Sommarie Riflessioni sulla crisi

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Riflessioni sulla crisi da un punto di vista marxista

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SOMMARIE RIFLESSIONI SULLA CRISI

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GIANFRANCO LA GRASSA

SOMMARIE RIFLESSIONI SULLA CRISI

PARTE PRIMA

LA PROSPETTIVA PIU TRADIZIONALE (ECONOMICISTICA)

1. Si tratta di un argomento talmente complesso e denso di dibattiti teorici da richiedere pure un notevole approfondimento storico. Insomma, sarebbe necessario tenerci sopra un intero corso di lezioni e non soltanto una breve introduzione e per spunti assai sommari. Tanto pi che non sono daccordo sullimpostazione prevalentemente economicistica con cui viene solitamente discusso tale problema. Sia chiaro che nelle due parti in cui verr diviso questo scritto non affronter il tema della crisi iniziata nel 2008; nemmeno mi fisser su come essa viene interpretata dagli economisti odierni o anche dal Governo con le sue misure che stanno ottenendo risultati esattamente contrari alle intenzioni dichiarate (credo assai diverse da quelle perseguite politicamente, con la sola maschera della necessit economica). Un simile argomento va trattato in altra sede e dopo aver preso visione delle pur sommarie indicazioni relative alla problematica generale della crisi. Altrimenti sinstaura una semplice discussione da bar. Comunque il lettore attento potr pi volte istituire un parallelo tra quanto qui scritto e le pappardelle fornite in questi ultimi quattro anni.Mi rifar ancora una volta ad un esempio da me utilizzato pi volte per analogia perch particolarmente congruo nella sua applicazione al tema della crisi, sempre pensata come semplicemente economica. Il terremoto, magari con annesso tsunami, evento catastrofico che colpisce a fondo la vita degli uomini; ed ancora imprevedibile, checch se ne dica a volte con somma insipienza. Tutti, evidentemente, fuggono disordinatamente nel momento cruciale, poi iniziano ad organizzarsi in previsione di eventuali nuove scosse e pensano infine alla ricostruzione. Il sismologo sa tuttavia che il tremore di superficie, cos disastroso, dipende da scontri tra strati del terreno che avvengono a grande profondit; pi profondi sono tali urti e frizioni, maggiore lenergia accumulata per anni e decenni (talvolta secoli) e pi intenso e violento il suo scaricarsi; tanto pi ampia inoltre la zona colpita dallo sconquasso. Non escluso che in futuro i terremoti possano essere previsti con qualche significativa probabilit (cos com accaduto per le previsioni meteorologiche per brevi periodi); a patto per che non ci si limiti a studiare grafici e tabelle statistiche che indicano soltanto la loro frequenza nel tempo, le zone maggiormente colpite, certi andamenti lineari di superficie, magari correlazioni pi o meno credibili con altri fenomeni altrettanto superficiali, ecc. Tutte rilevazioni non inutili, sia chiaro, ma alle quali attribuire il significato di sintomi fenomenici, che devono spingere a guardare pi in profondit, nelle viscere della terra.Volendo soprattutto indicare, sia pure necessariamente per cenni, ai motivi a mio avviso profondi delle crisi economiche motivi che vanno ben al di l della mera economia dovr essere molto schematico e certo poco scientifico; non abuser di grafici e tabelle con connesso loro significato assai poco illuminante, ma che attribuisce tanta sicurezza ai chierici della scienza economica e lascia a bocca aperta chi li ascolta come oracoli.

2. le grandi crisi del XX secolo sono state quella del 1907 e quella, decisamente pi rilevante e passata alla storia come la crisi (per antonomasia), del 1929. Entrambe iniziarono con laspetto pi superficiale di tale terremoto, quello finanziario, quello che sembra pi colpire, ancor oggi, la fantasia popolare; dove per popolo si deve intendere semplicemente la gran parte degli ignari, adeguatamente influenzati dallinformazione ricevuta dai santoni della scienza sociale detta economia. E ovvio che la parte finanziaria, legata alluso della moneta e dei segni dessa, sia il primo fenomeno critico a presentarsi, data la generalizzazione della forma di merce nel capitalismo e il conseguente uso necessario del denaro nel ciclo continuo M-D-M. Quando questo viene ad interrompersi per motivi vari studiati da tutti gli economisti e sottoposti ad interpretazioni diverse; non inutili, sia chiaro, poich nessuno nega limportanza di certi fenomeni se vengono studiati e analizzati come tali e non come il processo pi fondamentale caratterizzante la crisi, la causa insomma della stessa il primo scombussolamento subito dai mercati in cui circola lo strumento che ormai, da semplice intermediario nello scambio di merci, divenuto pure accumulazione di ricchezza, mezzo di investimento, garanzia (del tutto parziale e insicura, in verit) contro gli imprevisti del futuro, ecc. ecc. Al disordine nei mercati monetari, finanziari se esso non legato a semplici giochi speculativi, in genere suscettibili di reciproca compensazione tra operazioni di segno contrario (si pensi alle continue oscillazioni di Borsa) segue quello ben pi grave nei mercati dei beni (e servizi) prodotti, nei mercati detti reali.Detto per inciso, questo fatto avrebbe gi dovuto far ricredere molti teorizzatori della formazione del monopolio (oligopolio pi precisamente), regime di mercato in cui si supponeva si sarebbero istituiti cartelli o trust (cio accordi fra imprese), e poi ulteriori accordi tra questi, con il controllo, e dunque regolazione, dei mercati da parte di queste grandi imprese oligopolistiche. Tanti accordi ed evidentemente poco controllo dei mercati, se si producevano fenomeni come le crisi, soprattutto del tipo 1907 e 1929. Si consideri la prima in base soprattutto al nostro necessario modo di pensare per analogie come una sorta di prova generale della seconda, assai pi grave e considerata, come gi detto, la, non una, crisi. Essa si fa partire dallottobre del 29, nelle due giornate di tracollo della Borsa valori di New York (anche nel 1907, la crisi part nello stesso modo e dallo stesso luogo). In certi scritti (o perfino film) depoca, o di ricostruzione della stessa, si favoleggia della miriade di finanzieri gettatisi dai grattacieli di quella citt. In realt, laspetto pi pregnante della crisi lo si vide nel 1932, e ancora nel 33, con il ben noto Pil al pi basso livello e la disoccupazione della forza lavoro al suo massimo; e una autentica miseria nera, la vera e propria fame di massa. Fatto 100 il Pil del 1918, alluscita dalla guerra mondiale, questo crebbe negli Usa per tutti gli anni 20 (di boom) e giunse a 122 nel 1929. Nel 33 fu 81 (un bel tracollo) e poi risal a 116 (ancora ben sotto il 1929) nel 1940 a nuova guerra mondiale gi scoppiata, in cui gli Stati Uniti entrarono nel dicembre 1941 dopo Pearl Harbor e balz a 198 nel 45 alla fine della stessa. Un bellaffare la guerra! Se guardiamo alla produzione industriale, fatta 100 quella del 29, essa pu essere cos riassunta in tabellinaStato193019311932193319341935Stati Uniti836955636979Gran Bretagna94868995105114Francia

9985748379Germania867259688396Austria

9178666875Italia

9384778385Svezia

102978993111Cecoslovacchia

9164606770Ungheria

87828899107Romania

10582101126Bulgaria

10410710398103U.R.S.S.

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Per quanto riguarda la disoccupazione, i dati hanno il medesimo andamento; gli anni cruciali restano sempre il 1932-33. Su scala planetaria, la disoccupazione fu sempre mediamente sopra il 20% tra il 1929 e il 33. Negli Usa, i dati ufficiali furono assai imprecisi in quegli anni; comunque nel 1932-33 detta disoccupazione si stim tra il 25 e il 33% della forza lavorativa, con almeno 15 milioni di senza lavoro.Dopo la vittoria presidenziale di F.D. Roosevelt a fine 32, con insediamento nel gennaio 33 fu lanciato il ben noto New Deal; un programma di riforme sociali ed economiche. Interessa soprattutto il fatto che esso si bas su un forte incremento della spesa statale effettuata in deficit di bilancio (senza dunque preoccupazioni per il Debito pubblico), anticipando cos, si pu dire, la successiva teoria keynesiana formulata nel 1936: indubbiamente una sorta di sistemazione teorica (definita generale) di una pratica (politica) economica anticipatrice. Prima di passare ad alcune delucidazioni della stessa, voglio ricordare che il sollievo, per il sistema economico statunitense, si manifest soprattutto nel 34-35; gi nel 1936 e 37 leconomia diede segni di debolezza e, tutto sommato, la fase rest di sostanziale stagnazione, con modesti aumenti del Pil fino alla seconda guerra mondiale.Non a caso, da quellandamento derivarono, sempre con un certo ritardo, gli studi di autori come Alvin Hansen, Steindl e altri che, estendendo al lungo periodo la teoria di Keynes, sostennero tesi stagnazioniste sulla base di considerazioni, qui adesso di impossibile analisi, sulle innovazioni e laumento della produttivit del lavoro, su certi limiti della crescita della domanda connessi, fra laltro, a corrispondenti limiti nellinnovazione di nuovi prodotti. In modo sommario, potremmo dire che le tesi stagnazioniste davano forte rilievo alle innovazioni di processo (aumento quindi della produttivit e della capacit produttiva del sistema a parit di fattori occupati) mentre pensavano ormai in esaurimento la prospettiva dellapertura di nuovi grandi settori produttivi come furono poi invece, linformatica ed elettronica, laerospaziale e altri con conseguente debolezza della domanda complessiva (consumi pi investimenti).

3. Cercher, sia pure in modo vergognosamente sommario, di dare unidea delle idee sulla crisi esistenti allepoca di cui stiamo trattando. La teoria economica neoclassica, che dominava nellaccademia ormai dal 1870, non ammetteva la possibilit di crisi se non come conseguenza di comportamenti che non si attenevano ai principi liberal-liberisti. Era necessario che si verificassero imperfezioni nel funzionamento del mercato, imperfezioni legate al comportamento non corretto di individui e gruppi di individui. Si credeva ciecamente alla ben nota mano invisibile (del mercato) di smithiana memoria, per cui era sufficiente lasciar funzionare gli automatismi mercantili senza intralci, in particolare da parte dello Stato. Sono costretto in questa sede a non discutere del carattere rivoluzionario (ma non troppo) che aveva la teoria smithiana nellepoca in cui fu formulata (la Ricchezza delle nazioni fu pubblicata del 1776; eravamo nel periodo iniziale della prima rivoluzione industriale). La teoria neoclassica si serviva di tali tesi per indicare la necessit che i soggetti da essa considerati produttori, gli imprenditori nello svolgimento di quella che era pensata come loro funzione precipua: la combinazione dei fattori della produzione (terra e soprattutto capitale e lavoro), funzione svolta in reciproca competizione fossero perfettamente liberi nelle loro operazioni di acquisto di detti fattori e di vendita dei prodotti nel mercato. Secondo la teoria in oggetto, ne sarebbe risultata la continua riduzione di costi e prezzi con vantaggio dei consumatori finali delle merci prodotte. Con la precisazione che la domanda complessiva riguarda sia i beni di consumo in senso proprio, necessari alla vita degli individui, sia i beni consumati nellattivit produttiva quali suoi fattori, il cui acquisto da parte degli imprenditori ci che viene indicato come investimento. In tutte queste operazioni, effettuate nel mercato tramite uso di denaro, lente preposto agli affari pubblici, lo Stato, non deve mettere becco. Secondo le teorie liberiste esso avrebbe lobbligo di limitarsi ad espletare una serie di servizi amministrativi di interesse generale, di regolazione dellordinata riproduzione dei rapporti intersoggettivi nella societ dello scambio mercantile generalizzato. In un certo senso, si tratta soprattutto dei compiti di fondamentale polizia per impedire lillegalit di certi comportamenti dei vari soggetti attivi nella societ civile. Non a caso lo Stato veniva spesso definito veilleur de nuit, espressione assai significativa.Il costo dei servizi statali va coperto con limposizione fiscale, limitata appunto alla semplice raccolta di quanto speso per fornirli. Uno dei principi fondamentali, cui si attiene la teoria neoclassica tradizionale, perci quello del pareggio del bilancio statale, al quale si contravvenuto spesso soprattutto in caso di guerre, considerate per eventi eccezionali, che disturbano il normale e virtuoso funzionamento delle leggi del libero mercato. A parte queste eccezioni che poco lo furono perfino durante lepoca considerata fondamentalmente pacifica tra la guerra franco-prussiana del 1870 e la prima guerra mondiale, se non altro a causa della continuazione e accentuazione delle imprese coloniali una spesa eccessiva dello Stato, comportante poi per detta teoria linasprimento fiscale onde ripristinare il pareggio in questione, fu sempre ritenuta comportamento irrituale e dannoso per il sistema economico.Come le guerre, anche le crisi economiche erano trattate quali eventi eccezionali legati allimperfezione dei comportamenti umani, il che tuttavia non inficiava la legge generale dello spontaneo equilibrarsi dellofferta e della domanda dei beni se ci si fosse attenuti alla piena libert degli scambi nel mercato. Volendo pensare analogicamente, un po come la legge galileiana del moto rettilineo uniforme, il cui funzionamento pi o meno sempre alterato da vari attriti esistenti nel mondo reale; e tuttavia essa viene stabilita in base alla supposizione di assenza di attriti e considerata lattrattore naturale cui tende il moto quanto meno esso disturbato dagli stessi. La teoria neoclassica procedeva in modo simile: ammetteva lesistenza di attriti (guerre, crisi economiche), ma pensava la mano invisibile del mercato quale legge naturale vigente nel mercato. Di conseguenza, sarebbe necessario perseguire lo scopo di attenuare il pi possibile qualsiasi fenomeno perturbatore di tale legge.Lo scoppio di crisi della gravit di quelle del 1907, e soprattutto del 1929, non poteva non destare una serie di discussioni. Esse richiedevano spiegazioni supplementari. Sar molto sommario. La tesi liberista pi tradizionale, rifacendosi comunque al fenomeno allora considerato pi vistoso e socialmente preoccupante, la disoccupazione dei lavoratori, lo legava allimperfezione introdotta dallassociazione sindacale nella libera contrattazione della merce forza lavoro. Il sindacato avrebbe spinto il salario al di sopra della produttivit marginale del lavoro; diciamo, in soldoni, che questa la produzione dellultima unit lavorativa occupata. Essendo tale produttivit, almeno da un certo punto in poi, decrescente al crescere di tali unit occupate, se il salario viene irrigidito dalla contrattazione sindacale ad un dato livello, limprenditore impiegher successive unit lavorative solo fino a quando lincremento di prodotto cos ottenuto resta eguale o superiore al livello in questione. Se in tale situazione sussiste la disoccupazione di una parte dei lavoratori, lunico modo per eliminarla o ridurla consentire labbassamento della retribuzione in modo da adeguarla alla produttivit dellultima unit di lavoro da occupare.Non fu questa la via seguita durante il New Deal. In varia guisa, si decise per lattuazione di opere di tipo infrastrutturale, non certo profittevoli per limpresa privata e dunque finanziate dallo Stato. Tali opere non puntavano affatto al rientro in tempi brevi della spesa sostenuta tramite vendita dei loro servizi. Si trattava invece di occupare la forza lavoro rimasta disoccupata per la crisi; il costo salariale era sostenuto in toto tramite liniziativa di vari enti statali, alcuni creati appunto per loccorrenza. Si pensi alla Federal Emergency Relief Administration e alla Civil Works Administration (e poi, nel 1935, la Works Progress Administration). Furono inoltre istituiti il Civilian Conservation Corps, che distribu mezzo milione di posti di lavoro a giovani, impiegati in opere di rimboschimento e di controllo delle acque, e la Tennessee Valley Authority, che realizz giganteschi lavori di sistemazione idraulica e di sfruttamento delle acque negli Stati meridionali, utili poi alla successiva intensa industrializzazione di quelle aree.Secondo i principi del liberismo, relativi al necessario pareggio di bilancio, simili costose opere si sarebbero dovute finanziare con un inasprimento fiscale; il che era gi comunque considerato negativo dal pensiero economico tradizionale perch avrebbe in ogni caso creato attriti al libero movimento della produzione e degli scambi nel mercato, incrementando le spese generali delle imprese con il pagamento di imposte eccessive. Non fu per il problema fiscale il punto dattacco cruciale su cui si concentr la critica alle tesi liberiste. Critica intanto pratica, legata alla politica economica del periodo rooseveltiano; e poi sistematizzata da Keynes in Teoria generale delloccupazione, dellinteresse e della moneta, testo pubblicato nel 1936.

4. Anche qui proceder in modo impressionistico, cercando di dare una qualche idea di una teoria che da allora domin nel mondo accademico fino alla ripresa neoliberista dellepoca thatcheriana e reaganiana, verificatasi a partire dagli anni 80 del secolo scorso. La scuola liberista pi tradizionale accettava di fatto la teoria di Jean Baptiste Say (1767-1832), che formul la nota legge degli sbocchi secondo cui lofferta crea la propria domanda, i prodotti di fatto si scambiano con altri prodotti e la moneta un semplice intermediario che rende pi facile tale scambio (rispetto al baratto). Naturalmente, la gestione della ricchezza nella sua forma liquida, monetaria, affidata ad un settore particolare: quello bancario (e finanziario in genere, ivi comprese le Borse valori, ecc.). Tuttavia, tale settore pensato come soltanto utile e servizievole nei confronti di quelli produttivi. Com stata utilizzata questa legge di Say in ambito liberista?La produzione dei beni (compresi quelli detti servizi) genera reddito per coloro che hanno partecipato alla stessa. Parte del reddito serve a domandare, cio ad acquistare le merci necessarie al soddisfacimento dei bisogni degli individui in quanto consumatori. Una parte viene risparmiata. Questultima, tuttavia, viene anchessa consumata, nel senso che si traduce in domanda dei beni in quanto fattori della produzione; essa viene cio investita dagli imprenditori per svolgere la loro funzione precipua. A qualsiasi livello di reddito prodotto, non ci sarebbe problema per quanto riguarda lassorbimento dellintero risparmio da parte dellinvestimento (domanda di beni di produzione); leguaglianza tra i due verrebbe assicurata dai movimenti del saggio dinteresse. Quanto pi risparmio disponibile, tanto pi il sistema bancario, che funge da intermediario tra risparmiatori e imprese investitrici, fornisce credito a queste ultime a tassi pi bassi, in linea con gli utili aziendali. Anche in tal caso, si ragiona in termini di margini; gli utili aziendali di riferimento per i tassi sono quelli dei gruppi di imprese al margine inferiore (comunque, non adesso il caso di entrare in dettaglio, si afferri linsieme del ragionamento nei suoi termini pi generali).La teoria keynesiana ed per questo che viene generalmente considerata una teoria monetaria rompe decisamente sulla funzione della moneta, che non trattata quale mero intermediario negli scambi, svolgendo invece anche funzioni di riserva per motivi precauzionali (lincertezza del futuro per i vari soggetti, individuali o di gruppo come le imprese, ecc.) e speculativi (desiderio di lucrare sugli andamenti oscillanti dei prezzi dei beni, in particolare di quel bene che la moneta e titoli vari, ecc.). Importante per la considerazione intorno allentit del risparmio. Nelle societ capitalistiche opulente, a reddito prodotto elevato, la massa di risparmio talmente elevata che non ci sarebbe alcun livello del saggio dinteresse, per quanto basso, in grado di assicurare nel tempo la suddetta eguaglianza tra tale massa e la domanda dinvestimento. Andando veloci. Si produce una data quantit di beni che viene venduta con un certo introito complessivo. Questo si distribuisce tra coloro che hanno partecipato alla produzione e quindi diventa il reddito di tali soggetti, diventa cio soprattutto profitti e salari (e anche parcelle dei professionisti, emolumenti vari e via dicendo). Tale reddito serve in parte ad acquistare beni per vivere (il consumo) e in parte viene risparmiato. Affinch tutto ci che viene prodotto venga anche acquistato necessario che la parte risparmiata sia pur essa spesa; altrimenti non funziona la legge degli sbocchi di Say. Il risparmio deve dunque tradursi in investimento; ovviamente con lintermediazione degli istituti che lo raccolgono e poi lo forniscono in prestito agli investitori. Se ad un certo punto, le aspettative di questi investitori circa i loro utili per il futuro diventano negative, nessun abbassamento del saggio dinteresse sui prestiti li indurr alla domanda dei beni (fattori) di produzione; la domanda complessiva (consumi pi investimenti) non assorbir dunque tutta la produzione gi ottenuta e tradottasi in reddito per i partecipanti ad essa, reddito il cui valore si divide in consumi e risparmi. Il relativo eccesso del risparmio rispetto allinvestimento comporta insomma linvendibilit di una quota di prodotto (composta soprattutto di beni dinvestimento, di fattori produttivi). La diminuzione degli introiti provoca chiusura di attivit, licenziamenti, caduta quindi della massa salariale, contrazione della domanda di beni di consumo, ulteriori quote di produzione invenduta, ancora minori introiti, ecc. Sinnesta cos il circolo vizioso della crisi.Ci si accorge facilmente che lelemento cruciale della teoria rappresentato dal pessimismo delle aspettative circa la possibilit di utili futuri per gli investimenti da effettuare, per cui questi si bloccano o comunque non aumentano a sufficienza per assorbire tutto il reddito risparmiato. In date congiunture e quanto pi elevato il reddito prodotto in societ tendenzialmente opulente non c alcun modo di indurre gli investitori a domandare. Il saggio dinteresse impotente poich ci si aspetta addirittura perdite e non utili. Di conseguenza, a meno di non supporre che, assai poco razionalmente, subentri ad un certo punto unondata di pessimismo preconcetto, la teoria spiega il circolo vizioso che si mette in moto quando la crisi gi scoppiata e, di conseguenza, il pessimismo delle aspettative si gi nutrito delle difficolt insorte nella vendita delle merci prodotte.Non si chiarisce dunque, in senso proprio, che cos la crisi e le sue motivazioni di fondo; si dice pi semplicemente che, entrati nella crisi, procedere con le ricette liberiste un suicidio. Seguire coloro che sostenevano la necessit di abbassare i salari, per adeguarli alla produttivit marginale del fattore lavoro, avrebbe significato ridurre la capacit dacquisto di tipici consumatori e dunque anche la domanda di beni di consumo oltre a quella per investimenti, aggravando lavvitamento della crisi stessa. Da qui, la famosa valutazione positiva della Favola delle api di Mandeville: le virt private (in tal caso il risparmio) divengono vizi pubblici, cio un modo per aggravare la situazione della collettivit; mentre spendere e ancora spendere (questo terribile vizio del consumismo, oggi cos inviso a tutti i virtuosi che imperversano soprattutto a sinistra, ma non solo in questa) pu alleggerire la situazione collettiva.

5. Il New Deal non si adegu ai principi liberisti e mise in moto unampia spesa statale per opere infrastrutturali. La finalit principale della mossa era quella di alleviare la questione sociale che poteva divenire pericolosa in una situazione di cos vasta disoccupazione lavorativa. Non ci si preoccup del debito pubblico in conseguente notevole ascesa, poich il problema fondamentale era occupare il maggior numero di lavoratori possibile. La successiva teorizzazione keynesiana diede per a tale scelta anche una razionalit in termini di politica economica adeguata a combattere la crisi nei suoi termini pi generali. La domanda privata era carente. Come gi stato detto sopra, le aspettative imprenditoriali erano improntate al netto pessimismo e la domanda di beni dinvestimento dunque cadeva malgrado ogni possibile riduzione degli interessi chiesti sui prestiti. La chiusura delle imprese provocava licenziamenti, riduzione delloccupazione e perci della massa salariale con conseguente riduzione della domanda di beni di consumo, ulteriore peggioramento delle aspettative imprenditoriali, nuovi licenziamenti, ulteriore contrazione della massa salariale e della domanda di consumo; e cos via nel circolo vizioso della crisi. La spesa statale doveva supplire alla deficienza di quella privata. Per il compimento delle opere pubbliche venivano riaperte date imprese; riprendeva la domanda di beni dinvestimento di queste ultime, veniva riassunta una quota di lavoratori disoccupati, iniziava dunque a crescere la massa salariale distribuita con aumento della domanda di consumo, che spingeva altre imprese ad entrare in campo, ecc. ecc.; si metteva in moto quello che venne definito il moltiplicatore degli investimenti (pubblici), invertendo cos il circolo vizioso precedente e favorendo la ripresa del sistema economico. Il risollevarsi del reddito prodotto, anche a parit di pressione fiscale o addirittura con il suo alleggerimento per stimolare lattivit imprenditoriale avrebbe condotto ad un incremento del gettito delle imposte con possibile riduzione del debito nel prosieguo di questa politica economica. Mentre, allincontrario, calcare sullimposizione fiscale con lossessione del pareggio di bilancio e del debito pubblico, avrebbe avuto influssi negativi sulla domanda, dunque sulla crescita, con il possibile risultato finale di un deficit di bilancio non sanato e di un debito pubblico magari in aumento. Questo, molto allingrosso, il ragionamento seguito per giustificare una politica di spesa statale in deficit di bilancio, una spesa che si preoccupava il meno possibile della crescita del debito dello Stato. E bene chiarire alcuni punti essenziali. Intanto, la spesa pubblica sinteressava tutto sommato meno delle opere che venivano portate a compimento tramite essa di quanto invece non puntasse al reimpiego della forza lavoro (combattendo la disoccupazione che era una piaga sociale e non un mero fatto economico), ottenendo nel contempo un rilancio dei consumi depressi che miglioravano le aspettative imprenditoriali e stimolavano quindi la crescita produttiva tramite la messa in moto del gi ricordato circolo virtuoso (con moltiplicazione degli effetti di una spesa iniziale). Per realizzare una simile finalit, era necessario che la spesa pubblica fosse veramente aggiuntiva rispetto a quella privata. Essa doveva dunque essere effettuata in deficit di bilancio, al limite stampando nuova moneta e con questa ottemperando agli obblighi dellinvestimento statale. Se si fosse preteso il mantenimento del pareggio di bilancio, ottenuto allora con un incremento delle imposte, si sarebbe tolto con una mano ci che si dava con laltra. Lo stimolo alla domanda, e quindi alla ripresa, sarebbe venuto a mancare (salvo considerazioni particolari, contenute nel cosiddetto teorema di Haavelmo, che non credo sia qui dinteresse e nemmeno di possibile discussione).Altro punto destrema rilevanza che quanto appena detto valido se si fa riferimento ad un sistema economico capitalisticamente sviluppato, dove non esiste soltanto disoccupazione del fattore lavoro, ma inutilizzazione di una corrispondente massa di beni di produzione, del capitale fisso. Devono esserci lavoratori a spasso, ma anche fabbriche chiuse e con impianti in grado di essere rimessi presto in funzione. E inoltre necessario che si sia gi ampiamente e lungamente sviluppato il cosiddetto spirito imprenditoriale. La domanda dinvestimento caduta perch le aspettative degli imprenditori sono divenute pessimistiche, quindi a crisi gi in atto. La spesa pubblica rid fiducia a questi soggetti, i quali sono gi in possesso delle strutture produttive non pi funzionanti per la caduta della domanda privata, e non aspettano altro che veder migliorare nuovamente la prospettiva di sbocchi di vendita. Ove non sussista questa seconda indispensabile condizione, la spesa pubblica, lo stampare nuova moneta per finanziarla, ecc. conducono solo allinflazione senza crescita del reddito prodotto in termini reali. Infatti, quando nel dopoguerra, simili teorie furono pure applicate in paesi in via di sviluppo (per non dire arretrati, sottosviluppati), mancanti di industrie o di unagricoltura appena un po modernizzata con livelli di produttivit almeno in parte paragonabili a quelli dei paesi sviluppati, e inoltre privi di qualsiasi strato sociale che potesse dirsi imprenditoriale, i risultati furono catastrofici o quanto meno nulli.

6. Non insisterei oltre in una spiegazione cos indubbiamente sommaria delle questioni attinenti alla crisi. Ricordo solo che le tesi keynesiane hanno dominato nella scuola accademica per oltre quarantanni. Sarebbe assurdo tentare qui un bilancio del successo o insuccesso delle stesse; certamente esse sono andate incontro ad una crescente obsolescenza con il passare del tempo dal 1945 in poi. Alla fine si riaffermato il (neo)liberismo e sono tornate in voga tutta una serie di tematiche che sembravano battute per sempre. Da alcuni decenni, con accelerazione negli ultimi anni, si sta procedendo al netto ridimensionamento del Welfare State, Stato del benessere o Stato sociale affermatosi decisamente nel dopoguerra e due pilastri del quale sono il sistema pensionistico e quello sanitario sempre pi sotto attacco perch considerato la causa principe del debito pubblico; in Italia esso dunque in fase di sgretolamento ancor pi che in Germania e in Francia. Inutile diffondersi adesso sui motivi dellaffermazione, per alcuni decenni, di questo Stato sociale, caratteristico soprattutto dellEuropa (e poi anche Giappone) mentre sempre stato carente negli Stati Uniti, il paese in cui venne lanciata di fatto, ancor prima di ogni teorizzazione in merito, la spesa pubblica in deficit, senza eccessive preoccupazioni nel breve periodo circa il debito dello Stato, che in un periodo pi lungo si pensava venisse sanato dalla crescita delle entrate fiscali dovuta alla ripresa dellattivit produttiva e dunque del reddito dei singoli soggetti, imprenditori e lavoratori in testa, in essa impegnati. Non mi sembra comunque che in Keynes si trovasse lindicazione di uno Stato sociale. Veniva pi semplicemente affermata la necessit di procedere quando scoppia una crisi in un paese avanzato e ben dotato di tutti i fattori produttivi (capitale e lavoro) ad unampia domanda da parte della sfera pubblica in grado di supplire alle carenze di quella privata, legata alle aspettative imprenditoriali e poco sensibile al saggio dinteresse.Alla creazione dello Stato sociale in Europa hanno senzaltro contribuito cause sociali e politiche: a) la presenza del campo socialista, visto come antagonista di quello capitalistico con larga incomprensione, ancora attuale, del nuovo sistema di rapporti sociali, gi entrato in crisi e difficolt di sviluppo a partire dagli anni 60 (tanto che alcuni ne videro la fine gi segnata allinizio di quelli 70); b) le lotte del movimento operaio, e dei lavoratori subordinati in genere, per un lungo periodo di tempo dopo la seconda guerra mondiale. Un motivo da non sottovalutare, anzi da ritenere fra i principali, fu la convinzione che lo sviluppo di un paese dipendesse soprattutto dalla spinta che ad esso imprime la domanda. Non ci si scordi che, in definitiva, pur con tutte le debite critiche al liberismo tradizionale, anche i keynesiani sono in definitiva dei neoclassici. Inoltre, nellambito stesso del liberismo neoclassico prekeynesiano, malgrado le tesi sul primato del consumatore e delle sue scelte, si attribuiva rilevanza alle funzioni dellimprenditorialit. Gi nel 1911-12, nella sua Teoria dello sviluppo economico, Schumpeter, certamente un neoclassico non ortodosso, assegn centralit al ruolo dellimprenditore innovatore, mettendo in luce limportanza dellinvenzione di nuovi prodotti, che ha effetti di sviluppo (non di semplice crescita del prodotto) superiori allinnovazione di processo (il progresso tecnico, semplificando). Per quanto interessante sia la questione, non posso qui diffondermi sui limiti del marxismo tradizionale, con la sua teoria del capitalista proprietario dei mezzi di produzione, il cui profitto estrazione di pluslavoro alla forza lavoro venduta come merce. Si potrebbe constatare, anche in un semplice confronto con la teoria dellimprenditorialit, quanto abbia errato il marxismo in merito alla struttura dei rapporti sociali formatasi con la cosiddetta centralizzazione dei capitali; in genere interpretata quale semplice formazione del monopolio, catena posta allo sviluppo delle forze produttive e causa della separazione della propriet rispetto alla direzione della produzione con crescente antagonismo tra capitalista (ormai solo rentier) e lavoratore collettivo cooperativo (dallingegnere allultimo manovale, parole di Marx).Chi stato ossessionato, negli ultimi ventanni soprattutto, dal problema del Debito pubblico e del rapporto deficit/Pil ossessione cresciuta in modo esponenziale con linizio della nuova crisi nel 2008 pu trovare qualche utilit nellapprofondire le varie questioni che in questo scritto ho potuto solo adombrare. La comprensione della crisi, nei suoi vari aspetti, sarebbe per monca se non affrontassimo, ancora pi succintamente, la questione dei limiti delleconomicismo imperante e dellignoranza dei punti nodali relativi alla politica, alle strategie dei vari gruppi dominanti in conflitto per la supremazia.

P.S. Leggendo questa prima parte, qualcuno avrebbe dovuto sentirsi fischiare le orecchie pensando a come viene presentata lattuale crisi e quali misure si stiano adottando per combatterla; fine dichiarato, ma che a mio avviso non quello reale, imposto dallesterno e, in primo luogo, dagli Usa. Faccio al momento solo pochi accenni alle questioni odierne. Dal novembre del 2011, data di avvento dei presunti tecnici per combattere la crisi tramite una impressionante serie di provvedimenti che hanno colpito a fondo le condizioni di vita di gran parte della popolazione, il debito pubblico cresciuto da 1905 miliardi a ormai 2000 (1995 in settembre); si passati dal 120 al 127% del Pil. Le previsioni dicono il 129,6% nel 2013 e il 131,4% nel 2014. I decimali, nelle previsioni soprattutto, fanno un po ridere, ma limportante la tendenza indicata. Ricordo, comunque, che il Giappone ha un rapporto debito/pil di oltre il 200%, si parla perfino del 220%. Anche se poi vi la differenza legata al fatto che il 90% desso in mano ai giapponesi, mentre il debito italiano solo per la met di pertinenza di nostri cittadini. Il debito Usa supera il 100% del Pil. Alcuni rilevano che tale percentuale riguarda soltanto il debito federale; complessivamente, se si considera anche il debito dei singoli Stati, si va verso percentuali del rapporto debito/Pil superiori a quelle italiane (qualcuno parla del 140%). Infine, si tenga presente che il debito pubblico solo una parte del problema. In realt, bisogna valutare la situazione debitoria o meno dei privati, dei cittadini di un paese. In Italia, pur se negli ultimi tempi in diminuzione, abbastanza alto il risparmio privato; e questo fa in qualche modo da contraltare al debito pubblico. Se si somma questultimo al suddetto risparmio, lItalia in condizioni migliori o meno peggiori rispetto a quasi tutti gli altri paesi sviluppati, ivi compresa la Germania, forse il pi virtuoso in merito; per non parlare invece degli Usa e del solito Giappone. Tale fatto pone in luce ancora peggiore le attuali politiche governative, che stanno spingendo i privati ad intaccare i risparmi per non ridurre il loro tenore di vita. E i consumi, malgrado questa resistenza, sono in notevole diminuzione.

PARTE SECONDA

UN RIPENSAMENTO COMPLESSIVO

1. Ribadisco innanzitutto che la crisi economica fenomeno di superficie (terremoto), dovuto alla generale forma di merce assunta da ogni (o quasi) prodotto dellattivit umana nel sistema capitalistico, implicante luso della moneta, e dei mezzi ad essa equivalenti, nello scambio tra i vari soggetti. E indispensabile distinguere una vera crisi da quelle che talvolta passano per tali, ad esempio lestrema labilit delle Borse valori, soggette a continue e talvolta assai ampie oscillazioni; per non parlare dello spread (differenziale tra gli interessi pagati sui titoli del Debito pubblico dai vari Stati, di cui si preso ossessivamente in considerazione quello tra Germania e Italia), che diventato la moda corrente nellattuale crisi; iniziata nel 2008 senza che in pratica nessun esperto di problemi economici lavesse prevista e pressoch tutti labbiano per un bel po sottovalutata.Le crisi dellultimo tipo citato dipendono da fenomeni speculativi sul denaro e i titoli; inoltre possono essere con un certo successo manovrate in senso politico per conseguire dati obiettivi, ad esempio il cambio di un governo o comunque una serie di operazioni che conducono dati paesi ad una maggiore dipendenza da altri; dipendenza comunque gi in atto per ben altri motivi pi cogenti. Le vere crisi economiche caratterizzate da crolli improvvisi e catastrofici (tipo 1929) o invece da un lungo periodo di sostanziale stagnazione (tipo quella di fine secolo XIX, 1873-96, cui tende sempre pi ad assomigliare la recente crisi generale di sistema del 2008) non sono affatto controllabili e manovrabili da nessuna forza economica e politica. La prima di quelle da potersi considerare capitalistica si manifest nel 1816. Tuttavia, essa ebbe ancora ampi caratteri di carestia, essendo dovuta a particolari condizioni climatiche che influirono sullagricoltura; di conseguenza fu in qualche modo simile alle crisi delle epoche precapitalistiche, quando lagricoltura era nettamente predominante. Nel 1816 siamo gi nel pieno della prima rivoluzione industriale (1760-70/1830-40), ma evidentemente quello che Marx denomin modo di produzione specificamente capitalistico non si era pienamente formato (e affermato).Da allora, e sempre pi, le crisi divennero capitalistiche nel loro senso peculiare: niente carestia, sempre pi ingorgo dei mercati invece, cio una domanda (di consumo e di investimento) che non tiene dietro allofferta (produzione) di merci. Peculiarit della crisi capitalistica il suo scatenare un processo dimpoverimento della popolazione nel bel mezzo di unaccentuata crescita della produzione per il mercato, che ad un certo punto resta per in buona parte invenduta mettendo in moto, come gi considerato, il circolo vizioso della crisi stessa. Soprattutto (non esclusivamente) quando si andarono formando le grandi societ per azioni, gi a met 800 e poi sempre pi, le crisi furono accompagnate da gravi perturbazioni nei mercati dei titoli (azioni, obbligazioni, ecc.). Anzi, lapparenza non fu quella dellaccompagnamento, bens dellimpulso impresso alla crisi da un grave crollo dei prezzi in Borsa. Allinizio la crisi si manifesta dunque nel suo aspetto finanziario, il quale stato caratteristico in particolare dei gravi sprofondamenti del tipo 1907 e 1929. Proprio tale prima fase della crisi, caratterizzata da bruschi fenomeni di tracollo dei prezzi in Borsa, consente agli esperti, ai tecnici, una serie di fughe ideologiche. Si parte sempre dallaccusa ai finanzieri, in specie ai banchieri, di aver esagerato nella loro specifica funzione per ingordigia di profitti. Li si rende anche responsabili di una serie di non ottemperanze a date regole, sempre pi complicate, che si sono andate formulando e consolidando nella lunga storia del capitalismo. Qualche volta si parla persino di un comportamento non etico da parte di chi svolge funzioni di notevole rilevanza in merito alla fornitura dei mezzi essenziali per lattivit produttiva. In un sistema economico fondato sulla generalit degli scambi mercantili, nessuna produzione, condotta da singoli soggetti (le unit produttive denominate imprese), pu essere iniziata se non a partire dal possesso di denaro (o equipollente) con cui acquistare i fattori produttivi; e buona parte di questo mezzo monetario fornita appunto dal sistema bancario, nervatura centrale di quella che viene complessivamente detta finanza. Di conseguenza, quando si manifesta il tipico carattere capitalistico della crisi lingorgo di merci invendute con conseguente diminuzione dellattivit produttiva il fenomeno che si manifesta con maggiore evidenza, indicato allora come causa dellevento, appunto il cavallo che non beve; fuor di metafora, ci significa che limprenditore non chiede pi denaro in prestito poich gli mancano le occasioni di proficuo investimento. Egli si trova inoltre in difficolt nel restituire i prestiti gi ottenuti in passato quando ancora leconomia tirava e la domanda era sostenuta. Data lautonomia di funzione acquisita dal settore bancario rispetto a quello industriale, il primo (lapparato finanziario) usa linfluenza anche politica di cui ormai gode per ovviare ai peggiori effetti che la crisi ha su di esso; e ci riesce in genere con qualche successo (spesso temporaneo), approfittando per, soprattutto, della configurazione del sistema produttivo (in specie industriale) che vede in campo, oltre alle grandi imprese (con influenza nei mercati e nella sfera politica non inferiore a quella delle banche), una miriade di piccole attivit, ad esempio il cosiddetto artigianato, il lavoro autonomo (che lo assai poco nei fatti), dotati di assai minore forza e capacit di pressione sulla politica.Tutto questo fa dimenticare per troppo tempo il lato reale della crisi, cio la diminuzione dellattivit produttiva e quindi del reddito di gran parte della popolazione, con linnescarsi di fenomeni negativi ben pi duraturi sebbene allinizio meno appariscenti di un crollo di Borsa e del fallimento di alcune banche che prendono gradatamente il davanti della scena con i loro vasti effetti sociali di disoccupazione e povert diffusa. A questa la gente tenta di resistere soprattutto nei paesi capitalisticamente avanzati intaccando i risparmi accumulati negli anni buoni. Anche per questo motivo la crisi reale, implicante il depauperamento di unampia quota della popolazione, si sviluppa con maggiore gradualit, interpretata spesso dai gazzettieri ed esperti come luce in fondo al tunnel, preannuncio della fine della crisi, prospettive di miglioramento per il futuro, che si fa attendere molto a lungo. Si pensi sempre al caso esemplare del 1929-33. In una settimana di ottobre (dal gioved 24 al terribile marted 29, i due giorni neri) si scaten linferno; per in Borsa, presso certi Istituti finanziari, nelle pagine dei giornali, alla radio e media in genere. La gente fu allinizio colpita soprattutto emotivamente. Tuttavia, con il passare degli anni, non dei mesi, essa si rese conto della netta diminuzione del proprio tenore di vita e, per una sua discreta parte, della perdita delle proprie riserve; pur nello sfavillio, invece, di quegli anni ruggenti, anche a causa del proibizionismo e degli affari che arricchivano i malavitosi. In realt, nel 1932-33, ben dopo lottobre nero della Borsa, si videro non i crolli di Borsa, bens le lunghe file di disoccupati con gavetta in mano alle mense pubbliche; una scena che entr nel cinema, perfino ad esempio nel genere leggero del musical con La danza delle luci (1933, appunto), di Mervyn Le Roy, impreziosito dalle grandi scenografie di Busby Berkeley (un film primatista di incassi e che, nel 2003, stato selezionato per la conservazione negli Stati Uniti dal National Film Registry della Biblioteca del Congresso in quanto culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo).

2. Malgrado quanto appena detto, gli esperti e tecnici dei nostri tempi continuano a raccontarci della crisi finanziaria e degli sforzi congiunti dei vari paesi (ognuno in lotta per i suoi interessi, soltanto fingendo la cooperazione internazionale) per superarla. Ogni tanto attribuendo colpe a questo o a quello: prima stata presa di mira la Cina per la sua ostinazione a non voler rivalutare la propria moneta, ultimamente venuta di moda la Germania che predomina nella UE e imporrebbe scelte dannose agli altri paesi, in particolare allItalia; e via dicendo in un crescendo di banalit e di falsi obiettivi (pi o meno polemici). Ogni tanto, timidamente, si accenna alle manovre degli Stati Uniti e della sua Federal Reserve (la Banca Centrale Federale), che non sarebbero proprio ortodosse e tramite le quali si cerca di scaricare la crisi su altri paesi. Tutto si dice salvo che affrontare il nodo centrale della questione.Torniamo alla grande crisi del 1929. Gi si ricordato nella prima parte come il New Deal, varato nel 1933 e durato fino al 37, avesse prodotto una qualche ripresa delleconomia per alcuni anni, due-tre al massimo. Probabilmente gi nel 36, ma sicuramente dal 37 e fino alla seconda guerra mondiale, la situazione torn critica. Non ci furono crolli di Borsa eclatanti ma la produzione e loccupazione restarono per quelli di una fase di sostanziale depressione. Qualche dato tanto per dare unidea del problema. Fatto 100 il reddito Usa del 29, esso fu 89 nel 37, 81 e poi 79 nel 38, 85 nel 39. La produzione industriale segu pi o meno lo stesso andamento (forse con un piccolo miglioramento solo nel 37). Loccupazione nellindustria, prendendo come base addirittura il periodo (di crescita) 23-25, vede lindice a 111 nel 37 (ultimo anno del New Deal), ma poi a 91 e 84 nel corso del 38 e a 96 nel 39. Al di l di queste poche indicazioni, la realt fu comunque di stagnazione, di difficolt a far ripartire il sistema economico statunitense. In ogni caso, la politica inaugurata con la presidenza Roosevelt nel 1933 si chiuse quattro anni dopo, alla sua rielezione; non escluderei che ci sia stato dovuto anche alla constatazione del raggiunto limite delle sue capacit di riavvio economico.Dopo la guerra si ebbe invece, con differenti periodi di innesco, una nuova intensa crescita che interess quasi tutte le economie del cosiddetto campo capitalistico. A parte gli Stati Uniti che gi durante il conflitto mondiale produssero a pieno regime, non avendo avuto problemi di distruzioni sopportate direttamente sul proprio territorio negli altri paesi avanzati, colpiti duramente, ci fu una certa difficolt di ripresa. Tuttavia, chi prima e chi poi, essi crebbero economicamente in modo notevole. Il Giappone fu uno dei primi a mettersi in moto e con un ritmo di aumento del Pil piuttosto simile a quello cinese degli ultimi decenni. La spiegazione, molto spesso ideologica, addusse varie motivazioni. In primo luogo, laiuto dei liberatori americani (ad es. il Piano Marshall tra il 1947 e il 1951, limitato comunque ai paesi europei); inoltre, le esigenze della ricostruzione. Per alcuni, e con riguardo del tutto prevalente agli Stati Uniti, fu importante la forte spesa bellica, legata allesigenza del confronto con lUrss, alla gara spaziale, e via dicendo.Fu anzi formulata, da critici del sistema capitalistico, una particolare versione del keynesismo, che si potrebbe definire militare. La guerra fredda implic la crescita dellarmamento nonch la sua continua manutenzione, assai costosa, e linnovazione. Si trattava di forti investimenti (domanda dei fattori di produzione) per fabbricare una gran massa di beni, che non affluivano certo al mercato; e anzi venivano logorati e distrutti negli usi bellici con ulteriori spese di conservazione, riattamento e sostituzione. La produzione di armi creava dunque fonti di reddito per coloro (capitalisti e operai) che erano impegnati in tali settori, con conseguente crescita della domanda senza che quei beni andassero ad ingorgare i mercati di vendita con la loro offerta. In un certo senso, la situazione potrebbe essere assimilata a quella dellaffermazione fatta da Keynes (per paradosso, ma significativo del reale significato della sua teoria): sarebbe al limite utile pagare salari ad operai che scavassero buche e poi le ricoprissero, con distribuzione di reddito e di potere dacquisto senza produrre beni da offrire nel mercato. Il nuovo potere dacquisto si sarebbe dovuto dirigere verso strutture produttive gi esistenti ma inutilizzate, che sarebbero state rimesse in funzione, assumendo operai disoccupati, con rilancio (moltiplicato) della domanda (di beni di consumo e di produzione) prima depressa dalla crisi. Accettando un simile punto di vista, il crollo del socialismo reale e soprattutto dellUrss avrebbe dovuto creare una nuova difficolt nello sbocco dei beni nel mercato con laccentuarsi degli elementi di crisi; se soltanto, per, lindustria bellica statunitense si fosse riconvertita a produzioni civili, cosa mai accaduta poich dal 1991 le continue imprese belliche statunitensi non hanno concesso requie al bilancio militare.Resta il fatto che il lungo periodo del mondo bipolare sembr aver decretato la fine delle gravi crisi del tipo di quella del 1929; si parlava ormai di pi o meno forti recessioni, sempre considerate effetto di determinati eventi particolari (ad es. le crisi petrolifere del 1973 e 1979) e tutto sommato controllabili con manovre varie della politica monetaria (ad es. i movimenti del saggio di sconto effettuati dalle Banche Centrali) e luso della spesa pubblica quale volano dellandamento sinusoidale delleconomia. A partire dagli anni 80, in cui si verific la rivincita del (neo)liberismo, si ricominci con il tema del debito pubblico, se ne incolparono le spese eccessive per il mantenimento dello Stato sociale; in Italia si punt molto sulle motivazioni politiche del gonfiarsi di una spesa pubblica clientelare, particolarmente dissipatrice di ricchezza sottratta alla disponibilit dei cittadini e dei settori privati; sincolp il compromesso storico (laccordo pi o meno sottobanco tra Dc e Pci), ecc. Argomentazioni, sia chiaro, non prive di un qualche punto di tangenza con la realt e tuttavia non soltanto enfatizzate, ma soprattutto responsabili in parte consapevolmente e in parte no della mancata riflessione su altri movimenti politici e sociali il cui verificarsi rappresenta il principale motore delle crisi economiche, in quanto fenomeni di superficie, gli eventi pi visibili e immediati nel colpire emotivamente chi ne subisce le conseguenze. Siamo cos arrivati al 2008, anno in cui scoppia la crisi talvolta paragonata al 1929 o al suo preannuncio; sono in molti, come al solito, ad addebitarla alle disfunzioni di istituzioni, soprattutto finanziarie, per colpa del lassismo e/o incompetenza di determinati soggetti che le amministrano. Comunque, sopra a tutto viene posto il problema delleccessiva spesa pubblica (in specie per le esagerazioni verificatesi nel campo pensionistico e sanitario) e del conseguente debito statale e di enti pubblici vari. Tale debito si ulula da tutte le parti va contenuto e si deve inoltre tendere al pareggio di bilancio, allequivalenza tra uscite ed entrate (fiscali). Da qui tutta la serie di misure che stanno deprimendo ancor pi leconomia in Europa; particolare menzione merita lItalia con il presente governo.Molti si chiedono se i vertici dei paesi europei (e degli organismi della UE), e soprattutto quelli italiani, siano o meno consapevoli del disastro provocato con il puntare (almeno nelle dichiarazioni ufficiali) alla riduzione del debito mediante misure che riducono in realt la capacit dacquisto e il tenore di vita della maggior parte della popolazione, non risolvendo affatto il problema in oggetto come si constata in Italia dove il debito pubblico sempre in aumento e aggravando invece la crisi economica reale. Difficile rispondere a simile domanda inquinata da problemi eminentemente politici, di cui sono in parte consci i dirigenti della potenza ancora centrale nellarea cui appartiene il nostro continente, i vertici statunitensi, con la loro neostrategia del caos non ancora ben conosciuta, che forse procede un po a tentoni, ma non deve comunque lasciar solidificare in Europa forze che si oppongano loro con decisione. In particolare, il nostro paese deve divenire sempre pi una sorta di base per operazioni future di cui ancora non valutiamo con sufficiente approssimazione la portata e gli obiettivi. Comunque, torniamo un passo indietro, alle cause delle crisi.

3. Alla fine del secolo XIX, come ho ricordato pi volte nei miei scritti, vi fu una lunga fase di stagnazione economica durata circa un quarto di secolo (1873-96), subito dopo la guerra (1870-71) in cui la Prussia sconfisse rovinosamente la Francia, mettendola di fatto fuori gioco nella competizione che si stava aprendo per la successione allInghilterra quale potenza egemone. La fase in questione coincide in parte con la seconda rivoluzione industriale, che vede la decisiva e sempre pi accentuata inversione del rapporto tra agricoltura e industria proseguendo poi, allinizio del secolo successivo, con il crescente diffondersi del motore a scoppio e dellindustria automobilistica (e subito dopo di quella aerea, ecc.), con la nuova organizzazione del lavoro denominata in seguito taylorismo-fordismo (a partire dal secondo decennio del 900), ecc. La fine ufficiale di detta grande depressione, fissata al 1896, precede di un decennio la prima grande crisi novecentesca del 1907, che anchessa come lo fu poi quella del 29 sfoci in un periodo di debole e incerta crescita economica, risolto dalla prima guerra mondiale, dopo la quale si ebbe un periodo, di nuovo decennale, di accentuata crescita economica; salvo che nellex impero asburgico, dissoltosi, e nella Germania della Repubblica di Weimar, la cui cronica crisi condurr infine alla svolta politica degli anni 30. Negli Stati Uniti, in particolare, si verific negli anni 20 una continua e notevole espansione economica.La stagnazione della fine secolo XIX non fu generale; riguard in particolare il centro del sistema economico e politico dell800, lInghilterra, la Francia sconfitta dalla Prussia e altri paesi soprattutto europei. Negli Usa e in Giappone essa fu assai meno sentita, poich si trattava di paesi comunque in crescita di potenza (come lo sono ad esempio oggi Cina, India e altri pur se la crisi del 2008 comincia a ridurre i loro tassi di aumento del Pil). Si deve inoltre ricordare che alcuni, a mio avviso in modo errato, considerano la depressione di fine 800 quasi uninvenzione degli storici, poich in effetti non vi fu una generale e netta caduta del reddito prodotto, semmai una sua stasi con anni di modesto innalzamento; si manifest invece la deflazione dei prezzi, da alcuni considerata quasi un fenomeno nettamente positivo e da ascrivere pi allo sviluppo che alla crisi. In realt, si tratt della fase in cui si andarono preparando eventi estremamente drammatici quali quelli che si produssero nella prima met del secolo XX: le grandi crisi economiche (soprattutto, come gi detto, quella del 29) e, in particolare, le due guerre mondiali.La fase in questione caratterizz la prima parte dellet detta dellimperialismo, dove con questo termine al contrario di quanto poi precis Lenin nel suo celebre opuscolo del 1916 sintendeva semplicemente il colonialismo. Lasciando adesso perdere il periodo precedente (anche la Spagna fu una potenza coloniale), si pu ben dire che, in tutta la prima met dell800, la grande potenza coloniale fu lInghilterra; ed essa era appunto, in particolare dopo il Congresso di Vienna (1814-1815), il paese capitalistico pi forte e sviluppato. Non fu certo un caso che lanalisi del capitalismo compiuta da Marx si accentrasse su tale paese, considerato un laboratorio della nuova formazione sociale poich in esso, nel decennio 1830-40, pot considerarsi conclusa la prima rivoluzione industriale con sostanziale rovesciamento del rapporto tra industria e agricoltura che era invece in ritardo nel continente europeo e negli Stati Uniti, pur se andava qui accentuandosi il contrasto tra nord industriale e sud agricolo (cotoniero).A partire dalla seconda met del XIX secolo, e specialmente dal 1870, si accentu lo scontro tra i vari paesi capitalistici avanzati per la conquista delle colonie; e per la redistribuzione di quelle gi acquisite (ci si ricordi che anche la Francia aveva possessi coloniali di rilievo pur se si era indebolita, come gi messo in luce, con la sconfitta nella guerra del 1870-71). Let dellimperialismo si caratterizza allora come fase storica dellaccentuata lotta per la conquista e spartizione di colonie. Questo seguito di eventi deve far riflettere. LInghilterra non era pi il paese dotato di una potenza decisamente superiore agli altri paesi, cos come lo era divenuta alla fine del lungo confronto con la Francia sconfitta a Waterloo. Il succitato Congresso di Vienna il Congresso detto della Restaurazione (dellAncien Rgime), in cui solo apparentemente riprese aire il vecchio mondo (quasi nobiliare), in realt ormai incapace di tenere il passo con levoluzione di un capitalismo in accentuato sviluppo sanzion pure la supremazia inglese. Nel periodo intercorrente tra la sedicente restaurazione e la grande depressione del 1873-96 si pu ben dire che lInghilterra fu la potenza centrale nel mondo. Il possesso di colonie riteneva lattenzione degli storici, sempre superficiali poich inseguono i fatti nella loro manifestazione pi evidente e spesso pi effimera. Parlano spesso di longue dure, ma questa attiene in genere a incrostazioni culturali, di costume, et similia, importanti certamente ma non quanto la preponderanza politica, assistita e consolidata, specialmente nellepoca capitalistica, da quella economica; non per con riferimento preminente allaccelerata crescita dellapparato finanziario ancora una volta un fenomeno derivato, e un fattore strumentale preso dai soliti superficiali per causa principale bens alla forza produttiva e innovatrice dellindustria, che sostiene in quanto mezzo precipuo il compimento delle mosse strategiche delle varie potenze in conflitto per la supremazia mondiale.Let dellimperialismo di solito considerata del tutto banalmente come epoca di affermazione del mono(oligo)polio delle grandi imprese (societ per azioni) con connesso ostacolo allo sviluppo delle forze produttive (che si presume siano galvanizzate soltanto dalla concorrenza interimprenditoriale) e conseguente necessit di impadronirsi di nuove aree (paesi colonizzati) di sfruttamento, divenuto pi difficile nei confronti della propria forza lavoro nazionale, in specie nel periodo di rafforzamento del movimento operaio in realt la fase storica dellindebolimento e declino della potenza inglese, della progressiva perdita della sua centralit mondiale, economica non meno che politica e militare. Un declino che si potuto valutare solo dopo la prima guerra mondiale e che non deve essere considerato un processo inevitabile ed irreversibile fin dallinizio di quellepoca; andata cos, e lo si potuto constatare con almeno mezzo secolo di ritardo (e non completamente, perch la certezza definitiva del tramonto inglese si avuta con la seconda guerra mondiale). In ogni caso, la lunga depressione del 1873-96 stata il sintomo (e leffetto) della messa in discussione della primazia inglese, dellascesa di alcune nuove potenze ormai concorrenti nellaspirazione a prevalere. La lunga depressione nasceva dallo scoordinamento indotto nellinterrelazione tra i vari sistemi economici, in quanto nervatura e struttura ossea di varie aree che erano tuttavia paesi, nazioni, poich ognuna di queste aree, per lottare contro le altre, doveva essere dotata di un determinato insieme di apparati addetti allesercizio della forza, quelli dello Stato, con potest territoriale confortata pure da unit di lingua, di cultura, di tradizioni, ecc. ormai entrate in competizione per il predominio mondiale. In un mondo, in cui i principali paesi erano divenuti capitalistici (erano quindi ormai passati dalla semplice manifattura allindustria), il coordinamento era garantito dalla complementariet tra le loro differenti sfere economiche: soprattutto quelle produttive, laspetto finanziario essendo sostanzialmente derivato, malgrado apparisse il pi mobile e soggetto a scosse data la liquidit del mezzo manovrato dal sistema bancario. Lo scontro tra detti paesi per la supremazia una volta che alcuni dessi conquistarono la forza per contestare quella inglese doveva certo impiegare, in ultima analisi, gli strumenti di sempre, cio le armi e gli eserciti (oltre alla diplomazia, alle pressioni, alla corruzione o convincimento per interesse di dati gruppi dominanti in altri paesi, ecc.); tuttavia, la sfera economica era divenuta un decisivo strumento corroborante limpiego dei mezzi dultima istanza. E lo sviluppo di tali strumenti corroboranti si verificava ormai con modalit strutturali simili in un certo numero di paesi capitalistici fra loro in conflitto, per cui andava persa lintegrazione, la complementariet, tra i diversi settori produttivi degli stessi. Da qui lo scoordinamento, presentatosi allinizio come stagnazione con pi bassi tassi di crescita, per poi via via aggravarsi nel prosieguo della lotta e passare di livello, fino appunto allaperto manifestarsi delle grandi crisi del 900: crisi economiche del 1907 e 1929 (con il loro prolungamento di stentata ripresa) e crisi militari con le due grandi guerre mondiali; lultima delle quali si concluse con lavvento di un nuovo centro coordinatore, perch detentore della supremazia, in uno dei due poli in cui fu suddiviso il mondo per poco meno di mezzo secolo. Andiamo per con ordine.

4. Il 1873-96 non fu dunque un periodo di cui ricordare soltanto la relativa stagnazione economica (non generale, soprattutto europea). Leconomicismo sempre imperante in tutte le ideologie da oltre un secolo e mezzo a questa parte che si tratti di quelle dei dominanti o di quelle dei critici del capitalismo ha impedito di pensare pi correttamente quella crisi. In realt, si tratt delliniziale periodo di rafforzamento di alcune potenze che misero in discussione il predominio centrale (il monocentrismo) inglese. Fu appunto la fine di tale predominio la causa decisiva dello scoordinamento tra i sistemi economici di tali paesi, di una loro competizione comportante lanarchia mercantile malgrado il fenomeno della centralizzazione dei capitali e la formazione del regime di mercato detto oligopolio. Lenin colse nel segno quando del monopolio disse che non era la fine della concorrenza, ma anzi del suo riproporsi ad un livello pi alto. Err per omaggio allortodossia marxista assegnando ad esso la qualifica di caratteristica principale dellimperialismo, da cui deriv la tesi dellultimo stadio del capitalismo che non era affatto ultimo in ordine di tempo; chi sostenne questo, i marxisti sciocchi, impedirono che quellerrore potesse essere fecondo di un suo superamento nella giusta direzione con blocco dello sviluppo delle forze produttive, ecc. Egli per fece della concorrenza tra imprese monopolistiche per il controllo dei mercati mondiali la quarta caratteristica; e soprattutto punt lattenzione sulla quinta, quella decisiva, relativa alla lotta tra potenze per le sfere dinfluenza e, di conseguenza, per la primazia globale. Questa era invece in realt la principale caratteristica come sostenuto in un mio studio sullimperialismo di una decina e pi anni fa, che spero di riapprofondire in futuro in grado di chiarire veramente laffermazione secondo cui il monopolio concorrenza portata ad un pi alto livello con accentuata anarchia nei mercati (e dunque con crisi anche economiche sempre pi gravi); e tuttavia come conseguenza, non causa, delle strategie di conflitto messe in opera dalle potenze in lotta. Tutto da ripensare, e con forte ritardo, per colpa di marxisti teoricamente arretrati, simili a tolemaici, che mai hanno capito qualcosa del modello marxiano e delle folgoranti intuizioni leniniane; modello e intuizioni rivelatesi fondamentalmente errati, ma fecondi di potenziali sviluppi non perseguiti minimamente dal marxismo degli ultimi 70-80 anni. Solo leconomicismo, che vede esclusivamente il regno dello scambio di merci con un grappolo di grandi imprese in esso attivo, pu caratterizzare loligopolio quale mera fonte di accordo e di conseguente ordine e coordinamento dei settori e unit (imprese) produttivi, con stasi delle forze produttive. Non a caso, invece, il quarto di secolo della grande stagnazione fu periodo di intenso sviluppo nel senso del mutamento della struttura produttiva, mutamento talmente profondo e punteggiato da un susseguirsi di grandi innovazioni, di prodotto oltre che di metodi produttivi, da meritare la denominazione di seconda rivoluzione industriale.Pur restando entro lottica delleconomicismo, qualcosa in pi si comincia a capire se ci si rif alla polemica tra i seguaci della teoria ricardiana del commercio internazionale e coloro che, consapevolmente o per pratica politica, seguirono di fatto le indicazioni protezioniste di List. Do per scontato che si sappia di che cosa si sta parlando (ne ho scritto per sommi capi, ma sufficienti ad afferrare il problema, in Finanza e poteri, Manifestolibri 2008). Importante soprattutto tenere conto del divenire potenza di alcuni paesi durante lepoca di depressione a fine 800, che trae proprio origine da tale processo diniziale multipolarismo con scoordinamento del sistema globale centrato in gran parte sullInghilterra. Paradigmatico soprattutto quanto accadde negli Stati Uniti, che del resto divennero la potenza predominante nel corso del XX secolo, ma la cui forza and rapidamente crescendo appunto negli ultimi tre decenni del secolo precedente.Non far certo la storia di tale paese e nemmeno discuter lideologia della lotta allo schiavismo, che fu oggetto del contendere tra gli Stati del sud a quasi monocultura nelle piantagioni di cotone e quelli del nord dove si concentrava il processo di industrializzazione. Generalmente, lideologia non consapevole mascheramento dei reali interessi dei gruppi dominanti, i quali (o almeno una loro buona parte) sostengono spesso con convinzione i principi ideali professati. In altri scritti ho cercato di chiarire il rapporto tra processi legati a date condizioni oggettive e portatori soggettivi degli stessi, tra gli effettivi interessi in gioco dei gruppi dominanti e il loro travestimento ideologico che, oltre ad essere creduto da una quota dei dominanti, consente loro di formare interi blocchi sociali al seguito. Non torner su questi problemi nel presente contesto.Il contrasto tra i cotonieri del sud e gli industriali del nord ha accompagnato quasi tutta la storia degli Usa dalla loro fondazione dopo la guerra contro lInghilterra a fine secolo XVIII. Quando nel 1825 dopo breve carcerazione nel suo paese, il Wrttemberg, e successivo invio in esilio List arriv nel nuovo mondo, egli partecip pure ad una impresa industriale in campo ferroviario, ma soprattutto cominci a sviluppare le sue idee in contrasto con la teoria ricardiana del libero mercato in campo internazionale (non meno che in quello nazionale), che negli Usa (del sud) aveva come suo alfiere Thomas Cooper, mediocre economista. Le idee di List contrario ai principi liberisti solo in riferimento alla fase iniziale di industrializzazione di un paese (periodo della industria nascente) si consolidarono poi al ritorno in Germania (1832, poco prima del varo dello Zollverein) e portarono al suo testo fondamentale del 1841 Il sistema nazionale delleconomia politica. Qui ci interessa comunque il dissidio che, in merito ai problemi dello sviluppo industriale, nacque tra Stati del nord degli Usa e quelli del sud. I cotonieri di questi ultimi, al di l del loro credere o meno nei principi del libero commercio, avevano un precipuo interesse a questultimo perch esportavano cotone nel paese centrale del capitalismo industriale, lInghilterra, che ovviamente non vedeva di buon occhio leventuale sviluppo dellindustria statunitense, possibile e temibile concorrente. Gli Stati del nord degli Usa erano, altrettanto evidentemente, favorevoli ai dazi doganali per incentivare appunto la crescita della loro industria, in arretrato rispetto a quella inglese; il che comporta sempre maggiori costi poich non si gode di sufficienti economie interne (soprattutto legate alla scala di produzione) ed esterne (dovute allagglomerazione di pi settori industriali in date aree), ecc. Tuttavia, lInghilterra minacciava per ritorsione di accrescere limportazione di cotone dallEgitto e dallIndia a danno di quella dagli Stati meridionali americani. Al di l, dunque, della polemica sullo schiavismo in questi Stati, le condizioni oggettive di un acuto conflitto tra nord e sud degli Stati Uniti si aggravarono fino allo scoppio della ben nota guerra di secessione (o civile) del 1861-65, violentissima ed estremamente sanguinosa.La vittoria del nord (Unione) stata il vero atto di nascita della grande potenza statunitense che insidi quella inglese e poi la sostitu, ma nel giro di molti decenni. Non ripeto il ragionamento per la Prussia (divenuta nel 1871 Germania assieme ad altri Stati). Anche qui, gli Junker, aristocrazia terriera prussiana particolarmente conservatrice, era interessata allo scambio di prodotti agricoli con lindustriale Inghilterra. Malgrado Bismarck fosse un membro di tale classe, alla fine vinse lindustria interessata alla competizione con quella inglese. In questultima si mantenne a lungo la preponderanza dei settori tessili, mentre in Germania andarono sviluppandosi la chimica, lacciaio, ecc., le branche tipiche della seconda rivoluzione industriale. Lo stesso dicasi degli zaibatsu giapponesi, grandi concentrazioni industriali (e finanziarie) inizialmente, e a lungo, famigliari. La nascita delle potenze allora leffetto di mutamenti intervenuti nella struttura produttiva? E magari si pu pensare che, come primo atto, sia necessario accumulare grandi mezzi finanziari e creare un complesso e articolato sistema di istituti le banche, le grandi societ per azioni, predisponendo inoltre un sempre migliore funzionamento delle Borse valori in grado di fornirli copiosamente al sistema produttivo, in specie industriale? Vediamo.

5. La sequenza dei fenomeni non rispetta sempre i principi del rapporto causa/effetto, che dovrebbe vedere la prima anticipare il secondo. Esprimiamo meglio tale concetto. In realt, la causa precede leffetto; solo che non sempre i due fenomeni si verificano allo stesso livello della realt. Mi rifaccio allesempio dei terremoti. Il volgo avverte la terribile scossa terrorizzante e poi, nel mentre cerca di riorganizzarsi e riprendere il controllo della situazione, assiste al cosiddetto sciame delle minori scosse dette di assestamento. La sensazione empirica, la pi immediata, che la scossa pi forte sia la causa fondamentale del dissestarsi del terreno, mentre poi i vari strati di questultimo, nelle scosse pi deboli, si vadano dislocando via via in posizione reciproca tale da ripristinare un certo equilibrio di maggiore stabilit. La causa del sisma consiste invece nellaccumularsi durante lunghissimi periodi di tempo di una energia crescente per la frizione e urto tra strati di terreno situati a grande profondit, dove difficile vedere e controllare adeguatamente la situazione (comunque non lo si pu a occhio nudo). Ad un certo punto, la causa provoca il suo sconvolgente effetto, scaricandosi verso la superficie dove tutto ben colto dai sensi umani (trascuro il fenomeno secondario delleventuale prodursi di alcune minori scariche di avvertimento precedenti il sisma). Le scosse di assestamento sono in realt residui dellenergia accumulata per decenni (e pi ancora) e liberatasi per la maggior parte nel primo prodursi del suo rilascio. Il terreno, nelle sue profondit recondite, si gi per lessenziale assestato quando si produce la prima scarica energetica principale, effetto di quella causa rappresentata dalla lunga frizione tra i suoi strati. Come si vede, per, il linguaggio comune, e talvolta perfino quello dei sismologhi, induce a pensare che sia soprattutto il violento fenomeno di superficie a produrre in seguito progressivi assestamenti del terreno. La stessa cosa deve dirsi per ci che concerne le crisi economiche. Non lo si afferrato, io credo, perch indubbiamente il passaggio alla formazione sociale capitalistica, e tanto pi dopo la rivoluzione industriale, ha catturato lattenzione dei pensatori di questioni politiche e sociali, dando fra laltro inizio alla prima vera scienza di tale ramo che stata, non a caso, leconomia politica. Per millenni e millenni, la lotta tra dati gruppi (classi) sociali al fine di conquistare e mantenere la preminenza in date fasi storiche stata condotta nella sfera politica (con la sua decisiva appendice bellica) e in quella ideologica (di solito religiosa). La sfera economica, in minima parte interessata dalla produzione di beni per lo scambio mercantile, era appannaggio di gruppi (classi) subordinati, soggetti a servit, in ogni caso estranei alla lotta tra dominanti per la supremazia e solo spinti, ma in rari momenti, a violente ribellioni quasi sempre soffocate nel sangue. Con il passaggio al capitalismo si verificata la progressiva liberazione dei dominati da ogni vincolo servile e lestendersi impetuoso del mercato per ogni produzione, proprio a partire dalla necessit dei liberati di vendere come merce la propria forza lavorativa; ed indubbio merito di Marx laver individuato in tale processo, costitutivo del lavoro salariato, la reale causa del generalizzarsi della forma di merce dei vari prodotti. Egli in pratica lunico ad averlo pensato perch gli altri (dal grande storico Braudel a Polanyi, ecc.) hanno sempre messo la merce in prima posizione. Non posso qui adesso diffondermi sulla rilevanza veramente rivoluzionaria dellimpostazione marxiana, che ha pensato laffrancamento del produttore da ogni servit e il suo trasformarsi in lavoro salariato quale fulcro della transizione dal feudalesimo al capitalismo, senza farsi distrarre dalla lunga permanenza di forti sopravvivenze feudali in quanto limiti e intralci alla libera contrattazione di quella merce speciale che la capacit lavorativa umana (del resto mi sono prodigato in tale analisi in altre sedi). In ogni caso, con lavvento del capitalismo, la sfera economica, duplicatasi necessariamente in produttiva e finanziaria (produzione e commercio di denaro nelle sue svariate forme), diventa pur essa luogo di scontro per la supremazia nella societ. Mentre la scienza del capitale (dei dominanti) vede nel mercato il luogo precipuo della competizione, considerata virtuosa perch condotta secondo i metodi del miglioramento e innovazione delle tecniche produttive e dei prodotti, Marx individua la reale diseguaglianza esistente tra i soggetti implicati in questo specifico ambito (questione da me chiarita molte volte e anche nellultimo saggio uscito adesso come e-book). Tuttavia, egli pensa come fondamentali i rapporti sociali esistenti nellambito della produzione e punta lattenzione sulla propriet dei mezzi produttivi da parte di particolari soggetti riuniti nel concetto di classe borghese, considerati in netto antagonismo rispetto ai non proprietari e controllori della sola forza lavorativa venduta appunto in qualit di merce.In realt, per quanto sia stata indubbiamente un mutamento rilevante lestensione del conflitto per la supremazia dalle sfere politica e ideologico-culturale a quella economica (produttiva e finanziaria), rimasto un elemento di invarianza che attribuisce determinati connotati comuni alle diverse formazioni sociali conosciute. Marx lo cap quando scrisse (Manifesto del 48) che tutta la storia fino a quel momento era stata caratterizzata dalla lotta tra classi. Sbagli per ovviamente secondo la mia personale opinione nel pensare che tale lotta si fosse principalmente svolta tra dominanti e dominati; e nel sostenere che la societ del capitale (del rapporto capitalistico nella produzione) sarebbe stata lultima interessata da un simile conflitto giacch la sua specifica dinamica centralizzazione dei capitali, separazione tra propriet dei mezzi di produzione e direzione delle unit produttive, con formazione dei rentier, da una parte, e del lavoratore collettivo, dallaltra avrebbe comportato la fine di un conflitto antagonistico precisamente nella sfera economica, con progressivo esaurimento dello stesso nelle altre sfere, considerate sovrastrutture rispetto alla base determinante in ultima istanza. Sarebbero certamente rimasti contrasti pi o meno acuti di tipo interindividuale, ineliminabili pure per Marx, giacch non vi era in lui alcuna idealizzazione dei soggetti umani. Tuttavia, tali contrasti non vanno assimilati ai problemi del predominio e dellappropriazione di pluslavoro (sfruttamento) in varie forme (fra cui quella di valore, tipica della societ capitalistica).

6. La liberazione dai vincoli di servit personale (non avvenuta dappertutto in concomitanza con lo sviluppo della formazione sociale capitalistica), il generalizzarsi della forma di merce dei prodotti a partire dalla riduzione a merce della forza lavorativa, il conseguente estendersi della lotta per la predominanza allambito economico prima solo fondamentale per la sopravvivenza della societ, mentre le questioni del potere e della competizione per conquistarlo si risolvevano nelle altre due partizioni della societ hanno comportato mutamenti profondi in detta lotta. I mezzi economici, quale strumento di questultima, hanno acquistato rilevanza. Le forma di merce generalizzata ha ovviamente comportato luso pur esso generalizzato del denaro nelle sue varie forme monetarie e a queste assimilabili in quanto ricchezza liquida, facilmente mobilizzabile. Gli stessi mezzi bellici, nel processo della loro acquisizione (dopo la necessaria produzione, che richiede anche ricerca scientifica, innovazione, ecc.), implicano luso di mezzi monetari e finanziari.Soprattutto, per, leconomia, una volta generalizzatosi il mercato, ha visto entrare in scena, dopo i semplici mercanti, i produttori di merci. Una volta dimenticata la disuguaglianza reale dei soggetti implicati nei settori della sfera economica (chi possiede i mezzi produttivi e chi fornisce a questultimo la propria forza di lavoro per vivere), la produzione apparsa appannaggio dei possessori dei mezzi che mettevano in piedi date unit poi denominate imprese. I loro conduttori, allinizio anche proprietari e in seguito prima di tutto manager organizzatori e dirigenti delle imprese, ivi comprese quelle che commerciano e forniscono il denaro, il mezzo di scambio delle merci e di accumulazione di ricchezza sono stati considerati i soggetti centrali di una societ divenuta estremamente dinamica quanto a sviluppo delle forze produttive, perch interessata dallaccelerato progresso tecnico in stretto intreccio con lavanzamento della scienza.I liberal-liberisti, che non vanno oltre la superficie mercantile con tutti i soggetti che in essa si presentano formalmente (e giuridicamente) quali possessori di merci in libera contrattazione, si sono fermati a tale centralit dellimprenditore nella nuova formazione sociale. Essi criticano leconomicismo marxista, ma sono i pi rozzi e schematici economicisti che ci siano; il mercato per loro il deus ex machina di ogni situazione. E anche quando uno di loro, in seguito allo choc della grande crisi del 1929, ha apportato una serie di critiche al liberismo tradizionale (si tratta ovviamente di Keynes), non andato oltre lindicazione di una spesa pubblica che sapesse rinvigorire la domanda privata in caduta, senza per mutare lorganizzazione produttiva e mercantile capitalistica, n la concezione degli imprenditori in quanto reali artefici della produzione e di questultima quale effettiva causa della dinamica dei paesi capitalistici. Marx, quanto meno, and oltre la superficie e vide chi era effettivamente il propulsore della produzione nellambito di una separazione tra propriet dei mezzi produttivi (e dunque del denaro per acquistarli) e mero lavoro salariato. Egli, non sempre per in modo chiaro e con piena coerenza, indic questultimo come linsieme dellattivit lavorativa, intellettuale e manuale, direttiva ed esecutiva. Ed infatti, nelle Glosse a Wagner, egli riconobbe che, nella prima fase del capitalismo, il proprietario era anche il dirigente della produzione, contribuendo perci a creare quel plusvalore di cui poi si appropriava. Poi, nel prosieguo dello sviluppo, la direzione sarebbe confluita nel lavoro salariato mentre la propriet sarebbe stata appannaggio di una classe simil-signorile, assenteista e parassitaria. Il lavoratore collettivo (mente e cervello in cooperazione pur nella divisione del lavoro) lavrebbe facilmente sotterrata mediante rivoluzione.I marxisti successivi si accorsero che lo sviluppo capitalistico non andava in quella direzione, che i dirigenti salariati restavano specialisti borghesi (Lenin), quindi legati alla propriet, al capitale. Essi ridussero allora la classe rivoluzionaria a quella operaia in senso stretto e limitativo, le cosiddette tute blu. Malgrado tutte le chiacchiere sulla possibile cooperazione degli operai, quali proprietari in collettivo di alcune imprese (poi dirette sempre da nuclei che si staccavano dalla massa lavoratrice) ciance riprese in forze da quello stolto movimento borghese che si sbrac nel 68 e anni seguenti la classe operaia (nel senso dei lavoratori esecutivi, spesso manuali) non ha mai avuto capacit egemoniche e alla fine divenuta, in tutti i paesi in cui si svolta la rivoluzione industriale, tradunionista (che significa di fatto corporativa) e del tutto integrata ai meccanismi di riproduzione dei rapporti della formazione sociale del capitale (non pi borghese). Chi ha guidato effettive trasformazioni sociali radicali (da Lenin a Mao, ecc.) ha trasferito la qualifica di soggetto rivoluzionario da detta classe allalleanza tra operai e contadini. Tuttavia, questultima si rivelata sempre meno operaia e sempre pi contadina man mano che le rivoluzioni dette proletarie e socialiste si andavano trasferendo nei paesi del terzo mondo, largamente precapitalistici.Malgrado laffermazione di Marx, secondo cui il capitale non cosa ma rapporto sociale gi un passo avanti rispetto a tutte le concezioni dominanti, che parlano di capitale con riferimento al denaro e al cosiddetto fattore rappresentato dai mezzi di produzione il marxismo non si staccato dalleconomicismo: i suoi rapporti sociali sono quelli vigenti nellambito della produzione e dello scambio contrattuale tra i possessori di merci. Certo, grande cosa aver capito la differente natura sociale delle merci rappresentate dalla propriet dei mezzi produttivi e dalla propriet di mera forza lavoro. Non era per sufficiente; si rimasti incantati, anche in questa corrente di pensiero rivoluzionaria, dal passaggio del conflitto tra gruppi sociali per la preminenza dalle sfere politica (con appendice bellica) e ideologico-culturale a quella economica; passaggio appunto caratteristico della transizione al capitalismo. Questo lerrore decisivo che ha bloccato tale teoria della rivoluzione, indirizzando la sua concreta pratica sempre pi lontano da ogni dichiarata nuova transizione alla societ senza pi classi in contesa per dominare. Lerrore in questione ha comportato il sostanziale misconoscimento del conflitto caratterizzante il 90% (e pi) degli eventi storici: non lantagonismo tra dominanti e dominati, ma tra gruppi in lotta per la supremazia, ivi compresi quelli dirigenti di masse subordinate in movimento (in specifiche contingenze storiche), che hanno sempre funzionato oggettivamente, malgrado una diversa ideologia, spesso soggettivamente creduta dai dirigenti in questione e di cui essi si sono fatti portatori da blocchi sociali orientati allo scopo di conseguire mutamenti radicali dei rapporti sociali.

7. Qui arriviamo al clou della questione; e del fraintendimento in cui incorrono le varie correnti teoriche in discussione sulla societ capitalistica: che si tratti degli sciocchi e superficiali creduloni in fatuo dibattito sulle crisi finanziarie (e oggi sullo spread, il massimo dellimbecillit di sedicenti esperti, ben pagati da gruppi dominanti ormai putrefatti per raccontare frottole) o invece di pi seri analisti della crisi nel suo aspetto reale o di coloro che sappiano compiere un ulteriore salto di qualit ponendo in luce la radicale diversit di condizioni di partenza tra chi controlla masse monetarie e mezzi di produzione, ecc. e chi ha da vendere la sola forza lavoro che poi, in situazione di crisi, nemmeno trova pi nel mercato una domanda adeguata. Si deve accedere ad un altro livello teorico, apparentemente troppo astratto o poco importante per i suoi effetti di lunga lena rispetto ai terremoti di pi breve momento che sconvolgono la vita delle popolazioni in date congiunture storiche. Eppure da l si deve partire, altrimenti continuiamo nelle ciance sempre pi inconsistenti e vane.Penso sarebbe fuorviante rifarsi alla natura umana, a caratteri insiti in essa, ecc. E sufficiente riferirsi alla storia delle diverse societ, che sempre anche nel tanto declamato comunismo primitivo, animato dal presunto spirito comunitario che unirebbe certe orde cooperanti ai fini della sopravvivenza in condizioni di bassissimo livello produttivo hanno conosciuto il conflitto tra individui, e pi generalmente tra gruppi di individui, per assumere la posizione di vertice e comando nelle varie fasi della loro storia. La lotta tra individui e gruppi si svolge in base a sequenze di mosse, studiate anche per rispondere a quelle degli avversari, che sono pi o meno complesse strategie atte a conquistare la vittoria; questa spetta poi, per periodi di tempo pi o meno lunghi e con una preminenza pi o meno netta, ad un gruppo nei confronti degli altri, i perdenti. Tali mosse di un combattimento per affermarsi precipitano sempre in apparati di vario tipo, che rappresentano la parte pi densa (materiale) e strumentale delle strategie stesse. Sono le strategie ad essere la causa il movimento degli strati di terreno pi profondi in reciproco urto e frizione dellimpiego, pi o meno sconvolgente, degli apparati nelle sfere della politica e dellideologia, le due sfere sociali in cui per millenni si svolto lurto tra i vari gruppi in contesa. Gli apparati sono meno flessibili e mutevoli delle strategie, permangono di solito a lungo nella loro condensazione e materialit; anzi, spesso sembrano gli stessi anche quando ormai altri gruppi sono al comando ed essi, di conseguenza, acquistano connotati e svolgono funzioni differenti nel corso dellevoluzione storica. Le strategie del conflitto sono quelle che denomino, in mancanza di un termine migliore, la politica nel suo senso pi proprio; mentre gli apparati detti politici (ed oggi, primieramente, quelli denominati Stato nel loro insieme) sono suoi strumenti di esercizio, esattamente come solo strumenti sono quelli in cui si va condensando la lotta ideologica (anche nel senso di scontro di idee sul mondo), aspetto certo rilevante ma non quello decisivo in ultima istanza nel conflitto per prevalere.Nel passaggio alla formazione capitalistica con generalizzazione degli scambi mercantili implicante la produzione nelle unit denominate imprese e la duplicazione della sfera economica in produttiva e finanziaria (questultima fornendo il denaro necessario agli scambi, senza i quali non si mette in moto la produzione di forma capitalistica) ci che si allarga dagli ambiti politici e ideologici a quello appunto economico innanzitutto la politica, linsieme delle mosse strategiche del conflitto tra gruppi per la predominanza. E precisamente tale movimento decisivo vera causa della transizione dal precapitalismo al capitalismo ad essere stato messo in secondo piano rispetto allo scintillio (solo apparente) della novit insorta: gli imprenditori (i capitalisti in quanto proprietari dei mezzi produttivi e del denaro) diventano figure del combattimento in corso; mentre, in precedenza, i produttori in condizione servile erano puramente e semplicemente dei soggetti dominati (posti appunto in soggezione) da chi deteneva il potere nelle altre due partizioni della formazione sociale.I capitalisti partecipano per alla lotta per la prevalenza in quanto siano capaci di svolgere la politica, le strategie della lotta; i loro strumenti, ma solo strumenti, di battaglia sono le imprese, sono i mezzi produttivi e il denaro da essi controllati. Questi strumenti sono divenuti, sia nelle teorie apologetiche che in quelle critiche del capitalismo, laspetto centrale, la vera causa della dinamica di tale societ. Questo stato lerrore fondamentale di apologeti e critici insieme. E la politica il fulcro di detta dinamica, non meno che nelle societ precapitalistiche; solo che nella nuova formazione sociale essa si estesa alla sfera delleconomia, a sua volta scissasi nelle due sottosfere gi pi volte indicate. Nelle societ precapitalistiche, la produzione era svolta nel prevalente settore agricolo coadiuvato da una produzione manifatturiera di tipo artigianale; e con scambi mercantili limitati ad eventuali sovraprodotti di societ organizzate per lautosussistenza. Le crisi potevano provenire solo dallagricoltura, trattandosi quindi soprattutto di carestie con malnutrizione, epidemie gravi, ecc. Nella societ capitalistica, ormai a preminente industrializzazione e con scambio mercantile generalizzato, non vi pi problema di sottoproduzione. Le crisi avvengono per scoordinamento nel tumultuoso processo di sviluppo delle forze produttive con periodiche fasi di grandi innovazioni, dovute fra laltro al forte intreccio tra scienza e settori produttivi.Dal punto di vista limitatamente economicistico, laspetto pi proprio della crisi capitalistica lanarchia mercantile; solo una cattiva cons