perché ti ha dato dell’allocco?” chiese Frasto mettendosi le mani ai fianchi.Dopo qualche altro lieve singhiozzo Midùn decise di confidarsi:“E’ stato mio fratello... lui mi racconta sempre quello che fa, chi incontra, cosa ha visto, ma tutte le volte” disse il bambino riprendendo a piangere “mi parla di cose che si inventa lì al momento e io ci casco sempre!”Frasto rimase in silenzio.“E poi” riprese Midùn “scoppia a ridere e mi dice che sono un allocco!”Lacrime e lamenti continuarono abbondanti.“Allora, oggi..., sono andato dalla mia mamma a raccontarle tutto e anche lei...” Non riuscì a finire la frase perché esplose di

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nuovo in un pianto disperato.“Ti ha detto che sei un allocco” disse con voce sconsolata Frasto.“E poi... e poi... ho deciso di andare dal mio papà...” continuò Midùn “non mi ha neanche lasciato finire e lui...”“...ti ha chiamato allocco?” chiese il nano.“No...” sussurrrò il bambino.“Ah, meno male; e cosa ti ha detto allora?”“Che sarò un allocco per sempre!” disse Midùn continuando a piangere e ad urlare.Frasto lo lasciò sfogare e quando lo vide più calmo gli chiese:“Ma tu sai cos’è un allocco?”Midùn lo guardò perplesso.“L’allocco è un uccello” disse il nano con tono misterioso “e non un uccello qualunque, sai?”“Ah no?” chiese Midùn incuriosito.“E’ un rapace” disse Frasto.“Un che?!” ribatté il bambino.“Un rapace, è della famiglia dei gufi e delle civette, ed è un uccello cacciatore”“Davvero?” chiese Midùn sbalordito.“Eh già! E caccia soprattutto di notte!” aggiunse Frasto con un gran sorriso.“Allora...” accennò il piccolo con lo sguardo illuminato.“Allora” continuò il nano “un animale così, che vede le sue prede nel buio della notte e poi le cattura, puoi dire che non sa distinguere le bugie dalla verità?”“Certo no!” disse Midùn con voce gaia.“Anzi” disse Frasto con enfasi “chi ti dà dell’allocco non sa di cosa parla e così finisce per farti un complimento!”“Sììì!” urlò il bambino tutto contento e prendendo il nano per le mani si mise a saltellare con lui a dritta e a manca.“Sono un allocco! Sono un allocco!” cominciò a canticchiare Midùn e, dopo aver salutato Frasto con un abbraccio, si diresse verso casa correndo a braccia aperte, come fossero le sue ali.

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SORELLINA

‘E’ venuto il giorno delle mie nozze e non ho ancora un nome tutto mio!’Tutti la chiamavano Sorellina, sempre e solo Sorellina. Quando nacque, suo padre, il capo del villaggio, vedendo quanto fosse carina, tenera e tanto bella già solo un’ora dopo che era nata, non se la sentì di darle un nome qualsiasi. “E’ necessario un periodo di buona riflessione per sceglierle il nome adatto!” così sentenziò il capo-villaggio dopo aver tenuto in braccio la figlioletta appena nata per qualche minuto “Per ora verrà chiamata Sorellina, e tutti i bambini del villaggio la considerino la propria sorella maggiore”“Ma è la più piccola!” obiettò la madre, ancora stremata per il parto.“Piccola sì, ma essendo mia figlia deve essere considerata la prima di tutti”Così fu deciso, e nel villaggio una decisione di Ghidion veniva considerata legge.“Sai che il tuo periodo di buona riflessione” gli fece notare un giorno la moglie “è durato finora ventidue anni? Non credi sia venuto il momento di dare un nome a quella povera ragazza? Tra due giorni si sposa, te ne rendi conto?”Ghidion non disse niente, se ne rimase cupo davanti alla finestra, con le mani dietro la schiena a fare su e giù con i piedi.‘Già!’ rifletté tra sé ‘Ma quale nome darle!’Dopo qualche altro minuto, iniziò a chiamare la figlia: “Sorellina! Sorellina!!”Non vedendola arrivare decise di andarla a cercare. Fece passare camera sua, lo studio, la biblioteca, la sala da pranzo, andò perfino in cucina, ma di Sorellina nessuna traccia.“Dulcea!” chiamò impaziente Ghidion.

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“Che c’è?” chiese la moglie allarmata.“Dov’è tua figlia? Le voglio parlare”“Come si vede che non conosci ancora tua figlia!” disse Dulcea con tono intransigente “Lo sai che quando è preoccupata o in ansia si rifugia nel gazebo!”“Preoccupata? E perché mai?”disse Ghidion dirigendosi verso il giardino. Non potè avvedersi dello sguardo di ri mprovero di sua moglie.‘Eh sì! Eccola là...’ Ghidion non poté fare a meno di fermarsi qualche istante a guardare estasiato sua figlia: seduta sul gradino, con il mento appoggiato ad una mano, a far disegni sul terreno con un piede... Sì, non era serena.Poi fece un bel sospiro e si diresse deciso verso di lei:“Sorellina! Ti devo parlare!”Sorellina non alzò neppure lo sguardo e continuò a canticchiare il motivetto che le cantava proprio suo padre, tanto burbero quanto tenero, ogni sera prima di andare a letto... almeno fino alla sua maggiore età.Vedendo l’impassibilità di sua figlia, Ghidion le si sedette accanto. Rimase un po’ in silenzio con lei, cominciò a canticchiare anche lui quella canzone tanto cara, finché, padre e figlia, si ritrovarono a cantarla insieme guardandosi negli occhi.“Senti, Sorellina...” iniziò Ghidion.“Resterò per sempre Sorellina?” interruppe dolcemente la ragazza.“Ho sempre avuto timore di scegliere un nome per te” disse il padre quasi sussurrando.“Perché?” chiese Sorellina.“Perché tu sei una persona speciale e la bellissima figlia di Ghidion, capo del villaggio, e di Dulcea, sua adorabile sposa, non può avere un nome qualsiasi”“Sta di fatto” ribatté la figlia “che Sorellina è un nome qualsiasi”“Però nessun altro nel villaggio si chiama Sorellina” le fece notare Ghidion.“Già! Forse perché non è un vero e proprio nome” disse a sua

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volta Sorellina.Rimasero in silenzio per molto tempo, entrambe col mento appoggiato ad una mano e a disegnare chissà cosa con la punta delle scarpe.“Ghidion! Sorellina!” li chiamò Dulcea “A tavola!”Padre e figlia si alzarono insieme e si avviarono verso casa l’una sottobraccio all’altro.A cena nessuno parlò molto, ma dopo il dessert Ghidion disse con enfasi:“Allora! Sei pronta al grande passo, figlia mia?”Sorellina tenne lo sguardo sul piatto per qualche istante e poi rispose:“Se avessi un nome tutto mio lo sarei senz’altro di più!”“Bene!” disse Ghidion “Allora perché non lo scegli tu? Scegli il nome che più ti piace e per me andrà bene!”“Da quando in qua sono i figli a scegliere il proprio nome? Perché dovrei essere io a cambiare le cose?” disse Sorellina con tono triste.Ghidion non sapeva più che dire.“D’accordo!” disse un attimo dopo “Domattina, dovessi star sveglio tutta la notte, avrai il tuo nome! Cascasse il mondo, domattina avrai un vero e proprio nome!”Sorellina sorrise e strinse la mano del padre. Dulcea li guardava commossa.Il mattino dopo, Sorellina trovò Ghidion addormentato sulla poltrona dello studio. Sulla scrivania intravide un foglio scritto fitto fitto: quando lo prese in mano si accorse che era un elenco interminabile di nomi femminili. ‘Si è proprio messo d’impegno!’ disse tra sé.Poi, mentre rimetteva quel foglio dove l’aveva trovato, scorse, appoggiata alla sua fotografia, una busta con scritto sopra: ‘Per la mia adorata figlia’.Rimase attonita, immobile, quasi impaurita di aprire quella busta e trovarci chissà quale nome. Si fece coraggio, prese la busta e si diresse verso il suo amato gazebo.

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Il sole era ancora basso sull’orizzonte, ma il cielo era talmente terso che i colori del giardino risaltavano vivaci, quasi che fiori e piante fossero dipinti più che essere reali.Si sedette sul suo gradino e appoggiò il mento sulla mano dove teneva la busta col suo nome. Senza quasi farci caso, si mise a cantare la canzone di suo padre e sul terreno disegnò un arcobaleno sopra un fiore sbocciato.‘E’ il momento di aprire questa busta’ si disse Sorellina sospirando.La aprì lentamente, ascoltò con stupore il fruscio della carta fra le sue mani... estrasse un foglietto ripiegato in due, lo guardò, lo annusò, se lo mise vicino alle orecchie mentre ci passava sopra un dito, ed infine cominciò ad aprirlo con delicatezza, come fosse un fiore molto fragile. Intravide qualche sillaba scritta in bella grafia, sembrava ci fosse scritto più di un nome... no, era una lettera!‘Carissima adorata figlia mia, dopo una lunga e accurata ricerca e alcune ore di buona riflessione, sono giunto alla conclusione che forse il tuo nome avrei dovuto farlo scegliere a tua madre il giorno in cui sei nata. Qualsiasi nome io considerassi, per l’amore che nutro per te, mi sembrava non potesse esprimere tutto ciò che sei, certo neppure Sorellina. Ma ti ho fatto una promessa e per mantenerla ho scelto un nome che sarà soltanto tuo, e questo nome, sperando che sia di tuo gradimento, è...’ Sorellina girò il foglio, guardò di nuovo nella busta... niente.“Oh, papà...!” disse sorridendo.

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ARTENA

Si diceva in paese che fosse una strega buona, molti non si fidavano di lei, ma Artena era solamente una ragazza più sensibile della media.‘Be’, anche un po’ di più oltre la media, visto che sapeva prevedere gli eventi’Sì, è vero, ma questo accadeva solo attraverso i suoi disegni. Dire che avesse un qualche potere divinatorio mi sembra eccessivo. Tanto più che non aveva controllo su questa sua facoltà e sempre si era rifiutata di rispondere a una qualsiasi richiesta di previsione del futuro. ‘Ma l’uragano l’aveva previsto!’Solo perché due ore prima aveva dipinto una tromba d’aria non vuol dire che l’avesse prevista, sicuramente aveva sentito qualcosa, ma non in modo consapevole. Lei non pensava di avere un potere particolare e quasi non credeva a chi le faceva notare alcune... coincidenze.“Io dipingo, non decido neanche cosa” era solita dire “inizio da uno schizzo e poi il quadro prende forma quasi da sé”Ad Artena piaceva molto dipingere, era il suo canale privilegiato per esprimere il suo mondo interiore, quello più profondo, inconscio. Certo i risultati lasciavano senza parole, ma in ogni casa c’era almeno un suo dipinto. Era innegabile che Artena fosse una persona con un grande dono.Io la vidi per la prima volta un giorno di maggio, lungo il fiume che divide la valle esattamente in due, come le pagine di un libro. Stava sulla sponda opposta, aveva un grande cappello e davanti a sé aveva posto un cavalletto con una tela; naturalmente stava dipingendo.Ad un certo punto lei smise di dipingere e guardò verso di me.‘Non si sarà mica accorta che la stavo guardando!?’ pensai.

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Lei alzò un braccio e mi salutò. Forse intuì il mio stupore e la conseguente titubanza a contraccambiare il saluto, perché, quasi subito, Artena si alzò in piedi, si portò proprio vicino alla riva e mi salutò con entrambe le mani. A quel punto non ebbi dubbi, stava salutando me e quindi risposi al saluto.Poi, con il gesto della mano mi invitò a raggiungerla; cercai di farle notare in qualche modo che il ponte più vicino era qualche chilometro più a monte. Lei fece il gesto di nuotare; al che io - non ci potevo credere! - le feci segno che non sapevo nuotare.Allora lei fece spallucce e cominciò a risistemare le sue cose per andarsene.Il giorno dopo, di buon mattino, decisi di andare ancora sul fiume: non nascondo che mi sarebbe piaciuto rivedere Artena. Lei c’era, eccome! Solo che stavolta la trovai sulla mia sponda...Appena arrivai nei pressi della riva lei, con pennello e tavolozza tra le mani, si girò verso di me, mi fece un gran sorriso e con tono gaio mi disse: “Buongiorno!”“Buongiorno...” risposi un po’ impacciato.“Bella giornata per un gita sul fiume, non trova?” disse lei guardandosi intorno. E dopo un altro sorriso riprese a dipingere.Superato l’imbarazzo di trovarmela davanti, così accogliente ed enigmatica allo stesso tempo, mi avvicinai un po’ di più a lei.“Cosa dipinge?” le chiesi.“Sto ultimando il quadro che ho iniziato ieri” rispose lei senza togliere lo sguardo dalla tela.Appena vidi il soggetto del dipinto rimasi quanto meno sbigottito. Era la scena del giorno prima: un fiume, una donna che dipinge su una riva e un uomo dall’altra parte che saluta con entrambe le mani.“E’ sicura... di averlo iniziato ieri?” le chiesi incerto.“Che domande?” rispose lei un po’ stupita “Certo che ne sono sicura!”“Ah!” dissi io.Dopo un lungo silenzio Artena posò tavolozza e pennello e

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disse:“Ecco! Finito! Qualche minuto che si asciughi e poi può portarselo via”“Come?” chiesi basito.“Non lo vuole più?” mi chiese lei.“Cosa?” feci io.“Ma il dipinto! Non è qui per quello?” ribatté lei con sguardo sorpreso.“Ma... io veramente... non pensavo...” Mentre dicevo questo mi accorsi che il dipinto era cambiato: il fiume era lo stesso, ma ora la donna che dipingeva era sull’altra riva e stava consegnando il quadro all’uomo che in precedenza la salutava.“Ma... è cambiato?” le dissi titubante.“Cosa?” chiese lei.“Il quadro” dissi io.“Dice?” rispose lei, osservando la tela con la testa reclinata di lato “Mmm... direi di no”“Come no?” ribattei io “Prima era diverso!”“Va bene... Se lei ritiene sia diverso...” disse Artena porgendomi il dipinto “d’accordo. Ma d’altronde, si può dire che ciò che vediamo... o sentiamo... guardandoci intorno sia sempre lo stesso?”

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LA CORRIERA

“E’ già arrivata la corriera?” chiese impaziente il direttore.“Quale corriera?” domandò la segretaria.“Come quale corriera?” chiese il direttore giungendo le dita delle mani “Non stiamo aspettando un pacco da...? Va be’! Cosa le hanno detto quelli della compagnia?”“Io non ho sentito la compagnia” disse la segretaria.“Ah già, ho risposto io quando hanno chiamato, lei non c’era” Il direttore andò nel suo ufficio e tornò con un bigliettino:“Ecco qua: hanno spedito il pacco con la corriera, il cui arrivo è previsto per le 9 e 15. Invece sono le 9 e mezza” sbottò guardando l’orologio “ma la corriera non è ancora arrivata!”“Ci sarà stato qualche contrattempo” azzardò la segretaria.“Gli imprevisti sono da prevedere!” sentenziò il direttore “Negli affari non c’è posto per gli affanni!”Dopo qualche minuto entrò nell’ufficio l’attendente.“...o pacco?” Aveva iniziato la domanda ancor prima di aprire del tutto la porta.La povera segretaria non poté far altro che chiedere: “Prego?”“Voglio parlare col direttore!” disse l’avventore alquanto nervoso.“A proposito di cosa, mi scusi?” chiese la segretaria.“Del mio pacco, che diamine!” disse l’attendente battendo una mano sul bancone.“Un attimo...” La segretaria non riuscì nemmeno a sollevare il ricevitore del telefono che l’attendente stava già aprendo la porta dell’ufficio del direttore.“Allora? Il mio pacco?” disse che ancora non era entrato.“Il suo pacco... - signor attendente! - dovrebbe arrivare con la corriera” rispose il direttore con tono dimesso.

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“E quindi?” domandò l’attendente appoggiando i pugni sul tavolo.“Purtroppo...” il direttore deglutì “la corriera non è ancora arrivata...”“Sono le 9 e 34 minuti e la corriera non è ancora arrivata?!” urlò l’attendente sbracciandosi. E sbattendo la porta uscì, con grande sollievo del direttore.Non passarono neanche cinque minuti che entrò nell’ufficio la moglie dell’attendente.“Signorina, buongiorno” disse gentilmente alla segretaria.“Buongiorno, signora” salutò l’impiegata “Che posso fare per lei?”“Ho appena visto uscire mio marito dal vostro ufficio e mi chiedevo se lei, cortesemente, potesse dirmi il motivo per cui si trovava qui” In quell’istante il direttore uscì dal suo ufficio.“Mi chiami la compagn... Oh, signora” disse accorgendosi della moglie dell’attendente “a che debbo l’onore della sua presenza qui?”.“La signora stava chiedendo cosa...” tentò di dire la segretaria.“Si accomodi nel mio ufficio, prego!” disse il direttore, lanciando uno sguardo di rimprovero alla sua dipendente.“Volevo solo conoscere il motivo” disse la signora appena si sedette “della visita di mio marito”“Suo marito?” fece il direttore, con aria innocente.“Sì, l’ho visto uscire di qua qualche minuto fa” “Ah, suo marito! Certo! E’ passato per ritirare...” il direttore si interruppe di botto.“Cosa?” chiese la moglie dell’attendente con tono diffidente.“Per ritirare...” il direttore cominciò a sudare: l’attendente gli aveva chiaramente proibito di dire alla moglie del pacco.“Per ritirare cosa?” chiese minacciosa la signora.“Per ritirare...” riprese il direttore dopo un attimo di grande impaccio “un pacchetto per lei!”“Per me?” domandò la moglie dell’attendente sbattendo le

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ciglia.“La prego, signora, non dica a suo marito che gli ho... rovinato la sorpresa!” implorò il direttore.“Oh, non si preoccupi” disse la signora con voce velata “una moglie sa sempre tenere un segreto!”E senza aggiungere altro se ne andò.Il direttore si lasciò cadere sulla poltrona, era stremato.Subito suonò il telefono: “Sì?” “C’è qui l’attendente, signor direttore” disse la segretaria all’altro capo.“Lo faccia entrare” disse il direttore sospirando.“Allora? Questa corriera, arriva o non arriva?” domandò l’attendente con tono alterato.Il direttore si alzò di slancio, andò dalla sua segretaria e le chiese sussurrando: “Cosa ha risposto la compagnia?”“Non ho chiamato la compagnia!” rispose la segretaria.“Lo faccia immediatamente!” sibilò il direttore.“E’ strano” disse tornando nel suo ufficio “di solito è in orario”“Non è sufficiente, non crede?” disse l’attendente impaziente.Suonò il telefono.“Sì?” il direttore ascoltò in silenzio e poi disse “La faccia attendere. Signor attendente, ora ho un impegno, appena so qualcosa la chiamo”Appena la porta fu aperta, i due uomini rimasero imbambolati di fronte allo spettacolo sfolgorante che si parò davanti ai loro occhi: in piedi, appoggiata al bancone, c’era una donna bellissima, alta, capelli lunghi e vaporosi, vestita con jeans e maglietta molto attillati. “Ha insistito per parlare con lei, direttore” disse la segretaria con tono risentito.In quel momento entrò anche la moglie dell’attendente, che al vederla sbiancò.Senza aspettare di essere interpellata, l’avvenente signorina si diresse verso il direttore porgendogli un pacco. “Mi deve scusare, signore” disse estraendo una penna dalla

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tasca dei pantaloni “ma stamattina il traffico era pazzesco!”“No, è lei che mi deve scusare, signorina” disse il direttore firmando una ricevuta “ma... lei chi è?”“Come? Non l’hanno avvisata?” chiese la donna volgendo lo sguardo anche sugli altri presenti.“Avvisato di cosa, signorina?” ribattè il direttore il più gentilmente che poté.“Che il vostro pacco sarebbe arrivato stamattina” disse la donna.“Sì! Ma lei chi è?” chiese di nuovo il direttore.“Quella che doveva portarvi il pacco: Dalila Corriera”

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IL FASCINO DEL NON SAPERE

La vedevo uscire ogni sera, verso le dieci, alla guida della sua decapottabile nera. Me ne accorgevo perché lo studio veniva illuminato dalle luci bianche della retromarcia e dal rosso intenso degli stop: ero solito leggere qualcosa prima di andare a letto e accendendo solo la lampada vicino al divano, il resto della stanza restava in penombra, per cui non era difficile notare illuminazioni che provenivano dall’esterno.Non ho mai avuto l’occasione di incontrare quella donna, non so neppure come si chiamasse. Certo che abitare a cinquanta metri da qualcuno e non sapere neanche il suo nome...Era una bellissima donna, alta, dal fisico longilineo; aveva un’eleganza misurata, nei movimenti, nei gesti, sembravano rallentati; lo sguardo era sempre un po’ triste... Chissà perché una bella donna ha un certo non so che di attrattiva in più se è triste... O forse attira me...Ricordo che aveva una sorella, più piccola, ma altrettanto bella, sembrava lei con qualche anno di meno. Mi chiedo come fosse la madre... o avrà preso dal padre?Ogni volta che la vedevo uscire mi chiedevo se fosse per lavoro o per divertimento, perché ogni sera alla stessa ora... è un appuntamento fisso. Anche durante il giorno la vedevo, il più delle volte mentre rientrava a casa; lasciava l’auto nel vialetto, che dal mio studio potevo vedere chiaramente. Quando scendeva dall’auto volgeva lo sguardo verso la mia finestra, come se volesse ricambiare le mie attenzioni. In effetti non sapevo niente di lei, ma mi ci ero affezionato; e forse mi ci ero affezionato proprio perché non sapevo niente di lei. Ci si preoccupa sempre di una bella donna che esce ogni sera verso le dieci... un uomo si preoccupa; una donna sarebbe già

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saltata alle conclusioni, soprattutto una moglie. Io sono tranquillo da questo punto di vista: non sono sposato, né sono fidanzato, e chissà mai se avrò una compagna.Dicevo che ogni volta che la vedevo arrivare avevo l’impressione che volgesse i suoi occhi verso di me: fantasie maschili? Be’... Mi piaceva immaginare che ci fosse una certa reciprocità, come un’amicizia a distanza, o un incrocio intenso di sguardi con qualcuno che si incontra per la strada.Il fascino del non sapere...La curiosità è una peculiarità umana, ma per alcuni - molti - ha maggior forza il desiderio di soddisfarla, di non avere dubbi sul mondo circostante. Il punto è che molti - troppi - piuttosto che avere dubbi su una persona considerano reali le proprie ipotesi o le opinioni espresse dagli altri.Però penso sia possibile vivere nel dubbio, in quella incertezza che fa dire ‘non so’ senza l’ansia di sapere; e fino al momento di scoprire qual è la verità, sempre che ciò sia possibile, potersi godere quello stato di... indeterminatezza, che lascia aperta ogni possibilità; in fondo è il presupposto di ogni ricerca. Anche perché, se mi convincessi della fondatezza delle mie idee o dessi semplicemente adito a ciò che altri dicono su una persona o su un evento - e figurarsi riguardo a una bella donna che esce ogni sera verso le dieci con la sua decapottabile nera - potrei considerare una persona o una qualsiasi realtà col necessario distacco per lasciarmi poi stupire da un’evoluzione che potrebbe andare ben al di là di ogni mia aspettativa?

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LA SCUOLA DELLA MUSICA DAL VIVO

Il cortile era pienissimo di gente, c’erano persone più o meno giovani, uomini e donne, musicisti, cantanti o semplici appassionati. Tutti attendevano di essere chiamati per sostenere l’audizione superata la quale era possibile frequentare i corsi di quella che fu chiamata ‘La scuola della musica dal vivo’.Era circa un anno che tutti i mezzi di comunicazione pubblicizzavano questa novità. Radio, giornali, televisioni e affissioni lanciavano slogan di ogni tipo, che venivano rinnovati di settimana in settimana: era necessario tener vivo l’interesse per una proposta che sembrava rivoluzionare il mondo della musica.“Non vedo l’ora di far sentire le mie canzoni” diceva qualcuno.“Chissà come ci si divertirà!” ipotizzava qualcun altro.“Buongiorno e benvenuti a tutti!” si sentì improvvisamente dagli altoparlanti “Sono Giona Cabis, uno dei fondatori e preside della ‘Scuola della musica dal vivo’. Prima di dare inizio alle audizioni, tenevo a dire a tutti quanti... che non dovete farvi troppe illusioni... di realizzare i vostri sogni, nel caso sarete ammessi ai corsi. Ho sentito qualcuno che diceva di voler diventare un grande compositore, altri che sognano di migliorare il proprio canto, altri ancora che vogliono affinare la propria tecnica... Be’, non è questo l’approccio giusto per divenire allievi di questa scuola”Il preside sembrava non volesse continuare il suo discorso e dopo un lungo momento di silenzio - a parte il brusio generale a commento di quanto sentito - qualcuno domandò:“Allora? Qual è il giusto approccio?”“Oh, finalmente!” disse Giona Cabis al microfono “Pensavo che ormai nessuno si sarebbe azzardato a chiederlo, ero già pronto

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a chiudere i battenti ancor prima di iniziare. Intanto toglietevi dalla testa qualsiasi aspettativa, e poi quelli che saranno ammessi scopriranno qual è la giusta predisposizione. Ed ora si dia inizio alle audizioni, i risultati saranno resi noti domani mattina”Il brusio riprese corposo, le persone esprimevano dubbi, domande su come mettere da parte le proprie aspettative, qualcuno se ne andò deluso, altri sentirono crescere la propria curiosità. Ci vollero parecchie ore perché tutti gli aspiranti allievi fossero ascoltati; man mano che il tempo passava il cortile si svuotava, anche se molti erano rimasti tutto il tempo, alcuni ad aspettare gli amici con cui erano venuti, altri per chiacchierare con l’amico appena conosciuto, altri ancora che speravano di scoprire di lì a poco quale fosse l’arcano di quella scuola. Si formarono qua e là anche dei piccoli assembramenti, a creare mini-concerti nati attorno a chi aveva iniziato a suonare qualcosa, a cantare una melodia, o si era avvicinato solo per ascoltare e poi si era trovato a scandire il tempo schioccando le dita. Non pochi si fermarono tutta la notte.Il mattino seguente, alle nove in punto, vennero esposti i risultati delle audizioni. I primi che cercarono il proprio nome fra quelli elencati, furono naturalmente quelli che dormirono in quel grande cortile. Furono anche i primi a meravigliarsi del fatto che erano stati ammessi tutti quanti! Com’era possibile? Che senso avevano avuto le audizioni? E come si sarebbero svolte le lezioni con un numero così elevato di allievi? Le reazioni degli aspiranti furono molto variegate: ci fu chi si sentì preso in giro, chi sentì solleticare ancor di più la propria curiosità, chi esigeva delle spiegazioni, chi pensava di cominciare a capire come funzionavano le cose alla scuola della musica dal vivo.Finalmente, verso le undici e trenta, uscirono il preside e tutti coloro che con tutta probabilità - chi poteva saperlo con certezza? - sarebbero stati i docenti.

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Il signor Cabis prese il microfono e disse:“Buongiorno”Nessuno rispose, non c’era brusio. Ma il silenzio in quel cortile era molto eloquente.“Prima lezione” disse Cabis “aspettarsi di tutto”Il silenzio persisteva.“Seconda lezione...” continuò il preside.“Non aspettarsi niente?” chiese qualcuno a voce alta.Un lieve brusio prese il posto del silenzio.“Esatto!” fece Cabis “Qualcuno comincia a capire”“E chi non capisce?” chiese un’altra voce.“Chi non capisce...” disse il preside alzando le spalle “può scegliere di restare e cercare di capire oppure se ne può andare continuando a non capire”Il brusio di fece più intenso. Molti degli ammessi se ne andarono.Cabis lasciò che gli allievi si confrontassero fra loro e dopo qualche minuto chiese: “Ci sono altre domande?”Il silenzio tornò sovrano, ma ora si sentiva che era per ascoltare. Cabis si voltò verso i suoi colleghi e fece loro un sorriso d’intesa. Si poteva cominciare.“Terza lezione” disse al microfono “Chi suona uno strumento si prepari a suonarlo come non ha mai fatto, chi canta non pensi di farlo come un cantante, chi vorrebbe solo ascoltare cominci a sentire il ritmo pulsante del suo cuore”Gli allievi cominciarono ad appassionarsi alla cosa, glielo si poteva leggere negli occhi, si capiva dall’attenzione con cui seguivano quelle... prime lezioni. Nessuno aveva sentito parlare così una persona, sentivano che sarebbe stata una grande avventura, qualsiasi cosa questo significasse.“Quarta lezione” continuò Cabis “Vi ho detto che dovete aspettarvi di tutto e nello stesso tempo non aspettarvi niente da questa scuola. Ciò che vi dovete aspettare, comunque, è che alla fine di questo percorso, che nessuno sa quanto durerà, ciò che avrete imparato non sarà fare musica, ma come farvi musica”

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Il preside scandì le ultime parole molto lentamente.Poi cominciò a segnare il ritmo battendo un dito sul microfono e tutti i presenti si unirono come meglio sentivano, chi con gli strumenti, chi con la voce, chi con le mani, persino con i piedi; man mano che il brano prendeva forma, gli allievi si resero conto di aver appena dato vita al primo concerto della Scuola della musica dal vivo.E questo era solo l’inizio. Ciò che impararono in seguito nessuno lo seppe mai spiegare chiaramente; su una cosa erano d’accordo: si sentivano tutti più vivi che mai.

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IERI, OGGI O DOMANI?

A. “Avremmo dovuto lavorare al nostro progetto per tre giorni consecutivi e al termine del terzo giorno consegnarlo a chi di dovere”B. “In che senso ‘avremmo dovuto’?”A. “Eh! Perché il progetto andava realizzato... da ieri a domani”C. “Come da ieri a domani?!”A. “Come...? da ieri a domani!B. “Ma oggi... siamo già a metà pomeriggio!”A. “Vorrà dire che lavoreremo giorno e notte!”C. “Beh, a dire il vero sarà... mezzo giorno scarso, una notte, un giorno e qualche ora serale. Altro che le mille e una notte!”A. “Vorrà dire che per ricavare il monte-ore necessario, ci divideremo i compiti e invece che lavorare in equipe ognuno provvederà alla parte del progetto che più gli è consona, e poi qualche ora prima della scadenza ci coordineremo allo scopo di unificare il tutto”B. “Sì, e in base a cosa ci dividiamo il lavoro?”A. “Appena cominciamo lo vediamo”C. “C’è un piccolo particolare”B. “E quale?”C. “Siamo sicuri che alla fine i singoli lavori saranno stati eseguiti in modo che diano vita ad un progetto unitario?”A. “Mah! Finché non faremo altro che farci domande sarà oltremodo difficile che riusciamo a scoprirlo”C. “Va bene, cominciamo. Diamo un’occhiata ai termini di realizzazione: obiettivi, strumenti, metodologia”A. “...”C. “Che c’è? Non mi dire che non esistono linee guida?”A. “No, no, per quello esitono”

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B. “E allora? Qual è il problema?”A. “Le ho dimenticate a casa”C. “Magnifico!”B. “Sei un irresponsabile! Mi dici come facciamo adesso?”A. “Su, è sempre andata bene! Non fasciamoci la testa ancor prima di cominciare”B. “E secondo te come facciamo a cominciare?”C. “Dovremmo almeno sapere il tema proposto”A. “Ah be’, se è per quello non c’è alcun problema”B. “Come sarebbe a dire non c’è problema?”A. “Sarebbe a dire che il tema è libero”B. “...!!”C. “Allora fino adesso di cosa abbiamo parlato?”A. “Di obiettivi, linee guida e tutto il resto”B. “E quindi?”A. “E quindi i dettagli del bando non me li ricordo, anzi...”B. “...?”C. “...?!”A. “... in effetti non l’ho letto, pensavo sarebbe stato meglio farlo insieme”C. “Ti sei offerto volontario! A che scopo?”B. “Non avremmo dovuto fidarci. Sappiamo come è fatto, avremmo dovuto aspettarcelo!”A. “Sentite: mi spiace, ma ora non c’è più tempo per le disquisizioni sul mio operato; mettiamoci al lavoro, mal che vada andrà meglio la prossima volta”C. “Se ci sarà una prossima volta!”A. “In che senso?”B. “Nel senso che ci giochiamo la fama e se va male, ma credo che su questo non ci siano dubbi, nessuno vorrà più affidarci un progetto, nemmeno il più banale”A. “Non sarei così catastrofico. Ancora non sappiamo come andrà”C. “No, ancora non sappiamo quale sarà il nostro progetto!”A. “Se avete finito di fare gli uccelli del malaugurio, direi che è

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bene mettersi al lavoro”B. “D’accordo! Qualche suggerimento per evitare di dar vita a tre idee poco chiare e completamente distinte?”C. “Che ne dite di un memorizzatore interno a impulso?”A. “In che senso interno?”C. “Un affarino elettronico da trapiantare nel cervello, che magari testeremo su di te, visto quel che combini ogni volta che ti assumi un impegno”A. “Divertente!”B. “Ah, se è per questo penso sarebbe più utile un memorizzatore che possiamo attivare io e te ogni volta che lui si offre volontario”C. “Questa è una grande idea!”A. “Allora, memorizzatore interno a impulso, ok?”B. “Perché no?”A. “Tu?”C. “Perché no?”A. “Va bene. A me la parte logistica”B. “Io l’elettronica”C. “E io il software”A. “Ok! Appuntamento a tre ore...”B. “...?!?”C. “...!?!”A. “... quattro? D’accordo, cinque ore prima della scadenza”...,,,...;;;...D. “Be’, signori miei. Sembra abbiate fatto un buon lavoro”A. “Grazie, signora!”D. “Solo che...”B. “Solo...”C. “...che?”A. “...?!”

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D. “C’è un problema di rispetto dei termini”A. “Non mi dirà che siamo in ritardo?”D. “No, no, siete in anticipo”C. “Be’, meglio, siamo stati i primi!”B. “...!”D. “Però... la data di scadenza è sì quella di oggi...”A.B.C. “Ma?”D. “...del prossimo mese!!”

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UNA STORIA DA NON CREDERE

Non so se qualcuno mi crederà mai, ma quella che sto per raccontare è una storia vera; io stesso pensavo di sognare, ma non c’è niente di inventato, vi giuro che ne sono stato testimone in prima persona.Non avevo ancora quindici anni, mi trovavo nella savana alla ricerca di qualche spunto per scrivere il mio ventesimo libro: dopo diciannove romanzi di carattere urbano-avventuroso, ispirati alla vita notturna degli abitanti del quartiere Kodingo nella città di Quatambe situata nella profonda foresta dell’altopiano Kaarindi, sentivo il bisogno di cambiare luogo, soggetto e protagonisti.Dopo molti giorni di viaggio a bordo dei mezzi più disparati e altrettante notti a dormire nei posti meno indicati, decisi che era tempo di fare una sosta per riorganizzare tutte le osservazioni fatte durante i miei spostamenti, in modo da cominciare a scrivere qualcosa di più lineare e discorsivo. Così mi rifugiai in una spelonca di cui mi aveva parlato il mio amico Guandri; era un posto veramente fuori mano, tranquillo abbastanza da potermi concentrare senza distrazioni sul lungo lavoro che mi aspettava. La mattina seguente, di buon ora (da quelle parti il sole sorgeva davvero molto presto), dopo aver fatto colazione con qualche frutto che mi ero portato nell’ultimo giorno di viaggio, mi sistemai su un ramo molto comodo, con tante foglie verdi, senza gobbette o spuntoni di qualsiasi genere; non era molto in alto e lo raggiunsi con un semplice balzo, per me che ero ancora giovane fu un gioco da ragazzi. Poi verso sera ridiscesi per sgranchirmi gambe e schiena e per dormire nel piccolo rifugio che avevo sistemato il giorno prima nell’incavo del tronco di quell’albero. Questo fu lo schema con cui trascorsi quei primi giorni da scrittore in ritiro in quel luogo

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speciale, tranne per la sera in cui mi addormentai sul mio ramo, trasformando in sogno ciò che stavo rielaborando per il mio libro.Fu quella notte, verso l’alba, che fui svegliato da qualcosa di insolito. Sentii in lontananza dei tamburi che battevano un ritmo molto allegro, ma che ispirava quiete e tranquillità. Non aspettai un solo momento: se lì vicino, da qualche parte stava succedendo qualcosa che poteva darmi ulteriori idee per sviluppare la mia nuova storia, dovevo approfittarne. Così, dopo aver ingoiato in fretta qualcosa da mangiare, mi lanciai di corsa nella direzione da dove sentivo provenire quel tambureggiare strano. Corsi attraverso un boschetto non molto folto, poi in un tratto di savana con dei ciuffi d’erba rinsecchita, una collinetta tonda e bassa con sopra un piccolo laghetto, dove si stavano rinfrescando alcuni animali, finché giunsi in un luogo protetto da grandi alberi. Cercai un punto da dove potessi vedere bene cosa vi stava succedendo senza essere visto o disturbare l’evento. Appena mi affacciai al di là di uno dei grandi alberi, non potei fare a meno di spalancare bocca e occhi come non avevo mai fatto nella mia vita, tale era la sorpresa per ciò che mi si parò di fronte: c’era da un lato un numeroso gruppo di scimpanzé e di gorilla che, con dei bastoni ben lavorati, picchiavano con grande maestria su tronchi di varia dimensione; dall’altra parte un altro folto gruppo di scimmie di vario genere che emettevano dei suoni più o meno gutturali in piena sintonia con la musica degli insoliti percussionisti; e in mezzo a loro c’erano almeno venti elefanti, tutti alzati sulle loro grosse zampe posteriori, con un gonnellino fatto di lunghe foglie gialle alternate a dei ramoscelli pieni di foglioline d’un verde scintillante, le grandi orecchie triangolari adornate con delle ghirlande di fiori di tutti i colori, e insieme ballavano con una grazia e una leggerezza che poche volte mi era capitato di vedere.Il ballo durò ancora qualche minuto; poi, quando musica e

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danze si fermarono, regnò un silenzio pieno di pace, tutti rimasero fermi come fossero delle statue di legno, tenendo l’ultima posizione di danza. Alla vista di quello spettacolo, non riuscii a trattenermi: dopo alcuni istanti col fiato sospeso per l’ammirazione iniziai a battere le mani più forte che potei per applaudire quei grandi artisti e ad urlare a squarciagola ‘bravi, bravissimi!!’. Tutti puntarono i loro sguardi stupiti verso di me e poi venni invitato a raggiungere il centro del cerchio. E mentre mi avvicinavo dissi che era stato fantastico, che finalmente avevo trovato un’idea grandiosa per il mio libro, che sarebbe diventato famoso in tutto il mondo e anche loro sarebbero diventati famosi e la loro musica e la loro danza avrebbe spopolato, tutti, tutti, tutti li avrebbero applauditi per quello spettacolo... Improvvisamente mi ritrovai con la bocca chiusa a forza dalla proboscide di uno degli elefanti ballerini che poi mi sollevò da terra con molta delicatezza: deglutii dallo spavento! Vedendo però che la bocca di quest’ultimo tirava al sorriso e che i suoi occhi esprimevano una dolcezza infinita, mi rilassai un po’ e cercai di sorridere anch’io. L’elefante mi rimise a terra, lasciò la presa e poi mi disse con voce molto calda e profonda: “E’ la prima volta che abbiamo uno spettatore alle nostre... esibizioni”Stavo per dire che ce ne sarebbero stati degli altri, tantissimi, di tutti i tipi, da ogni dove, ma l’elefante di nuovo mi tappò la bocca e disse:“E dovrà essere anche l’ultima!”Nonostante la voce fosse molto suadente e calma sentii un brivido di terrore che percorse tutto il mio corpo, dalle punte dei capelli alle dita dei piedi. Deglutii!“Ed ora che ci siamo chiariti” disse sempre con voce calma il mio interlocutore “passiamo alle presentazioni. Io sono Sabenda, la matriarca del folto gruppo di animali qui riunito”Era un’elefantessa! Di nuovo non potei fare a meno di spalancare bocca e occhi meravigliato.

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“Piacere” dissi “io sono Papuri”“E che ci fa un ragazzo così giovane in questa zona sperduta?” chiese Sabenda.“Sono uno scrittore” risposi “e volevo trovare nuova ambientazione e nuovi personaggi per il mio nuovo libro”“E quindi” mi disse Sabenda con sguardo fra il rimprovero e la presa in giro “vorresti inserire nella tua storia quello che hai visto questa notte”Sorrisi timidamente con sguardo implorante.“Mh!” fece lei. E poi continuò: “Potrebbe essere un’idea... ma mai, ripeto mai dovrai scrivere dove e quando questo sia successo, ne va della sacralità di questo nostro incontro e della nostra pace che con molta fatica ci siamo costruiti”“D’accordo!” dissi entusiasta “A pensarci bene, voi credereste mai al racconto di un ragazzo che non sa far altro che parlare, parlare e parlare e scrivere storie avventurose un po’ complicate?”Tutti si misero a ridere.“Allora” disse Sabenda “in onore del nostro privilegiato e unico spettatore, ripeteremo la nostra danza dall’inizio”E così ricominciò la musica, i canti e le danze.Io mi appoggiai all’albero da cui avevo visto per la prima volta quello spettacolo e mi godetti la visione.Dopo che tutto finì, non so come, né perché, mi ritrovai a svegliarmi sul ramo dove stavo scrivendo la mia storia, una storia che mi auguravo fosse insolita e piena di meraviglia. Mi sentivo indolenzito. Avevo sognato? No, non avevo dubbi al riguardo, ciò a cui avevo assistito era reale. E voi dovete stare certi che quanto vi ho raccontato non è una storia inventata, ma la pura e semplice verità.

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SOMMARIO

NOTA..........................................................................................2

AVVERTENZA........................................................................... 3

NON HO NIENTE A CUI PENSARE!........................................5

L’ANGELO MIRO.......................................................................7

UN CRICETO NELLO SPECCHIO............................................9

RICORDI LADYLAY?.............................................................. 12

BELLO, ALTO E PROFUMATO!.............................................14

LA VOCE DI LORENA.............................................................16

LA STORIA DI OGGIGIORNO.................................................18

WENDY, LA FORMICA TRENDY............................................ 21

DANIEL LO CUBA...................................................................24

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NON E’ MAI DETTA L’ULTIMA PAROLA................................27

PASTICHE................................................................................31

ESSERE VIVI........................................................................... 34

L’ALLOCCO.............................................................................38

SORELLINA.............................................................................40

ARTENA...................................................................................44

LA CORRIERA.........................................................................47

IL FASCINO DEL NON SAPERE............................................51

LA SCUOLA DELLA MUSICA DAL VIVO..............................53

IERI, OGGI O DOMANI?.........................................................57

UNA STORIA DA NON CREDERE.........................................61

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