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SOLILOQUI Libro II 1. 1. Agostino - Per parecchio tempo è rimasta sospesa la nostra opera. Invece l'amore è impaziente e non si dà limite all'angoscia se non si concede all'amore l'oggetto amato. E per questo diamo inizio al secondo libro. Ratio - Iniziamolo. A. - Ed abbiamo fede che Dio ci assisterà. R. - Abbiamo fede certamente, se questo è almeno in nostro potere. A. - Egli stesso è il nostro potere. R. - E allora prega con quanto maggiore brevità e sincerità ti è possibile. A. - O Dio che sei sempre il medesimo, che io abbia conoscenza di me, che io abbia conoscenza di te. Ho pregato. R. - Tu che desideri la conoscenza di te, hai coscienza d'esistere? A. - Sì. R. - Come ne hai coscienza? A. - Non so. R. - Hai esperienza di esser uno o plurimo? A. - No. R. - Hai coscienza di esser soggetto al divenire? A. - No. R. - Hai coscienza di pensare? A. - . R. - Dunque è vero che tu pensi? A. - Sì R. - Hai coscienza di essere immortale? A. - No. R. - Di tutti questi significati che, come hai ammesso, trascendono l'atto della tua coscienza, di quale per primo desideri avere scienza? A. - Della mia immortalità. R. - Desideri vivere dunque? A. - Lo confesso. R: - E quando raggiungerai scienza della tua immortalità, cesserà la tua ricerca? A. - Sarà una grande conquista, ma per me è sempre poco. R.- E quanto godrai di questo poco? A. - Moltissimo. R. - E non ti abbandonerai più all'angoscia? A. - No certamente. R. - E se la vita ti apparisse tale che in essa non ti fosse concesso di conoscere di più di quanto hai già conosciuto, porresti un limite alla tua angoscia? A. - Anzi aumenterebbe tanto che la vita non avrebbe più senso. R. - Dunque non desideri vivere per vivere, ma per avere scienza. A. - Ammetto la conclusione. R. - E se anche avere scienza ti rendesse infelice? A. - Escludo in forma assoluta tale possibilità. Data l'ipotesi non ci sarebbe felicità per l'uomo. In

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SOLILOQUI

Libro II

1. 1. Agostino - Per parecchio tempo è rimasta sospesa la nostra opera. Invece l'amore è impaziente e non si dà limite all'angoscia se non si concede all'amore l'oggetto amato. E per questo diamo inizio al secondo libro. Ratio - Iniziamolo. A. - Ed abbiamo fede che Dio ci assisterà. R. - Abbiamo fede certamente, se questo è almeno in nostro potere. A. - Egli stesso è il nostro potere. R. - E allora prega con quanto maggiore brevità e sincerità ti è possibile. A. - O Dio che sei sempre il medesimo, che io abbia conoscenza di me, che io abbia conoscenza di te. Ho pregato. R. - Tu che desideri la conoscenza di te, hai coscienza d'esistere? A. - Sì. R. - Come ne hai coscienza? A. - Non so. R. - Hai esperienza di esser uno o plurimo? A. - No. R. - Hai coscienza di esser soggetto al divenire? A. - No. R. - Hai coscienza di pensare? A. - Sì. R. - Dunque è vero che tu pensi? A. - Sì R. - Hai coscienza di essere immortale? A. - No. R. - Di tutti questi significati che, come hai ammesso, trascendono l'atto della tua coscienza, di quale per primo desideri avere scienza? A. - Della mia immortalità. R. - Desideri vivere dunque? A. - Lo confesso. R: - E quando raggiungerai scienza della tua immortalità, cesserà la tua ricerca? A. - Sarà una grande conquista, ma per me è sempre poco. R.- E quanto godrai di questo poco? A. - Moltissimo. R. - E non ti abbandonerai più all'angoscia? A. - No certamente. R. - E se la vita ti apparisse tale che in essa non ti fosse concesso di conoscere di più di quanto hai già conosciuto, porresti un limite alla tua angoscia? A. - Anzi aumenterebbe tanto che la vita non avrebbe più senso. R. - Dunque non desideri vivere per vivere, ma per avere scienza. A. - Ammetto la conclusione. R. - E se anche avere scienza ti rendesse infelice? A. - Escludo in forma assoluta tale possibilità. Data l'ipotesi non ci sarebbe felicità per l'uomo. In

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definitiva non per altro ora sono infelice se non a causa dell'ignoranza. Che se scienza rende infelici, l'infelicità è stato definitivo. R. - Ora comprendo il significato del tuo desiderio. Dalla tua convinzione che l'uomo non è infelice a causa di scienza, risulta probabile che avere scienza rende felici. E poiché felice non è chi non vive e non vive chi non è, tu desideri essere, vivere e pensare o meglio essere per vivere e vivere per pensare. Dunque hai coscienza di essere, vivere e pensare. Ma tu desideri ancora avere scienza se tali principi sempre rimangono o se non ne rimanga alcuno ovvero se di essi qualcuno rimanga e qualcuno cessi e se possano diminuirsi o accrescersi qualora tutti rimangano. A. - Sì. R. - Se dunque riusciremo a dimostrare che il nostro vivere non cessa, ne conseguirà che anche il nostro essere non cessa. A. - Ne seguirà. R. - Rimarrà tuttavia aperta la ricerca sul pensare.

2. 2. A. - Ritengo che il procedimento sia molto chiaro e breve. R. - Allora sta' pronto a rispondere con discernimento e attenzione alle mie domande. A. - Sono pronto. R. - Nell'ipotesi che il mondo rimanga per sempre, è vero che esso rimarrà per sempre? A. - Chi ne può dubitare? R. - E nell'ipotesi che non rimanga, è vero che non rimarrà? A. - Non faccio obiezioni. R. - E quando venisse a cessare, nell'ipotesi che sia destinato a cessare, non è allora vero che il mondo è venuto a cessare? Difatti fin quando non è vero che il mondo è cessato, non è cessato; quindi è assurdo che il mondo sia cessato e che non sia vero che il mondo è cessato. A. - Ammetto pure questo. R. - Ed ancora: ritieni che si dia il vero e che la verità non esista? A. - No assolutamente. R. - Dunque rimarrà la verità anche se il mondo cessasse d'essere. A. - Non posso negarlo. R. - E nell'ipotesi che la verità stessa venisse a cessare, è vero che la verità è venuta a cessare? A. - Ed anche questo chi lo nega? R. - Ma il vero non può esistere se la verità non esiste. A. - L'ho ammesso dianzi. R - È dunque assurdo che la verità venga a mancare. A. - Continua come hai cominciato, poiché codesta tua argomentazione è assolutamente vera.

3. 3. R. - Ora rispondimi: ritieni che il sentire appartiene all'anima ovvero al corpo? A. - Ritengo che all'anima. R. - E ritieni che l'intelligenza è parte dell'anima? A. - Certamente. R. - Dell'anima soltanto o anche di qualche altro essere? A. - Ritengo che oltre che nell'anima l'intelligenza esiste in Dio. R. - Ed ora esaminiamo il seguente argomento. Che penseresti se qualcuno ti dicesse che codesta parete non è parete, ma un albero? A. - Che o il mio senso o il suo s'inganna ovvero che con tale nome da lui è designata la parete. R. - E nell'ipotesi che a lui appaia l'immagine dell'albero e a te quella della parete, non potrebbe l'una e l'altra esser vera?

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A. - No assolutamente, perché una sola e medesima cosa non può essere albero e parete. E se a me e rispettivamente all'altro appaia con due diverse immagini, è evidente che uno di noi due ha una falsa rappresentazione. R. - E se non fosse né albero né parete ed entrambi v'ingannaste? A. - Ciò è possibile. R. - Dianzi avevi trascurato questa possibilità. A. - Difatti. R. - E nell'ipotesi che vi accorgiate che vi appare diversa da com'è, ancora v'ingannereste? A. - No. R. - È possibile pertanto che sia falso ciò che appare e non s'inganni colui cui appare. A. - È possibile. R. - Bisogna dunque ammettere che non s'inganna chi vede il falso, ma chi presta assenso al falso. A. - Bisogna proprio ammetterlo. R. - E perché il falso è falso? A. - Perché è diverso dal suo apparire. R. - Dunque nell'ipotesi che non esista qualcuno cui appare, non ci sarebbe il falso. A. - Ne consegue. R. - Pertanto la falsità non è nelle cose, ma nella conoscenza sensibile e s'inganna soltanto chi presta l'assenso al falso. Ne consegue che altro è il nostro essere interiore, altro la conoscenza sensibile, poiché mentre essa accetta l'illusione, può non accettarla il nostro essere interiore. A. - Non ho nulla da opporre. R. - E potresti dire che se l'anima s'inganna, tu non ti sei ingannato? A. - E come lo potrei? R. - Ma non v'è conoscenza sensibile senza l'anima e non v'è parvenza senza la conoscenza sensibile. Dunque o l'anima genera la parvenza o vi coopera. A. - Le promesse postulano tale conclusione. 3. 4. R. - Ed ora rispondi a questa domanda: ritieni possibile che, ad un certo momento, la falsità non si dia più? A. - Come posso ritenere una tale opinione, se v'è tanta difficoltà a trovar la verità, che sarebbe più assurda l'impossibilità della falsità che della verità? R. - E ritieni che chi non vive può avere conoscenza sensibile? A. - È assurdo. R. - Si conclude dunque che l'anima vive per sempre. A. - Con troppa precipitazione mi spingi alla gioia. Un po' alla volta, scusa. R. - Ma se le cose ammesse sono state ragionevolmente accertate, non vedo di che dubitare sull'argomento. A. - È avvenuto con troppa precipitazione, ripeto. Sono più disposto ad ammettere di avere concluso qualche punto senza sufficiente esame che essere già certo dell'immortalità dell'anima. Comunque, deriva meglio la conclusione e chiarisci come è stata raggiunta. R. - Hai ammesso che il mondo delle apparenze non si può dare senza la conoscenza sensibile e che è assurdo che non si dia. Per sempre quindi esiste la conoscenza sensibile. Ma non si dà conoscenza sensibile senza 1'anima; quindi l'anima è immortale. Né potrebbe conoscere se non vivesse. Per sempre quindi l'anima vive.

4. 5. A. - O pugnale di piombo! (Cicerone, De fin. 4, 18, 48). Potresti concludere che l'uomo è immortale se ti avessi concesso che questo mondo non si può concepire senza l'uomo e che esso è

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eterno. R. - Fai buona guardia. Tuttavia, non è poco quanto abbiamo concluso e cioè che il mondo del divenire non si concepisce senza l'anima, salva l'ipotesi che eventualmente nel mondo del divenire non si dia più falsità. A. - Ammetto la conseguenza. Ma ritengo che si deve ancora esaminare la possibile inconsistenza di alcune nostre ammissioni. Scorgo infatti che è stato marcato un passo troppo precipitoso verso la dimostrazione dell'immortalità dell'anima. R. - Hai riflettuto abbastanza per non ammettere qualche cosa pregiudizialmente? A. - Certo che abbastanza, e non rilevo in che accusarmi di ammissioni pregiudiziali. R. - Dunque è stato accertato che il mondo del divenire non si concepisce senza l'anima viva. A. - Fino a questo momento è stato accertato che nell'avvicendarsi alcune cose possono esser generate, altre morire. R. - E nell'ipotesi che nel mondo del divenire fosse eliminata la parvenza, tutto diverrà vero? A. - Veggo che ne consegue. R. - Dimmi per quale criterio ritieni che questa parete è vera. A. - Perché non m'inganno nel vederla. R. - Dunque perché è come appare? A. - Certamente. R. - Sia l'ipotesi che qualche cosa è falsa perché appare diversamente da com'è, e sia vera perché appare com'è. Sottratto dunque il soggetto cui appare, nulla rimane di vero, nulla rimane di falso. E nell'ipotesi che non esiste più la parvenza nel mondo del divenire, tutto è vero. Inoltre qualsiasi cosa può apparire soltanto all'anima che vive. Dunque l'anima persiste nel mondo reale se è assurdo eliminare la parvenza; persiste se non è assurdo. A. - Osservo che quanto era stato assodato ha acquistato maggior validità, ma con questa aggiunta neanche di un po' abbiamo avanzato. Difatti rimane fermo il motivo che mi rende molto incerto, e cioè che le anime sono generate e muoiono e che non dalla loro immortalità, ma dall'avvicendarsi proviene che non manchino nel mondo.

4. 6. R. - Ritieni che i vari oggetti corporei, cioè sensibili, si possono comprendere con l'intelletto? A. - No. R. - E ritieni che Dio usa i sensi per conoscere le cose? A. - Nora vorrei avanzare affermazioni pregiudiziali sull'argomento. Ma, per quanto è concesso alla congettura, sembra assurdo attribuire i sensi a Dio. R. - Pertanto ammettiamo che soltanto 1'anima può conoscere sensibilmente. A. - Per adesso ammetti quanto è possibile secondo probabilità. R. - E concedi che codesta parete, se non è vera parete, non è parete? A. - Niente concederei con tanta facilità. R. - E che qualsiasi cosa, se non è vero corpo, non è corpo? A. - Anche qui d'accordo. R. - Ammesso dunque che è vero soltanto ciò che è come appare, che l'oggetto corporeo può apparire soltanto ai sensi, che l'anima soltanto può sentire ed infine che non è corpo se non è vero corpo, si deve concludere che il corpo non può esistere se non esiste l'anima. A. - Sei troppo convincente e non ho da eccepire.

5. 7. R. - Piuttosto rifletti con maggior ponderazione su tali concetti. A. - Sono pronto. R. - Certamente questa è pietra; ed è vera se non ha struttura diversa da come appare; e non è pietra se

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non è vera; e può apparire soltanto ai sensi. A. - D'accordo. R. - Poste tali premesse, nel più riposto grembo della terra non vi sono pietre o dovunque non siano presenti soggetti senzienti. E questa pietra non vi sarebbe se non la vedessimo e non rimarrà pietra quando noi ci saremo allontanati e nessun altro sarà presente per vederla. Ed anche se chiuderai bene gli scrigni, essi non conterranno nulla quantunque tu vi abbia rinserrato molte cose. E lo stesso legno degli scrigni dalla parte interna non è legno poiché ciò che è nascosto nell'interno d'un corpo opaco è nascosto a tutti i sensi e quindi per necessaria conseguenza non esiste. Difatti se fosse, sarebbe vero, ma è vero soltanto ciò che è come appare; ma esso non appare, quindi non è vero. A meno che tu non abbia qualche motivo da opporre a questa conclusione. A. - Mi sto accorgendo che essa è derivata da quanto ho già ammesso, ma è così assurda che negherei più facilmente qualsiasi delle precedenti ammissioni anziché ammettere come vera una simile conclusione. R. - Non ho da ribattere. Sta' dunque attento a quanto intendi dire, e cioè: o che gli oggetti sensibili possono apparire soltanto ai sensi o che sente soltanto l'anima o che la pietra e qualsiasi altro corpo può esser ma non essere vero o che il vero stesso si deve definire diversamente. A. - Ti prego, esaminiamo quest'ultimo punto.

5. 8. R. - Definisci allora il vero. A. - Vero è ciò che è così come appare a chi conosce, se vuole e può conoscere. R. - Non è dunque vero ciò che non si può conoscere? Inoltre se è falso ciò che appare altrimenti da com'è e se questa pietra ad uno appare pietra ed a un altro legno, si dovrà forse dire che la medesima cosa è falsa e vera? A. - Mi rende incerto soprattutto quanto è stato detto dianzi sulla possibilità che non sia vero ciò che non si può conoscere. Non mi preoccupa tanto il motivo che una medesima cosa possa insieme esser vera e falsa. Penso infatti che una medesima cosa, messa a confronto con oggetti diversi, può esser insieme maggiore e minore. Appunto da questo principio deriva che nessun oggetto, in sé considerato, è maggiore o minore, poiché questi sono termini d'un rapporto. R. - Ma se tu dici che nessuna cosa è di per sé vera, non temi la conseguenza che nessuna cosa di per sé è? Difatti dallo stesso principio per cui questo è legno deriva che sia vero legno. E non è possibile che di per sé, cioè senza il riferimento ad un soggetto conoscente, sia legno e non sia vero legno. A. - Allora mi decido a definire il vero nei termini seguenti, senza temere che la mia definizione sia riprovata perché è troppo breve. Ritengo che è vero ciò che è. R. -Nulla dunque è falso, poiché tutto ciò che è, è vero. A. - Mi hai sospinto nelle aporie del pensiero e non trovo modo di formulare una risposta. Pensare che proprio io ho voluto essere ammaestrato soltanto mediante il dialogo ed ho finito per temere di subirlo.

6. 9. R. - Dio, cui ci siamo affidati, senza dubbio ci reca aiuto e ci affranca da tali aporie, purché crediamo e lo preghiamo con molta devozione. A. - A questo punto nulla farò più volentieri, poiché giammai sono stato avvolto da tanta caligine. Dio Padre nostro, che ci esorti a pregarti e ci dai ciò di cui sei pregato, poiché, quando ti preghiamo, viviamo meglio e diventiamo migliori, esaudisci me che rabbrividisco in queste tenebre e porgimi la destra. Fammi vedere la tua luce, richiamami dagli errori e fa' che, dietro la tua guida, rientri in me ed in te. Amen. R. - Sta' attento quanto puoi e rifletti con molta diligenza. A. - Dimmi, ti prego: ti s'è svelato un motivo qualsiasi per non smarrirci del tutto?

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R. - Sta' attento. A. - Vedi che non sto facendo altro.

6. 10. R. - Prima di tutto indaghiamo a fondo che cos'è il falso. A. - Mi meraviglierei se non fosse ciò che è diverso da come appare. R. - Rifletti piuttosto. Intanto interroghiamo prima i sensi. Ciò che gli occhi vedono non si dice certamente falso se non ha qualche cosa di somiglianza col vero. Ad esempio, l'uomo che vediamo nel sogno non è vero uomo, ma falso perché ha somiglianza col vero. Difatti chi, vedendo in sogno un cane, direbbe che ha sognato un uomo? Ed anche quel cane è falso perché è simile al vero. A. - È come tu dici. R. - E se qualcuno nella veglia vede un cavallo e reputa di aver visto un uomo, s'inganna perché gli appare una certa somiglianza dell'uomo. Se non gli apparisse che la figura del cavallo, non potrebbe reputare di aver visto un uomo. A. - Accetto in pieno. R. - Allo stesso modo diciamo falso l'albero che vediamo dipinto e il viso che viene restituito dallo specchio e falso l'oscillare delle torri agli occhi dei naviganti e falso lo spezzarsi del remo nell'acqua non per altra ragione che sono simili al vero. A. - Lo ammetto. R. - Allo stesso modo possiamo ingannarci nel vedere due oggetti gemellari, le uova, vari sigilli impressi con un solo anello e altre cose del genere. A. - Ti seguo bene e sono d'accordo. R. - Pertanto la somiglianza degli oggetti propri della percezione visiva è generatrice di apparenze. A.- Non posso negarlo.

6. 11. R - Ma tutto il complesso, salvo svista, si può ricondurre a due categorie. L'apparente si ha infatti fra oggetti simili di egual grado e fra oggetti simili di diverso grado. Si ha il primo caso quando si dice indifferentemente che il primo è simile al secondo e il secondo al primo come è stato detto degli oggetti gemellari e dei sigilli. Si ha poi il secondo caso quando ciò che è di grado inferiore si dice simile all'oggetto di grado superiore. Chi si guarda allo specchio non direbbe ragionevolmente di esser simile all'immagine ma piuttosto che essa è simile a lui. Questa seconda categoria raccoglie tanto le impressioni interiori quanto gli oggetti che appaiono. L'impressione, a sua volta, o avviene nell'organo, come l'oscillare inesistente delle torri, ovvero nell'anima stessa in ciò che ha ricevuto dai sensi, come sono le immaginazioni dei sognanti e forse anche dei pazzi. Inoltre le somiglianze degli oggetti che appaiono sono prodotte ed espresse alcune dalla natura, altre da esseri animati. La natura produce somiglianze di grado inferiore nel generare o nel riflettere: nel generare quando i generati sono simili ai generanti; nel riflettere come avviene nei vari specchi, anche in quelli prodotti dagli uomini perché, sebbene costruiscano vari tipi di specchi, non sono tuttavia essi a creare le immagini che vengono restituite. Infine le somiglianze prodotte dagli esseri animati sono nelle pitture e in qualsiasi composizione del genere. In questa categoria si possono includere anche le opere che fanno i demoni, se tuttavia avvengono. Le ombre si possono pressappoco dire simili ai corpi e quasi falsi corpi, e non si può negare che appartengono alla percezione degli occhi. Ci sembra quindi opportuno porle in quella categoria di cose simili che per riflesso provengono dalla natura. È riflesso infatti ogni corpo esposto alla luce, poiché restituisce l'ombra in direzione opposta. Ti sembra di poter opporre motivi in contrario? A. - No, nulla. Ma sto aspettando con impazienza a che mirino le tue parole.

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6. 12. R. - Al contrario è indispensabile che attendiamo con pazienza all'esame anche degli altri sensi i quali possono garantire che l'apparire consiste nella somiglianza col vero. Difatti anche nell'udito si verificano altrettanti generi di somiglianze. Ad esempio, nell'udire la voce di un uomo che parla e che noi non vediamo, crediamo che sia un'altra persona con la voce di egual timbro. Delle somiglianze di grado inferiore sono argomento l'eco, il ronzio degli orecchi, l'imitazione negli orologi del merlo e del corvo e quei suoni che ai sognanti e agli allucinati sembra di udire. È incredibile poi quanto contribuiscano alla dimostrazione della verità, che apparirà in seguito, quelli che i musici definiscono falsi suoni. Anche essi, per quanto riguarda il tema in parola, non sono lontani dalla somiglianza con quelli che essi chiamano veri suoni. Segui l'assunto? A. - Ed anche con molta facilità. Non stento affatto a capire. R. - Dunque per non trattenerci ancora, ritieni che in odore giglio differisca da giglio e che in sapore miele di timo di un alveare differisca dal miele di timo di un altro alveare o che al tatto la morbidezza delle penne di cigno si possa distinguere da quella delle penne d'oca? A. - No. R. - Talora noi sogniamo di odorare, gustare e toccare. In tal caso non cadiamo forse in errore per la somiglianza d'immagini che è di grado tanto inferiore quanto è più labile? A. - È giusto. R. È quindi chiaro che noi in ognuno dei sensi, siano le immagini di grado pari o inferiore, è comunque da una similitudine artificiosa [lenocinante] che siamo ingannati; e se non siamo ingannati è perché le sospendiamo il consenso o, ancora meglio, perché distinguiamo le differenze; e nondimeno [resta che] denominiamo false quelle cose che riconosciamo verosimili. A. - Non ne posso dubitare.

7. 13. R. - Ed ora rifletti bene mentre riesaminiamo questi concetti affinché divenga più manifesto ciò che vogliamo chiarire. A. - Eccomi pronto, di' ciò che vuoi. Tanto ormai ho stabilito di sopportare codesto lungo giro di parole. Non mi stancherò nell'ascoltarlo, perché ho ferma fiducia di raggiungere la meta alla quale, come avverto, stiamo tendendo. R.- Bravo. Ed ora rifletti attentamente. Quando vediamo delle uova simili, possiamo affermare che qualcuna è falsa? A. - No certamente. Tutte le uova, se sono uova, sono vere uova. R. - E quando vediamo una immagine riflessa dallo specchio, da quali segni comprendiamo che è apparente? A. - Ma evidentemente perché non si afferra, non ha suono, non si muove da sé, non vive e da parecchi altri motivi che sarebbe lungo enumerare. R. - Noto che non vuoi trattenerti e bisogna un po' accondiscendere alla tua fretta. Pertanto, a scanso di ripetizioni, supponiamo che gli uomini immaginati nel sogno possano vivere, parlare ed esser toccati da chi è desto e che non differiscano in nulla da quelli cui, desti e sani di mente, rivolgiamo la parola. In tale supposizione potremmo dire che sono falsi? A. - Come si potrebbe dirlo ragionevolmente? R. - Supponiamo dunque che siano in tanto veri in quanto appaiono molto simili ai veri e non esiste alcuna differenza fra essi e i veri; allo stesso modo che siano in tanto falsi in quanto si può dimostrare che sono dissimili per le suddette e altre note differenti. In tale ipotesi non si dovrebbe ammettere che la somiglianza è madre della verità e la dissimiglianza madre della falsità? A. - Non ho nulla da opporre ed ho vergogna della pregiudiziale ammissione di poco fa.

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7. 14. R. - Sarebbe da ridere se te ne vergogni veramente, come se, proprio a questo scopo, non avessimo scelto questo procedimento nel tener discorsi. Vorrei appunto, giacché discorriamo fra di noi, che siano denominati e intitolati I Soliloqui. È un nome nuovo e forse anche non elegante, ma assai adatto ad indicarne il contenuto. Non si può infatti meglio investigare la verità che col dialogo. Tuttavia si trova difficilmente qualcuno che non s'indisponga se viene confutato nella disputa. Anzi avviene quasi sempre che l'incomposto gridare degli ostinati eluda l'attinenza all'argomento già ben avviato nella discussione con offesa dell'amor proprio, il più delle volte dissimulata, ma talora anche manifesta. Per tali motivi m'è sembrato opportuno, mediante un dialogo interiore e con l'aiuto di Dio, di ricercare la verità con calma, per quanto mi riguarda e con largo impiego di tempo. Pertanto se pregiudizialmente hai dato una soluzione non ti devi affatto vergognare di tornare indietro e darne un'altra maniera non se ne viene fuori.

8. 15. A. - Giusto, ma io non vedo chiaro che cosa ho ammesso inconsideratamente. Faccio eccezione per il motivo che ragionevolmente si poteva definire falso ciò che ha una qualche relativa somiglianza col vero perché non ho in mente altro concetto adatto a designare il falso. D'altra parte sono costretto ad ammettere che le cose denominate false in tanto sono false in quanto differiscono dalle vere. Ne deriva che anche la dissimiglianza è principio della falsità. E per questo rimango perplesso, poiché non mi viene in mente nulla che sia prodotto da opposti principi. R. - E se si trovasse in natura un caso unico e singolare? Ad esempio, non sai che, se ti dai a scorrere le innumerevoli specie degli animali, si trova soltanto il coccodrillo che nel masticare muove la mandibola superiore? In definitiva nessun oggetto si può reperire tanto simile ad un altro che non sia anche dissimile per qualche aspetto. A. - Comprendo codesti concetti. Tuttavia quando considero che ciò che diciamo falso ha qualche cosa di simile e dissimile dal vero, non so decidere da quale parte debba dirsi falso. Se dico dall'aspetto per cui è dissimile, ne consegue che tutto si può dir falso, perché non v'è oggetto che non sia dissimile da un altro che riconosciamo come vero. Se poi dico che si deve chiamar falso perché è simile, reclameranno le famose uova che sono vere per il fatto che sono molto simili. Nello stesso tempo io non sfuggirò a colui che volesse costringermi ad ammettere che tutto è falso, poiché non posso negare che tutte le cose per qualche aspetto si rassomigliano. Ma poniamo come ipotesi la risposta che la somiglianza e la dissimiglianza insieme concorrono a far sì che qualche cosa ragionevolmente sia denominato falso. Quale via di scampo mi lasceresti? S'insisterà difatti ancora nel rinfacciarmi che io ritengo tutte le cose false poiché tutte le cose, come è stato detto dianzi, si rassomigliano e si differenziano per qualche aspetto. Mi rimarrebbe da dire che è falso ciò che è altro da come appare. Ma temo d'imbattermi in tutti quei mostri che m'illudevo di avere or ora evitato. Dalla vertigine del dubbio sono infatti di nuovo spinto al punto di dire che il vero è ciò che è così come appare. Ma ne deriva che non si dà il vero senza chi conosce; e in tal caso devo temere il naufragio in quegli scogli molto nascosti che sono veri anche se non sono conosciuti. Che se poi affermerò che è vero ciò che è, mi si ribatterà concordemente che il falso non esisterebbe. Pertanto mi tornano tutte le perplessità e mi accorgo che nulla ho conquistato dopo avere sopportato così a lungo i tuoi indugi.

9. 16. R. - Presta attenzione piuttosto. Non posso convincermi di aver chiesto invano l'aiuto divino. Penso che, dopo aver saggiato, per quanto abbiamo potuto, tutti i concetti, non ci sia rimasto altro modo per definire il falso che ciò che si finge essere ciò che non è o in genere che pretende di essere e non è. Nel primo dei due generi sono inclusi tanto l'inganno [fallax]1 quanto la finzione [mendax]2. ‘Inganno’ si dice a rigore ciò che desidera ingannare [fallendi adpetitum], cosa inconcepibile senza 1 Da fallor, da cui il falsum propriamente detto. 2 Da mentior, la cui radice è mens che designa l’intenzione, il progetto intenzionale dell’animo, la disposizione d’animo.

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l'anima, e che si manifesta tanto mediante il pensiero quanto mediante l'istinto naturale: mediante il pensiero, in animali razionali come l'uomo; mediante l'istinto, in bestie come la volpe. Ciò che invece denomino finzione viene realizzata da coloro che fingono [a mentientibus]. Ed essi differiscono da coloro che ingannano [a fallacibus] poiché chi usa l’inganno [fallax] desidera ingannare, [appetit fallere], mentre non tutti coloro che fingono [mentitur] vogliono ingannare [vult fallere]: infatti, i mimi, le commedie e gran parte della poesia sono pieni di finzioni [multa poemata mendaciorum plena], ma con la volontà di dilettare [delectandi] e non di ingannare [fallendi]; e più o meno tutti coloro che giocano, fingono. Mentre inganno o ingannatore si dice a rigore solo di colui il cui ufficio [negotium] è quello di indurre in inganno [ut quisque fallatur]. Ma coloro che non lo fanno per ingannare e nondimeno dissimulano qualcosa [aliquid fingunt], si chiamino mendaci [mendaces]3 o, così da evitare discussioni, mentientes [mentitori]. A meno che tu abbia sull'argomento una tua opinione in contrario.

9. 17. A. - Continua, ti prego. Ora soltanto forse cominci ad impartirmi nozioni non false sul falso. Ma ormai attendo il significato dell'altra categoria espressa da te in questi termini: ciò che tende a essere e non è. R. - Ma perché lo attendi? Si tratta appunto di quei casi che dianzi abbiamo citato in gran numero. Non ti sembra che la tua immagine rimandata dallo specchio voglia quasi essere te stesso, ma è falsa perché non è? A. - Sono perfettamente d'accordo. R. - Ed ogni pittura o simulacro fatto a quel modo e ogni prodotto artigianale [opificum] di tal genere non tendono ad essere ciò a somiglianza del quale sono fatti? A. - Sono del tutto convinto. R. - E ammetti anche, come penso, che le immagini con cui sono indotti in inganno i dormienti e gli allucinati appartengono alla stessa categoria. A. – Nessuna più di queste; infatti, nessuna più di queste tende ad essere tale, quale quelle percepiti da persone vigili e sane di mente; e sono perciò false dacché non possono essere ciò cui tendono. R. - Che aggiungere sull'oscillare delle torri o sul remo spezzato ovvero sulle ombre dei corpi? È ovvio, come penso, che si devono giudicare secondo tale criterio. A. - È ovvio certamente. R. - Taccio degli altri sensi. Infatti, nessuno che sappia discernere non consente a chiamare falso, a proposito delle cose sensibili, ciò che tende ad essere qualcosa e non lo è.

10. 18. A. - Giusto. Ma mi meraviglio perché hai ritenuto di dover separare da tale genere la poesia, i giuochi di prestigio e le altre fallacie [fallaciae]. R. - Perché evidentemente altro è il voler esser falso ed altro il non poter esser vero. Pertanto possiamo associare alle rappresentazioni dei pittori e degli scultori anche le rappresentazioni dovute all'azione umana, come le commedie, le tragedie, i mimi ed altre del genere. Così un uomo dipinto non può esser vero sebbene tenda ad avere forma di uomo; e altrettanto si dica dei fatti narrati nei libri dei comici. Essi non vogliono essere falsi, per una qualche intenzione che gli sta dentro, ma per una certa necessità, per quanto hanno potuto seguire l’arbitrio di colui che li ha composti [fingentis arbitrium]. Per tal motivo sulla scena Roscio era volutamente una falsa Ecuba, ma naturalmente un uomo vero, ma per quella stessa volontà anche un vero attore tragico nell'atto in cui eseguiva l'azione. Ed era un falso Priamo, poiché si assimilava a Priamo, ma non lo era. Da ciò ha origine qualche cosa di pur degno di ammirazione, su cui, tuttavia, non vi deve essere alcuna ambiguità. A. - Di che si tratta?

3 Alla lettera: ‘che fanno finzioni’.

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R. – Di cosa, se non che tutte le composizioni anzidette per certi aspetti sono vere e quindi per altri sono false e che giova al loro esser vere il solo motivo per cui in altro senso sono false? Quindi in nessuna maniera pervengono ad essere ciò che vogliono e devono essere, se rifuggono dall’esser false. Colui che ho appena commemorato, non sarebbe stato un vero attore tragico se non avesse voluto essere un falso Ettore, una falsa Andromaca, un falso Ercole etc. Allo stesso modo, non sarebbe vera pittura se non fosse un falso cavallo. E nello specchio non sarebbe una vera immagine [imago] dell'uomo se non fosse un falso uomo. Quindi in certe cose, perché qualcosa sia vero, giova che qualcos’altro sia falso. Perché allora abbiamo tanto timore delle falsità e desideriamo come un grande bene la verità? A. - Non lo so e me ne meraviglio molto, se non per il fatto che in questi esempi non vedo niente che sia degno di imitazione. Noi, infatti, per esser veri nel modo d’essere abituale, non dobbiamo come i commedianti, le immagini riflesse dagli specchi e le vitelle bronzee di Mirone, essere modellati e assimilati al modo d'essere di un'altra cosa, e perciò non si deve esser falsi. Dobbiamo piuttosto ricercare quel vero che non sia di natura quasi bifronte e in contraddizione con se stesso così da essere da una parte vero e dall'altra falso. R. - Tu vai in cerca di alti e divini valori. E non forse dovremo ammettere che, se li ritroveremo, è di essi che è composta, forgiata quasi, la verità da cui si denomina tutto ciò che in qualche modo è vero? A. - Volentieri lo concedo.

11. 19. R. - Or dunque ritieni che la dialettica [disciplina disputandi] è vera o falsa? A. - Chi può dubitare che è vera? Ma è vera anche la grammatica. R. - Allo stesso modo che l'altra? A. - Non concepisco un vero più vero di un altro vero. R. - Ma è appunto quello che nulla ha di falso. Poco fa, mentre riflettevi su tali concetti, ti sentivi urtato da quelle strutture che, non so come, se non fossero false non potrebbero esser vere. Non sai che tutte le invenzioni immaginarie [fabulosa] ed evidentemente false appartengono alla grammatica? A. - Ma sì che lo so. Tuttavia, a mio avviso, non sono false in quanto parte della grammatica, poiché da essa sono studiate nella loro natura, qualunque essa sia. Difatti la menzogna [mendacium] è un'invenzione composta per l'utilità e il diletto. E la grammatica è disciplina custode e regolatrice della voce articolata. Da questa sua funzione è indotta a raccogliere tutti i prodotti, e quindi anche le finzioni [figmenta] della lingua umana, che sono stati consegnati alla memoria o allo scritto non per renderle falsi ma per insegnare e fare intorno ad essi vere asserzioni vere. R. - Giusto. In questo momento non mi preoccupo se tali concetti sono stati da te ben definiti e analizzati. Chiedo tuttavia se è la grammatica ovvero la dialettica a manifestarne la natura. A. - Sono d'avviso che la facoltà tecnica del definire, che ho usato per analizzare questi concetti, appartiene alla dialettica.

11. 20. R. - E la grammatica, nell'ipotesi che contenga il vero, non lo contiene perché è disciplina? Disciplina infatti deriva da discere (apprendere). Si deve certamente ammettere che ha scienza chi ha appreso e ritiene. Ora non si ha scienza del falso. Dunque ogni disciplina contiene il vero. A. - Non vedo in codesta breve dimostrazione il rischio di una qualche affermazione pregiudiziale. Tuttavia, a mio avviso, qualcuno potrebbe opinare, fondandosi su di essa, che sono vere le suddette finzioni, poiché anche quelle noi apprendiamo e riteniamo. R. - Il nostro maestro non esigeva che accettassimo e conoscessimo le nozioni che insegnava? A. - Anzi insisteva moltissimo per farcele apprendere. R. - Ha insistito qualche volta perché credessimo nel volo di Dedalo?

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A. - Questo mai. Tuttavia se non ricordavamo la favola, si comportava in maniera che appena potevamo tenere qualche cosa in mano. R. - Dunque, a tuo avviso, non è vero che esiste la favola e che Dedalo è stato consegnato alla tradizione mitologica in quei termini? A. - Ma non nego affatto che è vero. R. - Dunque non neghi che hai appreso il vero quando hai imparato la favola. Difatti se il volo di Dedalo fosse vero e se i fanciulli l'accettassero e ripetessero come un'invenzione immaginaria, riterrebbero il falso per il fatto stesso che sarebbe vero ciò che ripetono. Da qui prende consistenza il motivo di cui dianzi ci siamo meravigliati e cioè che non è potuta esistere una vera favola sul volo di Dedalo se il volo di Dedalo non fosse falso. A. - Lo comprendo ormai, ma vorrei sapere che cosa abbiamo chiarito con tale analisi. R. - Soltanto che non è falsa la dimostrazione con cui abbiamo assodato che la disciplina, se non contiene il vero, non può esser disciplina. A. - E che importa alla nostra indagine? R. - Voglio insomma che tu esprima il principio per cui la grammatica è disciplina, poiché il principio per cui contiene il vero è il medesimo per cui è disciplina. A. - Non so che risponderti. R. - Non ritieni che se in essa non esistessero definizioni e non si operassero l'analisi dei concetti e la sintesi delle parti, non sarebbe in alcun modo disciplina? A. - Comprendo il tuo pensiero. È inconcepibile una disciplina qualsiasi in cui definizione, analisi e sintesi non costituiscano ciò che si dice la disciplina stessa. Si tratta appunto d'esprimere la quiddità dei relativi concetti, di scomporli senza confusione delle parti e di formulare degli enunziati che affermino i predicati propri e neghino i non propri. R. - Dunque tutto il complesso per cui si dice che è vera. A. - Ora ne scorgo la conseguenza.

11. 21. R. - Ora manifestami qual è la disciplina che contiene le leggi delle definizioni, delle analisi e delle sintesi. A. - È stato detto dianzi che esse sono contenute nelle regole della dialettica. R. - Dunque la grammatica, che tu poco fa hai ritenuto immune da errore, è legittimata, in quanto disciplina e in quanto vera, dalla dialettica. Un simile motivo si deve affermare non solo della grammatica, ma di tutte le discipline. Tu stesso hai detto, e hai detto bene, che è inconcepibile una disciplina in cui la funzione del definire e del coordinare non la renda disciplina. Dunque se le discipline contengono il vero per il fatto che sono discipline non si potrà negare che è proprio la verità il principio per cui tutte le discipline sono vere. A. - Presterei quasi un assenso incondizionato. Ma mi preoccupa il motivo che annoveriamo fra le discipline anche la dialettica. Io ritengo al contrario che la verità coincida con la verità stessa della dialettica. R. - Molto bene e con molto discernimento. Ma tu non neghi, come penso, che in tanto è vera in quanto è disciplina. A. - Anzi è proprio questo che mi rende perplesso. Ho riflettuto infatti che è anche disciplina e che per questo si dice vera. R. - E tu riterresti che essa, nella sua fattispecie, potrebbe esser disciplina se in essa non fosse definito e coordinato tutto lo scibile? A. - Non saprei che dire. R. - Ma se ad essa appartiene questa funzione, è disciplina vera di per sé. Quale meraviglia dunque che la disciplina, per cui le cose si dicono vere, sia essa stessa verità, quando per la sua mediazione tutte

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sono vere? A. - Non trovo ostacoli nell'accettare per la via più dritta codesta tesi.

12. 22. R. - Ora ascolta i pochi concetti che restano. A. - Di' se hai qualche motivo che io possa comprendere e accettare con certezza. R. - In due modi, come abbiamo appreso, si dice che un essere è in un altro. Il primo modo si ha quando v'è così che si può separare ed essere altrove, come questo pezzo di legno in questo posto e il sole nell'oriente. L'altro modo si ha quando l'essere è nel soggetto in maniera che da esso non possa esser separato, come in questo pezzo di legno la forma e la figura che vediamo, come la luce nel sole, il calore nel fuoco, la disciplina nello spirito e altre cose del genere. Sei di parere diverso? A. - Tali concetti sono per noi un vecchio ricordo e li abbiamo appresi e capiti a fondo fin dalla prima adolescenza. Quindi interrogato sulla loro validità, non posso che ammetterli senza alcuna esitazione. R. - E non ammetti anche che ciò che è inseparabilmente nel soggetto non può persistere se il soggetto non persiste? A. - Ritengo indispensabile un altro motivo. Chiunque riflette attentamente sull'argomento comprende che, anche persistendo il soggetto, potrebbe ciò che è nel soggetto non persistere. Difatti l'apparenza esterna di questo mio corpo può, o a causa della salute o per l'età, cambiare quando il corpo ancora non ha cessato di vivere. Il principio non vale egualmente per tutte le proprietà, ma per quelle soltanto che coesistono nel soggetto, non con la funzione d'esserne note costitutive. Difatti la parete non perché sia parete è tinteggiata con questo colore che in essa vediamo. Anche se diventa nera o bianca o abbia qualsiasi altro colore, rimane e viene denominata parete. Al contrario il fuoco, se manca il calore, non è fuoco. La neve stessa non possiamo considerarla se non candida.

13. 23. Mi hai rivolto la domanda se qualche cosa che è nel soggetto possa persistere pur venendo a mancare il soggetto. Non si può ammettere e ritener valida tale tesi. È irragionevole e completamente assurdo che l'essere, il quale non potrebbe esistere fuori del soggetto, persista anche quando il soggetto venga a cessare. R. - Dunque è stata finalmente raggiunta la meta dell'indagine. A. - Ma che dici? R. - Quanto ascolti. A. - È già provato con evidenza che lo spirito è immortale? R. - Se i principi che hai ammesso sono veri, con tutta evidenza; a meno che tu non ti riservi di affermare che lo spirito, anche se muore, è egualmente spirito. A. - Non lo direi certamente. Affermo al contrario che un essere, per il fatto stesso che è soggetto al morire, non è spirito. E dal mio parere non mi distoglie l'insegnamento di grandi pensatori i quali hanno affermato che di per sé esclude la morte il principio che, dovunque venga a trovarsi, produce la vita. Al contrario anche la luce, dovunque penetra, illumina l'ambiente e per la celebre legge dei contrari non può coesistere con le tenebre. Si estingue tuttavia, e l'ambiente, col suo estinguersi, viene privato di luce. Così l'energia che si opponeva alle tenebre non è coesistita con esse e proprio per questo, quando si estingue o anche se viene allontanata, lascia il posto ad esse. E per questo ho timore che la morte stia al corpo come le tenebre all'ambiente tanto nell'ipotesi che l'anima si allontani come un lume quanto in quella che si estingua nel corpo stesso. Ne consegue che non è il dissolversi dell'elemento corporeo a garantire la sopravvivenza. Si deve aspirare ad un genere di morte, dopo la quale l'anima sia fatta uscire incolume dal corpo e sia condotta in un luogo, seppure v'è, dove non possa estinguersi. Ma facciamo l'ipotesi che tale aspirazione sia assurda, che l'anima si accenda nel corpo come una luce né altrove possa sopravvivere e che ogni morte sia come lo spegnersi dell'anima o vita fisica. In tale ipotesi si deve scegliere, per quanto è consentito all'uomo, un genere di vita per cui si possa condurre

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un'esistenza sicura e tranquilla, sebbene non so proprio come si dia tale possibilità se l'anima muore. O veramente beati coloro che hanno raggiunto o da sé o per suggerimento di altri la convinzione che la morte non si deve temere anche se l'anima perisce! Ma a me infelice né dimostrazione né libro hanno potuto generare tale convincimento.

13. 24. R. - Non abbandonarti all'angoscia: l'anima umana è immortale. A. - Da che lo dimostri? R. - Dai principi che dianzi, con grande discernimento come penso, hai accettato. A. - Ricordo certamente di aver risposto alle tue domande con grande discernimento. Ma compendia l'intero discorso, ti prego, e costatiamo dove siamo giunti dopo tanti andirivieni. E non vorrei più il procedimento dialogico. Se enumererai brevemente le nozioni che ho ammesso, non c'è motivo di attendere di nuovo una mia risposta. Ovvero perché infliggermi invano l'attesa della sospirata gioia se abbiamo raggiunto qualche valida conclusione? R. - Procederò secondo il tuo espresso desiderio, ma porgi molta attenzione. A. - Allora parla, sono attento. Perché mi fai morir d'ansia? R. - Se tutto ciò che è in un soggetto per sempre sussiste, è necessario che anche il soggetto per sempre sussista. Ora la disciplina è nell'anima umana come in soggetto. Quindi è necessario che l'anima umana per sempre sussista se per sempre sussiste la disciplina. Ma la disciplina è verità e la verità per sempre sussiste come fin dal principio di questo libro si è logicamente dimostrato. Quindi l'anima umana per sempre sussiste. L'anima umana morta è un non senso. Pertanto soltanto chi riesca a ribattere che qualcuno dei concetti fin qui analizzati non è stato logicamente dedotto può negare che l'anima umana è immortale senza cadere nell'assurdo.

14. 25. A. - Vorrei ormai abbandonarmi alla gioia, ma sono trattenuto alquanto da due motivi. Prima di tutto mi preoccupa il fatto che ci siamo serviti di un lungo giro di parole intrecciando non saprei quale catena di ragionamenti. Al contrario il problema si poteva risolvere con poche parole, come è stato fatto ora soltanto. Mi rende quindi perplesso la considerazione che il discorso ha girovagato quasi a far perdere le tracce. In secondo luogo non riesco a concepire in qual modo nell'anima umana esista sempre la disciplina, e soprattutto la dialettica. Sono tanto pochi coloro che ne sono in possesso ed anche chi la conosce ne fu privo dall'infanzia per tanto tempo. Insomma non possiamo affermare o che l'anima umana degli ignoranti non è anima umana o che in essa esista la disciplina di cui sono ignoranti. Che se un tale assunto è veramente assurdo, rimane o che non sempre nell'anima umana esiste la verità ovvero che la disciplina non è la verità.

14. 26. R. - Tu stesso puoi osservare che il nostro discorso non ha compiuto inutili giri di parole. Cercavamo infatti che cos'è la verità e devo ammettere che neanche adesso, in questa selva di concetti, dopo aver battuto quasi tutte le vie, l'abbiamo potuta intravedere. Or che fare? Vogliamo interrompere la ricerca ed aspettare che ci capiti fra mano qualche libro di altri pensatori che abbiano risolto il problema? Reputo che molti fino al presente ne sono stati scritti e noi non li abbiamo letti. Ed appunto allo scopo di non imbastir teorie su argomenti che non conosciamo, siamo informati che sul problema si sta scrivendo in versi e in prosa. E gli autori sono tanto noti che non possiamo ignorarne le opere e di tale levatura d'ingegno che non possiamo aver sfiducia di ritrovar nei loro scritti ciò che ricerchiamo. Proprio qui, davanti ai nostri occhi, vive quell'uomo, nel quale riconosciamo che sia tornata in vita, e con alta manifestazione, quell'eloquenza che rimpiangevamo estinta. Egli che ha insegnato con i suoi scritti la regola del vivere, ci lascerà ignorare il significato stesso del vivere? A. - Non lo penso certamente, anzi molto spero da lui; ma ho timore soltanto che non siamo capaci di manifestargli, come desideriamo, il nostro interesse verso di lui e la meditazione filosofica. Egli

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certamente avrebbe pietà della nostra sete e fornirebbe di che dissetarci molto più speditamente di quanto ha fatto finora, nella sicurezza che possiede per aver raggiunto la convinzione piena sull'immortalità dell'anima. Ma appunto per questo non sa che potrebbero esserci individui i quali hanno profondamente sentito l'infelicità del dubbio e che potrebbe essere inumano non andare loro incontro soprattutto se ne pregano. V'è poi l'altro che conosce, a causa della dimestichezza, la nostra sete ardente, ma ora è tanto lontano e noi ci troviamo in condizioni d'impossibilità perfino a spedirgli una lettera. Penso che nella solitudine oltre le Alpi abbia condotto a termine il carme col quale viene dissolto il timore della morte e sono cacciati il torpore e il freddo induriti nello spirito da vecchio gelo. Ma mentre si verificano eventi che non sono in nostro potere, è vergognoso che la nostra occupazione spirituale non approdi a nulla e che tutto lo spirito rimanga sospeso nell'aporia.

15. 27. Ma noi abbiamo pregato Dio e lo stiamo ancora pregando, non perché ci somministri le ricchezze, i piaceri sensibili, i favori popolari e gli onori, ma perché ci mostri la via mentre siamo alla ricerca dell'anima e di lui stesso. Ci abbandonerà forse o sarà da noi abbandonato? R. - Non lo consente in alcun modo la sua bontà abbandonare coloro che desiderano tali beni. Quindi neanche a noi è consentito abbandonare un sì grande condottiero. Pertanto, se per te va bene, ricapitoliamo brevemente i principi da cui sono state dedotte le due conclusioni: che la verità sempre persiste e che s'identifica con la dialettica. Hai detto che questi motivi lasciano adito a dubbi fino al punto da renderci incerti su tutto l'argomento. Ovvero più a proposito vogliamo indagare sulla possibilità dell'esistenza della disciplina nell'anima dell'ignorante che pur tuttavia non possiamo non considerare come anima umana? Mi è parso che anche da simile analisi ti provenissero delle perplessità sicché hai dovuto di nuovo sospendere il giudizio su nozioni che avevi già ammesso. A. - Ma innanzitutto riesaminiamo il primo problema, poi vedremo come risolvere questo secondo. Così soltanto, come penso, non rimarranno difficoltà. R. - E va bene. Ma segui con la massima attenzione e con tutto il discernimento. So già che cosa ti potrebbe avvenire nell'atto che segui e cioè che, mentre aneli alla conclusione e aspetti che da un momento all'altro sia inferita, ammetti senza sufficiente esame le nozioni proposte nelle domande. A. - Forse dici il vero, ma mi sforzerò d'evitare, per quanto mi è possibile, un simile errore nella ricerca. Tu intanto, per non indugiare in considerazioni superflue, inizia l'indagine.

15. 28. R. - Per quanto ricordo, abbiamo dedotto che la verità non può cessare d'essere dal principio che se anche tutto il mondo cessasse, e perfino la verità, rimarrebbe vero che il mondo e la verità hanno cessato d'essere. Ma non si dà vero senza la verità, quindi la verità è assolutamente indefettibile. A. - Riconosco di avere ammesso tali concetti e molto mi meraviglierei se fossero falsi. R. - Esaminiamo allora l'altro principio. A. - Lasciami riflettere un momentino, ti prego, per non dover ritornare con vergogna su tali considerazioni. R. - E allora non sarà vero, nell'ipotesi, che la verità ha cessato d'essere? Se non sarà vero, non ha cessato d'essere. Se fosse vero, come lo potrebbe essere se la verità, una volta tramontata, non esistesse più? A. - Sull'argomento non ho altro da esaminare e vagliare. Passa ad altro. Certamente faremo quanto è possibile affinché uomini dotti e prudenti leggano queste pagine e trovino mende, se vi sono, sulla nostra mancanza di senso critico. Io penso tuttavia che, né adesso né in seguito, si potranno formulare obiezioni contro i risultati ottenuti.

15. 29. R. - Si dice forse verità altro principio che quello per cui è vero tutto ciò che è vero? A. - No certamente.

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R. - E secondo logica il vero è ciò che non è falso? A. - Aver dubbi in contrario è pazzia. R. - E il falso è ciò che è assimilato a qualche cosa e tuttavia non è ciò di cui ha parvenza? A. - Non trovo altro da denominare più logicamente il falso. Tuttavia si suole dire falso anche ciò che è molto lontano dall'idea esemplare del vero. R. - E chi lo nega? Purché abbia tuttavia una certa assimilazione al vero. A. - E perché? Il mito del volo di Medea con gli alati serpenti aggiogati, per nessun aspetto è assimilato al vero, poiché non è un fatto avvenuto, e ciò che non è avvenuto non può essere assimilato a qualche cosa. R. - Giusto. Ma non ti accorgi che una cosa che non esiste non si può neanche denominare un falso. Se è falso, esiste; se non esiste, non può neanche essere falso. A. - Allora non dovremmo dire che è falso quel non so che di favoloso che è il volo di Medea? R. - No certamente. Se è falso, come può essere un fatto favoloso? A. - Mi trovo davanti ad una strana cosa. In definitiva quando sento dire: Enormi serpenti alati aggiogati (Cicerone, De inv. 1, 19, 27), non devo affermare che è falso? R. - Evidentemente lo puoi affermare. V'è difatti qualche cosa che puoi dire falso. A. - E che cosa, scusa? R. - Evidentemente il significato che è enunziato nel verso stesso. A. - E alla fine quale assimilazione al vero esso ha? R. - Perché avrebbe l'identico enunziato anche se realmente Medea avesse eseguito quel volo. Mediante 1'enunziazione un falso significato è assimilato a significati veri. Se non è creduto, ha somiglianza con i veri perché è enunziato come quelli veri; ed è soltanto falso, ma non induce all'errore. Se poi ottiene l'assenso, è assimilato ai significati veri cui erroneamente si assentisce. A. - Ormai comprendo che esiste una bella differenza fra le nostre enunziazioni e i contenuti di esse e per questo rimango convinto. Ero trattenuto dalla considerazione che tutto ciò che diciamo falso non si dice tale a rigor di logica se non ha qualche simiglianza col vero. Chi infatti non sarebbe giustamente messo in ridicolo se dicesse che la pietra è un argento falso? Tuttavia se qualcuno affermasse che la pietra è argento, rileviamo che egli dice il falso, che esprime, cioè, un falso significato. Non assurdamente, come penso, possiamo chiamare falso argento lo stagno o il piombo, perché queste sostanze ne sembrano quasi una imitazione. Perciò non è falsa la nostra affermazione, ma il suo significato.

16. 30. R. - Hai inteso bene. Ma ora considera se possiamo convenientemente denominare falso piomba l'argento. A. - Non mi va. R. - E perché? A. - Non lo so; ma penso che l'espressione ripugni assai ad un mio modo di considerare. R. - Forse perché l'argento è di miglior qualità e viene quasi svalorizzato nel confronto e al contrario si ha una valorizzazione del piombo se viene chiamato falso argento? A. - Hai spiegato con, precisione ciò che intendevo. E perciò reputo che siano a buon diritto considerati infami e privi dei diritti civili coloro che si pavoneggiano in abiti femminili. Non saprei se chiamarli false donne o piuttosto falsi uomini. Li possiamo senza dubbio denominare tuttavia veri istrioni e veri infami. Se poi lo fanno di nascosto, poiché non si è considerati infami se non dalla cattiva fama, li possiamo definire non senza verità, come penso; veri malvagi. R. - Si presenterà altra occasione per discutere di tali argomenti. Si compiono comunque molte azioni che sembrano turpi nel loro apparire all'opinione pubblica, ma che tuttavia per un loro qualunque fine lodevole si devono ritenere oneste. Il problema è di grande importanza. Facciamo il caso di un cittadino

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che per liberare la patria debba ingannare il nemico vestendo abiti femminili. Egli, per il fatto che è una falsa donna, diviene forse un uomo più vero. Allo stesso modo è problematico se uno scienziato, il quale sia cosciente che la sua vita è necessaria al consorzio umano, debba preferire di morir di freddo anziché, in mancanza di altre, ricoprirsi di vesti femminili. Ma ne parleremo altrove. Tuttavia ti rendi perfettamente ragione di quanta ponderazione il problema necessiti, fino a qual punto si devono esaminare le cose perché non si cada in inescusabili azioni vergognose. Ed ora, per quanto riguarda la presente questione, penso che ormai tutto sia chiaro. Non rimane dubbio che non v'è falso se non a causa di una certa imitazione del vero.

17. 31. A. - Passa ora a trattare gli argomenti che rimangono. Di quanto è stato detto son ben persuaso. R. - Domando dunque se oltre le discipline che ci vengono insegnate, fra le quali è conveniente annoverare anche la filosofia, possiamo trovare altri oggetti così veri che non debbano, come l'Achille del teatro, esser falsi da un aspetto per esser veri dall'altro. A. - A me pare che molti se ne diano. Difatti nessuna delle varie discipline ha per oggetto questa pietra; eppure essa per esser vera pietra non è assimilata a qualche cosa per cui si dice falsa. Dalla suddetta esemplificazione comprendi che è superfluo ricordare gli innumerevoli oggetti che si presentano con immediatezza a coloro che se li rappresentano. R. - Lo comprendo certamente. Ma non ritieni che appartengono tutti al concetto di corpo? A. - Lo riterrei nell'ipotesi che non esista il vuoto, che anche lo spirito debba annoverarsi fra i corpi e che anche Dio sia un qualche corpo. E se essi esistono, penso che il loro esser veri o falsi non dipende dalla somiglianza con qualche altra cosa. R. - Ci stai spingendo ad una lunga discussione, ma, per quanto posso, la tratterò in forma compendiosa. Certamente altro è ciò che chiami vuoto, altro la verità. A. - Ben altro. Se considero la verità come vuoto e poi anelo ardentemente a tale vuoto, che cosa ci sarebbe più vuoto di me? Che cosa se non la verità io desidero raggiungere? R. - Dunque forse concedi che non si dà vero se non è vero mediante la verità. A. - Tal motivo è accertato da tempo. R. - Dubiti forse che di vuoto non c'è che il vuoto e che tutto è corpo? A. - Non ne dubito affatto. R. - Allora potrei pensare che, a tuo avviso, anche la verità è un corpo. A. - Ma niente affatto. R. - Ed il vuoto è nel corpo? A. - Non lo so ed è fuori argomento. A mio avviso, tuttavia, tu dovresti per lo meno sapere che se c'è il vuoto, è piuttosto un qualche cosa dove non v'è corpo. R. - Questo è evidente. A. - E allora perché indugiamo? R. - Ritieni che la verità sia la causa del vuoto o che ci sia un qualche vero dove non c'è verità? A. - No. R. - Dunque il vero non è vuoto poiché il vuoto non può avere per causa ciò che non è vuoto; inoltre ciò che è vuoto di verità non è vero e infine ciò che si dice vuoto, lo si dice perché è nulla. Come dunque può esser vero ciò che non è, e come può esser ciò che è radicalmente il nulla? A. - Suvvia dunque, abbandoniamo il vuoto come vuoto.

18. 32. R. - E che pensi degli altri esseri? A. - A che alludi? R. - All'argomento che, come dovresti accorgerti, conferma il mio assunto. Rimangono da considerare l'anima umana e Dio. Se questi due esseri sono veri in quanto in essi è la verità, nessuno può dubitare

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dell'immortalità di Dio. L'anima umana poi si deve ritenere immortale se si prova che in essa inerisce essenzialmente la verità che non può perire. Ed esaminiamo l'ultimo motivo che abbiamo discusso e cioè se il corpo non è essenzialmente vero nel senso che in esso non è verità, ma una certa qual copia della verità. Ma facciamo un'ipotesi: se anche nel corpo, del quale è sufficientemente certo che si dissolverà, troviamo lo stesso vero che nelle varie discipline, la dialettica, per cui tutte le discipline sono vere, non s'identificherà con la verità. Vero è anche il corpo, ma è inconcepibile che abbia per causa agente la dialettica. Se. poi il corpo è vero in relazione al principio della somiglianza e per questo non essenzialmente vero, non si potranno sollevare obiezioni contro l'identificazione della dialettica con la verità. A. - Frattanto indaghiamo sul corpo. Tuttavia io sono convinto che, anche quando sarà accertato questo argomento, la disputa non avrà raggiunto l'obiettivo. R. - Perché previeni il consiglio di Dio? Piuttosto sta' attento. Io penso che il corpo è circoscritto dalla forma e figura sensibile. Se non l'avesse non sarebbe corpo; se avesse quella ideale, sarebbe spirito. O si deve pensare diversamente? A. - Accetto una parte, dell'altra dubito. Concedo cioè che se non fosse circoscritto da una figura, non sarebbe corpo. Non comprendo sufficientemente come sarebbe spirito se avesse quella ideale. R. - Non ricordi proprio niente della introduzione al primo libro e delle tue nozioni di geometria? A. - A proposito le rammenti; ora ricordo bene e con molta soddisfazione. R. - Nei corpi si trovano le figure così come le studia la geometria? A. - Anzi è incredibile quanto appaiano meno perfette. R. - Quale dunque fra le due è quella ideale? A. - Ti prego, non umiliarmi con tali domande. Chi è tanto cieco di mente da non comprendere? Difatti le figure studiate nella geometria sono nella verità o anche la verità è in esse. Le figure sensibili, poiché ne hanno la parvenza, sono assimilate a non saprei quale imitazione della verità e perciò sono false. Ora comprendo tutto ciò che intendevi chiarirmi.

19. 33. R. - Che necessità c'è ancora di continuare a disputare sulla dialettica? Tanto nell'ipotesi che le figure geometriche siano nella verità come nell'ipotesi che la verità sia in esse, nessuno può mettere in dubbio che sono contenute nella nostra anima, cioè nel nostro pensiero, e che di conseguenza la verità esiste necessariamente anche nel nostro spirito. Che se qualsiasi disciplina è inseparabilmente nell'anima umana come in soggetto e se la verità non può cessar d'essere, perché, scusa, continuiamo a dubitare, per non so qual dimestichezza con la morte, della perpetua vita dell'anima umana? O forse la linea, la quadratura o la circolarità devono, per esser vere, imitare altre forme? A. - Non lo posso ammettere in alcun modo, a meno che la linea sia altro dalla lunghezza e il cerchio sia altro da una linea che torna al punto di partenza equidistanziandosi dal centro. R. - E allora che aspettiamo? Dove esistono tali forme ideali, può non esistere la verità? A. - Iddio ci liberi da simile folle contestazione. R. - O la disciplina non è nell'anima umana? A. - Chi affermerebbe il contrario? R. - E potrebbe ciò che è nel soggetto continuare a sussistere, se il soggetto cessasse d'esistere? A. - Come potrei avere una tal persuasione? R. - Si potrebbe far l'ipotesi che venga a cessare la verità. A. - Ma come sarebbe concepibile? R. - Dunque l'anima è immortale. Attienti ormai ai tuoi pensieri, attienti alla verità. Essa ti rivolge l'appello che è in te, che è immortale e che la sua dimora non può esserle sottratta dalla morte fisica. Liberati dall'ombra del tuo essere fisico, ritorna in te stesso. È inconcepibile il tuo morire, salvo quello di dimenticarti che non puoi morire.

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A. - Ascolto l'appello, torno in me e comincio a rimeditare. Ma, per favore, continua l'indagine sul motivo che rimane della possibilità dell'esistenza di disciplina e verità nell'anima dell'ignorante, poiché neppure essa possiamo considerare mortale. R. - Il problema richiede un trattato a parte se lo vuoi risolvere esaurientemente. Ritengo che vi dovresti richiamare le nozioni che sono state analizzate secondo le nostre possibilità. Sono del parere che, se non esistono dubbi su quanto è stato accertato, abbiamo già effettuato una buona conquista e che con grande sicurezza si può continuare l'indagine sul resto.

20. 34. A. - Le tue parole sono vere ed io mi sottometto volentieri alla tua autorità. Ma prima di porre termine al presente trattato, vorrei ottenere per lo meno che tu brevemente mi esponga la differenza esistente fra la figura vera [veram figuram] che viene compresa dall'intelligenza e quella che s’immagina il pensiero, che in greco si dice phantasia o phantasma. R. - Chiedi proprio ciò che può intuire soltanto una mente abituata alla speculazione, e tu hai poco esercizio in questo genere d'indagine. Nella presente ricerca appunto non abbiamo fatto altro che esercitarti mediante il dialogo maieutico per renderti idoneo alla teoresi filosofica. Tuttavia, brevemente forse, ti renderò evidente la grandissima differenza fra le due figure nel metodo d'insegnamento. Supponi di esserti dimenticato di qualche cosa e che qualcuno te la voglia richiamare alla memoria. In tal caso gli insegnanti, presentandoti oggetti diversi o simili, ti chiedono: È questo o quest'altro che non ricordi? E tu non ravvisi nell'oggetto presentato quello che vuoi ricordare e tuttavia ti accorgi che non è quello presentato. Ti pare che quando ti capita un fenomeno di tal genere si tratta di completa dimenticanza? Difatti il discernimento, mediante il quale non riconosci l'oggetto da cui sei stimolato sensibilmente, è un parziale ricordo. A. - Giusto. R. - Allo stesso modo vi sono alcuni che ancora non intuiscono la verità, tuttavia non possono essere ingannati e tratti in errore e conoscono già abbastanza l'oggetto della ricerca. Supponi che qualcuno ti venga a dire che ti sei messo a ridere pochi giorni dopo la tua nascita. Se chi te lo riferisce è degno di fede, tu non osi dire che è falso e pur non ricordando crederai. Difatti tutto il tempo della tua primissima infanzia ti è nascosto da una profondissima dimenticanza. La pensi diversamente? A. - Sono perfettamente d'accordo. R. - Questa dimenticanza differisce moltissimo dalla precedente che sta quasi nel mezzo. Difatti ve n'è una terza più vicina e quasi alle soglie del ricordo e al riconoscimento della verità. È molto simile alla condizione in cui ci troviamo quando vediamo qualche cosa e con certezza rammentiamo di averla vista precedentemente e diciamo di conoscerla, ma ci affanniamo a richiamare e rievocare dove, quando, come o presso chi ne siamo venuti a conoscenza. E se il caso riguardasse un uomo, rimuginiamo dove l'abbiamo conosciuto. Ed appena egli ce lo ricorda, all'improvviso tutto il passato avvenimento riempie la memoria come una luce e non ci si affatica più a ricordare. O eventualmente il caso ti è sconosciuto od oscuro? A. - Ma è notissimo e molto frequentemente mi avviene.

20. 35. R. - Vi sono alcuni ben istruiti nelle discipline liberali poiché mediante lo studio e senza incertezze le scoprono in sé, sebbene sepolte nella dimenticanza e, per così dire, le riscavano. Tuttavia non sono contenti e non si arrestano fino a quando non intuiscono in tutta l'ampiezza e la pienezza la faccia della verità, la cui luce inizialmente si manifesta nelle varie arti. Ma da esse proprio si riproducono, per così dire, nello specchio della rappresentazione colori e figure sensibili. Essi ingannano e inducono in errore coloro che indagano, se pensano che in ciò consiste l'oggetto della conoscenza e della ricerca. Sono proprio queste le rappresentazioni fantastiche che vanno evitate con grande attenzione. Esse possono indurre nell'errore quando variano col variare, per così dire, dello

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specchio della rappresentazione. Al contrario, la faccia della verità rimane una e invariabile. Difatti la rappresentazione riproduce e quasi presenta agli occhi il quadrato secondo questa o quella grandezza. Ma l'intelligenza, che vuole intuire il vero, si rivolta, se può, a quell'idea secondo cui giudica quadrati tutti i quadrati sensibili. A. - E se qualcuno ci dicesse che l'intelligenza pensa rappresentandosi i vari dati sensibili? R. - E allora perché pensa, se tuttavia ha rettamente appreso, che la sfera ideale è in contatto in un sol punto con una superficie ideale? L'occhio non ha mai visto e non può vedere qualche cosa di simile quando neanche la rappresentazione fantastica se lo può riprodurre. E noi avvertiamo la validità del principio quando con la rappresentazione riproduciamo in noi anche la più piccola circonferenza e da essa tracciamo i raggi. Difatti se ne tracciamo due tanto vicini che fra di essi si possa inserire appena la punta di un ago, anche con la rappresentazione fantastica non ne potremmo tracciare altri in mezzo a quei due in maniera che giungano al centro senza intersecarsi. Al contrario, logicamente si dimostra che innumerevoli se ne possono tracciare e che in quella irrappresentabile strettezza di spazio non si incontrano se non al centro sicché nell'intervallo esistente fra l'uno e l'altro si potrebbe tracciare un altro cerchio. Un tal calcolo non può essere effettuato dalla rappresentazione fantastica, poiché essa è più limitata della vista stessa se si pensa che è avvivata in noi dagli occhi. È manifesto quindi che essa molto differisce dalla verità e che, a differenza di questa, non genera evidenza.

20. 36. I concetti suddetti saranno approfonditi e chiariti quando cominceremo a parlare della conoscenza intellettiva. Tale trattazione ci si porrà come istanza al momento in cui, per quanto ne siamo capaci, sarà precisato e discusso l'assillante problema della vita dell'anima. Ritengo infatti che tu hai un gran timore che la morte degli individui, anche se non distrugge l'anima, potrebbe comportare la completa dimenticanza delle cose e della verità stessa, seppure è stata raggiunta. A. - Non si può sufficientemente dire quanto sia terribile un tal destino. Difatti che cosa sarebbe una simile vita eterna e quale morte non sarebbe preferibile se l'anima vivesse della stessa vita che noi osserviamo in un bambino appena nato, per non parlare della vita nel periodo della gestazione, che penso sia vita anche quella. R. - Sta' di buon animo. Come fin d'ora prevediamo, durante l'indagine ci assisterà Dio che ci promette senza alcun inganno la perfetta beatitudine e la pienezza della verità dopo questa vita. A. - Che la nostra speranza non sia delusa!

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IL MAESTRO

[…]

9. 25. Agostino – Voglio, dunque, che tu comprenda che le cose che vengono significate sono da tenere in considerazione più dei segni. Tutto ciò che è in funzione di altro, infatti, è necessariamente inferiore a ciò di cui è in funzione. La pensi diversamente? Adeodato - Ritengo che in proposito si debba acconsentire senza temere: infatti quando diciamo coenum (lordura), giudico che tale nome, sia da anteporre alla cosa che significa. Il fatto che nell'udirlo ci nausei, non deriva dal suono della parola, anche perché coenum, in quanto nome, mutata una sola lettera, diventa coelum (cielo). Qui noi vediamo bene la distanza che esiste fra gli oggetti significati da questi nomi. Pertanto non attribuirei in alcun modo al segno quel che detestiamo nella cosa significata e quindi giustamente antepongo il nome alla cosa. Difatti, percepiamo più volentieri quello con l'udito, che questa con qualsiasi altro senso. Ag. - Detto con molta perspicacia. Dunque è falso che tutte le cose siano da apprezzare più dei loro segni. Ad. – Così sembra. Ag. - Dimmi dunque che intenzione ebbero, secondo te, coloro che hanno imposto un nome a una cosa tanto disgustosa e spregevole: li approvi o li disapprovi? Ad. - Non oserei né approvarli né disapprovarli e non so che intenzione ebbero. Ag. - Puoi dirmi almeno che intenzione hai tu quando pronunci questo nome? Ad. - Questo sì, certamente. Intendo usare quei segni per istruire o ammonire il mio interlocutore che cosa, secondo me, è necessario che egli apprenda o ricordi. Ag. - Dunque l’istruire o l’ammonire, l'essere istruito o ammonito, ciò che con questo nome tu esibisci o ti è esibito, non deve ritenersi più caro del nome stesso? Ad. - Ammetto che la conoscenza in sé, ottenuta per mezzo di tale segno, si deve preferire al segno, ma non che, per questo, gli si debba preferire anche la cosa.

9. 26. Ag. - Pertanto nel quadro della nostra affermazione, sebbene sia falso che tutte le cose sono da preferirsi ai loro segni, non è falso che ciò che è posto in funzione di altro valga meno di ciò cui si riferisce. La conoscenza della lordura appunto, alla quale questo nome si riferisce, è da considerarsi più pregevole del nome stesso che, a sua volta, come abbiamo stabilito, è più pregevole della stessa lordura. E la conoscenza è stata anteposta al segno soltanto perché è evidente che l'uno è in funzione dell'altra e non viceversa. A titolo d'esempio, un ghiottone e cultore del ventre, come è detto dall'Apostolo, affermava che egli vivesse per mangiare. Ma un individuo frugale, che lo udì, replicò: “Quanto sarebbe meglio che tu mangiassi per vivere”. Tuttavia entrambi si espressero secondo la regola suddetta. Difatti il ghiottone fu rimproverato soltanto perché, dicendo che viveva per il cibo, considerava tanto poco la vita da subordinarla al piacere della gola. E l'uomo frugale giustamente fu lodato soltanto perché, comprendendo quale delle due cose si fa per l'altra, cioè qual è subordinata all'altra, ammonì che bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare. Egualmente un chiacchierone amante delle parole potrebbe dire: “Insegno per parlare”. Ma tu forse, o un qualsiasi individuo capace di valutare le cose, gli rispondereste: “Buon uomo, perché invece non parli per insegnare?”. Ora, se queste idee sono vere, come ben comprendi, puoi capire quanto siano da considerare meno pregevoli le parole del fine per cui le usiamo, e che, dunque, anche l'uso sia da anteporre alle parole. Le parole ci sono perché se ne faccia uso [utimur], ma se ne fa uso per insegnare. Tanto più, dunque, l'insegnare è meglio del parlare, quanto più il linguaggio [locutio] è meglio delle

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parole. E perciò anche l’insegnamento [doctrina] è meglio delle parole. Ma vorrei sapere se hai qualcosa da obiettare.

9. 27. Ad. - Ammetto che l'insegnamento conti più delle parole, ma non sono sicuro che non esistano obiezioni contro la regola secondo cui: ‘tutto ciò che è in funzione di altro è inferiore a ciò di cui è in funzione’. Ag. - Ne tratteremo altrove più opportunamente e diligentemente. Per il momento la tua ammissione è sufficiente per quanto intendo dimostrare. Tu concedi, infatti, che la conoscenza delle cose è più pregevole di quella dei loro segni. Pertanto la conoscenza delle cose significate è da anteporre alla conoscenza dei segni. Non ti pare? Ad. - Ma davvero ho concesso che la conoscenza delle cose è più pregevole della conoscenza dei segni e non, piuttosto, dei segni stessi? Sono esitante ad assentire con te su questo punto. Se il termine ‘lordura’ è migliore della cosa significata, la conoscenza di questo termine è da preferirsi alla conoscenza di quella cosa, sebbene il nome stesso abbia minor valore di quella conoscenza. Quattro sono i termini, in effetti: il nome e la cosa, la conoscenza del nome e la conoscenza della cosa. Come dunque il primo è superiore al secondo, perché il terzo non lo dovrebbe essere rispetto al quarto? Ma se non lo è, dovrà allora anche essergli subordinato?

9. 28. Ag. - Noto che veramente bene hai tenuto presente ciò che ammetti e chiarito ciò che pensi. Ma suppongo che tu comprenda come il termine ‘vizio’, nella sua espressione orale risultante di due sillabe, sia migliore di ciò che significa, mentre la conoscenza del nome stesso sia di gran lunga inferiore alla conoscenza dei vizi. E anche ammesso che si possano stabilire i quattro termini — nome e cosa, conoscenza del nome e conoscenza della cosa — comunque si deve giustamente anteporre il primo al secondo. Questo nome, infatti, posto nel verso in cui Persio scrive: Ma costui è istupidito dal vizio, non solo non ha introdotto alcun vizio nell verso, ma gli ha anche conferito una certa eleganza. Eppure la cosa che è significata da tale nome porta ad essere viziosi. Mentre non vediamo eccellere il terzo termine sul quarto, ma piuttosto il quarto sul terzo. La conoscenza di quel nome è, infatti, meno pregevole della conoscenza dei vizi. Ad. - Ed anche se tale conoscenza rende più infelici, pensi comunque sia da preferirsi? Lo stesso Persio, infatti, a tutte le pene che la crudeltà dei tiranni ha inventato e che la loro cupidigia applica, antepone quella, per cui vengono tormentati quegli individui costretti a conoscere vizi che non riescono a evitare. Ag. - Con questo discorso vieni a negare che la conoscenza stessa delle virtù sia preferibile alla conoscenza del suo nome, perché conoscere e non praticare la virtù è un castigo, quello in cui il medesimo poeta satirico si augurava incorressero i tiranni. Ad. - Dio ci scampi da tale assurdità. Comprendo ormai che non si deve dare la colpa alle conoscenze in sé, tra cui la disciplina più nobile di tutte, quella che educa l’animo, ma che, come credo che anche Persio li ha giudicati, si devono considerare i più infelici di tutti, coloro i quali sono affetti da un morbo tale che non li guarisce nemmeno una così efficace medicina. Ag. - Comprendi bene. Ma in qualunque modo si legga la frase di Persio, a noi cosa ce ne viene? Noi, infatti, non siamo soggetti alla loro autorità in tale genere di cose, in cui non è facile distinguere se una conoscenza è da preferirsi a un'altra. Ritengo sufficiente, quindi, il risultato conseguito: che la conoscenza delle cose significate, anche se non è preferibile alla conoscenza dei segni, lo è certamente ai segni stessi. Ora esaminiamo, dunque, a fondo l’argomento relativo a quale sia il genere di cose che si possono mostrare in se stesse anche senza segni: come parlare, camminare, sedere, giacere e altri di questo genere. Ad. - Sto già meditando su quanto dirai.

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10. 29. Ag. - Secondo te, si possono indicare senza segno le azioni che possiamo eseguire immediatamente dopo la richiesta o hai qualcosa da eccepire? Ad. – Io, per la verità, dopo aver considerato più volte la questione nel suo complesso, non trovo ancora nulla su cui si possa istruire senza segno, se non, forse, il parlare e l’istruire stesso, se per caso questo possa essere richiesto da qualcuno. Constato, infatti, che, chi interroga, qualunque cosa io avrò compiuto per farlo apprendere, non apprenderà dalla cosa stessa che desidera gli venga mostrata. Se qualcuno, infatti, come è stato già detto, mi chiede, mentre sto fermo o faccio altro, che cosa sia il camminare, ed io tentassi, cominciando immediatamente a camminare, di insegnargli senza segno quanto mi ha chiesto, non potrei evitare che questi creda che il camminare riguardi solo quel tanto che io avrò camminato. Se lo pensasse, s’ingannerebbe. Egli riterrebbe, appunto, che quello di un individuo che avrà camminato più o meno a lungo di me, non è il camminare. E quel che dico di questa sola parola si estende a tutte quelle che avevo ammesso potersi indicare senza segno, salvo le due su cui abbiamo fatto eccezione.

10. 30. Ag. - D'accordo su questo tema. Ma non ritieni che altro sia parlare ed altro insegnare? Ad. - Certamente. Se fossero il medesimo concetto, non s'insegnerebbe se non parlando. Al contrario s'insegnano molte cose con altri segni oltre che con le parole, quindi non si può dubitare della differenza. Ag. - E insegnare e significare non differiscono affatto o differiscono per qualche aspetto? Ad. - Secondo me non differiscono. Ag. - Non parla rettamente, chi dice che il nostro fare segni [significare] abbia lo scopo di insegnare? Ad. – Senz’altro rettamente. Ag. - E non si potrà confutare sulla base delle affermazioni fatte sopra chi dicesse che si insegna per usar segni? Ad. - Sì. Ag. - Se dunque si usano segni per insegnare e non si insegna per usar segni, altro è insegnare ed altro significare. Ad. - Giusto; ed io non ho risposto rettamente dicendo che si identificano. Ag. - Ed ora rispondi all’interrogativo se chi insegna che cosa sia insegnare può farlo usando segni o in altro modo. Ad. - Non vedo come sia possibile in altro modo. Ag. - Dunque poco fa hai commesso un errore, dicendo che, quando ci si domanda che cosa si l’insegnare, lo si possa insegnare senza segni. Al contrario stiamo notando che neanche questo si può fare senza l'uso di segni, poiché hai concesso che altro è significare e altro insegnare. Se sono cose diverse, come appare evidente, e se l'insegnare non si palesa se non attraverso l’altro, è evidente che nessuno dei due si mostra per se stesso, come a te era sembrato. Pertanto, nulla si è finora trovato che possa mostrarsi per se stesso, tranne il linguaggio che, tra l’altro esprime anche se stesso. Ma siccome è anch’esso segno, non risulta affatto ancora apparso qualcosa che si possa insegnare senza segni. Ad. - Nulla in contrario.

10. 31. Ag. - Si è raggiunta dunque la conclusione che nulla si insegna senza segni e che la conoscenza è più preziosa dei segni con cui conosciamo, sebbene non tutte le cose significate siano più preziosi dei rispettivi segni. Ad. - D'accordo. Ag. – Hai notato, scusa, con quale giro di parole si è ottenuto finalmente una così piccola cosa? Da quando ci stiamo bersagliando con le parole, ed è un bel po' che lo facciamo, ci siamo affaticati ad esaminare questi tre quesiti: se nulla sia possibile insegnare senza segni; se vi sono segni da preferirsi

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alle cose di cui sono segni; se la conoscenza delle cose sia migliore di quella dei segni. Ma v'è un quarto quesito che vorrei fosse da te chiarito: e cioè se giudichi quel che si è trovato tale che ormai non se ne può più dubitare. Ad - Vorrei certamente che attraverso tanti giri di parole si fosse giunti a risultati sicuri, ma proprio questa tua domanda mi inquieta e mi distoglie dall'assentirvi. Non mi avresti posto questa domanda, mi pare, se tu stesso non avessi qualche dubbio in contrario. E la difficoltà stessa dell'argomento non mi consente di vedere l'insieme e di rispondere con sicurezza, temendo che fra le tante pieghe del discorso si celi qualche cosa che l’acutezza della mia mente non può illuminare. Ag. - Accolgo non malvolentieri la tua esitazione, perché è rivelatrice di un animo non avventato. Il che è la più grande garanzia di tranquillità. Infatti, è molto difficile non essere turbati quando, opinioni accolte con approvazione agevole e supina crollano e ci vengono quasi strappate di mano da discussioni avverse. Pertanto come è giusto cedere a ragionamenti attentamente vagliati, cosi è rischioso ritenere per conosciuto quel che non lo è. C'è spesso da temere, infatti, che quando vengono fatte cadere conoscenze che pregiudizialmente si ritenevano stabili e durature, si incorra in così grande odio e insicurezza per la ragione da sembrarci che non si debba più tener fede nemmeno alla verità più evidente.

10. 32. Ma ora torniamo ad esaminare più speditamente se è con ragione che hai ritenuto di dover dubitare di ciò. Ti pongo una domanda. Supponi che un tale, profano del modo di catturare gli uccelli, per i quali si usano canne e vischio, incontrasse un uccellatore che, pur avendo tali attrezzi, non li usa per l'uccellagione, ma mentre sta camminando. A una tale vista, quegli accelererà il passo, e pensando con meraviglia fra sé, come avviene, si chiederà a che serve l'attrezzatura di quell'individuo. L'uccellatore, accorgendosi che l'altro lo sta osservando, con l’intento di mettersi in mostra, allestirà le canne, poi, con il richiamo della canna e il falcone, immobilizzerà un uccellino che passa di là, e lo accalappierà. Non ha così egli insegnato, senza far segni ma con l'azione stessa, quel che voleva sapere a colui che l'osservava? Ad. - Temo che sia il medesimo caso di colui che, come ho detto, chiede che cosa sia camminare. Anche qui non vedo che sia stata mostrata tutta l'operazione dell’uccellagione. Ag. - È facile liberarti da questo dubbio: aggiungo, infatti, che l'osservatore potrebbe essere così intelligente da cogliere, da quanto ha visto, tutto il significato dell'operazione. È sufficiente infatti allo scopo, ammettere che sia possibile senza segno insegnare alcune cose, anche se non tutte, ad alcuni individui. Ad. – Anch’io, infatti, posso aggiungere qualcosa: che se quegli è molto intelligente, indicatogli il camminare con pochi passi, comprenderà che cos'è il camminare. Ag. - Fallo pure. Non solo non mi oppongo, anzi lo approvo. Ciascuno di noi due sta infatti cercando di dimostrare lo stesso fatto: che certe cose possono essere insegnate senza segni e che dunque è falso quanto ritenevamo poco fa, cioè che non vi sia nulla che si possa mostrare senza segni. E ormai di simili cose ne vengono in mente non l'una o l'altra, ma migliaia che si possono mostrare da sole, senza passare per alcun segno. Ma allora, perché ne dubitiamo? Come non ricordare gli innumerevoli spettacoli di attori che in tutti i teatri mostrano senza segni attraverso le azioni stesse, questo sole e la luce che avvolge, diffondendosi su tutte le cose, la luna e gli altri astri, le terre e i mari e, e tutti gli esseri che in essi si producono, mostrando infine anche Dio e la natura che li comprende?

10. 33. Ma a considerare più attentamente, forse non troverai oggetto che sia appreso mediante propri segni. Quando mi si mostra un segno, se io non so di quale cosa è segno, non può insegnarmi nulla. Se invece lo so, cosa apprendo da quel segno? La parola non mi mostra la cosa che significa, quando leggo: E i loro copricapi non sono immutati. Se con tale nome sono chiamati determinati copricapi,

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nell'udirlo, ho forse appreso che cos'è capo e che cosa lo copre? Li conoscevo già, e non è che ne ho avuta conoscenza perché li ho intesi nominare da altri, ma perché li ho visti. Infatti, quando per la prima volta le due sillabe del termine ‘capo’ hanno colpito il mio udito, non ne ho conosciuto il significato ed egualmente quando per la prima volta ho udito o letto ‘copricapi’. Ma ‘capo’ è una parola molto usata. Ed io, facendo attenzione, ho scoperto che era il vocabolo di una cosa che mi era assai nota per averla vista. Prima di averla scoperta, la parola per me era soltanto un suono; ho imparato che è anche un segno quando ho trovato di quale cosa è segno. Ma, come ho detto, avevo appreso la cosa non mediante l'uso dei segni, bensì con la vista. Dunque si apprende il segno dalla cosa conosciuta più che la cosa dal segno.

10. 34. Per comprendere meglio l'argomento, supponi che ora, per la prima volta, noi udiamo il termine ‘capo’. Non sapendo se la voce sia soltanto un suono o abbia anche un significato, domandiamo che cos'è ‘capo’. Ricorda che non desideriamo conoscere la cosa che è significata, ma il segno, e che non lo conosciamo perché non sappiamo di che cosa è segno. Se dunque alla nostra domanda, ci viene mostrata col dito la cosa stessa, appena la vediamo, apprendiamo il segno che avevamo soltanto udito e non ancora conosciuto. E poiché in questo segno ci si offrono due aspetti, il suono e il significato, noi non abbiamo colto il suono mediante il segno, ma mediante lo stimolo uditivo; mentre il significato mediante la percezione della cosa significata. Il tendere il dito appunto non può significare altro oggetto che quello, cui il dito tende; ed esso è teso non al segno, ma verso quella parte del corpo che si chiama ‘capo’. Da quel gesto dunque non posso conoscere la cosa, perché la conoscevo già, né il segno, a cui non era teso il dito. Pertanto non mi curo troppo dell’indicazione fatta col dito, perché mi sembra un segno della stessa dimostrazione, anziché di altre cose da dimostrare. È come con l’avverbio ‘ecco’: anche nel pronunciare questo avverbio, di solito, si tende anche il dito, nel timore che un solo segno d'indicazione non sia sufficiente. E di questo mi accingo a convincerti, se ci riuscirò: soprattutto che non si apprende mediante quei segni che sono chiamati parole. Piuttosto, come ho detto, che si apprende il valore della parola, cioè il significato nascosto nel suono, dalla conoscenza della cosa stessa significata anziché percepire la cosa da quell’indicare.

10. 35. E ciò che ho detto del capo, lo direi anche dei copricapi e di altre innumerevoli cose. Li conosco, ma non so ancora cosa significa ‘copricapi’. Se qualcuno me li indicasse col gesto o li dipingesse o mi mostrasse una cosa a cui si rassomigliano, non direi che non me li ha insegnati proprio, sebbene potrei provarlo facilmente se volessi dilungarmi, ma dico qualche cosa di molto simile: e cioè che non me li ha insegnati con le parole. E se scorgendoli, alla mia presenza, mi avvertirà che “Ecco i copricapi”, conoscerò la cosa che non conoscevo non per la mediazione delle parole dette, ma per averla vista, per cui è avvenuto che conoscessi e apprendessi che anche quel nome ha un valore. Quando, infatti, avevo preso conoscenza della cosa stessa, non avevo prestato fede alle parole altrui, ma ai miei occhi, benché delle parole dovessi forse essermi fidato per fare attenzione, cioè per cercare con lo sguardo, quel che dovevo vedere.

11. 36. Entro questi limiti hanno avuto valore le parole: al massimo perché ci stimolano alla ricerca delle cose, non perché ce le presentano in modo da poterle conoscere. Mi insegna soltanto chi mi presenta alla vista o all'udito, o anche direttamente alla mente, gli oggetti che voglio conoscere. Dunque, mediante le parole si apprendono soltanto le parole, anzi il loro suono frastornante. Se, infatti, non è possibile che sia una parola ciò che non è segno, non so però se una parola, benché già pronunciata, è tale, finché non ne conosco il significato. Di conseguenza, con la conoscenza delle cose, si ottiene anche la conoscenza delle parole. Al contrario, con l'udire le parole non si apprendono neanche le parole. Difatti, le parole che si conoscono non si apprendono, e si può affermare di avere

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appreso quelle che non si conoscono soltanto dopo averne percepito il significato. Ed esso risulta non dall’aver udito emissioni di voci, ma dalla conoscenza delle cose significate. È ragionamento verissimo e discorso incontrovertibile quando si pronunciano parole, che se ne conosca o meno il significato. Se si conosce, più che apprendere, si ricorda; se poi non si conosce, nemmeno si ricorda, ma forse si è solo spinti a ricercare.

11. 37. Potrai obiettare che non si possono conoscere quei copricapi, di cui si percepisce soltanto il nome come suono, se non dopo averli visti e che non si conosce perfettamente il nome stesso se non dopo averli conosciuti, ma che soltanto mediante le parole si è appreso l'episodio dei tre fanciulli, e cioè come hanno superato con fede sincera il rogo fatto preparare dal re, quali lodi hanno cantato a Dio, quale elogio hanno meritato perfino dal nemico. Rispondo che tutte le cose significate da quelle parole erano già a nostra conoscenza [cuncta quae illis verbis significata sunt, in nostra notitia iam fuisse] di. Infatti, già conoscevo che cosa sono tre fanciulli, cosa una fornace, cosa il fuoco, il re, cosa, infine, restare illesi dal fuoco, e tutte le altre cose che quelle parole significano. Al contrario, Anania, Azaria e Misael mi sono ignoti tanto quanto i copricapi e questi nomi non mi hanno giovato affatto a conoscerli, né potranno più aiutarmi. E confesso, più che di sapere, di credere che tutte le cose di cui si legge in quella storia siano in quel tempo avvenute, e avvenute così come sono state narrate. E anche coloro ai quali crediamo seppero di tale differenza. Dice il profeta: Se non avrete creduto, non comprenderete4; e non l'avrebbe certamente detto se non avesse considerato la differenza. Dunque ciò che comprendo, lo credo anche, ma non tutto ciò che credo, lo comprendo. E di tutto ciò che comprendo, so, ma non di tutto ciò che credo, so. Non per questo, tuttavia, non so quanto sia utile credere in molte cose di cui non so. Tra tali utilità metto anche la vicenda dei tre fanciulli. Perciò, benché di molte cose non possa sapere, so però quanto sia utile credervi.

11. 38. Inoltre, su tutte le cose che comprendiamo, non ci poniamo in colloquio con chi parla dall'esterno, ma con la verità che governa da dentro la mente stessa [sed intus ipsi menti praesidentem consulimus veritatem], forse stimolati dalle parole a consultarla. È chi viene consultato, che insegna, ed è colui che è detto abitare nell’uomo interiore: vale a dire Cristo, l'eternamente immutabile potere e sapienza di Dio5. Ed è proprio quest’ultima che ogni anima ragionevole consulta, benché, essa si riveli a ciascuno per quel tanto che questi può riceverla secondo la propria buona o cattiva volontà. E se talvolta ci si sbaglia, ciò non avviene per difetto della verità consultata, come avviene invece a proposito di quella che viene dal di fuori; non è, infatti, per mancanza di luce che gli occhi corporei spesso s'ingannano, di quella luce che noi riconosciamo di dover consultare riguardo alle cose sensibili, affinché ce le mostri secondo il limite della nostra facoltà.

12. 39. Dunque, se per i colori ci volgiamo alla luce, se per gli altri sensibili che si percepiscono col corpo ci volgiamo alle proprietà delle cose, anche esse corpo, e ai sensi stessi, di cui l'intelligenza si serve come strumenti per conoscere i sensibili, invece per le cose intelligibili al contrario consultiamo la verità interiore con la ragione. Quale prova, dunque, addurre ancora per evidenziare che con le parole si conosce qualche cosa al di là del suono stesso che colpisce l'udito? Infatti, tutte le cose che percepiamo, o le percepiamo con il senso corporeo o le percepiamo con la mente. Quelli sono sensibili, questi intelligibili o, per parlare secondo la consuetudine dei nostri scrittori, quelli carnali, questi spirituali. Quando ci si interroga sui primi, si può rispondere se le cose che sentiamo sono o meno presenti; ad esempio, mentre si sta guardando la luna nuova, ci si chiede quale o dove sia. In questo

4 Is 8, 9. 5 Ef 3, 16-17, dove si parla anche di «uomo interiore (τὸν ἔσω ἄνθρωπον)»; 1Cor 1, 24.

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caso, colui che interroga, se non vede, crede alla parola, o spesso non ci crede, ma comunque non apprende a meno che egli stesso non veda ciò di cui si parla. Ma allora non apprende dalle parole ma dalle cose stesse e dai sensi. Le parole, quando vede, hanno il medesimo suono che ebbero quando non vedeva. Quando poi si pone il problema non di ciò che percepiamo al presente, ma di ciò che abbiamo percepito in passato, il nostro discorso riguarda non più le cose stesse, ma le loro immagini conservate nella memoria. Allora non saprei proprio più come quelle cose possano essere considerate vere, visto che le intuiamo come false, se non perché riferiamo non di vederle e percepirle, ma di averle viste e percepite. Così noi introduciamo nei penetrali della memoria quelle immagini come documenti di cose già percepite, le quali, contemplandole nell’animo, in buona coscienza non mentiamo se diciamo che questi per noi sono documenti; infatti, colui che ascolta, se percepì quelle cose e le sperimentò, non le sta apprendendo dalle mie parole, ma le riconosce egli stesso dalle immagini che porta con sé. Se, invece, non sperimentò quelle cose, chi non comprende che egli sta piuttosto credendo che imparando dalle parole?

12. 40. Quando poi si tratta di quelle realtà che contempliamo con la mente, cioè con l’intelletto e con la ragione, parliamo di quelle cose di cui intuiamo la presenza in quella luce interiore della verità [in illa interiore luce veritatis] da cui viene illuminato e di cui fruisce colui che è detto uomo interiore. Ma anche allora il nostro interlocutore, se li contempla con occhio interiore e puro, sa quel che sto dicendo grazie al proprio pensiero e non alle mie parole. Dunque, nemmeno quando dico cose vere, sto insegnando a colui che intuisce il vero; infatti, istruito non dalle mie parole, ma dalle cose stesse, resegli manifeste da Dio che lo illumina dal di dentro, così saprebbe anche rispondere se interrogato su di esse. Pertanto sarebbe assurdo pensare che è ammaestrato dal mio discorso se interrogato, potrebbe, prima che io parli, esporre le cose stesse. Spesso avviene che un tale in un dialogo neghi qualche cosa e poi in un altro dialogo sia spinto ad affermarla. Ciò avviene a causa della debolezza di mente di chi giudica e che è incapace di consultare la luce interiore sulla questione nel suo insieme. Allora è esortato a farlo per parti, quando è interrogato sulle parti stesse, da cui risulta quell’intero che non sapeva scorgere nell’insieme. Se vi è condotto dalle parole di chi lo interroga, esse non insegnano, se è idoneo ad imparare dal di dentro [intus discere]. Come se io ti chiedessi sull'argomento in esame, se cioè si può insegnare con le parole e a te dapprima ciò sembrasse assurdo, non essendo capace di scorgere la questione per intero. Così, dunque fu necessario esaminare se le tue facoltà siano idonee ad ascoltare quel maestro interiore [illum intus magistrum], come se io dicessi: “da chi hai appreso le cose che, sulla base delle mie parole, ritieni vere, di cui sei certo e che affermi di conoscere?”. Tu risponderesti forse che te le ho insegnate io. Ed io replicherei: “E se ti dicessi che ho visto volare un uomo, le mie parole ti renderebbero certo allo stesso modo che se tu sentissi dire che i saggi sono più perfetti degli insipienti?”. Senza dubbio lo negheresti e risponderesti di non credere alla prima affermazione, o anche se vi credessi, di non conoscerla, mentre sai della seconda con grande certezza. Capiresti allora di non aver appreso nulla dalle mie parole né in ciò che ignoravi mentre io lo affermavo, né in ciò che sapevi bene, visto che, interrogato nei due casi, giureresti che il primo ti era ignoto, il secondo invece noto. Allora, invero, affermeresti tutto quello che avevi negato, poiché riconosceresti chiare e certe le cose da cui quel tutto risulta: cioè che di tutto ciò di cui parliamo, o l’interlocutore ignora se sia vero, oppure sa che è falso oppure sa che è vero. Nel primo dei tre casi, o si crede, o si opina, o si dubita. Nel secondo o si contesta o si nega. Nel terzo si asserisce. In nessuno caso, dunque, si apprende. Perché anche colui che dopo le nostre parole non conosce la cosa, che ritiene di aver ascoltato il falso, e che interrogato sa rispondere le stesse cose che sono state dette da noi, si convince che non ha appreso nulla dalle mie parole.

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13. 41. Pertanto, anche per quanto riguarda ciò che si intuisce con la mente, chi non è capace d'intuirlo invano ascolta il discorso di chi intuisce, salvo per il fatto che è utile credervi finché non si conosca. Ma chi sa discernerli interiormente è discepolo della verità, mentre esternamente è giudice di chi parla o meglio del linguaggio stesso. Infatti, perlopiù conosce le cose che sono state dette, mentre quello stesso che le ha dette, le ignora; come se qualcuno, credendo agli Epicurei e ritenendo l'anima mortale, producesse le argomentazioni che sull'immortalità sono stati proposte dai più saggi, alla presenza di chi sa comprendere di cose spirituali; questi giudicherà che l'altro dice il vero, mentre chi sta parlando non solo ignorerà se sta dicendo il vero, ma anzi riterrà di dire cose assolutamente false. Si deve dunque pensare che sta insegnando cose che ignora? Eppure sta usando delle medesime parole di cui potrebbe far uso chi ne è a conoscenza.

13. 42. Dunque alle parole non si concede neanche di farci perlomeno conoscere l’animo di chi parla, se non è certo che egli sappia di ciò di cui si parla. Aggiungici i mentitori e gli ingannatori [mentientes atque fallentes], per mezzo dei quali si può facilmente comprendere come con le parole non solo non si sveli il pensiero, ma si possa anche occultarlo. Poiché non metto in discussione che le parole degli individui veritieri s'impegnano a rivelare il pensiero di chi parla, si sarebbe tutti d’accordo se non fosse lecito parlare ai mentitori [mentientibus], ma, spesso abbiamo sperimentato, sia in noi sia negli altri, che le parole proferite non corrispondono alle cose pensate. Il che avviene, mi pare, in due modi: o quando il discorso mandato a memoria, e spesso ripetuto, fluisce dalla bocca di chi è impegnato a pensare ad altro, come ad esempio quando cantiamo un inno o quando vengono involontariamente fuori alcune parole invece di altre, per un errore stesso di lingua. Anche in questo caso, infatti, non vengono intesi i segni di quei pensieri che abbiamo nella mente. In effetti, anche i mentitori [mentientes] pensano alle cose di cui parlano, di modo che, benché non sappiamo se dicono il vero, sappiamo tuttavia che hanno nella mente ciò che dicono, a meno che non accada loro una delle due cose di cui ho detto. Se poi qualcuno sostiene che tali fenomeni si verificano raramente e, quando se ne verifica qualcuno, si manifesta, non faccio obiezioni.

13. 43. Ma ad essi si aggiunge un altro caso, molto comune e sorgente di innumerevoli dissensi e contese: quando colui che parla esprime proprio ciò che pensa, ma soltanto a sé e a qualcun’altro; mentre per l'interlocutore e per alcuni altri intende un'altra cosa. Supponiamo che qualcuno alla nostra presenza dica che l'uomo sia superato in valore da alcune bestie e noi sia dia immediatamente segni di insofferenza e con grande energia si attacchi un'opinione cosi falsa e pericolosa. Qualora quegli, forse stesse considerando virtù le forze fisiche ed esprimendo con questa parola il proprio pensiero, non mentirebbe, né errerebbe, mescolando le parole memorizzate, ne proferirebbe, per difetto di lingua, parole in disaccordo col proprio pensiero; soltanto starebbe definendo quel che pensa con una parola che noi non useremmo. Se potessimo scorgere nel suo pensiero, subito glielo concederemmo, sebbene, manifestandoci la propria teoria con quella parola, non è riuscito ancora a chiarircela. Si dice che a questo tipo di errori possano rimediare le definizioni, perché, se in questa discussione si definisse che cos'è la virtù, apparirebbe, dicono, che la controversia non riguarda la cosa, ma la parola. Pur ammettendo che le cose stiano così, con quanta poca probabilità si può trovare un buon definitore? Pertanto, contro la disciplina del definire ci sono state molte dispute. Il che non è opportuno trattare qui, né io le approvo del tutto.

13. 44. Tralascio poi il fatto che molte cose non le udiamo bene e ne discutiamo molto a lungo come se le avessimo udite. Ad esempio, poco fa, riguardo ad una parola cartaginese, mentre io dicevo che significa ‘misericordia’, tu sostenevi di avere udito da coloro cui questa lingua è più familiare che significa ‘pietà’. Ed io, contestandoti, affermavo che ti era sfuggito il senso di quanto avevi udito. Mi

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era sembrato, infatti, che, avessi detto non ‘pietà’ ma ‘fede’, benché fossi seduto molto vicino a me e sebbene le due parole non possono assolutamente ingannare l'udito per somiglianza di suono. Eppure a lungo ho sospettato che tu ignorassi ciò che ti era stato detto. Mentre ero io invece ad ignorarlo, poiché se ti avessi ascoltato bene, certamente non mi sarebbe sembrato assurdo che misericordia e pietà in cartaginese siano designate da un solo nome. Cose che accadono di frequente. Ma, come ho detto, tralasciamole, perché non sembri che svalorizzo le parole a motivo della disattenzione di chi ascolta o della sordità degli individui. A preoccuparmi di più sono i casi che ho esposto precedentemente, perché in essi, sebbene le parole siano in latino e percepite chiaramente, non si è egualmente capaci di comprendere i pensieri di chi parla quella stessa lingua.

13. 45. Ma alla fin fine mi faccio da parte e voglio concedere che qualora le parole siano afferrate dall'udito di una persona cui sono note, può risultare chiaro che chi parla ha pensato alle cose che le sue parole esprimono. Ma forse è anche per questo che si viene a sapere, e questo è ora il problema, se si è detto il vero?

14. 45. Che forse i maestri dichiarano che siano compresi e ritenuti i loro pensieri e non le discipline stesse che credono di trasmettere parlando? E chi sarebbe cosi stoltamente solerte da mandare a scuola il proprio figlio perché apprendesse ciò che pensa il maestro? Ma quando i maestri espongono con parole tutte le discipline che professano d'insegnare, comprese quelle sulla virtù e sulla sapienza, allora i discepoli riflettono dentro di sé se siano state dette cose vere, cioè intuendo con le proprie forze quella verità. Soltanto allora apprendono, e quando abbiano trovato dentro di sé che è stato detto il vero [cum vera dicta esse intus invenerit], lodano quei maestri, senza rendersi conto di lodare dei dotti anziché dei docenti, se, tuttavia, costoro sanno quel che dicono. S'ingannano [falluntur] dunque gli uomini nel chiamare maestri quelli che non lo sono, per il fatto che, il più delle volte, fra il momento del parlare e quello dell’apprendere non c’è intervallo; e poiché dopo l’ammonimento di chi parla subito apprendono interiormente [intus], suppongono di avere appreso dall'esterno, da colui che ha ammonito.

14. 46. Ma sull'utilità della parola in generale, che a ben considerarla non è trascurabile, rifletteremo un'altra volta, se Dio lo concede. In effetti, per ora, ti ho solo preparato a non concedere a quei dotti più del necessario, affinché non solo non si debba credere, ma anche si cominci a comprendere quanto veracemente sia stato scritto dalla divina autorità: che nessuno sia chiamato maestro sulla terra poiché il solo maestro di tutti è nei cieli6. Che cosa sia poi nei cieli ce lo insegnerà colui stesso dal quale, anche tramite gli uomini, siamo ammoniti con segni, pur dall'esterno, perché istruiti dentro dall’esserci rivolti a lui. Vita beata è amarlo al di sopra di ogni cosa e conoscerlo. Quella che tutti proclamano a gran voce di cercare, ma che pochi si rallegrano quando l’hanno veramente trovata. Ed ora vorrei che tu mi dica che ne pensi di tutto questo mio discorso. Se, infatti, riconosci che sono vere le cose che sono state dette, avresti detto di conoscerle, se interrogato sull'una o l'altra. Puoi comprendere dunque da chi le hai apprese. Non da me, certamente, perché avresti risposto ad ogni mia domanda. Se invece non le riconosci come vere, non ti abbiamo insegnato né io né lui; ma io perché non sono capace d'insegnare, lui perché tu non sei ancora capace d'apprendere. Ad. - Invece ho appreso dall’ammonimento contenuto nelle tue parole: ho appreso che l'uomo, mediante le parole, è soltanto sollecitato ad apprendere, e che conta ben poco che una parte considerevole del pensiero di chi parla si manifesti attraverso il linguaggio [per locutionem]. Infatti, se poi vengono dette cose vere, questo lo insegna solo colui che, mentre si parla da fuori, ammonisce di abitare dentro. Colui che, con il suo favore, d’ora in poi tanto più ardentemente amerò, quanto più

6 Mt 23, 8-10.

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progredirò nell'apprendere. Tuttavia sono anche massimamente grato a questo tuo discorso esposto con coerenza, perché ha risolto completamente tutte le obiezioni che ero pronto ad opporti e non hai trascurato nessuna delle difficoltà che mi rendevano dubbioso e su cui non potesse rispondermi quell’oracolo segreto [secretum oraculum] che è affermato dalle tue parole.

LA DOTTRINA CRISTIANA

Dal Prologo:

1. Nel trattare delle Scritture ci sono delle norme [praecepta] che, a quanto mi sembra, possono essere presentate validamente a chi si dedica al loro studio. Con esse lo studioso potrà ricavare profitto non solo dalla lettura di quel che scopersero altri nei passi oscuri delle sacre Lettere, ma egli stesso potrà diventarne interprete per altri ancora. Mi sono pertanto deciso a comporre questa trattazione per coloro che vogliono e sono in grado d'apprendere tali norme, e mi auguro che Dio, nostro Signore, non mi neghi nello scrivere i doni che è solito elargirmi allorché penso a tale argomento.

Dal Libro I:

1. 1. Ogni ricerca sulla Scrittura poggia su due questioni: sul modo di trovare [modus inveniendi] ciò che occorre comprendere e sul modo di esporre [modus proferendi] ciò che si è compreso. Tratteremo quindi prima di come trovare e poi di come esporre. Impresa grande e ardua! e, se difficile a continuarla, temo che sia temerario intraprenderla. E così sarebbe effettivamente se confidassimo solo in noi stessi. La speranza di comporre quest'opera è tuttavia riposta in colui dal quale abbiamo già ricevuto molte idee su questo argomento, idee che conserviamo nella memoria, sicché non temiamo che egli cessi di somministrarci anche il resto quando avremo cominciato ad erogare quello che ci è stato già dato. Ogni cosa, infatti, che non si esaurisce quando la si dona, se la si possiede senza distribuirla, non la si possiede come occorrerebbe possederla. […]

2. 2. Ogni disciplina ha per oggetto o delle cose o dei segni, ma è attraverso i segni che si apprendono le cose. Strettamente parlando io ho dato il nome di cose a tutto ciò che non viene usato per significare qualcosa di diverso da sé, come quando si dice legno, pietra, animale o cose simili. Non si deve, in tal caso, pensare a quel legno che Mosè gettò nelle acque amare perché perdessero la loro amarezza, né a quella pietra che Giacobbe si pose sotto la testa, né a quell'animale che Abramo immolò invece del figlio. Queste sono, sì, cose in sé, ma costituiscono anche segni di altre cose. Quanto poi ai segni, ce ne sono alcuni che non servono ad altro che a significare: tali sono le parole. Nessuno infatti usa le parole se non per significare qualcosa. Da qui si comprende cosa io voglio indicare col termine " segno ": ogni cosa, cioè, che si usa per significare qualcos'altro. Pertanto, ogni segno è anche una qualche cosa, poiché ciò che non è una cosa è niente. Non ogni cosa però è anche segno. Posta questa distinzione fra cose e segni, quando parleremo di cose ne parleremo in modo tale che, anche se alcune di loro possono essere usate per significare qualcos'altro, non sia ostacolata la distinzione che consente di parlare prima delle cose e poi dei segni. Inoltre ricordiamo bene che al momento presente nelle cose ci proponiamo di considerare ciò che sono in se stesse, non il fatto che, al di là di se stesse, significano qualcosa d'altro.

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3. 3. Riguardo alle cose, alcune sono fatte per goderne, altre per usarne, altre invece che si devono godere e di cui si deve far uso [Res ergo aliae sunt quibus fruendum est, aliae quibus utendum, aliae quae fruuntur et utuntur]. Le cose fatte per goderne sono quelle che ci rendono beati; dalle cose presenti invece, che bisogna solo usare, veniamo sorretti nel nostro tendere alla beatitudine. Di esse, per così dire, ci equipaggiamo per poter giungere a quelle che ci rendono beati e aderir loro. Quanto a noi, che poi siamo quelli che o godiamo o usiamo quelle altre cose, ci troviamo nel mezzo fra le une e le altre e, se vogliamo godere delle cose di cui dobbiamo solo servirci, la nostra corsa è ostacolata e qualche volta diviene anche tortuosa, con la conseguenza che, ostacolati appunto dall'amore per ciò che è inferiore, siamo o ritardati o anche distolti dal conseguire quelle cose di cui si deve godere.

4. 4. Godere [frui] infatti di una cosa è aderire ad essa con amore, mossi dalla cosa stessa. Viceversa il servirsi [uti] di una cosa è riferire ciò che si usa al conseguimento di ciò che si ama, supposto che lo si debba amare. Per cui, un uso illecito è da chiamarsi abuso o uso abusivo. Facciamo ora l'ipotesi che siamo degli esuli, e quindi che non possiamo essere felici se non in patria. Miseri per tale esilio e desiderosi di uscire da tale miseria, vorremmo tornare in patria e per riuscire a tornare alla patria, che costituisce il nostro godimento, avremmo bisogno di servirci di mezzi di trasporto o marini o terrestri. Che se ci arrecassero piacere le bellezze del viaggio o magari l'essere portati in carrozza, ecco che, rivolti a trarre godimento da ciò che invece avremmo dovuto usare solamente, non vorremmo che il viaggio finisca presto e, invischiati in una dolcezza falsa, resteremmo lontani dalla patria la cui dolcezza ci renderebbe felici appieno. Ne segue che, se in questa vita mortale, dove siamo pellegrini lontano dal Signore, vogliamo tornare alla patria dove potremo essere beati, dobbiamo servirci del mondo presente, non volerne la fruizione. Attraverso le cose create comprese con l'intelletto cercheremo di scoprire gli attributi invisibili di Dio, o, in altre parole, per mezzo di cose corporee e temporali attingeremo le cose eterne e spirituali.

5. 5. Le cose di cui bisogna appieno godere [fruendum] sono dunque il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, cioè la Trinità, che è la più eccelsa di tutte le cose, una " cosa " comune a tutti coloro che ne godono, seppure è una cosa e non la causa di tutte le cose e se anche questo termine " causa " le è appropriato. […]

22. 20. Fra tutte le cose passate in rassegna, di quelle sole si deve godere che abbiamo ricordato essere eterne e immutabili; delle altre ci si deve solo servire e servircene in modo da giungere al godimento delle altre.

Libro II:

1. 1. Scrivendo delle cose, premisi l'avvertimento di non badare se non a ciò che esse sono in se stesse e non al fatto se significhino o meno qualche altro oggetto diverso da sé. Viceversa, parlando dei segni dico che bisogna considerare non ciò che sono in sé ma piuttosto il fatto che sono segni, cioè che significano qualcosa. Difatti il segno è una cosa che, oltre all'immagine che trasmette ai sensi di se stesso, fa venire in mente, con la sua presenza, qualcos'altro da sé [aliud aliquid ex se faciens in cogitationem venire]. Vedendo, ad esempio, delle impronte pensiamo che vi sia passato un animale di cui quelle sono appunto le orme; visto il fumo conosciamo che sotto c'è il fuoco; udita la voce di un essere animato, ne discerniamo lo stato d'animo; suonando la tromba, i soldati sono addestrati a discernere se occorra avanzare o retrocedere o fare qualche altra mossa richiesta dalla battaglia.

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1. 2. Dei segni, peraltro, alcuni sono naturali, altri intenzionali (data: stabiliti, convenzionali) [Signorum igitur alia sunt naturalia, alia data]. Sono naturali quelli che, senza intervento di volontà umana né di intenzione volta a renderli significanti, di per se stessi fanno conoscere, oltre che se stessi, qualche altra cosa. Così il fumo richiama il fuoco. Fa ciò infatti non perché vuole significare [il fuoco] ma, per la riflessione o la nozione delle cose che noi abbiamo esperimentate, conosciamo che lì deve celarsi anche il fuoco dove si fa vedere solamente il fumo. Anche l'impronta dell'animale passato per un certo luogo appartiene a questa specie di segni. Così il volto dell'uomo adirato o triste palesa il suo stato d'animo, anche senza che lo voglia colui che è in preda all'ira o alla tristezza. Altrettanto si deve dire di qualsiasi altro sentimento, che si manifesta attraverso le tracce che lascia sul volto, anche se noi non facciamo nulla perché si manifesti. Ma di tutta questa categoria di segni non è mia intenzione trattarne adesso. Siccome però rientrava nella nostra divisione della materia, non la si poteva omettere completamente. L'averla menzionato in queste righe sarà sufficiente.

2. 3. Segni intenzionali sono quelli che gli esseri viventi si scambiano per indicare, quanto è loro consentito, i moti del loro animo, che si tratti di sentimenti o di concetti. Nessun altro motivo abbiamo noi di significare, cioè di emettere segni, se non quello di cavar fuori da o trasmettere ne l'animo altrui ciò che passa nell'animo di colui che dà il segno. Abbiamo stabilito di considerare ed esporre questa categoria di segni per quanto si riferisce agli uomini, poiché anche i segni dati da Dio che sono contenuti nelle sante Scritture sono stati resi manifesti a noi tramite gli uomini che li hanno scritti. Anche gli animali, è vero, hanno dei segni con cui comunicano i desideri del loro animo. Così il gallo, trovato che abbia del becchime, dà con la voce un segno alla gallina perché venga da lui. Così il colombo col suo gemere chiama la colomba o viceversa è chiamato da lei; e molte altre cose di questo genere si è soliti avvertire. Se poi il volto con la sua espressione o il grido di dolore seguono il moto dell'animo senza l'intenzione di significare alcunché o si emettono per significare davvero qualcosa è un'altra questione: una questione che non rientra nella materia di cui stiamo trattando. Per cui, questa parte di argomenti la tralasciamo nell'opera presente come cosa non necessaria.

3. 4. Dei segni con i quali gli uomini comunicano fra loro i propri sentimenti, alcuni dicono relazione alla vista, moltissimi all'udito, assai pochi agli altri sensi. Quando infatti facciamo cenni, non diamo segni se non agli occhi di colui che con tale segno vogliamo rendere partecipe del nostro volere. In effetti alcuni sogliono indicare moltissime cose con gesti delle mani. Così gli istrioni col movimento di tutte le membra fanno segni a chi è capace di comprenderli e, per così dire, dialogano con i loro occhi. Così le bandiere e le insegne militari tramite gli occhi significano ai soldati le decisioni dei condottieri. Sono, tutti questi segni, come delle parole visibili. Quanto ai segni che hanno pertinenza con l'orecchio, sono, come ho detto, i più numerosi, specie se vi si includono le parole. È vero infatti che la tromba, il flauto, la cetra, spesso emettono un suono che non solo è gradevole ma che racchiude anche un significato. Ma tutti questi segni, paragonati con le parole, sono pochissimi. In realtà, fra gli uomini le parole [verba] hanno il primo posto in senso assoluto quando si tratta di manifestare le cose concepite nell'animo, supposto che le si voglia palesare. Certamente il Signore diede un significato anche al profumo dell'unguento con cui furono profumati i suoi piedi, e alla sunzione del Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue diede il significato che volle, e la donna che fu guarita toccando l'orlo della sua veste ci indicò qualcosa; tuttavia la stragrande quantità di segni, con cui gli uomini trasfondono i propri pensieri, è data da parole. Difatti tutti quei segni di cui brevemente ho elencato le specie li ho potuti esporre a parole, mentre riguardo alle parole, non le potrei elencare in alcun modo con quei segni.

4. 5. Le parole tuttavia toccano l'aria e subito spariscono (non durano se non quanto dura il loro suono), per questo come segno delle parole sono state trovate delle lettere, per le quali le parole si

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mostrano agli occhi, non in se stesse ma trascritte in segni che le rappresentano. Ora questi segni non sono potuti essere comuni fra tutte le genti a causa di un peccato di discordia umana [dissensionis humanae], avendo voluto strappare ciascuno per sé il primato nel mondo. Segno di tale superbia fu quella torre eretta fino al cielo, e in quell'occasione gli uomini, empi, meritarono di contrarre la discordanza non solo degli animi ma anche del linguaggio.

5. 6. Questo si è verificato anche nella divina Scrittura, con la quale si viene incontro alle molteplici malattie della volontà umana. Scritta in origine in una lingua, mediante la quale si poté diffondere per l'universo quanto era richiesto, attraverso le lingue dei diversi traduttori si è diffusa in lungo e in largo e si è fatta conoscere dalle genti a loro salvezza. Quelli infatti che la leggono non cercano altro che trovarvi il pensiero e la volontà di coloro che la scrissero e attraverso le facoltà degli scrittori trovarvi la volontà di Dio, in conformità della quale noi crediamo che detti uomini abbiano parlato.

6. 7. Quelli che leggono la Scrittura a cuor leggero vengono tratti in inganno dalle sue molte e svariate oscurità e ambiguità, e prendono una cosa per un'altra. In certi passi non riescono a trovare nemmeno la materia per false congetture: tanta è l'oscurità con cui alcune cose sono state dette che le si debbono ritenere coperte da densissime tenebre. Tutto questo non dubito che sia avvenuto per una disposizione divina, affinché con la fatica fosse domata la superbia umana e l'intelletto fosse sottratto alla noia, dal momento che il più delle volte le cose che esso scopre facilmente le considera di poco conto. […]

6. 8. […] Nessuno tuttavia può porre in dubbio che le cose, qualunque siano, si apprendono più volentieri mediante l'uso di similitudini e, se si tratta di questioni investigate con una certa difficoltà, quando le si scopre, ciò riesce molto più gradito. Difatti coloro che non trovano proprio nulla di quello che cercano, soffrono la fame; quelli poi che non fanno ricerche perché hanno le cose a portata di mano, spesso si afflosciano nella noia; e così nell'uno e nell'altro caso bisogna evitare l'illanguidimento. Meravigliosamente quindi e salutarmente lo Spirito Santo ha modellato le sante Scritture in modo che con i passi più manifesti si ovviasse alla fame [del ricercatore], con i passi più oscuri se ne dissipasse la noia. Dai passi oscuri infatti non si ricava altro - dico per approssimazione - all'infuori di quello che altrove si trova detto in maniera completamente manifesta.

7. 9. Prima di tutto dunque ci si deve convertire, mediante il timore di Dio, a conoscere la sua volontà e cosa ci ordini di desiderare o di fuggire. Questo timore deve suscitare in noi il pensiero della nostra mortalità e della morte che effettivamente ci attende e, quasi inchiodando la nostra carne, configgere al legno della croce tutti i moti di superbia. In secondo luogo occorre diventare miti e rispettosi e mai contraddire alle divine Scritture, sia che le si comprenda (com'è quando esse disapprovano qualche nostro vizio), sia che non le si comprenda, quasi che noi siamo in grado di conoscere o di prescrivere le cose in modo migliore. Dobbiamo piuttosto pensare e ritenere che quanto è scritto in esse è superiore e più vero - anche se è nascosto - di tutto ciò che noi possiamo opinare da noi stessi.

7. 10. Dopo i due gradini, del timore e della pietà, si giunge al terzo gradino che è quello della scienza [Post istos duos gradus timoris atque pietatis ad tertium venitur scientiae gradum], del quale ho ora stabilito di trattare. In esso si esercita ogni appassionato della divina Scrittura, nella quale non vorrà trovare nient'altro se non che occorra amare Dio per se stesso e il prossimo per amore di Dio, e che Dio bisogna amarlo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente, mentre il prossimo lo si deve amare come noi stessi. Ciò significa che l'amore del prossimo, come anche quello verso noi stessi, occorre riferirlo totalmente a Dio. Di questi due precetti abbiamo trattato nel libro precedente quando parlavamo

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delle cose. Succede peraltro, e di necessità, che in principio uno, volendo addentrarsi nelle Scritture, si senta avviluppato nell'amore di questo secolo, cioè delle cose temporali. In questo caso egli necessariamente avverte di essere molto distante da quell'intenso amore di Dio e del prossimo qual è prescritto dalla stessa Scrittura. Bisogna allora che il timore che lo fa pensare al giudizio di Dio e quella pietà per la quale non può non credere o non arrendersi all'autorità dei Libri santi lo costringano a piangere su se stesso. In realtà quella scienza che dona la buona speranza non rende l'uomo vanitoso ma lo fa gemere su se stesso: sentimento con il quale, a mezzo di frequenti preghiere, ottiene la consolazione dell'aiuto divino che lo sottrae al peso della disperazione. Così comincia ad essere nel quarto gradino, che è quello della fortezza, per il quale si ha fame e sete di giustizia. Con questo sentimento poi si tira fuori da ogni mortifero diletto per le cose che passano e, allontanandosi da tale sorta di godimenti, si volge al gusto delle cose eterne, cioè dell'immutabile Unità che è la Trinità.

7. 11. Vedendola, per quanto può, brillare lontano, si accorge che per la debolezza del suo sguardo non può reggere a tanta luce, sicché ascende al quinto gradino, cioè al consiglio, che ha per base la misericordia. Ivi purifica l'anima che è, in certo qual modo, in tumulto e in preda al chiasso con se stessa per lo sporco che l'ha deturpata desiderando le cose inferiori. Qui l'uomo è impegnato ad esercitarsi con impegno nell'amore del prossimo e in questo amore compie progressi. Pieno ormai di speranza e integro nelle forze, arrivato all'amore del nemico, ascende al sesto gradino, dove purifica lo stesso occhio con il quale può vedere Dio, quanto è consentito a coloro che muoiono a questo secolo, quanto è loro possibile. In realtà in tanto lo possono vedere in quanto muoiono a questo secolo, mentre in quanto vivono in esso, non lo vedono. È vero che in tal grado lo splendore di quella luce comincia già a farsi vedere più marcato: non solo quindi lo si tollera meglio ma reca anche più godimento; tuttavia è detto che lo si vede ancora in forma enigmatica e come in uno specchio. Questo perché finché siamo pellegrini in questa vita, camminiamo nella fede e non nella visione, avendo in cielo la nostra dimora. In questo gradino poi l'uomo purifica talmente l'occhio del cuore che alla verità non preferisce e nemmeno paragona il proprio prossimo e quindi neanche se stesso, perché non le paragona nemmeno colui che ama come se stesso. Un santo come questo avrà dunque un cuore così semplice e puro che non si lascerà distrarre dalla [contemplazione della] verità né dal desiderio di piacere agli uomini né dalla preoccupazione di evitare gli ostacoli che si frappongono al conseguimento d'una tal vita. Questo figlio [di Dio] è in grado di ascendere fino alla sapienza, che è l'ultimo gradino, il settimo, e gode di lei pacificato e tranquillo. Inizio della sapienza è infatti il timore del Signore, dal quale timore si tende e si giunge alla sapienza attraverso questi gradini.

8. 12. Quanto a noi, riportiamo la considerazione a quel terzo gradino del quale avevamo stabilito di approfondire ed esporre ciò che il Signore si fosse degnato di suggerirci. Pertanto sarà diligentissimo investigatore delle divine Scritture colui che, prima di tutto, le legge per intero e ne acquista la conoscenza e, sebbene non le sappia penetrare con l'intelligenza, le conosce attraverso la lettura. Mi riferisco esclusivamente alle Scritture cosiddette canoniche, poiché, riguardo alle altre le legge con tranquillità d'animo chi è ben radicato nella fede cristiana, per cui non succede che gli disturbino l'animo debole e, illudendolo con pericolose menzogne e fantasticherie, gli distorcano il giudizio in senso contrario alla retta comprensione. Nelle Scritture canoniche segua l'autorità della maggior parte delle Chiese cattoliche, tra le quali naturalmente sono comprese quelle che ebbero l'onore di essere sede di un qualche apostolo o di ricevere qualche sua lettera. Riguardo pertanto alle Scritture canoniche si comporterà così: quelle che sono accettate da tutte le Chiese cattoliche le preferirà a quelle che da alcune non sono accettate; in quelle che non sono accettate da tutte preferirà quelle che accettano le Chiese più numerose e autorevoli a quelle che accettano le Chiese di numero inferiore e di minore autorità. Se poi succedesse che alcune sono ritenute autentiche da più Chiese mentre altre da Chiese più autorevoli,

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sebbene questo caso non si possa risolvere con facilità, io riterrei che le si debba considerare tutte di pari autorità.

8. 13. Il canone completo delle Scritture, al quale diciamo di voler rivolgere la nostra considerazione, si compone dei seguenti libri: i cinque libri di Mosè, cioè Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, e poi il libro di Gesù figlio di Nave, un libro dei Giudici, un libretto chiamato di Rut, che peraltro sembra appartenere ai Libri dei Regni, come loro principio. Vengono poi i quattro Libri dei Regni e i due dei Paralipomeni, che non vengono dopo di essi ma sono a loro congiunti e procedono gli uni a fianco degli altri simultaneamente. Sono libri di storia, che contengono indicazioni temporali collegate fra loro e insieme la successione ordinata dei fatti. Ci sono poi narrazioni storiche poste, per così dire, in ordine differente, narrazioni che non rispettano né l'ordine storico né si collegano le une con le altre. Così è Giobbe, Tobia, Ester, Giuditta, e i due Libri dei Maccabei e di Esdra, i quali piuttosto sembrerebbero proseguire quella storia ordinata che si protraeva fino ai Libri dei Regni e dei Paralipomeni. Successivamente vengono i Profeti, tra i quali un libro di Davide, i Salmi, e tre di Salomone: i Proverbi, il Cantico dei Cantici e l'Ecclesiaste. Difatti gli altri due libri, intitolati l'uno la Sapienza e l'altro l'Ecclesiastico, per una certa somiglianza vengono detti di Salomone. È in effetti tradizione quanto mai costante che li abbia scritti Gesù figlio di Sirach 12; tuttavia, siccome sono stati accolti fra i Libri aventi autorità, li si deve annoverare al gruppo dei profetici. Restano i Libri di coloro che propriamente si chiamano Profeti: un libro per ciascuno di coloro che si chiamano i dodici Profeti, i quali, collegati fra loro (mai infatti hanno avuto esistenza separata), costituiscono un unico libro. I nomi di questi Profeti sono i seguenti: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia. Poi ci sono i Profeti autori di libri più grandi: Isaia, Geremia, Daniele, Ezechiele. Con questi quarantaquattro libri si chiude l'autorità canonica del Vecchio Testamento 13. Compongono il Nuovo Testamento i quattro libri del Vangelo: secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni; le quattordici Lettere dell'apostolo Paolo: ai Romani, due ai Corinzi, una ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi, due ai Tessalonicesi, una ai Colossesi, due a Timoteo, una a Tito, a Filemone, e agli Ebrei; due lettere di Pietro, tre di Giovanni, una di Giuda, una di Giacomo; e finalmente il libro degli Atti degli Apostoli e quello dell'Apocalisse di Giovanni.

9. 14. In tutti questi Libri le persone animate dal timore di Dio e divenute miti in virtù della religione cercano la volontà di Dio. Ora, riguardo a questo lavoro di ricerca, a volte faticosa, la prima esigenza da rispettare è, come dicevamo, prendere conoscenza di questi libri anche se non si giunge ancora a comprenderli. Se ne dovrà comunque farne lettura, per impararli a memoria o almeno non essere del tutto nell'ignoranza. In seguito si debbono ricercare con più acume e diligenza le cose che in tali libri sono esposte in forma più chiara, si tratti di norme di vita o di princìpi di fede. Ognuno ne troverà tanto di più quanto più è dotato di penetrazione. In concreto, fra le cose che nella Scrittura sono dette in modo palese ci sono tutte quelle che hanno per contenuto la fede e la condotta di vita, cioè la speranza e la carità, di cui abbiamo trattato nel libro precedente. Giunti a questo stadio, quando cioè si è acquistata una certa familiarità con la lingua propria delle Sacre Scritture, bisogna inoltrarsi a scoprire ed esaminare ciò che in esse vi è di oscuro. Per illustrare le espressioni più oscure si prenderanno esempi dai passi più accessibili, di modo che le testimonianze dei passi certi, anche se limitate di numero, tolgano il dubbio ai passi incerti. In questo lavoro giova moltissimo la memoria, la quale, se manca, non possiamo fornirla noi a forza di regole.

10. 15. Il contenuto della Scrittura non lo si comprende per due motivi: perché è nascosto o in segni sconosciuti o in segni ambigui [si aut ignotis aut ambiguis signis obteguntur]. I segni poi sono o propri o traslati. Si chiamano segni propri quelli che si usano per significare quelle cose per cui sono stati

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istituiti. [Sunt autem signa vel propria vel translata. Propria dicuntur, cum his rebus significandis adhibentur, propter quas sunt instituta] Così quando diciamo " bue " vi intendiamo quell'animale che ogni uomo che parli latino designa, come noi, con questo nome. Sono segni traslati quelli nei quali le cose che significhiamo col termine proprio vengono usate per significare qualcos'altro [Translata sunt, cum et ipsae res quas propriis verbis significamus, ad aliquid aliud significandum usurpantur]. Così quando diciamo " bue ", con queste due sillabe vi intendiamo quell'animale che di solito va sotto questo nome ma con quell'animale a sua volta intendiamo l'Evangelista cui allude la Scrittura, secondo l'interpretazione dell'Apostolo, che dice: Non metterai la museruola al bue che trebbia.

11. 16. Nel caso dei segni propri, se li si ignora, grande rimedio è la conoscenza delle lingue [linguarum cognitio]. E in concreto la gente che parla latino, alla quale è diretta la presente istruzione, per conoscere le divine Scritture ha bisogno di altre due lingue: l'ebraico e il greco. Con queste si può ricorrere ai testi anteriori, se la quantità delle traduzioni latine, ormai infinita e ricca di varianti, presenta dei dubbi. È noto che nei libri sacri troviamo anche parole ebraiche che non sono state tradotte, come Amen, Alleluia, Racha, Osanna ed altre ancora. Di queste alcune furono conservate nell'antica origine per il prestigio di particolare santità, sebbene le si potesse tradurre. Tali sono Amen e Alleluia. Di altre invece si dice che non possano essere tradotte in altra lingua, come le ultime due poste nell'esempio citato. In determinate lingue ci sono infatti parole che non possono entrare mediante traduzione nell'uso di un'altra lingua. Questo accade soprattutto per le interiezioni, che esprimono un moto dell'animo piuttosto che una parte, sia pur piccola, di frase concepita con la mente. Tali, a quanto si riferisce, dovrebbero essere quelle ultime due. Dicono infatti che Racha sia espressione di uno arrabbiato, Osanna di uno in preda alla gioia. Ma non è per queste poche parole, che sarebbe facilissimo ricercare o domandare, che è necessaria la conoscenza di quelle lingue. La necessità sorge, come è stato detto, dalle divergenze esistenti fra i diversi traduttori. Si possono infatti contare coloro che tradussero le Scritture dall'ebraico in greco, ma è impossibile contare i traduttori latini. Fin dai primi tempi della fede, infatti, man mano che uno veniva in possesso d'un codice greco ed era convinto di possedere un po' di conoscenza dell'una e dell'altra lingua, subito si metteva a tradurre.

12. 17. È stato, questo, un fatto che, anziché ostacolare, ha favorito la comprensione dei testi, purché chi li va a leggere non sia persona trascurata. Difatti il confronto fra parecchi codici [plurium codicum] spesso ha giovato a rendere chiare le frasi oscure, come il testo del profeta Isaia, che un interprete ha reso: E i domestici della tua stirpe non disprezzerai; mentre un altro: E non disprezzerai la tua carne. I due, confrontati fra loro, si confermano a vicenda. In realtà, l'uno si chiarisce mediante l'altro, poiché il termine carne si potrebbe prendere in senso proprio, nel senso cioè che ognuno dovesse ritenersi avvisato a non disprezzare il proprio corpo, mentre i domestici della stirpe, in senso traslato, potrebbero essere i cristiani, nati spiritualmente dallo stesso seme della parola. Orbene, confrontato fra loro il senso dei due traduttori, ci viene alla mente, come più probabile, l'idea che ivi propriamente si dia il precetto di non trascurare i parenti, poiché se confronti i domestici della stirpe con carne, vengono alla mente soprattutto i consanguinei. Di tale portata penso che sia anche quel che dice l'Apostolo: Se in qualche modo potrò suscitare la gelosia fra quelli della mia carne per salvare qualcuno di loro, cioè che, ingelositi di quelli che avevano creduto, anche loro abbracciassero la fede. Chiama sua carne i Giudei a motivo della identità di sangue. Allo stesso modo è di quel detto dello stesso profeta Isaia: Se non crederete, non comprenderete, che un altro ha tradotto: se non crederete, non avrete stabilità. Chi dei due abbia riprodotto a paroletta l'originale, è incerto, se non si leggono i testi originali stessi nella lingua madre; è comunque certo che chi sa leggerli con cognizione di causa, dai due testi ricava un profondo significato. È infatti difficile che due traduttori differiscano talmente fra loro che non si tocchino per qualche elemento di vicinanza. Orbene, l'intelletto riguarda la visione eterna di Dio, la fede invece nutre

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i piccoli quasi col latte in mezzo alle cose temporali che sarebbero una specie di culle. Adesso dunque camminiamo nella fede, non nella visione; e solo se avremo camminato nella fede potremo giungere alla visione, che non è transitoria ma rimane per sempre, quando noi aderiremo alla verità con l'intelletto purificato. Per questo uno diceva: Se non crederete, non avrete stabilità, l'altro invece: Se non crederete, non comprenderete.

12. 18. Il più delle volte il traduttore viene tratto in inganno dal termine ambiguo che reca la lingua antecedente, e, non conoscendo bene il senso della frase, le dà un significato del tutto alieno da quello datole dallo scrittore. […SEGUONO ESEMPI E CASI…]

16. 23. Per quanto riguarda i segni traslati, se ce ne sono di sconosciuti che costringono il lettore a rimanere nel dubbio [haerere], li si deve ricercare in parte con la conoscenza delle lingue e in parte con quella delle cose. Ci può infatti essere qualcosa che vale come similitudine [ad similitudinem] e che suggerisce senza dubbio il senso nascosto, come la piscina di Siloe, dove per comando di Cristo andò a lavarsi il viso colui al quale il Signore aveva spalmato gli occhi col fango fatto con lo sputo. Ciononostante, essendo il nome in una lingua sconosciuta, se l'Evangelista non l'avesse tradotto, un significato così importante sarebbe rimasto celato. Così è di molti nomi ebraici che non sono stati tradotti dagli autori dei rispettivi libri. Non c'è dubbio che, se uno riesce a tradurli, contengono una non piccola forza e sono un valido aiuto per risolvere le incomprensibilità della Scrittura. Effettivamente hanno arrecato ai posteri un non piccolo aiuto quegli uomini che, esperti in lingua ebraica, tradussero tutti quei nomi, staccandoli dal contesto scritturale. Così ci han detto cosa significhi Adamo, cosa Eva, cosa Abramo, cosa Mosè, e così pure i nomi geografici come Gerusalemme, Sion, Gerico, Sinai, Libano, Giordano, e ancora tanti altri nomi di quella lingua che a noi sarebbero rimasti sconosciuti. Spiegati e tradotti quei nomi, diventano palesi molte locuzioni figurate contenute nella Scrittura.

16. 24. La mancata conoscenza delle cose rende oscure le locuzioni figurate [figuratas locutiones], come accade quando non conosciamo la natura degli animali, o delle pietre, o delle erbe, o di qualsiasi altra cosa che nelle Scritture il più delle volte viene menzionata con valore di similitudine. Così è di quella cosa nota che usa fare il serpente, che cioè per riparare il capo presenta a chi vuol ferirlo il resto del corpo. Questo spiega il detto del Signore in cui ci comanda di essere astuti come serpenti. In luogo del nostro capo, che è Cristo, dobbiamo offrire ai persecutori il nostro corpo, di modo che non succeda che, in certo qual modo, venga uccisa in noi la fede cristiana, se per risparmiare il corpo rinneghiamo Dio. Del serpente si dice ancora che, cacciandosi forzatamente per le strettoie della sua buca, abbandoni la vecchia squamatura e riceva nuove forze. Quanto ci giova imitare questa astuzia del serpente perché, come dice l'Apostolo, ci spogliamo dell'uomo vecchio e rivestiamo del nuovo. E ce ne spogliamo passando per luoghi stretti, avendo detto il Signore: Entra per la porta stretta. Ecco come la conoscenza della natura del serpente ci illustra parecchie similitudini che la Scrittura è solita trarre da questo animale. Analogamente la mancata conoscenza di alcuni animali, ricordati non meno del serpente per motivi figurativi, ostacola moltissimo chi vuol comprendere la Scrittura. Così delle pietre, così delle erbe e di tutto ciò che è sostenuto da radici. Sapere, ad esempio, che il carbonchio riluce nell'oscurità illumina molti passi anche oscuri dei nostri libri, dovunque lo si ponga a modo di similitudine. Inoltre ignorare come sia il berillo e il diamante chiude parecchie volte la porta di una esatta comprensione della Bibbia. È facile invece capire come mai la pace permanente sia significata dal ramoscello di olivo che la colomba riportò all'arca al suo ritorno. Questo, perché sappiamo che l'olio, anche se liscio, se tocca un altro liquido non si altera e, quanto alla pianta stessa, è tutto l'anno coperta di foglie verdi. Viceversa, molti non conoscono cosa sia l'issopo e quale vigore abbia. Esso giova a liberare il polmone [dal catarro] e così pure, a quel che si racconta, riesce con le sue radici a penetrare la roccia, essendo un'erbetta bassa e

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piccola. Per questo non riescono a trovare il motivo per cui è detto: Mi aspergerai con l'issopo e io sarò mondato.

16. 25. L'ignoranza dei numeri impedisce di comprendere molte cose poste nella Scrittura in forma traslata o figurativa. Ad esempio, una mente che io chiamerei nobile non può non rimanere sorpresa dal perché mai Mosè, Elia e lo stesso nostro Signore abbiano digiunato quaranta giorni. Questo fatto comporta un groviglio di simbologie che non si scioglie se non mediante la conoscenza e la meditazione del numero in parola, il quale contiene il dieci preso quattro volte, quasi che si sia voluta inserire nel tempo la conoscenza di tutte le cose. Difatti il corso del giorno e dell'anno si svolgono sulla base del numero quattro: il giorno secondo frazioni orarie costituenti il mattino, il mezzogiorno, la sera e la notte; l'anno, secondo i mesi, della primavera, dell'estate, dell'autunno e dell'inverno. Orbene, noi, che pur viviamo nel tempo, ci dobbiamo astenere, o con altro termine " digiunare ", dai piaceri temporali in vista dell'eternità nella quale vogliamo avere la vita. Anzi, dallo stesso fluire del tempo ci si offre l'ammaestramento del disprezzo delle cose temporali e della brama delle cose eterne. Quanto poi al numero dieci, esso a sua volta ci inculca simbolicamente la conoscenza del Creatore e della creatura; l'essere trino infatti è proprio del Creatore, mentre il sette indica la creatura, a motivo della vita e del suo corpo. Nella vita infatti ci sono tre elementi, per i quali ci si dice anche di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. Quanto poi al corpo, vi appaiono manifestissimi i quattro elementi da cui risulta. In questo numero dieci presentato a noi nella prospettiva temporale, mentre lo si moltiplica per quattro, ci si dà l'ordine di vivere con castità e continenza, segregati dai piaceri temporali, che sarebbe poi il digiunare per quaranta giorni. A questo ci richiama la legge, rappresentata dalla persona di Mosè, a questo i Profeti rappresentati da Elia; a questo lo stesso nostro Signore, che, quasi ricevesse la testimonianza dalla Legge e dai Profeti, là sul monte risplendette in mezzo a loro di fronte ai tre discepoli che lo guardavano stupiti. Successivamente si ricerca come dal numero quaranta si formi il cinquanta, numero altamente sacro nella nostra religione a motivo della Pentecoste. Questo numero moltiplicato per tre - a motivo dei tre periodi: prima della legge, sotto la legge e sotto la grazia, o a motivo del nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo - con l'aggiunta eminentissima, cioè, della stessa Trinità si riferisce al mistero della Chiesa quando sarà perfettamente purificata. Si arriverà cioè a quei centocinquantatré pesci, presi dalle reti gettate a destra nella pesca dopo la risurrezione del Signore. Così in moltissime altre forme numeriche certe misteriose rappresentazioni sono poste nelle sacre Scritture, forme che rimangono inesplorate ai lettori a causa dell'ignoranza dei numeri.

16. 26. Non pochi contenuti impedisce e nasconde l'ignoranza di certe realtà in campo musicale. Un tale, ad esempio, partendo dalla differenza fra salterio e cetra, scoprì in maniera non bizzarra alcuni simbolismi annessi alle cose. Così è del salterio a dieci corde. Non scriteriatamente si cerca tra gli esperti se abbia una qualche esigenza musicale che richieda un così elevato numero di corde, o, se non ce l'ha, il numero di per se stesso debba essere preso piuttosto con valore mistico. Il quale valore potrebbe derivare dal rapporto col decalogo della legge - il cui numero, se si vogliono fare ricerche, non si deve riferire ad altri all'infuori del Creatore e della creatura - o dal numero dieci di per se stesso, come sopra è stato esposto. E poi c'è il numero della durata della costruzione del tempio, riferito dal Vangelo, cioè il numero di quarantasei anni. Mi pare che abbia un non so che di musicale, e, riferito all'edificio del corpo del Signore, in vista del quale si fa menzione del tempio, esso costringe certi eretici a confessare che il Figlio di Dio non si rivestì di un corpo fittizio ma veramente umano. Effettivamente troviamo in parecchi passi delle sante Scritture che il numero e la musica sono collocati in posizioni di privilegio.

17. 27. Né bisogna ascoltare le false superstizioni dei pagani a proposito delle Muse, che essi supposero essere nove, figlie di Giove e di Memoria. Li confuta Varrone, del quale non saprei dire se nel

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paganesimo ci sia un uomo più informato e un ricercatore più accanito a proposito di cose come queste. Dice che in una non so quale città - non ne ricordo il nome - si misero a concorso presso tre artisti tre statue delle Muse. Le si doveva porre come dono votivo nel tempio di Apollo e sarebbero state scelte e comprate, di preferenza, quelle dell'artista che le avesse fatte più belle. Accadde invece che quegli artisti presentarono le loro opere tutte ugualmente belle: tutte e nove piacquero alla cittadinanza e tutte furono comprate per essere esposte nel tempio di Apollo. A loro - dice ancora Varrone - più tardi il poeta Esiodo impose il nome. Non fu dunque Giove a generare le nove muse ma tre artisti ne composero tre per ciascuno. E, quanto a quella città, ne aveva messe a concorso tre non perché qualcuno le aveva così viste in sogno o perché loro stesse avevano mostrato agli occhi di qualcuno di essere in tal numero, ma perché era facile osservare che ogni suono - che è la materia delle canzoni - si presenta per sua natura in triplice forma. Infatti, o lo si emette con la voce, come quando senza strumento si canta con la gola, o soffiando, come accade nelle trombe o nei flauti, o per percussione, come nella cetra o nei tamburi e in tutti gli altri strumenti che emettono suoni quando li si percuote.

18. 28. Stiano o no le cose come dice Varrone, quanto a noi non dobbiamo per delle superstizioni dei profani rifuggire dalla musica, se da essa possiamo trarre vantaggi per comprendere le sante Scritture. Né dobbiamo badare alle loro banalità teatrali quando trattiamo delle cetre e degli organi e ciò contribuisce alla comprensione delle cose spirituali. Difatti non ci siamo sentiti obbligati a non imparare le lettere perché dicono che loro inventore sia stato Mercurio. Ancora, per il fatto che essi dedicarono templi a Giustizia e a Virtù, preferendo di adorare nella pietra ciò che invece si sarebbe dovuto custodire nel cuore, non per questo dobbiamo fuggire la giustizia e la virtù. Tutt'altro! Ogni cristiano buono e sincero, dovunque trova la verità, comprende che appartiene al suo Signore e, confrontandola e discernendola, ripudi anche nei libri sacri gli elementi superstiziosi ivi indotti. Si rammarichi - e ne stia in guardia - che gli uomini, conoscendo Dio, non l'hanno glorificato come Dio né l'hanno ringraziato ma, diventati vani nei loro pensieri, si oscurò il loro stupido cuore. Dicendo di essere sapienti, divennero stolti e scambiarono la gloria del Dio incorruttibile con l'immagine somigliante dell'uomo corruttibile, o degli uccelli o dei quadrupedi o dei serpenti.

19. 29. Tutto questo argomento, essendo sommamente necessario, dobbiamo spiegarlo con la massima diligenza. Ebbene, due sono le categorie della dottrina dei pagani, che da loro poi vengono tradotte in pratica anche nei costumi: una comprende le cose istituite dagli uomini, l'altra le cose che, come hanno essi stessi notato, si sono già realizzate o sono state istituite da Dio. Ciò che è di istituzione umana in parte è superstizioso, in parte no.

20. 30. È superstizioso tutto ciò che è stato inventato dagli uomini per fabbricarsi o prestare culto agli idoli e mira a venerare come dio la creatura o singoli esseri del mondo creato. Inoltre lo è tutto ciò che fanno per consultare i demoni e federarsi con loro stipulando patti convenzionati sulla base di segni, come sarebbero gli artifizi della magia: cose che i poeti sono soliti ricordare piuttosto che insegnare. Del medesimo genere sono i libri degli aruspici e degli àuguri, distinguendosene per una, diciamo cosi, più libera vacuità. In questo genere rientrano ancora gli amuleti e le fattucchierie, riprovati dalla stessa scienza medica e consistenti in incantesimi o in certi segni chiamati sigilli o nell'appendere certe cose ovvero legarle addosso o anche nel compiere delle forme di salti, se è lecito chiamarli così: salti che non tendono all'allenamento del corpo ma a significare delle cose occulte o anche manifeste. Tutte queste cose con vocabolo più blando essi le chiamano " realtà fisiche " per far vedere che esse non influiscono in forza di una superstizione ma giovano per la loro natura. Tali sono gli orecchini all'estremo di ciascun orecchio, o gli anelli di osso di struzzo alle dita; o come, quando ti viene il singhiozzo, ti si dice di tenere con la destra il pollice della sinistra.

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20. 31. A queste si debbono aggiungere le mille altre stupidissime pratiche a cui sogliono badare, come, ad esempio, se un membro palpita, se quando due amici camminano l'uno accanto all'altro una pietra o un cane o un bambino passa loro fra mezzo. Che poi essi diano un calcio alla pietra, quasi avesse potere di rompere l'amicizia è, naturalmente, meno nocivo del prendere a schiaffi un bimbo innocente che di corsa passa in mezzo ai due che camminano l'uno a fianco dell'altro. Il bello poi è quando, come a volte capita, i cani si prendono le difese dei bambini. Difatti - e questo succede moltissime volte - alcuni individui sono così superstiziosi che osino colpire anche il cane che sia passato nel loro mezzo; ma ciò non impunemente, in quanto il cane, oggetto della vana fattucchieria, talvolta manda prontamente da un medico vero colui che lo ha colpito. Superstizione sono anche queste altre usanze: calcare la soglia di casa tutte le volte che vi si passa dinanzi; tornare a letto se mentre si mettono i calzari si starnutisce; tornare a casa se camminando si inciampa; quando i sorci rodono un vestito, tremare di più per l'incubo di un male futuro che rammaricarsi per il danno subito. Fine, al riguardo, è il detto di Catone quando fu consultato da uno che gli diceva avergli i sorci rosicchiato le scarpe. Rispose non essere strabiliante una cosa del genere; veramente strabiliante sarebbe stato se le scarpe avessero rosicchiato i sorci.

21. 32. Né si debbono distinguere da questo genere di perniciosa superstizione [genere perniciosae superstitionis] quelli che vanno sotto il nome di genetliaci, a motivo delle considerazioni fatte in base al giorno del compleanno e che ora la gente chiama astrologi. È vero che essi, quando uno nasce, ricercano la vera posizione delle stelle e qualche volta anche l'indovinano; tuttavia sbagliano di grosso quando da tali ricerche si sforzano di predire le nostre azioni o gli eventi connessi con tali azioni, vendendo agli uomini inesperti una miserabile servitù. Ecco infatti uno che va del tutto libero da un simile astrologo. Lo paga per uscire, dalle sedute presso di lui, schiavo o di Marte o di Venere o piuttosto di tutte le stelle, alle quali i primi che errarono e trasmisero l'errore ai posteri diedero il nome o di qualche bestia, a causa della somiglianza, o di qualche uomo, al fine di onorare costui. Né c'è da stupirsi se, in tempi recenti e a noi vicini, la stella chiamata " stella del mattino " i Romani abbiano tentato di dedicarla al culto e al nome di Cesare; e la cosa facilmente sarebbe riuscita e la costumanza ormai inveterata se la stella da chiamarsi con questo nome non se la fosse già in antecedenza accaparrata Venere, antenata di Cesare: la quale peraltro non vantava alcun diritto di trasmettere agli eredi ciò che viva non aveva mai posseduto né chiesto di possedere. In effetti, dove un posto era vacante e non era legato con l'onore dovuto a qualcuno morto in precedenza, è stato fatto ciò che si è soliti fare in simili occasioni. Così per i mesi: il quinto e il sesto mese noi li chiamiamo Luglio e Agosto, appellazioni intese a dare onore a Giulio Cesare e a Cesare Augusto. Allo stesso modo chiunque lo voglia può capire che anche quelle stelle hanno compiuto i loro giri nel cielo anche quando non portavano i nomi che portano adesso. Quanto a quei morti di cui gli uomini furono costretti dal potere reale a onorare la memoria, la cosa piacque per l'umana vanità; con l'imporre i loro nomi alle stelle si dava l'impressione di volere innalzare al cielo quegli stessi che morivano lì fra mezzo a loro. Ma, comunque vengano chiamati dagli uomini, sono sempre astri creati da Dio e da lui sistemati come gli parve opportuno. Essi hanno un movimento stabile, mediante il quale vengono distinti i tempi nella loro varietà. Determinare a che punto si trovi questo moto quando nasce ogni uomo è cosa facile, sulla base di leggi scoperte e poste in scritto da coloro che la sacra Scrittura condanna quando dice: Se tanto poterono conoscere da riuscire a valutare il mondo, come mai non hanno con maggiore facilità scoperto il Signore del mondo?

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22. 33. È peraltro un grave errore e una grande pazzia voler predire, da tale investigazione, i costumi, gli atti, e gli avvenimenti di coloro che nascono. E in effetti tale superstizione viene riprovata, senza alcuna tergiversazione, da coloro che hanno imparato a disimpararla. Quelle infatti che essi chiamano costellazioni sono la descrizione delle stelle come si trovavano quando nasceva quel tale nei confronti del quale questi sciagurati venivano consultati da altri più sciagurati ancora. Ora può accadere che due gemelli vengano alla luce a distanza talmente ridotta che fra loro non si possa computare alcun momento di tempo e designarlo con i numeri delle costellazioni. In tal modo alcuni gemelli cadono necessariamente sotto le stesse costellazioni, mentre poi non hanno identici gli eventi nelle cose che fanno o subiscono ma, il più delle volte, sono talmente diversificati che uno vive felicissimo e l'altro molto infelice. Così accadde a Esaù e Giacobbe. Sappiamo che nacquero gemelli e così ravvicinati che Giacobbe, che nasceva per secondo, si trovava a tenere con la mano il piede del fratello che nasceva per primo. Certamente il giorno e l'ora di nascita di questi due non si possono precisare altrimenti che assegnando a tutti e due la stessa costellazione. Eppure la Scrittura ci attesta - e la cosa è passata sulla bocca di tutte le genti - che grandissima fu la diversità fra i costumi, gli eventi, le fatiche e i successi dell'uno e dell'altro.

22. 34. Né è cosa pertinente quella che essi affermano e cioè che la stessa frazione di tempo, per quanto minima e insignificante, che distanzia il parto di due gemelli vale molto nell'ordine oggettivo dei fatti naturali, data la velocità quanto mai celere dei corpi celesti. Anche se concedessi che ciò vale moltissimo, tuttavia non potrebbe essere reperito dall'astrologo nelle costellazioni, esaminando le quali egli stesso confessa di predire i destini. Se dunque non gli risulta dall'esame delle costellazioni, che necessariamente osserva unificate, tanto se le consulti per Giacobbe quanto per suo fratello, che utilità può ricavare dal fatto che esse distano nel cielo - che lui oltraggia nella sua sicumera parlandone con leggerezza - ma non distano nella tavoletta che egli consulta inutilmente sebbene preoccupato e ansioso? Concludendo, anche queste opinioni basate su certi segni reali trovati dall'umana presunzione, dovrebbero essere quasi ricondotte alla stregua di quei fatti e convenzioni con il demonio di cui si parlava sopra. […]

25. 38. Recise e sradicate dall'animo cristiano tutte queste pratiche, è tempo ormai di esaminare quelle altre pratiche umane che non sono superstizioni, non sono state cioè inventate per trattare con i demoni ma con gli altri uomini. Difatti tutte le cose che fra gli uomini hanno un valore per il fatto che essi hanno convenuto di attribuirglielo sono istituzioni umane [Namque omnia quae ideo valent inter homines, quia placuit inter eos ut valeant, instituta hominum sunt]; e fra queste alcune sono superflue e di lusso, altre utili e necessarie. Per esempio, se i segni che nel ballare fanno gli istrioni avessero un significato in base alla natura e non all'invenzione o al consenso degli uomini, non ci sarebbe stato bisogno, nei primi tempi, che, mentre il pantomimo ballava, l'araldo annunziasse al popolo cartaginese ciò che voleva indicare il ballerino. Ora questa cosa la ricordano ancora molti vecchi, dal cui racconto noi l'abbiamo raccolta. E la cosa è da credersi perché anche adesso se entra in teatro uno che sia all'oscuro di tali scempiaggini, se non c'è un altro che gli spieghi il significato di tante mosse, inutilmente vi pone tutta l'attenzione. Tutti però cercano una certa similitudine significante, di modo che gli stessi segni, per quanto possono, siano simili alle cose che significano [Appetunt tamen omnes quandam similitudinem in significando, ut ipsa signa, in quantum possunt, rebus quae significantur similia sint]. Ma siccome una cosa può essere simile ad un'altra sotto parecchi aspetti, tali segni non sono fissi fra gli uomini, a meno che non ce li renda il consenso dell'uomo.

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25. 39. Per quanto concerne le pitture, le statue e le altre opere figurative simili a queste, specialmente se composte da bravi artisti, nessuno si sbaglia, osservandone la somiglianza, a riconoscere le cose a cui sono simili [In picturis vero et statuis ceterisque huiusmodi simulatis operibus, maxime peritorum artificum, nemo errat cum similia viderit, ut agnoscat quibus sint rebus similia]. Ebbene, tutta questa categoria di segni la si deve computare come un’istituzione superflua [superflua instituta] introdotta dagli uomini, a meno che non ci sia un qualche interesse per loro in vista del perché, dove, quando e con quale autorità vengano fatte. A migliaia poi sono le favole immaginarie e le falsità e le menzogne di cui si dilettano gli uomini, e tutte sono di istituzione umana [Millia denique fictarum fabularum et falsitatum, quarum mendaciis homines delectantur, humana instituta sunt]. E in effetti nessuna cosa deve stimarsi più propria degli uomini, cioè ricavata dalla loro realtà umana, di quanto non lo siano le falsità e le menzogne [falsa atque mendacia]. Invece sono da ritenersi vere e necessarie utilità per gli uomini nei rapporti con gli altri uomini tutte quelle differenze che piacque loro trovare nell'ambito del vestirsi e dell'igiene o del rispetto e della distinzione dei sessi. Innumerevoli sono le specie dei segni senza i quali la società umana non potrebbe o per nulla o non senza incomodi mantenersi. [Commoda vero et necessaria hominum cum hominibus instituta sunt, quaecumque in habitu et cultu corporis ad sexus vel honores discernendos differentia placuit, et innumerabilia genera significationum sine quibus humana societas aut non omnino aut minus commode geritur] Essi consistono in pesi e misure, nel conio e nella valutazione di monete, e sono propri di ogni città e popolo. Così tanti altri di questo genere che, se non fossero di istituzione umana, non varierebbero a seconda dei popoli né, in ciascun popolo in particolare, cambierebbero a discrezione dei suoi governanti.

25. 40. Quanto a tutta questa parte di istituzioni umane, che utilmente o necessariamente servono nell'uso della vita [quae ad usum vitae necessarium proficiunt], il cristiano non deve fuggirle, anzi, nella misura che è sufficiente [quantum satis est], deve prenderne conoscenza per ritenerle nella memoria.

26. 40. Alcune di queste istituzioni, opera dell'uomo, sono sfumate e in certo qual modo simili a quelle naturali. Di esse, quelle che dicono riferimento a patti con i demoni, come è stato detto, le si deve rigettare e detestare. Quanto invece a quelle che gli uomini ritengono nei loro rapporti vicendevoli, le si deve accettare, per quel tanto che non sono né di lusso né superflue. Soprattutto si debbono accettare le forme delle lettere, senza le quali non potremmo leggere, e la varietà delle lingue, per quanto è sufficiente, come abbiamo esposto sopra. Di questo tipo sono anche le note [calligrafiche], note che imparano coloro che con nome appropriato si chiamano notai. Queste sono cose utili: non è illecito impararle, poiché non implicano superstizione né illanguidiscono con il lusso, purché ci si lasci occupare da loro tanto da non impedirci cose più importanti, per imparare le quali le prime debbono fungere da serve [Utilia sunt ista nec discuntur illicite nec superstitione implicant nec luxu enervant, si tantum occupent, ut maioribus rebus, ad quas adipiscendas servire debent, non sint impedimento].

27. 41. Ancora: le cose che gli uomini hanno accumulato non con propria istituzione ma ricercando o gli eventi dei tempi passati o le istituzioni provenute da Dio, non le si deve considerare istituzioni umane. Alcune di queste dicono riferimento ai sensi del corpo, altre invece alla ragione, dote dell'anima. Ebbene, quelle che si raggiungono con i sensi del corpo, o le crediamo se sono narrate, o le sentiamo se ci vengono mostrate, o le accettiamo, magari per via di congetture, se sono oggetto di esperienza.

28. 42. Quanto ci insegna quella scienza chiamata storia [historia] nei riguardi degli eventi passati e la loro successione giova moltissimo alla comprensione dei libri santi, anche se è scienza che si impara fuori della Chiesa nella istruzione ricevuta da giovani [nos adiuvat ad Libros sanctos intellegendos, etiamsi praeter Ecclesiam puerili eruditione discatur]. In base alle Olimpiadi e ai nomi dei consoli noi

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infatti indaghiamo spesso su molti eventi, e la mancata conoscenza del consolato nel quale il Signore nacque e di quello in cui morì portò alcuni all'errore di credere che il Signore morì all'età di quarantasei anni. In realtà dissero i Giudei che nello spazio di questi anni era stato costruito il tempio, che figuratamente rappresentava il corpo del Signore. Che il Signore sia stato battezzato all'età di circa trent'anni noi lo riteniamo un dato certo per l'autorità del Vangelo, ma quanti anni sia rimasto in questa vita dopo il battesimo lo possiamo, è vero, intendere dal succedersi delle azioni compiute da lui, tuttavia per dissipare ogni ombra di dubbio, da qualunque parte derivi, si desume con assoluta certezza dalla storia profana comparata col Vangelo. Così infatti si vede che non fu detto invano che il tempio fu costruito in quarantasei anni, e, se questo numero non può riferirsi all'età del Signore, lo si riferisce alla conformazione più intima del corpo umano, di cui non esitò a rivestirsi per amore nostro l'unico Figlio di Dio, ad opera del quale furono fatte tutte le cose.

28. 43. Nei riguardi della storia, omettendo i Greci, ricorderò il nostro Ambrogio e come egli risolse quella grande questione che, in atteggiamento di critici spietati, ponevano i lettori e gli ammiratori di Platone. Costoro osavano dire che tutte le massime di nostro Signore Gesù Cristo, che essi si sentivano costretti ad ammirare ed elogiare, egli le avesse apprese dai libri di Platone, poiché è innegabile che Platone è esistito molto tempo prima della venuta del Signore. Il soprannominato vescovo, considerando la storia profana [historia Gentium] scoprì che Platone si recò in Egitto al tempo di Geremia. Essendo questo Profeta anche egli in Egitto, è più probabile - dimostra Ambrogio - che Platone attraverso Geremia abbia attinto alla nostra letteratura, per poter insegnare e scrivere le cose che in lui si elogiano. In realtà prima della letteratura del popolo ebraico, in cui si segnala il culto per l'unico Dio - di quel popolo, dico, dal quale secondo la carne è venuto il nostro Signore -, non visse nemmeno Pitagora, dai successori del quale - dicono costoro - Platone apprese la teologia. Pertanto, considerati i tempi, diviene molto più attendibile l'opinione che costoro abbiano attinto dalla nostra letteratura tutte le cose buone e vere che hanno detto, anziché il Signore Gesù Cristo abbia attinto dagli scritti di Platone. Credere una tal cosa sarebbe il colmo della pazzia.

28. 44. Per quanto con il racconto storico si narrino anche le istituzioni concernenti il passato degli uomini, non per questo la storia in se stessa deve annoverarsi fra le stesse istituzioni umane. Infatti le cose passate, che non possono diventare irrealizzate, sono da ascriversi nell'ordine dei tempi, dei quali creatore e padrone è Dio. E poi, una cosa è raccontare i fatti, un'altra è l'insegnare il da farsi. Ora la storia narra fedelmente e utilmente i fatti, al contrario dei libri degli aruspici e di ogni altra letteratura di questo genere, che insegnano il da farsi o il da osservarsi in base all'audacia del parlatore e non in base alla fedeltà di un testimone.

29. 45. C'è anche un genere di narrazione che è simile alla descrizione e col quale si segnalano alle persone, che ne sono all'oscuro, non le cose passate ma quelle presenti. A questo genere appartengono tutte le composizioni concernenti la geografia, la natura degli animali, delle piante, delle erbe, delle pietre e di altri corpi. Di questo genere di scritti abbiamo trattato sopra e abbiamo insegnato che la loro conoscenza ha del valore positivo per risolvere gli enigmi delle Scritture. Non li si deve prendere come dei segni nel senso che appartengano al genere dei rimedi o di qualche astruseria superstiziosa. In effetti, già sopra abbiamo collocato a parte quel genere e lo abbiamo separato da questo [di cui parlo adesso e] che è lecito e libero. Un conto infatti è dire: Se berrai di quest'erba sminuzzata ti passerà il dolore di pancia, e un altro conto è dire: Se ti appendi al collo quest'erba, ti passerà il mal di pancia. Nel primo caso si ha una mistura salutare che si approva, nel secondo un segno superstizioso che si condanna. È vero che, quando non si tratta di incantesimi, di evocazioni o di amuleti, il più delle volte rimane dubbio se la cosa che si lega a un corpo che si vuol guarire o in qualsiasi altro modo si applica ad esso abbia

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della virtù per forza naturale - e allora si potrebbe adoperare liberamente - o le provenga da qualche connessione con la categoria degli incantesimi. In questo caso il cristiano se ne deve guardare con tanto maggiore cautela, quanto sembrerà essere maggiore la sua efficacia. Ma quando non si sa in forza di quale causa un segno è efficace, è interessante osservare l'intenzione con cui ciascuno se ne serve, nell'ambito sempre di guarire o normalizzare i corpi, tanto nel campo della medicina che in quello dell'agricoltura.

29. 46. Quanto alla cognizione degli astri, essa non costituisce un racconto ma una osservazione, e di tali osservazioni la Scrittura ne contiene molto poche. Da un lato, in effetti, è noto a moltissimi il ciclo lunare, al quale ricorriamo per fissare la celebrazione solenne che ogni anno facciamo della passione del Signore, dall'altro però pochissimi conoscono senza errore il sorgere delle rimanenti stelle e così pure il loro tramontare o gli altri loro periodi. Questa conoscenza, di per se stessa, sebbene non sia connessa con alcuna superstizione, tuttavia non giova molto, anzi, quasi per niente, nell'esposizione delle divine Scritture; piuttosto la ostacola per l'inutile attrazione che esercita sull'anima. E, siccome ha delle affinità col dannosissimo errore di coloro che con canti insulsi predicono gli eventi, è più sbrigativo e più serio disprezzarla. Essa, tuttavia, oltre che l'osservazione delle cose presenti, ha anche qualcosa che la rende simile al racconto delle cose passate, in quanto dalla presente posizione degli astri e dal loro moto ci è consentito ricorrere normalmente anche alle tracce del loro passato. Essa permette di fare delle congetture precise sui tempi futuri, congetture non basate su ipotesi o fenomeni divinatori ma comprovate ed esatte. Non per questo comunque siamo autorizzati a tentare di ricavare da loro alcunché in rapporto con le nostre azioni o avvenimenti, come sono le conclusioni pazzesche dei genetliaci, ma solo per quanto si riferisce alle stelle in se stesse. Porto l'esempio di chi osserva la luna. Guardando in che fase è oggi e come era tanti anni fa, si può dire anche come sarà fra un certo numero di anni. Così anche quelli che osservano le singole stelle: chi ne sa calcolare il corso in base alla scienza riesce di solito a rispondere [con uguale precisione]. Di tutto questo scibile e di ciò che si riferisce al suo uso, ecco pertanto esposto il mio parere.

30. 47. Si dovrebbe anche parlare delle altre arti. Ci sono quelle in cui si costruisce qualcosa che, prodotto da un operaio, rimane anche dopo che l'opera di lui è terminata: così una casa, un mobile, uno strumento di vario uso e oggetti di questo tipo. Ci sono attività in cui si collabora con Dio, che è l'artefice vero e proprio: tali la medicina, l'agricoltura, la guida di una nave. Altre ce ne sono in cui tutto l'effetto si esaurisce nell'azione, come il ballo, la corsa, la lotta. In tutte queste arti gli esperimenti del passato permettono di congetturare anche le cose future: difatti ognuno che le pratica nell'agire non muove le membra se non ricollega il ricordo del passato con la tensione verso l'avvenire. Alla conoscenza di queste arti nello stesso ambito della vita umana si deve ricorrere moderatamente e in modo cursorio, [tenuiter cursimque] non per praticarle, a meno che qualche dovere ce lo imponga (cosa di cui non voglio ora trattare), ma per darne un giudizio, di modo che non succeda che ignoriamo completamente ciò che la Scrittura vuole insegnare quando desume da queste arti qualche espressione figurata.

31. 48. Rimangono le scienze che dicono relazione non ai sensi del corpo ma all'intelletto, dote dell'anima, dove fanno da regine la dialettica e la matematica. La dialettica reca moltissima utilità là dove si tratta di penetrare e risolvere qualsiasi genere di problemi che si trovano nelle sacre Lettere. Nell'usarla occorre soltanto evitare la smania di litigare e quella specie di ostentazione puerile di far cadere in trappola l'avversario. Ci sono infatti, e numerosi, i cosiddetti sofismi, cioè conclusioni false di un ragionamento che spesso rassomigliano talmente alle vere da trarre in inganno non solo i tardi d'ingegno ma anche gli intelligenti, se non vi badano con tutta accortezza. Una volta un tale al suo interlocutore propose questo raziocinio: " Ciò che sono io, tu non lo sei ". E l'altro acconsentì, sebbene la cosa fosse

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solo parzialmente vera, ma mentre l'uno era cavilloso l'altro era sempliciotto. Allora quegli riprese: " Orbene io sono un uomo ". E quando l'altro ebbe ammesso anche questo, il primo tirò la conclusione dicendo:" Quindi tu non sei un uomo ". Questo genere di conclusioni capziose viene detestato - a quanto posso ritenere - dalla Scrittura là dove dice: Chi parla da sofista è meritevole di odio. Inoltre anche un parlare non capzioso ma che va alla ricerca di abbellimenti verbali più di quanto non convenga al parlare serio è [dalla Scrittura] chiamato parlare sofisticato.

31. 49. Ci sono inoltre certi raziocini con affermazioni vere collegate però con conclusioni false, derivanti dalla convinzione erronea di colui col quale si parla. L'uomo buono ed erudito fa leva su tali conclusioni affinché colui dal cui errore esse derivano arrossisca e abbandoni l'errore, poiché, a voler rimanere in tale errore, necessariamente dovrebbe accettare anche quello che riprova. Non erano infatti vere le conclusioni tirate dall'Apostolo quando diceva: Nemmeno Cristo è risorto, o anche: Vana è la nostra predicazione e vana è la vostra fede. Queste e tutte le altre affermazioni che aggiunge sono false, poiché in effetti Cristo è risorto e non era falsa la predicazione di quanti annunziavano questo evento né la fede di coloro che in esso credevano. Ma queste conclusioni false giustamente le si connetteva con quell'affermazione secondo cui non ci sarebbe stata la risurrezione dei morti. Ripudiando queste false conclusioni - che sarebbero state vere se di fatto non ci fosse stata la risurrezione dei morti - ne seguiva come conseguenza la realtà della risurrezione stessa dei morti. Essendoci dunque conclusioni vere derivanti non solo da premesse vere ma anche false, è facile apprendere il metodo delle concatenazioni logiche vere anche dalle scuole che non sono della Chiesa; la verità delle affermazioni è tuttavia da ricercarsi sempre nei Libri santi posseduti dalla Chiesa.

32. 50. La verità dei sillogismi, in se stessa, non è stata inventata dagli uomini ma da loro soltanto constatata e formulata, per poterla imparare e insegnare. Si tratta infatti di una realtà che si trova da sempre nell'ordine delle cose e chi l'ha stabilita è Dio. Così è di colui che narra l'ordine dei tempi: non è lui che lo costituisce. Così colui che descrive le località o la natura degli animali, delle piante o delle pietre, non mostra cose istituite dagli uomini. Anche colui che osserva le stelle e i loro moti non mostra una cosa istituita da sé o dagli altri uomini. Allo stesso modo colui che dice: " Quando è falsa la conclusione, necessariamente deve essere falsa anche la premessa ", dice una cosa verissima, che però non è lui a renderla tale: egli soltanto la osserva. Secondo questa norma procede quel ragionamento dell'apostolo Paolo sopra ricordato. La premessa infatti, è, in quel caso, che non c'è la risurrezione dei morti, cosa che affermavano coloro dei quali l'Apostolo voleva demolire l'errore. In effetti, a quella premessa, secondo la quale non c'è risurrezione dei morti, tiene dietro necessariamente la conclusione: Nemmeno Cristo è risorto. Ora questa conclusione è falsa - Cristo infatti è risorto -, per cui la premessa deve essere falsa anch'essa. Siccome poi tale premessa è che i morti non risorgono, segue necessariamente che essi risorgono. Detto in breve, il ragionamento fila così: Se non si dà risurrezione dei morti nemmeno Cristo è risorto; ma Cristo è risorto; quindi la risurrezione dei morti esiste. Questo modo di ragionare per cui tolto il conseguente viene a cadere anche l'antecedente non l'hanno inventato gli uomini ma solo constatato. E questa regola riguarda la struttura del raziocinio, che è vera, non la verità delle affermazioni.

33. 51. Nel passo citato, dove si trattava della risurrezione, è vera e la struttura del raziocinio e la conclusione che se ne deduce. Nelle affermazioni false invece la verità dell'argomentazione è di questo tipo. Supponiamo che uno abbia ammesso come vera la seguente proposizione: Se la lumaca è un animale, ha una voce. Ammesso questo, quando gli sarà stato dimostrato che la lumaca non ha voce - dal momento che tolto il conseguente viene a cadere anche l'antecedente - dovrà concludere che la lumaca non è un animale. Questa conclusione è falsa ma, una volta ammesso un antecedente falso, è vera la

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concatenazione che porta a tale conclusione. Pertanto la verità di una proposizione ha valore di per se stessa, mentre la verità di un raziocinio si basa su ciò che crede o ammette colui col quale si ragiona. È per questo che, come dicevamo sopra, da un'argomentazione con premesse vere deduciamo anche una conclusione falsa, affinché colui del quale vogliamo correggere l'errore si penta di aver ammesso la proposizione antecedente, vedendo che sono da respingere le conseguenze. Da ciò si può facilmente comprendere che, come da false proposizioni si possono tirare conclusioni vere, così da vere proposizioni conclusioni false. Poni il caso che uno abbia fatto l'ipotesi che se quel tale è giusto è anche buono, e che la cosa sia stata ammessa per vera. Il primo avrebbe potuto a quel punto sussumere: ma egli non è giusto, e supponiamo che questa sua sussunzione parimenti sia stata accettata. Da queste premesse egli avrebbe potuto tirare questa conclusione: pertanto non è buono. Orbene, anche se tutte queste cose siano vere, non è tuttavia vera la norma con cui si è arrivati alla conclusione. Infatti quando si toglie un conseguente, si toglie necessariamente anche l'antecedente, ma quando si toglie un antecedente non si toglie necessariamente anche il conseguente. È vero quando diciamo: Se è un oratore è anche un uomo; ma se da questa affermazione passiamo all'altra: Ma non è un oratore, non sarebbe conseguente concludere: Allora non è un uomo.

34. 52. Si conclude che una cosa è conoscere le norme che sono alla base del raziocinio, un'altra conoscere la verità delle affermazioni [aliud est nosse regulas connexionum, aliud sententiarum veritatem]. Con le prime si impara cosa sia conseguente, cosa non conseguente e cosa ripugni. È conseguente l'espressione: Se è un oratore è anche un uomo; non conseguente: Se è un uomo è anche un oratore; ripugna: Se è un uomo è anche un quadrupede. Si tratta sempre comunque di valutare la concatenazione in se stessa. Quando invece si tratta della verità delle affermazioni, si debbono considerare le affermazioni in se stesse, non la loro concatenazione [In veritate autem sententiarum ipsae per se sententiae, non earum connexio consideranda est]. Comunque, quando affermazioni incerte si uniscono mediante una relazione logica vera ad affermazioni vere e certe, necessariamente anche esse diventano certe. Ci sono poi alcuni che, per avere imparato la dottrina del comporre raziocini esatti, si vantano quasi che tale risorsa sia la stessa verità delle affermazioni; mentre al contrario altri, pur possedendo la verità dell'affermazione, si deprimono a torto per il fatto che ignorano le norme del tirare conclusioni. Certamente però è in condizione migliore chi sa che c'è la risurrezione dei morti che non coloro che sanno essere conseguente che, se non c'è risurrezione dei morti, nemmeno Cristo risorse.

35. 53. La scienza del definire, del dividere o del distribuire, sebbene la si adoperi anche in cose il più delle volte false, di per sé tuttavia non è falsa, né è stata inventata dagli uomini, ma è stata riscontrata nell'ordine delle cose. È vero che di essa si sono serviti abitualmente i poeti nei loro racconti favolosi [fabulis suis] e così pure i falsi filosofi e gli eretici, cioè i falsi cristiani nelle loro teorie errate. Non per questo tuttavia è falso che nel definire, nel dividere o nel distribuire non si possa accettare ciò che non ha connessione con la cosa in se stessa o scartare ciò che con la cosa ha connessione. Questo è vero anche se non sono vere le cose che si definiscono o distribuiscono. C'è infatti una definizione per lo stesso falso, e lo definiamo dicendo che il falso è una cosa rappresentata diversamente da quella che è, o in qualche altra maniera. Si tratta di una definizione vera, sebbene il falso non possa mai essere cosa vera. E ne possiamo fare anche la divisione, dicendo che ci sono due specie di falso: una delle cose che proprio non possono essere, un'altra delle cose che potrebbero essere ma non sono. Così chi dice: Sette più tre fa undici, dice una cosa che non può essere in senso assoluto, mentre uno che dice, ad esempio: Il primo di gennaio è piovuto, per quanto la cosa non sia accaduta, dice tuttavia una cosa che sarebbe potuta accadere. Pertanto la definizione e la ripartizione delle cose false può essere verissima, sebbene le cose false in se stesse non possano certo essere vere.

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36. 54. Ci sono inoltre alcuni precetti riguardanti una dialettica più evoluta che si chiama eloquenza [Sunt etiam quaedam praecepta uberioris disputationis quae iam eloquentia nominatur]. Sono precetti veri, sebbene possano servire per persuadere al falso [falsa persuaderi]. Ma, poiché ci si può insegnare anche il vero, non è una facoltà colpevole in se stessa, ma per la perversità di chi se ne usa malamente [non est facultas ipsa culpabilis, sed ea male utentium perversitas]. Infatti non è stato stabilito dagli uomini il fatto che una manifestazione di affabilità concili l'animo dell'ascoltatore, o che una narrazione breve e chiara trasmetta facilmente ciò che si intenda dire, o che la varietà nell'esporre tenga attenti gli uditori e non li annoi. Così di altre norme analoghe, che si adoperano in cause tanto false quanto vere e sono di per se stesse vere in quanto fanno o conoscere o credere qualcosa o spingono gli animi o a cercare o a rifuggire alcunché. Esse sono state scoperte perché tale è la realtà delle cose e non introdotte affinché le cose stessero in tale maniera.

37. 55. Questa parte di cui stiamo dicendo, quando la si conosce, serve più per come proferiamo le cose che si sono comprese che non come mezzo per comprenderle [Sed haec pars cum discitur, magis ut proferamus ea quae intellecta sunt, quam ut intellegamus, adhibenda est]. Viceversa, l'altra parte - quella delle conclusioni, delle divisioni e delle distribuzioni - aiuta moltissimo chi mira a comprenderle. Ci si tenga però lontani dall'errore di ritenere che gli uomini, una volta apprese queste regole, con esse abbiamo appreso anche la verità stessa della vita beata [tantum absit error, quo videntur sibi homines ipsam beatae vitae veritatem didicisse cum ista didicerint.]. Il più delle volte capita, in effetti, che le cose, per comprendere le quali si imparano queste norme, si comprendano in se stesse e con facilità maggiore di quanto non si comprendano le scienze complicatissime e spinosissime che insegnano tali norme. È come quando uno, volendo dare le norme per camminare, cominci col dire che non bisogna alzare il piede che sta dietro se non quando poggia in terra quello che sta avanti e poi descriva minuziosamente come si debbano muovere gli appoggi delle articolazioni e dei polpacci. È vero tutto quel che dice, né si può camminare in altra maniera; ma è più facile che gli uomini facciano quei movimenti camminando di quanto non lo sia il porvi mente quando li fanno o li capiscano quando ne sentono parlare. Quanto poi a quelli che non possono camminare, molto meno ancora si preoccupano di cose che non possono conseguire con la propria esperienza. Così il più delle volte una persona intelligente vede che una conclusione non è consistente prima ancora di capirne le norme. Chi invece è tardo d'ingegno non la vede, ma molto meno vede le norme che la riguardano. [Ita plerumque citius ingeniosus videt non esse ratam conclusionem quam praecepta eius capit, tardus autem non eam videt, sed multo minus quod de illa praecipitur] Comunque, in tutte queste cose spesso la presentazione della verità ci diletta più di quanto non ne siamo aiutati nel disputare o nel giudicare [Magisque in his omnibus ipsa spectacula veritatis saepe delectant, quam ex eis in disputando aut iudicando adiuvamur]. È vero che [tali discipline] possono rendere gli ingegni più esercitati; c'è però il pericolo che li rendano anche più maliziosi e più gonfi [inflatiora]. Occorre quindi badare che quelli che le hanno apprese non amino ingannare [decipere] con discorsi o domande verosimili [sermone verisimili], né credano di avere raggiunto chi sa quale grandezza, per cui anteporsi ai buoni e agli onesti.

38. 56. Quanto alla scienza dei numeri, anche a chi è eccezionalmente tardo d'ingegno è evidente che essi non sono stati inventati dagli uomini, ma piuttosto da loro investigati e scoperti. Non può succedere, riguardo ai numeri, quel che è successo nei riguardi della prima sillaba della parola Italia: gli antichi la pronunciavano breve, ma intervenne Virgilio ed è diventata lunga. Non così ciascuno di proprio arbitrio può fare sì che tre per tre non faccia nove o che ciò non formi una figura quadrata o che non siano il triplo rispetto a tre, una volta e mezzo rispetto a sei, il doppio di nessun numero perché i numeri dispari non hanno metà. Sia dunque che li si consideri in se stessi sia che vengano usati per comporre le

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leggi delle figure o dei suoni o di altri moti, i numeri hanno regole immutabili, regole che non sono state inventate dagli uomini ma scoperte dall'acume degli ingegni più dotati.

38. 57. Uno potrebbe amare tutte queste cose per vantarsene quando si trova fra gente ignara e non piuttosto per investigare da che dipende la verità di quelle cose che si è accorto essere solo vere e come mai alcune fra di esse sono non solo vere ma anche immutabili, se appunto comprende che sono immutabili. In questo modo, dalla forma dei corpi perviene alla mente umana. E poi, trovando che quest'anima è mutevole, perché ora sa ora non sa, la vede collocata fra la verità incommutabile che la sovrasta e le rimanenti cose che sono mutevoli e inferiori a lei. Così deduce che tutte le creature rivolgono l'uomo alla lode e all'amore dell'unico Dio, dal quale riconosce che tutto deriva. Chi ragiona così può, certo, sembrare dotto [doctus], anche se non è in alcun modo sapiente [sapiens].

39. 58. Ai giovani appassionati del sapere, dotati di intelligenza e timorati di Dio che ricercano la vita beata si possono dare salutarmente questi precetti: non si permettano di seguire con animo tranquillo - quasi che bastassero per raggiungere la vita beata - nessuna dottrina di quelle che si professano al di fuori della Chiesa di Cristo, ma che le valutino con mente lucida e con diligenza. Potrà succedere che si imbattano in scienze istituite dagli uomini [ab hominibus institutas], diverse a causa della diversa volontà di chi le ha inventate e cadute in oblio a causa dei sospetti che suscita chi è incappato nell'errore o, soprattutto, casi in cui tali scienze contengono una società stipulata con i demoni quasi per mezzo di patti o convenzioni fondate su certi segni. In questi casi i nostri giovani le debbono radicalmente rigettare e detestare. E inoltre debbono disinteressarsi delle scienze umane superflue e di lusso. Quanto invece alle istituzioni umane che servono alla convivenza sociale, per quanto necessitano alla vita degli uomini, non le si trascurino [Illa vero instituta hominum, quae ad societatem conviventium valent, pro ipsa huius vitae necessitate non negligant]. Una parola sulle altre scienze che si trovano presso i pagani. Positiva è la descrizione delle cose, passate e presenti, che riguardano i sensi del corpo. Ad esse devono aggiungersi gli esperimenti e le supposizioni delle arti utili nell'ambito della fisica. Positivo pure l'uso del metodo del raziocinio e del numero. All'infuori di queste materie credo che altre utili non ci siano. E riguardo a tutto questo deve osservarsi la norma: Nulla di troppo! Soprattutto riguardo a quelle cose che, avendo relazione con i sensi del corpo, sottostanno all'andare del tempo e sono contenute nello spazio. […]

40. 60. Riguardo ai cosiddetti filosofi, massimamente ai platonici, nell'ipotesi che abbiano detto cose vere e consone con la nostra fede, non soltanto non le si deve temere ma le si deve loro sottrarre come da possessori abusivi e reclamarle all'uso nostro [in usum nostrum vindicanda]. Ci si deve comportare come gli Ebrei con gli Egiziani. Questi non solo veneravano gli dèi ed imponevano ad Israele oneri gravosi che il popolo detestava fino a fuggirne, ma diedero loro vasi e gioielli d'oro e d'argento e anche delle vesti. Il popolo ebraico all'uscita dall'Egitto di nascosto li rivendicò come propri, per farne - diciamo così - un uso migliore. Non fecero ciò di loro arbitrio ma per comando di Dio, e gli egiziani a loro insaputa glieli prestarono: ed effettivamente erano cose delle quali essi non facevano buon uso! Lo stesso si deve dire di tutte le scienze dei pagani. Esse racchiudono invenzioni simulate e superstiziose come pure gravi pesi che costringono a un lavoro superfluo, cose tutte che ciascuno di noi, uscendo dal mondo pagano al seguito di Cristo deve detestare ed evitare. Contengono però insieme a questo anche arti liberali, più consone con il servizio della verità, e alcuni utilissimi precetti morali; presso di loro si trovano anche alcune verità sul culto dell'unico Dio. Tutto questo è come il loro oro e argento, che essi non inventarono ma estrassero da certe - chiamiamole così - miniere della divina Provvidenza, che si espande dovunque. È vero che essi nella loro perversione e iniquità ne abusano per rendere culto ai loro dèi; non per questo però il cristiano, pur separandosi con lo spirito dalla loro miserabile società, deve buttar via tali ritrovati, qualora servano alla giusta missione di predicare il Vangelo [ad usum iustum

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praedicandi Evangelii]. Sarà anche lecito prendere ed adibire, convertendola all’uso cristiano [accipere atque habere licuerit in usum convertenda Christianum] anche la loro veste, cioè le istituzioni, opera di uomini, che siano aderenti alla convivenza umana, alla quale in questa vita non possiamo sottrarci.

40. 61. In realtà, cos'altro fecero molti nostri buoni fedeli? Non ci accorgiamo forse come fosse sovraccarico di oro, di argento e di vesti quando usciva dall'Egitto Cipriano, dottore incantevole e martire beatissimo? Come lo fosse Lattanzio e come lo fossero Vittorino, Ottato, Ilario, per tacere dei vivi? Come lo fossero innumerevoli padri greci? Una tal cosa fece per primo lo stesso Mosè, servo fedelissimo di Dio, del quale sta scritto che era istruito in ogni sorta di sapienza degli Egiziani. A tutti questi uomini la cultura superstiziosa dei Gentili - specie in quei tempi in cui, respingendo il giogo di Cristo, perseguitava i cristiani - mai avrebbe fornito scienze ritenute utili se avesse sospettato che esse si sarebbero cambiate fino a rendere culto all'unico Dio, dal quale sarebbe stato abbattuto il culto vano degli idoli. Se quindi diedero oro, argento e vesti al popolo di Dio che usciva dall'Egitto, lo fecero perché non sapevano che le cose che davano sarebbero tornate a onore di Cristo. Quanto infatti accadde nell'Esodo senza dubbio aveva valore figurato [figuratam] perché ciò fosse prefigurato quest'altro fatto [ut hoc praesignaret]: cosa che mi permetto di asserire senza pregiudicare altri significati di identico o più alto valore.

41. 62. Quando lo studioso di sacra Scrittura, equipaggiato in questa maniera, comincerà ad avvicinarsi ad essa per indagarne il senso, non cessi di pensare a quell'ammonimento dell'Apostolo: La scienza gonfia, la carità edifica. Così infatti si persuaderà che, sebbene esca ricco dall'Egitto, non potrà essere salvo se non avrà celebrato la Pasqua. Ora la nostra Pasqua è Cristo che si è immolato, e l'immolazione di Cristo nient'altro ci insegna più insistentemente di ciò che lui stesso grida - come a gente che vede soffrire in Egitto sotto il Faraone -: Venite a me, voi tutti che soffrite e siete gravati da pesi e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo per le vostre anime. Infatti il mio giogo è soave e il mio peso leggero. A chi dice queste cose se non ai miti e agli umili di cuore, che non sono gonfiati dalla scienza ma costruiti dalla carità?. Ricordino dunque quelli che nei tempi antichi celebrarono la Pasqua attraverso ombre e figure: quando si ingiungeva loro di segnalare gli stipiti bagnandoli col sangue dell'agnello, essi li bagnarono mediante l'issopo, un'erba tenera ed umile che però ha le radici più forti e penetranti di ogni altra pianta. Così è di noi. Radicati e fondati nella carità dobbiamo saper comprendere, insieme a tutti i santi, quale sia la larghezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, cioè la croce del Signore. Di questa croce la larghezza sta nel legno trasversale su cui si stendono le braccia; la lunghezza, da terra fino al legno orizzontale, e su di essa sta confitto il resto del corpo dalle braccia in giù; l'altezza, dal legno orizzontale sino alla sommità, dove poggia il capo; la profondità, ciò che, conficcato per terra, rimane nascosto. Con questo segno della croce si descrive tutto l'agire del cristiano: compiere in Cristo opere buone, a lui aderire con perseveranza, sperare le cose celesti, non profanare i sacramenti. Purificati da questi impegni di vita rinnovata, noi saremo in grado di conoscere la carità di Cristo che supera ogni scienza umana e per la quale egli è uguale al Padre - lui per opera del quale furono fatte tutte le cose - sicché siamo ripieni di ogni pienezza di Dio. Nell'issopo c'è anche una virtù purificante, per cui non succederà che, gonfiandoci la scienza per le ricchezze tolte agli Egiziani, il nostro polmone tumefatto aspiri a cose superbe. Dice: Mi aspergerai con issopo e sarò purificato, mi laverai e sarò più bianco della neve. Mi farai ascoltare gioia e letizia. Poi aggiunge come logica conseguenza, per dimostrare che con l'issopo si rappresenta la purificazione dall'orgoglio: Ed esulteranno le ossa che hai umiliato.

42. 63. È da considerare che la quantità di oro, argento e vesti che quel popolo portò con sé dall'Egitto fu molto piccola rispetto alle ricchezze che accumulò poi a Gerusalemme, come risalta principalmente sotto il re Salomone. Allo stesso modo si deve dire che tutta la scienza - scienza invero

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utile - ricavata dai libri del paganesimo è molto piccola se la si confronta con la scienza desunta dalle divine Scritture. In effetti, qualunque cosa possa l'uomo imparare dal di fuori [delle Scritture], se è nociva, è in esse condannata; se è utile, è in esse contenuta. E quando uno ha trovato nelle Scritture tutte le cose che utilmente potrebbe imparare altrove, troverà inoltre in esse, e con molto maggiore abbondanza, tante altre cose che non si trovano assolutamente altrove, mentre nelle Scritture, e lì soltanto, le si apprende, data la loro mirabile altezza e umiltà. Segni sconosciuti non ostacolino il lettore munito di questo bagaglio di istruzioni; sia mite e umile di cuore, si assoggetti con mansuetudine al giogo di Cristo. Gravato del suo peso, che poi non è grave ma leggero; fondato e radicato e costruito nella carità, che la scienza non riesce a gonfiare, si accosti a scrutare e a discutere i segni ambigui che si trovano nelle Scritture, dei quali mi accingerò a dire adesso nel terzo libro quel che il Signore si degnerà di suggerirmi.

Passi dal Libro III:

1. 1. La persona timorata di Dio cerca diligentemente nelle Sacre Scritture la volontà divina. Mansueto nella sua pietà, non ama i litigi; fornito della conoscenza delle lingue, non rimane incastrato in parole e locuzioni sconosciute; fornito anche della conoscenza di certe cose necessarie, non ignora la forza e l'indole delle medesime quando vengono usate come paragone. Si lascia anche aiutare dall'esattezza dei codici ottenuta mediante una solerte diligenza nella loro emendazione. Chi è istruito in questo modo venga pure ad esaminare e risolvere i passi ambigui della Scrittura [veniat ita instructus ad ambigua Scripturarum discutienda atque solvenda]. Per non essere tratto in inganno da segni ambigui [Ut autem signis ambiguis non decipiatur], per quanto possibile, si lascerà istruire anche da noi. Potrà, è vero, succedere che egli, o per l'acutezza del suo ingegno o per la lucidità derivatagli da un'illuminazione superiore, derida come puerili le vie che nelle presenti pagine gli vogliamo mostrare. Tuttavia, come avevo cominciato a dire, nella misura che può essere istruito da noi, colui che si trova in quello stato d'animo che gli consenta di ricevere il nostro ammaestramento sappia che la Scrittura può presentare ambiguità sia nelle parole proprie sia in quelle traslate. Di queste due specie di linguaggio abbiamo già trattato nel secondo libro. […]

9. 13. È asservito al segno chi compie, o venera, una qualche cosa che ha valore di segno senza sapere cosa significhi. Chi al contrario compie, o venera, un segno utile istituito da Dio e ne comprende la forza significativa, non venera ciò che si vede e passa ma piuttosto ciò a cui tutti i segni di questo genere debbono essere riferiti. Orbene, un tal uomo è spirituale e libero, anche all'epoca della schiavitù, quando quei segni non dovevano essere ancora rivelati ad animi carnali, che bisognava fossero domati dal loro giogo. Uomini spirituali di questa sorta erano i Patriarchi e i Profeti e tutti quegli Israeliti ad opera dei quali lo Spirito Santo ci ha fornito il sussidio e la consolazione della Scrittura. Quanto poi al tempo presente, dopo che la risurrezione del nostro Signore ci ha fatto risplendere in modo quanto mai palese il suggello della nostra libertà, non siamo più appesantiti dal compito gravoso di portare quei segni che ora comprendiamo. In luogo dei molti, lo stesso Signore e la dottrina degli Apostoli ce ne ha dati pochi, che sono facilissimi a farsi, venerabilissimi a comprendersi, santissimi a osservarsi. Tali sono il sacramento del Battesimo e la celebrazione del Corpo e del Sangue del Signore. Quando uno li riceve, essendo stato istruito, sa a che cosa si riferiscano e li venera non con asservimento carnale ma con libertà spirituale. Ma come seguire la lettera e prendere i segni invece delle cose da loro significate indica debolezza servile, così interpretare i segni in maniera inutile indica l'errore di una mente che vaga nelle vie del male. Chi poi non comprende il significato di un segno ma si rende conto che si tratta di un segno, nemmeno costui è soggetto a schiavitù. È meglio tuttavia essere sotto il giogo di segni sconosciuti ma

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utili anziché interpretarli in maniera insulsa cacciando nel laccio dell'errore la testa ormai liberata dal giogo della schiavitù.

10. 14. A questa norma per la quale badiamo a non prendere come propria una locuzione figurata, cioè traslata, occorre aggiungere anche l'altra, cioè a non prendere come figurata una locuzione propria. Occorre dunque presentare prima il modo di trovare se una locuzione è propria o figurata. E il modo è precisamente questo: nella parola di Dio tutto ciò che, se preso propriamente non si può riferire all'onestà della condotta e alla verità della fede, lo devi ritenere come figurato. Nell'onestà della condotta rientra l'amore di Dio e del prossimo, nella verità della fede la conoscenza di Dio e del prossimo. Quanto alla speranza, ciascuno ha nella propria coscienza il sentimento di come e quanto abbia progredito nell'amore e nella cognizione di Dio e del prossimo. Ma di tutto questo si è parlato nel libro primo. […]

Libro IV:

1. 1. Secondo una divisione fatta al principio avevo diviso in due parti il presente libro, che si intitola La Dottrina Cristiana. Difatti, al termine del proemio, dove rispondevo a coloro che avrebbero criticato l'opera, dicevo: Due sono le cose su cui si basa ogni trattato sulle Scritture: il modo di trovare le cose che occorre comprendere e il modo di esporre le cose comprese; parleremo quindi prima del modo di trovare e poi del modo di esporre. Orbene, siccome abbiamo parlato diffusamente sul modo di trovare [modus inveniendi] e su questa prima sezione abbiamo riempito tre volumi, ora, con l'aiuto del Signore, saremo brevi nel presentare il modo di esporre [modus proferendi]. Vorremmo, se possibile, esaurire tutto in un unico libro, di modo che l'opera completa non vada oltre i quattro volumi.

1. 2. Per cominciare mi piace collocare un preambolo per respingere le attese di quei lettori che per caso credessero che io mi metta a impartire i precetti di retorica che appresi e insegnai nelle scuole civili. Li ammonisco a non aspettarsi da me cose del genere. Non perché non siano utili ma perché, se hanno dell'utilità, le imparino con uno studio a parte - se c'è qualche persona dabbene che abbia agio di imparare anche queste cose -, comunque non le stiano a chiedere a me, né in quest'opera né in qualsiasi altra. […]

4. 6. Colui che espone ed insegna le divine Scritture, in quanto difensore della retta fede e avversario dell'errore, deve insegnare il bene e distogliere dal male. In questa sua opera oratoria deve conciliare gli animi in contrasto, sollevare gli sfiduciati, proporre agli indotti quel che debbano fare e quel che li attende. Che se invece trova o riesce lui stesso a crearsi degli animi benevoli, attenti e docili, deve fare tutte quelle altre cose che le circostanze richiedono. Se gli uditori debbono essere istruiti, lo si deve fare mediante la narrazione - se pur ce n'è bisogno - perché la cosa di cui si tratta diventi palese. Per rendere certe le cose dubbie, occorre far uso del raziocinio adducendo delle prove. Se poi l'uditore, più che essere istruito, ha bisogno di essere stimolato affinché non rimanga inerte nel praticare quanto già conosce ma presti assenso alle cose che riconosce essere vere, bisogna ricorrere a una maggiore carica oratoria. Occorre usare suppliche e minacce, stimolazioni e riprensioni e tutte le altre svariate arti di muovere gli animi.

4. 7. Ma tutte queste cose che ho elencate non trascura di farle nessuno (o quasi) che voglia con l'eloquenza ottenere un qualche risultato. […]

…SEGUONO ESEMPI DALLE LETTERE DI PAOLO E DALL’ANTICO TESTAMENTO…

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9. 23. Succede a volte d'imbattersi in affermazioni che per la loro indole sono incomprensibili o le si comprendono a mala pena, per quanto sia grande e completo il modo di dire di chi parla e ampia la sua spiegazione. Ora queste cose o molto raramente e solo per necessità o mai assolutamente debbono farsi ascoltare dal popolo. Tutt'altro è dei libri. Essi si scrivono per conquistare il lettore che li comprende; che se invece non li si comprende, non sono di peso per chi non vuole leggerli. Lo stesso vale per i colloqui con certe persone: non si deve tralasciare il dovere di portare alla comprensione degli altri le verità che, sebbene difficilissime, noi abbiamo penetrato, qualunque sia lo sforzo richiesto dalla esposizione. Se un uditore o un interlocutore è preso dal desiderio di imparare e non è privo di intelletto che gli consenta di recepire le cose che gli sono proposte, colui che insegna non deve preoccuparsi dell'eloquenza con cui insegna ma dell'evidenza che vuol conseguire.

10. 24. Il desiderio profondo di questa evidenza porta a volte a trascurare le parole più ricercate e non si prende cura di ciò che suona bene, ma di ciò che esprime e manifesta quanto l'oratore ha intenzione di palesare [ostendere]. In ordine a ciò, disse un tale7 parlando di questo genere di eloquenza, che c'è in essa una specie di negligenza diligente [diligentem neglegentiam]. Questa negligenza però, se esclude il parlare forbito, non lo fa in modo che cada nella banalità. […] Cosa giova infatti una scrupolosità nel parlare che non sia seguita dalla comprensione di chi ascolta [Quid enim prodest locutionis integritas quam non sequitur intellectus audientis], (mentre l'unica ragione del parlare non è assolutamente altra che questa)? Se cioè coloro per i quali noi parliamo in effetti non capiscono il nostro dire? Chi insegna eviterà dunque tutte le parole che non insegnano nulla, e, se in loro vece potrà dirne delle altre corrette e intelligibili, sceglierà queste; se invece non potrà farlo, o perché non ci sono o perché sul momento non gli vengono in mente, si servirà di parole anche meno corrette, purché la cosa in sé sia insegnata e appresa con la necessaria esattezza.

10. 25. Questa cosa, cioè il farsi capire, dobbiamo ad ogni costo proporcela non solo nei dialoghi tenuti o con una persona o con molte ma anche, e molto più, quando si tengono discorsi al popolo. In realtà, nei dialoghi ognuno può fare delle interrogazioni, mentre invece là, dove tutti tacciono perché sia udita la voce di uno a cui sono rivolti gli sguardi attenti dell'uditorio, lì non è uso né convenienza porre domande su ciò che non si è compreso. Per questo motivo la premura di chi parla deve con ogni sforzo andare incontro a chi è costretto a tacere. È vero che una folla smaniosa di conoscere suole con determinati gesti indicare se si è capito, ma finché non lo ha indicato bisogna trattare in molti modi l'argomento che si spiega e sempre con molta varietà di esposizione, cosa impossibile a coloro che espongono cose imparate antecedentemente e mandate a memoria a pappagallo. Quando poi ci si accorgerà che l'argomento è stato compreso, si deve o por fine al discorso o passare ad altro tema. Difatti, come è gradito colui che rende chiare le cose da conoscersi, così diviene pesante chi insiste su cose ormai note ripetendole all'ascoltatore le cui attese miravano esclusivamente a che venisse dilucidata la difficoltà di ciò che si stava esponendo. È vero che a volte si parla anche di cose note al fine di dilettare; ma lì non si bada tanto alle cose in se stesse quanto al modo di presentarle. Che se anche questo è conosciuto e piace agli uditori, poco o nulla interessa se chi lo riferisce sia lo stesso oratore o un lettore. In effetti le cose scritte in maniera appropriata vengono poi lette con gusto non solo da coloro che ne vengono a conoscenza per la prima volta ma vengono rilette, non senza pari gusto, anche da coloro che da tempo le conoscevano e non se ne erano dimenticati. Gli uni e gli altri le ascoltano volentieri. Quanto poi alle cose di cui ci si è dimenticati, quando le si ricorda è come se venissero insegnate daccapo. Ma ora non voglio trattare del modo di rendersi piacevoli; parlo solo del modo di insegnare le cose a coloro che desiderano impararle. E il modo migliore è questo: far sì che chi ascolta ascolti la verità e comprenda ciò che ha

7 Quel tale è Cicerone in De or. 1.78.

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ascoltato. Quando un tale scopo sia stato raggiunto, non ci si deve affannare più oltre intorno alla stessa cosa, quasi per insegnarla più diffusamente, ma si deve solo - se del caso - raccomandarla perché si fissi nel cuore. Che se si riterrà opportuno fare questo, lo si faccia con moderazione per non tediare.

11. 26. In fatto di insegnamento l'eloquenza consiste precisamente in questo: parlare non perché piaccia ciò che incuteva orrore né perché si compia ciò che creava difficoltà, ma perché appaia manifesto ciò che era oscuro [ut appareat quod latebat]. Se tuttavia questo si fa in maniera sgradevole, il suo frutto è percepito solo da quei pochi appassionati che desiderano sapere le cose da apprendersi anche se dette in modo scadente e disadorno. Quando si sono appropriati della verità, si nutrono del gusto di lei, poiché la nota caratteristica dei buoni ingegni sta in questo: nelle parole, amare la verità non le parole. Cosa giova infatti una chiave d'oro se non è in grado di aprire ciò che vorremmo? O che male c'è se una chiave è di legno ma riesce ad aprire? In effetti noi non ci preoccupiamo d'altro che di aprire ciò che è chiuso. Ma poiché hanno fra loro una certa somiglianza quelli che mangiano e quelli che apprendono, ecco che per evitare il disgusto dei più si debbono condire anche quegli alimenti senza i quali non si può vivere.

12. 27. Un personaggio celebre per la sua eloquenza ha detto - e diceva la verità - che l'oratore deve parlare in modo da istruire, da dilettare e da convincere [ut doceat, ut delectet, ut flectat]8. E aggiungeva: Istruire è necessità; dilettare, dolcezza; convincere, vittoria. Di queste tre cose quella che è stata segnalata al primo posto, cioè la necessità di istruire, appartiene all'essenza stessa delle cose che diciamo, mentre le altre due riguardano il modo come le diciamo. Chi dunque parla allo scopo di istruire, finché non è stato compreso non ritenga di aver comunicato il suo sapere a colui che si proponeva di istruire. In effetti, sebbene abbia detto le cose che egli personalmente comprende, non deve ritenere di averle dette a colui dal quale non è stato compreso. Se al contrario è stato compreso, in qualunque modo le abbia dette le ha dette bene. Se invece vuol dilettare o convincere colui a cui parla, otterrà ciò non dicendo quello che gli viene sulla lingua ma ricercando anche il modo di porgere. Pertanto come si deve piacere all'uditore per cattivarsene l'ascolto, così lo si deve convincere per farlo passare all'azione; e come lo si diletta parlando con gradevolezza, così lo si convince se si riuscirà a fargli amare quel che gli si promette, temere ciò che gli si minaccia, odiare ciò che gli si rimprovera, accettare ciò che gli si raccomanda, dolersi di ciò che a fosche tinte gli si descrive come spiacevole. Allo stesso modo, quando predichi che egli goda di ciò che procura gioia, che abbia compassione di coloro che a parole gli dipingi come persone meritevoli d'essere compatite, che eviti coloro che spaventandolo gli proponi di dover fuggire. Lo stesso si dica di ogni altra cosa che con eloquenza solenne può essere conseguita muovendo gli animi degli uditori non a conoscere ciò che si deve fare, ma a fare come necessario ciò che già conoscono.

12. 28. Se invece gli uditori ancora non conoscono il da farsi, è certo necessario che prima li si istruisca e poi li si commuova. E può capitare che, conosciute in se stesse le cose, se ne entusiasmino a tal punto che non occorre spronarli con maggiore sforzo di eloquenza. Quando invece ciò è necessario, lo si deve fare, e tale necessità sussiste quando, pur conoscendo il da farsi, in realtà non lo fanno. Da ciò appare quanto l'istruire sia cosa necessaria, dal momento che gli uomini possono fare o non fare quel che conoscono, mentre chi direbbe invece che sono obbligati a fare quel che non conoscono? Ne segue che il convincere non sempre è necessario, in quanto non sempre ce n’è bisogno: così nel caso che l'uditore abbia dato l'assenso all'oratore che istruisce o diletta. Che poi il convincere rappresenti la vittoria lo si ricava dal fatto che uno può insegnare e piacere, ma non ricevere assenso. E allora a cosa giovano le altre due cose, se manca questa terza? Ma nemmeno il dilettare è cosa strettamente necessaria. Può succedere infatti che nello stesso discorso la verità divenga palese - il che pertiene all’ufficio dell’istruire - e dunque

8 Cic. De or. 1.69.

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che non si tratti del modo di parlare, né di quanto attiene al diletto dell’eloquio, ma che a dilettare siano le cose stesse, una volta chiarito essere vere [vera]. Ecco perché capita, e di frequente, che piacciano anche le cose false [falsa], una volta chiarite e dimostrate come tali. Non piacciono in quanto false ma, in quanto vero che sono false, piace l'argomentazione per la quale si dimostra essere vero che sono false.

13. 29. Per andare incontro a quegli sdegnosi cui la verità non piacerebbe se la si presentasse in un modo qualsiasi, ma a cui la si deve porgere solo in modo che insieme piaccia anche il discorso di chi sta parlando, è stata attribuita non poca importanza all'eloquenza e alla piacevolezza del dire. Ciò tuttavia, anche se presente, non basta per certi animi rozzi cui non reca giovamento né l'aver capito né l'aver gustato l'eloquenza dell'oratore. Che vantaggio infatti recano queste due doti del discorso all'uomo che confessa la verità e loda l'eloquenza, e tuttavia non presta l'assenso, che è l'unico scopo a cui tende l'oratore che vuole creare persuasione con le cose che dice? Se si insegnano infatti cose in cui sia sufficiente credere o conoscere, il consentire ad esse altro non è che confessarne la verità; ma quando si istruisce su cose che si debbono fare e si istruisce appunto perché le si faccia, non c’è motivo di rendere l'uditore persuaso della verità di ciò che si dice, come non c’è neanche motivo che piaccia il modo di dirle, se le cose non le si imparano in modo da essere tradotte in azione. Occorre dunque che l'oratore ecclesiastico, quando esorta a qualcosa che va fatta, non solamente insegni per istruire o diletti per impressionare, ma che anche convinca in modo da prevalere. Se, infatti, la verità esposta anche con l'aggiunta d'una suadente dizione non consegue l'effetto voluto nell’uditore, non resta che piegarlo a prestare il consenso mediante la forza di una eloquenza solenne.

14. 30. Alla soavità di quest'attività è stato attribuito dagli uomini tanto pregio che con essa si viene persuasi non solo di cose da non farsi veramente, ma anche di molti e gravi mali e turpitudini, che sono invece da fuggirsi e detestarsi. Cose di questo genere sono insegnate da gente cattiva e turpe con tanta eloquenza che, seppure non vi si consente, almeno si prova diletto a leggiucchiarle. Peraltro Dio allontani dalla sua Chiesa ciò che il profeta Geremia diceva rimproverando la sinagoga dei Giudei: Cose spaventose e orribili sono avvenute sulla terra: i profeti profetavano cose inique e i sacerdoti applaudivano con le loro mani e il mio popolo amò tutto questo. E che farete per l'avvenire? O eloquenza tanto più tremenda quanto più pura, e quanto più solida tanto più veemente! Vera scure che spezza le pietre! A tale scure, disse Dio in persona per bocca dello stesso Profeta, è simile la sua parola proferita ad opera dei santi Profeti. Lungi dunque, lungi da noi la disgrazia che i sacerdoti applaudano a chi dice cose inique e il popolo di Dio le ami! Lungi da noi, dico, tanta follia! Cosa dovremmo fare quindi per l'avvenire? Ammesso pure che le parole siano meno comprese, piacciano di meno e stimolino di meno, tuttavia le si dicano lo stesso, e che siano ascoltati volentieri gli insegnamenti giusti e non quelli iniqui: cosa che certo non avverrebbe se non venissero detti con finezza oratoria.

14. 31. In una assemblea di gente seria - di cui è detto a Dio: Ti loderò in mezzo ad un popolo serio - non è gradita nemmeno quella artificiosità con cui si parla di cose certo non cattive, ma adornando di veste pomposa le cose ordinarie e banali, come non si adornerebbero opportunamente e seriamente nemmeno le cose grandi e consistenti. Qualcosa del genere è in una lettera del beato Cipriano: e ciò io credo essere capitato, o anche fatto di proposito, affinché si sapesse dai posteri come il rigore della dottrina cristiana abbia distolto la lingua da simili ridondanze e l'abbia ristretta nell'ambito di una eloquenza più seria e moderata. Tale è appunto l'eloquenza che si riscontra nelle sue lettere successive e che si ama serenamente, si desidera con religiosità, anche se si raggiunge con difficoltà. Diceva dunque in un noto passo: Dirigiamoci a questa sede; i dintorni solitari ci consentono d'appartarci; là le volute vaganti dei tralci si distendono con nodi pendenti fra le canne che le reggono e con tetti frondosi fanno un portico risultante di viti. Cose come queste non si dicono senza una fecondità mirabilmente copiosa

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di eloquenza, ma per essere eccessivamente cariche sconvengono alla severità [del discorso]. Quanto a quelli che amano questo modo di fraseggiare, riterranno che chi non parla così e si esprime più sobriamente, è incapace di usare tale eloquenza e non la sta evitando di proposito. Contro questa opinione notiamo che quell'uomo santo mostrò di sapersi esprimere con ricercatezza, perché lo fece in qualche brano, ma poi di rifuggire da tale gergo, che infatti non utilizzò più.

15. 32. Il nostro oratore dunque parlerà di cose giuste, sante e buone - di null'altro infatti deve parlare -; e parlando di queste cose userà ogni risorsa possibile perché lo si ascolti in maniera comprensibile, con piacere e con docilità. Il fatto poi che riesca a tanto - se ci riesce e nei limiti entro i quali ci riesce - non dubiti che va attribuito più alla devozione nella preghiera che non alle risorse oratorie: per cui, dovendo pregare e per sé e per coloro ai quali rivolgerà la parola, sarà prima uomo di preghiera che predicatore. Avvicinandosi l'ora di parlare, prima di muovere la lingua per parlare, sollevi quindi a Dio l'anima assetata, in modo che proferisca quel che ha bevuto e versi ciò che lo riempie. In effetti, su ogni argomento che tocchi il campo della fede e della carità sono molte le cose da dire e molti i modi con cui può dirle chi le conosce. Ora chi potrebbe valutare rettamente cosa noi dobbiamo dire volta per volta o cosa si aspettano gli uditori di ascoltare da noi se non colui che penetra i cuori di tutti? E chi fa sì che noi diciamo quel che occorre e com'è necessario se non colui nelle cui mani siamo noi e tutti i nostri discorsi? Pertanto chi vuol conoscere la verità e insegnarla impari, certo, tutto ciò che deve insegnare; si procuri una capacità espressiva quale conviene ad un uomo di Chiesa; ma giunto il momento di dover parlare, pensi che a una mente bene intenzionata conviene regolarsi come diceva il Signore: Non pensate a cosa o a come dovete parlare; vi sarà dato infatti in quel momento ciò che dovete dire, poiché non siete voi a parlare ma parla in voi lo Spirito del Padre. Se è dunque lo Spirito Santo colui che parla in coloro che per Cristo vengono consegnati ai persecutori, perché non dovrebbe essere lo stesso Spirito Santo a parlare in coloro che presentano Cristo a chi lo vuol conoscere?

16. 33. Chi poi dice che non occorrono norme sugli argomenti che si debbono insegnare o sul come insegnarli per il fatto che è lo Spirito Santo a renderci maestri, potrebbe anche dire non essere necessario nemmeno pregare perché il Signore dice: Il Padre vostro sa ciò di cui avete bisogno prima ancora che glielo chiediate. Allo stesso modo si dovrebbe dire che l'apostolo Paolo non doveva prescrivere a Timoteo e a Tito cosa e come insegnare agli altri. Sono viceversa queste tre lettere dell'Apostolo quelle che deve avere sempre dinanzi agli occhi colui che nella Chiesa ha ricevuto l'incarico di ammaestrare. [SEGUONO ESEMPI TRATTI DALLE LETTERE DI PAOLO…]

17. 34. Pertanto colui che nel suo dire si prefigge di persuadere con ogni sforzo su ciò che è buono, senza disprezzare nessuna delle tre cose, cioè istruire, dilettare e convincere, preghi e si dia da fare perché, come abbiamo detto, venga ascoltato con intelligenza, volentieri e con docilità. Che se riesce a far questo adeguatamente e convenientemente, meriterà il nome di persona eloquente, anche se non seguirà l'assenso nell'uditore. Sembra inoltre che a queste tre finalità, cioè istruire, dilettare e convincere, si riallaccino anche le altre tre elencate da quel celebre autore di eloquenza romana quando diceva: Sarà dunque eloquente colui che saprà dire le cose piccole in tono dimesso, le cose modeste in tono moderato, le cose grandi con eloquenza solenne [eloquens, qui poterit parva summisse, modica temperate, magna granditer dicere]9. È come se volesse aggiungere anche le altre tre cose e così spiegasse la stessa e identica massima dicendo: Sarà dunque eloquente colui che nell'insegnare sa dire le cose piccole in stile

9 Cic., De or., 1.101.

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dimesso, per piacere sa dire le cose di media levatura in tono moderato, per convincere sa dire le cose grandi con eloquenza solenne.

18. 35. Quel nominato autore avrebbe potuto mostrare come le tre forme del dire da lui descritte si usano nelle cause forensi, non però qui, cioè nelle questioni ecclesiastiche dove si svolge il discorso di colui che noi vogliamo addestrare. Là infatti si discute di cose piccole quando il giudizio verte su problemi di denaro, di cose grandi invece quando ne va di mezzo l'incolumità o la vita umana. Quando poi non si deve giudicare né del primo né del secondo argomento e non si tratta di cose che l'uditore deve fare o decidere ma è solo questione di dilettare l’uditore, si è come nel mezzo fra i due estremi e perciò quella eloquenza fu chiamata " modesta ", cioè misurata. Il termine modus (" misura ") ha dato il nome a modicis (" misurato "). Infatti usiamo modica come sinonimo di parva in modo ingiustificato, non in senso proprio. Viceversa è dei nostri discorsi, in quanto tutte le cose che diciamo, specie quelle che predichiamo al popolo dall'ambone, le dobbiamo riferire alla salute degli uomini, e non alla salute temporale ma alla salvezza eterna (diciamo anche che occorre evitare la rovina eterna), sicché tutte le cose che diciamo sono grandi. Le stesse cause pecuniarie, concernenti cioè il guadagnare o perdere soldi, quando ne parla un oratore ecclesiastico non si possono considerare come piccole cose, sia che si tratti di una somma piccola come di una somma grande. Non è infatti piccola la giustizia che, naturalmente, dobbiamo rispettare anche quando si tratta di piccole somme di denaro, dicendoci il Signore: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto. Pertanto ciò che è insignificante è insignificante, ma l’essere fedeli anche nelle cose insignificanti è cosa grande. Difatti, come la ragione formale della circolarità, che cioè dal centro tante linee uguali si protendano verso l'esterno, è identica in un grande disco e in una piccola moneta, così, quando si compiono con giustizia le cose piccole, non per questo diminuisce la grandezza della giustizia [iustitiae magnitudo] stessa.

18. 36. Parlando dei giudizi profani (e quali saranno stati se non quelli pecuniari?), l'Apostolo dice: C'è forse qualcuno in mezzo a voi che, avendo una controversia con un altro, osi essere giudicato dagli iniqui e non presso i santi? O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se da voi è giudicato il mondo sarete incapaci di giudicare cose da nulla? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più dunque le cose secolari! Se dunque avrete dei giudizi su cose secolari, stabilite come giudici i più spregevoli della comunità. Lo dico a vostra vergogna. Possibile che non ci sia tra voi un qualche sapiente che possa far da giudice tra i fratelli? Ma ecco che un fratello contende col suo fratello, e il giudizio si fa di fronte agli infedeli! Ora è già uno smacco che abbiate litigi fra voi. Perché piuttosto non sopportate l'ingiustizia? Perché non vi lasciate piuttosto defraudare? Ma ecco che voi compite l'iniquità e frodate, e questo a dei fratelli! O non sapete forse che gli iniqui non erediteranno il Regno di Dio? Cos'è che suscita tanto sdegno nell'Apostolo? Che cosa egli riprende, rimprovera, sgrida, minaccia? Quale moto del suo animo egli denuncia con un'alterazione della voce così variata e così rude? Come mai, infine, impiega parole tanto solenni per cose così trascurabili? Tanta foga avrebbero dunque provocato in lui affari terreni? No di certo! Ma egli parla così a motivo della giustizia, della carità, della fede, le quali, senza che alcuno sano di mente possa dubitarne, anche nelle questioni piccole sono realtà importanti.

18. 37. Certamente, se ammonissimo i lettori sul modo come debbono trattare gli affari mondani [ipsa negotia saecularia], o per sé o per i propri familiari, dinanzi ai giudici ecclesiastici, giustamente li esorteremmo a presentare le cose con tono dimesso, essendo appunto cose di poco conto. Ma parlando noi qui del modo di esprimersi di colui che vogliamo sia maestro [doctorem] di quelle verità per le quali si è liberati dai mali eterni e si perviene ai beni eterni, ogniqualvolta si tratta di queste cose, o dinanzi al popolo o in privato, sia che ci si rivolga a uno sia a più, sia con amici che con nemici, sia in un discorso prolungato sia in un dialogo, sia in trattati sia in libri, sia in lettere o molto lunghe o molto brevi, si tratta

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sempre di cose grandi [debet utique granditer dici]. Forse dare un bicchiere di acqua fresca è una cosa minima e di nessun valore; ma il Signore non disse una cosa minima e insignificante quando asserì che chi l'avesse dato a un suo discepolo non avrebbe perso la sua ricompensa. Se, pertanto, il nostro dottore parlerà di questo tema nella Chiesa, non dovrà ritenere che parla di una cosa piccola, e quindi può parlarne non con eloquenza temperata né con eloquenza solenne, ma con tono dimesso [et ideo non temperate, non granditer, sed summisse sibi esse dicendum]. Quando parlammo al popolo di questo tema, e Dio mi assisté perché non ne parlassi con parole inadeguate [non incongrue], non accadde forse che da quell'acqua fredda - diciamo così - si sollevasse una enorme fiamma, tale da accendere, con la speranza della ricompensa celeste, anche i cuori di uomini freddi e spingerli a compiere opere di misericordia?

19. 38. Sebbene il nostro dottore debba parlare di cose grandi, non sempre deve dirle con eloquenza solenne, ma con stile dimesso quando insegna e con tono temperato quando rimprovera o elogia alcunché. Quando invece si tratta di cose da farsi e il discorso è rivolto a persone che dovrebbero farle ma non vogliono, allora dette cose, che sono grandi, le si deve dire con eloquenza solenne, capace di piegare gli animi. Capita a volte che di un identico argomento, di per sé elevato, si debba parlare con stile dimesso, se lo si insegna; in tono temperato se lo si predica; e con eloquenza solenne se si tratta di far tornare indietro un animo traviato. Cosa c'è, infatti, di più grande di Dio? E non sarà, per questo, oggetto di apprendimento? Ovvero chi insegna l'unità nella Trinità non dovrà trattarne in tono dimesso, di modo che il tema, di per sé difficile a conoscersi, possa essere compreso, nei limiti del possibile? O che si dovranno in tal caso ricercare i fronzoli e non gli argomenti? O che si tratta forse di piegare l'uditore perché faccia qualcosa o non piuttosto istruirlo perché impari? Viceversa, quando si loda Dio o in se stesso o nelle sue opere, quale forma di elocuzione bella, anzi splendida, non sorge dalle labbra di colui che riesce a lodarlo quanto gli è possibile, pur essendo vero che nessuno lo sa lodare come meriterebbe e tuttavia nessuno può non lodarlo? Se invece non lo si adora o insieme con lui o al di sopra di lui si adorano gli idoli o i demoni o qualsiasi altra creatura, questo è un grande disordine, e al fine di distorglierne gli uomini si deve senz'altro parlarne con eloquenza solenne. […]

20. 39. Un esempio di stile dimesso si ha nell'apostolo Paolo - tanto per riferire una cosa a tutti accessibile - là dove dice: Ditemi, voi che volete essere sotto la legge: non avete ascoltato la legge stessa? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello della schiava è nato secondo la carne, quello della donna libera in virtù della promessa. Ora tali cose sono dette per allegoria. Le due donne infatti rappresentano le due alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar. Il Sinai infatti è un monte nell'Arabia, e corrisponde alla Gerusalemme di adesso, la quale è serva insieme con i suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre. E parimenti là dove argomenta dicendo: Fratelli, parlo a modo umano, ma un patto stabilito tra uomini nessuno lo annulla o ci fa delle aggiunte. Ora ad Abramo furono annunciate delle promesse, a lui e alla sua discendenza. Non dice: Ai suoi discendenti come se fossero molti, ma a uno solo: alla sua discendenza, che è Cristo. Ora io dico questo: un patto stabilito da Dio, una legge venuta quattrocentotrent'anni dopo non lo annulla sì da rendere vana la promessa. Se l'eredità fosse dalla legge, non sarebbe più dalle promesse; ma ad Abramo l'ha data Dio, in virtù della promessa. E perché l'uditore poteva pensare: Perché dunque è stata data la legge, se da essa non deriva l'eredità? Egli stesso si pone questa difficoltà e risponde a modo di interrogazione: A qual fine dunque la legge? E immediatamente risponde: È stata accordata in ordine alle trasgressioni, finché venisse il discendente a cui era stata fatta la promessa, donata per mezzo di angeli ad opera di un mediatore. Ma non si dà mediatore di chi è solo, mentre Dio è uno solo. E qui veniva la domanda che l'Apostolo si era posto da sé: La legge è dunque in contrasto con le promesse di Dio? E risponde: Assolutamente no! E motivando l'affermazione dice: Se infatti fosse stata data una legge capace di dare la vita, la giustizia sarebbe certo derivata dalla legge.

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Ma la Scrittura racchiude tutto nel peccato affinché la promessa fosse data ai credenti mediante la fede in Gesù Cristo. […]

…SEGUONO ALTRI ESEMPI DALLE LETTERE DI PAOLO, DA CIPRIANO E DA AMBROGIO…

22. 51. Non si deve credere che sia contrario alla disciplina mescolare queste tre specie; anzi, se lo si sa fare appropriatamente, il discorso viene ben variato. Se infatti nel parlare ci si dilunga sulla stessa specie, si fa poca presa sull'uditore; se invece si passa da una specie all'altra, anche se si va un po' per le lunghe, il discorso si snoda più gradito. E ciò anche se ogni singola specie ha in se stessa, quando chi parla è eloquente, delle variazioni che non permettono ai sensi di chi ascolta né di raffreddarsi né d'intiepidirsi. È tuttavia più facilmente tollerabile l'uso prolungato dello stile dimesso che non di quello solenne. Le emozioni dell'animo infatti quanto più le si deve suscitare nell'uditore perché ci presti l'assenso, tanto meno, quando detta emozione è stata sufficientemente suscitata, si deve pretendere che si protragga nel suo animo. Si deve pertanto evitare che, mentre vogliamo elevare più in alto colui che è già elevato, lo si faccia scendere più in basso dal punto che aveva raggiunto. Vi si interpongano quindi frasi dette in stile dimesso, e allora sarà bello il ritorno a ciò che è da dirsi in forma solenne, di modo che l'impeto dell'eloquenza si alterni come i flutti del mare. Ne segue che lo stile solenne di eloquenza, se lo si deve usare a lungo, non deve essere il solo ad usarsi ma lo si deve rendere vario con l'inserzione degli altri generi del dire; tuttavia il discorso tutto intero lo si ascriverà a quel genere che in esso prevale.

23. 52. È interessante stabilire quale genere si deve intervallare con l'altro e quando lo si debba fare, poiché ci sono norme certe e fisse. Difatti nel genere solenne gli inizi debbono essere sempre o quasi sempre di genere temperato, ed è lasciato alla libera scelta dell'oratore dire delle cose in stile dimesso, anche di quelle che potrebbero essere dette in stile solenne. In tal modo le cose che si dicono con alta eloquenza dal confronto con le altre acquistano in solennità e per loro, come attraverso a delle ombre, divengono più luminose. Qualunque poi sia il genere usato, capita che si debbano sciogliere i nodi di qualche difficoltà. Lì c'è bisogno di acume: cosa propriamente riservata al genere dimesso. Per questo un tal genere, anche collegandolo con gli altri due, si deve usare quando capitano argomenti di questo tipo: quando, ad esempio, si deve lodare o riprovare qualcosa che non richieda né la condanna o la liberazione della persona né l'assenso a una qualche azione. Se ciò capita in mezzo a un altro genere oratorio, si deve usare e interporre il genere temperato. Nell'eloquenza solenne dunque trovano posto anche gli altri due generi, e lo stesso accade nell'eloquenza dimessa. Quanto al genere temperato, esso richiede, non sempre ma qualche volta, il genere dimesso, se, come ho detto, occorre risolvere il nodo di una qualche questione, o quando delle cose che potrebbero essere dette con linguaggio ornato non le si adorna ma le si dice con linguaggio dimesso affinché il posto più elevato lo si riservi agli ornamenti [del discorso], che così viene a trovarsi come sull'alto di un letto. L'eloquenza temperata non esige l'eloquenza solenne, in quanto si adopera per dilettare gli animi, non per eccitarli.

24. 53. Non si deve, ovviamente, ritenere che un oratore parli in stile solenne quando lo si acclama di frequente e con calore. Lo stesso risultato infatti ottengono e la finezza dello stile dimesso e gli ornamenti dello stile temperato. Il genere solenne al contrario il più delle volte col suo peso comprime le grida e fa sgorgare le lacrime. Una volta a Cesarea di Mauritania dovetti dissuadere il popolo da una guerra civile, o peggio che guerra civile, che essi chiamavano caterva. Era una battaglia feroce che in un determinato periodo dell'anno combattevano fra loro non solo i concittadini ma anche i parenti e i fratelli e persino i genitori e i figli. Si dividevano in due fazioni e si combattevano fra loro, a colpi di pietre, per alcuni giorni di seguito e, come a ciascuno riusciva, si uccidevano anche. Feci naturalmente ricorso allo

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stile solenne, come ne ero capace, per sradicare dai loro cuori e costumi un male così crudele e così inveterato, sperando di estinguerlo con la mia parola. Non ritenni tuttavia d'essere riuscito a concludere qualcosa finché non li vidi piangere, non già quando li avevo sentiti applaudire. In effetti, con le acclamazioni mi indicavano che avevano capito e ne godevano, con le lacrime invece che si erano convinti. Quando dunque li vidi piangere ritenni vinta, prima ancora che me lo mostrassero con i fatti, quella feroce consuetudine loro tramandata dai padri e dai nonni e dagli antenati per lunghi secoli, consuetudine che assediava o, meglio, possedeva da nemica i loro cuori. Non appena terminato il discorso, li esortai a volgere il cuore e la bocca a Dio per ringraziarlo; ed ecco sono già circa otto o più anni dacché, per benevola concessione di Cristo, nessuna azione di quella sorta è stata più tentata in quella città. Ci sono molti altri esempi da cui impariamo che gli uomini non mediante grida ma gemiti o, talvolta, con lacrime o, finalmente, col cambiamento dei costumi dànno a divedere ciò che ha operato in loro la sublimità di un discorso sapiente.

24. 54. Anche con l'uso del genere dimesso si sono cambiate diverse persone: hanno potuto sapere quel che non sapevano e credere a ciò che prima sembrava loro incredibile, non però si sono decise a praticare ciò che già sapevano doversi praticare ma non lo facevano. Per vincere una tale durezza c'è bisogno dell'eloquenza solenne. In realtà, le lodi e le disapprovazioni, quando le si dice con eloquenza anche usando il genere temperato, colpiscono certuni in modo che nelle lodi o nei rimproveri non solo si rallegrino per l'eloquenza ma anche desiderino vivere in modo lodevole ed evitino di vivere come loro si rimprovera. Ma forse che, tutti coloro che provano il gusto, di fatto si trasformano come fanno, quando si usa il genere solenne, tutti coloro che si convincono? Forse che, quando si usa il genere dimesso, imparano tutti coloro a cui si impartisce l'insegnamento o credono nella verità delle cose fino allora sconosciute?

25. 55. Da quanto detto si deduce che quei due generi che mirano alla pratica sono soprattutto necessari a quanti vogliono parlare con sapienza ed eloquenza. Viceversa il genere temperato, nel quale è l'eloquenza stessa che piace, non lo si deve adoperare come fine a se stesso. Lo si deve impiegare per ottenere più presto e più tenacemente l'assenso degli uditori a cose che si dicono utilmente e rettamente. Così facendo, gli uditori si muoveranno più prontamente per il diletto che provoca in loro il discorso ma non hanno bisogno né dell'insegnamento né della spinta della parola, essendo già istruiti e inclini favorevolmente [all'azione]. In effetti, compito universale dell'eloquenza è, in tutti e tre questi generi, dire le cose in modo capace di ottenere la persuasione; il suo fine poi è persuadere con il discorso ciò che si intende [persuadere]. Orbene, in qualunque di questi tre generi si esprima l'oratore, dirà cose adatte per ottenere la persuasione, ma, se di fatto non persuade, non consegue il fine dell'eloquenza. Nel genere dimesso persuade che sono vere le cose che dice; nel genere solenne persuade a che siano tradotte in pratica le cose che già si conoscono come obbligatorie ma non si praticano; nel genere temperato persuade ad ammirare ciò che egli dice con begli ornamenti. Ma che bisogno abbiamo noi di ottenere una simile finalità? Ne vadano a caccia quelli che si gloriano della lingua e se ne vantano nei panegirici e in simili altri discorsi, dove nessuno è da istruirsi né da sospingersi a fare qualcosa ma l'uditore è soltanto da dilettarsi. Quanto invece a noi, riferiamo questa finalità all'altra: cioè anche mediante questo stile vogliamo conseguire quello che ci proponiamo quando parliamo in stile solenne, che cioè il bene morale venga amato e il male fuggito, sempre che la gente non sia così aliena da questo effetto da richiedere, a nostro avviso, proprio il parlare solenne. Lo usiamo inoltre affinché coloro che praticano il bene lo facciano con più cura e vi perseverino con maggiore fermezza. Ne segue che noi usiamo del genere temperato con la sua eleganza non per vanagloria ma conforme a sapienza; non ci contentiamo di dilettare l'uditore ma procuriamo che, anche con l'uso di questo genere, venga aiutato a raggiungere il bene che gli vogliamo inculcare.

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26. 56. Colui che parla con sapienza e si propone di parlare anche con eloquenza deve ricorrere a questi tre generi del dire, se vuol essere ascoltato in modo da essere compreso, da tornare gradito e da ottenere l'adesione. L'affermazione però non si deve intendere quasi che i singoli effetti corrispondano all'uno o all'altro dei tre generi, dimodoché al genere dimesso corrisponda l'essere udito con comprensione, al temperato l'essere udito con gradimento e al solenne l'essere udito con adesione. Comunque, l'oratore abbia sempre di mira queste tre finalità e per quanto può veda di conseguirle tutte, anche quando si limita ad uno solo di quei tre generi. Non vogliamo infatti procurare della noia quando parliamo in stile dimesso e per questo vogliamo essere ascoltati non solo in modo da essere compresi ma anche accolti volentieri. E quando insegniamo desumendo il nostro dire dalle testimonianze di Dio, cosa ci proponiamo se non d'essere ascoltati docilmente, cioè che si presti loro fede con l'aiuto di colui al quale fu detto: Le tue testimonianze sono tutte molto degne di fede? Colui infatti che, sebbene con linguaggio dimesso, racconta qualcosa a chi la deve imparare, cosa intende se non che gli si creda? E chi vorrà ascoltarlo se non si concilia l'uditore anche con una certa eleganza? Se infatti non lo si comprende, chi non si rende conto che egli non potrà essere ascoltato né volentieri né docilmente? Spessissimo capita infatti che con il parlare dimesso si sciolgano questioni difficilissime e le si rendano chiare con una descrizione inattesa. Con esso parimenti si traggono fuori sentenze acutissime da non so quali nascondigli, da cui mai si sarebbe sospettato e le si mette in luce. Ci si convince dell’errore dell'avversario e si apprende la falsità di ciò che da lui era detto in maniera che sembrava irrefutabile. Con questo genere può andare unita soprattutto una grazia, non ricercata ma in certo qual modo ad esso connaturale, e un certo ritmo di clausole creato non per vanteria ma come necessario [al fraseggiare] e, per così dire, tratto dall'intimo delle cose stesse. In tali ipotesi lo stile dimesso è capace di strappare acclamazioni tali che a stento lo si potrebbe prendere per stile dimesso. Non dipende in realtà dal fatto che avanza disadorno o disarmato ma lotta a corpo nudo se riesce ad abbattere l'avversario con i nervi e con i muscoli, e così con le sue membra fortissime abbatte e distrugge la falsità che gli oppone resistenza. E perché mai con tanta frequenza e insistenza si acclamano coloro che usano questo genere del dire se non perché la verità così dimostrata, difesa e resa invincibile, provoca anche del piacere? Comunque, il nostro dottore e oratore anche quando usa questo genere dimesso deve ottenere il risultato di parlare non solo in modo da essere compreso ma anche ascoltato volentieri e docilmente.

26. 57. Anche l'eloquenza di genere temperato non è lasciata disadorna né la si abbellisce in maniera disdicevole dall'oratore ecclesiastico. Egli non cerca solo di piacere, unico intento che riscontra presso gli oratori profani, ma anche nelle cose che elogia o disapprova vuole senza dubbio essere ascoltato docilmente sia per quanto concerne il desiderare e conservare le une come nell'evitare e respingere le altre. Se però quando lo si ascolta non lo si comprende, non può nemmeno essere ascoltato volentieri. Pertanto quelle tre finalità, che cioè gli uditori comprendano, provino godimento e obbediscano, le si deve avere in vista anche in questo genere dove il primo posto lo tiene senza dubbio il dilettare.

26. 58. Quando poi è necessario smuovere e convincere l'uditore col genere solenne - e questo è necessario quando costui riconosce che si dice la verità e la si dice attraentemente ma poi si ricusa di fare quanto vien detto -, allora senza dubbio bisogna ricorrere all'eloquenza solenne. Ma chi potrà muoversi all'azione senza conoscere quel che gli si dice? o chi viene afferrato in modo che presti ascolto se non ci prova alcun gusto? Ne segue che anche in questo genere, dove con la solennità del dire ci si preoccupa di piegare all'obbedienza il cuore indurito, l'oratore non sarà ascoltato docilmente se non è ascoltato in maniera da essere compreso e affascinato.

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27. 59. Per essere ascoltato e ubbedito, più che la solennità dell'elocuzione, ha peso senza dubbio la vita dell'oratore [Habet autem ut oboedienter audiatur quantacumque granditate dictionis maius pondus vita dicentis]. In effetti, uno che parla dottamente ed eloquentemente ma vive malamente, istruisce certo molti che sono bramosi di imparare ma, come sta scritto, non reca alcuna utilità alla sua anima. Al riguardo dice anche l'Apostolo: Sia per secondi fini sia con sincerità, purché si annunzi Cristo. In effetti Cristo è la verità, e tuttavia la verità può essere annunziata non con verità, cioè le cose giuste e vere possono essere predicate con cuore perverso e mendace. Così ad esempio viene annunziato Gesù Cristo da coloro che cercano i propri vantaggi, non da quelli che sono di Gesù Cristo. I buoni fedeli tuttavia, quando ascoltano, obbediscono non a un qualsiasi uomo, ma al Signore in persona, secondo quello che egli diceva: Fate ciò che dicono ma non fate quello che fanno, poiché dicono e non fanno. Per questo motivo si ascoltano utilmente anche coloro che non agiscono con profitto personale. In realtà essi vanno in cerca del proprio interesse, ma non ardiscono insegnare dottrine personali, almeno quando parlano dall'alto della sede che occupano nella Chiesa e che è costituita dalla sana dottrina. In vista di ciò lo stesso Signore, prima di dire a loro riguardo quel che ho sopra ricordato, diceva: Sedettero sulla cattedra di Mosè. Orbene quella cattedra, non loro ma di Mosè, li costringeva a parlare bene, pur comportandosi male. Nella loro vita agivano guardando al proprio interesse; dall'insegnare cose proprie li distoglieva quella cattedra, che apparteneva ad altri.

27. 60. Gli oratori che dicono cose che non fanno giovano, è vero, a molti; ma facendo quello che dicono gioverebbero a molti di più. Abbondano infatti persone che cercano di difendere la loro cattiva condotta appellandosi ai propri superiori e maestri. Nel loro cuore o, se la cosa giunge a farli sbottare, anche con la loro bocca rispondono dicendo: Ciò che comandi a me tu perché non lo fai? Succede così che non ascoltino docilmente il predicatore che, lui personalmente, non si ascolta e, insieme al predicatore, disprezzano la stessa parola di Dio che viene loro annunziata. Ne scrive l'Apostolo a Timoteo. Dopo avere detto: Nessuno disprezzi la tua età giovanile, aggiunge anche il motivo per cui non deve essere disprezzato e dice: Ma sii modello ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nell'amore, nella fede, nella castità.

28. 61. Un maestro di questo tipo, che voglia essere ascoltato docilmente, potrà parlare senza falsi pudori non solo usando lo stile dimesso e quello temperato ma anche quello solenne, per il fatto che non conduce una vita sciatta. Si è scelto la vita buona non trascurando nemmeno la buona fama ma arricchendosi di beni dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, temendo per quanto può l'uno e cercando il bene dei suoi simili. Anche nel suo parlare preferisce piacere più per le cose [che dice] che non per le parole [con cui le dice] e non ritiene di parlare meglio se non quando parla più conforme a verità. Un tal maestro non sarà servo della parola ma la parola del maestro. Questo infatti inculcava l'Apostolo: Non nella sapienza della parola perché non sia privata della sua efficacia la croce di Cristo. Si riferisce a questo anche quanto detto a Timoteo: Non disputare a parole, cosa che non giova ad altro se non alla rovina di chi ascolta. Non che questo sia detto al fine di non farci dire nulla in favore della verità quando gli avversari la impugnano. Dove andrebbero, se no, a finire le parole che, fra l'altro, dice mostrando quale debba essere il vescovo: Che sappia insegnare la sana dottrina e controbattere gli avversari? Non sono infatti, le dispute di parole, arti per vincere l'errore con la forza della verità ma piuttosto per ottenere che le tue parole siano preferite a quelle dell'altro. Viceversa chi non fa dispute di parole, sia che parli in stile dimesso o temperato o solenne, questo intende con le sue parole: che la verità divenga palese, la verità piaccia, la verità spinga all'azione. Difatti anche la carità, che è fine del precetto e pienezza della legge, in nessun modo può essere buona quando le cose amate non sono vere ma false. È come quando uno ha bello il corpo ma deforme lo spirito: è da compiangersi più che se avesse deforme anche il corpo. Lo stesso si deve dire di quanti parlano eloquentemente di cose false: sono da compiangersi più che se

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ne parlassero in maniera sgraziata. In che cosa consiste dunque il parlare non solo con eloquenza ma anche con sapienza? Nell'usare, per le cose vere che occorra porgere all'uditorio, parole appropriate nel genere dimesso, brillanti nello stile temperato e possenti nello stile solenne. Ma se uno non riesce a ottenere le due cose insieme, preferisca dire con sapienza ciò che non sa dire con eloquenza, anziché dire con eloquenza cose insulse.

29. 61. Che se nemmeno questo [parlare in sapienza] gli riesce, si comporti in modo da dare agli altri il buon esempio, e faccia in modo che la sua condotta sia per loro una predica efficace.

29. 62. Ci sono, è vero, persone che possono declamare un bel discorso ma non riescono a comporre ciò che debbono pronunziare. In tal caso prendano uno scritto eloquente e sapiente composto da altri, lo imparino a memoria e lo declamino al popolo. Impersonandosi con l'altro, non fanno una cosa riprovevole. In questo modo, certo molto utile, un gran numero di persone diventano annunziatori della verità, pur non essendone maestri, purché tutti vadano d'accordo nel riferire le parole dell'unico Maestro e non ci siano scissioni fra loro. Persone come queste non le si deve spaventare con le parole del profeta Geremia, per bocca del quale Dio rimprovera coloro che rubano le sue parole, ciascuno dal suo vicino. Quelli che rubano infatti prendono la roba degli altri, ma la parola di Dio non è roba di altri se chi la prende è a lui soggetto; sarebbe roba altrui se uno, pur riferendola bene, vivesse male. Il bene che dice sembrerebbe concepito dal suo ingegno, ma in realtà è in contrasto con i suoi costumi. Pertanto dice Dio che rubano le sue parole coloro che vogliono apparire buoni, dicendo le cose di Dio, mentre invece sono cattivi regolandosi a proprio talento. Infatti, se ci badi attentamente, non sono essi a dire il bene che dicono. Come potrebbero infatti dirlo a parole se con la vita lo rinnegano? Non senza un perché di costoro dice l'Apostolo: Professano di conoscere Dio ma a fatti lo rinnegano. Da un lato dunque sono essi che dicono, dall'altro lato non sono essi, poiché sono vere tutte e due le cose asserite dalla Verità. Parlando infatti di gente come questa diceva: Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno. Cioè: Fate quel che ascoltate dalla loro bocca, ma non fate ciò che vedete nelle loro opere. E seguitava: poiché dicono ma non fanno. Dunque sebbene non pratichino, tuttavia dicono. Ma in un altro passo, rimproverando gente come questa, diceva: Ipocriti, come potete dire cose buone se siete cattivi? Sotto questo aspetto anche le cose che dicono, quando parlano di cose buone, non sono loro a dirle in quanto con la volontà e la condotta rinnegano quello che dicono. Così capita che un uomo facondo e cattivo componga un discorso in cui si annunzia la verità affinché sia pronunziato da un altro che non è elegante ma buono. In questo caso il primo da dentro se stesso estrae cose non sue, quest'altro da una sorgente a lui estranea riceve cose sue. Quando poi i buoni fedeli prestano quest'opera ad altri buoni fedeli, tanto gli uni che gli altri dicono cose proprie, poiché loro è il Dio a cui appartengono le cose che essi dicono ed essi se le rendono proprie perché, anche se non furono loro a comporre il testo, tuttavia vi conformano la vita vivendo secondo quelle norme.

30. 63. Ecco dunque il nostro oratore sul punto di pronunciare il suo discorso davanti al popolo o a un qualsiasi gruppo, ovvero sul punto di dettare quel che sarà riferito al popolo o letto da chi vorrà o potrà. Preghi Dio affinché gli ponga in bocca un buon discorso [oret ut Deus sermonem bonum det in os eius]. Se infatti la regina Ester, prima di parlare al re della salvezza temporale del suo popolo, pregò affinché Dio ponesse sulla sua bocca un discorso adeguato, quanto più deve pregare per ricevere un tal dono colui che valora per ottenere con le parole e la scienza la salute eterna di tante persone [qui pro aeterna hominum salute in verbo et doctrina laborat]? Quanto poi a coloro che proclameranno cose ricevute da altri, preghino prima di riceverle per coloro da cui le riceveranno, affinché sia dato ad essi ciò che da essi vogliono ricevere, e dopo che l'hanno ricevuto preghino affinché loro stessi possano ben proclamarlo e perché coloro per il cui bene si proclama lo ricevano. E della felice riuscita della

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proclamazione rendano grazie a colui dal quale, ne sono certi, hanno ricevuto il dono, di modo che chi si gloria si glori in colui nelle cui mani siamo noi e tutti i nostri discorsi.

31. 64. Il libro mi è riuscito più lungo di quel che volessi o pensassi; ma non sarà lungo per colui che leggendolo o ascoltandolo, lo troverà gradito. Se poi per qualcuno è lungo e d'altronde lo vuole conoscere, lo legga per parti. Quanto poi a colui che non si cura di conoscerlo, non si lamenti della sua lunghezza. Per me personalmente, io ringrazio il nostro Dio per avere potuto in questi quattro libri esporre - sia pure con le modeste risorse a me date - non chi o come sono io (al quale molte cose difettano), ma chi e quale debba essere colui che si ingegna di recare non solo a se stesso ma anche agli altri un valido contributo fatto di dottrina sana, cioè cristiana.

Breve rassegna di passi notevoli sulle questioni in argomento da opere agostiniane non trattate analiticamente: Quaest. Evang. 51. 1. Del Signore è stato scritto: Egli finse di andare più lontano. Non si tratta di menzogna. In realtà non tutto ciò che è fittizio è anche menzogna [Non enim omne quod fingimus mendacium est], ma è menzogna quel parlare fittizio cui non corrisponde alcun significato reale [sed quando id fingimus quod nihil significat, tunc est mendacium]. Se invece un nostro detto, sia pure fittizio, contiene un qualche significato, non è una menzogna ma una figura della verità [figura veritatis]. Se così non fosse tutte le cose che sono state dette in figura da uomini sapienti e santi o anche dallo stesso nostro Signore, le si dovrà ritenere menzogne, perché secondo il consueto modo di intendere non c'è la verità in tali detti. [Cum autem fictio nostra refertur ad aliquam significationem, non est mendacium sed aliqua figura veritatis. Alioquin omnia quae a sapientibus et sanctis viris, vel etiam ab ipso Domino figurate dicta sunt mendacia deputabuntur, quia secundum usitatum intellectum non subsistit veritas talibus dictis.] Ecco, ad esempio, quell'uomo che aveva due figli il minore dei quali, ricevuta la sua parte di beni patrimoniali se ne partì per una regione lontana, con tutto il resto descritto nella parabola (Cf. Lc 15, 11-32). Tutte queste cose non vengono dette quasi che ci sia stato effettivamente un uomo che abbia vissuto tali vicende nei suoi figli e abbia fatto loro quel che fece. Si tratta in realtà di cose fittizie, inventate per significare un'altra cosa molto ma molto superiore e totalmente diversa, al punto che sotto l'immagine di quell'uomo inventato dobbiamo intendere lo stesso vero Dio [Ficta sunt ergo ista ad rem quandam significandam tam longe alteque maiorem et tam incomparabiliter differentem, ut per illum fictum hominem Deus verus intellegatur.]. E come ci sono racconti fittizi, così ci sono avvenimenti fittizi, che cioè s'inventano senza inclusione di menzogna per significare una qualche altra realtà [Sicut autem dicta ita etiam facta finguntur sine mendacio ad aliquam rem significandam]. Così quel noto gesto del Signore, quando andò a cercare i frutti in quel fico nel tempo in cui i frutti non ci potevano essere (Cf. Mc 11, 13). Non c'è dubbio che egli andò realmente a cercarveli, ma qualsiasi persona sapeva che, se non per l'infruttuosità, certo per la stagione quell'albero non poteva avere frutti. Se ne conclude che il fittizio che si riferisce a una qualche verità è una figura, quello che non vi si riferisce è una falsità [Fictio igitur quae ad aliquam veritatem refertur figura est, quae non refertur mendacium est].

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Serm. 89. 6 Un fatto veramente compiuto e tuttavia allegorico. 6. Avete sentito un'affermazione di senso proprio, come quella che noi risorgeremo, e un fatto in senso proprio che, come è stato detto, Paolo andò a Gerusalemme a vedere Pietro (Cf. Gal 1, 18). Espressione simbolica è: La pietra scartata dai costruttori (Mt 21, 42; Sal 117, 22); un fatto simbolico è la pietra consacrata con l'olio posta a capo del giaciglio di Giacobbe. Devo ora presentare alla vostra aspettativa l'esempio di un fatto avvenuto in senso proprio e avente nello stesso tempo un significato simbolico. Sappiamo che Abramo ebbe due figli, uno nato dalla schiava e uno nato dalla moglie che era libera; è un fatto davvero compiuto, non solo narrato, ma anche avvenuto; vuoi sapere quale allegoria racchiude? I due figli rappresentano i due Testamenti (Gal 4, 22. 24). Ciò che dunque viene detto in senso figurato, in certo qual modo viene inventato. Ma siccome ha come risultato un significato allegorico e questo conserva la garanzia della verità, non può essere accusato di falsità. Ecco, il seminatore uscì a seminare e, nel seminare, una parte del seme cadde sulla strada, una parte cadde su luoghi sassosi, un'altra in mezzo alle spine, un'altra cadde su terreno fecondo. Chi fu che uscì a seminare, o quando uscì, o tra quali spine, o tra quali sassi, o su quale strada o in quale campo? Se lo s'intende come un fatto inventato, lo si comprende in senso figurato: è un fatto inventato. Se infatti si fosse trattato d'un seminatore che fosse uscito davvero e avesse sparso la semente - come abbiamo sentito - in luoghi differenti, non sarebbe un'invenzione, ma neppure una menzogna. Qui però non si tratta di un'invenzione, ma neppure d'una menzogna. Perché? Perché ciò ch'è inventato ha un significato allegorico, non t'inganna; richiede d'essere compreso ma non induce in errore. Volendoci insegnare ciò Cristo, quando cercava i frutti suggeriva con quel fatto un significato allegorico, non una finzione mendace, e perciò una finzione lodevole non biasimevole; una volta che da te sarà bene esaminata, non andrai a finire nella falsità ma dopo averla scrutata potrai trovare la verità. Serm. 89. 4 Ogni espressione o fatto della Scrittura si può intendere in tre modi. 4. Questa è una prima verità che il Signore ci fa capire d'aver voluto inculcarci. Ce n'è un'altra? Egli sente fame, s'avvicina all'albero e vi cerca i frutti. Non sapeva forse che non era ancora la stagione? Il Creatore non sapeva ciò che sapeva il coltivatore dell'albero? Cerca dunque frutti sull'albero che ancora non li aveva. Li cerca oppure fa finta di cercarli? Poiché, se li cercava veramente, si sbagliava. Ma è impossibile che sbagliasse. Dunque finse. Se si teme di ammettere che fingeva, si ammette che sbagliava. Se uno si rifiuta d'ammettere l'errore, finisce per ammettere la finzione. Siamo indecisi e angustiati da un dubbio che ci brucia. Nella febbre dell'ansietà, auguriamoci la pioggia, per prender vigore e non divenire piuttosto secchi attribuendo al Signore azioni indegne di lui. Veramente l'Evangelista dice: Andò presso un albero, ma non vi trovò alcun frutto (Mt 21, 19). Naturalmente a proposito di lui non avrebbe detto: non ne trovò, se non qualora li avesse cercati davvero, o avesse fatto finta di cercarli, pur sapendo che non ce n'erano. Non dobbiamo dire in alcun modo che Cristo sbagliava; riguardo a ciò non abbiamo alcun dubbio. Che fare, dunque? Diremo forse che fece finta o diremo che non fece finta? In qual modo usciremo da questo imbarazzo? Diciamo pure quanto dice del Signore un Evangelista in un altro passo, cosa che non oseremmo dire da noi stessi. Diciamo pure ciò che ha scritto quell'Evangelista e dopo averlo detto, cerchiamo di comprenderlo. Ma per comprenderlo, dobbiamo prima credere. Se non crederete - dice il Profeta - non intenderete (Is 7, 9 (sec. LXX)). Dopo la sua risurrezione Cristo Signore camminava sulla strada con due suoi discepoli dai quali ancora non era stato riconosciuto, e si unì loro come un terzo compagno di viaggio. Giunsero al luogo dove quei due erano diretti e l'Evangelista dice che Gesù fece finta di voler continuare il viaggio (Lc 24, 28). Essi invece cercarono di trattenerlo come vuole la norma di cortesia, dicendo che ormai annottava e pregandolo di restare con loro. Egli accettò l'ospitalità, spezzò il pane ed essi lo riconobbero allorché benedisse e spezzò il pane. Non dobbiamo

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dunque aver paura di dire che finse di cercare [i frutti sul fico] se finse di continuare il cammino. Ma qui sorge un'altra questione. Ieri abbiamo parlato a lungo mettendo in risalto la veracità degli Apostoli; come potremo trovare la finzione nel Signore? Si deve dunque dire, fratelli miei, e inculcarvi, nei limiti delle nostre tenui forze, concesseci dal Signore per farvi del bene, e vi si deve esporre ciò che dovete ritenere come regola a proposito di tutte le Scritture. Ogni detto o fatto può avere o un senso proprio o un significato simbolico, o di certo li ha tutt'e due, sia quello proprio che quello simbolico. Vi ho presentato tre ipotesi, e dovendovi dare degli esempi, da dove prenderli se non dalle Sacre Scritture? Deve intendersi in senso proprio l'affermazione che il Signore soffrì, risuscitò, salì al cielo, che noi risorgeremo alla fine del mondo e regneremo con lui in eterno, se non lo disprezzeremo. Queste espressioni devono intendersi in senso proprio; non vi si deve cercare un senso figurato. Le cose sono così come sono espresse. Lo stesso criterio vale per i fatti. L'Apostolo andò a Gerusalemme per vedere Pietro (Cf. Gal 1, 18); l'Apostolo vi andò realmente ed è un'azione da prendersi in senso proprio. Ti narra un'azione compiuta, un fatto da intendersi in senso proprio. Invece la seguente è una frase di senso figurato: La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d'angolo (Mt 21, 42; Sal 117, 22). Se prendiamo la pietra in senso letterale, qual è la pietra scartata dai costruttori che è diventata testata d'angolo? Se intendiamo l'angolo in senso proprio, quale testata d'angolo è diventata questa pietra? Se invece ammettiamo che questa è un'espressione figurata e l'intendiamo in senso simbolico, la pietra angolare è Cristo, testata d'angolo, capo della Chiesa. Perché pietra angolare della Chiesa? Perché da una parte chiamò alla fede i giudei e dall'altra i pagani e unì insieme mediante la grazia della sua pace, per così dire, due pareti ch'erano dirette in senso diverso e s'incontrarono in lui, pietra angolare, poiché è proprio lui la nostra pace che ha fatto diventare uno solo i due popoli (Ef 2, 14). Contra mend. 12. 26 La simulazione di Pietro e Barnaba. 12. 26. Vogliamo dimostrare come quelle parole della Scrittura, che si pensa siano menzogne, in realtà, se le si comprende bene, non sono ciò che si crede. Al riguardo non ti sembri argomento di poco valore contro gli eretici il fatto che tali esempi di menzogna li trovano non fra gli scritti degli apostoli ma in quelli dei profeti. In realtà tutti quei passi che dettagliatamente essi elencano come contenenti menzogne si leggono in quei libri nei quali sono riportati non solo detti ma anche molti fatti figurativi, poiché realmente erano accaduti con valore di figure; e nelle figure quanto viene detto con parole che sembrerebbero menzogne, se lo si comprende bene s'avverte che è la verità. Quanto poi agli apostoli, essi nelle loro lettere si sono espressi in un linguaggio del tutto diverso, e in maniera pure diversa sono stati scritti gli Atti degli Apostoli; e questo perché tutto quello che nei profeti era nascosto nel velo del simbolismo è stato svelato dal Nuovo Testamento. Effettivamente, fra le tante lettere scritte dagli apostoli e in quell'ampio libro dove vengono narrate, con la verità propria dei libri canonici, le loro gesta, non si riscontra un solo personaggio da cui gli eretici possano trarre l'esempio per sostenere la legittimità della menzogna. C'è al riguardo la ben nota simulazione di Pietro e Barnaba in forza della quale i pagani sarebbero stati costretti a comportarsi da giudei. Essa però fu giustamente ripresa ed emendata, perché non recasse danno ai contemporanei e non fosse per i posteri un esempio da imitare. Ecco infatti l'apostolo Paolo che, vedendo come i due non procedessero rettamente, cioè secondo la verità del Vangelo, disse a Pietro alla presenza di tutti: Se tu, che sei giudeo, vivi da pagano e non da giudeo, come puoi costringere i pagani a conformarsi ai giudei? (Gal 2, 13-14) E poi si cita anche l'operato dello stesso Paolo, quando si attenne ad alcune osservanze legali entrate nella consuetudine dei giudei, e così fece per non apparire come nemico della Legge e dei Profeti. Lungi da noi il pensiero che egli lo abbia fatto cadendo nella menzogna. A questo riguardo infatti ci è più che nota la sua sentenza, secondo la quale egli aveva deliberato che non si doveva proibire ai giudei divenuti credenti in Cristo di conservare le

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tradizioni dei loro antenati, ma non si doveva neppure costringere all'osservanza delle medesime i pagani passati al cristianesimo. In altre parole, quei riti figurativi che risultavano ordinati dal Signore non dovevano essere schivati come pratiche sacrileghe, ma, dopo la rivelazione del Nuovo Testamento, non dovevano essere ancora considerati necessari a tal segno che chi si fosse convertito a Dio non poteva senza di essi conseguire la salvezza. Alcuni infatti, pur avendo accolto il Vangelo di Cristo, ritenevano e insegnavano proprio questo; e ad essi, per quanto simulatamente, avevano aderito anche Pietro e Barnaba, i quali in tal modo costringevano i pagani a vivere da giudei. Era infatti un costringere la gente il predicare che le osservanze giudaiche erano talmente necessarie che, anche accolto il Vangelo, non c'era per i convertiti alcuna salvezza in Cristo se si fossero escluse tali pratiche. Questo pensavano erroneamente certuni; temendo costoro, Pietro si lasciò andare alla simulazione; di questo comportamento lo rimproverò Paolo, assertore della libertà. Se poi egli ebbe a dire: Mi son fatto tutto a tutti per guadagnare tutti, fu per condiscendenza, non per [voglia di] mentire. Uno infatti diventa pari a colui che vuol soccorrere quando lo soccorre con tanta carità quanta ne gradirebbe lui stesso se lo si dovesse soccorrere in una identica condizione di disagio. Così facendo, egli s'immedesima con l'altro non perché lo inganna, ma perché mette se stesso alla pari di lui. A ciò si riferisce anche quel detto dell'Apostolo da me sopra ricordato: Fratelli, se uno [di voi] viene sorpreso in qualche mancamento, voi che siete spirituali, istruitelo con spirito di mansuetudine, badando a te stesso per non essere tentato anche tu (Gal 6, 1). Se poi disse: Io mi son fatto giudeo con i giudei, e con coloro che erano sotto la legge come uno che si assoggetta alla legge (1 Cor 9, 20-21), non per questo si deve credere che egli con animo menzognero fece sue le simbologie dell'antica legge. In caso contrario, si dovrebbe anche pensare che egli, sempre per mentire, accettò alla stessa maniera l'idolatria dei pagani, dal momento che dice d'essersi fatto un senza legge per coloro che non avevano ricevuto la legge, al fine di guadagnare anche costoro. Ma è certo che una tal cosa egli non la fece. Non risulta infatti in nessun luogo che egli abbia sacrificato agli idoli o che abbia adorato i simulacri; anzi, da vero testimone di Cristo, mostrò con estrema libertà che quegli idoli erano da detestarsi e fuggirsi. Pertanto gli eretici non possono citare alcun detto o fatto degli apostoli che sia esempio da imitare per quanto riguarda il ricorso alla menzogna. Quanto poi ai detti e ai fatti desunti dai profeti, essi immaginano d'avere del materiale probativo poiché ritengono menzogne le prefigurazioni simboliche, che con la menzogna hanno una qualche somiglianza. Tuttavia se riferiamo questi atti o detti all'oggetto per cui furono effettivamente compiuti, riscontriamo che questi significati sono sempre conformi a verità, e quindi in nessun modo sono menzogne. La menzogna infatti si ha quando si falsifica il significato [delle parole] con l'intenzione d'ingannare; ma questo significato falso non c'è quando, sebbene con una cosa se ne indichi un'altra, tuttavia quel che si vuol significare, se lo si comprende bene, corrisponde a verità. Serm. 89. 5 Fatti simbolici. 5. Avete sentito che cos'è un'espressione in senso proprio e in senso figurato; avete sentito che cos'è un fatto in senso proprio, voi aspettate ora qualche esempio di fatti simbolici. Ce ne sono molti ma ecco intanto quello che mi viene in mente per l'associazione d'idee con la pietra angolare, quello di Giacobbe quando unse una pietra e la pose a capo del giaciglio e su di essa dormiva; durante il sonno ebbe un sogno straordinario: vide cioè una scala che dalla terra s'innalzava verso il cielo; su di essa salivano e scendevano gli angeli, e all'estremità di essa era Dio; comprese il suo vero significato simbolico e per dimostrarci di non essere estraneo alla comprensione di quella visione e rivelazione [unse la pietra] ritenendola come figura di Cristo (Cf. Gn 28, 11-18). Non ti devi quindi stupire che unse la pietra, poiché Cristo ricevette il nome dall'unzione. Ora questo Giacobbe nella Scrittura è chiamato uomo senza inganno. Questo Giacobbe, come voi sapete, fu chiamato Israele (Cf. Gn 25, 27; 32, 29; 35, 10; 1 Sam 18, 51; 2 Sam 17, 34). Per questo motivo il Signore nel Vangelo

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quando vide Natanaele: Ecco - disse - un vero israelita, in cui non c'è falsità (Gv 1,47). Quell'israelita, non sapendo ancora chi fosse Colui che parlava con lui, rispose: Come fai a conoscermi? E il Signore a lui: Ti ho visto quando eri sotto l'albero di fico, come se dicesse: "Quando tu eri all'ombra del peccato, io ti ho predestinato alla salvezza". Quello, ricordandosi d'essere stato sotto l'albero di fico, dove il Signore non c'era, ne riconobbe la divinità e rispose: "Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele!". Egli sotto l'albero di fico non divenne un albero inaridito di fico; aveva riconosciuto il Cristo. E il Signore a lui: Poiché ti ho detto d'averti visto sotto il fico, tu credi in me? Vedrai cose ben più grandi! (Gv 1, 50). Quali sono queste cose più grandi? E' così, vi dico (Gv 1, 51). Per il fatto che quello è un israelita senza inganno, pensa a Giacobbe anche del quale si dice che in lui non c'era inganno e ricorda il fatto cui allude Cristo, la pietra posta sotto il capo, la visione durante il sonno, la scala elevantesi dalla terra al cielo, gli angeli che scendevano e salivano e vedi che cosa dice il Signore all'israelita senza falsità: Vedrete il cielo aperto. Ascolta, Natanaele senza inganno, ciò che vide Giacobbe senza inganno: vedrete il cielo aperto e gli angeli salire e scendere - verso chi? - verso il Figlio dell'uomo (Gv 1, 51). Quella pietra dunque, consacrata con l'olio a capo del giaciglio, era il Figlio dell'uomo, poiché capo della donna è l'uomo, ma capo di ogni uomo è Cristo (1 Cor 11, 3). La Scrittura tuttavia non dice che gli angeli salivano dal Figlio dell'uomo e scendevano verso il Figlio dell'uomo, come se fosse soltanto nell'alto del cielo, ma dice che salivano e scendevano verso il Figlio dell'uomo. Ascolta il Figlio dell'uomo che nel cielo grida: Saulo, Saulo! Ascoltalo che sulla terra grida: Perché mi perseguiti? De trin. 15, 9.15 L'enigma è una allegoria oscura 9. 15. Tutto questo è stato detto per commentare le parole dell'Apostolo che afferma che noi vediamo ora come in uno specchio (1 Cor 13, 12). Le parole seguenti: in enigma, sono incomprensibili a tutti gli illetterati che ignorano le figure della retorica, che i Greci chiamano tropi, parola passata dalla loro lingua nella lingua latina. Come infatti parliamo più correntemente di "schemi" che di "figure", così parliamo più correntemente di "tropi" che di "figure retoriche". Quanto a tradurre in latino i nomi di ogni tropo o figura, in modo che ad ogni parola greca ne corrisponda una latina, è impresa fin troppo difficile e inusitata. Così alcuni dei nostri interpreti, volendo evitare la parola greca, traducono il passo in cui l'Apostolo dice: Queste cose sono dette in senso allegorico (Gal 4, 24), con questa circonlocuzione: "Queste cose significano una cosa per un'altra" (Cf. Ambrosiaster, Comm. in Ep. b. Pauli ad Gal. 4, 24: PL 17, 384). Ora questo genere di tropo, cioè l'allegoria, si suddivide in molte specie, tra le quali si trova anche quella che si chiama "enigma". Ma è necessario che la definizione di un termine generico abbracci tutte le specie. Per questo, come ogni cavallo è animale, ma non ogni animale è cavallo, così ogni enigma è allegoria, ma non ogni allegoria è enigma. Che è dunque un'allegoria se non un tropo in cui si fa intendere una cosa con un'altra, come in quel passo della Lettera ai Tessalonicesi: Dunque non dormiamo come gli altri uomini, ma vigiliamo e siamo sobri. Infatti quelli che dormono, dormono di notte e quelli che si inebriano, si inebriano di notte; ma noi che siamo figli del giorno, siamo sobri (1 Ts 5, 6-8)? Ma questa allegoria non è un enigma. Infatti, eccetto per coloro che sono molto tardi di ingegno, il senso di questa espressione è pienamente evidente. L'enigma invece è, per spiegarlo in breve, un'allegoria oscura (Cf. Quintiliano, Instit. 8, 6, 52), come il passo: La sanguisuga ha tre figlie (Prv 30, 15), ed altri di questo genere. Tuttavia, quando l'Apostolo parla di allegoria, non la individua nelle parole, ma in un fatto, nel fatto in cui mostra che i due figli di Abramo, uno della schiava, l'altro della donna libera (Cf. Gal 4, 22-24) (non si trattava di parole, ma anche di un fatto) devono significare i due Testamenti; questo fatto prima della spiegazione restava oscuro. Perciò una tale allegoria, termine generico, potrebbe essere chiamata enigma, se si usa un termine specifico.

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Enarr, in Ps. 90, 1. 6 Cristo distingue fra peccatore e peccatore. 6. [v 5.] [Come] con uno scudo ti circonderà la sua verità. Ciò che sono le ali è lo scudo, dato che in realtà non si tratta né di ali né di scudo. Se si trattasse realmente di qualcuna di queste cose, come potrebbero le ali essere scudo o lo scudo essere ali? Ma siccome di Dio si possono dire tutte queste cose allegoricamente e in senso figurato, per questo si può dire che è ali ed è scudo. Se Cristo fosse realmente una pietra non sarebbe leone; e se fosse un leone, non sarebbe agnello; mentre è leone (Cf. Ap 5, 5), agnello (Cf. Gv 1, 29), pietra (Cf. At 4, 10-11; Sal 117, 22), vitello e tante altre cose, perché in realtà non è né pietra né leone né agnello né vitello. E' soltanto Gesù Cristo, Salvatore di tutti gli uomini. Gli altri titoli contengono similitudini, non realtà. De gen contra Man 1, 22. 33 Il riposo di Dio al settimo giorno spiegato allegoricamente (Gen 2, 2). 22. 33. Vediamo ormai anche il passo della Scrittura che i manichei di solito scherniscono con un'impudenza maggiore della loro ignoranza, che cioè Dio, dopo aver terminato la creazione del cielo e della terra e di tutte le altre cose che aveva fatte, nel settimo giorno cessò da ogni sua opera e benedisse il settimo giorno e lo consacrò, poiché in esso aveva cessato da tutte le sue opere (Cf. Gn 2, 3). Essi infatti dicono: "Che bisogno aveva Dio di riposarsi? Si era forse affaticato e stancato nel far le opere compiute nei sei giorni?". Aggiungono anche la testimonianza del Signore che dice: Il Padre mio opera fino al presente (Gv 5, 17). Con ciò ingannano molti ignoranti ch'essi si sforzano di convincere che il Nuovo Testamento è contrario all'Antico. Coloro però ai quali il Signore dice: Il Padre mio opera fino al presente, immaginavano il riposo di Dio in modo carnale, e, osservando il sabato in modo carnale, non capivano cosa volesse simboleggiare la realtà indicata da quel giorno; allo stesso modo anche costoro, sebbene con disposizioni d'animo diversa, tuttavia ugualmente come quelli non capiscono il significato simbolico del sabato. Il sabato infatti non l'hanno compreso non solo quelli, osservandolo materialmente, ma altresì costoro detestandolo grossolanamente. Ciascuno dunque deve accostarsi a Cristo perché gli venga rimosso il velo [dagli occhi], come dice l'Apostolo (Cf. 2 Cor 3, 16). Il velo in effetti viene rimosso allorché, tolto via il velame della similitudine e dell'allegoria, si manifesta la verità nella sua schiettezza, perché possa essere vista. De gen contra Man 2, 2. 3 La Genesi non può essere esposta alla lettera in tutti i passi. 2. 3. Se i manichei preferissero esaminare queste espressioni piene di significati misteriosi, non già criticandole ed accusandole, ma cercando di capirle e accogliendole con rispetto, non sarebbero di certo manichei ma, se chiedessero, sarebbe loro dato e, se cercassero, troverebbero, e se bussassero, sarebbe loro aperto (Cf. Mt 7, 7). In effetti, a proposito di questo racconto della Scrittura pongono più quesiti coloro che cercano di sapere con religiosa diligenza che non codesti individui miserabili ed empi, con la differenza però che quelli cercano per trovare, costoro invece si preoccupano solo di non trovare quello che cercano. Tutto questo racconto della Scrittura dev'essere dunque esaminato anzitutto in senso conforme alla storia e in secondo luogo in senso profetico. Secondo la storia vengono narrati dei fatti compiuti, secondo la profezia invece vengono preannunciate delle realtà future. Certo, se uno vorrà intendere alla lettera tutto ciò che dice la Scrittura, ossia non intenderlo diversamente dal significato letterale e potrà evitare bestemmie e affermare ogni cosa conforme alla fede cattolica, non solo non glielo si potrà impedire, ma dovrà essere stimato come una persona eccellente e molto lodevole per la sua capacità di comprendere. Può darsi, al contrario, che non ci sia alcuna possibilità d'intendere le affermazioni della Scrittura in un senso conforme alla fede e in un modo degno di Dio, se non credendole presentate sotto forma simbolica ed enigmatica; in tal caso, poiché abbiamo l'autorità degli Apostoli, dai quali vengono risolti

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tanti enigmi relativi ai libri dell'Antico Testamento, dovremo attenerci alla norma che teniamo davanti alla nostra mente, con l'aiuto di Colui che ci esorta a chiedere, a cercare e a bussare. Potremo in tal modo spiegare tutte queste realtà simboliche riguardanti la storia e la profezia che il Signore si degnerà di rivelare per mezzo mio o per mezzo di altri. Conf. 1, 13. 20 Quale fosse poi la ragione per cui odiavo il greco che mi veniva insegnato da fanciullo, non lo so esattamente nemmeno ora. Invece mi ero appassionato al latino, non già quello insegnato dai maestri dei primi corsi, ma dagli altri, i cosiddetti maestri di grammatica. Le prime nozioni, con cui s'impara a leggere, a scrivere e a computare, mi procuravano noia e pena non minori di quelle che mi procurò in ogni sua parte il greco; ma non era anche questa una conseguenza del peccato e della vanità della vita, per cui ero carne e un soffio passeggero, che non torna (Sal 77. 39)? Quei primi studi, che via via mi mettevano, come mi misero e mi mettono tuttora in grado di leggere se trovo uno scritto, e di scrivere io stesso se voglio scrivere, erano migliori, perché più sicuri, degli altri, ove mi si costringeva a mandare a memoria gli errori di un certo Enea dimenticando i miei propri errori, e a gemere su Didone, morta suicida per amore, mentre io mi lasciavo morire tra queste fole senza di te, Dio, vita mia (Cf. Gv 11. 25; 14. 6), ad occhi asciutti, miserrimo. Conf. 1, 13. 21 C'è in verità cosa più misera di un misero che non commisera se stesso e piange la morte di Didone, che avveniva per amore di Enea, mentre non piange sulla morte propria, che avveniva per non amare te, Dio e lume del mio cuore, pane della interiore della mia anima (Cf. Gv 6. 35, 48, 59), virtù fecondatrice della mia intelligenza, grembo del mio pensiero? Io non amavo te, trescavo lontano da te (Sal 72. 27), e alle mie tresche si applaudiva da ogni parte: "Bravo, bravo" (Sal 34. 21; 39. 16; 69. 4). L'amicizia verso questo mondo è davvero un trescare lontano da te, cui si applaude: "Bravo, bravo", cosicché si ha vergogna a non essere come gli altri. Ebbene, io non piangevo per questo, e piangevo per Didone morta cercando col ferro il giorno estremo (Verg., Aen. 6, 457)…

Passi salienti da altre autori trattati

Dalle Lettere di Paolo:

Rm 5, 14-15

Ma la morte esercitò il suo dominio incontrastato da Adamo a Mosè, anche su coloro che non peccarono, a causa di quella loro affinità con la trasgressione di Adamo, il quale è figura del futuro [typos tou mellontos]. Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno i molti morirono, molto più sovrabbondò la benevolenza di Dio e il dono della benevolenza di un solo uomo, Gesù Cristo, verso i molti.

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Rm 7, 2-6

Infatti la donna sposata, per legge, è legata all’uomo finché questi vive; ma se l’uomo viene a morire, essa rimane sciolta dalla legge che la lega all’uomo. Perciò, se, essendo vivo l’uomo, si dà a un altro uomo, viene dichiarata adultera. Se invece viene a morire l’uomo, è libera dalla legge, in modo da non essere adultera se si dà ad un altro uomo. Così, fratelli miei, anche voi siete stati fatti morire alla legge in forza del corpo di Cristo per essere dati a un altro, a Colui che è risorto da morte perché portiamo frutti degni di Dio. Quando infatti eravamo in balia della carne, le passioni che inducono al peccato, rese efficaci [energeíto] dalla legge, agivano nelle nostre membra facendoci portare frutti degni di morte. Adesso, invece, siamo stati sottratti all’effetto [katargethémen] della legge, morti a quell’elemento di cui eravamo prigionieri, affinché serviamo a Dio nell’ordine nuovo dello Spirito e non in quello vecchio della lettera.

1Cor 1, 17-29

In effetti Cristo mi ha mandato non a battezzare, bensì ad annunciare il vangelo, e questo non con sapienza di parola perché non venga svuotata la croce di Cristo. Infatti la parola della croce è insensatezza per quelli che vanno alla rovina, per quelli invece che sono sulla via della salvezza, per noi, è potenza di Dio. È scritto: distruggerò la sapienza dei sapienti e l’intelligenza degli intelligenti abolirò. Dov’è il sapiente? Dov’è lo scriba? Dove l’indagatore di questo mondo? Dio non ha forse reso insensata la sapienza del mondo? Poiché il mondo per mezzo della sapienza non seppe conoscere Dio nella sua sapienza, piacque a Dio di salvare quelli che credono con l’insensatezza dell’annuncio. I giudei chiedono segni e i greci cercano sapienza. Noi invece proclamiamo Cristo crocifisso per i giudei pietra d’inciampo e per i gentili insensatezza, ma per i chiamati, giudei e greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché l’insensatezza di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini. Guardate alla vostra vocazione, fratelli, non ci sono molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili, eppure proprio ciò che del mondo è insensato, Dio scelse per svergognare i sapienti, ciò che del mondo è debole per svergognare quello che è forte, ciò che del mondo è ignobile e quello che è disprezzato scelse Dio, insomma, quello che non è per mettere fuori gioco quello che è. E questo perché nessun vivente possa vantarsi davanti a Dio.

1Cor 7, 29-32

Questo vi dico, o fratelli: il tempo [o kairos] ha avuto una svolta [sunestaménos = si è abbreviato]; d’ora innanzi quelli che hanno moglie siano come non l’avessero; quelli che piangono, come non piangessero; quelli che si rallegrano, come non si rallegrassero; quelli che comprano come non possedessero; quelli che usano del mondo, come non ne usassero a fondo: perché passa [paragei] la figura [to schema] di questo mondo! Voglio che siate senza preoccupazioni [amerimnous].

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1Cor 9, 9-10

Sta scritto infatti nella legge di Mosè: Non metterai la museruola al bue che trebbia. Forseché Dio si dà pensiero dei buoi? O non parla evidentemente per noi? Certamente fu scritto per noi!

1Cor 10, 6-11

Queste cose accaddero come esempi [typoi] per noi [emon], perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. […] Ora tutte queste cose accaddero a loro in figura [typikos] e sono state scritte per ammonimento nostro, di noi per i quali è giunta la fine dei tempi.

Col 2, 16-17

Pertanto nessuno vi recrimini per cibi, bevande o in materia di festa annuale o di novilunio o di settimane, che sono ombra [skia] delle cose avvenire, mentre la realtà è il corpo del Cristo.

Gal 4, 21-26

Ditemi, voi che volete stare sotto la legge: non ascoltate ciò che dice la legge? È stato scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello avuto dalla schiava è nato secondo la carne, mentre quello avuto dalla donna libera è nato in virtù della promessa. Tali cose sono dette in termini simbolici [allegoroumena]: le due donne sono le due alleanze, una proviene dal monte Sinai, genera i figli per la schiavitù ed è Agar. Ma Agar significa il monte Sinai; questo sta in Arabia e corrisponde alla Gerusalemme di adesso, che difatti si trova in stato di schiavitù con i figli suoi. La Gerusalemme celeste, invece, è libera: essa è la nostra madre.

Fil 2, 5-8

Coltivate in voi questi sentimenti che furono anche in Cristo Gesù: il quale, essendo per natura Dio [en morphé theoù], non stimò un bene irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma annichilò [ekenosen] se stesso prendendo natura di servo [morphen doulou], diventando simile agli uomini; ed essendo quale [schemati euretheis] uomo, si umiliò facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce.

Fil 3, 20-21

Aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà [metaschematisei] il nostro misero corpo per conformarlo [synmorphon] al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose.

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Dal Vangelo secondo Matteo: 12, 38-41: Allora si rivolsero a lui alcuni scrivi e farisei dicendo: «Maestro, vorremmo

vedere da te un segno». Egli rispose loro: «Generazione cattiva e spergiura! Va in cerca di un segno! Ma non le sarà dato altro segno che quello di Giona profeta. Infatti, come Giona rimase nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo rimarrà nel cuore della terra per tre giorni e tre notti. Gli uomini di Ninive insorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno; poiché si convertirono alla predicazione di Giona; eppure c’è qui qualcosa di più di Giona.

Da opere di Tertulliano: Adversus Marcionem 3, 16: E cominciarono a chiamarlo Gesù… e diciamo anzitutto che questa è una prefigurazione del

futuro [figura futurorum]. Poiché infatti Cristo stava per introdurre un nuovo popolo, cioè noi, nati nel deserto di questo mondo nella terra promessa ricca di latte e miele, cioè in possesso della vita eterna di cui nulla è più dolce; e ciò non poteva realizzarsi attraverso Mosè, cioè attraverso la disciplina della legge, ma attraverso Gesù, cioè attraverso la grazia del Vangelo, essendo stati noi circoncisi da un coltello di pietra, cioè dai precetti di Cristo che è pietra; perciò il grande uomo che veniva preparato [parabatur] come figura di questo sacramento, fu consacrato nella realtà del suo corpo col nome del Signore, e fu chiamato Gesù.

Adversus Marcionem 4, 40: Creò il suo corpo dicendo: “questo è il mio corpo, cioè la figura del mio corpo”. Né ci

sarebbe stata una figura se non ci fosse stato un vero corpo: una cosa vuota, un fantasma, non avrebbe potuto concretarsi in figura. Se egli perciò affermo che il pane era il suo corpo perché il suo corpo mancava di realtà egli dovette veramente darci del pane. Dobbiamo perciò concludere, seguendo l’assurdo proposito di Marcione, che il pane andava crocifisso? Ma perché Cristo chiama pane il suo corpo e non, poniamo, mellone, il quale fornisce a Marcione l’immagine del cuore? Sfuggi a costui quanto antica fu questa figura del corpo di Cristo che dice, per bocca di Geremia (11, 19): “Escogitarono espedienti contro di me dicendo: ‘Venite, mettiamo del legno sul suo pane’, cioè la croce sul suo corpo”.

[…] Non era lui che desiderò ardentemente di adempiere la figura del suo sangue redentore, sottomettendosi in silenzio ai suoi persecutori come la pecora alla mano di chi la tonde?

De resurrectione carnis, 19: Né si tratta di ombre soltanto, ma anche di corpi, sicché anche a proposito del signore si

annunciano cose più chiare del giorno. Così la Vergine concepì realmente e non soltanto metaforicamente [figurate] e partorì l’Emanuele, il Signore con noi, Gesù Cristo nella realtà della carne.

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De idololatria 5, 3-4: Ma qualcuno contro l’argomento relativo all’immagine interdetta potrebbe dire: “Perché

Mosè, nel deserto, con il bronzo modellò l’immagine [simulacrum] del serpente?”. Siano considerate a parte le figure che venivano preordinate per una qualche arcana disposizione, non per l’abrogazione della Legge, ma come esempio della loro stessa causa. Del resto, se finissimo col considerare questi fatti come fanno gli avversari della Legge, non arriveremmo anche noi ad ascrivere all’Onnipotente l’incostanza? E non ci comporteremmo, quindi, proprio come i marcioniti, che finiscono col distruggerlo in quanto lo considerano mutevole dal momento che mentre qui vieta là ordina?

Se qualcuno poi finge di non sapere [dissimulat] che quell’immagine [effigem] del serpente di bronzo sospeso in alto non rappresentasse altro che la figura [figuram] della croce del Signore che ci avrebbe liberato dai serpenti, cioè dagli angeli del diavolo, mentre su se stessa tiene sospeso il diavolo, cioè il serpente, oramai ucciso, oppure se una qualche altra spiegazione di questa figura sia stata rivelata ad uomini più degni, giacché l’Apostolo afferma che tutte le cose che allora accaddero al popolo d’Israele sono da interpretarsi figuralmente [figurate], è positivo il fatto che Dio stesso attraverso la legge abbia vietato che l’immagine [similitudinem] fosse rappresentata, ed attraverso un ordine straordinario abbia intimato dal rappresentare l’immagine del serpente.

De idololatria 9, 4-5: Difatti [i magi] offrirono proprio l’incenso, la mirra e finanche l’oro al Signore allora infante

come a sigillo [clausulam] definitivo circa l’azione del sacrificio e della gloria del secolo che Cristo avrebbe tolto [quam Christus erat adempturus]. Pertanto, dunque, senza dubbio il sogno sopraggiunse agli stessi magi secondo la volontà di Dio affinché prendessero sì la loro strada, ma comunque che questa fosse un’altra e non quella via per la quale erano giunti, e cioè che non procedessero secondo la loro dottrina precedente.

De corona 9 1-2: Infatti, quale patriarca, quale profeta, quale levita o sacerdote o capo di sinagoga o,

successivamente, quale apostolo o evangelizzatore o vescovo troviamo coronato? A mio parere, neppure il tempio stesso di Dio si ornò di corone, né l’arca dell’alleanza, né la tenda della testimonianza, né l’altare, né il candelabro: se ciò fosse degno di Dio, esso si sarebbe accordato con loro specialmente sia nella prima solennità della dedicazione del tempio sia nella seconda festosa cerimonia di rendimento di grazie per la sua ricostruzione.

Orbene, se queste cose furono prefigurazioni di noi stessi [figurae nostrae] – noi infatti siamo sia templi di Dio, sia altari, sia lampade, sia vasi –, allora esse annunciavano in chiave prefigurativa anche ciò, che gli uomini di Dio non devono portare la corona. All’immagine dovrà corrispondere la realtà [imagini veritas respondere debebit]. Se, forse, obietti che Cristo stesso portò la corona, a ciò ti risponderà per il momento con poche parole: “Fatti coronare anche tu in quel modo: è lecito”. De corona 14, 3: Ma colui che è il capo dell’uomo e il volto della donna, lo sposo della Chiesa, Cristo Gesù, a

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che specie di ghirlanda, ti chiedo, si piegò a vantaggio dell’uno e dell’altro sesso? A una di spine, credo, e di triboli come prefigurazione dei peccati [in figuram delictorum] che per noi la terra della carne ha prodotto e che invece la potenza della croce ha distrutto, smussando ogni pungiglione della morte grazie alla capacità di sopportazione che ebbe il capo del Signore.

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Lezioni seminariali a cura del dott. Angelo Tumminelli

2 e 9 dicembre 2016 – aula II – dipartimento di Filosofia

Verità e figura: l’estetica di Agostino nel pensiero di Hans Urs von Balthasar

Piano di lavoro:

I parte – I fondamenti filosofici della teologia di Balthasar: verità (Wahrheit) e figura (Gestalt);

II parte – Per un’estetica teologica. Oltre la teologia estetica e la disestetizzazione;

III parte – L’Agostino di Balthasar fra gli stili ecclesiastici;

IV parte – L’estetica agostiniana nel Novecento: Przywara, Scheler e D. von Hildebrand.

Testi citati:

1) La parola iniziale si chiama bellezza

«La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del falso e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinare con sé una vendetta misteriosa».

(H.U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica, La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971, p. 10)

2) La vera figura

«Se la bellezza diventa una forma che non può considerarsi identica all’essere, allo spirito e alla libertà, allora siamo ripiombati in un’epoca dell’estetismo e i realisti hanno ragione da vendere contro la bellezza. Essi demoliscono ciò che è stato già svuotato, ma non sono in grado di trovare un surrogato alla forza dell’essere che si esprime nella posizione della forma. Nella misura in cui però la forma è vera, cioè viva ed operante, allora essa è un corpo animato dallo spirito che detta e impone a questo il significato e la legge di unità. Il piano della forma che si manifesta si trascende interiormente, ma non si trascende in misura tale e così visibilmente che lo spirito non la permei immanendo e, irraggiando, non si manifesti sempre attraverso essa».

(Ibidem, p. 14)

«Solo ciò che ha forma può trasportare e rapire nell’estasi: solo attraverso la forma può guizzare il lampo della bellezza eterna. Si dà il momento in cui la luce prorompente, lo spirito zampillante, irradiano la forma esteriore – e dalla maniera e dalla misura in cui ciò avviene, dipende se è bellezza sensibile o spirituale, grazia o dignità -, ma senza la forma l’uomo non può essere afferrato e rapito».

(Ibidem, p. 23)

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3) Manifestazione e splendore nel bello

«La forma che si manifesta è bella solo in quanto la compiacenza che essa suscita si fonda sull’automanifestazione e sull’autodonazione della verità e bontà profonde della realtà stessa la quale rivela così, in questo dono e manifestazione di sé, l’inesauribilità e l’infinità del suo fascino e del suo valore. L’apparizione, come rivelazione della profondità è indissolubilmente e allo stesso tempo presenza reale della profondità, del tutto e, rimanendo reale, al di là di se stessa, a questa profondità. È possibile che, nelle diverse epoche della storia dello spirito, si sottolinei una volta il primo ed un’altra volta il secondo aspetto, una volta il compimento classico (della forma che afferra la profondità) ed un’altra volta l’infinità romantica (della forma che trascende verso la profondità. Sia l’uno che l’altra sono tuttavia inseparabili ed assieme costituiscono la figura fondamentale dell’essere. Noi scorgiamo la forma, ma quando la scorgiamo realmente non solo come forma disciolta, bensì come profondità che si manifesta in essa, allora la vediamo come splendore e gloria dell’essere. Guardando questa profondità veniamo incantati da essa e in essa rapiti, ma (fin quando si tratta del bello) giammai in modo tale da lasciare dietro di noi la forma (orizzontale) per immergerci (verticalmente) nella nuda profondità».

(Ibidem, p. 104)

4) L’entusiasmo cristiano

«Poiché Dio opera effettivamente ciò che fa apparire nel segno; poiché nella sua economia salvifica, la metafisica platonico-idealistica dell’immagine e la metafisica aristotelico-realistica della causa e del fine si incontrano realmente ad un livella più alto, perciò è anche e sempre impossibile interpretare e considerare, in maniera che non sia incompleta, l’eros cristiano e la bellezza cristiana solo a partire da una pura tradizione platonica. L’entusiasmo inerente alla fede cristiana non è puramente idealistico, ma è un entusiasmo originato dall’essere effettivo, realistico e perciò ad esso adeguato. Per questo motivo la parola di Dio richiama continuamente alla verità e alla sobrietà il falso entusiasmo, sospeso nelle illusioni prolettiche estetico-idealistiche. Ma in misura non minore la parola di Dio richiama continuamente dalla profanità della vita nel mondo all’esistenza spirituale (…)».

(Ibidem, p. 108)

5) Svelamento e nascondimento di Dio

«Grazie all’apparizione di Dio, alla gloria inafferrabile e degna di Dio che in questa apparizione si fa a noi presente, è possibile leggere e accedere alla bellezza e alla gloria proprie di Dio; non già identificando semplicemente la bellezza e la gloria di Dio con quelle della sua apparizione (…) e nemmeno tentando di raggiungerle mediante una pura deduzione causale che tuttavia, mentre conclude, esclude dalla bellezza nella quale Dio appare; ma tentando piuttosto di compiere il nostro excessus a Dio in un theologia negativa tale, che non si separi mai dalla base della theologia positiva: dum visibiliter Deum

cognoscimus».

(Ibidem, p. 109)

«Ciò che vi è di incomprensibile in Dio non proviene più da una semplice carenza di sapere, ma è una determinazione divina positiva della conoscenza di fede. Si tratta cioè della inafferrabilità sovrana e soggiogante del fatto che Dio ci ha amato tanto da dare per noi il suo unico Figlio, per cui il Dio della pienezza si è annichilito non solo nella creazione, ma anche nella modalità dell’esistenza determinata dal peccato, votata alla morte e lontana da

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Dio. Questo è il velamento che si manifesta nell’autosvelamento, l’inafferrabilità di Dio divenuta afferrabile nell’afferrabile. Si faccia attenzione al fatto che questo carattere di Dio, mostrantesi come incomprensibile nel suo rivelarsi, appartiene all’evidenza oggettiva della forma della rivelazione e non è perciò derivato in primo luogo dall’oscurità della fede terrena. Questo carattere non sarà quindi perduto nemmeno nella visione di Dio faccia a faccia. Anzi proprio allora, la sempre maggiore incomprensibilità di Dio in ogni comprensione, perverrà alla sua massima espressione. Sarebbe ridicolo ed un’offesa grave ad ogni esperienza religiosa di Dio, qualora si volesse interpretare la visio facialis come una comprehensio (katàlepsis) nel senso della scienza mondana o anche della filosofia. L’assioma si comprehendis non est Deus vale sia in cielo che in terra, con il solo cambiamento della spes in res. Significa proprio questo, vedere Dio sicuti est. Ed è qui che si fonda la visione della kenosi storico-salvifica di Dio, che noi consideriamo alla luce della gloria di Dio. Ma proprio in questa luce la kenosi ci apparirà come ciò che essa in realtà è: non come autoalienazione di Dio, nel senso che Dio, che è in sé comprensibile, farebbe qualcosa di incomprensibile e diverrebbe quindi incomprensibile (o viceversa), ma come la manifestazione condizionata dal peccato del mondo del Dio incomprensibile in se stesso, nel suo amore per il mondo».

(Ibidem, pp. 429 – 430).