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FABRIZIO DAL PASSO, Il Mediterraneo dei Lumi. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni PREMESSA

I

PREMESSA

Lo studio delle cause e dello sviluppo della Rivoluzione corsa (1729-1769) è stato, per lungo tempo, un vero e proprio problema storico1. Agli occhi di alcuni contemporanei2, la sollevazione contro la Repubblica di Genova appariva come un’usurpazione dell’idea di sovranità, un affronto all’inviolabile diritto degli Stati sovrani di amministrare e governare i propri possedimenti3. Al tempo stesso la rivoluzione aveva aperto dei dibattiti culturali in Francia, in Inghilterra, in Italia ed in buona parte degli Stati europei, riscotendo le simpatie e gli appoggi dell’intellettualità illuminista (tra cui Rousseau, Boswell, Alfieri, Goethe)4. La “Questione Corsa” divenne un problema per motivi che andavano ben oltre alla semplice insofferenza di un paese-colonia verso la madrepatria. Genova e l’Europa non avevano di fronte a sé una banale jacquerie, né un gruppo di notabili assetati di cariche politiche: dopo secoli di guerre dettate dai contrasti religiosi, dal calcolo diplomatico o dalla ragione di Stato, un popolo chiedeva apertamente l’indipendenza ed un autonomo spazio d’azione economica. La Rivoluzione corsa racchiude in sé le cause, i problemi e le questioni presenti in maniera paradigmatica nelle grandi sollevazioni della fine del XVIII secolo: crisi politica dell’Ancien Régime5, vessazione fiscale, lotta tra nobiltà e borghesia6, lotta tra borghesia urbana e classi rurali7, giurisdizionalismo8, protezionismo economico9, partecipazione popolare10. L’isola rappresentava una sorta di “piccolo laboratorio politico” di ciò che sarebbe accaduto, su scala più vasta e con altri esiti, nel resto del continente. Rousseau vide nell’autogoverno corso la rappresentazione concreta delle teorie esposte nel Contrat Social, mentre Boswell e molti altri illuministi inglesi assimilarono la struttura amministrativa impressa da Paoli al governo liberale britannico11. La stessa varietà di impressioni si ritrova nel giudizio degli storici: Paoli è stato considerato come l’unico, vero despota illuminato12 del XVIII secolo, o come il capo del primo governo democratico dell’età moderna13. Si potrebbe continuare all’infinito nell’elencazione delle impressioni dei contemporanei sugli avvenimenti corsi, ma quel che più conta, in questo caso, è capirne i principi, le cause del successo e della sconfitta, avvenuta nel 1769 con la battaglia di Pontenovo e l’annessione dell’isola alla Francia. La maggior parte degli storici ha affrontato lo studio della Rivoluzione corsa limitando il raggio temporaneo delle vicende isolane alla “Guerra dei Quaranta anni” (1729-1769), evitando non soltanto i centocinquanta anni di pianificazione economica genovese (dalla pace di Cateau-Cambrésis, in poi), ma anche gli ottanta anni di francesizzazione dell’isola14. Non si potrebbero, invece, comprendere le linee di fondo della Rivoluzione corsa senza queste due grandi ali portanti, spezzate inequivocabilmente da Napoleone e dall’appoggio dato dai Bonaparte ai clan isolani. D’altro lato, senza un approccio metodologico di lungo periodo, qualsiasi studio della realtà corsa in età moderna e contemporanea risulterebbe sminuito, parziale. Non si comprenderebbe, ad esempio, l’influenza dell’economia e della politica genovese sull’isola senza l’analisi dei dati raccolti nei Cahiers de doléances alla vigilia della Rivoluzione francese, né si comprenderebbe perché l’isola, dopo trent’anni di dominazione francese, sia passata d’emblée alla costituzione di un Regno Anglo-Corso sotto la reggenza di Sir Thomas Elliott e della Monarchia inglese (1794-1796). Se, come hanno sottolineato molti storici francesi del secondo dopoguerra, la Corsica nel 1769 fosse semplicemente “tornata” alla Francia con la maggiore o minore connivenza del notabilato locale, non si comprenderebbe il successo di Paoli al suo rientro nell’isola nel 1789, o l’ascesa di Bonaparte come “capoclan”, oppure ancora l’opposizione dei corsi all’amministrazione francese, reiterata fino al 1848, con la permanenza di fenomeni come la vendetta ed il banditismo15. Questo studio era partito, inizialmente, dall’analisi delle fonti archivistiche relative al governo di Pasquale Paoli durante il suo generalato (1755-1769). L’intenzione era di comprendere se la gestione politica-amministrativa del Generale potesse essere assimilata ad un autentico sistema democratico. L’interpretazione di alcuni fenomeni politici, amministrativi ed economici rilevati dai documenti reperiti agli archivi di Genova, Ajaccio e Parigi e la compresenza di fenomeni di autogoverno democratico nelle zone centrali e montane dell’isola davano adito ad interpretazioni divergenti e contrastanti. Le fonti sembravano parlare di tre realtà eterogenee. Le stesse fonti bibliografiche possono essere ricondotte a tre posizioni principali: a) la visione nazionalista della Rivoluzione corsa come semplice spostamento dell’asse politico isolano nell’orbita francese. Si tratta di una visione storiografica tendente ad assimilare lo sviluppo della Rivoluzione corsa e della Rivoluzione francese, come se i due avvenimenti facessero parte di un unico processo storico. Questa interpretazione tende anche ad esaltare la connessione tra la Corsica e la Francia, come se fosse esistito da sempre un sentimento di appoggio fraterno tra l’isola e la Monarchia francese. Anche il nazionalismo corso, secondo questa lettura, avrebbe trovato la risposta più confacente nella volontà di potere e nell’operato di Napoleone. Si tratta dell’interpretazione della maggioranza della storiografia francese degli ultimi trent’anni16. Un altro filone della stessa corrente storiografica ha caratterizzato, al contrario, la Corsica come una regione italiana caduta nelle mani dello straniero; si tratta, in breve, della lettura irredentista della rivoluzione e della storia corse, tipica della storiografia italiana del periodo fascista17. b) La visione mitica dell’operato di Pasquale Paoli all’interno dell’isola, terminato con l’annessione francese a causa della debolezza del suo governo. Si tratta di un’interpretazione storica tendente ad esaltare l’attività del generale corso, sottolineandone i meriti nella gestione amministrativa dello Stato. In questo senso, il giudizio positivo sulla Costituzione paolina e sul sistema democratico isolano viene esaltato rispetto alla volontà di conquista della Francia e

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II

delle altre potenze europee. L’isola appare come la vittima dei soprusi e delle mire espansionistiche degli altri Stati, mentre il sistema democratico e comunitario corso costituirebbe una sorta di “democrazia diretta naturale”. Si tratta di un’interpretazione difesa soprattutto dalla storiografia corsa ed anglosassone18. c) La visione dispotica della Rivoluzione corsa. L’attività di Paoli nell’isola è assimilata a quella di un despota illuminato, capace di portare avanti delle riforme concrete, dall’alto, con scarso intervento della società e delle masse popolari. Si tratta di una visione storiografica tendente a sminuire l’operato di Paoli ed a ridimensionare l’idea di coscienza nazionale dei corsi, sottolineandone le incongruenze e le forzature. Questa interpretazione, caratteristica della storiografia francese più recente19, presenta dei punti di contatto con l’analisi svolta da Franco Venturi. Tutte e tre le visioni della Rivoluzione corsa risultano inevitabilmente parziali: manca una visione d’insieme degli avvenimenti e delle realtà sociali. Per superare l’impasse interpretativa, la ricerca è stata ampliata lungo le direttive economiche e sociali: le diverse interpretazioni, oltre a riflettere l’identità di diversi ambienti culturali, derivano dall’esistenza di una complessità che è difficile ricollegare in unità. In questo lavoro ci si propone di cogliere, attraverso una lettura a più piani, legata sia agli avvenimenti, sia alla storia di lungo periodo, le sfumature e le continuità della storia isolana, cercando di comprendere le origini e le tendenze della rivoluzione ma anche l’identità popolare, le aspettative sociali, le realtà economiche, culturali ed antropologiche di un’isola costantemente limitata ai suoi orizzonti da presenze scomode, da vicini potenti e, in tempi più vicini, da Stati nazionali spesso in guerra tra loro. Si è cercato di evidenziare non soltanto gli elementi di novità della Costituzione paolina nell’ambito della filosofia del diritto europea, ma anche i suoi limiti intrinseci, derivati dal “patto di stabilità” ideato e promosso da Paoli per far fronte alle lotte tra i clan della zona meridionale ed i notabili dell’Alta Corsica. La stessa azione politica di Paoli sembra oscillare tra l’appoggio alla popolazione agricola e pastorale per un’equa ridistribuzione delle imposte e delle terre demaniali e la fiducia accordata all’alto notabilato per l’occupazione dei ruoli dirigenziali nel nuovo Stato. La vicenda rivoluzionaria è stata anche confrontata con l’analisi dei numerosi “testi giustificativi” della Rivoluzione corsa, spesso anonimi, che contribuirono alla diffusione di un acceso dibattito sul diritto dei popoli al distacco o all’eliminazione del potere sovrano in caso di palese ed estremo malgoverno. In questo senso, i documenti forniti dall’Archivio Segreto Vaticano si sono rivelati quanto mai utili e preziosi per la comprensione delle rivendicazioni della nobiltà isolana, decimata dall’amministrazione genovese e rinverdita dall’amministrazione francese. A queste ricerche parallele sulla realtà politica, giuridica ed amministrativa della Corsica settecentesca, si unisce uno studio più approfondito sulla struttura sociale ed economica dell’isola in età moderna (dal XVII al XIX secolo), realizzata grazie allo spoglio delle fonti conservate all’Archivio di Stato di Genova, all’Archivio di Stato di Roma, all’Archives dèpartementales de la Corse du Sud (Ajaccio), dell’Haute Corse (Bastia) ed all’Archives Nationales di Parigi. L’analisi delle fonti ha permesso di delineare la realtà sociale dell’isola nel passaggio tra la dominazione genovese e quella francese, grazie soprattutto ai contributi forniti dal Plan Terrier e dalle Tabelles de la Corse20: si è cercato di ridisegnare in maniera chiara la fisionomia segmentata dell’isola, con zone a prevalenza pastorale (legate alla comunione dei beni, all’amministrazione democratica ed alla gestione plurifamiliare degli strumenti di produzione), zone a prevalenza agricola (legate alla proprietà individuale, all’amministrazione mezzadrile dei beni ed alla gestione familiare nucleare degli strumenti di produzione) e zone a prevalenza demaniale (legate ai grandi latifondi, alla proprietà notabilare ed alla forte fiscalità). Questi contributi dell’amministrazione francese evidenziano la condizione economica e sociale degli abitanti della Corsica in maniera puntuale, anche se, spesso, limitatamente a regioni specifiche dell’isola. Oltre alle fonti archivistiche e bibliografiche, si è cercato di osservare la situazione antropologico-sociale dei corsi in età moderna con i contributi forniti da alcune Croniche dell’epoca, tra cui quella di Giovanni della Grossa, di Ceccaldi, di Filippini, di Boswell e, non ultima, quella di Simeon de Buochberg, soldato svizzero trapiantato in Corsica nel periodo rivoluzionario21. Questi documenti sono stati utilissimi per la comprensione di alcune tendenze di fondo della società isolana, tra cui l’estrema parcellizzazione della proprietà, la struttura familiare e la lotta tra la “segmentazione egualitaria” (presente fin dall’età medievale) e la “segmentazione clanica” (sviluppatasi durante la fase rivoluzionaria), che tanto hanno contribuito allo svolgimento (e al fallimento) della rivoluzione indipendentista e delle successive vicende dell’isola sotto l’amministrazione francese. Si è cercato di riportare integralmente anche un cospicuo numero di documenti d’archivio, per permettere non soltanto un confronto ragionato e dialettico con l’analisi svolta grazie al loro contributo, ma anche, e soprattutto, per permettere la nascita di eventuali approfondimenti delle tematiche esaminate. Un’ultima considerazione riguarda la bibliografia, che, per ragioni di spazio, è stata ridotta ai testi di esclusiva pertinenza alla storia corsa; la consultazione dei volumi della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II, della Biblioteca Apostolica Vaticana, della Biblioteca Alessandrina e della Biblioteca dell’École Française di Roma, della Biblioteca della Franciscorsa di Bastia e, soprattutto, della Bibliothéque Nationale François Mitterrand di Parigi è stata estremamente utile e preziosa per il completamento di questo studio. 29 settembre 2005 Fabrizio Dal Passo

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III

NOTE BIBLIOGRAFICHE

1 Tra le numerose monografie sulla rivoluzione indipendentista corsa del XVIII secolo, si segnalano: a) Per un approccio politico: FONTANA M., La constitution du généralat de Pascal Paoli en Corse (1755-1769), Thèse de doctorat en Droit, Paris 1907; DEDECK-HERY E., J.-J. Rousseau et le projet de constitution pour la Corse, pourparlers de J.-J. Rousseau avec ses correspondants corses et des répercussions de ces pourparlers dans le monde des Lettres, Philadelphia 1932; DALZETO S., Genova e Corsica dinanzi alla storia, «Archivio storico di Corsica», 1 (1936), in francese: La Corse et Gênes devant l’histoire, étude de critique historique, Paris 1950; ALBITRECCIA A., La Corse dans l’histoire, Lyon 1939; DEFRANCESCHI P., Mussolini vaut la Corse!, Paris 1940; ID., Histoire de la Corse, Paris 1947; ALZONNE C., Les Corses, des origines à 1954, Paris 1955; PALMER R.R., The Age of Democratic Revolution, London 1959; POMPONI F., Essai sur les notables ruraux en Corse, Aix-en-Provence 1961; VERGÉ-FRANCESCHI M., Histoire de la Corse, Paris 1966; EMMANUELLI R., Précis d’Histoire Corse, Ajaccio 1970; ETTORI F., La révolution de Corse (1729-1769), in Histoire de la Corse, Toulouse 1971; AUDIBERT P., Raccourci des histoires parallèles de la Corse et de la Sardaigne, Avignon 1972; POMPONI F., Émeutes populaires en Corse: Aux origines de l’insurrection contre la domination génoise (décembre 1729-juillet 1731), «Annales du Midi», t. 84, 107 (1972); POMPONI F., Gênes et la domestication des classes dirigeantes au temps de Sampiero, «Études corses», 1 (1973); ANTONETTI P., Histoire de la Corse, Paris 1974; BARTOLI M., Pascal Paoli, Père de la Patrie corse, Paris 19742 (ed. originale del 1866); BORDES M., La Corse, pays d’état, «Annales historiques de la Révolution française», 218 (1974); DELORS J.-P. e MURACCIOLES

S., Corse. La poudrière, Paris 1978; VINCENTELLI M., Evénements survenus après la Révolution corse de 1729, Marseille 1983; GREGORY D., The ungovernable rock: a history of the Anglo Corsican kingdom and its role in Britain’s Mediterranean strategy during the revolutionary war, 1793-1797, Cambridge 1985; VENTURI F., Settecento riformatore, vol. V*, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino 1987; DA PASSANO P., Histoire de l’annexion de la Corse, prefazione di François Léotard, Le Coteau Roanne 1990; PAOLI J. M., Les Paoli et les tentatives d’indépendance de la Corse au Siècle des Lumières, «Histoire et Sociétés», 57 (1995); FERRANDI J.F., La Corse dans le miroir sarde, Paris 1999. b) Per un approccio socio-economico: VUILLIER G., Les Îles oubliées: les Baléares, la Corse et la Sardaigne, Paris 1893; GARELLI P., Les institutions démocratiques de la Corse jusqu’à la conquête française, Thèse de doctorat en Droit, Paris 1905; TOMMASI C., L’Administration de la Corse sous la domination génoise, 1300-1768, Paris 1912; AMBROSI A., Histoire des Corses et de leur civilisation, Bastia 1914; ALBITRECCIA A., Le Plan terrier de la Corse au XVIIIe siècle, Paris 1942; AMBROSI CH., La Corse insurgée et la seconde intervention française au XVIII siècle (1743-1753), Grenoble 1950; EMMANUELLI P., Recherches sur la Terra di Comune. Documents sur les aspects de la vie administrative privée et économique des unités communautaires en Corse aux XVIe, XVIIe et XVIIIe siècles, thèse de droit, Aix-en-Provence 1958; GAI J.B., La tragique aventure des Corses, Paris 1967; GREGORI J., Nouvelle Histoire de la Corse, Paris 1967; ACTES DU COLLOQUE D’AJACCIO Problèmes d’histoire de la Corse de l’Ancien Régime à 1815, «Société des Études robespierristes - Société d’histoire Moderne», Paris 1971 (rist. 1983); ROVERE A., La Corse au temps de Pascal Paoli, «B.S.S.H.N.C.», 96 (1976); ROVERE A., Peuple corse, Révolution et Nation Française, Paris 1979; CASANOVA A., Révolution féodale, pensée paysanne et caractères originaux de l’histoire sociale de la Corse, «Études corses», 15 (1980); DRESSLER-HOLOHAN W., Commune, communauté et nationalisme en Corse, «Peuples Méditerranéens», 18 (1982); ROBIQUET F., Recherches historiques et statistiques sur la Corse, Paris 1983 (1ère édition 1835); BOUTIER J., Note sur les sociétés populaires en Corse (1790-1794), «Annales historiques de la Révolution française», 268 (1987); GIL J., La Corse entre liberté et terreur, Paris 1991; MEISTERSHEIM A., Territoire et insularité, le cas de la Corse, Paris 1991; CARATINI R., Histoire du peuple corse, Paris 1995; GRAZIANI A., La Corse génoise: économie, société, culture: période moderne, 1453-1768, Ajaccio 1997; U PARTITU PER L’INDIPENDENZA, Projet de Constitution pour une Corse Indépendante, Corte 1998; LEFEVRE M., Géopolitique de la Corse. Le modèle républicain en question, Paris 2000. c) Per un approccio culturale: FRIESS C., Histoire de la Corse depuis les temps les plus reculés jusqu’à nos jours, Bastia 1852; GIROLAMI-CORTONA F., Histoire de la Corse, Marseille 1971 (ed. originale: 1906); BIANCAMARIA J.T., La Corse, dans sa gloire, ses luttes et ses souffrances, Paris 1963; VERGÉ-FRANCESCHI M., Histoire de la Corse cit.; ARRIGHI P., La Vie quotidienne en Corse au XVIIIe siècle, Paris 1970; EMMANUELLI R. “Disinganno”, “Giustificazione” et philosophie des Lumières, «Études corses», 2 (1974); BORDINI C., Rivoluzione corsa e Illuminismo italiano, Roma 1979; ARRIGHI P. (a cura di), Histoire de la Corse, Toulouse 19863; YVIA-CROCE H., Corse et Sardaigne entre réformisme et révolution, «Études corses», 30-31 (1988); YVIA-CROCE H., Quarante ans de gloire et de misère, Ajaccio 1996; BERNABEU-CASANOVA E., Le nationalisme corse. Genèse, succès et échec, Paris 1997. 2 Per un confronto con i testi contemporanei alla rivoluzione vedi: BOSWELL J., L’île de Corse. Journal d’un voyage, Paris 1991 (1ère éd. 1768). Per quel che riguarda le ripercussioni della guerra d’indipendenza corsa in Europa, ci limitiamo a ricordare, per la sua importanza, il Projet de constitution pour la Corse di ROUSSEAU J.-J., in ID., Œuvres complètes, tome III, Paris 1964. Sui progetti costituzionali si vedano: NATALI G.M., Disinganno intorno alla guerra di Corsica di Curzio Tulliano, Colonia 1739; SALVINI G., Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa da’ corsi di non sottomettersi mai più al dominio di Genova, Oletta 1758; GIUSTINIANI P.M., Riflessioni intorno ad un libro intitolato Giustificazione della rivoluzione di Corsica, e della ferma risoluzione presa da’ corsi di non sottomettersi più al dominio di Genova, Oletta 1760; GUELFUCCI B., Memoria apologetica sull’ultima rivoluzione dell’Isola di Corsica, s.l., 1760; SALVINI G., Giustificazione della rivoluzione di Corsica combattuta dalle riflessioni di un Genovese e difesa dalle osservazioni di un Corso, Corti e Campoloro 1764; CAMBIAGI G., Istoria del regno di Corsica, Firenze 1770-1772, 4 voll.; GERMANES A., Histoire des révolutions de Corse, Paris 1771-1776, 3 volumi; POMMEREUL F.R., Histoire de l’isle de Corse, Berne 1779, 2 voll.; BARRERE C., Rapport sur les domaines nationaux de l’île de Corse fait au nom du comité des domaines, Assemblée Nationale; Archives Nationales, Parigi, Serie AP, n. 58 (1790 circa); BUTTAFUOCO A., Fragments pour servir à l’histoire de Corse de 1764 à 1769, Bastia 1859; YVIA-CROCE H., Anthologie des écrivains corses, Ajaccio 1931; DEDECK-HERY E., Jean Jacques Rousseau et le Projet de Constitution pour la Corse cit.; YVIA-CROCE H., Panorama de la presse corse aux XVIIIe et XIXe siècles (1762-1852), «Corse Historique», 23-24 (1966); ETTORI F., Jean-Jacques Rousseau et la Constitution de la Corse: la tentation du législateur, thèse, Université d’Aix-en-Provence 1976; CARAFFA M. V. DE, Mémoires historiques sur la Corse par un officier du régiment de Picardie (1774-1777), Marseille 1978; BOUDARD R., La Nation corse et sa lutte pour la liberté, d’après la correspondance des agents français à Gênes et en Corse avec la cour de Versailles, Marseille 1979; VINCENTELLI M., Récit de la révolution corse: recueil de documents secrets d’Etat, Paris 1981; VERARD, La Corse o résumé des divers écrits relatifs à cette île et à ses habitants depuis leur origine jusqu’à la fin de 1815, tome I, Précis historique, des origines à 1790, Ajaccio 1999; RICOTTI

C. R., Il costituzionalismo britannico nel Mediterraneo (1794-1818), Roma 2005. La ripercussione della vicenda dell’isola presso i contemporanei in Italia è spesso affidata a brani di opere, di epistolari, ad articoli di riviste, ampiamente documentati da BORDINI C., Rivoluzione corsa ed Illuminismo italiano cit. e da VENTURI F., Il dibattito francese e britannico sulla rivoluzione di Corsica, «Rivista storica italiana», LXXXVI (1974), IV; ID., Pasquale Paoli e la rivoluzione di Corsica, ibid.; ID., Il dibattito in Italia sulla rivoluzione di Corsica, ivi, LXXXVIII (1976), I; ID., Settecento Riformatore, vol. V*, La rivoluzione di Corsica. le grandi carestie degli anni Sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino 1987. Tra le poche opere organiche sulla Corsica di Pasquale Paoli vedi: DALMAZZO VASCO F., Suite du Contrat Social (1764-1765), in ID., Opere, a cura di ROTA GHIBAUDI S., Torino 1965; CAMINER D., Saggio storico del Regno di Corsica, Venezia 1768; MAGNANIMA L., Lettere italiane sopra la Corsica in rapporto allo spirito di legislazione che dovrebbe animare quel Regno per renderlo felice, Lausanna (ma Livorno) 1770; BECCATTINI F., L’amore in Corsica, Bastia 1780. 3 Per l’appoggio, e la successiva ostilità dei fratelli Verri, vedi il Carteggio di Pietro ed Alessandro Verri, Milano 1923, vol. II. Cfr. anche le opinioni di ROSSI A., Della Monarchia – libro dell’Avvocato Antonio Rossi napoletano, Napoli 1779 e di TANUCCI B., Lettere a Ferdinando Galiani, con

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introduzione e note di NICOLINI F., Bari 1914. 4 Inizialmente, come occasione immediata, la rivoluzione era nata come rifiuto della tassa sulle armi da fuoco, cfr. ANTONETTI P., Histoire de la Corse, Paris 1990, p. 69. 5 Questa impressione emerge dalla sintesi di ETTORI F., nel capitolo IX (La paix génoise) dell’Histoire de la Corse, Toulouse 1979. Per un’analisi approfondita della dominazione genovese in Corsica, vd. GRAZIANI A.M., La Corse génoise: économie, société, culture: période moderne, 1453-1768, Ajaccio 1997 ed ID., Domaines coloniaux, industrie sécuritaire et système fiscal en Corse à la fin du XVIe siècle, «Mélanges de l’École française de Rome», 103 (1991/1992); per uno studio specifico sulla struttura dei beni fondiari genovesi in Corsica vedi POMPONI F., Essai sur les notables ruraux en Corse, Aix-en-Provence 1961; ID., Gênes et la domestication des classes dirigeantes au temps de Sampiero, «Études corses», 1 (1973); ID., Émeutes populaires en Corse: aux origines de l’insurrection contre la domination génoise (décembre 1729-juillet 1731), «Annales du Midi», 107 (1972). Sempre a cura dello stesso autore: Les cahiers de doléances des Corses de 1730, «B.S.S.H.N.C.», 610 (1974); ID., La politique agraire de la République de Gênes en Corse (1570-1730), in Atti del Congresso Interregionale di studi storici, Genova 1976; ID., Rapporti Genova-Mediterraneo-Atlantico nell’età moderna, Genova 1976, pp. 82-111; ID., Histoire de la Corse, Paris 1979; ID., Le Mémorial des Corses, Ajaccio 1981. Vedi anche: TOMMASI C., L’Administration de la Corse sous la domination génoise, 1300-1768, Paris 1912; CANCELLIERI J.A., Formes rurales de la colonisation génoise en Corse au XIIIe siècle: un essai de typologie, «Mélanges de l’École française de Rome», ristampato in «Moyen Âge-Temps modernes», 93 (1981); ID., Toponymie et topographie de la Corse médiévale: un programme d’enquête pour l’archéologie extensive, «École française de Rome - Casa Velasquez», Rome-Madrid, 1988; ID., Homines et Populus Corsicae, Précisions sur la “Commune de Corse”, Gênes et la dédition de 1358, in ID., 1388, la dédition de Nice à la Savoie, Paris 1990. Interessante lo studio di EMMANUELLI P., L’implantation génoise, in Histoire de la Corse, a cura ARRIGHI P., POMPONI F., Ajaccio 2001; per un approccio dettagliato sull’amministrazione del Banco di San Giorgio cfr. HEERS J., Gênes au XVe siècle. Civilisation méditerranéenne, grand capitalisme et capitalisme populaire, Paris 1971. Per un’analisi delle fonti cronachistiche vedi ROCCATAGLIATA A. (storiografo ufficiale della Repubblica di Genova nel 1581), Bellum Cyrnicum (trad. francese dell’abate LETTERON), «B.S.S.H.N.C.», 78-79 (1887); LETTERON L., Histoire de la Corse comprenant la description de cette île d’après Agostino Giustiniani, les Chroniques de Giovanni della Grossa et de Monteggiani remaniées par Ceccaldi, la Chronique de Ceccaldi et la Chronique de Filippini, trad. française, Bastia 1889; MARIN PH., Gênes et la Corse après le traité de Cateau-Cambrésis, «B.S.S.H.N.C.», 334-336, 340-342, 346-348, 364-366, 367-369 (1911-1916); ID., La mort de Sampiero, ivi, 370-372 (1917); ID., Après la mort de Sampiero, ivi, 393-396 (1919). Per la storiografia italiana sulla dominazione genovese in Corsica si segnalano: PETTI BALBI G., Genova e Corsica nel Trecento, Roma 1976; GIACCHERO G., Economia e società del Settecento genovese, Genova 1981; ROTA M.P., L’apparato portuale della Corsica «genovese»: una struttura in movimento, in Il sistema portuale della Repubblica di Genova, Genova 1989, pp. 297-328; ID., Il bosco come manufatto: il caso della Corsica, Genova 1989. Per un confronto con la Francia d’Ancien Régime e con la Francia rivoluzionaria vedi: LEFEBVRE G., La Révolution française et les paysans, Paris 1933 (seconda edizione in Études sur la Révolution française, Paris 1954); ID., Les paysans du Nord pendant la Révolution française, Paris 1924 (seconda ed. Paris 1972); SOBOUL A., Les campagnes montpelliéraines à la fin de l’Ancien Régime, Paris 1958; LEFEBVRE G., Le deuxième servage en Europe centrale et orientale, «Recherches Internationales à la lumière du marxisme (n. spécial)», 63 (1970); SOBOUL A., La civilisation et la Révolution française, Tome 1: La crise de l’Ancien Régime, Paris 1970; Tome 2: La Révolution française, Paris 1982; Tome 3: La France Napoléonienne, Paris 1983; VOVELLE M., Ville et campagne au XVIIIe siècle, Paris 1980; ID., De la cave au grenier, Québec 1980; SOBOUL A., Comprendre la Révolution, Paris 1981; ID., La Révolution française (Nuova edizione rivista ed aggiornata), Paris 1982; VOVELLE M., La découverte de la politique-géopolitique de la Révolution française, Paris 1992. 6 Utile la sintesi di GIACCHERO G., Storia economica del Settecento genovese, Genova 1951; per un confronto tra i vari Paesi europei nel Settecento, vd. HABBAKUK H.J., Histoire économique et sociale du monde, a cura di LEON P., Tome V: Inerties et Révolutions, 1780-1840, Paris 1978; per un confronto dettagliato tra la Corsica e le altre regioni francesi vedi LABROUSSE C.-E., Esquisse du mouvement des prix et des revenus en France au XVIIIe siècle, Paris 1933, 2 voll.; ID., La crise de l’économie française à la fin de l’Ancien Régime et au début de la Révolution, Paris 1944; ID., Les paysans français des physiocrates à nos jours, Paris 1961; LEMARCHAND G., La fin du féodalisme dans le pays de Caux: conjoncture économique et démographique et structure sociale dans une région de grande culture. De la crise du XVIIe siècle à la stabilisation de la Révolution (1640-1795), Paris 1989; LEFEVRE M., La dérive de la Corse, une dérive économique, sociale, civique, «Hérodote» 80 (1996). 7 Per un confronto europeo sul passaggio dall’Ancien Régime all’economia borghese vedi: SERENI A., Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1972; VALSECCHI F., L’Italia nel Settecento, Milano 1975; GIORGETTI G., Capitalismo e agricoltura in Italia, Roma 1977. Per la Francia vedi LE

ROY LADURIE E., Révoltes et contestations rurales en France de 1675 à 1788, «Annales des écoles supérieures du commerce», 29 (1974); ed ID., Histoire de la France rurale, tomo II: L’âge classique des paysans de 1340 à 1789, Paris 1975, pp. 554-575; GINDIN C., La rente foncière en France de l’Ancien Régime à L’Empire, «Annales historiques de la Révolution Française», 247 (1982), pp. 1-34. Per un confronto con i processi delle signorie dell’Europa danubiana, centrale ed orientale, cfr. GINDIN C., Le deuxième servage en Europe centrale et orientale, «Recherches internationales», 63-64 (1970). Per un confronto del latifondismo italiano e francese con quello europeo in età contemporanea (ma con ampi riferimenti alle radici storiche del fenomeno), vedi MORINEAU M., Y a-t-il eu une révolution agricole au XVIIIe siècle?, «Revue historique», 542 (1968); GODECHOT J., Introduction aux actes du Colloque sur l’abolition de la féodalité dans le monde occidental, «Annales historiques de la Révolution française», 196 (1969); MORINEAU M., Les faux-semblants d’un démarrage économique: agriculture et démographie en France au XVIIIe siècle, Paris 1970; GODECHOT J., Histoire de l’Italie moderne (1770-1870), Paris 1972; MAZZEGA D., MUSITELLI J., L’organisation régionale en Italie, Paris 1980; MORINEAU M., Mouvements populaires et conscience sociale, Paris 1985; MORINEAU M., Résistances à la Révolution, in Actes du Colloque de Rennes, raccolti e presentati da LEBRUN F. e DUPUY R., Paris 1987 (già in Studi di Storia agraria italiana, «Rivista storica italiana», n. speciale, 1964); GAY F., WAGRET P., L’économie de l’Italie, Paris 1990. 8 Sulla Chiesa in Corsica ed il giurisdizionalismo vedi DE LA FOATA P., Recherches et notes diverses sur l’histoire de l’église de Corse, «B.S.S.H.N.C.», 1894; JEMOLO A.C., Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Torino 1914; CASANOVA A., Historie de l’eglise corse, Ajaccio 1931; PASTOR (VON) L., Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, voll. XV e XVI, Roma 1933-34; FONZI F., Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di Clemente XIII, «Annuario dell’istituto italiano per l’età moderna e contemporanea», VIII (1957); LABARRE DE

RAILLICOURT, Les comtes du Pape en France, Paris 1965-1967, 4 voll; BORDINI C., Rivoluzione corsa e Illuminismo italiano cit. Per le fonti archivistiche, oltre a quelle citate all’interno del volume, vedi Archivio Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, serie Corsica, fascicoli 8 e 9 ed Archivio di Stato di Roma, fondo Congregazione degli Spogli, buste 132 e 133; fondo Camerlengato, parte I, busta n. 47 (1816-1823) I. affari esteri, “disposizioni e regolamenti, fogli 6 e 7, nota dei consoli pontifici nei paesi europei, Genova. 9 Per un’analisi dettagliata della struttura economica isolana, si rimanda ai capitoli 7 - Il sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791) ed 8 –Corsica e Rivoluzione francese: i Cahiers des doléances (1787-1789); cfr. anche CASANOVA A., Révolution féodale, pensée paysanne et caractères originaux de l’histoire sociale de la Corse, «Études corses», 15 (1980); POMPONI F., Économie et société en Corse sous la domination génoise (1560-1730), Aix-en-Provence 1962; DRESSLER-HOLOHAN W., Développement économique et mouvement autonomiste: le cas de la Corse, Grenoble 1977-1981, 2 voll.; AA.VV., Corse. Écologie. Économie. Art. Littérature. Langue. Histoire. Traditions populaires, Paris 1979; GIACCHERO G., Economia e società del Settecento genovese, Genova 1981; CRUSOL P., HEIN P., VELLAS F., L’enjeu des petites économies insulaires, Paris 1987 (studio sull’economia insulare del Mediterraneo in età moderna); MATTEI BURGARELLA M. N., L’économie insulaire, Thèse d’Etat, 1995; GRAZIANI A.M., La Corse génoise: économie, société, culture: période moderne, 1453-1768, Ajaccio 1997. Per un confronto con la Sardegna, vedi Dossier spécial Sardaigne, Sicile, Corse et Baléares, INSEE - Les Dossiers d’Economie Corse, 39 (1987); PROCACCI G., Profilo

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storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai piani di rinascita, Milano 1991. La migliore sintesi sull’argomento resta, a mio avviso, quella di ETTORI F., nel IX capitolo dell’Histoire de Corse, Toulouse 1971. È utile, comunque, consultare anche i seguenti articoli dello stesso autore: Emphytéotes et fermiers du domaine public au XVIIe siècle, «Études corses», 9 (1956) ed ID., La mise en valeur agricole de la Corse au XVIIe siècle, ivi, 15-16 (1957). Vedi Anche SPINOSI F., Essai sur l’économie rurale corse aux XVIIe et XVIIIe siècles, Aix-en-Provence 1960 (Tesi di dottorato in diritto con un’utilissima bibliografia). 10 Sulla partecipazione popolare e contadina ai moti rivoluzionari vedi: LEFEBVRE G., Les paysans du Nord pendant la Révolution française, Paris 1924 (réédition Paris 1972); ID., La Révolution française et les paysans, Paris 1933 (seconda edizione in Études sur la Révolution française, Paris 1954); SOBOUL A., Les campagnes montpelliéraines à la fin de l’Ancien Régime, Paris 1958; LEFEBVRE G., Le deuxième servage en Europe centrale et orientale, «Recherches Internationales à la lumière du marxisme» (n. spécial), 63 (1970); SOBOUL A., La civilisation et la Révolution française, Tome 1: La crise de l’Ancien Régime, Paris 1970; Tome 2: La Révolution française, Paris 1982; Tome 3: La France Napoléonienne, Paris 1983; VOVELLE M., De la cave au grenier, Québec 1980; ID., Ville et campagne au XVIIIe siècle (Chartres et la Beauce), Paris 1980; SOBOUL A., Comprendre la Révolution, Paris 1981; ID., La Révolution française (Nuova edizione rivista ed aggiornata), Paris 1982; ID., La découverte de la politique-géopolitique de la Révolution française, Paris 1992. 11 «In Europa c’è ancora un paese capace di legislazione; è l’isola di Corsica. Il valore e la costanza con cui questo popolo valoroso ha saputo ricuperare e difendere la sua libertà, meriterebbero proprio che qualche uomo saggio gli insegnasse a conservarla. Ho il presentimento che un giorno questa piccola isola meraviglierà l’Europa» (ROUSSEAU J.-J., Contrat Social, in ID., Œuvres complètes, tome III, Paris 1964, libro II, capitolo X, p. 385, mia la traduzione). Il confronto con la prima versione del Contrat, ibid., pp. 281 sgg. lascia pensare che le parole sulla Corsica siano state scritte tra il 1760 e il 1761; vd. anche ROUSSEAU J.-J., Projet de constitution pour la Corse, in ID., Œuvres complètes, tome III, Paris 1964; BOSWELL J., L’île de Corse. Journal d’un voyage, Paris 1991 (1ère édition 1768). 12 È, fondamentalmente, la tesi di Franco Venturi; cfr., ad es., Settecento Riformatore, vol. V*, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino 1987, ed inoltre ID., Pasquale Paoli e la rivoluzione di Corsica cit.; ID., Il dibattito francese e britannico sulla rivoluzione di Corsica cit.; ID., Il dibattito in Italia sulla rivoluzione di Corsica cit. Utile anche un confronto con il recente testo di VERGÉ-FRANCESCHI M., Paoli un corse des Lumières, Paris 2005. 13 È la tesi da anni difesa da CARRINGTON D., Pascal Paoli et sa “constitution” (1755-1769), «B.S.S.N.H.C.» 1976; si tratta di un’argomentazione già sostenuta da DEDECK-HERY E., J.-J. Rousseau et le projet de constitution pour la Corse cit; anche ETTORI F., in Jean-Jacques Rousseau et la Constitution de la Corse: la tentation du législateur, thèse, Université d’Aix-en-Provence 1976, ha dibattuto sull’amministrazione democratica del governo paolino durante la Rivoluzione corsa. 14 Si devono, fondamentalmente, agli studi di Antoine Casanova la rivalutazione e l’analisi del periodo della storia corsa successivo all’annessione francese; vd. CASANOVA A., Peuple corse, Révolution et Nation Française, Paris 1979 e ID., ROVERE A., La Révolution française en Corse, Toulouse 1989. 15 Per l’analisi del sistema clanico corso e della necessità della “vendetta”, vedi: SANGUINETTI A., Les clans, la fraude et la violence en Corse, «Les Temps Modernes», Octobre 1981; BOURDE P., En Corse, l’esprit de clan, les mœurs politiques, les vendettas, le banditisme, con Introduzione di RAVIS-GIORDANI G., Marseille 1983; LENCLUD G., De bas en haut, de haut en bas. Le système des clans en Corse, «Études rurales», 101-102 (janvier-juin 1986). 16 Cfr. ALBITRECCIA A., La Corse dans l’histoire, Lyon 1939; FRANCESCHI P.P., Mussolini vaut la Corse!, Paris 1940; ALBITRECCIA A., Histoire de la Corse, Paris 1947; ALZONNE C., Les Corses, des origines à 1954, Paris 1955; EMMANUELLI R., Précis d’Histoire Corse, Ajaccio 1970; ACTES DU

COLLOQUE D’AJACCIO. Problèmes d’histoire de la Corse de l’Ancien Régime à 1815, Paris 1971 (rist. 1983); ETTORI F., La révolution de Corse (1729-1769), in Histoire de la Corse, Tolosa 1971; ANTONETTI P., Histoire de la Corse, Paris 1974; DELORS J.-P. e MURACCIOLES S., Corse. La poudrière, Paris 1978; CASANOVA A., ROVERE A., Peuple corse Révolution et Nation Française, Paris 1979; DA PASSANO P., Histoire de l’annexion de la Corse, prefazione di LEOTARD F., Le Coteau Roanne 1990; FERRANDI J.F., La Corse dans le miroir sarde, Paris 1999. 17 Per gli studi italiani del periodo fascista vedi: VOLPE G., Corsica, Milano 1927; RAVENNA L., Pasquale Paoli, Firenze 1938; ROTA E., Pasquale Paoli, Torino 1941. Ampia documentazione è contenuta inoltre nell’«Archivio Storico di Corsica» (1924-1942). Vedi, in particolare: PALADINO G., Per la storia delle relazioni tra la Corsica e Napoli nel secolo XVIII, «Archivio Storico di Corsica», III (1927); MATURI W., La Corsica nei carteggi del Tanucci, del Galiani e del Caracciolo, ibid.; CORRADO P., Corsica e Santa Sede, ivi, IV (1928); SPADONI D., L’isola iniziatrice del risveglio italico, ivi, V (1929); NATALI G., Pasquale Paoli nella letteratura italiana del Settecento, ivi, XII (1936); SPADONI D., Gli amici toscani di Pasquale Paoli, ivi, XVI (1940). Vedi anche PELLEGRINI S., La Corsica e i Savoia nel secolo XVIII, «Nuova rivista storica», 8 (1924). Per la storiografia italiana più recente sulla Rivoluzione corsa, vedi, invece: FRONTE REGIONALISTA CORSO, Man bassa su un’isola, Milano 1973; CORI B. - DA POZZO C. – RIDOLFI R., Le relazioni della Corsica con il continente. Studio geografico, Pisa 1974; BERGAMASCHI G., Pasquale Paoli e la battaglia di Pontenovo, Firenze 1978; CORI B., La Corsica e i suoi problemi attuali, Firenze 1978; BORDINI C., Rivoluzione corsa e illuminismo italiano cit.; VIGNOLI G., L’irredentismo italiano in Corsica durante la II guerra mondiale, Rapallo 1981; ACQUAVIVA S., La Corsica. Storia di un genocidio, Milano 1982; SAINT-BLANCAT C. (a cura di), La Corsica. Identità etnico-linguistica e sviluppo, Padova 1993; MARIANI BIAGINI P. (a cura di), La Costituzione del Regno di Corsica del 1794. Testo, concordanze, indici, Firenze 1994. 18 Cfr. BARTOLI P., Pascal Paoli, Père de la Patrie corse, Paris 1974 (edizione originale del 1866); CARRINGTON D., This Corsica: a complete guide, London 1962; BIANCAMARIA J.T., La Corse, dans sa gloire, ses luttes et ses souffrances, Paris 1963; ARRIGHI P., La Vie quotidienne en Corse au XVIIIe siècle, Paris 1970; CARRINGTON D., Granite Island. A portrait of Corsica, London 1971; BORDES M., La Corse, pays d’état, «Annales historiques de la Révolution française» 218 (1974); CARRINGTON D., La Corse, Paris 1980; CARRINGTON D., Sources de l’Histoire de la Corse au Public Record Office de Londres, Ajaccio 1983; AA.VV., Histoire de la Corse, Toulouse 1986; CARRINGTON D., The Dream Hunters of Corsica, London 1995; BERNABEU-CASANOVA E., Le nationalisme corse. Genèse, succès et échec, Paris 1997; CARRINGTON D., Napoleon and His Parents, London 1998. Vedi anche l’opera colletiva di CARRINGTON, DENIS-LARA, CITRAN, GLADIEU, GAUTHIER, LOPUE, GHISONI, Le bicentenaire et ces îles que l’on dit françaises, Bastia 1989. Utili anche gli studi di GARELLI P., Les institutions démocratiques de la Corse cit.; FONTANA M,., La constitution du généralat de Pascal Paoli en Corse (1755-1769) cit.; DEDECK-HERY E., J.-J. Rousseau et le projet de constitution pour la Corse cit.; EMMANUELLI P., Recherches sur la Terra di Commune. Documents sur les aspects de la vie administrative privée et économique des unités communautaires en Corse aux XVIe, XVIIe et XVIIIe siècles, thèse de droit, Aix-en-Provence 1958; PALMER R.R., The Age of Democratic Revolution, London 1959; POMPONI F., Essai sur les notables ruraux en Corse, Aix-en-Provence 1961; AUDIBERT P., Raccourci des histoires parallèles de la Corse et de la Sardaigne, Avignon 1972; GAI J.B., La tragique aventure des Corses, Paris 1967; GREGORY D., The ungovernable rock: a history of the Anglo Corsican kingdom and its role in Britain’s Mediterranean strategy during the revolutionary war, 1793-1797, Cambridge 1985; DA

PASSANO P., Histoire de l’annexion de la Corse, Le Coteau Roanne 1990; GIL J., La Corse entre liberté et terreur, Paris 1991; PAOLI J.M., Les Paoli et les tentatives d’indépendance de la Corse au Siècle des lumières, «Histoire et Sociétés», 57 (mai-juin 1995). 19 Cfr. VENTURI F., Settecento Riformatore, vol. V*, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme, Torino 1987, ed inoltre ID., Pasquale Paoli e la rivoluzione di Corsica cit.; ID., Il dibattito francese e britannico sulla rivoluzione di Corsica cit.; ID., Il dibattito in Italia sulla rivoluzione di Corsica cit. Ed ancora: CASANOVA A. Révolution féodale, pensée paysanne et caractères originaux de l’histoire sociale de la Corse, «Études corses», 15 (1980); DRESSLER-HOLOHAN W., Commune, communauté et nationalisme en Corse, «Peuples Méditerranéens», 18 (1982). 20 Il progetto più spettacolare dei francesi, subito dopo la conquista dell’isola, è senza dubbio il Plan Terrier, notificato con un editto dell’aprile 1770

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«per l’organizzazione delle terre di dominio del Re e per la creazione di una camera dei domini in Corsica». Per una presentazione di insieme del Plan Terrier, cfr. ALBITRECCIA A., Le Plan terrier de la Corse au XVIIIe siècle, Paris, 1942. Per l’analisi dei dati forniti dal Plan, consulta le fonti conservate in Serie C, Plan terrier de La Corse, volume I, Description générale et détaillée de l’île, état présent, article troisième, Paris, Arch. Nat. - Microfiches Plan Terrier. 21 Vedi LETTERON, Histoire de la Corse comprenant la description de cette île d’après Agostino Giustiniani, les Chroniques de Giovanni della Grossa et de Monteggiani remaniées par Ceccaldi, la Chronique de Ceccaldi et la Chronique de Filippini, trad. française, «B.S.S.H.N.C.», 1888-1889, 3 voll.

AVVERTENZA

Si precisa sin da ora che le fonti considerate più importanti ai fini del presente studio sono citate dalle edizioni in lingua, ma tradotte in italiano per facilitarne la lettura.

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FABRIZIO DAL PASSO, Il Mediterraneo dei Lumi. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni CAPITOLO 1 – Il secolo genovese (1559-1729)

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CAPITOLO 1

IL SECOLO GENOVESE (1559-1729) § 1. Il secolo di ferro Tra la ribellione di Sampiero di Bastelica (1553-1559) e la grande rivoluzione, iniziata nel 1729, la Corsica attraversa circa centosessant’anni di pace. Fino a pochi anni fa si parlava di questo periodo come del “secolo di ferro”, riprendendo un’espressione dello storico Jacobi1. Attualmente, per reazione, gli studiosi di storia corsa tendono a riabilitare l’amministrazione genovese ed a mettere in rilievo lo sviluppo dell’agricoltura, la prosperità, il progresso intellettuale, artistico e morale dell’isola, l’ingrandimento delle città, l’ordine e la sicurezza. Il primo atto ufficiale dopo il passaggio dell’isola dal Banco di San Giorgio2 alla Repubblica di Genova nel 1562 disciplinava la distribuzione politico-giurisdizionale del paese. Le pievi costituirono la base della divisione amministrativa3 (66 in tutto, di cui 45 per il Diquà, 21 per il Dilà), raggruppate in dieci Province, in modo da favorire l’integrazione tra zone storicamente e geograficamente separate: Bastia, Capo Corso, Aleria, Corte, Calvi, Balagna, Ajaccio, Vico, Sartena, Bonifacio. Le province erano amministrate dal Governatore in persona o da alcuni Commissari, specialmente nelle città a forte predominanza ligure, oppure ancora da Luogotenenti. Si trattava, evidentemente, di un sistema semplice che, pur rispettando la struttura tradizionale, regionalista ed autonomista dell’isola, introduceva una centralizzazione, necessaria in seguito all’aumento demografico e conforme all’evoluzione generale degli Stati europei dell’età moderna. Si trattava, chiaramente, anche di un sistema gerarchico, incentrato sul principio della sussidiarietà del potere che, partendo dalla cellula iniziale (il villaggio o la parrocchia), si estendeva alle competenze di un organismo più ampio.

Figura 1: Stemma della Repubblica di Genova.

1 JACOBI J.-M., Histoire générale de la Corse avec une introduction contenant un aperçu topographique et statistique de l’île, Paris 1835, p. 7; ripreso anche da AMBROSI A., Histoire des Corses et de leur civilisation, chap. IX, Bastia 1914. 2 Nel 1453, Genova affidò la Corsica ad una banca genovese ricca e potente (con un proprio esercito): il Banco di San Giorgio. Il Banco si impegnò ad amministrare l’isola, a difenderla, a far regnare l’ordine e la giustizia nel rispetto degli usi e dei costumi dei suoi abitanti. In realtà, iniziò uno sfruttamento indiscriminato: dopo grandi disordini, Genova assunse direttamente l’amministrazione dell’isola nel 1562. Alla fine del XVI secolo l’ingiustizia ed il disordine opprimevano la Corsica: Sampiero di Bastelica, aiutato dalle truppe del Re di Francia Enrico II, si impossessò di Bastia, di Corte, di Ajaccio e di Calvi. Con il trattato di Cateau-Cambrésis, nell’aprile del 1559, la Francia restituì la Corsica ai genovesi. Da Marsiglia, Sampiero preparava l’insurrezione generale contro i genovesi, ma la rivolta fallì; decise di proseguire la lotta con proprie truppe: sconfisse i genovesi a Vescovato e Porto Vecchio nel 1564 e diventò presto il padrone dell’isola. Ma, nel 1567, durante un combattimento vicino a Cavru, cadde in un’imboscata e venne ucciso. La sua testa venne esposta per tre giorni dai genovesi sulla piazza di Ajaccio. Tra il 1569 ed il 1729, Genova esercitò sulla Corsica un dominio assoluto. 3 Espressione con cui vengono indicate delle estensioni territoriali accomunate da una certa omogeneità economica, sociale e storica, corrispondenti agli attuali cantoni. Esse costituivano, da tempo immemorabile, la base della struttura amministrativa isolana. Con le espressioni Diquadamonti (o Terra di Comune o Cismonte) e Diladamonti (o Terra dei Signori o Pumonte) o, più spesso, Diquà e Dilà si indicano, rispettivamente, le due zone geograficamente delimitate dell’isola: il Diquàdamonti è compreso tra Calvi, Bastia, Aleria e Corte, nella zona centrale e settentrionale dell’isola (attuale Dipartimento de la Haute Corse) ed il Diladamonti tra Bonifacio, Ajaccio e Porto-Vecchio, nella zona meridionale dell’isola (attuale Dipartimento de la Corse-du-Sud).

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Figura 2: la Corsica in una mappa di I. Vogt del 1735 in cui è ben visibile la suddivisione in Diquadamonti e Diladamonti dell’isola. Le campagne I corsi, apparentemente, sembravano governarsi da soli. Ogni parrocchia eleggeva i propri rappresentanti: il Podestà, il Ragioniere, i due Padri di comune. L’elezione annuale si svolgeva a suffragio diretto maschile e femminile obbligatorio. Ma questo esempio di democrazia diretta risultava inevitabilmente corrotto dalla restrizione della categoria degli eleggibili alla sola classe dei notabili e, soprattutto, da una limitazione dei poteri reali dei magistrati. Il Podestà aveva sia le funzioni di giudice di pace, che di commissario di polizia ed esattore delle tasse, ma i suoi compiti erano prettamente consultivi, senza un reale potere decisionale: al di là del diritto di porto d’armi, dell’esenzione dalla taglia, e della percezione di emolumenti in natura (un sacco di grano a famiglia), non aveva influenza in materia giuridica o fiscale. Le città Le città ricevettero un regime speciale, basato sulla rappresentatività. Il Consiglio Municipale (Magnifica Comunità), di numero variabile, delegava il potere ad alcuni Anziani, eletti ogni sei mesi, che si spartivano i settori più importanti della vita cittadina: mercati, polizia, viabilità, ecc… In questo caso gli statuti ed i privilegi accordati da Genova venivano rispettati a rigore, anche perché le città erano, in tutto o in parte, delle comunità liguri unite alla madrepatria da legami di sangue o da interessi economici4. Questo era evidente soprattutto a Calvi e Bonifacio semper fideles, garantite da franchigie ed esenzioni, mentre Bastia ed Ajaccio erano sorvegliate con occhio più attento: la loro autonomia amministrativa era limitata dal potere discrezionale del Governatore. La Regione Su scala regionale, la difesa degli interessi isolani era confidata, come nel passato, ai Nobili Dodici. I loro poteri, ristabiliti alla fine della guerra di Corsica (1553-1559), con piccole modifiche, erano molto limitati. I Dodici o Diciotto (in seguito all’aggiunta di sei membri per il Dilà) dovevano rappresentare le richieste dei loro mandanti attraverso l’elezione interna di due Oratori residenti a Genova; ogni mese, a rotazione, uno dei membri assumeva la carica di Consigliere del Governatore (con migliore retribuzione e maggiore influenza sulle direttive generali della politica isolana). Se si eccettua la competenza giudiziaria, si trattava di una carica puramente onorifica e consultiva: anche in

4 Per uno studio critico degli Statuti corsi dal XVI secolo vedi FONTANA J., Essai sur l’histoire du droit privé en Corse, Paris 1905; LETTERON, Statuts et privilèges accordés à Bastia de 1484 à 1648, «Bulletin de la Société des Sciences Historiques et Naturelles de la Corse» (d’ora in poi «B.S.S.H.N.C.»), 59-60-61 (1885-86); GREGORI G.C., Statuti civili e criminali di Corsica, Lyon 1843. Per un’analisi delle fonti archivistiche cfr. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, fondo Civile Governatore, Statuti Civili di Corsica. La maggior parte delle deliberazioni e delle ordinanze del Re Luigi XV, raccolte nel Code Corse, riprende gli Statuti civili e criminali della Corsica genovese: alcune copie del Code Corse sono conservate a Parigi nella Bibliothéque Nationale François Mitterrand; l’originale, a stampa, è scritto sia in francese che in italiano; cfr. CODE

CORSE. Recueil des écrits et déclarations publiés dans l’île depuis sa soumission à l’obéissance du Roy, Paris 1778-1791 (13 volumi).

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materia giudiziaria, il potere degli Oratori si esercitava nella revisione dei processi criminali, riservata ai Syndici genovesi. Il Governatore Il Regno di Corsica era sottoposto all’autorità del Governatore. Autorità che annullava o rendeva inefficaci, su scala più ampia, le decisioni o le velleità delle comunità. Il Governatore doveva essere obbligatoriamente genovese, eletto da genovesi e nobile come i suoi elettori. Nominato per diciotto mesi (a partire dal 1572, dopo la revisione degli Statuti), in seguito per due anni, era responsabile del suo operato, alla fine dell’incarico, solo nei confronti delle autorità supreme dello Stato: il Doge, il Gran Consiglio e l’Ufficio di Corsica, fondato dopo la guerra del 1553-1559 per rilevare le competenze del Banco di San Giorgio. Il Governatore aveva diritto, oltre al trattamento economico della Repubblica ed ai numerosi vantaggi in natura che riceveva dall’isola, una percentuale non indifferente (25%) di tutte le ammende inflitte dai suoi subordinati: un vero e proprio incitamento alla severità nell’esercizio della giustizia. Si trattava quindi di una funzione molto ambita, con delle sicure garanzie di redditività (a partire dal 1608, al Governatore uscente venne interdetta l’assunzione di altre cariche per un periodo di almeno dieci anni). Il suo potere era quasi assoluto: giudice supremo nei processi civili e criminali, poteva condannare a qualsiasi tipo di pena, compresa la morte, senza l’intervento del Consiglio di Genova, relegare o espellere dall’isola donne, figli e parenti più stretti del condannato; poteva, in ambito civile, ordinare che si facesse un’istruttoria sommaria di una causa ordinaria, avocare a sé tutte le cause civili e penali pendenti nelle altre giurisdizioni e, in ultimo, discutere in appello tutte le sentenze ricevute dal giudice del Regno. Aveva inoltre il potere di sospendere i giudizi dopo averne avvisato il Magistrato di Corsica a Genova, che gli assicurava, senza dubbio, una certa docilità. Questi poteri erano lasciati al libero arbitrio di una sola persona, secondo il principio dell’ex informata conscientia, cioè della “convinzione intima”: la sentenza di un processo poteva essere pronunciata dal Governatore con l’assenza di prove formali del delitto o del crimine. Questa procedura era applicata non solo alle pene minori (frusta, gogna, corda), ma anche ai delitti maggiori (condanna alla galera o all’esilio). Inevitabilmente la critica dei corsi al sistema giudiziario genovese avrebbe costituito una delle accuse più forti al potere della Repubblica. L’unica forma di controllo al potere del Governatore era l’approvazione del Senato della Repubblica per la pubblicazione degli editti, il rispetto formale degli Statuti di Corsica e la relazione dell’operato, alla fine della carica, davanti ai Sindici di Genova. Gli Statuti ed il “Syndicato” Approvati nel dicembre 1571 ed entrati in vigore nel gennaio 1572, gli Statuti erano tenuti in gran considerazione dai corsi. Essi avevano la prerogativa di mantenere l’uguaglianza giuridica davanti alle tasse e di contenere gli aumenti del gettito fiscale entro un limite rimasto invariato per lungo tempo, lasciando, inoltre, una certa autonomia gestionale alle comunità rurali. È importante notare, a questo riguardo, che gli Statuti rimasero in vigore anche dopo la conquista francese del 1769, nonostante le frequenti critiche all’amministrazione genovese portate avanti dagli spiriti più elevati della borghesia e dell’aristocrazia corsa. Nell’esercizio della giurisdizione diretta, ovvero nel calcolo dell’imponibile delle tasse e nella fissazione dei canoni in natura, il Governatore doveva comunque prendere l’avviso dei Dodici e dei Sei; era, inoltre, tenuto a rispettare le prerogative dei feudatari del Capo e del Sud, che avevano salvaguardato il diritto di pubblicare i loro statuti. Infine, i poteri giudiziari del Governatore trovavano anche un limite nel diritto ecclesiastico, specie nelle cinque Corti di Bastia, Aleria, Ajaccio, Nebbio e Sagona5. L’ultima barriera, almeno teorica, alzata contro l’arbitrio del Governatore era il Syndicato, sorta di tribunale supremo con funzioni diverse. Innanzitutto, e non è una limitazione, l’organismo non era affatto permanente: si riuniva al massimo un centinaio di giorni all’anno. In secondo luogo affrontava solamente cause minori: offese o abusi di potere di funzionari subalterni, ispezione delle prigioni e delle fortezze, delitti verso l’ordine pubblico, pianificazioni finanziarie, amministrative o giudiziarie. Bisogna inoltre sottolineare che il sistema giudiziario si accompagnava alla quasi totale venalità delle cariche. La Repubblica aveva sempre sottovalutato le funeste conseguenze di questo avvilimento della giustizia: il sospetto giustificato dei corsi davanti ai giudici corrotti ed impotenti della Dominante favorì l’estensione della vendetta6. Con il passare del tempo, il Syndicato, a maggioranza corsa, rappresentò effettivamente una specie di “difensore estremo” degli isolani: sei membri per il Diquà e sei per il Dilà, ai quali furono aggiunti due genovesi per ciascuna zona. Ma, per un sottile artificio giuridico, questa preponderanza corsa era ridotta ad una semplice parità, dato che le voci dei Sindici genovesi avevano un peso maggiore di quello dei colleghi corsi. Oltretutto, anche in caso di uguaglianza dei pareri, Genova poteva sopprimere la rappresentanza corsa per «eccessivo zelo». Il potere giudiziario apparteneva soltanto alla parte più elevata della scala sociale; nei feudi si concentrava nelle mani dei feudatari e dei loro fedeli (il luogotenente assistito dagli sbirri), ma accadeva lo stesso anche nelle comunità: il potere giudiziario, anche se elettivo, era riservato in sostanza ai notabili, mentre nelle giurisdizioni regionali il potere giudiziario era depositato nelle mani dei nobili: si trattava di un

5 CASTA F.J., Évêques et curés corses dans la tradition pastorale du Concile de Trente (1570-1620), Ajaccio 1965; ID., La Diocèse d’Ajaccio, Beauchesne, Paris 1974; BARDET J.-P., MOTTE C., Paroisses et communes de France, Corse, Paris 1993. 6 Il sistema repressivo della vendetta era appannaggio esclusivo del potere centrale genovese che, in caso di omicidi tra famiglie, inviava i suoi Commissari di campagna, assistiti da un plotone di soldati e di sbirri: «…essi installavano il loro quartiere generale nel paese, alloggiavano i loro uomini dai parenti dell’omicida, inviavano delle spedizioni, procedevano alle inchieste sul posto», cit. da BUSQUET J., Le droit de la vendetta e les paci corses, Paris 1994 (1a ed. 1920).

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sistema atto ad impedire ogni forma di dissenso nei confronti dell’amministrazione genovese7. Si delinea, così, quel carattere di sfruttamento coloniale cinicamente ostentato e senza scrupoli tanto in odio ai corsi; è chiaro che non tutti i genovesi arrivati in Corsica erano, in linea di principio, degli sfruttatori senza ritegno, ma è altrettanto vero che Genova spediva in Corsica come ufficiali subalterni gli aristocratici decaduti, desiderosi di nuovi blasoni e di nuove ricchezze, che consideravano l’isola, già povera, come una terra di sfruttamento. Le armi La disobbedienza alle direttive della Serenissima era comunque abbastanza frequente: le forze dell’ordine erano insufficienti e poco incisive. Nelle città i genovesi riuscivano a far rispettare la legge con difficoltà. Nelle comunità dell’interno la situazione era già diversa: i grossi borghi riuscivano ad assicurare l’ordine pubblico autonomamente, malgrado le proteste dell’autorità centrale, che vedeva in questi atti delle iniziative pericolose. I villaggi delle montagne, isolati per natura dal clima e dall’assenza di strade, erano il rifugio di tutti coloro che sfuggivano ai giudizi: La macchia si popolava continuamente di condannati in contumacia, determinati a difendersi fino alla morte. I traditori, incoraggiati e ricompensati da Genova, controllavano a vista tutti i sentieri: la cattura condannava il fuggiasco all’impiccagione o alla galera. Obbedire alla giustizia era facile solo in città: qui regnava l’ordine, difeso da mercenari stranieri (svizzeri, tedeschi) o italiani (genovesi e toscani) che, comunque, non superavano mai le centoventi unità (Bastia, sede centrale del potere, arrivava a malapena a questa cifra). Nel resto dell’isola, nonostante la presenza intermittente di soldati o di scorte incaricate di proteggere gli agenti del fisco, la disobbedienza era totale. La tradizione nazionale, l’abitudine secolare alla lotta contro le diverse forme di potere, la passione per le armi da fuoco, concorsero a sviluppare una forma di insubordinazione cronica contro la quale Genova lottava senza sosta. Sicuramente da questa lotta emergeva la volontà di far regnare la calma e rispettare la legge; eppure certe misure, in sé lodevoli e benefiche, si scontravano con la mentalità isolana ed erano interpretate come dei soprusi o delle privazioni di libertà. È il caso della norma che puniva con la galera la detenzione di armi: misura vessatoria, esorbitante ed inefficace, dato che poteva essere aggirata con la presentazione di una domanda e il pagamento di una tassa8. Le imposte I corsi subivano pesantemente le imposte della Dominante. Forse quello che più si avvertiva nell’isola era la convinzione che le tasse valicassero i limiti del ragionevole e del sopportabile, data la mediocre condizione economica generale. I corsi erano abituati da una tradizione secolare a pagare poche e costanti tasse: l’innalzamento dei prezzi – come nel resto del continente – portava con sé l’inevitabile aumento delle impostazioni dirette. Nel dettaglio le imposte dirette erano soltanto due: la taglia ed il boatico. La taglia venne fissata a partire dal XIV secolo a venti soldi per fuoco. I notabili ne erano esenti quasi del tutto: Podestà, Padri di comune, famiglie caporalizie, gentiluomini, ecclesiastici, città (Bastia, Calvi…) o feudi (la maggior parte del Capo), in sintesi, tutti coloro che Genova considerava la clientela più sicura, i beneficiari ed i garanti dell’ordine sociale. Ne erano esenti anche le famiglie con almeno dodici figli, mentre le vedove pagavano metà dell’importo. Nell’insieme, un numero considerabile di cittadini, circa la metà, non era soggetto alla taglia. Questa situazione, inizialmente sopportabile, si deteriorò con l’aggiunta di tasse complementari, che finirono per appesantire considerevolmente le famiglie più povere dell’interno dell’isola, ridotte ad una vita sempre più difficile e progressivamente indigente. La seconda imposta diretta, il boatico, inizialmente colpiva soltanto i buoi da lavoro. Si distingueva dalla taglia per due caratteristiche: la diffusione (nessuna esenzione) e la natura (non era una tassa uniforme: poteva essere semplice o doppia, in base alle regioni), ma colpiva progressivamente tutti coloro che vivevano prevalentemente del lavoro dei campi. Il boatico era quindi considerato come una misura discriminatoria, che opponeva i contadini ai cittadini, ancora più quando venne esteso progressivamente ai prodotti dell’agricoltura ed ai capi del bestiame. A queste due imposte se ne aggiungevano altre secondarie: l’erbatico (diritto di pascolo) ed il ghiandatico (imposta per la raccolta delle ghiande, che gravava sui proprietari dei castagneti e dei querceti)9. Le imposte indirette 7 Lentamente gli isolani venivano eliminati dalle cariche ad esclusivo vantaggio dei genovesi: nel 1588, si chiudono loro le porte del notariato e della cancelleria; nel 1624 si escludono dalle cariche di esattori d’imposte; nel 1634 da quelle di vicari e di auditori. Dal 1585 si vieta ad ogni corso la funzione giudiziaria nel paese d’origine o in quello della moglie e, per un estensione che è al limite dell’odioso e del ridicolo, in tutti i villaggi dei parenti inclusi nel quarto grado di parentela. Genova giustificava una simile presa di posizione adducendo che questo era il solo modo per difendere i corsi da loro stessi, per strapparli dalle lotte di potere e per estirpare la radice stessa di innumerevoli vendette che insanguinavano l’isola. Ma in un paese che offriva poche possibilità di carriera professionale era una vera provocazione eliminare gli autoctoni da qualche funzione lucrativa. Questa linea amministrativa si estendeva anche alle funzioni più umili: appare ingiustificabile, sul piano militare, l’interdizione ai corsi di servire le guarnigioni dell’isola, il divieto di esercitare qualsiasi funzione nel villaggio natale (1612) e l’obbligo di assumere la cittadinanza genovese per l’esercizio delle cariche civili e magistratuali: simili atti condannavano all’esilio o all’emigrazione tutti gli elementi di un certo valore, facendo sentire crudelmente la differenza di trattamento tra i corsi e i genovesi trapiantati nell’isola. 8 Un curioso articolo del codice penale permetteva all’assassino condannato alla pena capitale di beneficiare, dietro pagamento di un’ammenda, d’un salvacondotto di sei mesi con permesso di porto d’armi. La misura, teoricamente destinata ad assicurare la difesa di quest’uomo contro i suoi nemici, rappresentava invece una minaccia diretta per questi ultimi, che erano spinti ad armarsi e ad attaccare per primi. Per rimediare all’inconveniente si approvò una delibera sollecitata nel 1711 dagli stessi corsi ed accordata nel 1715: il porto d’armi nell’isola era permesso solo dietro il pagamento di un canone di due seini (moneta genovese) per fuoco, destinato a compensare la perdita per la soppressione delle autorizzazioni deliberate fino a quel momento; la misura, ben accolta in tutta l’isola, permise il disarmo generale, con una diminuzione notevole dei crimini di sangue. Ma per una goffaggine assurda l’imposta, che doveva durare solo una stagione, non venne mai soppressa e figura tra le rivendicazioni dei corsi alla vigilia della rivoluzione indipendentista. 9 I conti ed i marchesi francesi manterranno il diritto di riscossione dell’erbatico e del terratico sugli allevatori ed i coltivatori corsi: è documentato ampiamente per il terreno di ottomila arpenti dato in concessione al principe di Bourbon-Conti negli Agriati, per il territorio di Porto Vecchio, per le

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somigliavano a quelle già in uso nel resto del continente: percentuali prelevate sul sale, sull’alcool, sulla polvere da sparo e sulle armi da fuoco. Come nel resto d’Europa, a queste tasse si aggiungevano i diritti di concessione, le patenti, le tasse sull’importazione, sull’esportazione, il trasporto di prodotti essenziali. Tutto questo costituiva un intralcio agli scambi, in Corsica come in ogni altra regione, ed alla stessa produzione (i contadini producevano solo lo stretto necessario alla sussistenza). Come ulteriore umiliazione, scusabile ma avvertita come ingiusta e vessatoria, la percezione delle imposte, a partire dal 1665, venne interdetta ai corsi, diventando unico appannaggio dei genovesi. Infine, se si aggiungono le numerose prestazioni in natura destinate ai diversi funzionari d’autorità e che pesavano unicamente sui poveri, si comprende quale ingiusto peso dovesse avere il sistema fiscale. § 2. La politica economica Negli anni più recenti gli studiosi di storia corsa hanno espresso pareri divergenti riguardo alla politica economica di Genova nell’isola. Attualmente si tenta, con un metodo più approfondito, di analizzare gli aspetti economico-sociali dell’occupazione genovese, evidenziando le strutture amministrative e fiscali con una luce più obiettiva (l’iniziatore di questa rivalutazione del periodo genovese è senza dubbio Antoine Casanova). Al di là degli aspetti meno conciliabili degli studiosi di storia corsa, tutti sembrano concordare su un punto: Genova portava avanti lo sviluppo economico dell’isola a suo esclusivo vantaggio. Ed è partendo da questa premessa che dobbiamo analizzare la politica economica genovese, evidenziando, se e dove è possibile, i vantaggi arrecati alla struttura economica corsa. Il grano era uno dei prodotti essenziali del commercio tra Genova e la Corsica, specialmente nei periodi di maggiore carestia: la Liguria, troppo secca, era poco adatta alla coltivazione di questo cereale10. La Dominante comprese che l’isola poteva – e doveva – ridiventare un vero granaio, come era già stata nell’Antichità, prima che le invasioni barbariche del Medioevo riducessero la pianura orientale ad una grande e sterile palude. Questa politica, già portata avanti dal Banco di San Giorgio nel Medioevo, venne ripresa sistematicamente dopo la guerra di Corsica, durante gli ultimi decenni del XVI secolo.

Figura 3: la Repubblica di Genova in una mappa del 1785 (Paris, Archives Nationales). I feudi Nel tentativo di perseguire questo tipo di politica agricola, Genova andava incontro a degli ostacoli enormi. Il primo e più importante riguardava la proprietà del suolo; il secondo la manodopera; il terzo problema era il capitale. Per risolvere il primo problema Genova decise di trasformare le parti più fertili della Corsica in feudi. A partire dal 1587, la Dominante infeudò una parte del demanio pubblico sotto forma di latifondi ereditari. Tutto questo si evince sia dai termini usati nei documenti ufficiali (in cui si parla di feudum perpetuum, nobile, liberum, francum e alienabilis), sia dalle direttive approvate dai Serenissimi Collegi: i cittadini diventavano vassalli di un Signore che possedeva tutti i diritti sovrani (specialmente il potere giudiziario di primo grado), ed erano obbligati a corrispondere una taglia diretta (in aggiunta alle imposte versate alla Repubblica). Infine, sulle terre strappate ai legittimi proprietari, si installavano dei coloni liguri venuti da Genova o dalla Riviera. Dopo alterne vicende, furono costituiti due soli feudi: quello delle contee della zona di Coti-Chiavari. Cfr. Lettre du subdélégué à l’intendant La Guillauyme, Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 85, 10 settembre 1787; Arch. dép. Corse-du-Sud, Série C, Intendence 98. Anche Serie B, Conseil supérieur. Vedi anche i documenti riportati da MARTINI

M., Documents inédits relatifs aux concessions du littoral nord des Agriates, «B.S.S.H.N.C.», 576 (1965). 10 Cfr. CASANOVA A., Forces productives rurales, peuple corse et Révolution française (1770-1815), thèse de Doctorat d’État, Université de Paris I, 1988; per le fonti: Archives nationales, Paris, Serie K 1226/31, 40 (memoria sul funzionamento dei mulini per il grano corso) e K 1229/1-VIII (memoria statistica del 1774 sui pastori della zona di Mezzani, Fiumorbo e Ghisoni).

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Porette-Fiumorbo e quello di Porto Vecchio. Come era prevedibile, i corsi si opposero all’immigrazione di nuovi coloni venuti dal continente e soprattutto si mostrarono ostili alle misure che li privavano dei loro beni e dei terreni adibiti al pascolo e alla transumanza. I Dodici si fecero interpreti di questo malessere, anche se, alla prova dei fatti, questa politica d’infeudazione si rivelò un fallimento: il feudo delle Porette, alla fine del XVII secolo, diventò una semplice concessione enfiteutica, mentre quello di Porto Vecchio non ebbe più successo dei precedenti tentativi di compravendita del Banco di San Giorgio: decimati dalla malaria, i coloni si esaurirono progressivamente e non furono rimpiazzati da successivi insediamenti; la città cadde in rovina e il feudo si esaurì nel 1662, con la morte dell’ultimo feudatario. Genova prese atto di questo fallimento e a partire dal 1630 si orientò verso un altro tipo di capitalizzazione del territorio. Per capire meglio la qualità del cambiamento operato dai genovesi nella politica agricola, si può confrontare il decreto del 1638 con quello del 1587 che istituiva il sistema di infeudazione. La differenza – essenziale – appare già dai termini: non si trattava più di “feudi”, ma di “enfiteusi”11; il cambiamento qualitativo è enorme. Genova controllava il dominio diretto del suolo e i diritti ad esso collegati, mentre l’enfiteuta godeva unicamente della superficie coltivabile. Nonostante i casi di decadenza, comunque, l’affittuario entrava in possesso di un bene alienabile e trasmissibile (in caso di enfiteusi perpetua) ai discendenti diretti. Si delineava, in questo modo, una classe di affittuari agricoli che costituì la base della nuova borghesia rurale. A questo si aggiungeva la possibilità di ricevere dalla Repubblica degli accordi di prestito a tasso normale: si trattava, insomma, di nuova linfa per un’economia già povera ed esasperata dal fiscalismo. La seconda differenza, non meno importante, rispetto al decreto del 1587, consiste nel cambiamento di obiettivi. Certamente la produzione di cereali restava la preoccupazione principale, anche perché la fame di grano non era ancora diminuita: la peste nera del 1630, oltre alla decimazione della popolazione, aveva fatto levitare le richieste di derrate sul continente. Tuttavia Genova tendeva ad una diversificazione delle colture, incoraggiando le piantagioni degli alberi e delle vigne e la crescita ed il miglioramento della soccida12, senza contare l’invito diretto all’abbandono del vecchio sistema del debbio13, ed alla sua sostituzione con il dissodamento in profondità. Una terza differenza, non meno importante, è l’apertura delle enfiteusi agli isolani. Quando l’infeudazione era riservata ai genovesi, i corsi potevano accedere alla proprietà soltanto in linea di principio, perché la mancanza di denaro impediva l’accesso ai territori più estesi. Sul piano dell’efficacia, la nuova politica si chiuse con un bilancio in attivo non indifferente. Le enfiteusi erano quantitativamente maggiori dei feudi creati nel 1587 e durarono a lungo: gli atti notarili dell’epoca riportano pochi fallimenti, mentre gli affitti (procoi) entrarono in crisi soltanto alla fine del XVII secolo. Il commercio Lo studio dell’attività portuaria è fondamentale per capire l’effettivo miglioramento dell’agricoltura corsa. L’aumento delle esportazioni di cereali è stato notevole ed aumentarono anche gli scambi da porto a porto. In generale raddoppiò la produzione di vino, di grano e di olio d’oliva. Quanto agli altri prodotti naturali (fave, lupini), essi seguono la stessa curva ascendente, senza contare l’aumento della produzione di materie prime come il legname ed il ferro. Ultimo ed importante indice di una evidente prosperità è l’ammontare degli introiti percepiti in Corsica da Genova tra il 1704 ed il 1705, dato che provenivano almeno all’80% dai diritti di circolazione, dalla vendita delle merci e da diverse tasse, triplicate rispetto al 1575. In poche parole, la Corsica era passata da un tipo d’economia a circuito chiuso (tranne il Capo Corso, che è sempre stato la valvola di sfogo del surplus agricolo) ad un’economia estensiva. Date queste premesse, l’economia corsa sotto la dominazione genovese sembra aver avuto un forte bilancio positivo. In effetti, l’attivo della nuova politica economica genovese in Corsica era importante per controbilanciare il passivo della bilancia commerciale: dal punto di vista sociale, i corsi sono stati vittime di una discriminazione che li ha privati della maggior parte dei frutti di questa crescita. La nuova politica economica della Repubblica, nonostante molti aspetti positivi, era comunque commisurata ai bisogni della capitale. Lo stesso sviluppo dell’arboricoltura era motivato dal bisogno di generi alimentari della Dominante e la regolamentazione del libero pascolo si rivelò col passare del tempo un motivo di contrasto sociale. § 3. La società I progressi economici fin qui descritti non avevano intaccato la struttura sociale dell’isola. Nelle regioni interne sopravviveva una struttura sociale ed amministrativa che nel corso dei secoli ha preso il nome di Terra di comune14. La caratteristica essenziale di questa comunità geo-antropologica era il suo aspetto comunitario. Tutto era deciso in comune: non soltanto l’elezione dei rappresentanti (Podestà e Padri di comune), ma anche gli ufficiali municipali, i procuratori, le guardie campestri, i maniscalchi, i macellai, gli scrivani pubblici, i medici. La seconda caratteristica era la partecipazione delle donne al voto. Questo forniva alla comunità un contenuto democratico davvero originale rispetto 11 L’enfiteusi è una sorta di affitto di lunga durata (18-99 anni) che conferisce all’enfiteuta un diritto reale suscettibile d’ipoteca. 12 Alla classica mezzadria si sostituisce, lentamente, un contratto in cui il contadino, oltre ad essere sottoposto ad un proprietario, si trasforma in produttore autonomo, gestisce gli strumenti di produzione e diventa responsabile (grazie alla sua abilità artigianale) della coltivazione dei campi. Questo accade (con forme diverse) nelle relazioni contrattuali come l’affitto o, meglio ancora, nelle relazioni operate sulla base del terratico, dell’erbatico o, per il bestiame, del contratto di soccida. 13 Debbio: “rimozione superficiale delle zolle di terra, comprese erbe e radici; quest’ultime vengono poi bruciate per fertilizzare il terreno con le ceneri” (ROBERT P., Dictionnaire de droit privé, Paris 1984). 14 EMMANUELLI P., Recherches sur la Terra di Commune. Documents sur les aspects de la vie administrative privée et économiques des unités communautaires en Corse aux XVIe, XVIIe et XVIIIe siècles. Tesi di dottorato in Diritto, Aix-en-Provence 1958, con abbondante bibliografia e numerosi testi giustificativi. Interessante anche la consultazione del Dialogo nominato Corsica di Monsignor Giustiniani del 1531.

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ad ogni altra realtà dell’epoca, in grado di porsi in diretto confronto con la società contemporanea. Una terza caratteristica, che completava ed integrava il sistema, era l’indennità: i dissidenti rispetto alle decisioni prese dalla assemblea generale del popolo potevano dissociarsi davanti ad un notaio: venivano protetti, in questo modo, anche i diritti delle minoranze15. La Terra di comune La comunità eleggeva i propri rappresentanti, fissava di comune accordo l’ammontare delle doti16 ed aveva un originale sistema di sfruttamento del suolo. Si tratta di un sistema che contrastava notevolmente con quello delle terre amministrate dai genovesi, e questo permette di capire meglio l’ostilità dei corsi per la riforma agricola della madrepatria. Le terre da coltivare venivano distinte dalle terre aperte: le prime erano distribuite dall’assemblea generale tra i membri della comunità per una durata variabile (da uno a più anni). Le altre, nettamente più estese, e che comprendevano essenzialmente i terreni prossimi ai pascoli, erano considerate indivisibili e lasciate al libero pascolo delle greggi. Queste disposizioni, scritte negli Statuti civili e legate ad antiche usanze (la cui origine potrebbe essere addirittura anteriore alla rivolta di Sambucuccio d’Alando del XIV secolo), furono rispettate da Genova. La collettivizzazione era applicata, in genere, ad una comunità di base: la parrocchia. Quando venne estesa ai villaggi ed alle pievi i conflitti di giurisdizione aumentarono considerevolmente (come accadde nel XVIII secolo); eppure l’abitudine allo sfruttamento comune dei terreni era così forte, nonostante i pericoli, che riuscì a resistere per alcuni secoli in Corsica. Il pericolo maggiore proveniva dalla pratica della presa, ovvero dalla recinzione o limitazione di una parte di terra aperta per la coltivazione intensiva. Questa recinzione assicurava al contadino (o gruppo di contadini) un diritto di godimento limitato teoricamente ad un mese, ma tendente a perpetuarsi di anno in anno, fino alla trasformazione della “presa” in proprietà individuale. Era un fenomeno legato al consolidamento di una nuova classe sociale, quella dei notabili rurali. In teoria ogni membro di una comunità era azionista d’una parte dei beni collettivi. L’azione (attione) poteva essere alienata solo in favore di un altro membro della stessa comunità e non costituiva un titolo di proprietà su una porzione delimitata di questi beni, ma soltanto un usufrutto. Anche le terre coltivabili erano di proprietà della comunità, ma venivano distribuite in parti (lenze) a ciascun “fuoco”. La divisione era sottoposta ad una rotazione di alcuni anni, che corrispondeva al normale ciclo della coltura (seminario), interrotto dalla messa a riposo del suolo. Ma anche questa presa di possesso – teoricamente temporanea e sottoposta a rotazione – poteva diventare definitiva. Il processo di appropriazione delle terre coltivabili è stato lento, progressivo e comunque irreversibile. L’appropriazione individuale veniva favorita anche dalla pratica, accordata dalla comunità ad alcuni individui, di coltivare per conto proprio una parte delle terre aperte, a condizione di recintarle. Con questa pratica della recinzione17 (chioso), la piccola proprietà cominciò a prevalere sui beni comunali, che iniziarono un lento, ma costante declino fino alla seconda metà del XVIII secolo. La segmentazione territoriale delle grandi estensioni collettive è stata accentuata anche da un’altra caratteristica originale dell’agricoltura corsa: il diritto di proprietà individuale sugli alberi dei beni comunali (il cui suolo restava proprietà indivisibile della comunità). La proporzione dei beni comunali, anche se lentamente erosa dall’appropriazione individuale (legale o arbitraria), era comunque prevalente nel Nord-Ovest dell’isola: alla fine del XVIII secolo, essa variava da un percentuale del 40% ad oltre il 70% della superficie (la percentuale era meno forte nel Sud e debole nel Capo Corso, nel Nebbio e nella Castagniccia). La popolazione In età moderna l’isola ha sicuramente subito un calo demografico a seguito della peste, della Guerra di Corsica (1553-1559), delle razzie e dell’emigrazione. La popolazione doveva aggirarsi tra le centomila e le centoventimila unità. L’apporto degli immigrati era scarso: poche centinaia di coloni, spesso decimati dalla malaria come a Porto Vecchio, o in lotta con gli isolani, come a Paomia e Cargese. Soltanto le città conobbero, grazie all’immigrazione ligure e ad una flebile fusione tra corsi e genovesi, una lenta, ma regolare progressione. La Corsica, già spopolata, era anche denutrita. Alle cattive condizioni meteorologiche si univano spesso le carestie: quella del 1582, descritta da Filippini, è tristemente celebre, ma non è stata l’unica. Se ne contano almeno altre sei lungo tutto il XVII secolo, per arrivare, nel XVIII, alla grande carestia di grano del 1728-1729, all’inizio della guerra d’indipendenza. Il clima è un altro fattore che ha sicuramente contribuito, per più di un secolo, a far fallire i tentativi per migliorare l’agricoltura e l’economia insulare: una primavera troppo piovosa ed un’estate troppo secca non favorivano un’agricoltura estensiva del grano e degli altri cereali. I corsi vivevano in misere condizioni nei villaggi arroccati sulle alture, senza strade carrozzabili, specialmente nella parte interna dell’isola. Totalmente privi d’istruzione, superstiziosi, pronti a credere a tutto ciò che si riferisse a riti e credenze magiche, erano capaci di crimini efferati; rimasero così a lungo, detestati, non compresi, poco

15 L’8 aprile 1586, a Belgodere, cinque donne dichiararono, davanti ad un notaio, che erano in disaccordo con la “comunità” dei loro villaggi sulla scelta del medico e si sciolsero da ogni “obbligazione” verso il detto medico (vd. EMMANUELLI R., op. cit.), vd. anche QUASTANA A.M., CASANOVA

S., Femmes et identité corse, «Peuples Méditerranéens», 22-23 (Juin 1983), pp. 237-248; MARIN-MURACCIOLE M. R., L’Honneur des femmes en Corse du XIII siècle à nos jours. Moeurs et coutumes matrimoniales et extra-matrimoniales, Paris 1964. 16 Deliberazione di venti parrocchie della pieve di Moriani, del 25 giugno 1656, che limita l’ammontare massimo delle doti per non ledere gli interessi dei bambini maschi; Archives dèpartementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93. Observations des Domaines sur le Domaine de Porto-Vecchio, Janvier 1780. 17 Le prese comunali sono composte di piccoli appezzamenti familiari chiamati lenze, trasformati in seguito in proprietà privata (chiosi posti e da ponersi), mentre in altre pievi, tanto nel XVII, XVIII quanto nel XIX secolo, esse sono ancora oggetto di ridistribuzioni periodiche.

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amati e poco amabili. Pochi riuscirono a cogliere lo “spirito” corso: qualche viaggiatore, alcuni funzionari genovesi e pochi uomini di Chiesa, che li osservavano con spavento e stupore, convinti di ritrovarsi in mezzo ad un popolo respinto dal tempo. Non si deve pensare che i corsi vivessero nel loro sistema comunitario in pace, in perfetta intesa, cortesi gli uni verso gli altri, con benevolenza, praticando la giustizia, come li immaginavano molti spiriti “illuminati” del XVIII secolo: il mito rousseuiano del “buon selvaggio” era smentito dall’atroce costume della “vendetta” e dall’ondata di furti – in genere di bestiame – diffusi a tal punto da spingere alcune comunità a salvaguardarsi con la forza, sostituendosi alla giustizia genovese. § 4. Città e villaggi A partire dal XVII secolo inizia in Corsica un forte processo di urbanizzazione. In base all’analisi di Y. Kolodny tre caratteristiche comuni definiscono la città corsa nelle diverse fasi dell’urbanizzazione: 1) la città non è mai la conseguenza di una spinta economica o sociale degli isolani di unirsi in un nuovo centro; risponde a degli imperativi imposti dalle civiltà straniere, perché gli stranieri hanno fondato le città; 2) le civiltà colonizzatrici sono legate al commercio marittimo. La città non viene mai fondata all’interno, dove la popolazione è ostile; la città rappresenta l’antagonismo che separa due società e due tipologie di vita diametralmente opposte; 3) la città è sempre fondata dal nulla, dovendo rispondere a degli imperativi che sono all’origine della sua creazione; si ritroveranno le stesse strutture funzionali nelle città fondate nello stesso periodo: popolamento, piano regolatore, scelta del territorio, posizione geografica e commercializzazione18. Questo schema aiuta a comprendere meglio la differenza - accentuatasi nel secolo XVII ed evidente nel XVIII – tra due modelli di vita e di civilizzazione: l’attività agro-pastorale delle comunità etniche insulari e quella commerciale delle città costiere. I grossi borghi dell’interno svolgevano una doppia funzione: da un lato punti d’appoggio militari ed amministrativi dell’occupazione genovese, dall’altro nodi di scambio tra il mondo rurale delle montagne ed il mondo urbano delle pianure. Lo sviluppo delle città intermedie fornisce, in questo senso, la conferma di un effettivo aumento demografico e di un migliore livello di vita. Bastia Bastia è la città che s’ingrandisce e si sviluppa maggiormente in questo periodo19. La progressione demografica è difficilmente quantificabile: secondo Ettori, Bastia passò dai 1.500 abitanti all’inizio del XVI secolo ai 7.000 della metà del XVII e a oltre 10.000 nel 1686. Kolodny, che prende come riferimento l’anno 1741, parla di 1.200 fuochi, ossia 5.400 abitanti. Il progresso demografico andava di pari passo con la modernizzazione e l’abbellimento della capitale amministrativa dell’isola, che era anche il mercato dell’attività agricola dell’interno. Nel 1604 iniziò la costruzione della futura cattedrale (terminata nel 1620), mentre alla metà del XVII secolo si decise la costruzione di un nuovo ospedale. La cittadella venne ingrandita e fortificata; residenza del Governatore e del vescovo, protetta da una forte guarnigione, dotata di una prigione che poteva accogliere più di 300 prigionieri (cifre che la dicono lunga sulla criminalità o sul carattere “repressivo” della giustizia genovese), la cittadella, protetta da una cintura di forti sulle colline, era il centro della città genovese di Terra Nova, e dominava il quartiere propriamente corso di Terra Vecchia, due volte più popolato (5.000 abitanti, contro i 2.000, nel 1655, della Terra Nova), meno curato, più popolare (pescatori e contadini), meno moderno (il piano urbanistico era irregolare ed arcaico). Se si aggiunge che Bastia giocava un ruolo finanziario fondamentale e che il suo porto conobbe un netto progresso, si comprende l’importanza della città nel contesto isolano. Bastia era una città importante, ma non primaria: per le attività propriamente portuarie occupava solo il decimo posto tra le città corse; a livello demografico, secondo le stime di Kolodny (5.000 abitanti) arrivava appena al 4% della popolazione totale (circa 120.000 abitanti). Cifre, al contrario, notevoli per la loro modestia, considerato che attualmente la città possiede un quarto della popolazione isolana.

18 Fondamentale l’opera di KOLODNY Y., La géographie urbane de la Corse, Paris 1962, che fornisce uno studio sincronico e diacronico delle città isolane. 19 Oltre agli studi di KOLODNY Y. su Bastia, Bastia vers le milieu du XVIIe siècle (selon Banchero 1652-1660), «B.S.S.H.N.C.», 59-60-61 (1885-86) e Statuts et privilèges accordés à Bastia de 1484 à 1648, ibid., sono assai utili gli articoli di CASTELLANI M., La géographie et l’économie urbaines de Bastia, «B.S.S.H.N.C.», 598-599, 600-601-602 (1961).

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Figura 4: Pianta della città di Bastia nel 1781 (Biblioteca municipale di Bastia). Ajaccio Questa osservazione è confermata anche dall’esempio di Ajaccio20. Il progresso demografico qui è stato meno rapido e meno evidente che a Bastia: la città venne fondata più tardi ed il suo ruolo nella vita politica, religiosa e militare dell’isola, alla fine del XVII secolo, era minimo. Genova comprese l’importanza strategica della piazza e si preoccupò di fortificarla nuovamente, nel 1562, dando alla cittadella la forma esagonale che ancora la caratterizza. Ma in questo spazio ristretto la popolazione, quasi interamente ligure, era modesta. Alle cento famiglie liguri che nel 1493 avevano formato il nucleo primitivo, e che restarono etnicamente omogenee fino allo scoppio della guerra di Corsica, si aggiunse, dopo il 1553, un contingente di corsi dell’interno. Genova decise di accordare il diritto di cittadinanza nel 1592, e di riservare 1/3 dei posti nell’amministrazione agli abitanti della cittadina. L’insicurezza dovuta alle continue razzie dei barbareschi arrestò l’immigrazione degli abitanti dei dintorni: si passò, secondo Pinzuti, dai 1.200 abitanti del 1584 ai 5.000 del 1666 o, secondo Kolodny, dai 700 del 1493, ai 1.500 del 1582, ed ancora dai 2.400 nel 1615 ai 3.745 del 1744. Progressione costante dovuta sia alle immunità accordate da Genova, sia all’insediamento di un luogotenente del Governatore e di una guarnigione. La città si estese (superando presto il limite della cittadella ed espandendosi lungo l’attuale Rue Fesch) ed il porto cominciò ad acquistare sempre maggiore importanza. A partire dal 1621-1627 era in testa al traffico di tutti i porti corsi, surclassando di molto Bastia, con un notevole aumento delle esportazioni, che ponevano Ajaccio al 4° posto tra le città costiere per il movimento portuario. Progresso che trovò, infine, la sua traduzione monumentale con la costruzione della nuova cattedrale, iniziata nel 1593, dell’Ospedale alla fine del XVI secolo e nel 1618, di un Monte di pietà (come a Corte e Bastia). Tuttavia, l’economia dei dintorni era fragile: bisognava importare la quasi totalità dell’olio e buona parte del grano necessario alla sussistenza.

Figura 5: Pianta della città di Ajaccio di F.M. ACCINELLI (Archivio di Stato di Genova, Div. Corsicae, filza 2111 - 1764-1765).

20 Vedi PINZUTI N., Notes sur l’histoire économique et sociale d’Ajaccio aux XVIe et XVIIe siècles, «Corse historique», 13-14, 15-16 (1964). Cfr. Anche CAMPI L., Notes et documents sur la ville d’Ajaccio (1492-1789), Ajaccio 1901; BARDET J.-P. e MOTTE C., La Diocèse d’Ajaccio, Paris 1974; POMPONI F. e SILVANI P., Histoire d’Ajaccio, Ajaccio 1998.

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Porto Vecchio e San Fiorenzo Non si può dire altrettanto per altre città: Porto Vecchio non solo subì il fallimento del tentativo genovese d’infeudazione della sua pieve, ma perse anche gran parte della popolazione, decimata dalla malaria. Abbandonata dai suoi abitanti, essa diventò quasi una città fantasma, ripopolandosi soltanto nel XVIII secolo. San Fiorenzo passò, invece, dai 1.500 abitanti alla metà del XVI secolo, prima della guerra di Corsica, ai 66 della fine del XVII secolo; il crollo era dovuto sia alla malaria, sia alla perdita della funzione militare: i bastioni, ricostruiti nel 1563, furono rasi al suolo nel 1667 e la guarnigione ridotta a 12 persone. All’inizio del XVI secolo, tuttavia, il porto era abbastanza attivo, dato che assicurava un traffico che la piazzava al 4° posto tra i porti genovesi in Corsica ed al 14° tra i porti isolani, molto più avanti di Bonifacio e di Calvi.

Figura 6: Pianta della città di San Fiorenzo (Biblioteca Municipale di Bastia). Bonifacio Bonifacio affondava lentamente in una letargia economica terminata solo nel XIX secolo21. La sua popolazione passò da 5.000 abitanti nel 1528 a 700 in seguito alla peste (nello stesso anno), per risalire a 2.000 alla fine del XVII secolo (ed a 2.500 a metà del XVIII). Il porto, all’incirca nel 1627, era il 5° dei porti genovesi in Corsica ed al 16° posto tra i porti isolani, con un traffico molto ridotto, in seguito alla grave crisi agricola del territorio circostante. Le esportazioni rappresentavano una parte infima del totale (6%) ed i marinai del Capo arrivavano sulla piazza per fare concorrenza. Con il passare del tempo la situazione non migliorò: alla fine del XVII secolo le esportazioni di grano ammontavano a soli 43 ettolitri sul totale di 7.800 di tutti i porti corsi; al contrario, l’importazione d’olio aumentò sensibilmente, confermando la povertà dell’entroterra. La città esisteva soltanto grazie alle importazioni e all’intervento dei navigli corsi e stranieri. Calvi Calvi non fa eccezione alla crisi delle altre città corse. Le rovine della guerra di Corsica e l’esplosione di una polveriera nel 1567, avevano distrutto parte della città racchiusa nei bastioni. Il porto venne distrutto durante l’assedio del 1555, ma ricostruito altrettanto velocemente, diventando lo sbocco naturale dei prodotti agricoli della Balagna; ma la popolazione rimase stazionaria durante tutta l’età moderna: 1.000 abitanti durante il XVII secolo (1.200 con la guarnigione) ed appena 1.060 nel 1741. Il traffico portuario era mediocre: nel 1627, Calvi occupava il penultimo posto tra i porti genovesi ed il 19° dei porti corsi, con un totale di merci scambiate che rappresentava 1/6 di quello di Ajaccio e la metà di quello di Bonifacio. Nel 1697 la situazione era appena migliorata: le esportazioni d’olio aumentarono leggermente, ma la concorrenza d’Algajola e delle marine del Capo era così forte che la prosperità (relativa) della città si legava soprattutto alla funzione amministrativa (sede del Governatore dal 1652 al 1660) e militare.

21 Per Bonifacio, vedi FERTON CH., Les premiers habitants de Bonifacio, in Congrès de l’A.F.A.S., Ajaccio 1901; ROSSI H., Les fortifications de Bonifacio au XVe siècle, «B.S.S.H.N.C.», 562 (1961); SERPENTINI A., Bonifacio, con Prefazione di LE ROY LADURIE E., Ajaccio 1994.

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Figura 7: una veduta di Calvi alla fine del XIX secolo. I borghi Le città propriamente corse, tutte dislocate all’interno dell’isola, in posizione difensiva, non superarono mai la caratteristica di grossi borghi (come Vico, Vescovato e Cervione): nel 1686 Corte contava appena 1.750 abitanti e Sartena 1.200; nel 1741 le due città raggiunsero rispettivamente la cifra di 1760 e 2.090 abitanti. Altra caratteristica comune era la presenza di una guarnigione genovese (talvolta anche di un nucleo civile ligure) anche se, comunque, l’elemento indigeno era preponderante. Inoltre, al carattere difensivo (visibile a Corte e Sartena) si univa un’eminente funzione agricola, perfino più importante, come a Vescovato, della funzione religiosa (residenza del vescovo). Tuttavia, ed è questa la differenza più grande rispetto agli altri borghi, la funzione militare era predominante. Simi ha potuto affermare a ragione che a Corte «il ruolo difensivo assorbe tutte le sue attività; Corte non è una città, ma semplicemente una piazzaforte»22. La situazione era leggermente diversa per Sartena, che sorvegliava la ricca valle del Rizzanese ed il golfo del Valinco, vie d’accesso obbligate per i barbareschi, ma anche (grazie alle marine: Tizzano, Campomoro, Propriano), punti di contatto e di scambio tra il mondo rurale dell’interno ed il commercio marittimo. Ancora un’altra differenza fondamentale: Corte era al centro di una regione essenzialmente pastorale, mentre Sartena era lo snodo di un territorio vasto e ricco, in cui la pastorizia era sviluppata quanto l’agricoltura. Infine, non si può dimenticare la profonda differenza della rispettiva struttura agraria: Corte era in piena Terra di comune, Sartena nella Terra dei Signori. Nella prima le terre comunali rappresentavano il 90% del totale, nell’altra tutta la terra apparteneva ai latifondisti23.

Figura 8: Panorama di Corte in una illustrazione del 1772. 22 Cfr. SIMI P., Genèse de la dépression centrale de la Corse, «B.S.S.H.N.C.», 36 (1965). 23 Per quanto riguarda le altre cittadine dell’interno, almeno per quelle di cui abbiamo fonti sufficienti, è utile enumerare le cifre fornite da Mons. Mascardi, Visitatore Apostolico. A partire dall’anno 1646 nel Capo Corso: Luri contava 200 fuochi e 1.200 anime, Pino 85 fuochi e 1.500 anime, Meria 100 fuochi e 450 anime, Rogliano 244 fuochi e 1.500 anime, Centuri 140 fuochi e 700 anime, Cagnano 113 fuochi e 365 anime. Nella pieve di Brando: Vescovato, 126 fuochi e 700 anime. Cifre modeste, ma generalmente confermate. Ghisoni aveva 800 abitanti nel 1589, 900 nel 1686; Aleria scese a 60 abitanti nel 1686; Vivario, 450; Venaco, 530; Tallano, 400; Levie, 200; Zicavo, 900; Zonza, 100; Carbini meno di 600; Grosseto, 300; Cervione, sede del vescovo d’Aleria, alla fine del XVI secolo, contava solo 400 persone (1571), ed arriva appena a 700 nel 1787; Fozzano da 500 abitanti passa a 368 nel 1715. L’impressione dominante è quindi che l’isola, fatta eccezione per Bastia ed Ajaccio, nella seconda metà del XVII abbia conosciuto una crisi demografica strettamente legata al ristagno economico. La Corsica appariva come un aggregato di tante piccole comunità sparse in un semi-deserto umano (con le eccezioni del Capo Corso, della Castagniccia e della Balagna), aggravato dall’inesistenza quasi totale di vie di comunicazione. Cfr. CASANOVA A., Identité corse, outillages et Révolution française, Paris 1996.

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§ 5. Gli scontri sociali La realtà corsa non può essere compresa senza un’analisi della struttura sociale ed amministrativa dell’isola in età moderna. Ad uno sguardo più attento, l’antagonismo tra corsi e genovesi (che una certa storiografia nazionalista ha presentato per lungo tempo come un odio efferato), tendeva a scemare a seconda delle classi sociali. Allo stesso tempo emerge una visione diversa dalla Corsica tradizionale ed idilliaca, senza scontri di classe: infatti, benché attenuati e deviati dall’opposizione dei due popoli, i contrasti tra benestanti e nullatenenti erano più vivi che mai. L’ordine genovese poteva cancellare solo superficialmente queste differenze. L’Aristocrazia La prima caratteristica della società corsa d’Ancien Régime è l’indebolimento della feudalità. Con la scomparsa, all’inizio del XVI secolo, degli ultimi due grandi feudatari, Gian Paolo de Leca e Rinuccio della Rocca, l’aristocrazia aveva cessato d’esercitare il suo potere sulla Terra dei Signori. Anche se nominalmente i feudi continuavano ad esistere (per esempio quelli di Ornano, Bozzi ed Istria nel Sud), la loro influenza era debole. La debolezza della feudalità tendeva ad aggravarsi con la recessione demografica, diventando quasi una piaga istituzionale: esisteva, ovviamente, il vincolo vassallatico24, ma, da un lato, si appoggiava su forze dell’ordine indebolite, dall’altro, era continuamente sminuito dalla proprietà individuale e collettiva dei contadini; il sistema feudale in Corsica si limitava a qualche tassa o canone in natura, ad alcune ammende, alle corvées in qualche pieve. Inoltre, i conflitti tra famiglie rivali, le eredità, i diritti riconosciuti ai figli illegittimi avevano piegato l’antica aristocrazia, appena in grado di sopravvivere ad una situazione economica in continuo degrado. La partecipazione alla Guerra di Corsica accelerò il processo di distruzione: castelli rasi al suolo, terre devastate, bestiame massacrato. Il bilancio, già pesante, venne aggravato dalla repressione sistematica di Genova nel processo di restaurazione della propria sovranità, a seguito della guerra di Corsica, contro tutti i discendenti dei ribelli guidati da Sampiero di Bastelica: privazione del diritto di riscossione della taglia, confische, ammende, esili e, nel 1623, addirittura la perdita della presenza del Governatore. In breve, la storia della nobiltà corsa sarà, da quel momento, quella di una lenta agonia: i suoi membri si voteranno all’emigrazione, alla vita mediocre o all’integrazione nei quadri dell’amministrazione e dell’esercito della Serenissima. Alcuni grandi feudi scomparvero letteralmente nel nulla: ai nobili, contestati, aggrediti e massacrati dagli stessi vassalli, indeboliti giuridicamente da Genova (che toglieva loro i diritti per concederli ai suoi luogotenenti), restavano solo dei vani titoli onorifici e dei magri privilegi. I pochi esponenti dell’antica aristocrazia isolana (una sessantina in tutto), anche se usufruivano dell’esenzione dalla taglia e di qualche privilegio, erano ridotti perfino a disputarsi i vassalli ed a sfruttare dei beni allodiali, a svolgere attività commerciale o a servire nelle armate del continente, comprese quelle di Genova. In questo modo si spense lentamente quella turbolenta feudalità che nei secoli precedenti aveva arrecato tanti danni al Banco di San Giorgio ed alla Dominante. L’aristocrazia corsa presentava una differenza sostanziale rispetto a quella del resto d’Europa, che giocava ancora, nel periodo di passaggio tra l’Ancien Régime e l’età della grande borghesia, un ruolo sociale determinante. Questa caratteristica della storia isolana è dovuta all’assenza di un vero Sovrano: anche i francesi, dopo la conquista dell’isola nel 1769, si guarderanno bene dall’equiparare i diritti dell’aristocrazia continentale con quelli della feudalità isolana, per impedire la presenza di un autonomo potere amministrativo e giudiziario. I Notabili La borghesia, prendendo il posto della feudalità esautorata, acquistò sempre più importanza nella scala sociale: favorita dall’espansione economica e dalla politica genovese (a partire dal XV secolo), essa finì per costituire una nuova classe sociale, quella dei Benemeriti, ordine sociale inferiore a quello della nobiltà, ma ben separato dal popolo. Veri e propri pensionari dello Stato grazie ai loro meriti, questi buoni e fedeli servitori godevano di privilegi (esenzione dalla taglia, diritto di porto d’armi), che li distinguevano dalla plebe e li equiparavano alla nobiltà di spada. I Principali derivavano direttamente dalle famiglie notabilari dei Caporali del XV secolo, capi delle pievi della Terra di Comune, eletti dal popolo, la cui funzione era quella di difendere i contadini dagli abusi della nobiltà. Da protettori e giudici delle comunità, i Caporali si trasformarono in Signori o Governatori, sfruttando le popolazioni e rendendo ereditarie le proprie cariche. Questo processo si accompagnò ad un arricchimento costante e molteplice: le famiglie dei Caporali di ceppo popolare si presentavano già, nel XVI e nel XVII secolo, come vere famiglie signorili, con pretese di nobilitazione: d’altronde la funzione caporalizia, divenuta ereditaria, permetteva di ottenere delle cariche pubbliche importanti (Consiglio dei Nobili Dodici; Syndicato). I Caporali, anche se già indeboliti dalle rivalità intestine e dalle continue vendette tra clan, si distinsero come la classe dominante dell’isola. Anche se la loro potenza militare terminò presto sotto gli attacchi incalzanti della Serenissima, il potere economico rimase intatto attraverso i secoli, perché fondato sulla ricchezza fondiaria. I Caporali avevano acquistato i feudi lentamente, a scapito della vecchia aristocrazia o delle comunità rurali; la posizione privilegiata di notabili permetteva loro di spossessare i contadini poveri tramite una lenta accumulazione di capitali o con il prestito ad usura ed in molti casi essi arrivavano ad investire i beni fondiari rivendendoli a Genova. L’isola deve molto ai Notabili: le regioni più ricche beneficiarono di importanti bonifiche, di piantagioni d’alberi da frutto e della semina di cereali. Se si aggiunge a questa nuova ricchezza agricola la tradizionale ricchezza isolana fondata sul capitale, sempre più concentrato nelle mani dei grandi commercianti delle città costiere, il

24 Dal punto di vista giuridico, la potenza signorile era grande: la “potestas gladii”, o “coltelli” conferiva alla nobiltà feudale un diritto assoluto sui vassalli. Cfr. FONTANA J., Essai sur l’histoire du droit privé en Corse, Paris 1905.

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potere dei notabili risulta ancora più evidente. Proprietari del suolo, degli alberi e delle greggi, i notabili potevano praticare, grazie all’alleanza con i borghesi delle città, una politica di fissazione dei prezzi di produzione. In breve, essi rappresentavano la classe più attiva e più ricca di un’isola che stava uscendo dalla letargia economica. I Principali tendevano inevitabilmente a conquistare il predominio politico: favoriti dalle istituzioni, che riservavano loro i posti chiave dell’amministrazione, avvantaggiati dalla cultura, s’imposero come l’autentica classe dirigente corsa, capace di gestire la ricchezza, di mantenere l’ordine, di sedare le proteste, di parlare in nome del popolo. Essi occupavano le più alte funzioni rappresentative (Nobili Dodici e Nobili Sei), le intermedie (Podestà, Padri di comune, Capitani delle milizie) e le più basse (guardiani delle terre comunali, cacciatori o guardie campestri). La conquista di tali funzioni doveva andare di pari passo con il conservatorismo politico: prese origine, allora, uno scontro sociale che opponeva i notabili al resto delle comunità. Il potere notabilare trovava dei limiti solo nella rivalità tra pari; la struttura tradizionale dell’isola, il clan, conobbe allora un progressivo rinnovamento, incarnandosi pienamente nelle casate dei notabili25. In generale i borghesi corsi (rurali o cittadini) non emergevano sicuramente per ricchezza assoluta (sempre inferiore a quella dei borghesi continentali), ma per ricchezza relativa, dato che il paese era molto povero. I francesi che sbarcarono in Corsica nel XVIII secolo restarono sorpresi proprio per l’omogenea condizione economica delle varie classi sociali, specie nelle campagne. Gli ecclesiastici ed il popolo Il quadro non cambia se si passa agli uomini di Chiesa, proprio perché, tranne i vescovi (quasi tutti genovesi), essi erano reclutati nella stessa classe dei notabili rurali. Filippini, il noto cronachista, arciprete di Mariana, ne è un esempio eloquente. Arcidiaconi, vicari, canonici, pievani e rettori erano numerosi: uno per famiglia, secondo alcune testimonianze. Essi vivevano decorosamente, sicuramente meglio dei fedeli, grazie soprattutto alla condizione sociale di notabili: potevano, infatti, prelevare parte del patrimonio familiare come reddito fisso. Ne è la prova il fatto che spesso gli ecclesiastici non esitavano a diventare proprietari terrieri, a commerciare in beni fondiari o a prestare denaro ad usura, per arrotondare i propri introiti. Purtroppo ci sono pochissime fonti d’archivio che testimoniano il tenore di vita del popolo. I poveri dei villaggi, attaccati ai loro fazzoletti di terra ed alle loro greggi, erano spesso costretti a scendere in città, dove ingrossavano le fila del proletariato portuale, dei facchini, degli indigenti di ogni ordine, che gonfiavano la clientela dei notabili, oppure ad espatriare per prendere servizio sulle galere o negli eserciti del continente. Per coloro che restavano si profilava l’altrettanto triste sorte di guardiani di un dominio, per conto di un mezzadro isolano o genovese, oppure la condizione di domestici (perpetue presso i sacerdoti, servitori nei conventi, o domestici dai Signori delle città o dei borghi). Questi poveri, costantemente minacciati dalle carestie, erano anche costretti a difendersi dalla concorrenza dei Lucchesi nel lavoro di braccianti agricoli. In generale, vivevano miseramente dei prodotti della terra, nutrendosi poco, vestendosi di nulla, traendo il possibile da una pecora, da un maiale, da un castagneto. I Principali talvolta li spingevano alla rovina, obbligandoli a vendere tutto e a cercar fortuna altrove: allora, nei momenti di estrema insofferenza, si ribellavano, diventando dei fuorilegge, dei banditi. Tuttavia la Corsica non ebbe mai un proletariato di nullatenenti, proprio perché la sua economia era talmente diversificata che gli abitanti avevano la sicurezza, salvo calamità naturali, di non mancare mai del necessario. § 6. Un rinnovamento spirituale La Corsica, alla fine del XVI secolo, aveva bisogno di un rinnovamento spirituale più delle altre regioni dell’Europa Occidentale26. A differenza del resto del continente, l’isola non era stata minacciata dal movimento protestante: qui non era arrivata quasi nessuna eco della Riforma che aveva scosso la Chiesa Apostolica Romana nelle sue fondamenta ed aveva fatto passare intere nazioni nel campo riformato. Quanto alle eresie propriamente dette, esse appartenevano ad un lontano passato: quella dei “Giovannali” (fine del XIV secolo) e quella dei “Battuti” (a metà del XV secolo) non avevano lasciato tracce profonde nel popolo, che viveva nell’agio di un conformismo religioso legato ad un sostrato di superstizione e paganesimo, unito ad una laicizzazione radicale dei costumi del clero. I preti delle parrocchie rurali vivevano la vita del loro gregge, in una comunione di idee e di sentimenti spesso discutibile. Ed i fedeli si riconoscevano così bene nei loro sacerdoti da mancare loro anche di riguardo, cosa che faceva rabbrividire i visitatori apostolici27. Il popolo aveva una vita sacramentale quasi nulla: nessun rispetto delle prescrizioni quaresimali, 25 Alcuni Principali presero il posto degli antichi aristocratici del Diladamonti: i Pajnacci, i Fozzani, i Durazzo, i Pietri, gli Ortoli, che diventarono i nuovi nobili della Rocca attorno a Fozzano e Sartena. Altri continuarono, nel Diquadamonti, il ruolo delle famiglie caporalizie già segnalate nel XVI secolo dai cronachisti Ceccaldi e Filippini: Casta, Campocasso, Chiara, Matra, Pancheraccia, Quenza, Sarrola, Serra, Tavera, Pozzo di Borgo ecc. Cfr. VRYDAGHS F., Notices historiques sur la Rocca cit., p. 68 e segg., CASANOVA A., e ROVERE A., Caporaux et communautés rurales aux XIVe et XVe siècles, «Corse historique», 12, 15, 19 (1963, 1964, 1967). 26 Sull’argomento vedi CASANOVA A., Historie de l’église corse, Ajaccio 1931; FONZI F., Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di Clemente XIII, «Annuario dell’istituto italiano per l’età moderna e contemporanea», VIII (1957). Per le fonti archivistiche vedi Archivio Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, serie Corsica, fascicoli 8 e 9 ed Archivio di Stato di Roma, fondo Congregazione degli Spogli, buste 132 e 133; fondo Camerlengato, parte I, busta n. 47 (1816-1823) I. Affari esteri, disposizioni e regolamenti, fogli 6 e 7, nota dei consoli pontifici nei paesi europei, Genova. 27 «Non possiamo finalmente tralasciare di dare le dovute sollecite provvidenze a due altri disordini che riconosciamo introdotti nel Clero. Il primo è che non puochi sacerdoti e chierici costituiti in Sacris si fanno lecito d’andare senza l’abito, e tonsura per le campagne, e per i paesi, non avendo il minimo riguardo all’obbligo tanto inculcato loro dal Sagro Concilio di Trento Sess. 14, cap. 6, de Reform. Di portare sempre, ed in ogni luogo vesti convenevoli al loro grado: Oportet tamen clericos vestes proprio congruentes ordini sempre deferire, ut per decentiam habitus estrinseci morum honestatem intrinsecam ostendant…omissis…Pertanto ordiniamo, che niun sacerdote, o chierico in sacris abbia ardire di comparire in pubblico sì per

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consanguineità ed estrema precocità dei matrimoni, separazioni delle coppie e concubinaggio generalizzato. Per il clero non era poi tanto diverso: «di crassa ignoranza, vagabondo, concubinario e di modi violenti. Gli assassinii non sono rari…è un conglomerato di sradicati sotto tutti i punti di vista: temporale, intellettuale, morale e spirituale»28. Questo, dunque, lo scenario che si presentava in Corsica nel 1570, poco dopo la guerra di Sampiero di Bastelica e la conclusione del Concilio di Trento. Ma la situazione non cambiò molto nemmeno nel secolo successivo, se nel 1610 si vietava ai preti di portare delle armi da fuoco (ma quelli che si trovavano «in inimicizia» potevano portare una lancia o una sciabola), di praticare ogni sorta di incantesimi, magia o stregoneria e di perseguire l’usura, l’incesto ed il concubinaggio. Nessun cambiamento nemmeno nel 1711, in base alle testimonianze di Mons. Spinola: preti che non insegnavano il catechismo, che sposavano le concubine, che battezzavano i bambini anche se i padrini e le madrine ignoravano tutti i misteri della fede e non conoscevano né il Pater, né il Credo, né i comandamenti. L’alto clero corso era comunque formato da personaggi colti ed integerrimi ed aveva dato prova di una notevole crescita intellettuale dei suoi membri, distintisi per i contributi negli studi sacri e profani29. Tuttavia, la maggior parte di questi studiosi era vissuta fuori dalla Corsica e comunque non aveva contribuito con il talento e la cultura ad un rinnovamento spirituale del clero e del popolo corso. La differenza sociale, ancora una volta, si accompagnava ad una differenza intellettuale, morale e religiosa: la maggior parte del clero corso proveniva dal notabilato che, come abbiamo visto, aveva conosciuto un miglioramento di vita qualitativo durante i secoli XVII e XVIII. § 7. Un rinnovamento culturale Ogni rinnovamento culturale passa attraverso l’istruzione, ed in Corsica, sotto questo aspetto, bisognava cominciare dal nulla: trovare gli insegnanti e fondare le scuole. Si trattava di un compito più facile nelle città che nei villaggi. Certamente le comunità dell’interno non erano abbandonate al totale analfabetismo: almeno nel Diquà, avevano avuto la cura di pagare dei maestri incaricati di insegnare i rudimenti della grammatica e dell’aritmetica. Un po’ ovunque si trovavano dei preti, pagati per contratto in natura o in denaro. Ma in generale, nella maggior parte dei comuni mancavano gli insegnanti, oppure erano ignoranti quanto i discenti e dovevano dispensare, nello stesso tempo, il catechismo ed i rudimenti del calcolo e della scrittura. Questo alto tasso di analfabetismo emerge chiaramente da alcuni documenti relativi alla mancata elezione di alcuni candidati alla “podestatia” e dalle testimonianze dei francesi giunti nell’isola nel XVIII secolo, stupiti dell’estrema ignoranza di coloro che dovevano detenere la cultura in Corsica (preti, monaci e Podestà). Alla metà del XVII secolo potevano essere considerate vere scuole (con l’esclusione dei seminari tenuti dagli ecclesiastici), solo quella di Rogliano, nel Capo (fondata grazie alla generosità di un emigrato), quella di Oletta, tenuta dalla vedova di un militare, quella di Ersa e quella di Lucciana, tenute da sacerdoti. L’ignoranza generale si evince anche dalla necessità, per alcune comunità, di ricorrere allo scrivano pubblico pagato in natura. Nelle città, la situazione era leggermente diversa. La più grande concentrazione umana, il bisogno di commercio e di amministrazione, il miglioramento generale del livello di vita concorrevano ad una scolarizzazione alla quale la Chiesa donava tutte le sue attenzioni, conformemente alle prescrizioni del Concilio di Trento. I collegi propriamente detti erano più prosperi, anche perché gestiti dalla Chiesa: quello dei Gesuiti venne fondato nel 1601 a Bastia e nel 1617 ad Ajaccio, ed era specializzato nell’istruzione secondaria30. Gli effetti dell’istruzione erano deboli: i Gesuiti avevano poche decine di allievi, ancora meno gli altri: la scolarizzazione spettava a pochissimi giovani corsi, per la maggior parte appartenenti alla classe dei notabili. Non esisteva traccia di insegnamento superiore, che in genere veniva terminato presso le università italiane. Gli studi universitari erano riservati ai seminaristi che intendevano terminare gli studi a Genova, al Collegio Del Bene (una dozzina di borsisti l’anno), a Padova, alla Sapienza di Roma31 o a Sassari. In totale, anche qui, un piccolissimo numero di privilegiati e tutti ecclesiastici. Il vuoto culturale era talmente grande che certe professioni liberali (medici, farmacisti) erano appannaggio esclusivo dei genovesi. Per quanto riguarda la diffusione della cultura, al di là del semplice insegnamento, bisogna ricordare l’insediamento a Bastia, nel 1659, dell’Accademia dei Vagabondi. Fondata nel 1645 a Venzolasca da alcuni Francescani, essa riuniva “gli spiriti più belli del luogo, le persone oneste che si interessano del bel linguaggio e sanno trattare con eleganza la lingua italiana ed il verso classico”. Copia delle innumerevoli consorelle italiane, essa testimonia l’affinamento di un gusto che restava, senza dubbio, limitato ad un circolo ristretto di borghesi, la maggior parte di origine genovese, ma che non era meno le campagne, che per i luoghi abitati senza il collare, tonsura, ed abito ecclesiastico convenevole, protestandoci, che saremo per fare una rigorosa giustizia in qualunque caso di disubbidienza». Cfr. Arch. Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, Corsica, busta 8, Editto del Visitatore Apostolico Cesare Crescenzio de Angelis, Vescovo di Segni, in Visita alle diocesi di Nebbio, Accia e Mariana. 28 Cfr. CASTA F.J., L’histoire religieuse de la Corse. Perspectives et orientations actuelles, «Études corses», 1 (1973), p. 21. 29 Mons. Sauli, vescovo d’Aleria dal 1570 al 1591, di stirpe genovese; Mons. Guidi, di Calvi, soprannominato “Dottor della gran memoria”; Pietro Morati, autore di un’opera, la Prattica Manuale, che è una preziosa risorsa del diritto e dell’amministrazione corsa del XVII secolo; Mons. Olivese, teologo di grande fama, scrittore di talento e storico dell’ordine francescano in Corsica (i suoi Ragguagli del 1671 sono importantissimi per l’ordine dei fratelli minori). Mons. Arrighi, infine, «trascorse tutta la vita a Padova come professore di giurisprudenza e direttore dell’Università. Fu esaminatore del celebre Goldoni, che fece di lui un grande elogio»; cfr. CASTA F.J., Évêques et curés corses dans la tradition pastorale du Concile de Trente (1570-1620), Ajaccio 1965. 30 Esistevano, poi, i collegi dei Padri delle Scuole Pie a Calvi nel 1699, dei Padri della dottrina cristiana ad Ajaccio nel 1704 (per l’insegnamento primario), degli Osservatini a Corbara nel XVII secolo (che forniva un insegnamento di un livello intermedio tra quello delle scuole dei villaggi e quello dei Gesuiti), il collegio delle Clarisse a Bastia ed Ajaccio, quello delle Orsoline, per le fanciulle di buona famiglia, e quello dei Francescani per le ragazze del popolo. 31 Per le relazioni tra l’Università “La Sapienza” di Roma e gli studenti corsi cfr. l’articolo di CORRADO P., Corsica e Santa Sede, «Archivio storico di Corsica», 1 (1928), pp. 1-84,

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sintomatico di un risveglio culturale di un’isola per troppo tempo estranea alle attività culturali. Del resto, l’Italia rappresentava per i corsi la fonte della cultura, dell’erudizione, del buon gusto, oltre che il luogo prescelto per la pubblicazione delle opere dotte. Anche se con ritardo, la Corsica conobbe un certo risveglio culturale: erano timidi tentativi, che precorrevano, però, il rinnovamento del sentimento nazionale degli intellettuali e dei notabili, futura classe politica dirigente della Corsica indipendente. § 8. L’emigrazione Molti corsi erano riusciti a trovare fortuna e realizzazione personale fuori dall’isola. L’emigrazione intellettuale era uno dei tratti permanenti della Corsica, unita ad una forte emigrazione della gente del popolo. L’esodo ha assunto talvolta proporzioni tali da far affermare che, nel XVI secolo, «non c’è avvenimento nel Mediterraneo in cui un corso non vi sia immischiato»32. In effetti il fenomeno migratorio era diventato così grave da indurre Genova, attraverso il Banco di S. Giorgio, a vietarlo legalmente33; ciò non impediva le fughe clandestine dei corsi verso l’Italia, la Spagna, La Francia, l’Africa e le Americhe, spinti dalle difficili condizioni economiche o dal desiderio di fortuna. L’Italia era sicuramente la terra d’elezione dei corsi che emigravano: gli Stati della penisola, Genova per prima, accoglievano volentieri i civili e i militari provenienti dall’isola34. Nella madrepatria, fin dai tempi di Sampiero, delle compagnie corse manifestarono la loro fedeltà alla Repubblica; all’inizio del XVIII secolo, la metà degli eserciti genovesi era costituita da corsi. A Venezia, sotto gli ordini di Francesco d’Ornano, servivano, nel 1623, tredici compagnie; a Roma, oltre all’importante colonia corsa (stabilitasi dal IX secolo a Trastevere nella parrocchia di S. Crisogono), si contava una guardia pontificale composta di 600-800 corsi, sciolta nel 1664 a seguito di una sfida sanguinaria con alcune guardie dell’ambasciatore di Luigi XIV. Tra i corsi passati al servizio della Francia, il più famoso è sicuramente Alfonso d’Ornano, figlio di Sampiero di Bastelica. Partito dalla Corsica nel 1569, con 300 fedeli, egli risalì la scala della gerarchia militare e divenne Maresciallo di Francia (1595), dopo aver servito Enrico III ed Enrico IV in tutte le circostanze (Alfonso fu probabilmente l’istigatore dell’assassinio del duca di Guisa) ed aver amministrato la Guienna (A Bordeaux divenne sindaco e qui morì di cancrena nel 1610)35. Anche l’emigrazione civile contava numerosi corsi, specialmente a Marsiglia, città d’elezione degli isolani, che qui costituirono una colonia molto grande36. Ma i corsi fecero fortuna anche nella Maremma toscana (Bernardino di Raffaello), in Spagna alla corte di Filippo II (Francesco Constantini), a Venezia (de Francesco), in Sardegna (la Gallura è stata colonizzata e coltivata dai corsi esiliati37), in Barberia, con Hassan Corso (ovvero Pietro de Tavera), in Marocco, dove un Davia Franceschini di Corbara divenne sultano alla fine del XVIII secolo, nelle Antille e nelle Indie come esploratori delle nuove terre americane. § 9. Il bilancio: una società divisa ed in crisi Quando si getta uno sguardo d’insieme sulla realtà corsa del XVIII secolo non bisogna mai perdere di vista la sua atomizzazione. Una serie interminabile di confini limitava l’orizzonte politico della popolazione: innanzitutto la divisione dell’isola in Diquà e Dilà dai Monti; divisione, poi, all’interno di questa opposizione geografica e storica, tra regioni con personalità ben marcate (Castagniccia, Capo Corso, Nebbio, Niolo, Rocca, ecc.) e le 66 pievi, che definivano allo stesso tempo un territorio, una circoscrizione religiosa ed una comunità morale. La struttura territoriale mirava ad una regolamentazione e ad un equilibrio funzionale delle attività; gli abitanti erano suddivisi in lignaggi, e con la loro mediazione gli individui si inserivano nella comunità di villaggio. Questa regolamentazione aveva nello stesso tempo una valenza economica, politico-amministrativa e sociale. Essa giocava un ruolo essenziale nella vita quotidiana e mostra il peso delle comunità rurali nei rapporti sociali e nella mentalità isolana. Una valorizzazione selettiva La struttura sociale dell’isola, a partire dal XVII secolo, subì l’impatto della riforma economica. La commercializzazione, promossa da Genova, si caratterizzava essenzialmente con un vasto movimento di dissodamento e di piantagione arbustiva a vantaggio dei proprietari terrieri. La Camera, organo preposto ai finanziamenti, era un pessimo creditore e, dal 1652, esaurì i fondi. Per poter riempire di nuovo i suoi forzieri, la Serenissima Repubblica ricorse ad ogni genere di espediente: l’aumento delle imposte38 e la capitalizzazione del suolo erano quindi finanziate 32 BRAUDEL F., La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris 1966 (2 ed.), vol. I, p. 145. Cfr. pp. 41-46 e 144-146 per la diaspora corsa nel Mediterraneo. 33 Statuti civili, cap. LXXVI; decreti del 1594, 1610, 1613; cfr. GREGORI G.C., Statuti civili e criminali di Corsica, Lyon 1843. 34 I corsi, a Lepanto, erano presso le ciurme dei Turchi come nella flotta di Venezia e di Genova. Vedi POMPONI F., La participation des Corses à la bataille de Lépante, Bastia 1972 e VERGÉ-FRANCESCHI M., Paoli un Corse des Lumiéres, Paris 2005, pp. 38-56. 35 Su Alfonso d’Ornano, vedi anche: DE QUENZA J., La fidelitè des Corses à la France: Alphonse d’Ornano, Marechal de France et Henri IV, «B.S.S.H.N.C.», 3 (1881); CANAULT, Vie d’Alphonse d’Ornano, maréchal de France (Miscellanea, Aix-en-Provence, Bibl. Méjanes). 36 Cfr. ANTONETTI P., Les corses à Marseille au XVIe siècle cit. e BUSQUET R., GRISONI D., Les Grandes figures corses de Marseille, Marseille 1950; BARATTER E., DUBY G., HILDESHEIMER E., Le Commerce de Marseille aux XVIIe et XVIIIe siècle cit. e con GOURY M., Georges Roux de Corse, l’étrange destin d’un armateur marseillais (1703-1792), Paris 1990. 37 AUDIBERT P., Raccourci des histoires parallèles de la Corse et de la Sardaigne, Avignon 1972; LE LANNOU M., Pâtres et paysans en Sardaigne, Tours 1941; PROCACCI G., Profilo storico-economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai piani di rinascita, Milano 1991. 38 Il Libro Rosso di Corsica. Cfr. il decreto del 1657 che rimette a punto i prelievi in natura ed in denaro; il decreto del 1695 che procede ad una nuova approvazione della “Composta” ed aumenta il “Boatico” a causa delle «angustie in cui si ritrova la… Camera aggravata da molti debiti»; vedi i documenti conservati all’Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, Jurisdictionalium 219. Utile anche l’opera di GIACCHERO G., Economia e

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dai corsi, ed in particolare dai più poveri; allo stesso tempo venne lasciata una libertà totale ai notabili, ai detentori di capitali, che aumentarono le pratiche ipotecarie con le confische e le manomorte sui beni dei debitori. Le conseguenze di questi avvenimenti sono fondamentali per capire la dinamica della vicende dell’isola: 1) la capitalizzazione del territorio ha provocato la diminuzione dei terreni a grano e dei terreni per il pascolo. 2) La capitalizzazione è responsabile del restringimento delle comunità. L’analisi del Plan Terrier mostra che in Castagniccia, ad esempio, il 90% delle terre erano in regime di proprietà privata. 3) La capitalizzazione è la causa dell’estremo frazionamento della proprietà, su cui il Plan Terrier insiste fortemente. Questa frammentazione deriva direttamente dalla commercializzazione del territorio, dalle usurpazioni, dalle confische. La valorizzazione del suolo ha avuto delle ripercussioni sociali pesantissime. La messa a coltura delle proprietà notabilari, spesso disperse sul territorio, unita all’obbligazione per i contadini di cercare i mezzi di sussistenza fuori dalle cerchie familiari determinarono, a causa della mancanza di denaro, un tipo di sfruttamento del territorio ancora vicino all’economia feudale: la mezzadria. Lamotte lo ha ben mostrato con la piramide sociale di Fozzano: alla sommità il proprietario, colui che vive nobilmente, che non ha bisogno di lavorare presso altre persone, che ha il potere politico ed alla base la clientela dei lavoratori che la debolezza delle risorse costringe a prendere a mezzadria le terre del proprietario. La dipendenza in cui si trovano questi mezzadri è contrassegnata dalla struttura stessa del villaggio, in cui le case si raggruppano attorno a quella del capo clan. Insomma, la capitalizzazione, minando le basi dell’economia isolana, è responsabile della disgregazione delle strutture comunitarie. Questa disgregazione si rafforzò con il sistema clanico, basato sulla necessità della sopravvivenza: i corsi si inserivano nella vita economica della comunità con l’intermediazione del clan e non più con quella del nucleo familiare. Questa politica agricola ha arrecato altre conseguenze alle regioni con una spiccata vocazione pastorale. I pastori non erano solamente danneggiati dalla diminuzione dei terreni da pascolo all’interno delle comunità, ma anche da altri fattori: 1) La fissazione dei confini delle pievi. All’origine senza dubbio le terre aperte erano la caratteristica predominante, quanto meno tra pievi contigue39. Nel XVII e XVIII secolo, le pievi e le comunità impedivano il passaggio del bestiame sui terreni aperti per lasciarlo alle mandrie ed alle colture. Questa necessità, sempre più impellente, di vivere sulla propria terra e di rafforzare l’autarchia economica di ogni regione, accentuata dai particolarismi locali, fece crescere l’opposizione alla penetrazione straniera, spesso esasperando le tensioni e le rivalità interregionali. Ma questo processo ha ugualmente spezzato le strade tradizionali della transumanza e quindi aggravato le difficoltà dei pastori, che trovavano sempre meno spazi disponibili nel passaggio tra pievi confinanti. 2) Le misure decretate da Genova con diverse “grida” proseguivano nella stessa direzione40. In termini assoluti esse avevano un carattere positivo, dato che proteggevano le colture ed assicuravano al bestiame delle condizioni di vita migliori. Ma osservate nel contesto isolano esse colpivano duramente i contadini, obbligati ad indebitarsi per comprare la paglia o pagare ammende proibitive. Il processo d’impoverimento dei piccoli coltivatori e dei pastori si accelerò mano a mano che le autorità diventavano meno scrupolose per il rispetto della legge. Ormai soltanto i notabili potevano consacrarsi all’allevamento su grande scala, perché riuscivano ad applicare la legge sulla stabulazione e a rimborsare i danni delle loro mandrie41. Nelle regioni pastorali si assiste alla proliferazione della struttura clanica in modo ancora più marcato rispetto alle regioni agricole e con modalità simili al sistema feudale42. È probabilmente questo tipo di sfruttamento che ha perpetuato nel Sud la feudalità e che ha determinato la permanenza di vecchie strutture agrarie non rintracciabili nelle statistiche sulle ripartizioni delle terre e delle colture. Una società arcaica Si possono tracciare le linee portanti della società corsa del XVIII secolo, strettamente connesse agli avvenimenti politici: 1) l’isola aveva una struttura sociale ancora arcaica43. Questa osservazione è valida per tutta l’isola, in cui prevaleva una società del Settecento genovese, Genova 1981. 39 LAMOTTE P., La structure sociale d’une communauté de la Rocca, Fozzano, «Études corses», 11 (1956), pp. 35-47; ID., Deux aspects de la vie communautaire en Corse avant 1768, ivi, 9 (1956), pp. 33-62. I Fondi del Civile Governatore abbondano di conflitti tra comunità: vd. Richiesta affinché la disputa tra le frazioni di Sorbu e Ocagnanu relativa alle terre sia sottomessa all’arbitraggio del Rev. Tomasino Moracchini e di Lazaro Maria Donati (25 febbraio 1678, C. G., arch. 521), e Lamento portato dal comune di Furiani contro le genti di Oletta che vengono a mano armata a far pascolare sul territorio di Furiani gli animali, di cui parecchi infetti di mal di lupia (28 luglio 1660). Cfr. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, fondo Civile Governatore, serie C e G. 40 Libro Rosso cit., grida del 20 luglio 1620, pp. 281-283; grida del 7 novembre 1642, pp. 351-356, «B.S.S.H.N.C.», 138-139 (1892). Cfr. Libro Rosso di Corsica publié par l’abbé LETTERON, «B.S.S.H.N.C.», fasc. 119-120, 139-140, 167-168, 206-208 (1891-1899). 41 Il Capitano Renuccio Ornano ottenne l’autorizzazione a far pascolare le sue giumente sul territorio del Fiumorbo pagando una cauzione di 500 scudi in caso di danni alle colture. Vedi Archives Dèpartementales de la Corse-du Sud, Ajaccio, Civile Governatore, Atti Fatti in Visita, C 5. 42 Nel 1713, Vincente Geronimo segnalò al Governatore Spinola di essere il padrone assoluto della comunità d’Olmeto. Vedi Archives Dèpartementales de la Corse-du Sud, Ajaccio, Civile Governatore, Atti Fatti in Visita C 59; cfr. anche C 46, C 2, ecc. Vedi anche le note di PATIN DE

LA FIZÉLIERE A., nelle sue Mémoire historique sur la Rocca, «Corse historique», 9-10 (1963) a proposito dei pastori di Fozzano, uomini della piana, senza alcun diritto e senza altre risorse se non il loro omaggio ai ricchi proprietari. Cfr. anche le Memoires et Tableaux concernant l’établissement des patres et bergers dans la partie orientale de l’ile de Corse del 1774: i pastori che conducono le mandrie sono descritti come «i più numerosi ed i più miserabili». 43 Pomponi F., studiando il libro dei conti del convento di San Giacinto di Lota, ha potuto affermare «che nell’insieme emerge un ritmo di vita rallentato, mediocre sotto molti punti di vista, confermato dalla routine e da una condizione di vita difficile». Cfr. POMPONI F., Une exploitation rurale en Corse dans la deuxiéme moitié du XVIIIe siècle d’aprés le livre de comptes du couvent Saint-Hyacinthe de Lota, in ID., Ankylose de

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piccola proprietà a gestione familiare simile a quella di San Giacinto. Tuttavia, nel quadro generale, le differenze regionali erano notevoli. L’analisi delle tecniche rurali ha mostrato la stretta connessione tra gli arcaismi delle forze produttive e sociali e lo sviluppo nell’isola di settori dell’economia che si possono definire “precapitalistici”. In questa evoluzione, anche se a diversi gradi, si sviluppò un primitivo processo d’accumulazione di capitale: si trattava di una fase embrionale, limitata alla terra ed alla rendita, al predominio della piccola proprietà (che esclude per sua natura lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro), alla concentrazione sociale dei capitali, all’allevamento su grande scala, all’applicazione progressiva della scienza e della cultura. 2) Sin dall’origine del processo di valorizzazione del suolo si assiste ad una disgregazione della struttura comunitaria, dato che essa non poteva bilanciare gli equilibri sociali ed economici. Questa dissoluzione è stata accelerata ed aggravata dal sistema amministrativo genovese. L’analisi dei dati forniti dal Libro Rosso mostra chiaramente come la Repubblica perseguisse un duplice obiettivo: ridurre la sovranità delle assemblee comunali ponendo alla loro sommità delle persone devote alla madrepatria; aumentare parallelamente i poteri e le attribuzioni delle autorità genovesi a danno degli isolani. Questa politica favorì le mosse dei notabili in ambito economico, contribuì allo squilibrio delle cellule sociali primitive ed aumentò il disagio dei più poveri. Essa accentuò anche le carestie dell’isola. Il corollario di queste strategie politiche è una grande instabilità sociale, una crescente miseria ed un’ondata di banditismo e di brigantaggio che si aggrava a partire dal XVII secolo: basta leggere qualche “grida” dell’epoca per rendersene conto44. La distruzione della cellula comunitaria apriva la via alla criminalità, mentre le domande di pascolo suscitavano le maggiori difficoltà amministrative. La politica di Genova, aggravata dai mali endemici della società corsa, aveva fatto precipitare ancora più in basso la miseria e l’impoverimento. Due documenti possono farci comprendere meglio la complessità del fenomeno: I) l’8 settembre 1669, gli Anziani di Sartena indirizzarono al Governatore imperiale in visita nella loro giurisdizione le seguenti richieste: 1°) che venga accordata una proroga alla comunità per il rimborso del grano prestato dalla Camera alle popolazioni afflitte da sette anni di miseria consecutivi; 2°) che i pastori del Taravo e principalmente quelli del Zicavo siano invitati a non arrecare danni alle colture e di non commettere furti; 3°) che i pesi e le misure della giurisdizione, troppo numerosi e diversi, siano normalizzati; 4°) che i mercanti non pretendano interessi troppo elevati. II) Qualche giorno dopo, il 12 dicembre, i Nobili Sei presentarono al Governatore le seguenti richieste per ottenere una migliore amministrazione della provincia: a) lo sterminio dei briganti della regione; b) la misurazione del peso dei cereali con il “bacino a raso” e non “a colmo”; c) la fissazione dei prezzi dei cereali della passata raccolta venduta dai mercanti; d) la restrizione del numero degli ordini dei sequestri accordati ai creditori contro i loro debitori. Il confronto di questi due testi porta automaticamente ad una conclusione: alla struttura di crisi (espropriazione, problema dei terreni da pascolo…) si aggiunsero dei catalizzatori che aggravarono la situazione, rendendola esplosiva: i prezzi, la speculazione, i cattivi raccolti, le tasse, la cattiva amministrazione. III) In queste comunità rurali, dall’economia arcaica, in preda a contraddizioni economiche e sociali sempre più vive, le differenze sociali erano ancora più accentuate, i rapporti di classe sempre più apparenti. Essi erano imbrigliati all’interno di un sistema clanico dominato dai notabili, veri beneficiari della “pace genovese”: non bisogna mai dimenticare che il sistema clanico smorzava le rivalità sociali, alleviava i lutti, recuperava i malcontenti, impediva le prese di coscienza e tornava a vantaggio della sola borghesia. IV) Questa borghesia era essenzialmente rurale. Dal punto di vista politico, la Serenissima Repubblica escludeva i nazionali corsi dalle dignità politiche, dagli uffici e dagli impieghi della loro patria, mentre dal punto di vista economico i corsi si scontravano con il principio dell’esclusione commerciale. I ricchi produttori non potevano esportare il prodotto dei loro raccolti senza l’autorizzazione governativa; inoltre, il commercio dell’isola era orientato obbligatoriamente verso Genova, che fissava i prezzi delle derrate ai tassi più bassi. Queste restrizioni limitavano considerevolmente la potenza finanziaria della borghesia fondiaria corsa, non legata ai commerci, poco dinamica. Conseguentemente, l’accumulazione di capitale era limitata anche nelle altre attività, come nella rendita dei fondi agricoli. Le aggiudicazioni e la percezione delle imposte dirette o indirette erano riservate ai genovesi; per lo sfruttamento dei beni demaniali nell’isola, la Repubblica faceva appello agli isolani solo in casi estremi, e non permetteva comunque un campo d’azione remunerativo. Tutto questo ha deviato i notabili dalle attività finanziarie e li ha orientati verso la proprietà terriera, con una conseguente tesaurizzazione dei beni; allo stesso tempo la debolezza tecnologica e le resistenze comunitarie facevano diminuire i profitti. In pratica questa borghesia rurale non aveva la forza necessaria per trasformare le strutture economiche e risolvere le contraddizioni della crisi sociale: non aveva i mezzi per favorire uno sviluppo autonomo e raggiungeva la soddisfazione delle proprie aspirazioni solo tramite favori o tolleranze. L’accesso alle cariche politiche, amministrative e magistratuali, la libertà commerciale, finanziaria e culturale erano concepibili solo nel limitato spazio concesso della Repubblica di Genova. Atomizzazione, arcaismo, crisi sociale, debole sviluppo della borghesia isolana: da qui partirono le fiamme della lotta nazionale, con tutte le sue contraddizioni.

l’économie méditeranéenne, «Cahiers de la Méditerranée», 1974, pp. 73-94. 44 Ecco, ad esempio, quella inviata dal Senato di Genova al Governo il 2 dicembre 1711: «Dall’oratore del Regno presso di noi, Angelo Luigi Matra, ci è stato esposto essere uno de’ maggiori stimoli a delinquere che abbiano i corsi, il vedersi invadere da loro emoli di propria autorità, e senza licenza d’alcun giudice, il possesso de’ beni che essi attualmente godono, che però nello Statuto di Corsica sono state proibite con rigorose pene dette invasioni…atto così criminoso e che partorisce frequentissimi omicidi» (Libro Rosso cit., p. 713).

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FABRIZIO DAL PASSO, Il Mediterraneo dei Lumi. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni CAPITOLO 2 – I testi polemici della Rivoluzione corsa: dalla “Giustificazione” al “Disinganno”

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CAPITOLO 2

I TESTI POLEMICI DELLA RIVOLUZIONE CORSA: DALLA “GIUSTIFICAZIONE” AL “DISINGANNO”

§ 1. Introduzione Nel 1758, dopo quasi trent’anni di ribellione alla Repubblica di Genova, venne pubblicato a Corte un libro in cui i corsi giustificavano i motivi della loro rivoluzione. Questo libro costituiva il punto d’arrivo d’una lunga discussione interna tra capi insorti ed ecclesiastici patrioti, quando ormai la lotta contro i genovesi si stava evolvendo verso una fase conclusiva. Ben presto la Giustificazione1 divenne la base su cui si sviluppò la propaganda isolana agli inizi degli anni ‘60. Pier Maria Giustiniani, vescovo di Ventimiglia, contrappose a questo libro una sua confutazione ispirata al principio «non essere mai lecito ribellarsi contro il proprio sovrano per qualunque motivo»2. Dalla sua mano uscirono le Riflessioni intorno ad un libro intitolato Giustificazione della rivoluzione di Corsica, e della ferma risoluzione presa da’ corsi di mai più sottomettersi al dominio di Genova. Cominciava quindi una lunga querelle sul diritto dei corsi di ribellarsi al sovrano legittimo, in caso di aperta ingiustizia. Salvini apre la Giustificazione con uno sguardo retrospettivo, alla ricerca d’un passato che fosse d’ispirazione e d’aiuto alla solitaria ribellione degli isolani. Innanzi tutto al mondo classico, alla Grecia e a Roma: Paoli veniva paragonato ad un eroe dell’età classica e proprio in questa luce verrà visto da Alfieri, Boswell e Symonds. Sotto questo classicismo si avverte la volontà di giustificare una rivoluzione che era giunta ad una maturazione profonda e che cercava di rispecchiarsi in un passato universalmente accettato e ammirato. Tutta la polemica contro Genova è anche in lui, come nei precedenti pubblicisti corsi, un continuo disputare sulle origini e sulle forme prese dal dominio genovese nell’isola. Un punto di riferimento fondamentale per poter analizzare a fondo le radici storiche della nazione corsa è il rimpianto della nobiltà feudale dell’isola. Una delle accuse più gravi che Salvini, così come gli altri polemisti, rivolgevano al dominio genovese era di avere osteggiato e distrutto la classe nobiliare. La Serenissima aveva fatto di tutto per lasciare cadere le famiglie nobili nell’oscurità e nella miseria. Ultima e finale offesa, Genova aveva vietato agli isolani l’uso stesso dei titoli nobiliari e di quelle parole di distinzione, come ad esempio di “Illustrissimo”, che in Italia si era soliti dare «A’ più semplici cittadini»3. In alcuni punti della Giustificazione vengono narrati episodi della dura lotta tra la nobiltà isolana e i governatori genovesi. Lo scoppio di passioni feudali all’interno di opere come la Giustificazione urtava contro la realtà effettiva, cioè contro l’assenza di ogni aristocrazia corsa. La colpa era dei genovesi, o comunque essi avevano accelerato questa dissoluzione, ma restava il fatto che nel momento in cui Paoli prese il potere nell’isola, la classe nobiliare era notevolmente diminuita e politicamente ininfluente, mentre il notabilato stava acquistando sempre maggiore potere ed influenza, spesso a scapito delle comunità agro-pastorali dell’interno. La realtà quotidiana del governo di Genova consisteva in una vera e propria discriminazione dei corsi: le cariche politiche erano interdette agli isolani, e il servizio militare non garantiva possibilità di avanzamento. Perfino la Chiesa s’era piegata a discriminare i corsi: i vescovi dovevano essere genovesi, mentre ogni ostacolo era frapposto alla formazione del clero. Genova, insomma, finì con l’essere odiata tanto perché era una Repubblica aristocratica quanto perché era conservatrice, mancante d’iniziativa economica e politica. L’oppressione più pesante, infatti, non era quella originata dai privilegi dei nobili genovesi, ma quella economica. Le accuse in questo caso si fanno più circostanziate e precise, riflettendo delusioni e dissapori lungamente covati nei villaggi e nelle famiglie dell’isola. In Corsica la tensione è portata all’estremo dalla distanza sociale che divide i Signori (notabili, banchieri, mercanti, marinai) e i Giornalieri (contadini, pastori) legati strettamente alla terra e ad un’economia di sussistenza. Le radici economiche della rivolta sono esaminate da Salvini con particolare accuratezza. Il quadro che egli traccia dei privilegi della capitale e dell’immiserimento dell’isola non era dissimile da altre situazioni italiane4. Egli ben conosceva e descriveva, per esperienza diretta, l’attrito, il conflitto che veniva a prodursi tra chi offriva e chi comprava granaglie, tra i coltivatori dell’entroterra ed i mercanti che dominavano i porti e i presidi. In Sardegna tutta la macchina per trarre grano dall’isola era controllata da funzionari di Torino e di Cagliari5. A Genova, a Bastia, a Bonifacio, ad Ajaccio, la mediazione statale mancava, o era inefficiente: il conflitto, il sopruso economico erano perciò tanto più risentiti. Lo sfruttamento dell’isola non avveniva attraverso un sistema di tasse particolarmente gravose: la ribellione era precisamente cominciata il giorno in cui la Repubblica aveva tentato, piuttosto timidamente, di accrescere il carico fiscale dell’isola. I traffici commerciali erano basati sul privilegio. Erano i genovesi a fissare i prezzi e questi erano bassi proprio perché venivano stabiliti per tutti i prodotti sulla base dell’annata trascorsa, che per loro era stata 1 Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa da corsi di mai più sottomettersi al dominio di Genova, Corte 1758. Genova sospettava che gli scritti in favore dei corsi fossero stati stampati a Napoli. Agostino Lomellini, inviato dalla Repubblica, chiese insistentemente a Tanucci di prendere delle misure in proposito e questi si mostrò disposto ad accontentarlo, pur spiegandogli che, col pretesto di stampare delle comparse conclusionali, venivano spesso pubblicati degli scritti fuori d’ogni controllo dei censori. Cfr. Archivio di Stato di Genova, Lettere Ministri, Napoli, mazzo 4, 1759-60. 2 FONZI F., Le relazioni fra Genova e Roma nel tempo di Clemente XIII, «Annuario italiano per l’età moderna e contemporanea», VIII (1956), p. 213. 3 Giustificazione cit., p. 160, nota 15. Sull’esautoramento della nobiltà o dei principali della Corsica particolarmente importante l’articolo di POMPONI

F., Gênes et la domestication des classes dominantes au temps de Sampiero, «Études corses», 1 (1973), p. 35. 4 Cfr. DAL PASSO F., Il sistema sociale ed economico della Corsica alla fine del XVIII secolo, «Semestrale di studi e ricerche di Geografia», 1-2 (2002). 5 Cfr. SOTGIU D., Storia della Sardegna Sabauda, 1720-1847, Roma 1984.

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economicamente favorevole. Quanto al grano, la Dominante ne impediva una libera esportazione. Di conseguenza si abbassavano enormemente i prezzi delle vettovaglie. Genova aveva preso in passato alcune misure per lo sviluppo agricolo dell’isola, ma solo per poterla sfruttare nella maniera ad essa più vantaggiosa: agli isolani toccava la fatica della coltivazione, ai genovesi il ricavato. I mezzi di carattere finanziario di cui la Dominante si era servita per questa sua politica non avevano fatto che inasprire la situazione. I prestiti erano a breve termine: Genova si era dimostrata incapace di attendere che maturassero i frutti dei suoi capitali. L’usura gravava soprattutto sugli abbienti, che soli avevano possibilità di offrire un qualche pegno. Per loro l’impossibilità di rimborsare i prestiti significava «la desolazione delle loro case». Al privilegio economico si aggiungeva quello amministrativo: lo sfruttamento dell’isola avveniva pure attraverso i “nobili poveri”6 là inviati come magistrati. Anche qui la debolezza dello stato peggiorava la situazione. Per non pagare i propri funzionari, Genova li faceva mantenere dai corsi. Il tentativo e lo sforzo della rivoluzione isolana per vendicare la terza delle grandi offese che i corsi di Paoli attribuivano a Genova, è sicuramente di grande rilievo. Accanto all’avvilimento e alla povertà, l’ignoranza. Gregorio Salvini denunciava per primo la volontà della Repubblica d’impedire ogni scambio culturale tra il clero ed i laici dell’isola. Quanto alle scuole pubbliche, Genova si era sempre opposta alla loro diffusione, con il fine più o meno dichiarato di chiudere ai corsi l’accesso ad ogni impiego, nella Chiesa e negli uffici. Quando l’assemblea generale del 26 dicembre 1763 decise di Errigere... in Corte una pubblica università di tutte le scienze a forma delle migliori università di terraferma… La Corsica aveva trovato finalmente una degna risposta alla troppo lunga depressione culturale in cui si sentiva mantenuta dalla dominante7. L’università doveva essere il simbolo della raggiunta indipendenza e libertà. Il suo statuto intendeva rispondere puntualmente alle esigenze rimaste fino ad allora insoddisfatte. Oltre alla teologia scolastico-dogmatica e a quella morale, vi si sarebbero insegnate le istituzioni civili e canoniche, l’etica, la filosofia e la rettorica. Ora, con un misto d’incitamenti, di privilegi e di proibizioni ci si sforzava, insomma, di creare rapidamente quell’élite culturale di cui i corsi si sentivano defraudati: Lumi e patria stavano alla base dell’università di Corte. Come nel campo politico ed economico, anche nella cultura la rivoluzione misurava ormai le forze necessarie per rovesciare la tirannide genovese. Anche per i Lumi che portava, la rivoluzione di Corsica era giustificata. Ma che significato poteva assumere il termine “rivoluzione” nella Corsica della metà del XVIII secolo? Se le radici sociali, economiche e culturali erano evidenti, era sicuramente più difficile trovare delle giustificazioni politiche alla ribellione, nascoste com’erano tra i risentimenti e le passioni di un intero popolo. Come già diceva il vescovo Giustiniani rispondendo al canonico Giulio Matteo Natali, nel 1737, i corsi traevano la loro idea di tirannia da san Tommaso e dalla tarda Scolastica dei gesuiti spagnoli8. Se spingevano più oltre lo sguardo, erano portati a posarlo sulla polemica antiassolutisica dell’età finale di Luigi XIV. Salvini attribuiva a Fénelon9 quella giustificazione della rivoluzione nata dall’oppressione dei sovrani che già sopra abbiamo notato. Pasquale Paoli disse addirittura che «uno dei libri molto necessari in Corsica», fin dal 1754, oltre all’Histoire Romaine di Rollin, era L’Esprit des Lois di Montesquieu. Paoli, infatti, era molto sensibile al problema della divisione dei poteri e alla logica interna delle diverse forme di governo. Ma né Salvini, né altri polemisti corsi accennano a Montesquieu. Per l’autore della Giustificazione, la rivoluzione corsa viene inquadrata nel diritto di mutare governo quando esso si dimostri ingiusto e indegno, e cita a questo proposito una lunga serie di ribellioni che vanno dall’età biblica all’età moderna, con una particolare attenzione al Medioevo. Particolarmente importante è l’accenno alla rivolta dei Paesi Bassi del 1564, esempio che, unitamente a quello degli svizzeri, vediamo spesso citato nelle lettere di Paoli e che ritroviamo pure sotto la penna di altri polemisti corsi, tanto favorevoli, quanto avversari della rivoluzione10. Assente è la Rivoluzione inglese della metà del Seicento, ma è pure notevole che sia presente invece quella del 168911. 6 «…Le fâcheux est que ces messieurs-là ont toujours autour d’eux des chanceliers, sous-chanceliers et bas-officiers affamés et très mal payés, sur lesquels ils se reposent souvent avec trop de confiance et de facilité. Ces sortes de gens s’embarrassant fort peu de les commettre lorsqu’il s’agit de leurs intérêts particuliers» Dalla lettera del Console Coutlet al Ministro di Francia in Genova del 27 aprile 1748, Archives Nationales, Parigi, fondo Correspondance consulaire, AEB1 584; per la condizione dei «nobili poveri» vedi Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, Jurisdictionalium 219. 7 Ragguagli dell’isola di Corsica per il mese di dicembre 1763. L’esigenza di una università si era già prima affacciata tra gli insorti. Attorno al 1760 vennero scritte queste caratteristiche parole: «Che il Collegio tanto bramato da popoli per insegnare le scienze a 30 o 40 giovani del regno, con la debita distribuzione delle pievi, città e luoghi, si formi in Corti e si procuri presso la Santa Sede apostolica che siano a detto collegio assegnate tutte le abbazie, benefici semplici del regno (con una rendita di circa 8500 scudi romani) e che i lettori di detto Collegio debbano essere puri nazionali corsi…» (Memoria di quello che conferirebbe al regno di Corsica cit. Archivio di Stato di Napoli, Esteri 537, Nazione Corsa, 1736 ai 1773). 8 GIUSTINANI P.M., Risposta ad un libello famoso intitolato Disinganno intorno alla guerra di Corsica scoperto da Curzio Tulliano corso ad un suo amico dimorante nell’isola, con cui l’autore ha preteso di difendere come lecita la ribellione di alcuni corsi contro la Serenissima Repubblica di Genova, Friburgo 1737, p. 58. 9 Cfr. FENELON (de) S.F., Les aventures de Telemaque fils d’Ulysse, Paris 1740. 10 Il Supremo Consiglio di Stato del regno di Corsica affermava, il 7 settembre 1762, parlando dei sacrifici finanziari compiuti dalla nazione: «…cosa non fecero gli olandesi e i svizzeri senza riandare la storia dei romani e dei greci?». Estr. da CAMBIAGI G., Istoria del regno di Corsica, s. l. [ma Firenze], vol. IV: Contenente le cose occorse dal 1755 a tutto il 1771, 1772, p. 71. Cfr. TOMMASEO N., Lettere di Pasquale de’Paoli, «Archivio storico italiano», XI (1846), p. 31. Olandesi e Svizzeri sono per Paoli due popoli che hanno saputo costruire in mezzo a mille difficoltà, partendo da un paese povero: «I poveri olandesi non hanno tratto la loro sussistenza sopra il mare? Instabilissimo elemento! I svizzeri non hanno piantato il piede in ripidissime montagne, ove ogni cosa minaccia rovina e caduta?» (Lettres de Pascal Paoli cit., vol. III, 1890, p. 60, lettera a Mariani, da Patrimonio, 26 aprile 1765). Paoli chiede spesso all’Inghilterra di fare per la Corsica quello che essa operò per stabilire la libertà dell’Olanda. «L’Olanda – scrive a Giorgio III -, deve la sua libertà e la felice sua costituzione alla generosità della nazione inglese», ivi, vol. II, p. 450. 11 A Cromwell, del resto, pensò di frequente lo stesso Paoli quando, in mezzo alle fazioni, i complotti, le battaglie, gli veniva fatto non solo di giustificare, ma di esaltare la forza delle rivoluzioni: «Le guerre civili guariscono i pregiudizi delle nazioni e, quando sono finite, le rendono più rispettabili ed il governo ne diviene più forte. A questa verità deve la maggior parte delle vittorie di Luigi XIV, Cromvello e Guglielmo III» (Lettres

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In compagnia di questi antenati la Corsica si sente meno sola. La rivoluzione non è la prima avvenuta nel mondo, e trae anch’essa la sua origine, come afferma Salvini, dalla medesima radice di ogni altra rivoluzione: l’oppressione, la tirannia, l’incapacità dei governanti. La sua giustificazione è tanto più facile e naturale quanto più egli, allontanandosi nel passato, risale verso un mondo feudale e comunale. Nonostante la maturazione a cui era giunto il pensiero politico degli isolani ribelli, si trattava spesso, per gran parte di loro, e ancora per Salvini, non di affermare un generale diritto alla libertà, ma di continuare a rivendicare quella costituzione che la Corsica aveva posseduto nel passato e di cui era stata defraudata da Genova. L’isola non era terra di conquista, ma aveva una propria organizzazione tradizionale. La Repubblica era tirannica proprio perché aveva violato ed offeso quella tradizione12. Paoli, che aveva gusto e cultura giuridica, rievocò spesso l’esistenza di una tradizionale costituzione del governo di Corsica, sulla quale si era basata la “convenzione” che aveva legato l’isola a Genova. Perché non riprendere allora questa tradizione costituzionale e battersi per ristabilire una simile bilancia dei poteri? Qualcuno pensò ai pays d’état della Francia13. Altri all’esempio delle due altre isole italiane, Sardegna e Sicilia, che mantenevano i loro parlamenti ed erano soggette ai rispettivi sovrani attraverso un complesso sistema di statuti e di privilegi. In Corsica, il ricordo della partecipazione dagli isolani al governo dei genovesi continuò ad essere sempre presente, ma con Paoli e la sua generazione apparve sempre più evidente il baratro che divideva questa più o meno mitica costituzione dalla realtà presente. Alla supposta struttura giuridica iniziale era impossibile rifarsi perché Genova l’aveva cancellata e distrutta con le proprie mani: non aveva rispettato la dignità dei rappresentanti. Così, malgrado questi ricordi e progetti, il governo dei corsi, negli anni ‘60, non fece alcun tentativo per restaurare la mitica costituzione tradizionale. Lo Stato che usciva dalla rivoluzione fu in realtà nuovo nella forma e nella struttura14. Il legame maggiore che esso conservò con il passato – e la cosa è fondamentale – non stette al vertice, ma alla base, nelle pievi e nell’assemblea generale. L’amministrazione locale fu il riflesso e il risultato del modo con cui era venuto formandosi il nuovo Stato, attraverso l’aggregazione, diversa di caso in caso, delle vallate, terre e località dell’isola. Le pievi furono, infatti, legate al centro attraverso il continuo controllo che su di esse esercitava il nuovo Stato. Nell’organizzazione della Consulta a Corte confluì la convinzione di Paoli che era necessario rispettare l’«indole del popolo», e l’idea, maturatasi in lui da tutta la sua esperienza così come dalla sua cultura classica e moderna, che il governo popolare era «il più confacevole alla natura umana»15. Ciò che balza immediatamente agli occhi, al di là della successiva piega che prese la rivolta corsa, con l’assunzione del governo da parte di Pasquale Paoli e della creazione della Dieta, è che dietro l’apparente unità della rivolta isolana si celavano profonde differenze tra le varie forze, in particolare tra i piccoli coltivatori e i residui della vecchia feudalità, sugli obiettivi della lotta. In tal senso la Giustificazione ed il Disinganno, come gli altri testi giustificativi anonimi, rappresentarono fondamentalmente la voce di alcune fazioni, non dell’intero popolo. Dal punto di vista teorico, poi, i testi in esame possono essere collocati nel filone del pensiero cattolico che, difendendo le prerogative e i privilegi della Chiesa romana e in polemica con l’assolutismo dei sovrani, tendeva a ricondurre la potestà dei monarchi nell’ambito del diritto naturale, ammettendo il diritto alla ribellione da parte dei sudditi per gravi e motivate ragioni16. Il giusnaturalismo cristiano ripreso da Suarez ne rappresenta il supporto filosofico. Esso unisce la corrente rivendicazione dell’isola a porsi sotto la protezione della Chiesa con il curialismo dominante e contribuisce a mantenere la vitalità del pensiero giusnaturalista cristiano nel Settecento italiano. A questo proposito si pongono diversi problemi, che riguardano la collocazione del diritto naturale cristiano, così come fu propugnato dai corsi, nell’età dell’Illuminismo. Il XVIII secolo fu l’età del dispotismo illuminato e della sua lotta contro i privilegi e le prerogative della Chiesa. Il giusnaturalismo cristiano, rifacendosi in particolare a Suarez, che nel XVI secolo si era opposto in funzione antiprotestante alla concezione teocratica dello Stato17, riaffermava i diritti della Chiesa in polemica col sovrano

de Pascal Paoli cit., vol. II, p. 151, da Vescovato, 22 aprile 1761). 12 Erano le idee che stavano alla base della rivoluzione isolana nella sua fase iniziale, negli anni ’30. Cfr. soprattutto l’Argomento giustificativo le ragioni de’ corsi intorno alla loro intrapresa contro la Serenissima Repubblica di Genova del 28 settembre 1737, in CAMBIAGI G., Istoria del regno di Corsica, s. l. 1771, vol. III, p. 137. Una copia manoscritta di quest’opuscolo si trova all’Archivio di Stato di Genova, Corsica, f. 1368, 1751 in 1760. Vedi anche l’articolo di ETTORI F., Le congrés des théologiens d’Orezza (4 mars 1731). Mythe et relité, «Études corses», I (1973), pp. 71 sgg. 13 L’autore della Descrizione geografica spiegava che nel trentennio seguito alla partenza di Alfonso d’Ornano per la Francia (1569) «si trovavano tutti i veri motivi della presente guerra di Corsica» (p. 37) e «che al centro del governo corso d’allora stava un’assemblea generale, che seduta generale chiamavano». Ed ancora: «in essa trattavano degli inconvenienti a rimediare, dei vantaggi a promuovere, delle leggi a stabilire; si parlava delle strade, dei ponti, della coltivazione, del commercio, delle cause e dell’occasioni dei delitti e dei disordini, tutto il politico ed economico v’era ben esaminato, vi prendevano le deliberazioni sopra le domande della Repubblica e dei suoi commissari: così fanno li stati di Provenza, Linguadoca, Béarn, Borgogna e Artesia sotto il più potente di tutti i re» (p. 43). Discuteva poi minutamente il meccanismo amministrativo dei «Nobili Dodici, dei Sei, degli Oratori», i quali insieme «conservavano con gelosia e attenzione la libertà dei popoli» (p. 44). L’abate GERMANES nel terzo volume della sua Histoire des révolutions de Corse depuis ses premiers habitans jusqu’ à nos jours, Demonville, Paris 1776, dirà che in Francia «c’è stata la questione di mettere la Corsica come paese di Stato» (p. 32) e cercherà di dimostrare che la Corsica, dopo il 1769, era stata posta «al rango delle grandi province di Francia più privilegiate», diventando essa pure un «paese di Stato», ivi, p. 157. 14 Cfr. CARRINGTON D., The Corsican constitution of Pasquale Paoli (1755-1769), «The English historical Review», vol. LXXXVIII, 348 (luglio 1973), pp. 481 sgg., fondato su interessanti documenti dell’archivio di Ajaccio; ID., L’ordinamento costituzionale della Corsica durante il regime di Pasquale Paoli, «Critica Storica», n. s., XI 4 (1974), pp. 62 sgg. ed ID., Le texte original de la constituion de Pasquale Paoli, «B.S.S.H.N.C.», 619-620 (1976), p. 7 e sgg. 15 Paoli discusse di questi problemi con lo storico e agronomo inglese John Symonds, nel 1767. 16 Sulle correnti del diritto naturale cristiano vedi BULFERETTI L., L’assolutismo illuminato in Italia, Milano 1944, pp. 369 sgg., e JEMOLO A.C., Stato e Chiesa negli scrittori italiani del Seicento e del Settecento, Torino 1914, pp. 33 sgg. 17 Si veda, a questo proposito, VON GIERKE O., Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Torino 1943, pp. 67 sgg.

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assoluto. Ma, nel quadro spirituale della seconda metà del secolo, quando già cominciavano embrionalmente ad apparire i limiti e l’angustia delle realizzazioni dell’assolutismo illuminato e nascevano nuovi ideali democratici che avrebbero trionfato, a fine secolo, con la Rivoluzione francese, il giusnaturalismo che i corsi portavano avanti acquisiva, specchiandosi nell’incandescente realtà dell’isola, nuova veste e nuovo significato. Distaccandosi da quella petizione di formule intese per lo più alla difesa dei privilegi della Chiesa, caratteristiche della maggior parte degli scrittori ecclesiastici del Settecento e fondendosi con un reale moto per il progresso umano, esso diventava, nel fondo, autonomo dalla lotta della Chiesa contro la concezione teocratica dello Stato. Sposandosi a una rivolta popolare che racchiudeva in sé, contraddittoriamente, tanta parte dei motivi che agitavano il pensiero politico settecentesco, la sua difesa del diritto di ribellione si storicizzava, ed entrava a far parte, sia pure da una posizione autonoma ed appartata, di quel vasto e variopinto panorama di sollevazioni di pensiero che si agitava sotto la coltre relativamente uniforme dell’assolutismo degli anni Sessanta. Filone di pensiero, dunque, autonomo ed appartato, ma non estraneo ai travagli e alle crisi della seconda metà del secolo. Detto questo, vanno verificati i rapporti di questo filone con il pensiero illuminista e con gli altri settori del pensiero giusnaturalista cristiano del secondo Settecento18. Va valutata, infine, la collocazione politica che il giusnaturalismo dei corsi assunse nell’ambito del pensiero del secondo Settecento, tenendo presente l’intreccio di eversione e di cautela che lo caratterizzò: in primo luogo, teorizzare il diritto di rivolta applicandolo ad una situazione concreta ed incandescente come quella della Corsica significava, nella seconda metà del XVIII secolo, precorrere i tempi, perché l’insofferenza o la rivolta intellettuale di filosofi e riformatori nei confronti dell’assolutismo illuminato non era ancora arrivata a un punto di rottura così radicale. Ma in secondo luogo, mettendo in rilievo non le masse contadine in armi, non la rivolta antifeudale e libertaria, ma la partecipazione dei Primati alla rivolta, il giusnaturalismo corso mostrava un fondo conservatore che si ritrova, sotto altre forme, in alcuni scrittori ecclesiastici dell’epoca di Pio VI, e in una parte dei cattolici democratici di fine secolo19. § 2. Analisi dei testi giustificativi La storiografia sulla rivolta della Corsica nel ‘700 ha in sostanza eluso alcuni nodi storici rappresentati dal Disinganno di Giulio Matteo Natali e dalla Giustificazione di Gregorio Salvini20 e non perché abbia ritenuto privi di importanza per il corso degli eventi questi due testi: tutti gli studiosi fanno in qualche modo riferimento agli scritti dei patrioti corsi. Più semplicemente, è mancata l’indagine approfondita per un avvenimento storico-politico che si lega con decine di sottilissimi fili, a volte quasi invisibili, ai fatti di un’Europa ricca di straordinari mutamenti. Per quaranta anni, fino al 1769, in Corsica si combatte una guerriglia sfiancante, che i corsi adottano, dal 1755 sotto la direzione unica del generale Pasquale Paoli, contro le truppe genovesi, affiancate prima da rinforzi austriaci e poi francesi. Intorno a questa impari guerra, si intrecciano interessi spagnoli, francesi, austriaci, inglesi, sabaudi, toscani, napoletani e romani. E in questo groviglio, Natali e Salvini, due ecclesiastici corsi, tentano di promettere e propagandare con i loro scritti l’idea di indipendenza di un popolo governato per secoli secondo un’ottica coloniale. Il giudizio di Venturi quando scrive che, per Salvini e per “gran parte” degli altri capi rivoltosi, si tratta «non di affermare un generale diritto alla libertà, ma di continuare a rivendicare quella costituzione che la Corsica aveva posseduto nel passato e di cui era stata defraudata»21 sembra riduttivo. Gli appelli per l’indipendenza e per la libertà dal dominio genovese sono dati di fatto nel Disinganno e ancor più nella Giustificazione: appelli generali e specifici. Certamente, Natali e Salvini non rappresentano le aspirazioni di tutto il popolo corso. I due ecclesiastici non nascondono affatto le loro tendenze politiche filo-monarchiche e filo-aristocratiche. Ciò non esclude che essi, seppur dal loro punto di vista, partecipino alla rivolta e svolgano un ruolo importante. Per questo sembra azzardato il giudizio di Venturi secondo cui «la volontà aristocratica esprimeva l’aspirazione a trovare quelle garanzie e quegli sbocchi che la Serenissima negava a tutti gli isolani e dispensava con mano particolarmente avara ad alcuni di loro»22. Più equilibrato è il giudizio di Bordini, secondo cui Natali e Salvini rappresentano «un’ala» della rivolta in quanto il contenuto politico dei due scritti «si differenzia notevolmente rispetto ad alcune innovazioni di fatto che la rivolta operò nel tessuto politico corso»23. Sostanzialmente imprecisa è la critica di conservatorismo culturale che Venturi ed Emmanuelli muovono ai due ecclesiastici, in particolare a Salvini, autore dell’opera più importante. Natali e Salvini, per giustificare la rivolta di fronte a Roma e di

18 Non sembra che i testi polemici di parte corsa possano essere avvicinati a quella corrente di «illuministi cattolici», fiorita particolarmente in Toscana, che sono stati in modo più particolare studiati da CODIONOLA E., Illuministi giansenisti e giacobini nell’Italia del Settecento, Firenze 1947, pp. 48-68, e questo soprattutto perché la maggior parte degli illuministi cattolici erano mossi da interessi prevalentemente religiosi e culturali («In loro prevale l’interesse spregiudicato del ricercatore, dell’erudito, dello storico o per lo meno una disinteressata curiosità intellettuale» (CODIONOLA E., op. cit., p. 51) mentre l’interesse politico è quello predominante nei testi polemici di parte corsa. La differenza principale che li separa, inoltre, risiede nel fatto che gli illuministi cattolici gravitano per lo più nell’ambito del dispotismo illuminato mentre i testi polemici teorici di parte corsa (così come, seppur generalmente per mere ragioni di polemica curialista, facevano tutti gli scrittori di diritto naturale cristiano) tendevano già, seppur in modo autonomo e insieme contraddittorio, a superarlo, giustificando la rivolta in armi contro il sovrano. 19 Sull’importanza e insieme sui limiti del movimento dei cattolici democratici di fine secolo si veda GIUNTELLA V.E., Cristianesimo e democrazia in Italia al tramonto del Settecento (appunti per una ricerca), Estratto dalla «Rassegna Storica del Risorgimento», A. XLII. Fasc. II-III (Aprile-Settembre 1955). 20 NATALI G.M., Disinganno intorno alla guerra di Corsica scoperto da Curzio Tulliano còrso ad un suo amico dimorante nell’isola, Colonia 1736; SALVINI G., Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa da’corsi di non sottomettersi mai più al dominio di Genova, Oletta 1758. 21 VENTURI F., Pasquale Paoli e la rivoluzione di Corsica, «Rivista storica italiana», LXXXVI (1974), p. 23. 22 Ivi, p. 15 23 BORDINI C., Rivoluzione corsa e Illuminismo italiano, Roma 1979, nell’Appendice, p. 182.

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fronte al popolo corso, usano le argomentazioni del giusnaturalismo cristiano, corrente di pensiero cattolica nata nei primi secoli del cristianesimo e rinvigoritasi nel ‘500 in seguito alla riforma protestante, secondo cui «è lecito abbattere il Principe quando questi diventi Tiranno». Una teoria che la Chiesa ha spesso interpretato non tanto come una forma di rispetto per l’indipendenza dei popoli, quanto piuttosto come strumento di pressione sui Principi. Per Venturi, «l’arretratezza della loro cultura li portò [i corsi] a guardare alle discussioni medievali»24: un giudizio che, abbandonato a se stesso, appare troppo limitativo, dato che le argomentazioni del giusnaturalismo cristiano erano usate, paradossalmente, per sostenere una rivolta. Rivolta che non era estranea ai temi dell’Illuminismo ma che ci si inseriva con un suo modo tutto peculiare. Più precisa è l’accusa di conservatorismo culturale espressa da Emmanuelli, secondo cui «est frappant, en effet, de ne trouver sous leur plume aucune référence aux notions clés de la philosophie des lumières»25. Tutte le critiche dello storico corso sono incentrate su questo tema, con una certa forzatura: è errato sovrapporre schemi altrui (in questo caso quelli del pensiero del secolo dei Lumi e dei suoi filosofi) ad una realtà ben diversa di cui soprattutto non si vedono le caratteristiche specifiche e le peculiarità. Salvini, pur non facendo riferimenti a nessun filosofo contemporaneo, propone per l’economia della futura nazione corsa misure che si possono inscrivere tra le teorie e le tendenze settecentesche: chiede, infatti, prospettive di sviluppo fisiocratiche ed un liberismo economico che ha nella libertà di commercio il suo punto di forza, in antitesi al severo sistema doganale e vincolistico genovese. È quindi importante sottolineare l’apertura all’età dei Lumi di queste due opere, e della Giustificazione in particolare, tanto più sensibile considerando la marginalità e la chiusura dell’ambiente culturale della Corsica, ravvivato soltanto da chi rientrava in patria dopo aver studiato nelle università straniere. § 3. Il ruolo del clero corso nella rivolta Nel XVIII secolo, la Corsica presentava un quadro di notevole arretratezza sociale ed economica rispetto alla situazione degli altri stati italiani. La dominazione colonialista di Genova e i tenui legami con il resto del continente avevano contribuito a depauperare l’isola già di per sé priva di grandi risorse naturali. La cultura era solo religiosa: in Corsica, gli ecclesiastici rappresentavano l’elite culturale; tra loro Pasquale Paoli trovò i quadri intellettuali che fornirono un sostegno sociale, politico e diplomatico decisivo. Giulio Matteo Natali e Gregorio Salvini furono tra gli esponenti religiosi di maggior rilievo a partecipare alla rivolta, cui aderì in forme diverse soprattutto il basso clero isolano. L’importanza del ruolo del clero corso era segnalata dalla decisione della Serenissima che, nel 1730, istituì un nuovo tribunale competente per processare gli ecclesiastici colpevoli di partecipare, con proclami o in armi, al sollevamento anti-genovese. Ci fu adesione soprattutto fra i preti e i frati francescani. Diverso l’atteggiamento della maggioranza degli alti prelati: i vescovi dell’isola dovevano la loro elezione all’influenza delle Serenissima e ad essa giuravano fedeltà; molti erano genovesi e più volte, nel corso di quegli anni, l’episcopato dell’isola condannò la rivolta ammonendo basso clero e fedeli a tornare all’ordine voluto da Genova. La prudenza della Serenissima non bastò però a creare una Chiesa sottomessa. Due motivi storici indebolirono i legami tra la madrepatria e l’isola: il declassamento del clero corso rispetto a quello genovese (unito, più in generale, ad una politica di rapina della città verso l’isola) e i rapporti che legavano la Corsica a Roma. Nel 1730, un anno dopo l’inizio della rivolta, i corsi inviarono a Roma presso Clemente XII il canonico Erasmo Orticoni per riaffermare la fedeltà del popolo isolano e per chiedere aiuti. La risposta negativa di papa Corsini fu solo un atto di prudenza politica: in realtà, Roma teneva sempre sotto osservazione la vicenda della Corsica anche per l’interessamento di alcuni ecclesiastici corsi lì residenti, e influenti come Natali, nominato vescovo di Tivoli. Il clero corso si rese anche conto che il Papa non poteva non guardare preoccupato alla situazione religiosa dell’isola. Genova, nella sua lotta contro i preti ribelli, ignorava con disinvoltura le immunità personali del clero e cercava di sottomettere a sé gli ordini religiosi dell’isola, minacciando severi provvedimenti; solo i gesuiti erano esclusi da questo trattamento perché non partecipavano alla rivolta. La vera svolta per l’adesione del clero alla rivolta avvenne il 4 marzo 1731. Quel giorno, a Orezza, convennero venti ecclesiastici tra i più qualificati dell’isola; dieci regolari (di cui nove francescani) e dieci secolari, esclusi naturalmente i gesuiti per la loro fedeltà a Genova. L’assemblea, in cui per la prima volta si metteva in causa la sovranità della Repubblica sull’isola, fu convocata dopo che i capi della rivolta, i generali Ceccaldi e Gaffori, vennero a sapere della richiesta d’aiuto di Genova all’Imperatore. Tutti erano chiamati a rispondere a otto domande per stabilire se la Serenissima fosse ancora Principe oppure Tiranno e se fosse lecita, in quest’ultimo caso, la guerra. Il congresso d’Orezza è passato alla storia come il primo momento di vera rottura tra i rivoltosi e la Serenissima: forse anche il più importante, perché a “giustificare” la guerra erano degli esponenti della Chiesa in piena sintonia con il curialismo romano, che appunto non li sconfessò. Per dare un giudizio sui risultati del congresso26, converrà riportare le otto domande e le otto risposte: 1) D. II governo genovese può essere qualificato come tirannico? R. Bisogna trattare amichevolmente con il Principe: è il modo per rimediare agli abusi. 2) D. Nel caso in cui questo governo sarà dichiarato tiranno, sarà lecito e giusto impiegare contro di esso le armi difensive e offensive, se ce ne sarà bisogno? 24 VENTURI F., op. cit., p. 21 25 EMMANUELLI R., Disinganno, Giustificazione et philosophie des Lumières, «Études corses», 2 (1974), p. l07. 26 Gli storici generalmente concordano nel riconoscere alla posizione dei venti ecclesiastici estrema fermezza nei confronti di Genova. Diversa è l’opinione di ETTORI F., secondo cui la «reputazione di intransigenza dei teologi di Orezza» è un mito. Lo sostiene nell’articolo Le congrés des théologiciens d’ Orezza (4 mars 1731). Mythe et réalitè, «Études corses», 1 (1973), pp. 77-86.

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R. Noi dobbiamo attendere le decisioni del Principe, con pazienza, se c’è bisogno. 3) D. Si può sperare che il governo genovese possa divenire giusto e utile per il Regno? R. Si deve sperarlo. 4) D. Conviene che gli ecclesiastici si uniscano alla Consulta per domandare, nel nome della Corsica, la soddisfazione delle richieste già fatte o da fare? R. Si, ma con la più grande umiltà. 5) D. Supponendo che il governo genovese accordi le richieste e prometta di rispettare le concessioni, è prudente fidarsi di queste promesse? R. La Nazione deve restare armata, a scanso di qualche sorpresa. 6) D. E se non si può sperare che i genovesi rispettino le concessioni accordate, è lecito e giusto stabilire un nuovo sistema di governo? R. La Nazione deve restare unita. 7) D. È permesso farsi risarcire per le perdite subite da Genova? R. Non bisogna mai mancare di rispetto al Principe. 8) D. Qual è il parere dell’assemblea sul “quid agendum hic et nunc”? R. Se la Repubblica si ostina a rifiutare le richieste, bisogna sostenere la guerra e, a più forte ragione, se essa viene, a forze spiegate, a opprimere i popoli. II messaggio che i venti ecclesiastici inviavano alla Serenissima era limpido. Rispettosi nelle forme (risposte 2, 4 e 7), sostengono compatti una posizione di fermezza nelle trattative affinché la Serenissima, di cui riconoscono senza incertezze gli abusi, esaudisca le giuste richieste del popolo corso. Per questo motivo, la Corsica deve rimanere armata (risposta 5) evidenziando così una mancanza di fiducia nelle reali intenzioni di Genova: formula diplomatica, da tradurre nella convinzione che la guerra era considerata inevitabile e andava appoggiata. Un punto di vista ancora più esplicito nell’ottava risposta che, appunto, chiude il documento del congresso. Si deve anche dire che, a Orezza, la Serenissima non fu bollata come Tiranno, era ancora Principe; e, secondo la dottrina tomista cui si ispiravano i venti ecclesiastici, la guerra è giusta solo se il Principe diventa Tiranno. Formalmente, il congresso non arrivò a questa conclusione ma diede spazio soltanto alle premesse del tomismo, secondo cui si può giungere alla guerra solo se il Principe continui a opprimere senza dare ascolto alle giuste e ripetute richieste di giustizia del suo popolo. Il motivo di questa posizione è sottilmente diplomatico: i capi della rivolta corsa avevano buone ragioni per mostrare all’Europa che il sollevamento nell’isola era causato dalla politica oppressiva di Genova: se i corsi prendevano le armi, lo facevano perché la Repubblica rifiutava tutte le loro giuste richieste. Roma seguì attentamente l’evoluzione della rivolta, ma non poteva intervenire direttamente senza provocare le ire di Genova, che pretendeva dalla Chiesa romana un’aperta sconfessione della causa dei rivoltosi e il ristabilimento dell’autorità dei vescovi - filogenovesi - in esilio. Né mancavano le pressioni di Paoli, che non cessava di richiamare l’attenzione di Roma sulla Corsica, chiedendo l’invio di un Visitatore apostolico che potesse rendersi conto personalmente della grave situazione esistente. La visita, per i corsi, avrebbe dovuto avere il valore di un avallo alla rivolta: mossa politica che non sfuggì a Genova, contraria da sempre a una simile eventualità. Ma il 31 luglio 1759 la commissione incaricata da Clemente XIII di vagliare la situazione, diede parere favorevole per l’invio di un Visitatore in missione esclusivamente religiosa sull’isola. La risposta di Genova fu violentissima: al “no” secco, aggiunse un tentativo di blocco navale per far sì che l’inviato di Roma non potesse sbarcare e addirittura mise una taglia da pagare a chi lo avesse catturato e consegnato alla Repubblica. Nell’aprile del 1760, Cesare Crescenzio De Angelis, Visitatore apostolico, arrivò in Corsica: da quel momento, i conflitti giurisdizionalisti fra Genova e Roma, covati a lungo dietro alla questione corsa, si inasprirono irrimediabilmente. Nei suoi quattro anni di lavoro, il Visitatore apostolico tentò di riassestare la situazione religiosa dell’isola. Riuscì - almeno formalmente - sulla questione delle nomine, decise non più dal governo rivoluzionario ma da «sé medesimo»; si scontrò con Paoli soprattutto sulle questioni finanziarie27. La guerra aveva bisogno di nuove entrate e il Generale non si faceva scrupoli nel tassare gli ecclesiastici, decisione che Roma e il suo inviato sull’isola non potevano ammettere. Logoranti furono le trattative e forti le tensioni tra le due parti, testimoniate dalla corrispondenza tra De Angelis e il segretario di Stato Torregiani. § 4. Il “Disinganno” di Giulio Matteo Natali Giulio Matteo Natali scrive il suo Disinganno intorno alla guerra di Corsica scoperto da Curzio Tulliano còrso ad un suo amico dimorante nell’isola nel 1736, cinque anni dopo il congresso dei teologi corsi d’Orezza. Abbattere il principe perché tiranno è il motivo ricorrente del Disinganno, opera con cui Natali si propone di dare una giustificazione teorica alla rivolta corsa. II diritto naturale cristiano è lo strumento di cui l’autore si serve per giustificare il diritto di rivolta nell’isola, attingendo a piene mani dal giusnaturalismo cristiano di Francisco Suarez28, esponente principale, nel XVI

27 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, serie Corsica, fascicoli 8 e 9 ed Archivio di Stato di Roma, fondo Congregazione degli Spogli, buste 132 e 133; fondo Camerlengato, parte I, busta n. 47 (1816-1823) I. affari esteri, disposizioni e regolamenti, fogli 6 e 7, nota dei consoli pontifici nei paesi europei, Genova. 28 Operazione ancora più evidente nel seguente passo: «L’ubbidire a Regnanti, come insegna l’incomparabile Agostino, è legge universale bensì, ma dagli uomini istituita. Vero è che questa legge talvolta Divina s’appella, o perché come necessarissima al mondo è stata da Dio approvata, o perché ogni bene da Dio ci deriva; ma è altresì indubitato, che Umana si chiama dal Principe degli Apostoli. Infatti volle Iddio egli stesso eleggere nel suo Popolo alcuni Principi; non però volle mai, che senza il libero, e volontario consenso del medesimo popolo fossero come tali riconosciuti per

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secolo, di quel curialismo che anima la posizione ufficiale della Chiesa cattolica di fronte all’assolutismo monarchico, in nome della difesa dei privilegi e delle prerogative della Chiesa romana. Per dimostrare la superiorità della Chiesa sullo Stato, il curialismo afferma che l’origine diretta della sovranità è puramente umana, le leggi sono valide solo se accettate dal popolo, il diritto di rivolta contro i tiranni è contemplato in due casi: «quando il principe si comportasse in modo da spingere i sudditi a mancare alla ubbidienza dovuta alla legge di Dio ponendo così in pericolo la salvezza delle loro anime; e quando la sua tirannide fosse così dura da potersi dire distruttrice dello Stato e del popolo»29. Il secondo caso ben si adatta alla situazione corsa per il canonico che, sempre in piena ortodossia, si preoccupa di osservare (e di far osservare) un altro aspetto del pensiero curialista. È lecito, cioè, il diritto alla resistenza e alla rivolta ma che sia una rivolta di popolo e non un’azione del singolo cittadino. La rivoluzione è possibile, insomma, ma non il tirannicidio. Natali appare più sicuro nel difendere d’ufficio, eppure appassionatamente, l’antica nobiltà corsa depressa dalla politica genovese. Natali è proteso in una riaffermazione nostalgica degli antichi diritti e degli antichi privilegi e non tradisce nessuna preoccupazione nel farlo, nonostante stia scrivendo un’opera giustificativa di una rivolta che, già nel 1736, aveva assunto precisi caratteri repubblicani con l’attività delle consulte. Il corso, invece, tiene a presentarsi come il portavoce di un ceto ed elenca i nomi delle famiglie di più antica nobiltà dell’isola, ridimensionate nelle sostanze e quindi nel loro peso politico, e impone il paragone con il fasto e l’ordine dell’antica Roma e delle sue famiglie. Natali non manca di mettere in risalto anche la fedeltà e un’indiscutibile ortodossia del clero corso verso la Chiesa romana. È il punto più importante per Natali: travalicare questa linea significa perdere l’appoggio, diretto o indiretto che sia, del papa; sarebbe l’isolamento totale per la rivolta e per l’elite culturale e politica dell’isola. Un messaggio che, siamo alla metà del Disinganno, deve essere diffuso «in ogni angolo della terra». Un appello singolare, a metà strada tra un generico e altisonante gesto simbolico e una richiesta d’aiuto materiale pura e semplice, quasi una sollecitudine scritta proprio per qualcuno. Per Clemente XII, per esempio. Presso papa Corsini già nel 1750, all’inizio della rivolta, era stato inviato il canonico Orticoni con il duplice compito di riaffermare la fedeltà corsa a Roma e di chiedere aiuti per la guerra. Clemente XII, ben disposto verso la causa isolana per una serie di motivi (dall’invisa politica giurisdizionalista seguita da Genova, all’ortodossia manifesta del cattolicissimo popolo corso, al fatto di appartenere al Paese dove più calda era la simpatia per la lotta corsa: la Toscana30) si mostrò tiepido, respingendo la corona offertagli dall’Orticoni e negando gli aiuti per la guerra; cosa del resto ovvia perché sarebbe inimmaginabile che qualsiasi papa, per quanto sensibile, si impegnasse militarmente senza badare agli equilibri internazionali. Clemente XII offrì però la sua mediazione, gesto comunque importantissimo se Genova lo rifiutò senza tentennamenti. Nel Disinganno questa richiesta di aiuti è rinnovata ma sembra indirizzata più verso corti laiche. «Giacché però la povertà mi toglie l’ingresso ne’ Gabinetti de’ Sovrani scrive - spero non mancheranno penne cortesi che traducendo in più lingue questo compassionevole foglio portino la notizia delle nostre ragioni in ogni angolo della terra»31. Quali sono questi «Gabinetti de’ Sovrani»? Non certo quelli papali, da sempre accessibili al clero corso al di là di qualsiasi professione di “povertà”: piuttosto, in modo naturalmente non esclusivo, alla corte francese dove nel 1756 dominava il cardinale Fleury32. La missione di Natali è delicata: come chiedere a principi e sovrani, rigidi fautori dell’ordine all’interno dei loro Stati, aiuti per una rivolta? Il corso si sforza di essere rassicurante: l’invio di mezzi ai patrioti isolani è un’azione che darà al monarca fama e gloria, giammai l’immagine di un popolo che lotta contro il proprio principe sarà un modello esportabile verso altri Stati. «Non si darebbe già occasione ad altri popoli soggetti d’eccitar sedizioni, e tumulti; piuttosto crescerebbe ne’ Sudditi l’amore verso de’ suoi Regnanti». Assicurazione, a dire il vero, piuttosto fragile ma che potrebbe trovare nella delicata situazione di buona parte dell’Italia un certo riscontro. Con il piglio dello storico, Natali però torna ad argomentazioni più serrate: Genova era tiranna per «l’esercizio dell’ingiustizia» e «ancora per difetto di vero titolo di dominare». La giustizia è il perno su cui Natali fa ruotare l’intera sua costruzione in quanto rappresenta la vera anima del diritto naturale cristiano. Non a caso uno scrittore a lui contemporaneo, Ludovico Antonio Muratori, delinea nei suoi Rudimenti di filosofia morale la figura del “buon principe” come vigile sulla condotta dei giudici e protettore dei poveri e dei deboli33. Natali passa dunque a dimostrare la tirannia di Genova per «difetto di vero titolo di dominare». È una lunga confutazione storica che interessa notare solo per le citate posizioni di Roma nel corso dei secoli quando, per tre volte, nel 1077 Gregorio VII, nel 1360 Innocenzo VI e nel 1444 Eugenio IV, attaccarono duramente il dominio genovese sulla Corsica. Prese di posizione molto diverse - Natali non lo dice espressamente ma certo non scrive la confutazione per caso - dalle cautele di Clemente XII. La pars destruens del Disinganno è finita. Affilate le armi del giusnaturalismo, elencate le colpe di Genova, l’autore deve ora concretizzare la sua opera politica

conciliare così a Principi l’amore de’ Sudditi, il quale è custode del Principato assai più valido delle alte Torri dette in Grecia nidi de’ Tiranni». NATALI G.M., Disinganno cit., pp. 10-11. 29 JEMOLO A.C., Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Torino 1914, p. 14. 30 BORDINI C., Rivoluzione corsa cit., pp. 47-75. 31 NATALI G.M., Disinganno cit., p. 52. 32 II tutore di Luigi XV era impegnato in quegli anni ad assicurare la Lorena alla Francia approfittando della guerra di Successione polacca: un orecchio forse disattento agli affari di Corsica, considerando che la politica estera del Fleury era volta soprattutto ad evitare impegni militari. 33 «Il vero fine del Regnante, in promuovere la felicità dei popoli, può essere l’onore e la gloria» e soprattutto «amministrare una retta giustizia». Ipotizzare un’influenza del Muratori sul Natali è avventato. Se è vero che il giovane canonico corso avrebbe potuto leggere il Rerum italicarum scriptores apparso nel 1723, è fuori discussione che l’altra grande opera del Muratori storico, gli Annali della storia d’Italia, uscita tra il 1744 e il 1749, non poteva essergli conosciuta. Di sicuro, il “buon gusto” muratoriano, l’espressione concreta della ragione (vedi Riflessioni sopra il buon fausto nelle scienze e nelle arti, 1708), resta fondamentalmente un problema filologico, di ragionevolezza nel giudizio, di buon senso nel distinguere il vero e non entra nel merito dei fondamenti politici, ideologici e religiosi dell’autorità. Il “buon gusto” di Natali segue piuttosto la seconda strada.

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dando sfogo all’idea di governo preferita. È la «perfettissima monarchia»: «Ove il comando risegga presso di molti (Ottimati o Plebei) non v’è quel bell’ordine, che si ritrovava nella Monarchia»34. Va detto che Natali già precedentemente aveva lasciato intravedere la sua posizione politica quando, affrontando ancora il problema della giustizia in Corsica, chiede che i delitti siano puniti «come si costuma ne’ felicissimi Regni della Francia». È a Parigi dunque che guarda, è lì il modello di governo da imitare, con un giudizio entusiasta ma anche - sarà l’unica volta –leggermente sbilanciato rispetto all’andamento sostanzialmente prudente del Disinganno. Infatti, se ogni riferimento alla monarchia franca scompare in questa dichiarazione di voto finale, ritorna in quel «si ritrovava nella Monarchia». Natali si aiuta con l’imperfetto, richiamandosi a un passato indefinito e perciò meno compromettente: può rimescolare le carte, far passare in secondo piano la sua opzione parigina. Meglio dire che cosa non è gradito, un governo oligarchico come quello di Genova o, a ritroso nella storia, come quello della Repubblica romana. Significativo (e ancora prudente) il silenzio di Natali sulla forma democratica: una cosa è prenderne le distanze scegliendo senza appello la monarchia, un’altra sarebbe stata metterla all’indice insieme ai sistemi genovese e romano, con il rischio di strascichi seri nei rapporti con le altre componenti della rivolta, operanti nelle consulte. D’altra parte, Natali non ha nessuna remora, come abbiamo già visto in queste pagine, a presentarsi come un esponente della rivolta vicino alla nobiltà isolana. Lo ribadisce con disinvoltura in fondo al suo Disinganno, quando l’oligarchico sistema veneziano non è accomunato a quello di Genova ma è ammirato per la conduzione della giustizia e per il «rispetto de’ Nobili» ivi portato.

Figura 9: Fregio della Giustificazione di Gregorio Salvini. Biblioteca Apostolica Vaticana. § 5. La Giustificazione di Gregorio Salvini Amico di Natali e di Paoli, Gregorio Salvini scrive nel 1758 la sua Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa decorsi di mai più sottomettersi al dominio di Genova, edito in Corte35, altro importantissimo punto di riferimento di quella polemica tra i patrioti corsi e Genova che accompagnò la rivolta fin dai suoi primi passi. Con la Giustificazione il prete corso intendeva rispondere a un pamphlet che il vescovo genovese di Sagona, Pier Maria Giustiniani, aveva scritto contro il Disinganno di Natali; ma Giustiniani, punto sul vivo dalla prosa efficace e documentata della Giustificazione, decise di ribattere anche alle accuse del Salvini, pubblicando un’altra confutazione36. Nella prima parte della Giustificazione37, Salvini afferma che Genova è tiranna per difetto di titolo e per l’esercizio del

34 NATALI G.M., Disinganno cit., p. 65. 35 In realtà, pare che il libro sia stato stampato a Napoli. Una seconda edizione uscì lo stesso anno con il titolo leggermente diverso: Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa da’ corsi di non sottomettersi mai più al dominio di Genova con luogo di edizione in Oletta. Anche in questo caso, si pensa che il libro sia stato stampato non in Corsica ma in Toscana, forse a Livorno. Vedi VENTURI F., op. cit., p. 5. 36 GIUSTINIANI P.M., Riflessioni intorno a un libro intitolato Giustificazione della rivoluzione di Corsica e della ferma risoluzione presa da’corsi di mai più sottomettersi al dominio di Genova, snt. L’abate corso non perse tempo: nel 1764, fece ristampare il suo libro a Corte inserendo il libello del vescovo genovese tra un capitolo e l’altro per una confutazione diretta e variò adeguatamente il titolo in Giustificazione della rivoluzione di Corsica combattuta dalle riflessioni di un Genovese e difesa dalle osservazioni di un Corso. Diversa è anche la prefazione mentre appaiono dei testi aggiuntivi e una dedica a «Sua Eccellenza il signor Paoli, generale del Regno e capo del Supremo magistrato di Corsica». Particolare degno di nota, in quanto

conferma che il libro uscì con l’approvazione del capo della rivolta isolana. E che questi ovviamente ne condivideva sia il fine polemico-propagandistico contro Genova, sia i contenuti politici e le indicazioni da esso scaturiti. 37 D’ora in poi, per il nostro discorso, seguiremo la numerazione delle pagine dell’edizione di Oletta del 1758.

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potere in Corsica, motivi ricorrenti nella pamphlettistica contemporanea antigenovese. L’abate si assume, dunque, il compito di difendere d’ufficio innanzitutto la nobiltà, citando anche nomi e cognomi di quegli isolani di rango che più sono stati danneggiati dal dominio di Genova. Con una serie di documenti, date e decreti riportati - saranno una costante della Giustificazione – Salvini documenta la «proposizione terza» che riguarda l’esclusione dei corsi dai pubblici uffici e il problema della giustizia nell’isola. Genova, dice, ha messo in piedi un «governo da lupi». La sua nobiltà è composta da una parte ricca e da un’altra meno abbiente: per questa ultima, la Serenissima metteva a disposizione la Corsica, terra di conquista dove poteva avere mano libera per arricchirsi. Anche Salvini, come Natali, dovendosi affidare al diritto naturale cristiano per giustificare la rivolta corsa, vuole mettere un freno all’iniziativa del singolo negando che un privato cittadino possa uccidere il tiranno. No al tirannicidio, nè ad una rivolta immediata, dunque. «In terzo luogo - aggiunge - diciamo che, prima di fare alcun attentato contro il Tiranno, si dee ricorrere a Dio coll’orazione, e a lui colle suppliche e colle rimostranze: che se poi tutto ciò siasi inutilmente tentato, e non vi sia altro rimedio per assicurare la conservazione, e la tranquillità dello stato, e per provvedere al ben pubblico, è comune consiglio, especialmente de’ Primati, deporre nella debita, e prescritta forma il Tiranno»38. Prima di giungere alla parte finale, vero capolavoro della Giustificazione, Salvini racconta le vicende oscure e le battaglie avvenute dall’inizio della rivolta, sempre con dovizia di particolari. Per più di cento pagine, Salvini si dedica a tessere la sua trama diplomatica, fatta di appelli, inviti, ragionamenti. Siamo alla conclusione. È qui che il prete corso mostra di avere una precisa personalità (finora in qualche modo celata dietro una narrazione puntuale da cronista), rivelata da quella amalgama di appelli rispettosi e richiami alla realtà assai poco retorici, al limite di modi un po’ bruschi con cui si rivolge ai principi d’Europa. Il patriota corso svolge qui una lezione di politica fine. In sostanza, avverte che chiunque appoggi Genova nel sottomettere la Corsica, si troverà sempre un focolaio di guerra pronto a scoppiare. Non solo: anche i corsi possono avere di nascosto il sostegno di qualche principe («per compassione, o per interesse, o per ambizione», straordinaria espressione di realismo politico che induce a meditare sulla maturità dei capi della rivolta) e da qui a insinuare una “gelosia” tra i regnanti il passo è breve. Salvini tenta di inserire il problema corso in un contesto europeo, operazione che quanto meno rivela una profonda cognizione della storia militare e diplomatica contemporanea. Sa che la Corsica, per la sua collocazione nel Mediterraneo, è sempre un territorio ambito; che l’equilibrio europeo, dopo i trattati di Utrecht e Rastadt, si gioca su ogni angolo di terra conosciuto, dalla Sicilia all’isola di San Cristoforo nelle Antille; che la presenza di Federico II di Prussia sul palcoscenico internazionale, nel 1758, era ancora una pericolosa incognita contro i poteri consolidatisi nei secoli (Francia e Austria in particolare), nonostante in quel momento fosse impegnato nella difficile guerra dei Sette Anni con alterne fortune. E si renderà conto Salvini, insieme a Paoli, che la neutralità dell’Inghilterra (la più vicina alla causa corsa) e soprattutto la marginalizzazione dell’Italia dal conflitto saranno fatali a questa operazione. Nel fare la storia della rivolta, Salvini usa il diritto naturale cristiano e le armi della fede ad esso connesso. Rivolgendosi ai monarchi d’Europa, li invita ad aiutare i corsi a spezzare il dominio genovese nell’isola «perché Dio stesso è quello, che a ciò fare vi esorta»39. Un concetto che ribadisce poco più avanti, richiamandosi alla questione centrale del giusnaturalismo: la giustizia. Ma Salvini deve ora chiudere il suo discorso e restringe il campo dei destinatari del messaggio a un solo monarca: Luigi XV di Francia. Lo fa con un piccolo colpo di scena, se badiamo al valore delle due congiunzioni iniziali, di rottura la prima, consequenziale la seconda: Ma poiché Voi, Re Cristianissimo, siete quello che pieno di Santissima intenzione, vi siete più di qualunque altro interessato per pacificare la Corsica, a Voi in particolare indirizziam ora la parola. II patriota corso, rifacendo la storia degli interessi francesi in Corsica, invita Luigi XV ad aiutare la causa isolana, a leggersi il libro e a non fidarsi di «que’compendiosi rapporti» stilati dai suoi collaboratori; anche perché questo scritto è l’unico modo per arrivare direttamente a Parigi in quanto «l’arte dei nostri Avversari s’è studiata d’impedire, che alcuno de’ Nostri non abbia avuto giammai alla Vostra Reggia l’accesso». Il corso non cita naturalmente le fonti di queste informazioni, ma dovrebbero essere Torino e Roma. La corte sabauda aveva promesso aiuti militari alla Corsica nel 1764, riporta Salvini nella sua Giustificazione; i Savoia erano un sostegno diplomatico pressoché certo, considerando anche i cattivi rapporti tra Torino e Genova. A Roma, con l’elezione nel 1743 di papa Clemente XIII, la questione corsa trovava uno degli ascoltatori più sensibili. Mettere a disposizione, seppur discretamente, la diplomazia vaticana in favore di Paoli era certo meno pericoloso dell’esporsi alle ire di Genova con l’invio del Visitatore Apostolico in Corsica, decisione presa nel 1760. Nell’ultima pagina della Giustificazione, Salvini chiarisce al Re Cristianissimo le richieste dei corsi: il disegno dei patrioti corsi a questo punto è chiaro. Il 16 agosto del 1756 a Compiègne - due anni prima dell’uscita della Giustificazione – la Francia era diventata a pieno titolo l’unico arbitro della situazione dell’isola, concedendo sussidi e aiuti militari a Genova con il presidio di alcune posizioni-chiave della costa. Nello stesso tempo, Parigi cercava di «non compromettere i rapporti con i ribelli corsi, con i quali non si volevano rompere i ponti»40. La speranza di Paoli è di vedere - magari alla fine della guerra dei Sette Anni (1756-1763) - la Francia al suo fianco, rompendo l’apparente equidistanza che guidava in quegli anni Choiseul. L’offerta dei corsi dovrebbe essere allettante: il «Soave Dominio» altro non è che l’Alto Dominio offerto negli anni ‘30 38 Ivi, p. 131. Più avanti, Salvini insiste sul concetto più caro al giusnaturalismo: l’origine umana della sovranità. «Ora - scrive - il diritto che ha ogni popolo di provvedere alla propria conservazione, e sicurezza per essere naturale, è maggiore del diritto, che ha un Principe sopra i suoi Sudditi, il quale in se stesso è assolutamente umano». «È Massima universale, che il Prencipato è istituito per beneficio de’ Popoli, non già del Prencipe» (Giustificazione cit., pp. 132-133). 39 Ivi, p. 272. 40 VALSECCHI F., L’Italia nel Settecento cit., p. 196.

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al papa, già esercitato dalla Chiesa romana nei tempi passati. Oppure la “protezione”, variazione sul tema che concede nella formula forse qualcosa di più, ma non certo l’annessione. Qui è il punto: la trama che Parigi tesse da anni ha come obiettivo finale l’annessione dell’isola; la politica di Paoli promette invece sovranità nominale in cambio di effettiva indipendenza. Tuttavia i corsi si fidano ancora del Re Cristianissimo. Cosa che nel 1764, anno della terza edizione della Giustificazione, non avviene più. Il 6 agosto dello stesso anno, ancora a Compiègne, Genova ottiene nuovi aiuti da Parigi in cambio di quattro piazzeforti: Ajaccio, Calvi, S. Fiorenzo, l’Algaiola, date per “deposito”. Anche adesso i francesi si guardano bene dal penetrare all’interno o cercare scontri con gli insorti: ma certo crescono i sospetti sulle vere intenzioni di questa spedizione, di cui Paoli chiederà ragguagli a Parigi con una lettera del 5 gennaio 1765, pochi giorni dopo lo sbarco dei nuovi contingenti francesi nell’isola.

Figura 10: Antica mappa della città di Genova (Archivio di Stato di Genova, Archivio segreto, f. 2111). § 6. Conclusioni Natali e Salvini hanno scritto le loro opere innanzitutto con intenti polemici per controbattere la pubblicistica genovese: le accuse della Serenissima vengono ribaltate, il sistema di governo di rapina denunciato all’opinione pubblica europea; il diritto al dominio negato con argomentazioni teologiche-politiche serrate. Comune è anche lo spirito che spinge i due ecclesiastici a intraprendere, in tempi storici diversi, la realizzazione delle opere, necessarie ad una causa di cui rappresentano i ceti intellettuali: entrambi si sono formati nei più importanti centri culturali italiani, entrambi hanno coscienza della grave situazione sociale dell’isola e coscienza personale per la propria condizione di esuli politici. Si può anche dire che nella Giustificazione si trovano gli stessi temi del Disinganno: qui però finiscono le analogie. Natali e Salvini trattano lo stesso argomento su piani diversi, per il momento storico, per la costruzione, per lo stile: tre aspetti da vedere nei particolari per poter riconoscere ai due autori, al di là di ogni lecita analogia, l’originalità che li distingue e che diede loro una certa eco negli ambienti intellettuali e politici dell’Europa settecentesca. Ventidue anni trascorsero tra l’uscita del Disinganno (1736) e quella della Giustificazione (1758). Un periodo relativamente breve, ma intenso per la rivolta corsa e per i destini europei. Natali scrive la sua opera quando la situazione dell’isola è piuttosto incerta. Nello stesso anno, nel giro di otto mesi, si consuma il regno di Teodoro nel quale i capi della rivolta avevano riposto le loro speranze di liberarsi dal dominio genovese; speranze documentate dal Disinganno, dove Natali elegge la monarchia come migliore forma di governo, come suprema garanzia di ordine interno. Paoli non è ancora il capo della rivolta, le mire francesi sulla Corsica non sono ancora definite: due fatti che invece fanno da contorno alla Giustificazione, frutto evidente di una lunga e ragionata collaborazione tra i capi rivoltosi. Salvini scrive sotto l’era di Paoli, anni in cui la partita rischia di chiudersi definitivamente a sfavore dei corsi. Nella Giustificazione, questo clima è palpabile: l’autore procede con grande attenzione nel denunciare gli abusi e le ingiustizie del sistema di potere della Serenissima nell’isola, citando fonti e documenti per ogni accusa. La comparsa, nella seconda edizione, della Lettera di un Corso abitante in Corsica ad un altro dimorante a Venezia è forse la prova più interessante di questo discorso benché sia stata inserita come post scriptum: è facile concludere che la Giustificazione scritta da un solo autore, ma concordata con il capo della rivolta (cui viene pure dedicata), è un documento importantissimo per la conoscenza della storia della rivoluzione di Corsica e per quella del suo capo indiscusso. Se lo stile di Natali e di Salvini è diverso, come il clima politico in cui scrivono, la costruzione delle loro opere è addirittura inversa. Il primo parte dal giusnaturalismo cristiano per affermare la liceità dell’abbattimento del Principe, ormai dannoso per lo Stato e per il bene pubblico, per poi passare a dimostrare gli abusi della Serenissima in Corsica e l’inesistenza dei suoi diritti sull’isola. Salvini inizia la sua requisitoria da quest’ultimo motivo per proseguire contro i misfatti dell’amministrazione genovese e infine affermare la legittimità della rivolta contro i tiranni. I due autori vanno affiancati nuovamente quando si parla della loro posizione politica. Entrambi, si deve ricordare, usano toni appassionati in difesa della nobiltà dell’isola (cui, tra l’altro, Salvini appartiene per estrazione familiare) depressa dalla politica della Repubblica, e stessi toni di sufficienza, se non dispregiativi (la «canaglia» salviniana), verso il popolo minuto che rappresenta la vera base della rivolta. Questo settore, animato dai proprietari terrieri e dalla nobiltà isolana, aspirante a una monarchia regnante in Corsica, è quello cui si

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possono ricollegare Natali e Salvini, pur con alcune sfumature. Tali sfumature aumentano quando la presenza militare e diplomatica francese in Corsica si fa più forte. Nel 1756, un anno dopo l’elezione di Paoli a Generale e unico capo della rivolta, con una memoria inviata al re di Francia la nobiltà corsa chiede che gli «anciens feudataires» possano tornare in possesso delle «seigneuries» di cui la Serenissima li ha privati. E, dopo la conquista francese dell’isola, un editto dell’aprile del 1770 «organisera en effet une procédure de reconnaissance de la noblesse corse, dont bénéficieront plus de 78 groupes de familles». Quasi nello stesso momento, tra il 1765 e il 1769, un patriota aristocratico, Matteo Buttafuoco, chiede a Jean Jacques Rousseau di scrivere un Projet de constitution pour la Corse41. Il filosofo ginevrino dimostra, nel Progetto una discreta conoscenza della situazione corsa e si inserisce nella polemica tra Corsica e Genova (di cui ha letto i testi più importanti, compresi il Disinganno e la Giustificazione) con proposte politiche di segno diverso rispetto alle aspirazioni monarchiche e filo-nobiliari di Natali e Salvini. Oltre alla nobiltà, che al di là delle aspirazioni di casta partecipava comunque alla rivolta, c’era la base popolare rappresentata nelle consulte, dove avevano voce in capitolo i capi villaggio, scelti a loro volta tra i capi famiglia, secondo una struttura e una gerarchia sociale arcaica e di clan ma che assicurava a Paoli un’effettiva unità delle forze. Dire che Natali e Salvini, vicini all’ala più conservatrice, siano dei ciechi reazionari e attenti soltanto alla causa nobiliare è sicuramente un errore di sottovalutazione. René Emmanuelli è stato finora il solitario critico che con una certa organicità ha affrontato le proposizioni del Disinganno e della Giustificazione. Emmanuelli riconosce innanzitutto la superiorità dell’opera di Salvini su quella di Natali, in quanto quest’ultima è piuttosto una «polemica sommaria» e ha una struttura «prefilosofica». Un giudizio di merito che non esclude il riconoscimento di temi comuni, di obiettivi identici, di destinatari analoghi per le due opere. Per lo storico francese non c’è nessun dubbio che le posizioni espresse da Natali e Salvini vadano incontro ad aspettative conservatrici, in un’ottica culturale lontana da quella del secolo dei Lumi. «L’ignorance presque totale» scrive Emmanuelli «des idées nouvelles, l’influence marquée de la réaction aristocratique» sono pesanti tanto più che «en vain qu’on chercherait dans la Giustificazione et le Disinganno quelque allusion aux idées de liberté, de tolérance, de progrès, de droits fondamentaux de la personne humaine, alors par exemple qu’il aurait été utile de rappeler ces deniers du fonctionnement de la justice génoise». Tuttavia, per Emmanuelli, se Salvini e Natali non sono certo «novateurs» non sono nemmeno «des arriérés, des rétrogrades, mais des hommes de leur temps, d’un temps où les adeptes des lumières, quelles les que soient leur activité et leur influence, ne constituent encore q’une minorité, même au sein des classes cultivées, et une minorile combattue. Natali et Salvini n’ont certes pas été touchés prématurément par la grâce du progrès: on ne volt pas qu’on puisse le leur reprocher, car en définitive leurs idées a ce moment sont celles du plus grand nombre». Il giudizio è forse ingeneroso per almeno due motivi: perché Salvini, affrontando la questione dell’economia della futura nazione corsa rivela di essere molto sensibile alle teorie sulla materia in voga proprio nel ‘700; e perché Emmanuelli opera una sovrapposizione ideologica del pensiero illuminista nato a Parigi sulla realtà corsa di cui non vede la sua peculiarità. Non si capisce perché Natali e Salvini, non utilizzando concetti illuministi, «n’ont certes pas été touchés prématurément par la grace du progrès»: il modello di “progrès” in Corsica, in un particolare quadro culturale, sociale ed economico è ovviamente diverso da quello francese. Un errore che Emmanuelli persegue quando rimprovera a Natali e Salvini (che esibiscono generiche lamentele per le imposte gravose) di non suggerire per la riforma del fisco «l’egalité devant l’impot», principio illuminista. Oltre a non riconoscere la peculiarità della situazione corsa (dove un’eventuale eguaglianza è tutta da vedere), lo storico pecca di idealismo: quale sovrano, in questo secolo di grandi riforme, applica questo principio rischiando la collisione (in Francia, per esempio) con l’aristocrazia e il clero? Per ultimo, un’osservazione non certo minore, ma da tener presente affrontando questo tema: non si può dimenticare che Natali e Salvini partecipano a una rivolta che, in netto anticipo su quella francese, si batte nientemeno che per l’eliminazione del Principe. Nella sua Giustificazione, Salvini poi si schiera a favore del liberismo, ponendosi contro i vincoli al commercio imposti dalla Serenissima e avvicinandosi alle teorie dei fisiocratici. Peccato che Emmanuelli conceda a questo passo della Giustificazione un minimo accenno, anche se alla fine riconosce l’importanza, per dei quadri intellettuali in fondo lontani dai centri del dibattito illuministico europeo, delle nozioni economiche del secolo. La battaglia fisiocratica per la libera circolazione del grano era diretta in realtà contro l’intero sistema vincolistico e doganale dell’Ancien Régime. Gli esponenti più avanzati premevano poi per un allargamento del principio liberistico a tutti i settori, per l’affermarsi del laissez faire o del contemporaneo free trade teorizzato da Adam Smith. La posizione di Salvini si inserisce proprio tra queste punte estreme del pensiero fisiocratico che, in qualche modo, toccano anche la Serenissima. È del 1751 la legge che regola il porto-franco nei territori della Repubblica: una legge di compromesso per la tradizionale politica commerciale genovese che permette una riforma molto limitata là dove non era ormai rinviabile, cercando anche di non investire delicate questioni di principio e interessi costituiti. L’economia è, nella Giustificazione, l’unico campo in cui Salvini, dopo aver presentato metodi ed effetti del malgoverno genovese, delinea una prospettiva di sviluppo ponendo di fronte all’Europa il governo rivoluzionario di Paoli quale valida alternativa al potere della Serenissima. È probabilmente un segnale per il pubblico particolare che in quel momento segue interessato le fasi della rivolta in Corsica, un altro biglietto da visita da accompagnare all’opzione monarchica, dichiarata anche in Natali. Ciò che sembra non vedere Emmanuelli, che accusa la Giustificazione di restare «muette» sulle aspirazioni dei corsi e sulle «perspectives d’avenir»: certi silenzi vanno eventualmente ascritti alla Ragion di Stato che domina soprattutto, ne abbiamo già parlato, le ultime fasi della rivolta e più precisamente l’era di Paoli. È anche sbagliato classificare 41 ROUSSEAU J.J., Projet de Constitution pour la Corse, in ID., Œuvres Complètes, III, Paris 1964, pp. 901-950

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negativamente Natali e Salvini per le loro posizioni giusnaturaliste. Emmanuelli lamenta la mancanza nei due libri di qualsiasi accenno ai valori di autonomia e di libertà dei popoli, vuoto che le argomentazioni di Suarez, presenti nel Disinganno e nella Giustificazione, non possono colmare. Tuttavia, non si può negare che Natali e Salvini, per il tempo in cui operarono e per la particolarità del loro agire, abbiano dato una tinta d’eversione a questa corrente di pensiero cattolico, oltretutto complessa e sicuramente non classificabile come una semplice scuola di pensiero.

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CAPITOLO 3 LA PRIMA FASE DELLA RIVOLUZIONE CORSA (1729-1755)

§1. 1729-1733: Moti o Rivoluzione? La storiografia contemporanea è ancora in forte discussione sulla definizione di rivoluzione alla guerra d’indipendenza corsa del XVIII secolo. Al di là delle contrapposizioni, più o meno forti, tra gli storici corsi e francesi, spesso il problema è stato discusso senza un’analisi approfondita delle fonti archivistiche; si è trattato, a volte, di prese di posizione nazionalistiche per la difesa della “Corsica piccola nazione all’interno della Francia grande nazione”, oppure della dimostrazione, più o meno scientifica, della continuità ideologica tra la Rivoluzione corsa e la Rivoluzione francese; oppure lo studio della Corsica paolina è stato affrontato solo in prospettiva dell’avvento di Napoleone, dimenticando l’identità, la specificità ed i limiti delle vicende isolane. Sotto questo aspetto, dall’analisi della storiografia francese, inglese ed italiana più recente e grazie allo spoglio di nuove fonti archivistiche, sembrerebbe che il grande sconvolgimento dell’isola a cavallo tra la dominazione genovese e quella francese, sorto inizialmente come una rivolta, sia diventato, con il passare degli anni (e dopo l’intervento di Pasquale Paoli) una rivoluzione a carattere nazionale1. La tradizione vuole che tutto abbia avuto inizio il 27 dicembre 1729, in un villaggio del Bozio, a Bustanico. Un contadino miserabile (Antonfrancesco Lanfranchi, detto Cardone), si vide rifiutare come falso il baiocco che gli reclamava il collettore d’imposte e venne minacciato d’arresto. Egli allora coinvolse i suoi concittadini nella disputa, che si sollevarono contro il percettore genovese e lo costrinsero alla fuga: l’immaginario popolare, che ha bisogno di concretizzare la storia, ha fatto di Lanfranchi il simbolo dell’oppressione genovese. Le cause profonde Come abbiamo notato, nel 1715 Genova istituì l’imposta dei “due seini” per mettere fine all’irritante questione del porto d’armi in Corsica. Approfittando dell’occasione, la Repubblica iniziò a ritirare tutte le armi ed a vietarne la vendita attraverso un contributo straordinario (che non doveva estendersi oltre i dieci anni) corrispondente alla somma di tredici soldi e quattro denari: era precisamente questa la tassa straordinaria che gli abitanti della Casinca e della Castagniccia si rifiutarono di pagare dopo l’incidente di Bustanico. Fino a questo punto niente distingueva il moto di rabbia da una jacqueries. La miseria generale, esasperata tra il 1728 ed il 1729 dalla congiunzione di «una primavera troppo piovosa e di un’estate troppo secca»2, aveva provocato un po’ ovunque dei piccoli incidenti, sporadici ma violenti, che inquietavano le autorità. Genova non comprese la gravità della situazione: le riflessioni del governatore Pinelli testimoniano la cecità dei funzionari, sempre sorpresi, e talvolta esasperati, dagli avvenimenti3. Proprio quando la Repubblica aveva deciso saggiamente di arrestare il prelievo delle imposte, il Governatore recepì al contrario questa misura ed ordinò la requisizione delle tasse dell’anno precedente. Ma le conseguenze dell’avvenimento e lo scoppio dei moti del 1729 avevano cause molteplici e molto più lontane nel tempo4. Le radici affondavano nell’eccessiva pressione fiscale della Dominante: le taglie pesanti e le ingiustificate gabelle sul sale erano sempre meno sopportabili in un contesto economico di grave crisi ciclica; le eterne lagnanze sugli abusi di ogni sorta a cui erano sottoposti i corsi nella percezione delle imposte erano uno dei motivi scatenanti della rivolta. In altri casi prevaleva il senso di riscatto dalla capitalizzazione delle terre comuni, dalla crisi sociale, dal sistema politico-amministrativo genovese. Si ritrova, infine, l’eco dell’insicurezza generale - cronica ed esacerbata dalla carestia – in cui l’isola era finita per colpa dei banditi, che la Repubblica si illudeva di eliminare con delle spedizioni punitive di cui facevano le spese più gli innocenti che i colpevoli5. La richiesta del ripristino del porto d’armi era una rivendicazione motivata dalla preoccupazione – tradizionale in Corsica – di assicurare la propria incolumità e di poter far giustizia da sé. Le rivendicazioni contro le disuguaglianze fomentate dalla Dominante (specie sull’ammontare della taglia), infiammavano il municipalismo delle comunità: ogni pieve replicava solo per se stessa e la Corsica si mostrava come un aggregato incompleto di parti disunite. Bisogna dunque sfatare l’immagine convenzionale di una Corsica unanime nelle rivendicazioni, e di una rivoluzione cosciente fin dalle sue premesse: all’inizio si trattava solo di moti spontanei, accomunati dal rifiuto delle imposte. Ma si trattava anche di un movimento con una coloritura sociale subito evidente: infatti furono le masse popolari, le più povere, a sollevarsi dal caos per regolare i conti con i notabili, genovesi e corsi. Questa opposizione di classe si fondava su un sentimento di frustrazione economica, aggravato dalla politica agricola di Genova: la creazione dei feudi, in un primo tempo, e dei domini a base enfiteutica, in un secondo tempo, non era stata mai accettata dai 1 Cfr. la NOTA BIBLIOGRAFICA. 2 Cfr. ETTORI F., Histoire de Corse, Toulouse 1971, cap. IX, p. 98. 3 Vedi la Relazione dei tumulti di Corsica del Governatore Pinelli, pubblicata nel 1854 a Bastia da SANTELLI A.F. 4 Vedi l’analisi di POMPONI F., Émeutes populaires en Corse: aux origines de l’insurrection contre la domination génoise (décembre 1729-juillet 1931), «Annales du Midi», to. 84, 107 (aprile-giugno 1972), pp. 151-181. 5 La repressione della vendetta era appannaggio esclusivo del potere centrale genovese che, in caso di omicidi tra famiglie, inviava i suoi Commissari di campagna, assistiti da un plotone di soldati e di sbirri: «…essi installavano il loro quartiere generale nel paese, alloggiavano i loro uomini dai parenti dell’omicida, inviavano delle spedizioni, procedevano alle inchieste sul posto», cit. da BUSQUET J., Le droit de la vendetta e les paci corses, Paris 1920 (2° ed. 1994). Vd. Anche BOURDE P., En Corse, l’esprit de clan, les mœurs politiques, les vendettas, le banditisme, Marseille 1983; VERSINI X., Un siècle de banditisme en Corse. 1814-1914, Paris 1964, pp. 59-60; HOBSBAWM E.J., Les Bandits, Paris 1972; PAPADACI E., Les bandits corses. Honneur et dignité, Clamecy 1995.

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pastori e dai piccoli coltivatori6. Da qui emerge quell’aspetto di jacquerie della prima fase rivoluzionaria, con assalti alle proprietà private o, come nel caso di Sartena nel 1730, alla città-simbolo della spoliazione delle terre di transumanza. Era l’aspetto anacronistico – e allo stesso tempo reazionario – di una rivoluzione a base pastorale. La Corsica tradizionale si era, per così dire, risvegliata nell’opposizione ad un’economia ed una società urbane. Non dovrebbe stupire nemmeno, date queste premesse, l’importanza decisiva assunta, nella prima fase della rivolta, dalla regione pastorale per eccellenza, il Niolo, la cui economia poggiava quasi esclusivamente sull’allevamento. Sembrerebbe, quindi, di poter delineare il quadro d’insieme della rivolta come una forma di rivendicazione a sfondo sociale, in cui l’elemento nazionale non aveva alcun peso, ed in cui prevaleva l’antagonismo di classe. Tuttavia, è importante notare che i ribelli saccheggiarono per primi tutti quei domini, città e roccaforti in cui i genovesi erano predominanti, o rappresentavano la classe dirigente. Al momento dello scoppio della ribellione non era ben chiaro cosa realmente stesse accadendo: basta leggere la Relazione dei tumulti di Corsica del governatore Pinelli o i Ragguagli degl’ultimi tumulti seguiti nell’isola di Corsica sino al presente di Orazio Buttafuoco7 per rendersene conto. Il Governatore sapeva bene che la penuria di grano era una delle cause della rivolta e protestò con la capitale per una maggiore sollecitudine nell’invio di derrate; ma la violenza e la velocità degli avvenimenti lo sconcertarono: Pinelli decise di usare la maniera forte, non senza aver tentato di compromettere i notabili corsi nel tentativo di ristabilire l’ordine. Il Governatore credeva di dover lottare contro la febbre passeggera di un popolo pronto a ribellarsi, con una ferocia ancestrale e incontrollata e, d’altro lato, era rassicurato dalla matrice “spontanea” della prima sedizione: alla rivolta delle piazzeforti si mescolava il semplice banditismo, ed è altrettanto vero che alcuni villaggi e pievi rifiutarono di unirsi agli insorti, offrendo il loro soccorso a Genova. I Governatori genovesi, date queste premesse, non potevano prevedere le conseguenze dei primi tumulti; l’atteggiamento dei notabili e di una parte del clero, inoltre, li rassicurava sulla lealtà della borghesia isolana. È significativo, ad esempio, che alcuni dei futuri capi dell’insurrezione nazionale presero volontariamente la decisione di mantenere l’ordine e riappacificare gli animi8. Atteggiamento, con le dovute sfumature, tipico della maggior parte dei notabili, che s’interponevano per riportare i ribelli alla ragione o, come nel Sartenese, nell’Ornano o nel Capo Corso, mettendosi alla testa di spedizioni punitive contro il “popolaccio”. A questo si aggiungeva la fedeltà dei latifondisti e del clero secolare: è importante sottolineare, prefigurando quello che accadde in Francia all’inizio della Rivoluzione del 1789, che il clero rifletteva, sul piano ideologico, la diversa estrazione sociale dei propri componenti. Infatti l’alta gerarchia – interamente genovese – era evidentemente schierata dalla parte della Repubblica (anche se con grande moderazione e con la preoccupazione di riportare gli spiriti alla calma), mentre il clero secolare, reclutato nella classe dei notabili, si divideva in filogenovesi ed in patrioti. Il clero regolare, d’origine popolare, portò tutto il suo sostegno – perfino con le armi – alla rivolta (collette di denaro, asilo nei conventi)9. La fisionomia di questa prima fase della rivolta si delineò in modo chiaro subito dopo lo scoppio iniziale: è necessario, quindi, seguirne da vicino gli avvenimenti più significativi10. Gli avvenimenti La scintilla che fece divampare l’incendio è stata, come si è detto, l’incidente accaduto a Bustanico il 27 dicembre 1729. Gli abitanti dei villaggi vicini si rifiutarono di pagare l’imposta, costringendo gli sbirri del collettore a ritirarsi a Corte. Il moto si estese a macchia d’olio nelle altre pievi: imbaldanziti dal successo iniziale e dall’umiliazione inflitta alle truppe regolari, i ribelli cercarono di coinvolgere chiunque si opponesse alla politica genovese. Alcuni banditi approfittarono del caos generale per fare dei colpi di mano. Questi attacchi non contribuirono ad esaltare l’immagine di facciata della rivolta agli occhi delle autorità genovesi e dei notabili corsi, diffidenti davanti al dilagare della rivolta ed intimoriti dalle spoliazioni dei beni demaniali. Ma in un primo tempo la sollevazione sembrava dilagante: grazie al saccheggio dei depositi di armi, gli insorti erano in grado di predisporre un’operazione militare in grande stile. Nel febbraio 1730 una piccola armata mise a sacco Bastia per tre giorni. Nello stesso anno furono attaccate San Fiorenzo, Algajola, Ajaccio e la colonia greca di Paomia, soccorsa in seguito dai genovesi. In Corsica vigeva la totale anarchia: il vuoto politico venne rapidamente colmato da tutti coloro che potevano dare un contenuto a questa prima rivoluzione: i notabili e i Nobili Dodici. Non si può dire con certezza se, da parte loro, si è trattato di un abile recupero di un movimento che li aveva inizialmente sorpresi ed inquietati o, al contrario, della presa di coscienza delle reali cause della rivolta e di un sincero desiderio di assumerne la responsabilità. Di sicuro coloro che avevano inizialmente assecondato il governatore Pinelli nella riappacificazione civile e nella repressione della rivolta si erano messi a capo degli insorti. L’evoluzione dei fatti accelerò il rovesciamento delle posizioni: nel dicembre 1730, a San Pancrazio di Furiani, i

6 Cfr. DEFRANCESCHI J., Pasteurs et cultivateurs en Corse au XVIIIe siècle, «B.S.S.H.N.C.», 1 (1974), pp. 543 sgg. 7 L’analisi delle 26 voci di questi ragguagli è particolarmente istruttiva sull’atteggiamento dei Nobili, che «dicono ed intendono voler vivere inviolabilmente in una fedeltà incorrotta e nell’obbedienza verso la Serenissima Repubblica di Genova, unico Principe e Sovrano del Regno». Cfr. BUTTAFUOCO O., Ragguagli degl’ultimi tumulti seguiti nell’isola di Corsica sino al presente, Lucca 1731. 8 È il caso, per non prendere che i principali, di Andrea Ceccaldi, di Luigi Giafferi e di Giacinto Paoli. 9 LAMOTTE P. ha citato uno pseudo-complotto contro Genova, tramato da alcuni francescani corsi nel 1677; questo mostra chiaramente che i monaci mendicanti erano ostili alla giustizia genovese e sensibili alla miseria dei loro compatrioti. Cfr. LAMOTTE P., Baux emphytéotiques et mise en valeur des biens ecclésiastiques du XIIIe au XVIIIe siècle, «Études corses», 5 (1955), pp. 18-20. 10 Oltre alla Relazione dei tumulti di Corsica del Governatore Pinelli, vedi anche le Memorie dell’abate Rostini (1715-1740) pubblicate dall’abate LETTERON nel «B.S.S.H.N.C.», dal n. 1 al 30 (1881-1882), quelle di GUELFUCCI B. (1729-1764), pubblicate da Ollagner nel «B.S.S.H.N.C.», 18-20 (1882). Cfr. anche ORESTE G., La prima insurrezione corsa del secolo XVIII, 1730-1733, «Archivio storico di Corsica», 1940-41 e l’articolo citato di POMPONI F., Émeutes populaires en Corse.

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rivoluzionari elessero tre capi: Luigi Giafferi, per i notabili d’origine popolare; Andrea Ceccaldi Colonna, di Vescovato, per i nobili; Marc’Aurelio Raffaelli, d’Orezza, per il clero11. I tre “Stati” della società erano ormai alleati, anche se gli obiettivi dei capi erano modesti e portavano l’impronta ideologica della classe dominante. Questi interessi si traducevano perfettamente nelle lamentele presentate dalle pievi al nuovo commissario generale, Veneroso, nel maggio 1731 e comprendevano esigenze d’origine popolare, borghese e feudale, rispecchiando l’amalgama ideologico della prima fase rivoluzionaria. Le lamentele sull’eccessiva fiscalità genovese erano prevalentemente di matrice popolare. I contadini ed i pastori proponevano di ridurre la taglia a 20 soldi, con la soppressione dell’imposta dei due seini; aggiungevano, poi, le doglianze sulla gabella del sale12, le recriminazioni contro l’insicurezza dovuta al banditismo e le richieste per il ristabilimento del porto d’armi. Le richieste dei notabili possono essere ricondotte alla nostalgia di una feudalità quasi scomparsa: richiesta di ripristino del titolo di Baroni del Regno, della primogenitura e di altre prerogative feudali. Più concrete e dettagliate le richieste della classe borghese-notabilare, intenzionata ad ottenere l’accesso alle cariche di responsabilità nell’amministrazione, nell’esercito, nella magistratura e nel clero. Propriamente economiche, infine, le lamentele del notabilato fondiario, promotore dell’espansione agricola isolana: proteste contro le tasse eccessive, contro il monopolio dei mercanti genovesi, contro il protezionismo di Genova e contro tutti gli intralci alla prosperità economica, con conseguente richiesta di sovvenzioni per l’agricoltura. Nell’insieme, quindi, nulla di sovversivo, di rivoluzionario. L’ordine sociale non era messo in discussione; il principio di obbedienza alla Repubblica, di fedeltà al Principe era costantemente riaffermato. Non è facile comprendere quando sia avvenuto il punto di rottura tra i ribelli e la Dominante: probabilmente la moderazione dei capi si è trasformata in rottura per la scarsa attenzione dei Serenissimi Collegi. La presa di Bastia, nel febbraio 1730, aveva costretto i genovesi ad una politica più energica: il nuovo governatore, Veneroso, fece esporre sulle mura della città il corpo del bandito Fabio Vinciguerra e mise a ferro e fuoco Vico e Furiani, villaggi focolai della ribellione. A questa repressione seguì un nuovo attacco dei ribelli contro Bastia: in città scoppiò il panico e molti ricchi commercianti si rifugiarono in Italia. Il successore di Veneroso, aiutato dal vescovo di Mariana, ottenne una tregua di quattro anni, concedendo la diminuzione delle imposte. Apparentemente, la pace sembrava raggiunta: in realtà gli insorti avevano preso coscienza della loro forza ed i nuovi capi eletti nella Consulta di San Pancrazio, nel dicembre 1730, preparavano un nuovo attacco. La Consulta d’Orezza Nell’aprile 1731 si aprì una nuova Consulta al Convento di Orezza, cui presero parte venti teologi, presieduta dal canonico Orticoni, che nel 1730 aveva dato prova di una prudente riserva davanti alle prime manifestazioni di rivolta. Quest’uomo di Chiesa si impegnò con prudenza ad invitare i corsi ad attendere il termine delle negoziazioni intavolate con Genova13. I capi militari giocarono subito la carta del negoziato, ma allo stesso tempo cercarono degli alleati in Italia e presso le grandi potenze europee, preparando l’estensione militare del movimento antigenovese: fu indirizzato anche un appello ai corsi del Diladamonti. Giafferi si recò a Livorno per perorare la causa dei ribelli presso quella colonia corsa, mentre il canonico Orticoni partì per Roma per sollecitare l’intervento del papa Clemente XII. Orticoni si rivolse anche all’infante don Carlos (futuro Re di Napoli e di Sicilia), al Granduca di Toscana ed al al Re Filippo V. Questi rinnovò, nel giugno dello stesso anno, la promessa d’intervento diretto, ma il gioco diplomatico internazionale non permise mai al Re di Spagna d’intervenire direttamente negli affari di Corsica. Gli Imperiali in Corsica Genova, al contrario, prese l’iniziativa e trovò un potente alleato nell’Imperatore d’Austria Carlo VI. Inquieto per le mire spagnole sull’Italia che, dopo il 1715, era diventata quasi un suo dominio riservato, l’Imperatore Carlo VI accettò di buon cuore la richiesta d’aiuto presentata da Genova. Così, nell’agosto 1731, agli ordini del colonnello-barone Wachtendonck, sbarcarono a Bastia 8.000 uomini d’artiglieria. Congiuntisi alle truppe genovesi di Doria, essi non ebbero alcuna difficoltà a rovesciare una situazione militare decisamente sfavorevole a Genova. Come altre volte in passato i corsi, poco armati e impreparati per attacchi frontali in campo aperto, dovettero retrocedere di fonte a soldati di mestiere, organizzati e disciplinati. Ma Wachtendonck, che aspettava invano dei rinforzi e l’approvvigionamento promesso da Genova, decise di negoziare un armistizio e di fermarsi a Bastia, da cui si limitò, per tutto l’autunno e

11 STAGNARA V., Le sens de la révolution corse, «Les Temps Modernes», avril 1976, pp. 1670-1686. Vd. Anche VINCENTELLI M., Evénements survenus après la Révolution corse de 1729, Marseille 1983 ed ID., Récit de la révolution corse: recueil de documents secrets d’Etats, Paris 1981. 12 Per il commercio del sale tra Genova e la Corsica, cfr. i documenti dell’Archivio di Stato di Genova: fondo Archivio Segreto, fascicolo 2111 (1764-1765), Lettera di Agostino Spinoni del 13 luglio 1765; l’art. 15 del Progetto sulla pratica di corsica consegnato a me seg.rio dal mag.co Ambr.o D’Oria del 30 novembre 1767, fondo Diversorum Corsicae, mazzo 2110; il Piano deliberato dai Ser.mi Collegi li 21 feb.o 1768 nel fondo Archivio Segreto, fascicolo 2112; il Biglietto dei calici al Minor Consiglio del 25 gennaio 1768, fondo Diversorum Corsicae fascicolo 2111; Nota sulla vendita del Sale in Bastia (10 agosto 1768) nel fondo Archivio Segreto, fascicolo 2112 e rispettive tabelle esplicative dei prezzi. 13 Cfr. ETTORI F., Le congrès des théologiens d’Orezza cit. Sull’argomento vedi anche CASANOVA A., Historie de l’église corse cit.; JEMOLO A.C., Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Torino 1914; LABARRE DE RAILLICOURT, Les comtes du Pape en France, Paris 1965-1967; PASTOR (VON) L., Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, voll. XV e XVI, Roma 1933-34; BORDINI C., Rivoluzione corsa cit.; FONZI F., Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di Clemente XIII, «Annuario dell’istituto italiano per l’età moderna e contemporanea», VIII (1957). Per le fonti archivistiche vedi Archivio Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, serie Corsica, fascicoli 8 e 9 ed Archivio di Stato di Roma, fondo Congregazione degli Spogli, buste 132 e 133; fondo Camerlengato, parte I, busta n. 47 (1816-1823) I. affari esteri, disposizioni e regolamenti, fogli 6 e 7, nota dei consoli pontifici nei paesi europei, Genova.

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l’inverno 1731-1732, a lanciare qualche spedizione, talvolta anche fortunosa14. Il disaccordo con il Governatore genovese, la simpatia per i corsi, del cui coraggio egli rimase impressionato, la riprovazione dei metodi di guerra genovesi, spiegavano l’atteggiamento di attesa di Wachtendonck. Ed infatti Genova, non soddisfatta dei deboli risultati ottenuti, lo rimpiazzò nel maggio 1732 con il principe di Wurtenberg. I capi dell’insurrezione riuniti a Vescovato lanciarono invano, nel febbraio 1732, un appello ai corsi del continente15: il principe di Wurtemberg, con una politica ferma, unita alla promessa dell’amnistia generale, riuscì a far imprigionare Giafferi e Colonna e a sottomettere gli insorti, sensibili alla mediazione dell’armata Imperiale. L’Imperatore, tenendo fede alle promesse, fece pressione su Genova per spingerla ad una politica di riappacificazione. Nel gennaio 1733 furono pubblicate le Concessioni graziose, abilmente costruite per disarmare la ribellione con delle misure che interessavano tutte le classi sociali16. La nobiltà vide ristabiliti i propri privilegi; al clero corso furono riservati numerosi benefici, mentre i popolani ottennero il perdono ed il condono da tutte le imposte non pagate. Tra le altre disposizioni, veniva riconosciuta la figura dell’Oratore presso Genova, di un Magistrato per la difesa degli isolani e di un Avvocato, scelto tra i Diciotto, per perorare le cause delle vittime degli abusi amministrativi. Infine, delle misure più generali contribuivano a raggirare i notabili: fondazione di un Collegio in Scienze divine ed umane, creazione di tre Promotori delle arti e del commercio, istituzione, in ciascuna pieve, di un Uditore come tribunale civile, incoraggiamento per la produzione della seta. Queste Concessioni, completate da ulteriori misure alla fine del gennaio 1733, testimoniavano comunque un desiderio di pace e di equità, confermato dalla liberazione dei capi dell’insurrezione e dalla partenza delle truppe imperiali. Questa partenza segna la fine della prima fase dell’insurrezione e, sul piano internazionale, dell’intervento austriaco. § 2. La Costituzione del 1735 ed il Re Teodoro. La ripresa delle ostilità venne riaffermata, nel novembre 1733, da Giacinto Paoli, nella pieve di Rostino, quando mise in fuga i genovesi venuti ad arrestarlo. La politica repressiva di Genova e l’arresto dei capi storici (Ceccaldi, Giafferi, Aitelli, Raffaelli), rinchiusi, contrariamente alle promesse fatte nella pace di Corte, nel carcere di Genova, esasperò le relazioni tra le Parti. Alla notizia del ritorno del Governatore Pinelli, nel 1734, l’insurrezione riprese vigore. I genovesi dovettero affrontare la rivolta del Golo e di Ampugnani, ma riuscirono a sottomettere Corte. I ribelli, incoraggiati dalla promessa di un aiuto straniero, cercarono ad estendere la sollevazione, guadagnando una parte del Diladamonti. Il ritorno di Giafferi e di Aitelli e la nomina di Giacinto Paoli a Generalissimo erano la prova evidente della ripresa delle ostilità. La congiuntura internazionale sembrava favorevole agli insorti e sfavorevole a Genova: lo scoppio della guerra di Successione polacca costrinse gli ultimi contingenti austriaci ad abbandonare la Corsica. Gli insorti invocarono allora l’aiuto della Spagna: il canonico Orticoni propose a Filippo V di mettere l’isola sotto la sua protezione. Si aspettavano soccorsi anche dall’Italia: Carlo III di Borbone era salito sul trono di Napoli ed era un protettore ed un amico di molti capi corsi. Anche la Francia osservava l’evolversi delle vicende isolane con la massima attenzione: la Corsica costituiva uno degli interessi primari della diplomazia francese. La Consulta di Corte e la Costituzione del 1735 Rassicurati sotto l’aspetto militare, gli insorti si preoccuparono di dare alla rivolta una base giuridica che permettesse loro di apparire, agli occhi dell’opinione internazionale, non più come dei semplici ribelli, ma come dei patrioti in lotta per la conquista dell’indipendenza. Questo è il significato profondo della Consulta di Corte, da cui emerse quella che è stata chiamata la Costituzione del 1735: preparata dall’avvocato Sebastiano Costa, arrivato nell’isola dall’Italia nel dicembre 1734, la Costituzione organizzava la Corsica come uno Stato sovrano17. La storiografia tradizionale si è a lungo dibattuta sulla presunta o reale concezione democratica del testo rivoluzionario: alle considerazioni di Paul Arrighi e Jean Marie Castellin, che consideravano i provvedimenti disciplinati dalla carta addirittura come precursori della costituzione della Francia rivoluzionaria del 1792, si sono contrapposte le analisi di Fernand Ettori e di René Emmanuelli, tese a sminuire completamente il valore di questo testo. Bisogna convenire, con quest’ultimo, che la costituzione del 1735 rispondeva all’esigenza della classe dirigente di fortificare i propri poteri. Il testo era più un insieme di risoluzioni, che una vera carta costituzionale: esso sanciva il potere di Giafferi, Paoli e Ceccaldi (i Primati) e di una Giunta di dodici membri. È sicuramente esagerato parlare di democrazia per un governo insurrezionale provvisorio ed autolegittimato, ma è anche vero che era delegato al popolo (attraverso i Padri di comune) il controllo dei poteri locali. Il Governo, costituito da un triumvirato, delegava una parte dei poteri ad una Giunta eletta dall’esecutivo. Furono istituiti degli Inquisitori di Stato incaricati di rintracciare e punire coloro che pensavano di

14 A Calenzana esiste ancora il campo dei tedeschi in cui riposano 500 soldati sconfitti dagli uomini e dalle donne che difesero il villaggio. Cfr. COSTA S., grand chancelier du roi de Corse Théodore de Neuhoff, Mémoires (1732-1736), éd. critique, traduction et notes par LUCIANI R., Paris/Aix 1975, p. 21 e BONAPARTE P., La Bataille de Calenzana, Paris 1915. 15 Nell’appello, tra l’altro, si affermava che «I secoli a venire conserveranno la memoria di questi corsi che preferirono morire tutti piuttosto che vivere più a lungo nella schiavitù…La patria è in pericolo…Ah! Lasciate le vostre piume e prendete le vostre armi…Nati con noi, venite a morire con noi. Morire in patria è una sorte gradevole». 16 L’accordo tra corsi e genovesi era stato concluso a Corte, l’11 maggio 1732, con le seguenti condizioni: 1) Amnistia generale; 2) Rinuncia ad ogni indennità per i fatti di guerra; 3) Abbandono di tutte le tasse precedenti; 4) Ammissione dei corsi ad ogni impiego civile, militare o ecclesiastico; 5) Diritto di fondare dei collegi e libertà dell’insegnamento; 6) Ristabilimento dei Dodici, dei Sei e di un Oratore con tutti i suoi privilegi; 7) Diritto di difesa per gli imputati; 8) Creazione di un tribunale incaricato di denunciare i funzionari pubblici. Questa convenzione così vantaggiosa per i corsi, doveva essere eseguita sotto la garanzia dell’Imperatore. Cfr. Chronique de Simeon de Buochberg cit., chap. VII, p. 153. 17 Cfr. il testo della Costituzione all’Archives dèpartementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, serie N, cartons 3 e 4.

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negoziare con Genova e bruciati simbolicamente gli Statuti e le leggi accordate dalla Repubblica fino a quel momento. Si trattava di misure di guerra che testimoniavano la volontà di tagliare i ponti con la madrepatria e di provocare l’irreparabile. Molti storici hanno concluso, un po’ frettolosamente18, che la Costituzione del 1735 proclamava a viso aperto l’indipendenza della Corsica, dimenticando, da un lato, che la parola “indipendenza” non figurava nel testo e che, dall’altro, si continuava a sperare nell’intervento della Spagna. In ultima analisi questa costituzione del 1735 era l’immagine di un governo di notabili che prendeva su di sé un movimento insurrezionale d’origine popolare e che, abilmente, accordava al popolo la gestione degli interessi comunali. Concessione politica unita ad una concessione spirituale: la Corsica venne posta sotto la protezione della Vergine, come recitava l’inno nazionale (Dio vi salvi Regina)19. Sul piano militare, la Dominante rispose agli insorti con un blocco economico che rese insostenibile la situazione alimentare dell’isola e con azioni di rappresaglia nelle città presidiate. Sul piano diplomatico, la situazione internazionale giocava a favore di Genova: se l’Austria non poteva accorrere in suo aiuto, la Spagna si asteneva dal dare l’assenso ai ribelli, ormai avviliti. Il Governatore Pinelli, richiamato per l’eccessiva severità, venne sostituito con Gian Battista Rivarola, più moderato e diplomatico. La situazione era in stallo e non sembrava esserci via d’uscita quando, nel 1736, sbarcò ad Aleria un personaggio inaspettato.

Figura 11: Il Convento di Alisgiani, dove venne siglata la Costituzione del 1735. Il Re Teodoro Teodoro di Neuhoff non ha goduto di molta fortuna presso gli storici francesi ed ha giustamente sollevato la considerazione di Emmanuelli: «non c’è mai stato, in tutta la storia della Corsica, un personaggio più maltrattato del Re Teodoro»20. La storiografia inglese, al contrario, ha ridelineato la figura del Re di Corsica in maniera più oggettiva, riconoscendogli quei meriti che, forse ingiustamente, la maggioranza della storiografia francese gli aveva negato21. La cosa più sorprendente, nell’avventura rocambolesca di questo ricco avventuriero tedesco intenzionato a creare un Regno nell’isola, è il fatto che l’abbiano posto in trono gli stessi corsi. Il tentativo di Teodoro aveva l’appoggio di alcuni capi della rivolta, come Orticoni e Costa, intenzionati a donare all’isola un nuovo Principe. Dopo quattro anni di preparativi e di intrighi, il barone di Neuhoff22 sbarcò il 12 marzo 1736 sulla spiaggia di Aleria, dove venne ricevuto da tutti i capi

18 Cfr. ARRIGHI J.M., CASTELLIN P., Projets de constitution pour la Corse, Ajaccio 1980, pp. 15-27. Vedi anche CARRINGTON D., The Dream Hunters of Corsica, London 1995; ID., This Corsica: a complete guide, London 1962 e AA.VV., Le bicentenaire et ces îles que l’on dit françaises, Bastia 1989. 19 Testo integrale dell’inno corso: «Diu vi salvi Regina /E madre universale/ Per cui si sale/ Al paradisu. Voi siete gioia e risu/ Di tutti i scunsulati/ Di tutti i tribulatti/ Unica speme. A voi sospira è geme/ Il nostru afflitu core/ In un mar di dolore/ E d’amarezza. Maria, mar di dolcezza/ I vostri occhi pietosi/ Materni ed amorosi/ A noi volgete. Noi miseri accogliete/ Nel vostru santu velu/ Il vostru figliu in celu/ A noi mostrate. Gradite ed ascultate/ O vergine Maria/ Dolce e clemente e pia/ Gli afflati nostri accogliete. Voi da nemici nostri/ A noi date vittoria/ E poi l’eterna gloria/In paradisu». 20 Cfr. EMMANUELLI R., Précis d’Histoire Corse, Ajaccio 1970, p. 142; Altre considerazioni sulla figura del Re Teodoro provengono anche dai letterati illuministi: VOLTAIRE ha messo in scena Teodoro esiliato a Venezia che riceve l’elemosina da Candide. PAISIELLO G. gli ha consacrato un’opera buffa: Il Re Teodoro (1784), che fu tradotta in francese e recitata davanti a Napoleone nel 1806. 21 Cfr., per la storiografia inglese sul Re Teodoro: ANON J., History of Theodore, London 1739; FREDERICK D., Description of Corsica by a man who claimed to be the son of Theodore Neuhoff, King of Corsica, London 1795; FITZGERALD P., King Theodore of Corsica, London 1890; PIRIE V., His Majesty of Corsica - a biography of King Theodore - a racy story about a racy man, who died a pauper in London, London 1939. 22 Figlio di un barone tedesco e di una borghese fiamminga, Teodoro nacque a Colonia nel 1694. Paggio della Duchessa d’Orleans, madre del Reggente Filippo II di Francia, passò in seguito al servizio del Primo ministro del Re di Svezia, Carlo XII, che lo incaricò di alcune missioni in Spagna, dove conobbe il cardinale Alberoni. Dopo aver sposato una delle damigelle d’onore di Elisabetta Farnese, entrò nelle grazie del futuro Primo

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ribelli dell’isola. Eletto Re per acclamazione, approvò una costituzione monarchica23 che prevedeva una Dieta di 24 membri (16 per il Diquà, 8 per il Dilà), un’imposta modesta, un’Università, un ordine per la nobiltà e l’accesso dei corsi agli impieghi pubblici. Divenuto Re dell’isola, acclamato, posto sotto la protezione della Trinità e dell’Immacolata Vergine Maria, Teodoro prese il suo ruolo sul serio. Se è vero che la folla poteva essere sedotta dalla luce di questo nuovo personaggio, i notabili che lo avevano accolto forse credevano di poterlo neutralizzare rapidamente: all’ombra della sua regalità, che adulava il loro orgoglio, essi tenevano le fila del potere. Teodoro fondò un ordine di Cavalleria (l’Ordine della Liberazione), distribuì titoli onorifici e nominò a profusione titoli di marchesi e di conti. Al di là dell’aspetto farsesco del regno teodoriano, bisogna comunque notare, con Emmanuelli, che il Re di Corsica era effettivamente intenzionato a governare ed amministrare nel miglior modo possibile l’isola, anche in contrapposizione ai capi rivoluzionari. Innanzitutto, Teodoro tentò di organizzare un esercito regolare, di fornirgli delle armi e degli obiettivi, ma con scarso successo e con la quasi totale indifferenza dei capi rivoluzionari. Era riuscito a proclamare qualche atto, come la creazione di una moneta24, ma le casse dello Stato erano vuote. Altro atto significativo è stato quello di estendere il dazio d’importazione alle materie prime ed ai prodotti manifatturieri: decisione eccellente, ma che non poteva bastare a risvegliare l’economia isolana. Teodoro fece, inoltre, appello agli operai stranieri ed ai banchieri giudei d’Algeria per favorire la loro permanenza sull’isola, fondò concerie, fabbriche d’armi, saline e contemporaneamente ridusse la gabella sul sale. A questo bisogna aggiungere una decisione che gli rende onore e che sorprese i corsi: il riconoscimento della libertà religiosa, a cui teneva personalmente sin dal suo arrivo. Considerando le cose nella loro complessità, Teodoro si era comportato meglio di quanto declamava la propaganda genovese, indispettita nel vedersi messa in scacco da un personaggio sconosciuto, che non aveva nessuna garanzia presso le Corti europee. La fine della monarchia era inevitabile e venne provocata dagli stessi corsi e dall’indifferenza ostile e contrariata delle grandi potenze. La Francia era inquieta, perché vedeva in Teodoro un agente dell’Inghilterra, della Spagna o di Napoli (gli ambasciatori ed i consoli francesi non riuscivano a capire quali amicizie coltivasse nelle corti europee quest’uomo diabolico); l’Inghilterra prese addirittura il partito estremo di vietare ai suoi sudditi ogni forma di aiuto; la Spagna e l’Austria si mantenevano prudenti. Genova era riuscita a screditare Teodoro con un’intensa propaganda (mista di calunnia e di pura fantasia) e, soprattutto, Teodoro non era riuscito a portare alcun successo militare: questa sicuramente è stata una delle cause della disaffezione dei sudditi. La creazione dell’Ordine della Liberazione non poteva certo far riconquistare al Re l’appoggio dei notabili, che avevano aperto gli occhi e compreso l’inanità delle promesse di un aiuto esterno. Teodoro si rese conto che tutto era ormai perduto e volle chiudere in bellezza: nominò Paoli e Giafferi comandanti supremi del Dilà, Ornano governatore del Diquà e l’11 novembre 1736 si imbarcò per Livorno travestito da prete. Così si concluse un’avventura, durata appena sette mesi, che ha lasciato delle tracce profonde nell’immaginario collettivo dei corsi. Infatti, il significato dell’episodio teodoriano si trova nel contrasto tra la popolarità del Re presso il popolo delle campagne e la diffidenza dei notabili, che dopo gli entusiasmi iniziali l’abbandonarono al suo destino. Teodoro non era partito senza la speranza di poter tornare; nel settembre 1738 il Re si ripresentò alla testa di una piccola squadra di tre vascelli e sbarcò ad Aleria con diverse armi: ben accolto dai contadini, non trovò nessuno dei suoi vecchi collaboratori ad attenderlo e decise di ritirarsi a Napoli. Nel 1743 un nuovo sbarco del Re Teodoro all’Isola Rossa con l’aiuto degli inglesi, terminò con uno scacco definitivo25.

ministro spagnolo Riperda; passò in Francia con il suo protettore, il cardinale Alberoni, e conobbe John Law, trovandosi intrappolato nella rovina finanziaria del ministro francese. Da qui passò in Olanda, in Inghilterra ed alla fine a Livorno, dove incontrò gli esuli corsi (Giafferi, Ceccaldi, Aitelli, Orticoni e Costa). Questi ultimi furono sedotti dal bell’aspetto, dall’eloquenza, dalle arie da gran signore e dalle belle parole del barone, che si vantava di poter guadagnare ai corsi la fiducia di molte Corti europee, dove aveva effettivamente degli amici. Essi credevano di aver trovato l’aggancio con le più forti potenze del mondo, ma Teodoro in realtà si era visto chiudere molte porte nelle capitali europee, riuscendo a trovare aiuto solamente a Tunisi, da dove preparò la spedizione in Corsica. 23 Si riportano alcuni articoli della Constitution d’Alisgiani, riportata da LETTERON nel «B.S.S.H.N.C.», 154 (1893): «…omissis…Articolo 5: Che a tal fine debba stabilirsi, ed ellegersi una Dieta nel Regno, la quale debba esser composta di 24 Soggetti de’ più qualificati benemeriti, cioè 16 du quà da Monti, et 8 del di là da Monti, et che tre soggetti della medesma Dieta, cioè due di quà da Monti, et uno di là da Monti debbano sempre rissiedere dove serà la Corte del Sovrano, e Re, il quale potrà senza il consenso di detta Dieta prendere risoluzione alcuna, nè quanto all’imposizione di Dazj, nè quanto a Determinazioni di guerra …omissis… Articolo 11: Che la robba, e merci de’ Nazionali da estraersi dal Regno per Terra Ferma, o da trasportirsi di luogo in luogo, o di scalo in scalo per il Regno, non siano soggetti a dazio, o Gabella alcuna…omissis…Articolo 13: Che il Tributto, o sia taglia annuale da pagarsi dai corsi non debba eccedere lire tre monetta corrente per ciasched’un Capo di famiglia, e che restino abolite le mezze taglie, che solevano pagar le Vedove, e li Pupilli sino all’età d’anni 14, doppo de’ quali dovranno esser anche loro obligati come li altri…omissis… Articolo 16: Che dal Re si faccia subito, e constituisca nel regno un ordine di vera Nobiltà per il decoro del Regno, e Beni Nazionali». 24 Le iniziali T. R. (Theodorus Rex) erano interpretate sia come Tutto Rame dai nemici di Teodoro, quanto Tutti Ribelli dai genovesi. Vedi CALVET-BENETTI R., Scudi et soldi du Roi Théodore, «Corse historique», 26 (1967), pp. 13-35. 25 Errando di paese in paese (Italia, Germania, Olanda), Teodoro si ritirò finalmente a Londra, dove condusse una vita miserabile, suscitando il pubblico riso. Imprigionato per debiti e tentato omicidio, venne liberato, ma finì i suoi giorni in miseria totale nel dicembre 1756.

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Figura 12: la Corsica in una mappa di Homann del 1732. § 3. Il Primo intervento francese (1736-1742) La guerra, anche senza il Re Teodoro, non era finita: tra gli insorti lo scoraggiamento era grande ed i capi domandarono invano una tregua. Genova nel frattempo si era rivolta alla Francia, alleata e protettrice naturale, anche perché l’Imperatore d’Austria, alle prese con i Turchi, non poteva prestarle soccorso. L’entrata in scena della Francia era prevedibile da lungo tempo. Con la Guerra di Successione Spagnola (1700-1713) e l’avvento di Filippo V al trono di Spagna, la posizione strategica della Corsica destava l’interesse della Francia, opposta all’Impero, all’Inghilterra ed all’Olanda. I trattati di Utrecht e Rastadt (1713-1714), che consegnavano, di fatto, l’Italia all’Austria, spensero momentaneamente l’interesse francese verso la Corsica26. La Question de la Corse tornò all’ordine del giorno per volontà di Chauvelin, segretario di Stato agli affari esteri, e del cardinale Fleury, ministro di Luigi XV. Probabilmente si pensava già ad un’annessione della Corsica alla Francia, da quanto emerge dalla lettura del dispaccio di Chauvelin a Campredon del 26 aprile 1735: le linee direttive e l’obiettivo finale erano stati già tracciati fermamente. L’abilità diplomatica della Francia consisteva nel preparare Genova per prima, l’Europa poi, ad un effettivo passaggio di poteri. Per il momento non si poteva parlare di annessione pura e semplice, perché la Francia non pensava ad un trasferimento di sovranità, anche se era esplicitamente previsto che Genova potesse «accomodarsi con Noi per un trattato di cessione»27. Dopo la parentesi teodoriana, la politica di Campredon cominciò a portare i suoi frutti. Le migliori teste della 26 I Trattati di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714) avevano concesso all’Impero il Milanese, i presidi della Toscana, la Sardegna e Napoli, poi perduta a beneficio della Spagna; nonostante il trattato di Vienna (1731), che sottolineava il ritorno della Spagna (il ducato di Parma passò a Don Carlos), a Carlo VI restava ancora la Lombardia. Cfr. VENTURI F., Settecento Riformatore, vol. V**, da Muratori a Beccaria, pp. 9-15 e BROCHE G.E., La République de Gênes et la France pendant la guerre de Succession d’Autriche (1740-1748), Paris 1935. 27 Il testo del dispaccio di Chauvelin è fondamentale per la comprensione dei successivi trent’anni di politica francese. I mezzi a breve termine erano definiti chiaramente: «Bisogna cominciare da oggi a formare sottilmente in Corsica un partito e fare in modo che cresca saggiamente e segretamente…sforzarsi di condurre le cose a tal punto che tutti gli abitanti in Corsica si dichiarino d’un colpo solo sotto tutela francese; allora il Re invierà sul campo delle truppe, perché gli abitanti lo avranno chiesto». Era necessaria una certa duplicità diplomatica: «Noi dichiareremo, allo stesso tempo, a Genova che abbiamo inviato le truppe per impedire ai corsi di vendersi a qualcun altro, e che siamo pronti a rimettere, se è possibile, il popolo all’obbedienza della Repubblica, a meno che Essa non ritenga di doversi accomodare con Noi per un trattato di cessione». Cfr. il Dispaccio del M. Chauvelin a Campredon, lettre 26 avril 1736, Archives Nationales, Parigi, fondo M//1018/11/2 Papiers trouvés dans le cabinet de M. le Comte de Boissieux lieutenant general, comandant les troupes de S. M. en Corse, aprés sa mort arrivée en Corse en 1739. Vedi anche i documenti riportati dall’abate LETTERON, Correspondance des agents de France a Gênes avec le Ministére, Anno 1730 e seguenti, «B.S.S.H.N.C.», XXI a., 241-247 (1901). Cfr. anche le fonti dell’Archives Nationales, Paris, Correspondance consulaire B1581, relative al periodo 1729-1744.

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Repubblica si comportavano esattamente come Chauvelin aveva previsto dieci anni prima: l’abilità consisteva nell’associare, sulla carta, il Re di Francia e l’Imperatore d’Austria. In questo modo si potevano evitare sia la suscettibilità di Carlo VI, sia i timori dell’Inghilterra e della Spagna. La convenzione firmata il 10 novembre a Fontainebleau28, comportò una clausola carica di conseguenze per l’avvenire: era riconosciuta, infatti, una diminutio potestatis per Genova, costretta a rapportarsi alla giustizia di Sua Maestà e dell’Imperatore per fissare l’eventuale accordo di pace con i corsi. La Repubblica aveva sottovalutato questo scacco diplomatico: la Corsica era di nuovo diventata una pedina sullo scacchiere internazionale. Boissieux e Maillebois L’8 febbraio 1738 un corpo di spedizione francese di 3.000 uomini sbarcò a Bastia, al comando del Conte di Boissieux. Da parte corsa, come da parte francese, non si pensava affatto alla guerra. Gli ordini impartiti al capo francese erano di dar prova di moderazione e di interporsi tra Genova ed i corsi come mediatore ed arbitro. Dopo la disfatta di Neuhoff, Boisseux pretese il disarmo generale dei corsi, confermando gli ordini impartiti da Genova. Ma la fuoriuscita improvvisa delle truppe francesi dalle loro piazzeforti in direzione di Borgo fece di nuovo scoppiare la polveriera corsa: i francesi, attaccati dai ribelli, furono costretti a ritirarsi in disordine a Bastia (13 dicembre 1738). Questa disfatta di Borgo, cui è stato dato il nome di Vespri corsi, segnarono la fine della missione di Boissieux. I francesi, colpiti nel profondo per lo smacco subito, cercarono di risollevare il loro prestigio, tentando di riprendere in mano la situazione. Il compito di riorganizzare le truppe francesi fu affidato, nel marzo 1739, al marchese di Maillebois. Conformemente alle istruzioni ricevute, egli condusse l’azione su due fronti: militare, per sedare le ribellioni, e politico, per persuadere i corsi che la Francia non aveva altro obiettivo che il benessere e la tranquillità del paese. La campagna militare si concluse presto nel Diquà, meno agevolmente nel Dilà, che tenne testa ai francesi fino al 1740. I capi corsi nel luglio 1739 s’imbarcarono per l’Italia29: a Maillebois erano bastati meno di due mesi per pacificare la Corsica; ora si trattava di consolidare la conquista sul piano politico. Egli prese le distanze dalle direttive del Governatore genovese ed iniziò una politica d’apertura al partito francese: questo partito si costituì attorno ad alcuni notabili ed aristocratici, tra cui una dama di Sartena, Bianca Rossi Colonna, che sembra sia stata un agente segreto della Francia. Maillebois, che si vantava d’aver «trovato la Corsica in mano ai demoni» e d’averne fatto «l’isola degli angeli», promosso Maresciallo di Francia, si sforzò di convincere la corte, con una memoria del 21 agosto 1739, che l’interesse della Francia consisteva nel sostituirsi a Genova nell’amministrazione diretta della Corsica. L’ambasciatore francese tentò invano di persuadere la Repubblica della purezza d’intenzioni di Parigi: Genova, com’era prevedibile, rifiutò questo tipo d’interessamento. Tuttavia la morte dell’Imperatore Carlo VI (ottobre 1740) e l’inizio della guerra di Successione austriaca, costrinsero la Francia ad abbandonare temporaneamente il progetto di annessione dell’isola30. La presenza di Maillebois nell’isola, per quanto breve, testimoniava lo scarso potere militare ed amministrativo di Genova: la Repubblica appariva ormai incapace di spegnere la rivolta senza l’aiuto straniero. D’altro lato, era ormai evidente, agli occhi della diplomazia europea, che la Francia aveva dei progetti ben precisi sulla Corsica e che il suo intervento armato nascondeva dei disegni - nemmeno troppo velati - di annessione31. La partenza di Maillebois, che ha concluso il primo ciclo francese (poco più di tre anni: febbraio 1738 - maggio 1741), cambiò sicuramente i sentimenti dei corsi verso la Francia, ma non placò affatto l’odio verso Genova. La lotta sarebbe ricominciata alla prima occasione.

28 10 novembre 1738: a Fontainebleau venne siglata la convenzione tra la Francia e Genova, conformemente alle proposizioni del 5 agosto. Cfr. MONTI A.D., La grande revolte des corses contre Gênes 1729-1769, Cervioni 1978, p. 20. 29 «Il 10 luglio 1739 Giacinto Paoli, suo figlio Pasquale, di 14 anni, Giovan Giacomo Ambrosi, Luigi Giafferi, Don Antonio Giabiconi, Francesco Maria Natali ed altri patrioti (in tutto 29 persone) presero la rotta dell’esilio. Un battello francese li condusse dalla Padulella a Porto Longone. La maggior parte si diresse a Napoli, arruolandosi nelle armate del re di Napoli e di Sicilia» (MONTI A.D., La grande revolte des corses contre Gênes 1729-1769, cit., pp. 26-27). Paoli e Giafferi furono nominati colonnelli del reggimento Real corso. Vedi i ritratti adulatori di Giacinto Paoli e di Luigi Giafferi nel tomo I dell’opera Révolutions de Corse dell’abate Germanes: di Giacinto Paoli l’abate dice che «non c’era niente di più dolce della sua compagnia, niente di più affascinante dei suoi discorsi»; di Giafferi che «gli si addicono meglio le qualità di soldato che di uomo di gabinetto…aveva meno arte che genio». 30 Tra la fine del 1740 e l’inizio del 1741 circolarono numerose Memorie ed indicazioni per mantenere la Corsica nella pace e nell’obbedienza al Sovrano. All’Archives Nationales di Parigi è stato depositato, tra le numerose carte del fondo M M//1018/11/2 Papiers trouvés dans le cabinet de M. le Comte de Boissieux cit., un Plan du commissaire génois severamente criticato da Maillebois. Il piano prevedeva la: «…récupération, au moins en partie, des dépenses de guerre et des impôts non perçus depuis 10 ans; établissement d’un corps de troupes et de fonctionnaires de justice aux frais des Corses; indemnisation des Corses fidèles à la République qui ont souffert de la guerre; expulsion des familles des responsables de la révolte et confiscation de leurs biens; expulsions de prêtres et de moines; importation de colonies étrangères; destruction des villages de Nuceta et Loretu, des châtaigniers de l’Alisgiani et de la plupart des couvents». A questo piano (di cui non esistono corrispondenze valide per l’Archivio di Stato di Genova) la Corte di Francia rispose, il 12 gennaio 1740, con una Mémoire de la Cour de France sur la Corse adressé à Jonville et destiné au Sénat de Gênes. La Mémoire «Posant comme principes l’aversion des Corses pour la domination de la République et la détermination française de ne pas laisser passer l’île en d’autres mains, on propose: les Génois retirent leurs troupes; les Français se chargent de d’administration de la justice et de la perception des impôts; la France s’engage à restituer la Corse après un certain nombre d’années; l’Empereur, garant, conjointement avec la France, du traité de 1737, sera informé». La Francia aveva posto come prima condizione che la Mémoire fosse discussa con un piccolo (e segreto) numero di commissari, tra cui Giambattista Grimaldi e Carlo Emmanuele Durazzo. Per un ragguaglio sulla situazione diplomatica, vedi BROCHE G.E., La République de Gênes et la France pendant la guerre de Succession d’Autriche (1740-1748), Paris 1935. 31 L’opera politica e diplomatica di Maillebois vide il suo coronamento con la fondazione, nel 1739 di un reggimento francese reclutato in Corsica, il Real Corso presso l’esercito del Re Cristianissimo.

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Figura 13: La Corsica in una mappa di Homann del 1740. § 4. 1742-1755. Inghilterra, Austria, Sardegna e Francia in Corsica La guerra tra Genova e la Corsica riprese in un contesto diplomatico già condizionato dalla guerra di Successione austriaca. Genova si era trovata coinvolta, suo malgrado, nel conflitto e subì i contraccolpi dell’antagonismo giocato tra le Corti straniere ed il suo territorio, Corsica inclusa. In seguito alla partenza dell’ultimo contingente francese, la stanchezza degli insorti e l’impotenza di Genova a riconquistare l’isola procurarono alla Corsica un periodo di tranquillità: nessuno dei due contendenti aveva la minima intenzione di riprendere le ostilità. Genova comprese finalmente che la soluzione del conflitto era politica: venne eletto nuovo commissario generale, nel giugno 1734, Pier Maria Giustiniani32. Questi fece delle concessioni: ristabilimento del porto d’armi, contribuzione fiscale dimezzata, ristabilimento della taglia all’aliquota primitiva, garanzia delle libertà individuali e, soprattutto, soppressione del diritto del Governatore di giudicare “ex informata conscientia”; a questo si aggiungeva l’accesso dei corsi a tre vescovati ed a quattro incarichi di luogotenente e la creazione di un ordine della nobiltà con trasmissione per primogenitura. Curiosamente queste concessioni, che non erano trascurabili e superavano ogni limite di legittimità, giunsero troppo tardi: i capi corsi, ormai, avevano preso coscienza della loro forza. Con la Consulta di Orezza (agosto 1745), gli insorti organizzarono una Reggenza, nuova struttura politica con il compito apparente di garantire l’amministrazione della giustizia, ma che in realtà assunse il potere politico ed amministrativo dell’isola. Genova aveva fallito anche con la predicazione religiosa: nonostante la missione, dal maggio al novembre 1744, di padre Leonardo da Porto Maurizio33, i corsi non retrocedettero dalle loro posizioni. La sostituzione di Giustiniani con il commissario de Mari e la nuova congiuntura internazionale fecero riesplodere il conflitto. Il 13 settembre 1743 era stata firmata un’alleanza34 tra Carlo Emanuele III, Re di Sardegna, l’Imperatrice d’Austria Maria Teresa e l’Elettore di Sassonia, diretta contro la Francia e contro Genova. La Corsica faceva parte delle mire espansionistiche del Re di Sardegna, che voleva estendere il proprio dominio sul Tirreno. Genova, per difendersi da questi attacchi, poteva soltanto contare sull’amicizia della Francia e sulla neutralità dell’Inghilterra. La Francia assicurò immediatamente la sua protezione a Genova, ma l’Inghilterra, che aveva delle mire precise nel Mediterraneo e che poteva contare sulle basi di Gibilterra e di Minorca, cercò di contrastare la lunga mano francese sull’isola alleandosi con 32 L’opera più famosa di Pier Maria Giustiniani è la risposta alla Giustificazione di Gregorio Salvini: Riflessioni intorno ad un libro intitolato Giustificazione della rivoluzione di Corsica, e della ferma risoluzione presa da’corsi di non sottomettersi più al dominio di Genova, Oletta 1760. La celebre Giustificazione di Salvini lo salutava come «forse il Genovese più ingenuo e più integro che abbia veduto la Corsica». Cfr. EMMANUELLI R., “Disinganno”, “Giustificazione” et philosophie de Lumières, «Études corses», 2 (1974), pp. 88-96. 33 «Le 11 janvier 1745. Le consul Coutlet au Ministre... Missionnaire apostolique de Porto-Maurizio, le Révérend Père Leonardo a prolongé de quelques jours le Triduum qu’il avait commencé dans l’église-cathédrale de Saint-Laurent, ne l’ayant terminé que mercredi au soir. Il a toujours eu un concours prodigieux. Ce bon missionnaire étant en grande vénération, il ne prêche point en chaire comme les autres prédicateurs, mais on lui élève un échafaud au milieu de l’Eglise où il reste souvent des deux heures en pied avec une espèce de bourdon, exhortant le peuple à la pénitence et à la piété...». Archives nationales, Paris, Correspondance consulaire B1581/1 e 581/2. 34 Il 13 settembre 1743 venne firmato il trattato di Worms tra Inghilterra, Austria e Sardegna. L’articolo 10 del trattato era diretto contro Genova, dato che prevedeva la cessione da parte di Maria Teresa dei diritti sul marchesato di Finale, possedimento della Repubblica, a Carlo Emanuele di Savoia.

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Carlo Emanuele III. La Francia e la Spagna, riavvicinatesi davanti al comune pericolo inglese, promisero di garantire l’integrità del territorio genovese, Corsica compresa35. L’Inghilterra, l’Austria e la Sardegna replicarono immediatamente con un’alleanza (6 ottobre 1745) che, sotto il pretesto della difesa della Corsica dalle brame franco-spagnole, nascondeva un vero tentativo di conquista militare. La Corsica divenne così un nuovo teatro in cui inglesi, sardi e francesi si affrontavano davanti agli occhi di Genova, la cui autorità sfumava di giorno in giorno. Inglesi e sardi in Corsica Le operazioni militari degli Anglo-sardi cominciarono, nel novembre 1745, con il bombardamento navale di Bastia: mentre la flotta inglese distruggeva la città a cannonate, alcuni contingenti corsi occuparono la cittadella. All’interno dell’isola, Corte si arrese a Gaffori e San Fiorenzo capitolò davanti ai ribelli. Se la flotta inglese avesse continuato a dare il suo sostegno, la Corsica sarebbe stata definitivamente sottratta ai genovesi. Ma Londra mirava a riconciliarsi con la Spagna (dove il Re Filippo V stava per morire) ed intendeva offrire la Corsica all’Infante di Spagna. L’accordo tra Inghilterra e Spagna fallì a causa delle proteste di Madrid per la presenza inglese a Gibilterra: da quel momento gli inglesi non infersero più l’attacco definitivo. Senza l’appoggio inglese il Re di Sardegna e gli insorti non potevano vincere; d’altro canto, tra gli stessi corsi non vigeva una perfetta sintonia, anche perché i capi, al di là di una compattezza di facciata, si opponevano violentemente l’uno l’altro. Tra questi capi della seconda generazione rivoluzionaria, il più famoso era sicuramente Gian Pietro Gaffori36, che impersonificava perfettamente la classe dei notabili isolani: il suo obiettivo era di non legarsi definitivamente ai belligeranti per poter negoziare meglio la gestione del potere, mentre Gian Domenico Rivarola37 sollecitava l’alleanza dei ribelli con il Re di Sardegna.

Figura 14: il porto di Finale alla fine del XVIII secolo (Archivio di Stato di Genova). La rivalità tra Gaffori, Rivarola e gli altri capi (tra cui Alerio Matra38 e Michele Durazzo39) disperdeva le energie dei rivoluzionari, mentre Genova, attaccata dalla flotta inglese, occupata dalle truppe austriache e costretta ad una contribuzione enorme, non poteva momentaneamente pensare alla Corsica. I ribelli sollecitarono un nuovo rinforzo da Torino, ma l’arrivo delle truppe anglo-sarde nel maggio 1748 non era sufficiente a ristabilire una situazione ormai sfuggita di mano: lentamente Genova riuscì, con l’aiuto francese, a capovolgere le difficoltà. La pace, stipulata nell’ottobre del 1748 ad Aix la Chapelle40, lasciò alla Corsica una pace precaria. L’ambiguo atteggiamento dei ribelli

35 Il 1° maggio 1745 venne siglato il trattato di Aranjuez tra la Spagna, la Francia ed il Regno delle Due Sicilie per garantire l’integrità territoriale della Repubblica di Genova. 36 Nato a Corte nel 1710, dottore in medicina, era stato il “segretario di guerra e di gabinetto” del Re Teodoro e Ministro del Tesoro; sedotto politicamente da Boisseux, in seguito divenne ostile al suo Regolamento del 1733. Venne esiliato in Italia, da cui tornò nel 1743. 37 Domenico Rivarola era segretario di Stato e della Guerra di Teodoro di Neuhoff; esiliato da Genova, in seguito ad intrighi con gli inglesi, il Piemonte e l’Austria, venne nominato colonnello di un reggimento corso al servizio del Re di Sardegna nel 1744. 38 Alerio Matra faceva parte di uno dei “clan” più grandi e ricchi della Pianura Orientale attorno ad Aleria. Arruolatosi nel “Real Corso” di Maillebois, disertò l’esercito alla ripresa delle ostilità in Corsica. Nominato “Generale” alla Consulta d’Orezza nell’agosto 1745, cognato di Gaffori (che aveva sposato sua sorella), Matra «rappresenta il prototipo del capo corso». Cfr. AMBROSI CH., La Corse insurgée et la seconde intervention française au XVIIIe siècle (1743-1753), Grenoble 1950, p. 48. 39 Vedi LAMOTTE P., Michele Durazzo, «Études corses», 15 (1955) e VRYDAGHS R.P., Notices historiques sur la Rocca cit., p. 177 e segg. Partigiano alla causa nazionale, alleato di Teodoro, che seguì nella fuga in Italia (1736), Michele Durazzo rientrò in Corsica, dove urtò l’ostilità del fratello; prese le parti dei francesi, ma, nel 1745, ritrovandosi colonnello di reggimento su ordine del commissario genovese, assicurò la sua fedeltà alla madrepatria, riappacificando il Sud e la Rocca con l’aiuto di Luca Ornano. 40 Non esiste ancora una “Questione corsa” nel trattato di Aquisgrana, ma si afferma chiaramente l’integrità del territorio di Genova, Corsica compresa. Vedi le opere di BROCHE G.E., La République de Gênes et la France pendant la guerre de Succession d’Autriche (1740-1748), Paris 1935 e di AMBROSI CH., La Corse insurgée et la seconde intervention française au XVIIIe siècle (1743-1753), Grenoble 1950.

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verso la Francia41 mostrava che il grado di coscienza politica della rivoluzione non era ancora giunto alla piena maturità. Il secondo intervento francese: il Marchese de Cursay Le costanti richieste di aiuto contro i ribelli da parte di Genova segnano l’inizio del secondo intervento militare francese, guidato dal marchese di Cursay. Salvaguardando la sovranità teorica di Genova, egli tendeva a prendere la direzione dell’amministrazione pubblica per mostrare alla popolazione che il benessere, la prosperità ed il progresso non erano possibili, in Corsica, senza l’aiuto diretto e disinteressato della Francia. La debolezza dei soldati effettivi al suo seguito impediva una ripresa delle ostilità: l’azione del Marchese si limitò, pertanto, alla consegna delle piazze occupate dagli insorti. Riportata la pace nell’isola, Cursay s’impegnò attivamente nella riforma dell’amministrazione: il primo obiettivo era di ristabilire, con il concorso dei capi corsi, una giustizia imparziale e severa, anche con l’aiuto delle spedizioni punitive e delle esecuzioni dei colpevoli. Il secondo obiettivo era di ridare vita ad un’economia indebolita dalle incessanti operazioni militari: Cursay ripartì equamente le imposte, da cui si potevano detrarre i fondi per le infrastrutture; aumentò la remunerazione per gli agenti dello Stato; ridusse i diritti d’esportazione per i prodotti agricoli (olio, castagne), aumentando le tasse d’entrata (classica politica protezionista che doveva favorire la ripresa economica); pianificò lo sviluppo marittimo della Balagna e del Capo, ricostruì i ponti e le strade; tutto questo in cambio della possibilità, per i francesi, di sfruttare le risorse del territorio isolano (boschi, castagne, vino, olio, ecc.). Il terzo obiettivo del generale era di legare i notabili al partito francese: egli sfruttò alla perfezione la sete di titoli e di riconoscimenti ufficiali dei notabili, emarginando il basso clero. Coinvolse la borghesia mercantile nello sviluppo del sistema dell’istruzione (Cursay promise di costruire l’Università che i corsi attendevano da tempo) e nella vita culturale (ridiede vita all’Accademia dei vagabondi, fondata nel 1659, ma inattiva da circa 25 anni) incarnando a pieno, agli occhi dei corsi, l’ideale del sovrano illuminato. L’ostilità dei capi rivoluzionari e la sfiducia di Genova, tuttavia, segnarono il limite estremo dell’azione del Generale. La Repubblica aveva un alleato in Chauvelin, che convinse il Ministro degli affari esteri, conte d’Argenson, della nocività di Cursay, accusato di rinfocolare la rivolta politica contro Genova e di agire sotto la spinta dell’ambizione personale. Cursay venne arrestato ed imprigionato ad Antibes alla fine del 1752, con l’accusa di non aver spiegato chiaramente al Re quale fosse la situazione in Corsica. L’amministrazione di Cursay, per quanto breve e difficile, gettò le basi della futura occupazione francese dell’isola. Anche se non si è trattato di un governo stabile, esso ha comunque rafforzato il partito francese42. Con la partenza di Cursay, la situazione in Corsica peggiorò notevolmente: le truppe francesi abbandonarono l’isola e la Repubblica tentò di riprendere in mano il potere facendo annullare le ultime disposizioni giudiziarie. Infine, davanti al tentativo di Gaffori di istituire un governo provvisorio con poteri militari, giudiziari e finanziari, Genova ricorse alla soluzione estrema: l’assassinio43. Gaffori, tradito dal fratello per motivi d’eredità e caduto in un agguato, venne ucciso a Corte il 20 ottobre 1753. Il quadro generale del primo Trentennio rivoluzionario Nell’arco del primo trentennio rivoluzionario in Corsica emergono delle contraddizioni strettamente legate alla natura profonda della società isolana. Infatti, se è vero che nelle linee generali la rivoluzione si estese e predispose progressivamente gli strumenti per la futura indipendenza, un’analisi più profonda mostra, ad ogni livello, che le forze centrifughe erano potenti almeno quanto i fattori unitari. Quest’unità deve essere vista con le dovute sfumature: le opposizioni regionali erano ancora forti. Nella lotta, almeno fino a questo periodo, il Nord ed il Sud dell’isola non hanno mai camminato alla stessa velocità: è significativo che dal Sud non sia mai partito alcun segnale di rivolta e che i capi della rivoluzione fossero tutti del Diquadamonti. Ciò è dovuto, con buona probabilità, alla diversa struttura sociale ed economica delle pievi settentrionali, abituate da secoli alla gestione comune delle terre, ad un’organizzazione giurisdizionale ed amministrativa meno vincolata dalle grandi famiglie notabilari e ad una tradizione politica incline all’elezione diretta dei rappresentanti delle pievi. Tra le due parti dell’isola esistevano delle differenze economiche, sociali, politiche enormi: questo ritardo politico rifletteva le strutture semifeudali di queste regioni (in cui i Notabili, i “sgiò”, erano integrati nel sistema genovese), e le profonde divisioni storiche, che portarono spesso le due parti

41 Gli articoli del Trattato di Aquisgrana che interessavano la Corsica erano il n. 2 (un oubli général pour tout ce qui a pu être commis pendant la guerre qui vient de se terminer), ed il numero 14 (la République de Gênes doit réentrer en possession de tous ses Etats). La Consulta di Venzolasca del 21 e 22 ottobre 1748, con la partecipazione di Gaffori, rinnovava la dichiarazione di guerra a Genova da parte dei ribelli. 42 I cui capi erano il canonico Orto, intrigante e venale; il canonico Orticoni, che aveva perso ogni speranza nell’intervento spagnolo; Gian Quilico Casabianca, fedele luogotenente di Gaffori e la dama Bianca Colonna, avventuriera interessata alla causa francese. 43 L’omicidio di Gaffori è imputabile alle manovre del Commissario Grimaldi, che stimava la scomparsa di questo capo necessaria al ristabilimento della sovranità genovese sull’isola. Grimaldi contava, certamente, di beneficiare dell’appoggio di Giuliani e dei suoi sostenitori, favorevoli ad un’intesa con la Repubblica. Le conseguenze di questo omicidio furono particolarmente gravi, perché la maggioranza dei corsi dichiarò «una guerra eterna a Genova». Per l’analisi delle impressioni francesi su questo attentato, è interessante leggere il resoconto di Coutlet a d’Argenson in questa lettera del 5 ottobre 1753: «Les députés du Magistrato suprême corse sont arrivés à Bastia. Leur chef fit un discours fort élégant et respectueux, témoignant le véritable désir qu’ils avaient de voir la paix et la tranquillité rétablies dans leur patrie, et remirent un mémoire de 21 articles que le Commissaire Général envoya aussitôt. Ils repartiront à Corte. Gafforio a été assassiné. Il s’était attiré un crédit et une autorité qui l’y faisaient agir en maître absolu, il serait parvenu à la souveraineté pour peu qu’il eût vécu. Il ne s’agit plus d’accommodement que le «Magistrato Supremo» établi à Corte, avait envoyé à M. de Grimaldi. Giuliani qui a paru assez incliné en faveur de la République pourrait bien succéder à ce défunt, mais il est à craindre que les partisans de celui-ci, qui sont en grand nombre ne s’y opposent de toutes leurs forces. Cinq des maisons des assassins de Gafforio ont été détruites de fond en comble à Corte, dans l’une desquelles on prétend qu’il y avait une bibliothèque fort estimée. Quelques assassins se sont réfugiés à Calvi, le Gouverneur les en a chassés...» Archives nationales, Paris, Correspondance consulaire. Gênes. A. E. B 589.

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dell’isola ad una profonda divisione. Non si andava mai oltre un debole federalismo: il Sud optò per la secessione non appena Gaffori si affermò come unico capo della rivoluzione; solo con l’abilità il Generale riuscì ad ottenere un’intesa. Questo non significa, d’altro canto, che al Nord l’unanimità fosse totale: quando Teodoro venne incoronato Re, il Nebbio si proclamò apertamente filogenovese, mentre il Capo Corso non prese mai parte ad alcun movimento: gli interessi economici e le attività commerciali dipendevano troppo da Genova. Queste opposizioni e divisioni regionali si riflettevano nell’organizzazione dei poteri pubblici. A partire dal 1735, tutti i governi furono istituiti con il principio della collegialità e della rotazione delle cariche: questo mostra sia la volontà (cosciente o incosciente) d’imitare il modello genovese, sia l’intenzione di soddisfare il più grande numero possibile di Notabili locali, investendoli di cariche che solleticavano l’orgoglio delle pievi d’appartenenza. Anche quando venne scritta e proclamata l’unità nazionale con la costituzione paolina, le forze centrifughe, i particolarismi e gli egoismi mostravano costantemente la difficoltà nel mantenerla di fatto. Ad uno sguardo ancora più ravvicinato, emerge chiaramente la divisione del potere esecutivo nel momento in cui la rivolta cominciava ad estendersi ed iniziava a formarsi il primo nucleo dello Stato nazionale: due Generali nel 1732, tre Primati nel 1735, quattro Generali a Sant’Antonio della Casabianca il 10 agosto 1746. La Consulta di Vallerustia dell’ottobre 1752 consacrò la divisione ed il sistema federale: Dodici Presidenti che si succedevano mensilmente alla testa del Magistrato Supremo. Quanto al Consiglio di Stato, che doveva simboleggiare l’unità nazionale, esso appariva, piuttosto, come il garante degli interessi locali. La potenza delle forze centrifughe si mostrò chiaramente tra il 1753 ed il 1755, quando i Presidenti si disputarono il potere l’uno contro l’altro. Gaffori era riuscito a superare queste divisioni, ma l’unità che aveva costruito non era organica. Pievi e regioni non erano solidali sul piano economico (rifiutavano la mediazione di un mercato nazionale) e non potevano sentirsi solidali nemmeno sul piano politico. Genova ne era ben consapevole quando fece assassinare Gaffori. Le rivalità claniche La personalizzazione del potere, riflesso ed espressione del municipalismo, mostra l’atomizzazione delle realtà isolane e delle strutture sociali fondate sul sistema clanico. Le opposizioni regionali o microregionali si articolano sempre attorno alle rivalità personali, che le sottintendono; ma anche all’interno del processo generale che porta dalla jacquerie alla rivoluzione, la lotta nazionale appare, ad uno sguardo più ravvicinato, come una combinazione delle lotte tra clan accresciuta dalla pressione popolare e dagli interventi stranieri. In effetti, sotto tutti i punti di vista, i capi isolani erano dei capi di partito, per i quali spesso l’ambizione personale superava l’ambito della rivoluzione. Questo dato evidenzia sia il debole sviluppo della borghesia corsa, sia il grado di sudditanza delle masse popolari, che dipendevano economicamente dai grandi proprietari. Queste opposizioni erano soltanto la parte più visibile di una realtà più complessa. Era infinitamente più grave il fatto che ovunque in Corsica si reagiva secondo gli stessi principi: bastava avere qualche partigiano per proclamare la libertà e l’indipendenza e rifiutare l’obbedienza ai capi. D’altro canto, nel Journal di Antonio Buttafoco, si afferma chiaramente che i Generali passavano la maggior parte del tempo a percorrere le pievi per sedare le rivolte suscitate da questo o quel piccolo signore della guerra, piuttosto che a combattere i genovesi. Questo ha spinto l’autore a scrivere: «Ognuno cercava di creare un partito ed in Corsica non si vedevano che stravaganze ed inimicizie. Era arrivato il momento in cui chi voleva fare del male, lo commetteva impunemente; ognuno pretendeva di non obbedire a nessun altro»44. Se a questo humus bellicus uniamo anche la presenza dei genovesi, riusciamo a comprendere la gravità della situazione generale. Il sistema a clan poteva sempre rimettere in discussione i risultati ottenuti, soprattutto durante le invasioni straniere. L’esempio di Bianca Colonna sembra sintetizzare la realtà corsa e le sue contraddizioni: Bianca, ostile a Genova, si era ritirata nella macchia con un gruppo di patrioti. Il suo comportamento era curioso: si oppose a Gaffori, cercò in ogni modo di impedire l’arruolamento delle truppe di Rivarola (al servizio del re di Sardegna), ma, per contro, aiutò con tutte le sue forze i francesi e fece rovesciare da questi ultimi la regione che controllava con una stretta rete di alleanze. Interi gruppi di ribelli agivano in maniera contraddittoria, si schieravano con una fazione o con un’altra a seconda delle circostanze, controllando con i loro movimenti una o più pievi e rendendo la Rivoluzione sempre più fragile. Pressioni popolari e recuperi notabilari In questa situazione di scontri generalizzati, la pressione popolare aveva assunto un ruolo predominante. Durante questa serie di rivolte, che avevano ogni volta elevato il grado della lotta, sembra ci sia stato l’impulso sempre più forte di quella che si potrebbe chiamare una “corrente popolare nazionale”. Gli studi, in questo senso, sono ancora scarsi: la fisiologia dei movimenti di fondo delle rivoluzioni di Corsica è ancora sconosciuta, mentre l’analisi delle singole rivolte non riesce a fornire una visione d’insieme. Verso il 1730, da una jacquerie iniziale, la Castagniccia sembrava prendere delle posizioni più radicali, dando alla lotta un contenuto più “nazionale”, più politico45. Sotto questo aspetto, l’episodio di Teodoro è ancora più significativo. Non appena egli mise piede sull’isola, «senza dar tempo a consultare e deliberare, il popolaccio acclamò il baron Teodoro Re di Corsica», afferma il Padre Guelfucci46. In effetti, il “popolo minuto” è stato il più fervido sostenitore del Re. Forse si identificava nella sua figura il mezzo per superare le rivalità personali che conducevano il paese alla rovina, o si considerava l’elezione del Re come il punto di non ritorno, da cui non era più

44 BUTTAFUOCO A., Fragments pour servir à l'histoire de Corse de 1764 à 1769, Bastia, 1859, p. 21. 45 Cfr. il curioso testo pubblicato da ROSSI A., op. cit., libro VI, pp. 61-62; questo testo si trova anche in CAMBIAGI G., op. cit., III, p. 14. 46 GUELFUCCI P.B., Memorie, p. 65.

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possibile alcun accomodamento con i genovesi, immettendo in lui un’autentica speranza nazionale. Per le masse popolari l’indipendenza assunse quasi l’immagine della liberazione, un modo per reagire e rivendicare la trasformazione della società. Anche se ancora mancano degli studi approfonditi sul ruolo e sulle aspirazioni delle masse popolari durante la rivoluzione, la distanza con i movimenti del 1789 sembra enorme: negli anni ‘30 il popolo non sembra in grado di condurre la guerra; non sceglie di sua iniziativa i capi; non viene creata in alcun modo una struttura capace di portare a termine la rivolta. Ed è assolutamente normale: l’odio verso i genovesi non bastava a far superare i limiti della comunità o della pieve; al massimo si osservavano le necessità della propria regione. Oltretutto, nella lotta contro la Repubblica, ad ogni passo avanti compiuto dai capi corsi sotto la pressione popolare corrispondeva il contraccolpo dell’intervento straniero, che esasperava le contraddizioni interne. Il movimento di fondo che obbligava i Notabili a deviare dalle posizioni originali venne sfruttato da chi, come Gaffori nel 1738, se ne servì per far trionfare le proprie posizioni. Nella Corsica del XVIII secolo i Notabili erano la sola classe politica dirigente in grado di fornire la base necessaria per la costruzione di una nazione. Ma per questa classe il sentimento nazionale veniva sempre dopo le esigenze materiali, o mancava del tutto. Questa classe sociale non ha mai rivendicato l’indipendenza perché non era mai stata animata dalla certezza che la nazione corsa avrebbe risolto da sola i suoi problemi: al massimo restava in disparte per vedere cosa avrebbe apportato la libertà.

Figura 15: la Repubblica di Genova in una mappa di Matthaus Sutter del XVIII secolo.

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CAPITOLO 4 LA SECONDA FASE DELLA RIVOLUZIONE CORSA: PASQUALE PAOLI (1755-1769)

§ 1. Pasquale Paoli: l’indipendenza della Corsica. L’assassinio di Gaffori non portò alcun vantaggio a Genova: i patrioti corsi decisero di continuare la lotta ad oltranza. Riunitisi a Corte il 22 ottobre 1753, essi nominarono, tra i membri del Consiglio supremo, un Direttorio di quattro membri presieduto da Clemente Paoli, il primogenito di Giacinto Paoli (ritiratosi a Napoli nel 1739), preparandosi ad una guerra senza tregua, che doveva coinvolgere gli altri paesi europei1. Le grandi potenze non avevano alcun interesse a rompere l’equilibrio stabilitosi con il recente trattato di Aix-la-Chapelle (1748). Alcuni corsi, tra cui l’abate Natali, autore del celebre Disinganno, ripresero il vecchio progetto di cedere la Corsica all’Ordine di Malta. I negoziati di questa cessione prevedevano la donazione di una forte somma di denaro, destinata al mantenimento delle truppe che, dopo aver conquistato l’isola, l’avrebbero ceduta all’Ordine. Ma l’Ordine di Malta non aveva realmente intenzione di provocare una nuova guerra con le grandi potenze europee, mentre i patrioti cominciavano ad aprire gli occhi sugli intrighi, le macchinazioni e i piani nascosti dei loro inviati. Bisognava rinunciare a questi progetti e preoccuparsi della situazione interna, che era sempre più complicata. Il “Direttorio”, nonostante la buona volontà, non era in grado di gestire azioni ad ampio respiro; mancava l’intesa tra i capi rivoluzionari. Clemente Paoli, cosciente dei propri limiti, si rivolse al fratello cadetto e gli altri capi si uniformarono alla sua scelta. Entrava così in scena, proprio quando la lotta sembrava destinata a finire, l’uomo che ha incarnato agli occhi dell’Europa la libertà e l’indipendenza della Corsica. La giovinezza di Paoli Non si conoscono con esattezza i dettagli della giovinezza di Antonio Filippo Pasquale Paoli2, figlio cadetto di Giacinto Paoli e di Dionisia Valentini. Nato alla Stretta, frazione di Morosaglia, nella pieve di Rostino il 6 aprile 1725, seguì il padre durante l’esilio volontario del 1739. A Napoli, dove il padre era colonnello del Reggimento Corsica, fece presto carriera nell’esercito come sottoluogotenente nel Real Farnese (a partire dal 1749). Non si può sapere con esattezza se Pasquale Paoli frequentò le lezioni universitarie di Antonio Genovesi (1713-1769); in ogni caso è chiaro che proprio dalla scuola di Genovesi apprese l’etica (ma non l’economia politica, che il filosofo insegnò in un periodo successivo). In questi anni Pasquale lesse molti classici e si appassionò alle Vite Parallele di Plutarco, apprezzando la gloria nelle armi e le virtù eroiche dei personaggi. Tra gli autori moderni, sicuramente apprese l’Histoire romaine di Rollin (1661-1741), o almeno la sua Histoire ancienne; le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains (1734), l’Esprit des Lois (1748) e forse le Lettres Persanes di Montesquieu, oltre alle opere di Machiavelli, Dante, Ariosto e Tasso: cultura italiana, quindi, con una buona conoscenza anche della letteratura francese ed inglese. Ma ancora più importante, nell’analisi di questi primi anni di studio, è la serietà con cui, prima di essere designato dai membri del Consiglio supremo, Pasquale Paoli predispose per la Corsica un piano militare, un piano politico ed un piano economico. Il piano militare era incredibilmente ottimista e si proponeva degli obiettivi (conquista di Bastia, Ajaccio, San Fiorenzo, Calvi, ecc.) che non furono raggiunti nemmeno alla fine del generalato. Il piano economico (vendita e commercializzazione delle saline d’Aleria) ed il piano politico (confisca delle rendite dei genovesi, delle decime dei vescovi e alleggerimento della taglia) erano limitati e più realistici. Le Consulte di Caccia e di S. Antonio della Casabianca: nascita del Governo rivoluzionario Paoli sbarcò alla foce del Golo3 il 16 aprile 1755, ben cosciente delle contraddizioni che minacciavano la rivolta dei compatrioti; secondo il suo parere, si poteva evitare la divisione soltanto concentrando il potere nelle mani di una sola persona. Da qui derivava l’impegno per elaborare delle istituzioni che elevassero la qualità della lotta e rafforzassero la coesione della nazione. Cinque giorni dopo il suo arrivo, «il 20, 21 e 22 aprile 1755, i principali capi del regno si riunirono al convento di Caccia per rimediare ai disaccordi che si manifestavano ogni giorno tra i membri del governo». Nella Consulta furono approvati regolamenti e decreti che riorganizzavano la giustizia ed abolivano la funesta pratica della vendetta: nomina d’arbitri (paceri), nomina di un giudice per ogni pieve, creazione di tribunali delle province e di un Magistrato Supremo, istituzione della pena di morte per l’assassinio e dell’esilio per la famiglia e creazione di un esercito itinerante per l’esecuzione delle sentenze. In questo modo veniva ripresa l’opera della Consulta d’Orezza del 1 Famoso l’Appello all’Europa del 27 gennaio 1754, in cui i ribelli proclamarono la loro volontà di morire, piuttosto che arrendersi. Vedi il testo integrale in GAI D., op. cit., p. 202 e in GIROLAMI-CORTONA C., op. cit., pp. 335-336. 2 Tra le opere “classiche” sulla vita di Pasquale Paoli vedi: ARRIGHI A., Histoire de P. Paoli (1843), GIANMARCHI P., Vita politica di P. Paoli (1858). Tra le opere recenti, vedi THRASHER A., Pascal Paoli, an enlightened hero 1725-1807, London 1970. Notevole il recente lavoro di VERGÉ-FRANCESCHI M., Paoli un Corse des Lumiéres, Paris 2005. Per gli altri riferimenti vd. la NOTA BIBLIOGRAFICA. 3 «…Le frère de Clément Paoli est arrivé de Porto Longone avec deux Corses de ses amis; ils ont débarqué et ont été reçus avec de grandes marques de joie par un nombre considérable de rebelles armés, qui les ont conduits comme en triomphe dans leurs quartiers de Casinca. C’est un jeune homme de mérite, fort accrédité parmi la Nation, capitaine d’infanterie au service du Roi des Deux-Siciles et il pourrait succéder à Gafforio. Cet événement donnera lieu bientôt à quelque nouveauté dans ce pays-ci». Archives Nationales, Paris, Corréspondance consulaire. Gênes, gennaio 1754 - giugno 1755. B 1590, Le consul Coutlet au Ministre, 21 avril 1754.

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1751 e continuata la riforma della giustizia intrapresa da Gaffori, riforma che testimoniava la presenza endemica del malessere isolano. La Consulta di Caccia doveva imprimere una nuova forma al governo isolano: il testo predisposto dai deputati corsi merita un’analisi ancora più dettagliata, perché si riconosce facilmente, dietro i provvedimenti di riforma, la volontà occulta di Paoli. Innanzitutto, nell’enunciato dei principi, era affermata solennemente e chiaramente la sovranità nazionale, che s’incarnava nel potere esecutivo: il Magistrato Supremo, delegato del potere ricevuto dal popolo. Al Magistrato erano affidati dei poteri piuttosto ampi, tali da elevarlo al di sopra dei particolarismi provinciali: si instaurò di diritto, per la prima volta, un potere forte, immagine vivente della nazione sotto il profilo istituzionale, oltre che politico. Indubbiamente questa decisione costituiva un progresso nella costruzione dello Stato nazionale, dato che fino ad allora l’autorità era divisa tra il Magistrato Supremo ed il Consiglio di Stato senza una specificazione costituzionale dei ruoli; inoltre i Generali, come Gaffori, avevano comunque esercitato una dittatura ufficiosa. Ormai il potere, legalmente definito e senza equivoci, era esercitato da un solo corpo istituzionale. La Consulta di Caccia testimonia inoltre il marchio dell’abilità e dell’astuzia politica di Paoli: il Magistrato Supremo, unico organismo direttivo, era composto da dodici presidenti di provincia e da 36 consultatori per il Diquà, e da sei presidenti ed otto consultatori per il Dilà. Il Capo Corso restava escluso fino a «quando si disponga ad unirsi in un corpo con noi»4. Al di là della mancata unificazione nazionale, il gran numero di membri del Magistrato, testimoniava la volontà di lasciare inattiva questa struttura, dato che per adottare una legge era sufficiente la maggioranza dei due terzi dei votanti. Nella successiva Consulta di Sant’Antonio della Casabianca del 13 ed il 14 luglio, Paoli venne nominato “Capo Generale”5, ma non ricevette la totalità dei poteri: in particolare, non aveva la facoltà di siglare le “deliberazioni di Stato” e quindi non poteva concludere trattati. Nella prima Consulta il Magistrato era investito della sovranità in virtù di principi costituzionali; qui il Generale, sommo capo, viene assistito da un Consiglio di Stato, vale a dire dal Magistrato, ricevendo legalmente il potere esecutivo. Si tratta di un salto di qualità enorme rispetto alla posizione già occupata da Gaffori: Paoli si presentava come l’eletto ed il portavoce della nazione, sottoposto solo al controllo del suo organismo dirigente, il Consiglio di Stato. A Sant’Antonio della Casabianca furono affermati con forza i principi dello Stato: il popolo corso era dichiarato indipendente ed il benessere della nazione doveva essere assicurato da una costituzione. Il pensiero di numerosi filosofi del XVIII secolo, che identificavano la nazione con la libertà ed il contratto sociale, si ripresentava nei principi generali del testo costituzionale. Queste linee ideologiche di fondo non furono più riprese nelle altre Consulte: si trovano enunciate per la prima ed ultima volta nel 1755, come un fatto acquisito, di cui non bisognava più occuparsi. Lo stesso può essere detto per la definizione dei poteri del Generale: le sue prerogative furono fissate una volta per tutte nella prima consulta e non venne più scritto alcun articolo sulle sue funzioni. La Consulta aveva stabilito anche la composizione del Consiglio di Stato, che aveva la suprema autorità nella sfera politica, militare ed economica. Il Consiglio era composto di 36 presidenti e 108 consiglieri, che si riunivano in udienza plenaria due volte l’anno; i presidenti cambiavano a rotazione di tre ogni mese, i consiglieri ogni dieci giorni; questi ultimi formavano con il Generale, membro del Consiglio di Stato, l’organo esecutivo. Così il Generale non sarebbe stato più eletto dal Consiglio di Stato, ma ne diventava un membro a pieno titolo: in parole povere, il generalato era un incarico legale. Da un punto di vista giuridico-costituzionale, il potere di Paoli risultò enormemente rafforzato: egli aveva un ruolo predominante nel Consiglio di Stato, di cui era il solo elemento permanente e il suo voto valeva il doppio degli altri. L’evoluzione costituzionale era così terminata: la razionalizzazione delle istituzioni testimoniava un forte senso dello Stato da parte del Legislatore, che intendeva certamente dare una coscienza nazionale alle popolazioni dell’isola. Paoli, tuttavia, non aveva completamente debellato il fronte interno: l’ostilità di molti notabili era serrata. Una volta eliminato il pericolo del clan Matra (con cui era iniziata una guerra intestina nel 1757), Paoli cercò di estendere il proprio potere sul Diladamonti. Nel Dilà, nonostante qualche amico fidato (Santo Folacci, Pietro Maria Cacciaguerra), Paoli doveva scontrarsi con i partigiani del partito genovese e del partito francese. Inizialmente ostili, i Signori6 finirono per allinearsi definitivamente nel 1763. La loro ostilità era strettamente connessa agli interessi dell’aristocrazia feudale ed a quelli della Chiesa, che rifiutava la politica giurisdizionalista di Paoli. L’ostilità si trasformò in alleanza quando Paoli, sottilmente, si riconciliò con il Vaticano rimettendo al Visitatore Apostolico i fondi delle rendite ecclesiastiche a partire dall’aprile 1760. I corsi partitanti per la Francia subirono una sorte simile: essi si dichiararono risolutamente ostili a Genova ed a Paoli già dal settembre 1757; ma con un’incredibile abilità diplomatica Paoli propose ad Antonio Colonna (capo del partito francese) il comando dell’intero Diladamonti. Privato, nel frattempo, dell’appoggio militare dei francesi, Colonna accettò la proposta nell’agosto del 1758; la sua deposizione, nel 1761, ad opera di un luogotenente di Paoli eliminava definitivamente l’ultimo ostacolo all’unità dell’isola. La Corsica venne sottomessa ben presto all’autorità del Generale, tranne le grandi città della costa: questo fatto costituiva una fonte di incertezza sull’avvenire dello Stato e si rivelò una delle debolezze del Governo rivoluzionario.

4 ROSSI A., Osservazioni Storiche sopra la Corsica, 14 vol., rédigés sous l’Empire, publiés par l’abbé Letteron, «B.S.S.H.N.C.», XI (1895-1906). 5 Il testo della Consulta si trova in ROSSI A., op. cit., libro X, pp. 124-126 e in CAMBIAGI G., op. cit., IV, pp. 3-5. 6 Vedi l’opera citata di VRYDAGHS R.P., Notices historiques sur la Rocca, p. 199 e segg. Le decisioni della Consulta di Sartena, presidiata da Paoli, sono state pubblicate integralmente da LAMOTTE P., Pascal Paoli administrateur. L’administration de la province de la Rocca, «Corse historique», 2 (1953), pp. 24-33. Lamotte sottolinea, a giusto titolo, che Paoli «era riuscito a far entrare la provincia della Rocca nel governo nazionale, accordando l’indipendenza amministrativa ed i privilegi che gratificavano le suscettibilità e gli interessi locali» (ivi, p. 25).

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Figura 16: il Convento di Sant’Antonio della Casabianca, luogo prescelto per la Consulta del 13-14 luglio 1755. La Costituzione La Costituzione7 adottata a Corte nel novembre 1755, riprendeva fortemente i principi stabiliti a Caccia, nell’aprile dello stesso anno. Essa era dichiarata democratica e riconosceva espressamente la sovranità popolare. I corsi, elettori dall’età di 25 anni, eleggevano, a livello comunale, un delegato ogni mille abitanti per la Dieta Generale, che deteneva il potere legislativo. La Dieta votava le leggi con la maggioranza di due terzi, fissava le imposte, dichiarava guerra. Paoli aveva istituzionalizzato la funzione già svolta dalle consulte, trasformandole da assemblee tumultuose di partigiani in un’assemblea periodica di rappresentanti eletti regolarmente. In questa codificazione si ritrovava la stessa razionalizzazione delle cariche governative: il senso civico doveva permettere alle popolazioni di superare il particolarismo e di tendere all’interesse generale. In sostanza, l’unione era il fine ultimo dell’organizzazione istituzionale. Il potere esecutivo era affidato ad un Consiglio di Stato, inizialmente (1755) di 144 membri nominati a vita dalle assemblee provinciali, in seguito (1764) di 9 consiglieri soltanto, rinnovabili annualmente. I Consiglieri dovevano avere almeno 35 anni ed aver già esercitato le funzioni di Podestà Maggiore. Questo Consiglio, diviso in tre sezioni (Guerra, Finanze, Giustizia) era, teoricamente, l’organo supremo dello Stato, con il potere di controllo sulle direttive del Generale ed il diritto di veto sospensivo sui suoi decreti. Non era questa l’unica forma di controllo al potere del Generale: a partire dal 1764 (da quando, cioè, i Consiglieri furono eletti annualmente) le ordinanze dell’esecutivo passarono al vaglio di un comitato di cinque Syndici, eletti dall’Assemblea. I Syndici, percorrendo il paese, vegliavano anche sul buon funzionamento della giustizia e dell’amministrazione, ascoltando le lamentele dei cittadini e pronunciando delle sentenze inappellabili. Il Generale presiedeva il Consiglio, da cui doveva ricevere formalmente l’incarico: era il comandante generale dell’esercito ed il rappresentante supremo del Paese all’estero; la sua sede era a Corte, capitale dello Stato, da cui dirigeva gli affari dell’isola. Il potere giudiziario venne riorganizzato in conformità con le tradizioni e le inclinazioni dell’epoca. Si conservò la figura del Podestà, eletto nella pieve, sindaco e giudice di pace nello stesso tempo, assistito da due Padri di comune per gli affari di maggiore importanza (il Podestà, da solo, poteva giudicare solo i reati minori). La giurisdizione provinciale era composta da un Presidente, da due Assessori e da un Avvocato (designato dal Consiglio di Stato). Alla sommità di questa piramide giudiziaria c’era una Rota civile, formata da tre dottori in legge, nominati a vita, che operavano come una Corte d’Assise. Per gli affari criminali era istituita una Giuria di sei padri di famiglia, mentre una Giunta di tre membri, presieduta da un Consigliere di Stato, formava l’Alta Corte di Giustizia, incaricata di informare sui crimini, di prevenirli e di far regnare l’ordine. La severità di questa struttura ha ben meritato una terribile reputazione: la “giustizia paolina” operava come una sorta di Terrore, dato che le garanzie elementari di giustizia non erano sempre rispettate. Bisogna dare un giudizio ponderato a questa Costituzione di Paoli, al di là degli entusiasmi o delle contrapposizioni. In effetti, ci troviamo di fronte ad un sistema ambiguo, che può essere definito democratico nell’elezione dei rappresentanti delle pievi alla Dieta legislativa, ed aristocratico nella gestione del potere esecutivo. In teoria, tutti i corsi erano chiamati a partecipare all’elezione diretta dei loro rappresentanti, ma, di fatto, nella maggioranza delle pievi del

7 Per la lettura del testo integrale della Costituzione del 1755, firmata da Pasquale Paoli, vedi FONTANA M., La constitution du généralat de Pascal Paoli en Corse, Paris 1907 e BATTESTI J., Un gouvernement démocratique au XVIIIe siècle, Paris 1937; sul testo vedi soprattutto CARRINGTON D., Pascal Paoli et sa “constitution” (1755-1769), «Annales Historiques de la Revolution Française» 1 (1974), p. 513 e sgg. Interessante anche l’articolo di TANDORI M., Eighteenth-Century legislation of Corsica, «Acta Universitatis Szegediensis – Acta Hispanica», t. VII (2002), pp. 29-44. Per un confronto tra i diversi testi costituzionali corsi del Settecento, vd. anche ARRIGHI J.M., CASTELLIN P., Projets de constitution pour la Corse cit.

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Diladamonti ed in quelle costiere del Diquà, votavano esclusivamente i notabili. Le uniche elezioni democratiche, a suffragio universale maschile e femminile, avvenivano nelle pievi del centro dell’isola, da secoli abituate ad un sistema elettivo legato alle consulte delle rispettive comunità8. L’azione di Paoli era motivata dal raggiungimento dello scopo ultimo del suo governo: l’indipendenza dell’isola. Non si potrebbe vedere nel regime paolino una democrazia diretta contemporanea (come ha sostenuto D. Carrington9), e sarebbe uno sbaglio giudicarlo in tal senso. Ma non si deve nemmeno, come hanno scritto F. Ettori ed A. Albitreccia, vedere nel sistema di Paoli una semplice dittatura di salute pubblica temperata dall’influenza dei notabili. Sicuramente l’Assemblea Generale, sovrana ed unica dispensatrice di poteri al Consiglio di Stato, si riuniva soltanto una o due volte l’anno ed è altrettanto vero che esistevano dei membri di diritto (ecclesiastici, magistrati, figli o fratelli dei morti per la patria), ma non si può non vedere nel progetto costituzionale di Paoli una chiara mossa diplomatica, motivata dal bisogno costante di ordine e di potere. È chiaro che nel Dilà, dove la struttura clanica era predominante, si doveva dare importanza e prestigio ad alcune famiglie patrizie; l’unico modo per affiliarle al regime era farle sentire di nuovo decisive nell’organizzazione amministrativa statale. Ma è altrettanto vero che nelle pievi del Diquà, specialmente nelle zone pastorali dell’interno, Paoli permetteva ai rappresentanti del popolo di partecipare attivamente alla Dieta, anche se sotto il suo controllo ed il suo patrocinio. È stato detto che Paoli permetteva al clero di partecipare alla Dieta con dei seggi permanenti per rafforzare il proprio potere decisionale sulle comunità10, ma non si deve dimenticare che lo stesso Paoli istigava al saccheggio dei beni delle chiese per farne monete ed aveva più volte ordinato la soppressione del pagamento delle decime. Il controllo era l’unico modo per mantenere, in questo periodo storico, l’unità e l’ordine dell’isola: l’opera di Paoli è stata innovativa proprio nell’organizzazione dei tre poteri, conciliando il principio unitario con il rispetto delle autonomie regionali. La razionalizzazione del Consiglio di Stato Il Consiglio di Stato istituito nel 1755 appariva come una macchina amministrativa pesante, costituita da 146 membri di cui 36 presidenti, 108 consiglieri, il Generale ed un Segretario di Stato. Il Consiglio era riunito in comitato ristretto per la maggior parte dell’anno, data la rapida rotazione dei rappresentanti, ed il suo carattere d’instabilità contrastava fortemente con la fissità della carica del Generale: esso forniva un’immagine dello Stato ancora sfocata, ma rispondeva alla necessità politica di guadagnare il massimo numero possibile di partigiani. Alla Consulta di Nebbio del 14-16 settembre 1758, quando l’autorità di Paoli si era ormai stabilizzata, venne decretata una razionalizzazione di quest’organo amministrativo: «…Nella prima Consulta generale che dovrà tenersi, si verrà all’elezione di dieci otto consiglieri di Stato, dovendo durare per sei mesi continui almeno in governo, a fissare la loro residenza alla città di Corti»11. Il cambiamento era fondamentale e non si traduceva solamente con una sensibile diminuzione del numero dei consiglieri, ma anche con la stabilità del loro impiego: infatti coloro che erano stati eletti a vita nel 1755 per particolari meriti conservarono la carica, a partire dal 1758, per soli sei mesi. Alla Consulta di Corte del maggio 1764 venne apportata un’ulteriore modifica: si decise di eleggere nove consiglieri designati per un anno (sei per il Diquà, tre per il Dilà, cioè uno per provincia) alternati in numero di tre ogni quattro mesi; questa fu la cifra definitiva dei consiglieri di Stato. La Consulta di Corte del 1755 aveva giustificato la rotazione della carica con l’elevato numero degli eletti; anche se nel 1764 i consiglieri erano solo nove, il principio di rotazione venne mantenuto. La spiegazione dev’essere cercata, probabilmente, nella volontà del Generale di oltrepassare le opposizioni regionali: ormai, a rotazione, tre deputati si occupavano degli affari di tutta l’isola. Queste disposizioni rendevano più omogenei gli interessi della classe dirigente e riversavano nei corsi il senso dello Stato e l’obbedienza al Governo. § 2. La ricerca dell’unità amministrativa Confermati i propri poteri decisionali, Paoli si proponeva di realizzare una vera unità di base: questo significava raggruppare le province in un corpo solo, superare il sistema federale ed organizzare una reale unificazione amministrativa. Si doveva, in parole povere, raggiungere un’effettiva centralizzazione, eliminare le forze centrifughe e ramificare attraverso le regioni una fitta rete di funzionari. La riforma economica Amministrare l’isola era sicuramente la necessità primaria, in un paese in cui il particolarismo giocava un ruolo difficile 8 Per le elezioni delle pievi del Dilà, gestite dall’aristocrazia feudale e dai proprietari terrieri, vedi i fondi dell’Archives départementales de la Corse-du-Sud, serie 1B 108-156; i dati sul sistema agricolo e sulla ripartizione della proprietà ad Ajaccio tra il 1759 ed il 1780 sono reperibili nel Registro delle dichiarazioni delle terre esistenti net territorio di questa citta e communità d’Ajaccio (1775), Arch. com. d’Ajaccio, H.H. Carton 2, Registre 4. Per le elezioni alla Dieta delle pievi del Diquà vedi i fondi della Serie E (dépôts communaux) sugli “Stati di sezione” indirizzati nel 1792 a Tomino ed a Centuri nel Capo Corso. Si tratta degli unici documenti di questo tipo in Corsica. Quello di Tomino, oltre alla professione di ogni contribuente-elettore, riporta la situazione del terreno, il tipo di coltivazione, la superficie, il numero di zolle appartenenti allo stesso proprietario. Lo stato di Centuri è incompleto e privo di dati sulla superficie posseduta dai contribuenti, am riporta numerosi fogli sulle elezioni alle consulte locali. Per l’elezione dei rappresentanti alla Dieta nelle zone centrali dell’isola (Corte, Castagniccia, Nebbio), cfr. Arch. Dép. Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93. Rapport de l’Inspecteur des Domaines; il fondo 2Q 38 e tutta la Serie C, Fondo Civile Governatore C 50-C 89. 9 Vd. CARRINGTON D., Pascal Paoli et sa “constitution” (1755-1769) cit.; EAD., Granite Island. A portrait of Corsica, London 1971, pp. 29-39; EAD., Sources de l’Histoire de la Corse au Public Record Office de Londres, Ajaccio 1983; EAD., The Dream Hunters of Corsica, London 1995, pp. 55-59. Vedi anche l’opera colletiva AA.VV., Le bicentenaire et ces îles que l’on dit françaises, Bastia 1989. 10 FONTANA M., La constitution du généralat de Pascal Paoli cit., pp. 126-129; ma anche LAMOTTE P., Pascal Paoli mis en accusation par la Convention, «Corse Historique» 5-6 (1962), pp. 12-13. 11 Cfr. Archives Départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C7 Affaires administratives, f. 9.

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da gestire. Ma bisognava anche, per rendere più salde le basi dello Stato, garantire una vita economica prospera, immettere nuova linfa nell’agricoltura, creare un’industria manifatturiera, rianimare il commercio. In agricoltura la nuova politica si caratterizzò con una fusione tra conservatorismo ed innovazione: era tipicamente conservatore l’incoraggiamento dato all’arboricoltura, specialmente alle piantagioni di castagni (ricchezza tradizionale della Castagniccia) e di ulivi (base della ricchezza della Balagna e del Capo). Innovativa l’introduzione della patata, diffusa in Francia da Parmentier, che rappresentava in Corsica un complemento utilissimo alla farina di castagne. L’incoraggiamento alla coltivazione della vite, delle more, dell’orzo, del mais, continuava ed amplificava la capitalizzazione del suolo intrapresa da Genova, ma in questo caso con immediato profitto degli agricoltori locali. Altrettanto innovativo è stato il progetto di bonifica degli stagni della Piana orientale e per la costruzione di strade e di ponti. Stessa volontà di rinnovamento e di espansione anche nel settore industriale: riattamento delle vie di comunicazione, delle miniere, sviluppo nella fabbricazione di armi ed utensili12. Infine, il rinnovamento agricolo ed industriale doveva necessariamente tradursi nel progresso del commercio, nella creazione di una flotta commerciale e di un porto, Isola Rossa (1758), destinato a far concorrenza a Calvi ed Algajola. La difesa nazionale Uno stato che intendeva uscire dal letargo e ricostruire le rovine accumulate dopo trent’anni di guerra, doveva avere un esercito ed una flotta: qui le difficoltà erano maggiori e quasi insormontabili, anche perché bisognava creare un’armata nazionale permanente. Si opponevano a questa esigenza la mentalità corsa, gli imperativi della coltivazione, il pessimo stato delle finanze e i dubbi di Paoli13. Eppure di fronte alle difficoltà della leva dei cittadini, Paoli decise di creare due reggimenti di mercenari comandati dagli isolani ma anche da ufficiali stranieri (prussiani, svizzeri o francesi): si trattava di un sistema in forte contraddizione con quello del servizio nazionale, ma inevitabile in quel momento storico. Il servizio allo Stato era dovuto dai sedici ai sessanta anni, ma si limitava a dei contingenti mal equipaggiati, mal addestrati, che si scioglievano nei periodi di mietitura e che non costituirono mai un esercito in grado di condurre delle azioni contro dei soldati di mestiere. La mancanza di artiglieria costituiva una deficienza insormontabile in una guerra di postazione contro le piazzaforti genovesi. Lo stesso può esser detto per la flotta, con dei risultati comunque migliori: i vascelli da corsa, acquistati in Italia o costruiti in Corsica, permisero a Paoli non solo la conquista del Capo Corso (nel 1761), ma anche dell’isola di Capraia (febbraio 1767), operazione di prestigio che apportava anche un vantaggio strategico, dato che l’isola si trova sulla rotta marittima tra Bastia e Livorno. Anche se non si trattava di una vera minaccia per le flotte dell’epoca, indubbiamente la marina corsa era abbastanza insidiosa da pregiudicare il commercio di Genova nel mar Tirreno. Un’unità militare Paoli, nell’opera di riorganizzazione amministrativa dell’isola, non aveva messo mano all’organizzazione municipale, rimasta invariata dall’occupazione genovese. Nelle comunità e nelle pievi si ritrovavano le stesse cariche di sempre: Padri di comune, Podestà, Estimatori… tutti eletti dagli abitanti e quasi tutti capi dei clan locali. Anche se queste figure rappresentavano gli interessi particolari delle pievi, o di qualche personaggio influente, Paoli non chiedeva il loro sostegno per assicurare la propria autorità: in questo dettaglio si rivela il vero volto dell’opera del Generale. Egli voleva fare della Corsica una nazione unita anche attraverso l’organizzazione militare: con la lotta intendeva riversare nei corsi un sentimento d’interesse comune, unificare la coscienza nazionale e forgiare uno spirito di resistenza in grado di sollevare contemporaneamente tutte le comunità. D’altronde, solo con l’aiuto delle pievi più fedeli si poteva provocare la ribellione nelle province e nelle pievi che erano ancora sottoposte a Genova: il combattimento doveva essere nazionalizzato. Con la Consulta di Corte (novembre 1755) Paoli organizzò l’amministrazione militare sotto l’ordine esclusivo del Generale14. Anche se la modalità di reclutamento degli effettivi venne modificata nella Consulta del 1768, per fronteggiare con maggiore efficacia le truppe del Re di Francia, il sistema rimase sostanzialmente lo stesso. In effetti Paoli, grazie ai Commissari, controllava tutte le pievi ed era teoricamente sicuro del loro contributo alla lotta15.

12 Cfr. il testo di questo proclama del 1767: «…omissis… Quarto. Inerendo al desiderio de’ veri amatori della libertà, quali in ogni cosa vorrebbero, che avesse uguale influenza, ed ardentemente sollecitano per l’abbolimento d’ogni qualunque residuo dell’antica servitù: siccome ancora per averne quel profitto che ne ritraggono gli altri stati, si è stabilito di far coniare colle armi del Regno una quantità proporzionata di moneta di rame, e d’argento, per servirne agl’usi correnti dentro il regno. La quale moneta non potrà esser rifiutata da alcuno, e nella quale solamente la Camera, ed i tribunali riceveranno i pagamenti, i dazj, le tasse ordinarie, ed estraordinarie, e altro &c. per maggior comodo de’Popoli in ogni provincia, e fersi anche pieve sarà deputata persona, a cui potrà ricorrere chiunque per far qualche pagamento pubblico avrà bisogno di cambiar moneta forestiera colla corrente del Regno, e di questa colla forestiera per il commercio, ed usi fuori di Stato». Archivio Segreto Vaticano, Roma, fondo Segreteria di Stato, Corsica, busta 9. 13 «In un paese libero ciascun cittadino deve essere soldato e tenersi pronto a difendere i suoi diritti con le armi. Le truppe regolari sono più adatte al dispotismo che alla libertà…Con l’esercito permanente si stabilisce uno spirito di corpo: si parla del coraggio di tale reggimento, di tale compagnia, che sono due mali più gravi di quel che si pensa ed è bene evitarli finche ciò è possibile». Vd. PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli publiées par M. le Dr. Perelli, «B.S.S.H.N.C.», 12 (1884). 14 «La necessaria prontezza per l’osservazione dell’ordini che disciplina… rende indispensabile la confirmazione di un commissario per pieve, ed un capitano ed un tenente d’armi per ogni pieve. Si come de’ migliori, e più zelanti patriotti delle pievi doveranno essere commissarii, la di cui elezione appartenerà al Generale ed al Consiglio di Stato»; i capitani ed i luogotenenti sarebbero stati certamente eletti dalle comunità, ma «dovranno esser i più accreditati della parrocchia» e quest’elezione «sarà valida quando avrà avuta la confirmazione dal generale e dal Consiglio di Stato». Cfr. La Costituzione del 1755 conservata all’Archives Dèpartementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C7. 15 In una lettera del 20 maggio 1762, il Generale insediò come commissario nella pieve di Moriani un certo Felice Giovanni Agostini, per essere al

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Per far eseguire i suoi ordini non aveva bisogno di interpellare i Podestà o i Padri di comune; disponeva di uomini che aveva disposto personalmente e che garantivano una mobilitazione in massa. Furono redatte anche delle istruzioni per gli Inquisitori di Stato, incaricati di vigilare sui sediziosi16. Gli esempi potrebbero essere moltiplicati all’infinito: i commissari e gli inquisitori garantivano al governo di Corte la fedeltà del paese. Essi esercitavano una sorta di controllo di salute pubblica senza pietà per i sospetti ed i partigiani di Genova ed il loro potere era ancora più rafforzato dalla Giunta di Guerra, un tribunale straordinario delegato dal Governo dell’autorità suprema, che percorreva l’isola amministrando la famosa “giustizia paolina”. Il compromesso con il Dilà da Monti L’unità dell’isola poteva essere raggiunta soltanto con la partecipazione del Dilàdamonti. Alla Consulta di Sant’Antonio della Casabianca, in cui Paoli venne eletto Generale, il Sud non era stato rappresentato. I notabili meridionali avevano già posto delle condizioni a Gaffori e non erano affatto disposti a seguire uno sconosciuto come Paoli: la regolamentazione della giustizia e dell’amministrazione militare richiedevano in quelle regioni un impegno diverso. L’influenza del partito francese nel Sud crebbe considerevolmente con l’arrivo delle truppe reali a seguito della firma del primo trattato di Compiégne (14 agosto 1756): queste truppe, pur non partecipando a nessuna iniziativa militare, avevano stretto dei rapporti molto forti con le popolazioni locali e con la famiglia Colonna17. In ogni pieve venne stabilito un Consiglio di governo civile, incaricato d’applicare le deliberazioni del governo, e venne istituito un Consiglio di Stato con un Presidente ed alcuni Consiglieri. Si trattava di una vera secessione: metà dell’isola non solo si dichiarava indipendente dall’altra, ma si rivolgeva deliberatamente ad una potenza straniera. Paoli comprese il pericolo e dopo numerose pressioni del suo partigiano del Sud, Santo Folacci, oltrepassò i monti il 10 dicembre 1756 intraprendendo una missione politica finalizzata a riavvicinare le popolazioni e guadagnare la loro fiducia alla causa nazionale. Egli percorse tutte le pievi, parlò ai popoli riunendoli in consulte e stabilì in ogni provincia un tribunale sul modello di quelli del Nord. Paoli cercò di soddisfare le esigenze del particolarismo locale e forse tentò di sedurre gli umili offrendo loro una giustizia più equa di quella disciplinata dai feudatari e dalle grandi famiglie notabilari. Egli confermò anche la sua volontà di un’unione amministrativa dell’isola «che si era riservato in petto» inviando, dopo il suo ritorno nel Diquà, dei commissari e degli ufficiali nelle province del Sud. I risultati non furono immediati: il Sud era in preda a troppe divisioni e la Rocca appariva come un inespugnabile bastione genovese. Ma in una Consulta convocata ad Istria le divergenze dei partiti filogenovese e filofrancese consacrarono definitivamente il ruolo di arbitro della situazione a Paoli, che poteva denunciare facilmente l’incapacità di Colonna ed accettare l’incarico di comandante dei popoli del Sud. Con la partenza del conte di Vaux nel 1759, Colonna perdeva inoltre l’appoggio delle truppe francesi: la disfatta del suo partito venne confermata con la nomina di due luogotenenti di Paoli nelle regioni meridionali. L’ultimo ostacolo al governo di unità nazionale erano i notabili del Diladamonti. Questi ultimi, sempre più isolati per la fedeltà alla Repubblica, avevano deciso di controbattere il potere di Paoli rafforzando i propri legami e salvaguardando l’indipendenza politico-amministrativa. Questa solidarietà derivava dalla necessità di tenere Paoli lontano dal Sud quanto più possibile18. Tuttavia nella Consulta di Sartena del 1763 il Generale regolò definitivamente la questione dell’autonomia delle pievi meridionali: il Dilà venne dotato di un «Magistrato incaricato di guidare la giustizia civile e criminale e di presiedere agli affari di guerra». Riguardo ai crimini commessi in queste province, giudicati in appello da una Rota Civile, venne stabilita una procedura straordinaria; allo stesso modo le questioni economiche furono regolate da una Camera eletta dalla Consulta provinciale in ragione di un deputato per pieve. Paoli si era trovato di fronte ad una realtà ben più complessa di quella del Diquà e decise di non forzare l’autonomia delle pievi meridionali: il compromesso con i Notabili del Sud sancì la definitiva esistenza dello Stato corso. La Cultura Paoli organizzò anche una Zecca di Stato, insediata inizialmente a Murato (1762), poi a Corte (1765), per produrre corrente delle vicende locali, sorvegliare i sospetti e far applicare i suoi ordini: «Vogliamo perciò che in questi casi tutti i capi d’armi, ufficiali e fugilieri di detta pieve si debbano ubbidire e riconoscere come nostro commissionato sotto le più gravi pene a noi arbitratorvi»; contemporaneamente Paoli, il 18 maggio, si complimentò con un certo Costa per la sua azione e «Ora resta a carico nostro d’adottare le misure più proprie, e moderare per ridurre alla quiete gli animi insospettiti». Archives départementales Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 7, Affaires administratives. 16 Lettera del 26 novembre 1755: «Oggetto di questi signori sarà esaminare condotta e gli andamenti di ciascheduno nella provincia, e d’aver l’occhio sopra a quelli che sono sospetti di tener carteggi ed aver maneggi con li Ministri della Repubblica nei Presidii. A tale effetto in ciaschedun paese, potranno sostituire persona che li tenga ragguagliati su ogni cosa». PERELLI D., Lettres de Paoli cit., 1a serie, «B.S.S.H.N.C.», 58 (1885), p. 150. 17 Il fine ultimo del partito francese era di affossare la sovranità genovese e di donare l’isola a Versailles; in questa prospettiva Antonio Colonna convocò nel 1756 ad Istria una Consulta a cui presero parte i rappresentanti delle pievi di Ornano, Talavo e Rocca. Le decisioni prese in questa riunione meritano un’analisi più precisa: «Si dichiari da tutti li popoli del nostro di qua dà monti una protesta finale di vivere e morire in unione con l’altra parte dei monti in quanto riguarda l’aborrimento del nome genovese, dichiarando però nello stesso tempo un’autentica separazione in quello riguarda il governo economico» (ROSSI A., op. cit., libro X, p. 171). 18 Negli archivi dipartimentali di Ajaccio si trova un fondo importantissimo, che permette di cogliere la crisi dei notabili del Dilà: esso non è datato, come la maggior parte dei documenti corsi di questo periodo, ma la sua scrittura risale probabilmente agli anni tra il 1760 ed il 1763. In questo fondo sono riportate le risoluzioni di una Consulta tenutasi a Sartena, in cui si decise di «formar un governo o sia Vigenza quale governi, rega ed administri fedelmente una imparziale giustizia»; questo governo doveva prendere la forma di un consiglio di dodici persone, con a capo un presidente. Nel documento non si faceva cenno al governo della Repubblica, né a quello di Corte, ma si trattava evidentemente del tentativo di formare un’amministrazione autonoma, come mostra chiaramente il raggruppamento dei Notabili attorno a Gianandrea Susini, ex partigiano genovese, nel 1757: Francesco Maria Pietri, Paolo Maria Susini ed il padre Giovanni Agostini (consigliere di Stato, di posizioni filo-francesi nel precedente governo di Antonio Colonna).

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monete d’argento e bronzo, in mancanza dell’oro. Data la scarsità dei metalli, infatti, furono inizialmente fuse le monete del Re Teodoro, in seguito si fece appello al senso civico dei laici e dei religiosi19 (1766). Questa moneta, che non venne mai quotata all’estero ed aveva potere solo nell’isola, valse a Paoli l’accusa di furfanteria (lo si accusò di speculare sul tasso di cambio) e venne ritirata dalla circolazione nel 1768. La volontà di fondare il nuovo Stato si evince anche dalla scelta della bandiera ufficiale: nella Consulta di Corte del 1762, si decise di adottare ufficialmente la celebre testa di Moro20 come simbolo nazionale; l’emblema, che non era una creazione di Paoli, appariva già su una delle facce delle monete di Teodoro.

17 18 Figure 17 e 18: le monete coniate dal governo di Paoli (riprod. dal Musée de la Corse di Corte). Ma, al di là di questi simboli esterni di potere, Paoli cercò di basare il nuovo Stato su fondamenta ben più salde e durature: come uomo dei Lumi, egli comprese che la cultura era il primo titolo di gloria di una nazione e cercò la giustificazione suprema di un’opera destinata a far entrare a pieno titolo nella storia un popolo che, fino a quel momento, doveva cercare all’estero i fregi della cultura: fondò quindi un’Università. La fondazione del nuovo Ateneo avvenne a Corte il 3 gennaio 1765. La nuova Università era misera nei mezzi e nelle strutture, ma corrispondeva al progetto ambizioso di formare le future classi dirigenti dell’isola, come si evince dall’editto del 1764, che annunciava la creazione di «scuole necessarie e proporzionali al bisogno attuale dei nostri popoli»21. Limitata nelle sue ambizioni, l’Università di Corte aveva anche scarsi mezzi di sussistenza: biblioteche scarne, pochi insegnanti e fondi iniqui, ma in compenso era gratuita ed i più poveri potevano usufruire di borse di studio e di forniture garantite dallo Stato. Nonostante i suoi limiti e le sue debolezze, essa era comunque la prima vera Università dell’isola, il simbolo della rinascita di un popolo che voleva ritrovare la propria cultura, la propria identità e l’indipendenza. La vita intellettuale del nuovo Stato non si fermò all’Università, ma continuò con la proclamazione della libertà di stampa: nel maggio 1762 apparve il primo numero dei Ragguagli dell’Isola di Corsica (quattro o otto pagine in-folio), una sorta di «Gazzetta Ufficiale» in cui si pubblicavano gli atti del Governo, gli avvisi ufficiali e le notizie delle Province Oltramontane e delle Province Cismontane22. Venne pubblicato anche un altro giornale, il Gazzettino di Corsica, destinato ai corsi fuoriusciti dall’isola, anche se apparve solo il numero del gennaio 1769. Questo giornale, redatto da Paoli in persona, testimoniava, come i Ragguagli, la volontà di celebrare i fasti ed i malesseri della patria. Dato che l’unica stamperia corsa si trovava a Bastia (ed era stata fondata, come si ricorda, da Cursay), Paoli ne fondò un’altra alle Prunete nel 1758, e la fece trasferire a Corte nel 1764. Da questa stamperia uscì la celebre Giustificazione della Rivoluzione di Corsica dell’abate Salvini, oltre ad altri innumerevoli manifesti e memorie del governo. Nell’insieme, il bilancio del suo generalato è quasi del tutto in attivo: era riuscito a creare uno Stato dalla massa informe delle tradizioni, dei provincialismi e delle difficoltà della Corsica, e per di più dopo trent’anni di guerra intestina. Il passivo, inevitabile, non può essere imputato unicamente al suo operato. Il problema fondamentale era il tempo: qualche anno appena per conquistare, unificare e trasformare un Paese era troppo poco ed i problemi emersero presto. Lo stato di guerriglia permanente, poi, se non di

19 Infatti, le chiese ed i conventi furono sottomessi a delle requisizioni d’oggetti di culto (calici, tabernacoli) ed ad una tassa. Cfr. il testo della lettera di Pietro Angelo Maria Grosso, di Calvi, dell’8 ottobre 1765: «…omissis… i bastim.ti francesi in buona parte della riviera di Ponente forniti dalla bandiera, hanno fatta la più forte estraz.ne di d.o genere da quel scalo, p. cui dà corsi esigesi il cinque p. cento sul valore, e prezzo dell’oglio, ed ugualm.te sull’ammontare delle merci che ivi vendono i rispettivi P.roni, e secondo il bisogno che tiene il Capo dè Pauli di far coniare Lire e mezze lire nella sua zecca, fa ritirare dà P.roni e sia Mercanti tutti i scudi di Francia recati p. l’impiego dell’oglio, dando à medesimi l’equivalente in Corsa moneta, con la quale religiosam.te accettata, effettuano sud.a compra…omissis…» (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, f. 2112). 20 Sulla questione, controversa, dell’origine della testa di Moro, vedi lo studio di BERTHELOT A. e CECCALDI F. in Les cartes de la Corse, de Ptolomée au XIX siècle, Paris 1939 e lo studio di ARRIGHI P. nella sua Histoire de la Corse, pp. 89-90. Si ritiene in genere che la testa di Moro sia apparsa per la prima volta in una carta della Corsica della fine del XVI secolo, ma è noto che questo simbolo risale al XIII secolo, quando la Corsica e la Sardegna furono donate (1297) al Re d’Aragona dal papa Bonifacio VIII (infatti anche lo stemma sardo presenta quattro teste di Moro, chiamate Giudicati). Il significato resta ancora avvolto nel mistero: forse è riferito alla conquista della Corsica sui Saraceni da parte del mitico Ugo Colonna, nel IX secolo. 21 Le discipline contemplate nell’editto costitutivo erano la teologia scolastica e dogmatica; la teologia morale; le istituzioni civili e canoniche; l’etica; la filosofia e i fondamenti della matematica; la retorica; un minimo insegnamento del diritto civile e criminale e, in previsione, la medicina, la chirurgia, la storia e la geografia. Questo progetto didattico era destinato a formare nell’immediato i sacerdoti, gli avvocati, i professori, gli ingegneri e i medici, in parole povere la classe dirigente isolana quale si andava già perfezionando sul continente e che restava mal volentieri nell’isola (Paoli decretò il rifiuto del passaporto ai corsi che intendevano studiare nelle Università italiane). 22 La gazzetta, pubblicata a Livorno, centro politico votato alla causa dei patrioti corsi, non era evidentemente gradita alla corte di Luigi XV che intendeva evitare la diffusione di scritti atti a provocare motivi di tensione per essere palesemente intrisi di sentimenti antifrancesi. Al fine di evitare un possibile incidente diplomatico il Governo toscano decise di ordinare la proibizione della gazzetta stampata a Livorno e di censurare inoltre le notizie contrarie alla Francia in procinto di apparire su altri fogli a stampa. Per attuare una migliore forma di controllo sui fogli “politici” pubblicati nel Granducato, negli anni seguenti il Governo toscano cercò di limitarne il numero attraverso la concessione di una privativa per la pubblicazione di notizie estere. L’esistenza di questo privilegio non impedì al Granduca di derogare da tale impegno in occasione della richiesta avanzata da Luca Malanima di poter stampare a Livorno una «gazzetta, ove fossero notizie d’ogni genere». Alcune copie dei Ragguagli (anni 1763, 1764 e 1765) sono consultabili all’Archivio di Stato di Genova, fondo Archivio Segreto, f. 2194.

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semi-anarchia, alimentato da Genova e dai suoi alleati, oltre alle gelosie dei clan e dei notabili rendevano il nuovo Stato poco sicuro all’interno e poco saldo all’esterno. La Religione La politica di Paoli verso la Chiesa cattolica è stata sicuramente ambigua: al di là del dubbio sulla partecipazione di Paoli alla frammassoneria23, non si può negare in lui una sfiducia enorme nella Chiesa, presa nella sua accezione temporale. In questo modo si spiega l’aspetto contraddittorio della politica religiosa del nuovo stato. Da un lato egli si scagliava contro l’alta gerarchia ed i gesuiti filogenovesi. Dall’altro, lo stesso uomo che confiscava le decime dei vescovi, che faceva imprigionare alcuni ecclesiastici, che spingeva il basso clero contro i superiori, tentava di assicurare alla Corsica la protezione di Roma. Paoli sollecitò l’invio di un visitatore apostolico che testimoniasse la miseria del popolo corso e la necessità di un rinnovamento della Chiesa; in segno di riconoscenza e di fedeltà approvò nella Consulta di Corte del 10 maggio 1760 la remissione delle decime episcopali con la solenne promessa di non ingerirsi più nell’amministrazione dei beni ecclesiastici, assicurando al Papa la sua devozione filiale24. La chiave di questo atteggiamento apparentemente contraddittorio risale alla formazione di Paoli, persuaso, come molti spiriti illuminati del suo tempo, della necessità di separare il governo e la Chiesa, la politica e la religione e di non permettere alla gerarchia ed ai suoi servitori di ostacolare l’operato del Principe. Ma la costante sollecitudine di Paoli nei riguardi del basso clero, il fatto che egli occupasse la posizione di Oratore del popolo nelle consulte, di Uditore o di giudice nei tribunali civili, che egli avesse per confidenti e segretari dei religiosi (tra cui Padre Bonfiglio Guelfucci e l’abate Rostini), spiegava l’atteggiamento di assoluta lealtà dei religiosi verso il nuovo Stato25. Al di là degli scontri in campo aperto con i soldati genovesi, i corsi dovevano provare la legittimità teorica della rivolta; il pensiero politico dell’epoca, dopo Bossuet, era interamente guadagnato alla teoria della monarchia di diritto divino, che rendeva empio e sacrilego ogni tentativo di ribellione al Sovrano legittimo. I teologi corsi furono i primi a ribaltare completamente questa teoria, risalendo alla politica di S. Tommaso d’Aquino. Nel 1736 il canonico Natali, nel Disinganno aveva dimostrato che, contrariamente a quello che affermavano i genovesi, i corsi non erano soggetti alla Repubblica, ma legati ad essa da una convenzione che metteva i due popoli in una condizione di uguaglianza. Questa argomentazione fu ripresa dall’abate Salvini, nel 1758, nella Giustificazione: legando le argomentazioni di Natali alla definizione tomistica dei genovesi come “padroni illegittimi” per usurpazione (l’isola apparteneva di diritto allo Stato della Chiesa) e per abuso di potere, la rivolta dei corsi poteva essere dichiarata legittima nei confronti della morale divina. Evidentemente Paoli cercava di giustificare la ribellione contro la Repubblica usando i principi della “giusta rivolta” espressi dal diritto canonico, abilità che gli conciliò le grazie di Roma. La debolezza maggiore del nuovo stato, ad ogni modo, era l’inconsistenza economica: la condizione di guerra perenne, le rivalità tradizionali tra pastori ed agricoltori, la mancanza di denaro e l’asfissia dei commerci, dovuta all’assenza di porti (la fondazione dell’Isola Rossa non poteva dare alcun risultato economico cospicuo in tempi ristretti) non consentivano una politica in grado di legare le diverse realtà sociali al potere centrale. Paoli non ebbe il tempo necessario per risollevare l’economia isolana: la situazione eccezionale in cui si trovava, la mancanza di maturità ed intelligenza politica della classe dirigente, gli interessi personali, le opposizioni ed i freni allo sviluppo dell’isola, richiedevano tempo, calma e risorse economiche: tutte cose che, in quel periodo, i rivoluzionari non possedevano. Corsica ed opinione internazionale. L’Europa dei Lumi s’interessò in ritardo della Corsica: la rivolta del 1729 aveva posto per la prima volta in primo piano un’isola fino ad allora semi sconosciuta in Europa. I grandi dizionari storici ripetevano dei giudizi stereotipati, poco lusinghieri, sul suolo malsano, sull’abbondanza delle castagne, sui costumi barbari degli abitanti. La straordinaria avventura di Teodoro di Neuhoff, che aveva appassionato l’Europa, non modificò queste opinioni: ci si interessava di Teodoro più come una burla, per ridere della credulità del popolo, non civilizzato, beffato da un «Re da Carnevale»26. Se i viaggiatori europei coltivavano – ed i francesi in modo particolare – un certo interesse per la Corsica, ne riportavano tuttavia dei ricordi terribili: di ritorno sul continente, questi osservatori erano disarmati e sembravano non voler nascondere la gioia di essere fuggiti a dei nemici perfidi e irriducibili; le descrizioni dei militari non facevano eccezione a questa regola. L’Europa intera aveva verso i corsi gli stessi sentimenti di curiosità e di incomprensione. 23 Cfr. GUGLIELMI PH., La Franc-Maçonnerie dans le rural corse, Cervioni 2000, pp. 2-3; sulla massoneria in Corsica, vd. anche AMIABLE L., La Loge des neufs sœurs, Paris 1897, réédition 1989; BRENGUES J., La Franc-Maçonnerie du bois, Paris 1973; ANGELINI J.V., Histoire secrète de la Corse, Paris 1977; NICOLAI J.B., Les sociétés secrètes en Corse, Ajaccio 1988; SANTONI CH., Chroniques de la Franc-Maçonnerie en Corse 1772-1920, Ajaccio 1999; VERGÉ-FRANCESCHI M., Paoli un Corse des Lumiéres, Paris 2005. 24 Cfr., ad esempio, il bando del “Supremo Generale e Consiglio di Stato” conservato all’Archivio Segreto Vaticano, Roma, fondo Segreteria di Stato, Corsica, busta 9. Sulla missione del visitatore apostolico, Mons. De Angelis, nell’aprile 1760, vedi CASANOVA A., Histoire de l’église corse cit., pp. 176-197. Per la politica religiosa di Paoli, nella stessa opera, II, pp. 156-176. 25 La politica amministrativa di Paoli può essere ascritta nel più ampio dibattito giurisdizionalista dell’epoca, come emerge più volte nella sua corrispondenza: «la religione non deve opporsi agli ordini del Governo, anche se questi sono ingiusti, al di fuori del tribunale di penitenza»; tuttavia il generale comprendeva bene il valore della religione per unificare, controllare e governare i corsi: «la religione è una parte essenziale dell’ordine pubblico: senza la fede in Dio, noi perderemmo fiducia nella vittoria». Questo dato spiega anche perché le giustificazioni teologiche dell’indipendenza e della legittimità della rivolta fossero state scritte da sacerdoti. 26 Cfr. Il ritratto di Teodoro in VOLTAIRE, Candide, in ID., Œuvres historiques, Paris 1957. L’impressione generale sui corsi non cambiava nemmeno per gli osservatori ed i partecipanti al primo intervento francese: «…crudeli, avari, ladri, dissimulatori, vendicativi, assassini, fannulloni, gelosi fino alla vendetta, anche se sobri, agili, infaticabili nella guerra»: questo è il commento di un ufficiale anonimo che prese parte alla campagna del 1739-41.

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Montesquieu, che non conosceva nulla dell’isola, era sensibile all’oppressione che Genova faceva pesare sulla Corsica ed appoggiava l’aspirazione alla libertà del piccolo popolo, anche se restava un esempio isolato. Il quadro cambiò completamente con l’avvento del governo di Paoli e dopo l’intervento francese del 1768-1769: il generale ottenne una gloria universale e venne celebrato più come philosophe, che come patriota in lotta per l’indipendenza. In Paoli i propugnatori delle idee e delle riforme del secolo dei Lumi videro lo strumento con cui il desiderio di libertà dei corsi poteva essere esaudito. I salotti si popolavano di filo-corsi (la marchesa di Deffand vide in Paoli un legislatore esperto di «Bontà, verità, ragione e giustizia» e lo paragonò ad Horace Walpole). Voltaire, inizialmente reticente e poco informato su questo paese «assai miserabile», cambiò rapidamente opinione e, informato dagli amici stabilitisi nell’isola aggiunse, nel 1769, un capitolo sulla Corsica al suo Précis du siècle de Louis XV, in cui mostrò di avere informazioni dettagliate ed un senso molto acuto della psicologia isolana27. Se Voltaire lodava altamente le qualità di legislatore di Paoli, l’opinione pubblica europea lo considerava un eroe. In Italia, la simpatia dei fratelli Verri era completamente devoluta a Paoli, in cui riconoscevano uno dei nemici del dispotismo aristocratico28; Alfieri dedicò a Paoli la tragedia Timoleone nel 1788, mentre Parini abbozzò un panegirico di Paoli, esaltandone l’opera. Federico il Grande di Prussia inviò a Paoli una spada d’onore con le parole “Patria, Libertas” incise sulla lama, mentre Grimm dichiarò apertamente la sua ammirazione per questo popolo in lotta contro il detestabile governo dei genovesi e paragonò Paoli a Solone e Licurgo. Sicuramente lo scrittore che contribuì più di tutti alla gloria di Paoli è stato l’inglese James Boswell, giovane amico e futuro biografo di Samuel Johnson che, come molti altri compatrioti, una volta terminati gli studi di diritto ad Edimburgo aveva intrapreso un tour attraverso l’Europa. Sbarcato a Centuri nell’ottobre 1765, passò otto giorni in compagnia di Pasquale Paoli a Sollacaro; da questa settimana di conversazioni Boswell riuscì a trarre un libro che diede a Paoli maggiore prestigio di migliaia di opuscoli di propaganda. Il ritratto dei corsi era a tinte fosche: lo stato arretrato del paese, dell’agricoltura, dei costumi venne descritto senza eufemismi. Ma il capo dei ribelli era descritto come un personaggio delle vite parallele di Plutarco29. Ai suoi occhi Paoli incarnava «l’idea più alta della natura umana», era l’eroe dei tempi moderni; quest’immagine lusinghiera di Paoli s’impose in Europa e fece del libro di Boswell non soltanto un successo editoriale, ma anche un classico, giunto fino ai nostri giorni.

Figura 19: rappresentazione dei diversi viaggi di Boswell, Maupassant e Merimée in Corsica § 3. Trionfo e tragedia: dall’indipendenza all’occupazione francese Proprio quando tutto sembrava volgere al meglio e l’Europa lo osservava con sorpresa ed ammirazione, Paoli vide

27 «…I corsi avevano bisogno di essere civilizzati ed erano oppressi; bisognava addolcirli e li si rendeva ancora più feroci» e così, a proposito di Ponte Novo: «l’arma principale dei corsi era il loro coraggio…ovunque combattevano c’era valore, e queste azioni si vedono solo nei popoli liberi». Questo corto capitolo XL del Precis du siécle de Louis XV, pp. 1543-1553 (dell’edizione Pommeau, Paris 1962), è un sunto della storia della Corsica, che si dilunga maggiormente nel XVIII secolo (il paragrafo su Teodoro si intitola «Un avventuriero della bassa Germania»). Voltaire rende omaggio al secolare coraggio dei corsi («più robusti e più saldi dei loro dominatori») e a qualche capo: i d’Ornano, Giafferi, Giacinto Paoli, Rivarola, Orticoni, Pasquale Paoli («Qualsiasi cosa sia stato detta su di lui, non è possibile che questo capo non abbia avuto delle grandi qualità…Non ha potuto fare molto per rendere libera la Corsica, né per governarla pienamente, ma ha fatto moltissimo per acquistare gloria (…). L’Europa lo guarda come il legislatore ed il vendicatore della sua patria»). 28 Ma per il cambiamento di opinione dei fratelli Verri su Paoli, oltre a BORDINI C., Rivoluzione corsa…cit., pp. 25-39, vedi anche il Carteggio di Pietro ed Alessandro VERRI, Milano 1923, vol. II. Cfr. anche le opinioni di ROSSI A., Della Monarchia – libro dell’Avvocato Antonio Rossi napoletano, Campo, Napoli 1779 e di TANUCCI B., Lettere a Ferdinando Galiani, con introduzione e note di NICOLINI F., Bari 1914. 29 Il ritratto fisico di Paoli è eloquente: «He is tall, strong and well made, of a fair complexion, a sensible, free and open countenance and a mainly and noble carriage» (BOSWELL J., An account cit., p. 12).

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crollare rapidamente il suo disegno politico. Isolato, in lotta da una lato con l’incomprensione dei propri amici, dall’altro con l’ostilità latente o dichiarata dei nemici, incapace di venire a capo militarmente della presenza genovese, che asfissiava l’economia isolana con l’occupazione dei porti, Paoli si scontrò con l’offensiva diplomatica e militare della più grande potenza dell’epoca: la Francia.

Figura 20: le frontiere della Francia dal 1601 al 1766 (Bibliothéque Nationale François Mitterrand, Paris). Choiseul Le oscure manovre diplomatiche di Choiseul si manifestavano sempre più apertamente30. Ministro degli Affari Esteri dopo il 1758, Choiseul riprese, con energia e cinismo, la politica dei suoi predecessori per annettere la Corsica alla Francia. Già dal 1756, al momento dello scoppio della Guerra dei Sette Anni tra la Francia, l’Austria e la Russia da una parte, l’Inghilterra e la Prussia dall’altra, Choiseul cercò di impedire all’Inghilterra di mettere piede in Corsica. Genova poteva contare stabilmente sull’appoggio francese, formalizzato con il primo trattato di Compiègne (16 agosto 1756): il

30 Cfr. Anche la Relazione al Minor Consiglio del Magnifico Sorba del 28 agosto 1765: «Considerano inoltre lor Sig.rie Ser.me due essere relativamente alla Corsica le circostanze più rovinose per la Rep.ca, e quelle per conseguenza che devono ad ogni costo evitarsi; una cioè se la Corsica rimanesse intieramente in mano dei Ribelli, e divenissero questi una nuova Potenza in mezzo del Mediterraneo, ed in tanta vicinanza dei Stati di Terraferma; L’altra se il Ser.mo Governo tra qui e tre anni fosse nuovam.te costituito nella necessità di difendere con i propri mezzi le Piazze, e di ritornare quindi in quelle spese immense, che le Sig.rie loro ben sanno se sono ormai più sopportabili a questa nazione. Né forse minori sarebbero i danni e pregiudizi della Rep.ca se le Piazze sud.e cadessero in mano o del Ré di Sardegna, o del Gran Duca di Toscana. Premesso quanto sopra hanno appreso i Ser.mi Collegi, che nella combinaz.ne delle circostanze presenti fosse più opportuno di comunicare quest’istessi sentimenti con altre uniformi considerazioni in Linea di massime invariabili ai Regi Ministri, e di lasciar loro in qualche modo la cura di proporre un piano, il quale quando sarà da loro proposto, potranno le Sig.rie Loro aggiungervi o diminuirvi alcuno di quegli articoli, che ritrovassero o più adattati, o non accettabili». Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, filza 2112.

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Re Cristianissimo accordò dei sussidi e nuovi contingenti militari, concentrati a Calvi per ragioni strategiche. Terminata la Guerra dei Sette Anni (1763), la Francia, che aveva sofferto numerose perdite (il Canada e l’India), considerò il progetto di annessione della Corsica sempre più indispensabile per contrastare lo strapotere inglese nel Mediterraneo. Genova intanto, dopo il tentativo infruttuoso di arrivare ad un accordo con i nazionalisti corsi (1761), vide diminuire la speranza di sconfiggere Paoli. La disfatta di Matra rappresentò il fallimento dell’ultimo tentativo di Genova di sedare dall’interno i focolai rivoluzionari e segnò contemporaneamente l’inizio dei rapporti privilegiati tra la Repubblica e la Francia. Choiseul, infatti, concedette a Genova numerosi vantaggi economici e militari, con l’unico scopo di tessere attorno alla Dominante una tela inestricabile e rimettere piede in Corsica. Egli esigeva, in cambio dei sussidi e delle truppe, la cessione alla Francia di una piazzaforte. Davanti al rifiuto di Genova ed al pericolo di rottura delle negoziazioni (Genova intavolava trattative anche con l’Austria e l’Inghilterra), si arrivò ad un compromesso. Il secondo trattato di Compiégne (6 agosto 1764) permetteva alle truppe francesi di occupare nuovamente Bastia, Calvi, Algajola, San Fiorenzo ed Ajaccio per un periodo non superiore a quattro anni. La situazione negoziale sembrava identica a quella di pochi anni prima, ma la Francia era riuscita ad aprirsi un notevole varco d’azione: le piazzeforti, infatti, erano sotto diretta amministrazione francese (il conte di Marbeuf ne era il comandante supremo). Una delle clausole del trattato prevedeva, inoltre, che l’eventuale riappacificazione passasse attraverso l’intervento diretto dei capi francesi e di «tutti gli abitanti dell’isola indistintamente». La finzione della sovranità genovese era mantenuta, così come l’ipocrisia del ruolo di mediatrice della Francia nel conflitto: era chiaro, però, che l’isola era passata definitivamente nelle mani della diplomazia francese. Nulla poteva più frapporsi: né Genova, che era impotente, né Paoli, che pagava tutte le conseguenze di un intervento così pericoloso per la politica e la sopravvivenza dello Stato corso. L’atteggiamento di Paoli Paoli, già nel 1755 e nel 1763, aveva preso dei contatti segreti con Luigi XV per concertare una sorta di sovranità nominale dell’isola sotto la protezione della Francia, in cambio della cessione di alcuni porti31. L’atteggiamento neutrale delle truppe francesi sbarcate dopo il primo trattato di Compiègne (1756), le offerte d’amicizia del loro capo, il marchese di Castries, convinsero Paoli della possibilità di intendersi con Parigi e - approfittando della rivalità franco-inglese nel Mediterraneo - d’ottenere per la Corsica un protettorato francese. Ma si trattava inevitabilmente di un dialogo tra sordi: Choiseul non poteva nascondere l’irritazione davanti alle pretese esorbitanti del Generale, mentre Paoli giocava d’astuzia per non urtare la sensibilità del terribile ministro. Dopo alterne proposte e scambi reciproci di accuse, Choiseul propose a Paoli la sovranità nominale e la corona del regno di Corsica «sotto la sovranità di Genova e la garanzia della Francia», rivendicando solo la cessione di qualche porto. A questa proposta Paoli pose la condizione della rinuncia di Genova ad ogni diritto sull’isola, che doveva essere considerata come «uno Stato totalmente libero ed indipendente» (lettera del 18 maggio 1766). La successiva azione di forza di Choiseul, che occupò nel gennaio 1768 Bastia, S. Fiorenzo e tutto il Capo Corso ponendole sotto diretta amministrazione francese, sancì la rottura definitiva dei rapporti fra i due uomini (lettera del maggio 1768)32. Il 15 maggio 1768, infine, accadde l’irrimediabile: venne siglato il trattato di Versailles tra Genova e la Francia per la cessione della Corsica. Il secondo trattato di Compiégne stava per scadere e la Francia doveva ritirare le sue truppe dalla Corsica, ma la capitolazione dell’isola di Capraia nel 1767 per mano dei ribelli e l’incapacità per Genova di sedare la rivoluzione fecero precipitare la situazione.

31 Cfr. La Mémoire du Suprême Conseil d’Etat des représentants du Clergé séculier et régulier, des Présidents des Provinces et des Procureurs des pièves du Royaume de Corse rassemblés le 2 février 1763 dans la ville de Corte, résidence ordinaire du dit Suprême Conseil — Transmis au Ministre par le consul Régny le 7 mars 1763, conservata alle Archives nationales, Paris, Correspondance consulaire B1593: «Toute l’Europe a été informée des artifices trompeurs avec lesquels la République de Gênes s’est efforcée d’opprimer la Nation corse pendant tout le temps de la guerre, pour la remettre dans l’esclavage et il paraît inutile d’en renouveler l’ennuyeuse histoire...». 32 A questa pretesa, giudicata inaccettabile, Choiseul rispose con una minaccia: «…se la vostra condotta obbliga le truppe francesi a restare in Corsica, la vostra nazione diventerà ancora più infelice. Rifletteteci». Paoli rispose alle minacce affermando che avrebbe cercato l’aiuto delle altre potenze europee, ma Choiseul ironizzò su questa intenzione: «Se la Repubblica facesse altrettanto, cercando un difensore, voi sareste puniti». Affermò, poco tempo dopo, che «…la Francia doveva occupare necessariamente due piazze in Corsica».

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Figura 21: mappa dell’isola di Capraia e della sua fortezza (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, filza 2110). Choiseul giocò abilmente attorno alla paura della disfatta militare: prendendo a pretesto una mossa maldestra di Genova (che, dal gennaio al luglio 1767 aveva dato rifugio in Corsica a migliaia di gesuiti cacciati dalla Spagna, nello stesso momento in cui il re di Francia stava per espellerli dal suo regno), decise di far evacuare Calvi, Algajola ed Ajaccio. La Repubblica comprese di dover valutare la decisione che si era sempre rifiutata di esaminare: l’abbandono totale dell’isola. Nelle sedute del Minor Consiglio, a Genova, il nobile Doria affermava pubblicamente che: «bisogna dire chiaramente ai francesi che intendiamo abbandonare la Corsica» (2 marzo 1767). Il doge Marcello Durazzo credette di trovare la soluzione giuridica del problema della sovranità di Genova sull’isola proponendo un deposito indefinito della Corsica alla Francia. Il 4 luglio 1767, con l’intermediazione dell’ambasciatore genovese a Versailles, Agostino Sorba33, Genova propose la cessazione della sovranità dell’isola, in cambio dell’abbandono dei crediti reali e di qualche sussidio supplementare. In seguito a progetti, controprogetti, ricatti di Choiseul34, ipotesi di un intervento inglese, sardo o toscano, pressioni ed intimidazioni su Paoli ed ogni sorta di sottigliezza diplomatica, si arrivò finalmente, il 15 maggio 1768, al trattato di Versailles. 15 maggio 1768: il Trattato di Versailles Il primo articolo del nuovo trattato (composto in tutto di 16 articoli e 2 commi segreti), prevedeva che Bastia, S. Fiorenzo, Algajola, Calvi, Ajaccio, Bonifacio «e tutte le altre piazze, forti, torri o porti» fossero occupate da truppe francesi. L’articolo 2° precisava che questa occupazione militare si accompagnava a «tutti i diritti di sovranità» e serviva come risarcimento per le spese impiegate dalla Francia fino a quel momento. L’abbandono della sovranità «intera ed assoluta» era richiamato dall’articolo 3°, ma, da un lato, si vietava la cessione dell’isola «in favore di terzi senza il consenso della Repubblica», dall’altro, si riconosceva la fine della sovranità francese nel caso in cui la Repubblica fosse stata in grado di risarcire le spese dell’occupazione (art. 4°). La sovranità francese era considerata estesa all’isola sia come entità territoriale, sia come personalità giuridica (inclusi, pertanto, i poteri sull’amministrazione della giustizia, delle finanze, ecc...). Infine i due articoli segreti rassicuravano Genova sulla totale impossibilità che la Francia concedesse l’indipendenza ai corsi e disciplinavano un sussidio di 200.000 lire tornesi l’anno per dieci anni alla Repubblica. Il trattato di Versailles non ha mai cessato d’alimentare polemiche tra gli studiosi di storia corsa. La questione è sempre la stessa: si tratta di capire se la Corsica sia stata venduta da Genova alla Francia e a quali condizioni. Apparentemente il trattato sembrava affermare esplicitamente, nel sottotitolo, la «Conservazione dell’isola di Corsica alla Repubblica di Genova». Nel concreto, però, si è trattato di una vera e propria compravendita: questa formula non era altro che una precauzione oratoria nei confronti delle altre potenze europee, per mascherare, con la 33 Agostino Sorba, d’origine corsa, era ministro plenipotenziario di Genova in Francia dopo il 1749. Rimase a Parigi fino al dicembre 1771, svolgendo un ruolo importante nelle relazioni diplomatiche tra i due paesi per la negoziazione che portò al trattato di Versailles. 34 Ristretto del dispaccio di Sorba de i 30 settembre 1767: «omissis… Sentimento di Sorba: Crede che Choiseul abbia nell’animo di dare in Corsica una forma diversa da quella che la Repub.ca ha in mira con l’offerta della cessione; e che sino a che questa offerta non sia accompagnata con le più ampie specificazioni forse il Regio Ministro penserà ad un sistema assai consimile della di lui lettera di 23 marzo al Paoli, di modo che senza perdere di vista l’oggetto della Francia nella tal quale terminazione dell’affare si consiglierà di far trovare ai corsi di che soddisfare la loro ambizione e alla Repub.ca di che essere in guardia della loro successiva fellonia, e risarcirsi con qualche sussidio dal provento naturale che con la nuova forma della Corsica dovesse abbandonare…omissis…Che insomma la buona maniera con cui fossero trattati nel memoriale l’abbandono di tutta l’Isola al Re, e l’indifferenza della Repub.ca all’ulteriore sosta dei corsi nell’interno dell’Isola darebbe molta forza alla giusta riserva delle condizioni relative alla tranquillità dello Stato di Terra Ferma farebbe cessare il sospetto sulle sincerità dell’offerta o depone l’idea d’ogni altro sistema». Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, filza 2111, fascicolo 15.

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finzione della cessione temporanea, la realtà di una vendita. Bisognerebbe capire se si sia trattato di una vendita tout court o di un contratto, dato che quest’ultima interpretazione risulta, dai documenti d’archivio e dalle testimonianze dell’epoca, la tesi più accreditata. Ma i contemporanei più perspicaci non avevano dubbi al riguardo: nel 1777 Vergennes scrisse che «l’intenzione del Re era di comprare la Corsica irrevocabilmente e che la denominazione data all’acquisto era una simulazione»35, mentre Voltaire, nel Précis du siècle de Louis XV affermava che: «con questo trattato il regno di Corsica non è affatto donato al Re di Francia, ma è comprato… resta ancora da sapere se gli uomini hanno il diritto di vendere altri uomini: ma è una questione che non si esaminerà mai in nessun trattato»36. Ponte Novo Del resto i corsi non avevano alcuna ragione di sentirsi offesi: ceduti o venduti alla Francia, essi rifiutavano comunque una transazione avvenuta sulle loro teste. Il 22 maggio 1768 i deputati della Dieta, riunita a Corte, giurarono solennemente di «vincere o morire» ed ordinarono una leva generale di tutti gli uomini validi dai sedici ai sessanta anni. Un primo scontro tra gli indipendentisti ed i francesi a Borgo vide la disfatta delle truppe reali: a Versailles si cominciava già a parlare di rinuncia, ma l’insistenza di Choiseul convinse il Re a continuare l’azione militare. La seconda fase della guerra tra corsi e francesi cominciò nella primavera del 1769. La campagna non durò molto: anche se Paoli poteva contare su un esercito numeroso quanto quello francese, i suoi uomini erano male equipaggiati e poco armati. Egli commise un errore tattico, rimproveratogli da Napoleone: quello di aver rinunciato alla guerriglia ed aver accettato una battaglia in campo aperto con dei soldati di mestiere. Probabilmente Paoli accettò lo scontro aperto per ragioni politiche: la guerriglia gli avrebbe sicuramente permesso di mantenere il controllo della macchia, ma i nazionali rischiavano di passare, agli occhi dell’opinione internazionale, per dei fuorilegge. Inoltre Paoli cercava una battaglia campale per impedire sedizioni e fratture all’interno del fronte nazionale: la guerra costituiva un importante fattore di coesione interna.

22 23 Figure 22 e 23: la battaglia di Ponte Novo tra gli eserciti corsi e francesi. Lo spiegamento delle operazioni mostra come il piano francese fosse concepito intelligentemente: gli ordini prevedevano di non attaccare i villaggi, di seguire la linea di marcia e di portarsi sul Golo. L’8 maggio Paoli lanciò una controffensiva non riuscendo, però, a sfondare le linee francesi. Passando il Golo a Ponte Novo la colonna corsa avanzò in direzione di Lento per sorprendere il fianco dell’esercito francese, ma subì il contrattacco di Vaux. Il Ponte Novo era cassato da un muro dietro al quale Paoli aveva piazzato dei mercenari svizzeri e prussiani con l’ordine di tirare su chiunque si presentasse. Obbedendo alla lettera, i mercenari spararono sui nazionali che, presi tra due fuochi, trovarono la morte sul ponte o nelle acque del fiume37. Questa battaglia segnò la fine dell’indipendenza corsa: lo scontro, che 35 «…Les biens des Génois confisqués lors des troubles ont été rendus. En 1778, on trouve une demande formulée par les Giustiniani à laquelle Vergennes a répondu: «Il me semble que cette contestation n’a pas de consistance réelle, car si messieurs les Génois veulent venir cultiver les terres en Corse, il n’y aura pas de difficultés à les rendre propriétaires, mais des propriétaires incontestables seraient encore sollicités de cultiver puisque ce n’est qu’à cette condition que le Bien public, sur lequel le souverain veille, peut être effectué. Necker a fait entendre à l’ambassadeur génois à Versailles, Christophe Spinola qu’il ne voyait pas de solution plus juste que de faire accorder aux propriétaires une indemnité compensatrice...». Cfr. Le lettere di Vergennes conservate all’Archives Nationales, Paris, Corrsepondance consulaire, Gênes, Q1 587. 36 VOLTAIRE, Précis du siècle de Louis XV, in ID., Œuvres historiques, Paris 1957, p. 68. 37 «…Quattro mesi dopo il combattimento, il ponte era ancora coperto di sangue, così come i sentieri attorno e le rocche lontane, dove i corsi si erano trascinati per morire fuori dal campo di battaglia». Vd. POMMEREUL F.R., Histoire de l’isle de Corse, Berne, 1779, 2° vol., p. 138. Le cifre relative ai morti ed ai feriti nella battaglia di Pontenovo non sono certe: Guibert ed il generale Vaux stimano la perdita di 4 ufficiali e di 50 o 60 soldati per i francesi e 500-600 uomini, di cui 250 sul ponte, per i corsi.

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poteva risolversi in una sconfitta passeggera, si era trasformato in una disfatta38.

24 25 Figure 24 e 25: scene della battaglia di Ponte Novo (1769). L’effetto psicologico fu terribile: le pievi, una ad una, si sottomisero ai francesi. La sconfitta fu dovuta anche al tradimento dei luogotenenti e degli alleati del Generale: al di là dell’inferiorità tattica dei corsi, bisogna sottolineare l’esistenza di un forte partito francese. Corruzione, interesse personale, arrivismo, simpatia sincera e disinteressata, sfiducia nei riguardi di Paoli, tutto contribuì a minare dall’interno la resistenza nazionale. Le dichiarazioni ambigue dei capi francesi spingevano i corsi a dissociarsi dai tentativi indipendentisti e facevano sperare nella fine del dominio genovese, mostrando l’inutilità della resistenza militare nei confronti di un’invasione liberatrice. La stessa indipendenza dell’isola veniva posta come pura utopia: il governo di Paoli aveva ormai perso credibilità. Il notabilato isolano, eterogeneo, ma compatto nella difesa dei propri interessi, non vedeva più in Paoli un garante del potere politico-amministrativo ed alla prova dei fatti tutte le crepe dell’edificio paolino fecero crollare la struttura portante. Quali siano state le motivazioni profonde, la realtà era sotto agli occhi: la rivoluzione di Corsica era fallita. § 4. Le cause della sconfitta Le ragioni della sconfitta dei nazionalisti sono molteplici. La ricerca dell’unità era uno degli imperativi fondamentali della lotta per la liberazione, tuttavia le basi sulle quali essa poggiava erano precarie: in questo risiedeva il dramma della politica paolina. Il compromesso con il Diladamonti avvenne, a quanto pare, in un momento in cui la corrente popolare a favore del Generale guadagnava terreno. Allora apparve chiaramente il limite di questo fattore in una società arcaica, con una struttura clanica. Paoli sapeva bene, al di là dell’importanza che rivestiva l’appoggio popolare nella sua politica, di non poter combattere le grandi famiglie del Sud. L’ostilità tra le due parti dell’isola era secolare e non si basava solo sulla distanza geografica. Nel Nord, Paoli poteva contare su una corrente antigenovese irreversibile ed aveva delle persone fidate su cui basare la sua autorità. Nel Sud, anche se il Generale poteva far affidamento sull’appoggio popolare, non aveva delle persone potenti per far rispettare gli ordini. Santo Folacci, il primo partigiano paolista della regione, anche se appartenente ad una «famiglia tra le più distinte del suo cantone e provincia, sia per nascita sia per fama e ricchezza»39, non era riuscito a farsi obbedire. Il fronte interno era sempre stato un ostacolo insormontabile: l’unica certezza di Paoli consisteva nel governare il Diquà in maniera esemplare, per esporlo come modello alle popolazioni del Sud. I clan: la base della centralizzazione Il sistema di centralizzazione politico-amministrativa del governo paolino, nel Diquà, corrispondeva al sistema clanico. I commissari in missione e la Giunta di guerra restavano comunque degli organi eccezionali. I commissari delle pievi erano i veri rappresentanti del governo: la carica permanente e la condizione di “capi partito” li poneva in una condizione di controllo e di potere. Questo fenomeno socio-politico mostra quanto Paoli dipendesse dai capi locali, nella scelta degli agenti. Ben presto Paoli divenne prigioniero delle strutture sociali isolane; la sua azione mostrava la curiosa fusione tra una volontà tendente ad assicurare un ordine centrale (e spesso il Generale diede prova di una fermezza incrollabile ai faziosi o ai fomentatori di disordini) e la necessità di far affidamento sui clan familiari che, da un lato, egli doveva combattere, ma che, dall’altro, erano l’unica garanzia dell’unità del paese. Paoli era costantemente di fronte ad un dilemma: combattere il sistema clanico o utilizzarlo (e quindi indirettamente rafforzarlo) per mantenere 38 «La loro arma principale era il coraggio. Quel coraggio era così grande che in un combattimento verso una delle rive del Golo, si erano fatti scudo con i loro morti per avere il tempo di caricare ancora le armi ed avere il tempo di ritirarsi; i feriti si mescolavano ai morti per rinforzare le trincee. Un valore siffatto si vede solo presso i popoli liberi». VOLTAIRE, Précis du siécle de Louis XV cit., p. 124. 39 ROSSI A., op. cit., libro X, p. 147.

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l’ordine. Il Generale ne era consapevole sin dall’inizio del suo governo, ed è per questo che strinse delle relazioni di parentela con alcune grandi famiglie. Ma tutto questo rileva il peso delle realtà sociali: esse costringevano Paoli a percorrere la Corsica senza sosta per mostrare alle popolazioni la sua presenza fisica ed ispirare la stima e la fedeltà verso la sua persona.

Figura 26: Bando del Governo indipendentista sulla Presa di Capraia (5 giugno 1767).

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La Consulta: una struttura clanica? Non si deve credere che le consulte riuscissero a superare le contraddizioni claniche. Forse proprio in questo settore, malgrado le leggi ed i decreti approvati, si mostrava chiaramente la debolezza del Legislatore, posto costantemente di fronte a dei poteri alternativi. La Consulta di Corte del 1755 aveva previsto che la Dieta Generale si sarebbe riunita una volta l’anno dietro la convocazione del Generale, ma c’erano pochissime indicazioni relative alla scelta dei partecipanti: in pratica furono convocati i rappresentanti delle comunità, dei consigli provinciali, del clero, senza una particolare fissazione del loro numero40. A partire dal 1763 i Padri di Comune ed i Podestà non furono più convocati, mentre al loro posto furono nominati «zelanti patrioti», senza una particolare enunciazione delle cariche. Ad ogni modo, furono convocati tutti coloro che avevano già rivestito il ruolo di Consiglieri di Stato, un procuratore per ogni comunità, un procuratore per ogni chiesa collegiale, un procuratore per il basso clero delle parrocchie pievane, un procuratore della Chiesa cattedrale, un procuratore per la Magistratura, un deputato per ogni convento ed i superiori dei vari conventi. Bisogna sottolineare l’importanza attribuita al clero: la causa, probabilmente era collegata alle forti preoccupazioni di Paoli nel garanire la maggioranza di governo41. Così nella Consulta tenutasi il 2 febbraio, l’importanza numerica del clero mostra una valenza politica ben precisa: Paoli aveva coinvolto il clero per ottenere sussidi ed i preti, le monache, i frati spogliarono le chiese ed i conventi per far dono dei preziosi alla Zecca. Nella Consulta di Corte del 26 ottobre 1763 si superò questa obbligazione materiale per prendere delle decisioni in materia di rappresentanza popolare: si doveva eleggere un solo procuratore per pieve (e non più per comunità) ed un solo rappresentante per il Magistrato. Ciononostante, senza che fosse intervenuta alcuna ordinanza per legalizzare questa nuova procedura, alla Consulta di Corte del 25 dicembre 1764, tenutasi contemporaneamente all’annuncio dell’arrivo delle truppe francesi, furono convocati, ancora una volta per rispondere ad una situazione contingente e senza alcun rispetto delle leggi, tutti coloro che erano già stati Consiglieri di Stato, tutti i presidenti delle province, tutti i commissari delle pievi ed infine tutti i “capi principali”. Ultima variazione: alla Consulta generale del maggio 1766 si decise che ormai i membri sarebbero stati eletti tra i “capi di famiglia” di ogni comunità ed il voto, obbligatorio dal 1764, sarebbe stato segreto. Questa misura, diretto complemento della riforma che aveva interessato il Consiglio di Stato nel 1764, aveva come scopo la definizione, una volta per tutte, della rappresentanza nazionale in senso democratico. Ma questa democrazia era autentica soltanto per le pievi ed i villaggi amministrati dalle comunità agro-pastorali dell’interno (Talcini, Venaco, Vallerustia, Rogna, Bozio), mentre nelle pievi in cui prevaleva il sistema clanico-familiare, le deputazioni alla Dieta erano costituite dai membri delle famiglie più influenti. Questo “compromesso” costituì la base del potere, ma anche della precarietà, del governo nazionale istituzionalizzato da Paoli. La costruzione politica era stata delineata in base al tessuto sociale: questo dato mostra l’ampiezza del fossato che separava le intenzioni del Legislatore dalla realtà dei fatti. Nel Sud della Corsica, infatti, si ritrovano delle formule leggermente diverse da quelle del Diquà: nei documenti erano scritti i nomi degli elettori «li quali insieme compongono la più migliore parte e quasi tutta la comunità, uomini, popolo, ed università del sopraddetto luogo di…» che avevano il compito di eleggere i delegati per la Consulta42. Si potrebbe ritenere che questo fenomeno interessasse unicamente il Sud dell’isola, dove la struttura feudale era maggioritaria e l’autorità di Paoli si faceva meno sentire. Effettivamente, nel Nord si adoperava più spesso la formula: «Il Podestà ed i Padri di comune e con essi tutti e se non tutti quasi tutti gli uomini della comunità hanno eletto ecc…». Questa formula democratica, anche se passibile di diverse interpretazioni, aveva la caratteristica di estendere la partecipazione allo scrutinio a tutti i “capi di famiglia”: ci troviamo in presenza di una procedura di voto che risaliva addirittura, in Corsica, al XIV secolo. Essa tuttavia non era uniforme: nelle comunità di una stessa pieve si ritrovano sia i documenti relativi all’affermazione di un voto a suffragio generale, sia di un voto ristretto ai capi43. Sicuramente, se non può essere negata

40 Per l’assemblea tenutasi il 23 novembre 1762, nella capitale, era stata inviata una convocazione per ciascuna pieve in cui si invitavano «non solo li molti illustrissimi Signori Procuratori, Vicari, Foranei delle rispettive Diocesi, i molto illustrissimi P.P. Provinciali e Superiori delle religioni regolari, che tutti i Signori Presidenti, e consultori dei rispettivi magistrati, Commissari, Procuratori, Podestà, P.P. del Comune, e Capitani d’armi delle Pievi, com’eppure i più zelanti ed illuminati Patriotti affine che ognuno possa liberamente proporre» (ivi, p. 91). 41 La Consulta di Vescovato del maggio 1761 aveva previsto nel IV articolo «il conio di una moneta d’argento o di rame, con le armi del Regno…per abolire ogni residuo dell’antica servitù e per avere gli stessi profitti degli altri Stati», ma il conio venne rimandato al marzo 1763 per mancanza di metallo. Cfr. ROSSI A., op. cit., libro XI, p. 160. 42 Essi erano 18 a Zicavo, 23 per tutta la pieve di Talavo (che contava 3528 abitanti nel 1794, in base ai dati del Plan Terrier). Ma i due casi più interessanti riguardano Sartena e la comunità d’Arro. Ad Arro, l’8 aprile 1768, «Il Signor Paolo Andrea Colonna Podestà maggiore e li Signori Franco Colonna e Gio. Maestracci padri del Comune della villa d’Arro, e capi popoli del suddetto luogo li quali compongono la maggior parte e quasi tuta la comunità, uomini popolo ed università nel detto luogo d’Arro, convocati, congregati, coduniti secondo il solito e nelle forme consulte nella piazza di Santo…hanno di loro propria concorde volontà costituito, creato e fatto, siccome costituiscono, creano e fanno procuratore e sindaco di loro comunità… il Signore Paolo Andrea Colonna del detto luogho d’Arro». A Sartena, l’8 maggio 1768 «…Alla presenza dell’illustrissimo Magistrato della Rocca, li Magnifici Stefano Durazzo, Gio. Antonio Pietro, Paolo Maria Rocca Serra e Cesare Ortoli anziani di Sartena…hanno detto ed eleggono come procuratore di questa magnifica comunità il magnifico Gio. Gregorio Ortoli di quella città». Cfr. Archives départementales Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 7; Affaires administratives; Fonds Paoli, C 1, carton 1, Administration Corse, consultes. 43 Così, a Rostino, «Li signori Angelo Leonardo Saliceti dal Saliceto, Piermatteo Pasqualini di Vicinato, Padri del Comune e con egli tutti gli uomini della Parrocchia di Santo Cesaro (hanno eletto) Antonio Saliceti». Ma a Morosaglia di Rostino «Li Signori Pietro Antonio Polidori, Giovanni Geronimi Podestà e con essi li Signori di Consiglio Sindici e Procuratori li quali compongono la maggior parte e quasi tutta la comunità…». La stessa cosa si ritrova nei documenti relativi a Pastorecchia di Rostino ed a Riscamene di Rostino, per non parlare di Centuri, Barrettali, Olcani per il Capo Corso, Muro per la Balagna…prove evidenti della diversificazione geografica (e addirittura temporale, in base ai diversi periodi esaminati) del sistema elettivo delle consulte. Cfr. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 1, carton 1, Administration Corse, consultes, f. 2.

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un’effettiva partecipazione popolare all’elezione dei rappresentanti, si deve riconoscere l’influenza dei Notabili negli affari delle diverse comunità. La formula democratica veniva mantenuta anche da quei Notabili che redigevano i processi verbali in numero di tre o quattro per comunità, e che decidevano per l’intera collettività: soltanto Corte, dove aveva sede il governo nazionale, si conformava perfettamente alla legge44. Si tratta dell’unico caso in cui la procedura stabilita nel 1766 sia stata descritta ed applicata con il sistema a suffragio generale: anche se Corte, nel 1794, contava 1711 abitanti ed i votanti effettivi erano, nel 1768, centoundici.

Figura 27: Bando del Governo indipendentista del 22 maggio 1768 in cui si proclama la mobilitazione generale della Nazione.

44 Qui, il 22 maggio 1768, «Cento e undici Capi di Famiglia, fattasi in conformità delle leggi del Regno dal Podestà ed Anziani la nomina di esso Procuratore da eleggersi nell’illustrissimi Signori Giantomaso Arrighi e Giuseppe Maria Montera e nell’illustrissimo Signore Franco Gafforio, ed indi passati uno dopo l’altro a voti segreti dal popolo e quelli regolarmente raccolti si è ritrovato…che avendo esso Signore Gaffori riportato inclusi ne di più di due terzi di voti favorevoli è stato egli a tenere dalle leggi del Regno eletto come si elegga Deputato…». Cfr. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 1, carton 1, Administration Corse, consultes, f. 2-3.

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La forza del costume e del mito Nella Corsica rivoluzionaria, al di là degli sforzi di Paoli per elaborare delle norme costituzionali, per garantire, attraverso le consulte, un significato reale alla rappresentanza popolare e per allargare le basi sociali del potere, si mostrava sempre più potentemente la forza del costume. La feudalità, che sosteneva nel Dilà e nella Piana orientale il potere e l’autorità del Generale, continuava a rivestire nei propri territori un ruolo decisivo. Paoli metteva il massimo impegno per far eseguire i provvedimenti stabiliti dalla Dieta di Corte, ma le antiche strutture sociali dei villaggi e delle pievi lasciavano poco spazio all’espressione nazionale: in ogni pieve le comunità costituivano dei mondi a parte ed i notabili continuavano a dirigere i loro affari. Questo aspetto delle istituzioni comunali non emerge soltanto dalla lettura dei testi delle consulte, ma fa parte del bagaglio genetico del popolo corso: le disposizioni governative, man mano che si scendeva nella scala sociale, si dileguavano davanti ai meandri degli interessi particolari, perdendo il loro contenuto e la possibilità di una realizzazione concreta. Solo partendo da questo dato di fatto si può comprendere la variazione costante dei testi di legge ed il tentativo di Paoli di riorganizzare il potere mediante il coinvolgimento del maggior numero possibile di deputati: tutti dovevano avere lo stesso interesse per l’espressione della volontà generale. Da questo contesto emerge la mitizzazione della figura del Generale: di fronte alle difficoltà di una società in crisi, in cui le forze centrifughe minacciavano costantemente lo scoppio delle strutture esistenti, l’unità doveva reggersi sul mito. Paoli divenne un simbolo, un’unità ideale, un esempio ed un fine per tutti gli individui che componevano la società corsa. L’epiteto coniato per Paoli è significativo: egli era il “Babbu”, il capo famiglia che conduceva e dirigeva i suoi uomini. Capo carismatico, egli concretizzava i sogni, le speranze e la determinazione degli umili: ed era a lui, non soltanto ad un’entità chiamata “Nazione” o “Patria” che si indirizzavano i giuramenti di fedeltà. Uno dei grandi meriti di Paoli è stato quello di aver colto il momento giusto; egli era tornato in Corsica proprio quando i diversi tentativi per formare un governo nazionale, dopo l’esperienza di Gaffori, avevano mostrato l’impossibilità della gestione collettiva della lotta: solo un capo poteva condurre a termine la guerra di liberazione nazionale. Agli occhi del popolo, Paoli identificava lo Stato: tutte le istituzioni erano intimamente, fisicamente legate alla sua persona. Questa assimilazione ha decretato la forza, ma anche la debolezza, dell’immagine del Generale, dato che il suo edificio mostrava inevitabilmente una grande fragilità. La necessità fatta legge L’incapacità della Corsica di superare il sistema clanico nella formazione dello stato e l’ipoteca pesante dei legami di famiglia e di clientela sulle decisioni testimoniavano, nei fatti, che ogni clan funzionava come uno stato, ma anche che ogni capo clan poteva pretendere di giocare il ruolo di “generale alternativo”. Questo dato emerge chiaramente dall’analisi delle istituzioni corse: il sistema comunitario, presente sin dal XIV secolo, lasciava emergere in ogni pieve e comunità i Notabili rurali, volti ai soli problemi della dominazione locale o regionale; questo stato di cose era ben poco compatibile con la realizzazione di uno stato nazionale, dato che le aristocrazie locali interpretavano e deformavano le leggi per l’esclusivo beneficio dei “capi populo”. In effetti, uno dei fenomeni più curiosi nella Corsica del XVIII secolo è stata la resurrezione della categoria sociale dei “Caporali”, veri signori della guerra che conducevano i loro affari in modo autonomo ed indipendente, come i loro omologhi del Medio Evo. Questo fatto costituisce la prova evidente che una gran parte della nuova classe dirigente isolana non aveva colto la differenza tra la lotta delle pievi (condotta tra i contadini ed i pastori per il possesso delle terre dei Notabili e dei Signori) e quella delle masse popolari contro Genova, in vista dell’indipendenza dell’isola. Senza l’analisi di queste realtà sociali di lungo periodo della storia isolana non si comprenderebbero i motivi dell’adesione dei pastori-coltivatori e dei notabili alla rivoluzione indipendentista. L’attaccamento dei pastori alla proprietà comunitaria e quello dei coltivatori alla proprietà privata, l’ostilità dei primi alla coltivazione della pianura e quella dei secondi alla transumanza, furono senza dubbio tra le cause dei malumori della Corsica nel XVIII secolo. All’origine dell’insurrezione del 1729 c’era, come abbiamo visto, la politica di colonizzazione e di coltivazione della pianura corsa, perseguita dai genovesi tra il XVII e il XVIII secolo45. Il conflitto sociale prese un carattere nazionale poiché opponeva i pastori corsi delle montagne ai coloni liguri della costa: le proclamazioni infiammate dei patrioti accusavano i genovesi di volerli rigettare all’interno, per poterli assoggettare. L’espulsione dei genovesi non modificò questi conflitti. Se prima del 1729 il focolaio d’agitazione era situato sulle montagne, al tempo dell’indipendenza nazionale i movimenti di opposizione partirono dalla pianura. È interessare notare come tutte le opposizioni al regime partirono dalle regioni agricole per irrompere nelle regioni pastorali: si può vedere in questo semplice fatto un episodio della lotta tra il collettivismo dei pastori e l’individualismo dei coltivatori. Dopo la conquista francese, la montagna riprese il suo ruolo tradizionale di focolaio d’agitazioni, al contrario della pianura. Questo stato di cose ricorda quello che era accaduto sotto il dominio genovese, come mostra la somiglianza delle politiche favorevoli all’espansione della proprietà privata e, di conseguenza, contrarie agli interessi

45 È sufficiente, per convincersi di questo, consultare le proteste degli abitanti di Niolo, contro la concessione del territorio di Galeria, il 23 agosto 1704, al nobile genovese Saoli, e altrettanto quelle degli abitanti delle pievi di Ornano e Talavo contro lo stabilimento, nel 1714, della colonia di Coti-Chiavari vicino ad Ajaccio, così come le lamentele dei coloni contro le invasioni dei corsi. Sin dal 25 gennaio 1715, i capi delle colonie imploravano le autorità di mettere fine ai misfatti dei corsi. Ma in risposta alle affermazioni del Governatore, rinnovate parecchie volte nei villaggi di Campo, Quasquara, Frasseto e Zevaco, i montanari continuarono le loro incursioni devastatrici, nonostante le pene severe in cui incorrevano: «Proibiamo a qualunque si sia persona il poter più in avvenire entrare nei suddetti terreni della detta colonia né fare in quelli alcuno atto di sementare né introdurre in quelli bestiami di sorte alcuna a pascoli né tam poco tagliare macchia o altre sorte d’alberi sotto pena a contrafacenti di anni di galera...» (10 marzo 1716). Ajaccio, Archives départementales de la Corse-du-Sud, fondo Civile Governatore C111.

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dei pastori. In virtù dell’articolo 9 del Trattato di Versailles, i beni confiscati dai genovesi e dai corsi filogenovesi furono restituiti durante la rivoluzione. Inoltre la maggior parte delle terre e delle colonie agricole vennero ridistribuite su tutta la superficie dell’isola: quelle dei greci a Cargese, quelle dei lorenesi sotto il demanio delle Porette, sempre contro gli interessi immediati dei pastori che, davanti all’inutilità delle loro proteste, si rivoltarono contro i proprietari. Negli ultimi decenni del Settecento gli scontri si moltiplicarono: rottura degli steccati, incendi dei raccolti, sradicamenti delle vigne, abbattimenti degli olivi, devastazioni delle proprietà46. Paoli aveva compreso questi problemi e queste difficoltà: non si sentiva mai legato troppo strettamente alla deontologia delle regole scritte. Avendo ricevuto il potere di convocare le consulte generali, invitava volta per volta le persone che gli sembravano più idonee alle esigenze del momento. Egli convocava, inoltre, di propria iniziativa, delle consulte regionali con il potere di legiferare alla stregua delle consulte generali (come nella Consulta del Capo Corso del 6 gennaio 1762). Infatti, più che risolvere i problemi costituzionali, ciò che interessava al Generale era promuovere l’efficacia degli atti governativi: Paoli non si preoccupava solo di assicurare un avvenire politico stabile, ma anche di garantire l’efficienza dei suoi ordini. Il Generale era in costante viaggio nell’isola per regolare di persona i conflitti, mettendo alle strette le famiglie o le pievi non allineate: sotto questo aspetto si comprendono anche le ragioni delle numerose variazioni “autocostituzionali”, che decidevano la composizione del Consiglio di Stato o delle consulte, destinate principalmente a fare fronte a situazioni ben precise. Ad uno sguardo più ravvicinato, il consenso raccolto nelle assemblee era indice della fondatezza di una politica, più che un’investitura istituzionale. I fedeli erano il vero strumento del potere ed il programma serviva solo a suscitare l’allineamento degli altri membri: il progetto politico divenne fondamentale solo in un secondo momento, quando, cioè, la sua applicazione poteva sollevare una corrente popolare legata al consenso generale47. Nello Stato paolino erano essenziali le relazioni tenute quotidianamente dal Generale ai quattro angoli dell’isola, spesso con un’attività epistolare smisurata: da questo si evincono gli sforzi incessanti per risolvere le difficoltà locali e il costante lavorio per tessere nell’isola una rete di amicizie e di affetti in grado di sostenere la causa nazionale. Non bisogna considerare il progetto indipendentista solo in una pretesa costituzione, ma anche nel lavoro diplomatico con cui Paoli cercava di realizzare attorno alla sua persona un’unità che superasse le rivalità regionali e personali.

46 Le lamentele del concessionario di Santa Giulia, M. de Maimbourg, sono sotto questo punto di vista significative: «Gli abitanti di Porto Vecchio, si sono presi gioco di Santa Giulia, senza pagare nulla: in seguito all’abbandono di M. Giustiniani (il governatore genovese) hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per mantenersi all’interno di questo territorio». E aggiungeva: «nel tentativo di scoraggiare i miei sforzi e di restare i padroni del territorio, dopo il mio abbandono, distrussero un piccolo vivaio da 5 a 6.000 piedi d’alberi superbi che avevo fatto circondare da una doppia siepe». Per finire, domandò che fossero fatti pagare a tutta la comunità di Porto Vecchio i danni che aveva subito. Cfr. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, fondo Civile governatore, C112. 47 Una lettera di Clemente Paoli a Venturini, quando quest’ultimo era ancora Presidente, scritta verosimilmente qualche giorno prima della Consulta della Casabianca, è piena di spunti interessanti: «Convocare il Congresso a Rostino o a Caccia, in modo che voi ne esprimiate il desiderio, non ci sembra una cosa convenevole: quelli del Diladamonti sarebbero obbligati a fare un viaggio più lungo. Altre ragioni: in questo momento non conviene convocare gli abitanti della Balagna, anche se pieni di buona volontà, in una località che è stata il teatro di recenti problemi, senza contare la gelosia che ecciterebbe nello spirito degli abitanti di altri luoghi. Quanto a Caccia, voi non avete dimenticato, senza dubbio, i sacrifici sofferti dagli abitanti durante le riunioni di altre Assemblee ed all’epoca delle due spedizioni in Balagna, di cui essi hanno molto sofferto; così, ci sembra necessario riunire il congresso a Corte o a Sant’Antonio della Casabianca. Ma il nostro invito è di tenere la riunione a Corte, in cui ciascuno arriverà munito delle provvigioni necessarie, senza che il paese abbia a sopportare alcun carico». Cfr. Lettera di Clemente Paoli a Venturini, senza data, Lettres de Paoli di PERELLI D., «B.S.S.H.N.C.», 57 (1884), p. 3.

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Figura 28: Ordinanza dei francesi del 22 agosto 1768.

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Un edificio senza basi di massa La struttura clanica reggeva la società corsa ad ogni livello. Su di essa posava anche l’edificio paolino: il progetto consisteva nell’assorbimento di questa struttura per metterla, in un secondo momento, al servizio della nazione. L’unione si basava sull’annullamento (relativo ed episodico) delle forze centrifughe sotto la pressione degli avvenimenti: la mancanza di prospettive politiche per i notabili (specie dopo il secondo intervento francese), la crescente pressione popolare, la fusione delle aspirazioni della classe borghese e delle masse popolari; tutto doveva convergere all’unità della nazione. Per riuscire pienamente nell’intento bisognava risolvere i problemi economici e sociali che avevano fatto scattare la jacquerie e suscitato l’allineamento dei notabili nella lotta contro Genova. In parole povere, si doveva mettere fine al problema agrario da un lato, e dall’altro dare soddisfazione alla borghesia rurale. Quest’ultima aveva aderito alla rivoluzione con un programma preciso di rivendicazioni: incarichi ed onori (che l’indipendenza garantiva) e soprattutto, con un programma economico al quale essa era attaccata e che figurava sempre nelle prime pagine dei progetti di pace formulati dal 1730 al 1753. Ignorare la crisi sociale (aggravata da quarant’anni di guerra) e le sue cause profonde significava non riuscire a mettere fine ai problemi interni e deludere le aspettative degli umili; ignorare le rivendicazioni dei Notabili significava separarli dalla causa nazionale e lasciar loro un campo d’azione troppo vasto, che avrebbe coinvolto anche un gran numero di partigiani. Se si considera, inoltre, che questi Notabili erano molto attaccati alla pace sociale e che i loro interessi economici erano in contrasto con l’interesse della popolazione, si misura la ristrettezza del margine d’azione di Paoli, proprio quando il superamento di queste contraddizioni era fondamentale per la formazione della nazione. La povertà In quest’analisi della Corsica rivoluzionaria non devono essere mai tralasciati i fattori economici e sociali, origine di numerose rivendicazioni e di lotte tra i nazionali e gli stranieri48. La debolezza del sistema militare paolino è evidente: gli abitanti erano costretti a mettere in secondo piano gli interessi materiali immediati di fronte alla lotta per l’indipendenza. Ma si assisteva anche a delle manifestazioni d’indifferenza verso la causa nazionale: gli ufficiali si mostravano spesso poco diligenti nell’esecuzione degli ordini di governo ed il desiderio di centralizzazione e di unità che animava il generale incontrava spesso delle resistenze. Paoli era bloccato dalle poche risorse che offriva il paese: 35.000 uomini, al massimo, erano in grado di portare le armi, mentre il peso delle strutture economiche arcaiche faceva passare in secondo piano l’interesse generale rispetto all’interesse di una comunità o di una pieve. Ancora più significativo era l’aumento delle ammende verso chi disertava le marce, aumento che lascia supporre un gran numero di refrattari: i disertori non si mostrarono particolarmente attaccati a queste misure, dato che non solo continuarono a mancare all’appello, ma resistettero anche alle multe. Sarebbe semplicistico mettere questi esempi sul piano della mancanza d’interessi o della cattiva volontà: partire in guerra, anche per una spedizione di qualche giorno, significava abbandonare il lavoro nei campi e nell’isola la miseria era davvero grande. Le fonti d’archivio testimoniano anche le enormi difficoltà economiche del governo centrale49. La bancarotta era totale: l’indigenza della popolazione non garantiva alcun guadagno allo Stato. L’indigenza generale era imputabile, in prima istanza, ai cattivi raccolti, particolarmente frequenti nel quindicennio paolino: d’altronde la crisi agricola era diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo. Paoli si preoccupava attivamente dello sviluppo dell’agricoltura: nella Consulta generale del maggio 1764, prese delle misure per lo sviluppo agricolo del territorio isolano50. Ma il Governo era incapace di mantenere fissi i prezzi, nonostante la creazione dei “Minestrali”, che «debbono invigilare sopra i pesi e misure». L’aumento dei prezzi portava necessariamente il popolo all’esasperazione, con rischi molto seri per la stabilità del governo. In fondo, il governo rivoluzionario non era riuscito a migliorare la condizione miserevole delle masse contadine proprio a causa

48 Il 22 giugno 1762, Massesi richiese ai Niolini uno sforzo di guerra considerevole: «Il motivo per cui viene intimata numerosa la marcia alla vostra pieve si è che niun’altra è meno disoccupata come codesta in questi tempi, quando per il contrario tutte le altre sono nella maggiore per la racolta», di cui il nemico ha approfittato. Contemporaneamente il commissario d’Aquale, il 12 novembre 1762 rispose allo stesso Massesi che, con grande rammarico, non poteva eseguire gli ordini perché «presentemente la gente stava tutta per spiagiare». Il verbo “spiagiare” indica la diserzione dall’esercito per il proseguimento del lavoro nei campi. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 7, Affaires administratives. 49 Nel novembre 1763, Paoli scriveva a Casabianca di chiedere «al signore Cannelli che ci faccia trovare almeno 8 o 10.000 lire per aggiustare la truppa» lettera di Paoli a Casabianca del 26 novembre 1763, in PERELLI D., Lettres de Paoli, «B.S.S.H.N.C.», s. II (1886), p. 591. Il 20 febbraio dell’anno seguente Paoli confessava a Salvini «mio padre non mi ha prestato danaro»; il capo del governo corso non poteva nemmeno imporre che ci si servisse della moneta nazionale, rifiutata da tutti: «Sentiamo con nostro stordimento che, in questa provincia, ci sono molti che ricusano la moneta nazionale»; «Quella partita d’undici mila lire, se potesse ridursi in moneta forestiera onde con quelle cominciassi a pagar la truppa, farebbe buonissimo effetto, e trovarei più gente e migliore». Vd. Lettera di Paoli al Magistrato della Balagna, 24 settembre 1768, e lettera di Paoli da Belgodere, 25 ottobre 1768, in PERELLI D., Lettres de Paoli, «B.S.S.H.N.C.», s. III (1890), pp. 134 e 332. 50 Nel XIII articolo si decise, infatti, che «Resta a carico del Supremo Governo di eleggere due o più soggetti di ciascuna Provincia, li quali promuovano nelle maniere più proprie la coltivazione dei terreni, la piantagione delle vigne, e di ogni sorte d’alberi»; l’articolo XXXI novellava che «chiunque possiede orti, vigne, chiosi, serrati debba ogni anno ai tempi proprii, seminare ceci, pisi, fave, fagioli ed ogni altro genere di legumii». Il problema era trovare il denaro per gli investimenti, dato che i contadini non riuscivano nemmeno a pagare le tasse. Il Governo era povero quanto la popolazione e non poteva promuovere una politica di prestiti all’agricoltura. La situazione rimase assolutamente identica, se non peggiore, a quella del periodo genovese, e le velleità di rinnovamento rimasero nella sfera delle speranze irrealizzabili. La carestia trascinava con sé il rialzo dei prezzi e la speculazione. L’articolo XII della Consulta del 1764 decretava che «Saranno deputati dal Supremo Governo due consoli per rivedere la qualità ed i prezzi di ogni genere di mercanzie, e per dare quei provvedimenti che intorno a ciò si crederanno necessari per l’utilità dei popoli a vantaggio del commercio». Ma, come disse Paoli in una lettera del 1767, i prezzi di quell’annata aumentavano in ragione della penuria e «niuno arriva a venderne che non ne domandi di vantaggio»; cfr. Lettera di Paoli a Belgodere cit.

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della guerra. Ma è grave il fatto che Paoli non avesse riconosciuto le ragioni profonde della rivolta, in parte analizzate da Natali e da Salvini: erano state la cattiva amministrazione e la giustizia venale degli occupanti a spingere gli isolani alla ribellione contro la madrepatria. Le conseguenze sociali ed economiche della cattiva amministrazione genovese aggravavano pesantemente le difficili condizioni dell’isola. La ricerca delle misure, degli editti concernenti il diritto di pascolo, il problema dei terreni comuni o le questioni della proprietà erano sempre stati secondari rispetto alla questione sociale ed economica, ma gli unici riferimenti trovati finora negli articoli delle consulte condannavano il pascolo sulle terre coltivate ed i proprietari che si facevano giustizia da soli in caso di usurpazione dei beni. Tutto questo era insufficiente per regolare la questione e Paoli probabilmente aveva rimandato la soluzione del problema sociale per dare spazio all’esigenza primaria: l’indipendenza. La crisi interna, generatrice di divisioni e fonte d’instabilità politica, era presente sin dallo scoppio della rivoluzione e si percepiva ancora nelle lotte che insanguinavano le pievi nelle questioni di confine. Paoli era in parte responsabile di questi avvenimenti: aveva voltato le spalle alla questione sociale, credendo di poterla tamponare con una giustizia rapida e rigorosa; il rigore ispirava il timore ma lasciava intatte le cause del malcontento. Il banditismo, figlio della miseria, non era sparito e le sue radici erano ancora fresche; sembra addirittura che esso sia aumentato nel quindicennio indipendentista e che fosse utilizzato dai genovesi e dai francesi, dai nemici personali del Generale e dagli abitanti del Fiumorbo per annullare gli sforzi del Governo, che nel frattempo si sfiancava in marce e spedizioni per ristabilire l’ordine e «sterminare i banditi» (Paoli identificava con questa parola tutti coloro che non obbedivano alle leggi della nazione). Il motore della loro azione era la fame: da quando i corsi si erano sollevati, il governo non aveva voluto e potuto risolvere le difficoltà endemiche dell’isola. Le fondamenta del sistema amministrativo paolino avevano delle crepe profonde. Insormontabili contraddizioni Nonostante i numerosi tentativi di Paoli di creare una rete di commerci interni ed esterni all’isola, le frequenti carestie costringevano più volte il governo rivoluzionario a vietare il commercio di viveri, bloccando lo sviluppo economico. I notabili avevano aderito alla rivolta per ottenere degli obiettivi fondamentali, tra cui il libero commercio: tutte le contraddizioni della società corsa si annodavano su questa problematica. Gli abitanti dei Presidi avevano conosciuto per la prima volta la penuria e la fame: bloccati all’interno da ogni tipo di approvvigionamento, erano stati abbandonati anche da Genova, incapace materialmente di aiutarli. Inoltre, in tutte le consulte rivoluzionarie era stato decretato il divieto di commercio con le città costiere ed erano stati nominati dei Commissari per evitare questa eventualità. Ma il generale, ancora una volta, doveva accettare il peso degli interessi privati ed il commercio clandestino delle derrate51. Paoli voleva regolare e sottoporre a tariffa il commercio interno: decretò un calmiere generale nella Consulta del maggio 1764, ma senza il consenso dei notabili che, sin dal 1729, facevano proclamare il libero commercio in tutte le assemblee. Sicuramente il governo riusciva ad accattivarsi le simpatie del popolo, il cui livello di vita era salvaguardato, anche se solo teoricamente, dal rialzo dei prezzi. Ma ad un certo punto le masse popolari cominciarono a lamentarsi della tassazione, che causava l’effetto opposto a quello previsto, ed i contadini sospettarono che lo Stato fosse l’istigatore di presunte malversazioni. Questa politica aveva tutti gli inconvenienti del sistema genovese, senza mantenerne i vantaggi. La Consulta del 1764 proclamò all’articolo XXIV il divieto assoluto di commercio con i Presidi; ma, come affermava Rossi, le popolazioni soffrivano terribilmente l’assenza del piccolo commercio con i porti genovesi: stoffe, utensili ed altre cose indispensabili alla vita quotidiana. Ogni giorno gli ordini del governo, incapace di risolvere il problema economico, venivano infranti: come si poteva vivere sull’isola quando i porti appartenevano ad una potenza nemica? Il porto dell’Isola Rossa non poteva reggere il confronto con i presidi: era una creazione troppo recente ed era poco frequentato dai mercanti stranieri. Esso funzionò soprattutto come porto d’esportazione delle castagne. L’Isola Rossa finì per ricadere in una delle contraddizioni profonde della Corsica: nel porto si vietava il commercio con le navi dei Presidi ma si autorizzava con i battelli battenti bandiera straniera, anche se l’equipaggio era genovese; per commerciare bastava l’assicurazione verbale che le derrate imbarcate non fossero destinate a Bastia, Calvi o Ajaccio. I notabili ed i contadini si rallegravano delle prese di posizione del governo, ma ancora di più i genovesi: potevano comunque rifornirsi e rallentare le pressioni del popolo di Bastia, che si lamentava e minacciava di sollevarsi contro il governatore per la mancanza di grano. La soluzione attuata dal governo rivoluzionario era pericolosa, perché andava contro gli interessi della nazione e provocava il malcontento delle categorie sociali ostili a Genova. Questa politica era anche rivelatrice dell’empirismo dell’azione governativa e delle sue intime contraddizioni: si agiva in base alle

51 Nel 1759, nonostante il cattivo raccolto, «sento che alcuni di codesto paese [Olmeta], sotto pretesto di mandarlo a macinare [il grano], ne facciano passare in Calvi gran quantità. Io vi prego d’impedire questo disordine, il quale, levando la fame ai presidiani ed ai bastiesi, potrebbe introdurla nel Regno». Nel 1765 il Consiglio di Stato affermava che «Sentiamo che giornalmente passa quantità di farina in Calvi… Ella sanno benissimo quanto sia scarsa l’apparenza dell’annata e, prevedendovi una deplorabile sterilità, non deve permettersi, sotto qualsivoglia pretesto, l’estrazione de viveri, mentre, ciò che abbisogna alla nazione, non deve accordarsi ad alcuno»; cfr. Lettera di Pasquale Paoli a Giudicelli, 31 luglio 1759, PERELLI D., Lettres de Paoli, «B.S.S.H.N.C.», s. I (1884), pp. 362-363. Il Magistrato di Balagna e Paoli, invece di punire, si contentavano di pregare che il commercio clandestino terminasse, ma nonostante i richiami formali i balagnini continuarono ad agire allo stesso modo; infatti, il 29 novembre 1768 il governo di Corte ordinò per la seconda volta di far cessare questo genere di attività, pregiudizievole non solo alle popolazioni dell’interno, ma anche «agli altri interessi dello Stato». Evidentemente il sentimento patriottico non riusciva a soffocare chi approfittava delle carestie per trafficare granaglie e generi alimentari: gli interessi privati erano incompatibili con i divieti. Il commercio con il Capo Corso era autorizzato «mediante la credenziale che i patroni di bastimenti dovranno produrre dal magistrato di quella Provincia, e non per altrove». Cfr. Arch. Dep. Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C 7, Affaires administratives.

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circostanze, dando soddisfazione un po’ agli uni, un po’ agli altri, indisponendo generalmente tutti: insomma, non era stata modificata nessuna delle linee direttrici che avevano regolato l’attività amministrativa genovese. Un simile comportamento spiegava la lenta disaffezione popolare, ma provava anche la mancanza di reali prospettive da parte della borghesia isolana, specialmente della borghesia rurale, incapace di promuovere una rivoluzione nel paese. Questa debolezza oggettiva si rifletteva nel contenuto ideologico che si era voluto dare alla rivolta: un simile atteggiamento, prima o poi, avrebbe privato la rivolta delle sue basi di massa e obbligava Paoli a tener conto e ad integrare le aspirazioni dei notabili. Quando Paoli proponeva a Choiseul «la libertà della mia nazione sotto l’alta protezione della Francia»52, quando negoziava con Valcroissant, inviato del ministro di Luigi XV, si inscriveva nello stesso pensiero di coloro che domandavano l’annessione alla Francia. Paoli dava prova di realismo politico, eppure, nello spirito della maggior parte di coloro su cui si appoggiava, questa formula era una soluzione di convenienza per delle aspirazioni più profonde: affidarsi alla Francia per ottenere ciò che Genova non era stata in grado di offrire e che il governo rivoluzionario non aveva potuto realizzare. Quando venne firmato il Trattato di Versailles, suonò l’ora della verità: gli uomini che, secondo il Generale, erano stati pagati dalla Francia, si dichiararono apertamente, seguiti da quelli che avevano osato occupare le piazze rimaste vacanti53. Mentre preparava la guerra contro De Vaux, Paoli era costretto a condurre delle spedizioni nelle pievi che si erano sollevate: questo accadeva nel Nord, dato che il Sud, dal 15 maggio 1768, non era più controllabile. Le numerose lettere che Ottavio Colonna d’Istria inviò al Generale nella seconda metà del 1768, fino alla prima metà del 1769, sono una lunga enumerazione di tradimenti, di marce contro i faziosi, di diserzioni. La battaglia di Ponte Novo congiunse tutti i fattori che sottostavano allo svolgimento della storia isolana durante i tragici e gloriosi quarant’anni: la debolezza economica, il peso dello straniero, le contraddizioni e le divisioni di una rivoluzione che non era mai veramente diventata totale nell’isola. Sul suo destino pesavano troppe ipoteche: la struttura sociale clanica, per essenza incompatibile con l’idea nazionale; il disinteresse, nel corso degli anni, delle masse contadine, le grandi vittime di un cinquantennio di lotte e per le quali non era stato fatto nulla; la debolezza della borghesia isolana. Quest’ultima rimase sempre una borghesia rurale: nell’insieme aveva poco interesse per il mercato nazionale, fondamentalmente chiuso, e per il mercato internazionale, a cui non aveva mai partecipato. Indirizzata verso Genova per le attività più importanti, essa si scontrava con l’arcaismo di un mondo rurale che non era in grado di trasformare. Bloccata, limitata dall’atomizzazione delle strutture economiche, sociali, politiche, la borghesia non poteva diventare una classe rivoluzionaria. Senza una classe rivoluzionaria nessuna nazione riesce a sopravvivere alle ingerenze straniere: un uomo, per quanto grandi siano i suoi meriti ed il suo genio, non può sostituirsi alle masse, quando quest’ultime falliscono.

52 Lettera di Paoli a Choiseul, 18 maggio 1766, PERELLI D., Carteggio fra Paoli e Choiseul, «B.S.S.H.N.C.», 69 (1886), pp. 493-497. 53 Nel giugno del 1768 i fratelli Fabiano fomentarono delle rivolte in Balagna; in agosto, Gaffori e Ceccaldi rifiutarono d’obbedire al governo; in settembre Casabianca, l’amico fedele di Paoli, venne seriamente rimproverato per la sua debolezza e per quella dei suoi partigiani; in ottobre tutti i Buttafoco abbandonarono il Generale: conseguentemente il loro feudo, la Casinca, entrò in sedizione e non obbedì più al governo. A poco, a poco le altre pievi seguirono l’esempio della Casinca: la pieve di Mariana si sottomise ai francesi nel settembre del 1768 ed il Fiumorbo scelse la secessione. Accanto ai grandi capi clan, ce n’erano altri, oscuri, altrettanto numerosi: «nella mossa generale bisogna ad aver l’occhjo sopra. Perché mi conta che alcuni sono insinuati di mettersi nella folla per fomentare e tumultuare». Paoli non si sbagliava: correvano le notizie più curiose, che creavano disordini generalizzati e ribellioni che il Generale cercava di sedare scrivendo ai tumultuanti per dare coraggio o mostrare la sua autorità. Arch. Dép. Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli, C7, Affaires administratives.

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FABRIZIO DAL PASSO, Il Mediterraneo dei Lumi. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni CAPITOLO 5 – Jean Jacques Rousseau ed il Progetto di costituzione per la Corsica

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CAPITOLO 5

JEAN JACQUES ROUSSEAU ED IL PROGETTO DI COSTITUZIONE PER LA CORSICA

§ 1. Premessa La fine dell’indipendenza corsa era stata ormai segnata dalla sconfitta di Pontenovo. Paoli, esule in Toscana e poi a Londra, sarebbe tornato ad avere un ruolo di primo piano nelle vicende corse solo durante il periodo della Rivoluzione francese: a partire dal 1790 il destino personale del Generale a quello dell’isola tornarono ad essere di nuovo collegati. Durante il ventennio compreso tra Pontenovo e l’inizio della Rivoluzione francese sorse e si sviluppò in Europa il “mito” di Paoli: la risonanza delle tristi vicende legate alla sconfitta dei corsi ed all’eroismo del Generale percorsero il continente in lungo e in largo. Paoli divenne il centro di un’intensa corrispondenza che comprendeva numerosi personaggi di spicco della politica e della cultura europea dell’epoca. Anche Jean Jacques Rousseau partecipò attivamente alle vicende isolane con la stesura del Projet de constitution pour la Corse, un vero e proprio corpus normativo scritto a seguito dei contatti avuti dal filosofo ginevrino con alcuni esponenti del governo indipendentista corso. § 2. Corrispondenza tra Buttafoco e Rousseau nel 1764 A partire dal mese di luglio del 1762, Rousseau, al centro di una vera tempesta di critiche sollevatesi dopo la pubblicazione a Parigi e a Ginevra del Contratto sociale e dell’Emilio, si rifugia a Môtiers, che faceva parte del principato prussiano di Neuchâtel. Si rivolge chiedendo asilo a Federico II, un sovrano per il quale non aveva mai nascosto la sua avversione («pensa da filosofo e si comporta da re»)1. In quel periodo Rousseau ritiene di aver toccato il fondo: non ha più volontà, né speranze, né la forza di vivere. Ma il soggiorno a Môtiers finirà per rivelarsi piacevole: è circondato da molti amici, tormentato da non pochi ammiratori e seccatori, nonché al centro di una fitta rete di corrispondenze. Ma dopo la condanna delle Lettres de la Montagne (bruciate a L’Aia nel gennaio, a Parigi nel marzo, e condannate a Ginevra dal “Petit Conseil” nel febbraio del 1765), anche a Môtiers la situazione diventa difficile. Rifugiandosi il 12 settembre 1765 nell’isola di Saint-Pierre, in mezzo al lago di Brienne, Rousseau portava con sé il manoscritto del Progetto di costituzione per la Corsica. Nel Contratto sociale aveva definito la Corsica: «Un paese capace di ricevere una legislazione (...) il valore e la tenacia con cui questo popolo coraggioso ha saputo difendere la sua libertà meriterebbero proprio che qualche saggio gl’insegnasse a conservarla. Ho non so quale presentimento che un giorno questa piccola isola stupirà l’Europa»2. Scesa in lotta nel 1729 contro l’oppressione genovese, la Corsica era stata argomento di appassionati dibattiti. Francesco Dalmazzo Vasco scrisse, come Rousseau, un piano di legislazione; James Boswell, dopo una visita a Rousseau il 3 dicembre 1764, soggiornò nell’isola, presso Pasquale Paoli, nell’autunno dell’anno successivo. Pubblicherà poi a Londra nel 1768 quell’Account to Corsica che avrà ampia risonanza in tutta Europa. A Rousseau, invece, si era rivolto, nell’agosto del 1764, il capitano Matteo Buttafoco, aiutante maggiore del Reggimento Reale Italiano che combatteva contro i genovesi sotto il comando di Pasquale Paoli3. Buttafoco, che era su posizioni filonobiliari e aristocratiche e che agiva all’insaputa di Paoli, si era rivolto a Rousseau nell’illusione di potersi servire della sua opera come di un’alternativa alla politica democratica dello stesso Paoli. Scartata l’idea di un viaggio in Corsica, Rousseau chiese a Buttafoco una esatta descrizione dell’isola, della sua geografia, dei suoi ordinamenti, della sua storia. Accanto a una serie di documenti, Buttafoco inviò a Rousseau due sue memorie di ispirazione decisamente filoaristocratica. Probabilmente Buttafoco si era mosso di sua iniziativa, spinto da ambizioni politiche e da quella propensione per la Francia che gli derivava da tradizioni di famiglia e dalle campagne da lui combattute nelle fila dell’armata francese4. Durante il suo soggiorno in Corsica, il 12 febbraio, a Vescovato, aveva 1 ROUSSEAU J.J., Œuvres cit., I, p. 1085. 2 ID., Contrat Social, II, X. 3 «Al Sig. J. -J. Rousseau, cittadino di Ginevra, attualmente a Neuchâtel, Meziéres, 31 agosto 1764. Vorrete permettere, Signore, ad un Corso pieno di stima per voi, d’osare di distrarvi dal vostro ritiro. Le vostre occupazioni non hanno per scopo che il benessere degli uomini; soltanto questo mi darà la fiducia d’indirizzarmi a voi quando non detestereste la tirannia, quando non v’interessaste più al malessere che essa arreca. Voi avete fatto menzione dei corsi nel vostro “Contratto sociale” come di un popolo in una condizione molto favorevole; un simile elogio è lusinghiero quando parte da una penna così sincera: niente è migliore per eccitare l’emulazione e il desiderio di far meglio; ciò fa ben augurare alla nazione che voi vorreste essere quell’uomo saggio che potrebbe procurare i mezzi per conservare quella libertà che è stata raggiunta a costo di tanto sangue. I corsi sperano che voi vorreste fare buon uso per loro dei vostri talenti, della vostra generosità, della vostra virtù, del vostro zelo, a vantaggio degli uomini, soprattutto per quelli che sono stati vittime della più insopportabile tirannia. Una nazione non si deve illudere di diventare felice e fiorente se non per mezzo di una buona istituzione politica. La nostra isola, come voi avete ben detto, Signore, è in grado di ricevere una buona legislazione; ma la deve fare un legislatore, la deve fare un uomo con i vostri princìpi, un uomo la cui fortuna sia indipendente da noi, un uomo che conosca a fondo la natura umana, e che, nel progresso dei tempi, si sia guadagnata una gloria lontana, che abbia voluto lavorare in un secolo e gioire nell’altro. Vorreste degnarvi, tracciando il piano del sistema politico, di cooperare alla felicità di tutta una nazione?». Lettera di Matteo Buttafuoco a Rousseau in DEDECK-HERY E., Jean-Jacques Rousseau et le Projet de constitution pour la Corse, Philadelphia 1932. 4 Interessante è il pamphlet di Napoleone, che evidenzia il sentimento che Matteo Buttafuoco suscitava tra le famiglie patriotte, Lettre de M. Buonaparte à M. Matteo Buttafuoco, député de la Corse à l’Assemblée Nationale, del 23 gennaio, anno II, in NAPOLEON, Manuscrits inédits. 1786-1791, Frédéric Masson e Guido Biagi, Société d’éditions littéraires et artistiques, Paris 1910, pp. 446 sgg. Paoli gli consigliò di non pubblicare nulla su Buttafuoco, attirando così l’attenzione su chi «Non può aver credito presso un popolo che ha sempre stimato l’onore e che ora ha riacquistata la sua libertà», scriveva nel 1791. «Col nominarlo se gli fa piacere; egli non può aspirare ad altra celebrità che a quella che cercò l’incendiario del tempio di

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terminato la scrittura di una Memoria sopra la constituzione politica da stabilire nel regno di Corsica nella quale si dà un piano generale delle cose più essenziali che constituiscono un governo in repubblica mista. Matteo Buttafoco narrerà poi di aver letto questo suo memoriale «in piena Consulta l’anno in cui fu scritta»5 e di per se stessa questa Memoria di Buttafoco è rivelatrice della situazione dell’isola nel 1764. Si diceva convinto che fosse giunto il momento di dare una costituzione all’isola. È probabile fosse influenzato da quanto Rousseau aveva scritto in proposito nel Contrat social. Notevole era il valore politico delle sue pagine: le sue richieste risuonavano come una denuncia allo Stato d’incertezza, di precarietà in cui si trovavano le istituzioni di Paoli. All’inizio del 1764 egli si era ancora limitato a sottolineare la necessità d’una nuova costituzione. Non era una minaccia a Paoli, ma pur sempre un monito, un’insinuazione. L’elemento essenziale della proposta di Buttafoco consisteva nel metter l’accento non sull’elemento egualitario e democratico, ma sul problema delle garanzie costituzionali, sui controlli ed i contrappesi che egli riteneva fosse necessario stabilire nei confronti dello strapotere del Generale e del suo governo. Buttafoco poneva l’accento sulla «bilancia tanto necessaria negli affari di stato», sulla «buona distribuzione dei tre poteri» e portava all’estremo l’esigenza della loro separazione. Del resto, se la costituzione è intesa quale un sistema di garanzie più che come organizzazione del potere, si presenta spontanea l’esigenza di un corpo sociale indipendente, tutore dei diritti di tutti. Ma, dietro simili richieste, si affaccia prepotente la volontà di distinzioni e di privilegi dei capi, dei principali dell’isola. Buttafoco entra qui in diretto contrasto con Paoli. È la virtualità aristocratica e patrizia della rivoluzione corsa a farsi luce in questa sua Memoria: «È inevitabile l’esistenza della nobiltà in Corsica. L’oppressione dei genovesi è caduta anche con più violenza sopra le famiglie nobili per ridurle allo Stato popolare...Perciò dovrebbonsi rimettere le antiche famiglie nelle loro prerogative». I vantaggi, le “prerogative”, di coloro che sarebbero stati così iscritti nel libro della nobiltà erano innanzitutto di carattere molto pratico: «essere ammesi di preferenza all’altre agl’impieghi della milizia regolata e volontaria». Fuori dell’esercito tuttavia non era facile innestare i privilegi che egli voleva ricostruire sulla società corsa che l’attorniava. Un fondamentale egualitarismo sembrava resistere ed opporsi alle sue proposte. Per quel che riguardava le elezioni egli non trovava altro da suggerire che una sorta di voto plurimo delle famiglie nobili: «Nelle cose civili avranno le case nobili la prerogativa di un voto o voce per ciascun maschio di essa pervenuto all’età di sedici anni nell’elezione dei procuratori delle parrocchie rispettive, mentre le altre famiglie avranno il solo voto del capo-famiglia». Anche in materia tributaria l’esenzione dei nobili dai carichi generali era subito compensata, nel suo pensiero, da «una imposizione da fissarsi sopra ciascun maschio che abbia voce nell’elezione ed inoltre da un dono gratuito quando il bisogno dello Stato lo richiedesse, essendo cosa giusta che quello che gode nello Stato più vantaggi degli altri ne abbia ancora maggior carico». Nobiltà che Buttafoco non concepiva come del tutto chiusa. L’accesso sarebbe stato aperto a coloro che per quattro volte fossero stati eletti a far parte del consiglio supremo. Una aristocrazia militare e politica, dunque, che, almeno in questo progetto, non osava confessare le proprie nostalgie feudali. Queste, tuttavia, verranno rapidamente affiorando più tardi, nella successiva azione politica di Buttafoco, quando divenne un conte di nomina francese e un deputato della nobiltà agli Stati generali del 1789. Un venticinquennio prima, nel 1764, erano ancora sottili, anche se gravi, le incrinature che egli portava con questa sua Memoria alle idee costituzionali di Pasquale Paoli. Quel che mancava in lui, possiamo concludere, era il fervore per la “padria”, che sospingeva invece Paoli e gli indipendenstisti. La discussione così iniziata tra Vescovato e Corte venne ben presto portata, per iniziativa di Matteo Buttafoco, su un piano più largo e generale. Nell’agosto egli era a Mézières, in Provenza, deciso ad acquistare alla causa della Corsica un appoggio di singolare favore. Il 31 dicembre di quell’anno scriveva a Jean-Jacques Rousseau, che, come abbiamo già visto, si trovava allora a Môtiers, vicino Neuchâtel. Gli proponeva di diventare il legislatore dell’isola e così facendo di cooperare alla felicità di tutta la nazione. Correva intanto voce che Buttafoco avesse esteso anche a Diderot questo suo tentativo6. Probabilmente, con queste sue mosse, Buttafoco contribuì ad attirare su di sé l’attenzione del duca di Choiseul. Il 23 ottobre questi lo convocava per un incontro7. Aveva deciso di servirsi di lui per promuovere l’influenza francese in Corsica. Offriva di staccare un Reggimento corso da quello italiano affidando il comando di queste truppe a lui o, se accettava, a Pasquale Paoli. Mossa senza originalità: tutti gli stati coinvolti nelle vicende corse ritenevano di poter risolvere il problema dell’isola con le promozioni e i gradi militari. Buttafoco accettò l’offerta francese; Paoli rifiutò. Buttafoco divenne «gran partitante francese», come disse un contemporaneo, mentre Paoli, con quel rifiuto, si mise sulla strada che doveva portarlo al conflitto con la Francia.

Efeso. Egli scrive e parla per far credere che qui ei sia di qualche conseguenza. Se ne vergognano li stessi suoi parenti. Lasciatelo al disprezzo e alla pubblica noncuranza». LIVI G., Lettere inedite di Pasquale dè Paoli, «Archivio Storico Italiano», s. V, to. VI (1890), p. 305, da Bastia, 2 aprile 1791. 5 Correspondance complète de Rousseau J.J., a cura di LEIGH A., Oxford 1976, vol. XXVII, p. 126, 16 ottobre 1765. 6 Ecco quanto si leggeva nei Mémoires secrets pour servir à l’histoire de la république des Lettres en France depuis 1762 jusqu’à nos jours, di BACHAUMONT L., Londres 1784, vol. II, p. 122, sotto la data del 21 novembre 1764: «I nomi di Jean-Jacques Rousseau e di Diderot sono così conosciuti nel mondo che non c’è bisogno di richiamare la loro celebrità: bisogna riportare un fatto troppo importante da non essere riferito. I ribelli della Corsica li hanno delegati per compilare a loro indirizzo un codice che possa fissare il loro governo, aborrendo tutto ciò che è venuto loro dai genovesi. Jean-Jacques ha risposto che l’opera è al di sopra delle sue forze, ma non oltre il suo zelo, e che quindi ci lavorerà. Quanto a Diderot, si è difeso sull’impossibilità di rispondere a questo invito, non avendo affatto studiato gli argomenti per poter trattare dei costumi del paese, dello spirito degli abitanti e del clima, che devono entrare in gran parte nello spirito di una legislazione atta alla preparazione di un codice di leggi. Non sorprende quindi che i corsi si siano indirizzati a Rousseau, autore del Contratto sociale dove, in un punto assai vantaggioso, ha predetto la grandezza inevitabile di questa repubblica. Ma allo sguardo di Diderot non si sa chi ha meritato una distinzione così lusinghiera». 7 BUTTAFUOCO M., Fragments cit., I, pp. 35-36: «Signore, devo parlarvi riguardo ad alcune cose che interessano il servizio del Re ed è necessario che voi partiate non appena vi sarà pervenuta la mia lettera, per ricevervi qui e darvi le disposizioni da parte di Sua Maestà».

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Il doppio gioco di Buttafoco Quasi contemporaneamente alla lettera di Choiseul, Buttafoco ne ricevette una da Rousseau, scritta il 22 settembre 1764: «È superfluo, Signore, cercare di eccitare il mio zelo per intraprendere ciò che voi mi proponete. La sola idea m’innalza l’anima e mi trasporta. Vedrò impiegati nobilmente e virtuosamente il resto dei miei giorni...se potrò dare qualche consiglio utile al vostro degno capo e a voi tutti; riferite questo su di me dalle vostre parti: la mia vita e il mio cuore sono con voi»8. Se letta attentamente, questa lettera fornisce un’osservazione di estrema importanza: Rousseau prende per scontato, all’inizio, il fatto di associare il nome di Paoli e quello di Buttafoco nell’offerta che gli è stata fatta. Risponde a Buttafoco, ma la lettera è indirizzata a tutt’e due, vale a dire che considera evidentemente le offerte fatte da Buttafoco a nome della nazione corsa, come se fosse stata scritta per volontà di Paoli, il capo della nazione. La lettera di Buttafoco sembra invece scritta sotto il proprio nome, e quello di Paoli non appare che accidentalmente. Il passaggio in cui si trova questa menzione di Paoli9 è, del resto, il più vago e quasi il più imbarazzato della lettera. Bisogna ricordare che Buttafoco non accenna mai alle riforme portate avanti da Paoli, e che effettivamente Paoli era riuscito non solo a cacciare i genovesi dall’isola, ma anche ad elaborare una costituzione che era stata subito applicata in Corsica. Questa costituzione conteneva delle leggi eccezionali, necessarie in tempo di guerra e in un paese “selvaggio”, ma allo stesso tempo possedeva le basi di un’opera solida e grandiosa che si sarebbe mostrata gradualmente. L’Europa aveva già riconosciuto in Paoli un grande generale e un buon legislatore: come mai allora Buttafoco parlava come se niente fosse accaduto in Corsica e come se nessuno fosse stato capace di organizzare il paese? Questo sospetto, comunque, non pare abbia colpito Rousseau più di tanto: accettò l’offerta di Paoli, di Buttafoco e della nazione corsa, sia per il forte interesse che aveva per l’isola e le sue vicende, sia perché, per la prima volta, poteva mettere in pratica le idee esposte nel Contratto sociale. Presentò comunque delle obiezioni, ma più che altro per conoscere meglio il paese: si fece inviare dei resoconti ben precisi sulla Corsica e sui suoi abitanti. Una questione, più delle altre, lo inquietava: la Corsica non era ancora libera, continuava la lotta con Genova e, ugualmente, la Francia aveva inviato delle truppe: domandava a Paoli e a Buttafoco di tranquillizzarlo su questi punti per poter intraprendere un’opera così difficile: «Non è per rifiutare il vostro invito, Signore, che faccio queste obiezioni, ma per sottoporle al vostro esame e a quello di Pasquale Paoli. Vi reputo persone troppo dabbene, sia l’uno che all’altro, per volere che l’impegno dedicato alla vostra patria mi faccia consumare il poco tempo che mi resta, e non per dei compiti che non sarebbero buoni a niente. Esaminate dunque, Signori, giudicate voi stessi, e siate sicuri che l’impresa per cui mi avete trovato degno non verrà mai meno per mia volontà». Infine, prima di spedire la sua lettera, Rousseau aggiunge un post-scriptum: infatti, dopo aver riletto la lettera di Buttafoco, nota che non gli aveva domandato «un corpus completo di leggi», come aveva creduto, ma semplicemente una istituzione politica: «Considerate forse che la Corsica abbia già un corpo di leggi civili sulle quali si tratterà di calcare una forma di governo che si rapporti ad esse?» Rousseau mette il dito sulla lacuna della lettera di Buttafoco. Egli avrebbe bisogno, per vedere cosa può fare, di un «ragguaglio completo» delle leggi corse. Ma non è sicuro che emerga un quadro più chiaro di quello che risulterebbe elaborando l’intera legislazione. Buttafoco gli risponde senza tardare da Parigi, il 3 ottobre. È felice che Rousseau abbia accettato la richiesta e riprende le sue obiezioni per confutarle; risponde inoltre alle domande, ma in modo oscuro a quelle che riguardano Paoli. Lo nomina, è vero, all’inizio della sua lettera: «È inutile, Signore, riferirvi il piacere che ho provato ricevendo la vostra lettera. È degno di voi, della vostra virtù, della generosità della vostra anima, d’abbracciare con calore, con fuoco e con passione, la causa dell’umanità. I corsi gemeranno, malgrado i loro successi, se una mano benefica non li condurrà al bene tramite una saggia istituzione politica. Gioisco in anticipo per la prosperità che ne risulterà, e preparo a Paoli un momento gradevole portandogli una così buona notizia durante il viaggio che vado a fare in Corsica». In questa lunga lettera c’è un solo punto in cui si nomina Paoli. Ma è proprio vero, come si legge, che Buttafoco aveva ricevuto l’incarico di richiedere una costituzione a Rousseau? Buttafoco si trovava in Francia, Paoli in Corsica, e non esiste alcun documento d’archivio che testimoni la corrispondenza tra i due uomini. Comunque sia, sembra molto strano che Buttafoco parlasse ancora della Corsica come di un paese senza costituzione e senza un capo capace di dettarne una, dopo le numerose riforme attuate da Paoli sia come capo dell’esercito, che come legislatore. Inoltre, leggendo più a fondo la lettera, Buttafoco afferma: «Noi faremo del nostro meglio per farvi pervenire i chiarimenti e le memorie che desideravate». E questo «Noi» farebbe pensare a Paoli e Buttafoco. Quando Boswell, che all’epoca non era che uno sconosciuto di venticinque anni, incontrò il Generale egli fornì con sollecitudine i materiali per il suo celebre Account of Corsica. Non avrebbe potuto fare anche di più per il grand’uomo al quale si pensava di conferire il destino del suo paese? Probabilmente Buttafoco si era rivolto a Rousseau all’insaputa di Paoli, con l’intento di scavalcare la sua autorità e di instaurare un tipo di governo filonobiliare, grazie anche all’aiuto di un grande scrittore e filosofo (che naturalmente era all’oscuro di tutto). Ciò non toglie nulla al contenuto del Progetto di costituzione per la Corsica, ma di sicuro mette in luce diversa l’origine, il significato e il valore innovativo dell’opera. § 3. I primi rapporti tra Rousseau e la Corsica Rousseau aveva già avuto occasione in gioventù di riflettere sulla sorte della Corsica. Alla fine del 1749 il marchese de

8 Cfr. DEDECK-HERY E., Jean-Jacques Rousseau et le Projet cit., pp. 16-17. 9 Cfr. ivi, pp. 15-16: «Mi rammenterò di procurarvi le chiarificazioni sulla Corsica di cui potreste aver bisogno, e che Paoli, generale della nazione, vi fornirà. Questo degno capo, e quelli dei miei compatrioti che sono in grado di conoscere le vostre opere, condividono insieme a tutta l’Europa, i sentimenti di stima che vi sono dovuti per un motivo così giusto».

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Cursay aveva fatto rivivere a Bastia l’Accademia dei vagabondi, ritenendo di contribuire anche così all’incivilimento del paese a lui affidato da Luigi XV. La pace di Aquisgrana, del 1748, aveva arrecato una relativa calma anche in quella parte d’Europa. Era tempo che le lettere rifiorissero. L’accademia proponeva come tema di concorso: Qual è la virtù più necessaria ad un eroe, e quali sono gli eroi ai quali questa virtù è mancata? Domanda apparentemente tutta scolastica e retorica. Ma Rousseau capì benissimo che era legata alla vita della Corsica, ribollente di virtù guerresche, e che tanto stentava a trovare un equilibrio civile. Scrisse dunque il richiesto Discours, accettando le convenzioni d’un simile genere letterario, parlando continuamente della Grecia e di Roma, ma alludendo all’isola lontana. Terminatolo, ebbe un moto di ripugnanza. Finì per considerarlo non soltanto «malvagio», ma addirittura un «torche-cul». Non lo spedì a Bastia ed esso rimase tra le sue carte fino al 1768, quando a sua insaputa esso venne diffuso per le stampe10. Alla luce della biografia di Rousseau e della storia corsa, le ragioni di una simile ripulsa appaiono evidenti. Nel suo Discours egli aveva finito con l’accettare la posizione del marchese di Cursay. Il valor militare, l’eroismo, erano una gran bella cosa, ma portavano desolazione e morte. La saggezza derivava dalla ragione, dall’equilibrio, dalla cultura. Sia pure indirettamente, finiva col giustificare la funzione civilizzatrice della Francia, coll’attribuire alle scienze e alle arti una funzione positiva. Esattamente il contrario di quel che aveva sostenuto, sia pure dopo ben note esitazioni, discussioni e ripensamenti, quando aveva risposto al quesito dell’Accademia di Digione, Se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito alla purificazione dei costumi. Il testo che doveva essere mandato a Bastia andava così contro la tendenza più profonda dello sviluppo del pensiero di Rousseau e si comprende la repulsione per una evidente contraddizione del suo pensiero politico. Ma, intanto, egli si era lasciato sedurre dall’opera politica e culturale che il marchese di Cursay si sforzava di compiere in Corsica11. In Cursay egli vedeva unita l’energia del guerriero pronto all’intervento e alla difesa dell’isola e la saggezza tesa ad assicurarne la felicità. Non l’elemento ribelle, ma il desiderio di migliorare, di incivilirsi era posto al centro del suo giudizio sulla Corsica. Idee che Rousseau ripudiò dapprima mettendo nel cassetto questo suo discorso e che confutò, poi, pubblicamente nella prefazione al Narcisse, all’inizio del 1753: «La repubblica di Genova, cercando di sottomettere più duramente i corsi, non ha trovato dei mezzi più sicuri che di stabilire presso di loro un’accademia»12. Una decina d’anni più tardi, l’elezione di Paoli, le vittoriose lotte con i genovesi persuasero anche Rousseau che l’isola si trovava ormai alla soglia della propria maturazione. Nel Contratto sociale, apparso nel 1762, una frase fermò l’attenzione di tutti i lettori: «In Europa c’è ancora un paese capace di legislazione; è l’isola di Corsica. Il valore e la costanza con cui questo popolo valoroso ha saputo ricuperare e difendere la sua libertà, meriterebbero proprio che qualche uomo saggio gli insegnasse a conservarla. Ho il presentimento che un giorno questa piccola isola meraviglierà l’Europa»13. Affermazioni che acquistano il loro senso preciso se reinserite nel contesto dei capitoli intitolati Del popolo. L’opera d’ogni legislatore presupponeva la conoscenza della situazione, del momento storico e psicologico in cui si trovava il popolo al quale avrebbe dovuto indirizzarsi. Talvolta le violente rivoluzioni erano in grado di ridare ai popoli questa gioventù. Ma anche in questo caso la rigenerazione non poteva avvenire che una sola volta. Dalla “barbarie”, così come dalla “révolution”, si poteva passare alla libertà, mai dalla decadenza, dall’asservimento. Una volta spezzato il proprio “senso civile” un popolo non meritava più un liberatore, ma un padrone. Nel cogliere quest’occasione unica stava la virtù del legislatore. Se l’intervento era compiuto al momento sbagliato, troppo presto o troppo tardi, la sua opera sarebbe fallita. Gli stati europei erano o troppo piccoli o troppo grandi per la libertà: la Corsica, abitata da un popolo antico e nuovo insieme, gli sembrava giunta al momento decisivo della sua esistenza. Accettò perciò l’invito, cercò in tutti i modi di documentarsi, scrisse e ricevette un gran numero di lettere. Finì col trovarsi, da una parte compiaciuto, dall’altra preoccupato, al centro di una vera e propria rete europea di filocorsi, quasi d’una congiura per fornire agli isolani idee e mezzi, appoggi morali e materiali. Le idee più interessanti ed i dubbi più preoccupanti Rousseau li ebbe dal suo amico Alexandre Deleyre, allora a Parma insieme a Condillac14. Si complimentava del compito di legislatore che si era assunto; non certo come sentiva dire attorno a sé, per aver così soddisfatto «l’ambizione filosofica», la volontà dei riformatori illuministi di partecipare al governo del mondo, ma unicamente allo scopo di formare «un popolo libero». Lo esortava tuttavia a farsi un’idea più precisa della situazione dell’isola, i corsi: «…potrebbero essere degni di sciogliere il giogo dei loro tiranni repubblicani, ma non sono capaci di ricevere una legislazione buona e sensata, tale che voi non potreste fare a meno di dettarla». Gravi incertezze pesavano d’altronde sulla situazione internazionale dei ribelli: già era una cosa indegna l’appoggio che i francesi davano ai genovesi, figuriamoci se l’influenza inglese non poteva essere ancora più nociva. Spettava ai corsi decidere se davvero erano in grado di «sottrarsi all’influenza delle nazioni straniere». Ora, alla fine del 1764, Deleyre lo poneva di fronte ancora una volta a questi problemi: Come accettare i compromessi, le menzogne che un’azione politica come quella che Rousseau

10 Apparve dapprima nell’«Année littéraire», 1768, fasc. VII, pp. 63 sgg., con una lettera di presentazione datata da Parigi, 14 ottobre 1768. 11 Lo aveva definito: «Un guerriero filosofo e benefico che con una mano abituata a maneggiare le armi allontana dal vostro seno le calamità di una lunga e funesta guerra e fa brillare in mezzo a voi con una magnificenza reale le scienze e le arti. O spettacolo degno dei tempi eroici! Io vedo le Muse in tutto il loro splendore marciare con passo sicuro tra i vostri battaglioni, Apollo e Marte s’incoronano reciprocamente e la vostra isola ancora fumante per le rovine provocate dai fulmini, nell’affrontare d’ora in avanti le folgori ha la protezione di questi due (dèi) coperti di gloria». 12 ROUSSEAU J.J., Œuvres complétes, édition publiée sous la direction de GAGNEBIN B. et RAYMOND M., vol. II, Paris 1961, p. 1268. 13 ID., Du contrat social, ivi, vol. III, Paris 1964, libro II, capitolo X, p. 385. Il confronto con la prima versione del Contrat, ivi, pp. 281 sgg. lascia pensare che le parole sulla Corsica siano state scritte tra il 1760 e il 1761. 14 Cfr. MOLINIER M., Les relations de Deleyre et de Rousseau. 1753-1778, «Studies on Voltaire and the eighteenth century», LXX (1970), pp. 43 sgg.

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intendeva condurre in Corsica non poteva non comportare? Come accordarla con i pensieri che Rousseau aveva sempre avuto? «Siete forse nato per distruggere degli errori generali e per introdurre o fomentare quelli particolari? Pensate forse, come la maggior parte degli antichi legislatori, che basta rendere utili le menzogne dannose e di farle usare per la conoscenza della verità? Vorreste, in parole povere, diventare un uomo insicuro dei propri princìpi, acquistando la reputazione di uno dei grandi politici del mondo?». Soltanto di fronte ad un compito che permettesse di «rendere un servizio importante e durevole» per tutti gli uomini, «senza compromettere la giustizia e la verità», Deleyre si dichiarava disposto ad un’integrale collaborazione con Rousseau. Evidentemente la Corsica non valeva ai suoi occhi un simile sacrificio dei propri pensieri e, se necessario, delle proprie capacità e della propria vita15. Del resto, le probabilità di successo erano molto scarse. Deleyre si convinceva sempre di più della precaria, disperata situazione degli isolani. Ormai la minaccia della Francia si era fatta sempre più grave: i genovesi avrebbero certo preferito mettere a pegno o vendere la loro libertà se questo fosse stato il prezzo per la distruzione dell’indipendenza corsa. Né esisteva un popolo deciso ad aiutare i corsi, «assai generosi per vendicare e difendere l’umanità». Anch’egli aveva dapprima riposto le sue speranze nell’Inghilterra, ma anche la Gran Bretagna si trovava, egli ne era convinto, sull’orlo della rovina morale e politica. Solo una «rivoluzione insanguinata» avrebbe potuto salvarla. Davvero Rousseau sarebbe stato in grado d’affrontare i rischi e le difficoltà di una simile impresa? «In quest’incertezza di un successo legittimo, devo correre il rischio di un male morale? Perché c’è la possibilità che le menzogne e questo labirinto d’azioni equivoche non facciano altro che condurre deliberatamente all’azione coloro che tentano di agitare e di cambiare le sorti degli stati…». § 4. Lettere ed informazioni dall’isola Tra tutte le notizie e i ragguagli ricevuti da Rousseau sulla situazione corsa, particolarmente importante e ricca era la Memoria scritta da Buttafoco a Vescovato nel febbraio del 1764, che già abbiamo largamente esaminato. Insieme ad essa Rousseau ebbe da lui un Examen historique, politique et justificatif de la révolution de l’isle de Corse contre la République de Gênes16. Buttafoco l’aveva scritto qualche mese prima, contemporaneamente alla Memoria di Vescovato17. Buttafoco parlava inoltre dell’altro suo manoscritto «sulla rivoluzione della Corsica, attinto da J. J. Rousseau, Montesquieu, Gordon, Algernon Sidney, etc. etc.». Non si mostrava sicuramente modesto nel considerare le pagine del suo Examen come il punto di contatto delle diverse idee politiche dell’Illuminismo francese e della tradizione repubblicana inglese, ma a dire la verità l’autore riusciva a staccarsi con difficoltà dalla tradizionale apologia della rivoluzione isolana. La prima frase era identica a quella che apriva la Giustificazione di Salvini: «Sono più di trent’anni che i popoli dell’isola di Corsica si sono sollevati contro il governo della repubblica di Genova...». Insistente è il ritorno sui temi della tirannia, della crudeltà, della malafede dei genovesi. Ripeteva, ancora una volta, che gli isolani non erano «schiavi della repubblica di Genova, ma al contrario sudditi convenzionati» e che questa verità storica non era mai stata smentita nel corso della lunga polemica con la Dominante. Buttafoco tentava effettivamente di servirsi di formule di Rousseau, di Machiavelli e di Algernon Sidney per asserire il diritto dei suoi compatrioti alla libertà. Spiegava poi come fossero giunti alla rivolta: l’oppressione, diceva, era stata per lungo tempo così forte da impedire ogni tentativo di ribellione, ma a poco, a poco, sotto la sferza dei genovesi, «lo spirito pubblico» si era venuto formando, «l’amore della libertà» era cresciuto. Nella continua guerra, «ogni cittadino è soldato»; servizio militare che equivaleva ad una pesante imposta, ma di fronte ad essa non si erano fermati coloro «gioivano del piacere di contribuire al sostegno della causa comune». Prima dell’oppressione genovese «La nobiltà era in grado di sostenere con le sue ricchezze il lustro della nascita, non c’erano persone al limite dell’indigenza, le città erano fiorenti. Oggi esse sono deserte, le province, se abitate, sono diventate di una solitudine spaventosa. Tutto è confuso, tutto è avvilito, tutto è distrutto. Uno cerca la Corsica nella Corsica e non la ritrova più, non è più riconoscibile». Genova non aveva favorito il commercio e l’industria. Aveva schiacciato ogni iniziativa sotto i propri monopoli e il proprio fiscalismo. I genovesi avevano provveduto, per stabilire la loro tirannia, ad estirpare la «nobiltà ricca e potente» che avevano trovato nell’isola: il governatore Pinelli, nel 1729, aveva dichiarato che la nobiltà corsa non esisteva più, «e che tutti questi isolani sono per essa (Genova) di uguale condizione». Tutto quel che era rimasto dell’antica nobiltà era il rimpianto delle famiglie spossessate e, da parte dei popoli, «il ricordo di un’antica subordinazione». Né si doveva pensare che Genova avesse distrutto la vecchia aristocrazia per produrne una nuova, a lei legata e fedele. La repubblica non aveva avuto altra intenzione che quella di distruggere. La rivolta aveva precisamente avuto il compito di rovesciare una simile politica e di risolvere i problemi economici e sociali creati dal dominio genovese. In ogni momento decisivo della rivoluzione si erano viste le forze della nazione volte a migliorare la situazione dell’economia e a ridare forza e potere a chi era in grado di agire in modo più efficiente per la liberazione dell’isola. All’epoca di Gaffori gli omicidi erano cessati. Nel 1748 il marchese di Cursay aveva saputo

15 ROUSSEAU J.-J., Correspondance compléte cit., vol. XXII, 1974, p. 99, 21 novembre 1764. 16 Rousseau chiedeva alla signora Boy de la Tour, residente a Lione, questo materiale il 18 novembre 1764. Dovette dunque riceverlo in dicembre. Buttafuoco gli mandò pure dei libri. Il 3 ottobre gli aveva parlato di «molte opere sulla Corsica», aggiungendo «ci sono due libri di giustificazioni della presente guerra (Natali e Salvini?); non sono fatte con mani da maestro, ma le ragioni e le lagnanze della nazione sono discusse a lungo; non manca loro che una forma scorrevole» (Correspondance générale cit., vol. XI, p. 322). 17 Sicuramente è anteriore all’estate del 1764, quando le truppe francesi vennero a presidiare le città della costa. Infatti leggiamo: «Paoli ha creato una piccola marina grazie alla quale la repubblica è ridotta allo stremo per la conservazione delle postazioni marittime, ed egli ha motivo di credere che finirà per impadronirsene se i genovesi non otterranno immediatamente dalla Francia le truppe che hanno domandato con insistenza per difendersi da una caduta inevitabile».

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mostrare con particolare energia ed abilità quello che era necessario fare; la sua «dirittura ed imparzialità» aveva persuaso gli isolani a non farsi più giustizia da sé. Ottimo era stato il suo piano di pacificazione, approvato dal consiglio del re di Francia e che avrebbe dovuto essere garantito dalla sua autorità. La colpa del fallimento del marchese di Cursay ricadeva sui genovesi, incapaci ancora una volta di vedere dov’era il loro vero interesse. Quando, poi, nel 1753, i francesi abbandonarono l’isola e Paoli venne eletto generale, si aprì in Corsica un nuovo periodo di trasformazione interna. Di nuovo, nel 1755: «l’incorruttibilità e la giustizia hanno portato la calma e la sicurezza in tutto il reame... Sotto l’attuale amministrazione i corsi sono laboriosi come non mai. Sentono i vantaggi di vivere sotto un buon reame, animato dall’attrattiva del bene, dalla sicurezza della protezione... Fanno enormi sforzi per migliorare l’agricoltura, l’industria, il commercio più di quanto possano permettere i mezzi del paese. Posso assicurare che prima di due anni la produzione dell’isola sarà raddoppiata, perché è stato incoraggiato il lavoro e garantite tutte le facilitazioni per procurarsi la maggior quantità di derrate che può produrre il paese». Merito certo di chi governava l’isola, di un uomo «Che comanda per merito, dotato delle più eminenti qualità per governare, occupato senza tregua a ristabilire l’ordine, la giustizia, le leggi e la religione che la tirannia aveva calpestato, e che non ha altre ambizioni se non quella di rendere la patria fiorente e felice, liberandola dal giogo crudele che essa ha portato negli ultimi quattro secoli». Elogio magniloquente di Paoli, ma poco incisivo. Ma, come nella Memoria scritta a Vescovato, Buttafoco insisteva sulla necessità di stabilire dei limiti costituzionali ad ogni potere, suggerendo implicitamente che sarebbe stato necessario limitare quello di Paoli: «Non è naturale che coloro che presiedono alla società abbiano un potere troppo esteso. Potrebbero fare del male impunemente e l’uomo purtroppo è facilmente trasportato dalle sue passioni. Allo stesso modo la potenza della gente in piazza dovrebbe essere limitata. Non si devono prendere meno precauzioni contro le loro [dei capi] irregolarità che contro quelle del popolo». Insisteva sulla necessità di stabilire un governo della legge: scopo del potere doveva essere la virtù e la sicurezza di tutti, non quello di «soddisfare l’ambizione» di chi governava. Solo nella pietà chi comandava doveva esser simile alla divinità. Anche nel ritratto di Paoli che Buttafoco fornì più tardi in una lettera a Rousseau, su richiesta di quest’ultimo, è evidente una certa rattenutezza, uno stare in guardia, pur nascosto sotto i finti elogi e i buoni sentimenti. Non nascondeva che il potere del generale al momento della sua elezione era stato esorbitante: «Non è stato mai assoluto di diritto, ma lo è stato di fatto. Non ha abusato di niente, ha placato questi sbalzi: ha creato dei magistrati subalterni per il diritto civile, ha eretto il consiglio supremo, dove il generale è il presidente; questo corpo rappresenta la sovranità quando l’assemblea delle pievi non è riunita». Per questa strada costituzionale, lasciava intendere Buttafoco, era necessario continuare a camminare senza altro indugio. Provocato da Rousseau, egli giungeva a prevedere la possibilità, e in qualche modo la necessità, d’una sostituzione di Paoli: «Lo stimo troppo per non pensare che diventerà volentieri cittadino nella sua patria dopo esserne stato il salvatore, se il bene della nazione lo richiedesse...mi sembra lo stesso quando il suo amore per il bene pubblico non lo trascinerà più: la gloria e la celebrità di un nome attraverso i secoli a venire lo faranno risorgere. Se l’abdicazione di Silla, dopo essere stato il distruttore della sua patria, gli ha attirato la stima e l’ammirazione dei suoi compatrioti e di tutta la terra, a maggior ragione si apprezzerebbe un tale atto dal generale dei corsi, dopo aver rotto le sbarre che imprigionavano la nazione»18. I progetti costituzionali di Rousseau ed i piani di politica estera di Buttafoco, diceva in sostanza quest’ultimo, potevano render necessario il sacrificio di Pasquale Paoli. § 5. L’atteggiamento di Paoli La reazione di Paoli nei confronti di queste vicende non era mai univoca, ma variava a seconda dei momenti e delle circostanze. Sapeva bene che nell’isola erano numerosi i Principali disposti ad ascoltare con interesse i progetti nobiliari di Buttafoco. Quando, al momento del suo ritorno in Corsica nel 1764, apparve chiaramente che questi era diventato un portavoce della politica francese, la distanza tra i due uomini si fece sempre maggiore. Eppure proprio perché Buttafoco parlava a nome di Choiseul, Paoli non poteva permettersi il lusso di rompere con lui. Quando le truppe di Luigi XV presidiavano le città costiere, era pur necessario mantenere con i francesi i migliori rapporti possibili, sempre in funzione antigenovese. Anche quando si giunse alla rottura, Paoli continuò a sperare che l’azione di Buttafoco potesse in qualche modo servire ad evitare alla Corsica le peggiori conseguenze. Dichiarò ad un inviato del governo inglese, John Stewart, nell’agosto del 1768, che considerava ancora Buttafoco un «uomo onesto». Soltanto la lotta finale separò per sempre i due uomini e mostrò palesemente le conseguenze della loro politica, impegnata l’una nell’indipendenza dell’isola e basata l’altra sulla ricerca di un legame sempre più stretto con la Francia. La rottura tra i due uomini fu allora definitiva. Non dobbiamo d’altronde dimenticare che l’intervento di Rousseau, anche se provocato indirettamente, era molto lusinghiero per Paoli e poteva contribuire in gran misura a dimostrare all’Europa la bontà della causa corsa19. Né è da escludere un autentico interesse del Generale per le idee politiche di Rousseau, contrarie sui punti essenziali, come presto poté verificare, a quelle di Buttafoco. Paoli si prestò dunque di buona grazia ad invitare Rousseau e ad incaricarlo d’un lavoro legislativo, anche se Buttafoco aveva fatto da tramite. Gli parlava nella sua lettera — che non abbiamo più, ma di cui possiamo leggere un riassunto che ci ha dato A. Burnaby — della «Mitezza del 18 ROUSSEAU J.-J., Correspondance compléte cit., vol. XXII, 1974, p. 35, 10 novembre 1764. 19 Una testimonianza curiosa ci è fornita da LEMBERG M., Le memorial d’un Mondaini, Capo Corso 1774, p. 47. A casa di Rivarola nel 1769, Clemente, il fratello di Pasquale Paoli, gli avrebbe detto «A proposito di Rousseau di Ginevra: non è affatto l’uomo di cui ha bisogno la Corsica per ricevere un codice di leggi; avevo proposto a mio fratello di chiamare Wilkes per questa impresa, ma lui disse che il genio di Rousseau era superiore...Io lo credevo, risposi, ma Wilkes sa essere libero».

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clima, dei favori che dovrebbe aspettarsi e l’onore e la stima che riceverebbe dalla gente in caso che venisse presso di loro. Questi desiderava soltanto una cosa da lui, ovvero che non s’intromettesse con la religione e gli affari della Chiesa»20. Da tutti questi contatti Rousseau dovette ben presto trarre la conclusione che il problema era più complesso e difficile di quanto egli non avesse pensato. Una cosa era proclamare teoricamente la Corsica suscettibile di legislazione ed un’altra era farsi un’idea chiara della reale consistenza dello Stato governato da Paoli. Era questo sufficientemente solido e indipendente perché valesse la pena di tentare di riorganizzare la struttura in forma costituzionale? E che politica avrebbero dovuto seguire i corsi rispetto ai francesi che, proprio mentre egli andava così indagando e meditando, avevano fatto il passo decisivo di stabilirsi a Bastia, Calvi, Ajaccio, ecc.? I problemi che gli poneva la personalità di Paoli impallidivano di fronte a questi fondamentali quesiti. Il 27 ottobre 1764 Lenieps gli scriveva da Parigi: «I corsi sono tranquilli? Il partito di Paoli ha trionfato su tutti gli ostacoli? I tempi non sono pronti per questa legislazione». Nel settembre del 1764 Rousseau aveva scritto a Buttafoco che i corsi «con un capo come quello che hanno...non dovrebbero temere nulla dai genovesi», mentre l’atteggiamento di «un così buon patriota» come Buttafoco, era per lui una garanzia che l’isola non aveva nulla da temere dai francesi. Restava pur vero che l’indipendenza dell’isola sarebbe stata assicurata solo il giorno in cui l’avrebbero riconosciuta tutte le altre potenze. Valeva davvero la pena di lavorare ad una legislazione della Corsica prima di ottenere una simile garanzia? Prima di decidersi bisognava sapere «ciò che la Francia vuole fare di questa povera gente», scriveva al principe L. E. di Wurtenberg. Buttafoco cercava di rassicurarlo, il 3 ottobre, dicendogli che riponeva le proprie speranze in una «neutralità perfetta» delle truppe di Luigi XV. Al massimo esse sarebbero servite per una mediazione. Pur senza riconoscimenti espliciti, l’esistenza dello Stato corso era ormai un fatto accettato, diceva, da molti stati vicini: «Il Papa ha mandato un visitatore apostolico al governo nazionale. La Toscana è tutta per noi; i bastimenti di questa nazione vengono sulle nostre coste per fare dei piccoli commerci; essi ci portano tutto quello di cui abbiamo bisogno, perfino le munizioni di guerra, senza che i genovesi osino controllarli. La bandiera corsa è ricevuta, considerata, protetta a Livorno... I re di Napoli e di Sardegna permettono ai loro sudditi di commerciare con noi...». Bisognava approfittare di questa favorevole situazione per concentrare tutta l’attenzione sui problemi interni, economici e politici. Posizione che coincideva con quella di Paoli in quei mesi, nell’inverno 1764-65. Ma anche un programma simile rendeva un suono diverso sulla bocca di chi, come Buttafoco, sperava di potersi servire della Francia per portare a compimento le sue idee politiche, sociali e costituzionali. § 6. La Corsica come Repubblica Nonostante tutti i dubbi e le incertezze, Rousseau non rinunciò al compito che si era assunto. Tra il gennaio e il settembre del 1765 scrisse il suo Projet de constitution pour la Corse. Non lo pubblicò mai, né lo inviò a coloro ai quali era destinato. Rimasto sconosciuto ai contemporanei, il Projet non è soltanto un documento del pensiero politico di Rousseau, ma un’opera rivoluzionaria rispetto a tutte le altre scritte dal ginevrino: analizzandola per grandi temi, infatti, noteremo sia la similitudine di alcuni passi con il Contratto sociale, sia l’enorme differenza, rispetto a quest’ultimo, nella concezione dell’aristocrazia. Rousseau, pur essendo convinto che “legittimi” fossero solo gli stati conformi ai princìpi delineati nel Contratto sociale, ritenne possibile dare a tutti i popoli una costituzione repubblicana. Alcuni gli sembravano a priori inetti a riceverla, altri li reputava già troppo avanzati sulla via della decadenza perché potessero ancora assumersi i gravi compiti della libertà repubblicana. L’ordine repubblicano può essere introdotto solo nel momento in cui il popolo avverte già un bisogno di socializzazione, ma non ha ancora perduto completamente la «semplicità naturale». Rousseau chiama questo periodo la «giovinezza di un popolo» e paragona il momento più adatto per la costituzione dello Stato repubblicano allo sviluppo razionale seguente alla fase educativa dell’individuo. Rousseau non esclude certamente le rivoluzioni, ma ne limita la possibilità di successo ai popoli ancora “barbari”, e come esempi cita il rinnovamento di Sparta ad opera di Licurgo, Roma dopo la cacciata dei Tarquini, l’Olanda e la Svizzera dopo la sconfitta dei tiranni. Nella premessa del Progetto, Rousseau afferma che «Ci sono popoli che, qualunque strada si scelga, non possono essere governati bene perché la legge da loro non fa presa, e un governo senza legge non può essere un buon governo. [Il popolo corso], al contrario, mi sembra dotato delle più felici disposizioni naturali per accogliere una buona amministrazione»21. I corsi possono tranquillamente aspirare all’istituzione di un regime repubblicano proprio perché, come i popoli per certi aspetti ancora barbari, conservano il ricordo e il sentimento vivo dell’indipendenza, ed obbediscono controvoglia solo perché costretti. I popoli già civilizzati, invece, proprio perché hanno disimparato ad amare la legge e la libertà civile, sono perduti per sempre. La loro rivolta non potrebbe più appoggiarsi al sentimento naturale della libertà, dato che non riescono più a riconoscerla. I corsi, invece, costretti a sopravvivere con le loro forze e pieni di ardore nel difendere la loro libertà, sono riusciti ad unirsi più degli altri popoli e questo non può che suscitare l’ammirazione di Rousseau: «Bravi corsi, chi, meglio di voi, sa tutto ciò che si può ricavare da se stessi? Senza amici, senza appoggi, senza denaro,

20 BURNABY A., Journal of a tour in Corsica in the year 1766, by the rev. Burnaby at that time chaplain to the British Factory at Leghorn with a series of original letters from general Paoli to the author, Luke Hansard, London 1804, pp. 20 sgg. Burnaby riportava le critiche di Paoli all’assunto stesso da cui partiva Rousseau, la disponibilità cioè della Corsica a ricevere una costituzione nuova e completa. «Egli era consapevole dell’errore che si commetteva nel creare un sistema ideale di leggi, per poi imporle al popolo; principalmente per il fatto che esso non era in uno stato maturo per ricevere un qualsiasi intero codice di leggi. Sapeva che le loro maniere dovevano essere cambiate prima di portarli a un temperamento simile, che dovevano essere preparati gradualmente, dovevano esser formati prima per una sola legge, poi per tutte le altre...». 21 Progetto di Costituzione per la Corsica, in ROUSSEAU J.-J., Scritti politici, a cura di E. GARIN, Roma-Bari 1972, p. 117.

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senza esercito, assoggettati da padroni terribili, da soli avete scosso via il giogo. Li avete visti volta a volta chiamare a far lega contro di voi i più temibili potentati d’Europa, inondare la vostra isola di eserciti stranieri; avete superato tutto. La vostra tenacia ha ottenuto da sola ciò che il denaro non avrebbe potuto ottenere...»22. Un popolo tenace, fiero e compatto, e quindi adatto ad un regime repubblicano: ma quale forma di governo poteva andar bene per un’isola grande come la Corsica? § 7. La democrazia Dopo aver fissato il momento più adatto di cui il legislatore deve tener conto, Rousseau si volge al problema dell’estensione ottimale della repubblica. Egli condanna la massima degli stati che credono di dover aumentare la propria potenza con le conquiste (Manoscritto di Ginevra, I, p. 485). Il limite inferiore risulta dal postulato russoiano dell’autarchia, mentre il limite superiore richiede delle spiegazioni più dettagliate. Il motivo per cui egli postula strutture statali relativamente piccole è che «più il legame sociale si estende, più si allenta» (C. S., II, 9). Il grande stato non può più presentare quella associazione stretta che costituisce la condizione necessaria della repubblica di Rousseau. Ma nello stesso tempo lo Stato diventa anche «relativamente più debole» perché una parte della sua energia (o l’energia del governo) dev’essere spesa per conservare la sua coesione. Con la maggiore estensione del paese anche l’amministrazione diventa più difficile, pertanto un paese povero dev’essere piccolo per il solo fatto che, altrimenti, sarebbe eccessivamente gravato da un’amministrazione onerosa. Ma dato che una relativa povertà conta fra le condizioni preliminari della costituzione di una repubblica, se ne può concludere che è necessario che tutte le repubbliche debbano avere territori relativamente piccoli. Ora, la Corsica è un’isola piuttosto grande, con accanto dei nemici sicuramente molto potenti: «Esposti dal lato della terra e da quello del mare, costretti a guardarsi da tutte le parti, che fine farebbero? Sarebbero alla mercé di tutti; impossibilitati, nella loro debolezza, a concludere un trattato commerciale favorevole, si vedrebbero dettar legge da tutti»23. Se fosse troppo debole verrebbe utilizzata come terra di conquista, ma se fosse prospera attirerebbe gli occhi dei suoi temibili vicini. Dato per fondato il carattere tenace e primitivo degli isolani, Rousseau propone una forma di governo democratica, quando, nel Contratto sociale, indicava il governo aristocratico come il più adatto agli stati di media grandezza. Perché? Sicuramente perché la democrazia è la forma di governo meno dispendiosa per un paese povero e la più favorevole all’agricoltura, unica attività che possa consentire ai corsi di mantenere l’indipendenza e la compattezza del popolo: «La forma di governo che dobbiamo scegliere è da un lato la meno dispendiosa, perché la Corsica è povera, e dall’altro la più favorevole all’agricoltura, perché l’agricoltura è per il momento la sola attività che possa conservare al popolo corso l’indipendenza conquistata dandogli la consistenza necessaria. L’amministrazione meno dispendiosa è quella che passa attraverso il minor numero di gradi gerarchici e che comporta il minor numero di classi diverse; tale è, in generale, lo Stato repubblicano, e, in particolare, quello democratico»24. Naturalmente, però, non dev’essere un governo democratico puro ad amministrare l’isola, perché essa è troppo grande: «Infatti il governo puramente democratico conviene a una piccola città più che a una nazione. Non sarebbe possibile riunire in assemblea tutta la popolazione di una regione come si riunisce quella di una città e se l’autorità suprema è affidata a deputati il governo muta diventando aristocratico. Alla Corsica conviene un governo misto, in cui il popolo si riunisca solo per gruppi e in cui i depositari del suo potere vengano spesso mutati»25. Uno dei vantaggi che Rousseau considera basilari in una forma di governo mista è che l’amministrazione poteva essere affidata solo a poche persone, favorendo così la scelta degli individui più “illuminati”. L’altro «Di far partecipare all’autorità suprema tutti i membri dello Stato, il che mettendo tutto il popolo perfettamente allo stesso livello, gli consente di spandersi su tutta la superficie dell’isola e di popolarla ovunque nella stessa misura. È questo il principio fondamentale della nostra costituzione»26. Ma che cosa intendeva esattamente Rousseau quando, come abbiamo evidenziato, parlava di uno stesso livello per tutto il popolo? È forse un attacco diretto a Buttafoco e all’aristocrazia dell’isola? § 8. La polemica contro il regime feudale Finché esisterà in Corsica una classe aristocratica che detiene il potere, sarà impossibile pervenire ad una perfetta uguaglianza di diritti: questa è la chiave di volta per poter portare a compimento l’opera legislativa proposta da Rousseau. Contrariamente a quanto pensava di fare Buttafoco, che aveva scritto deliberatamente a Rousseau con l’unico scopo di poter avere il suo appoggio autorevole per restaurare il potere delle famiglie d’antica nobiltà ed eliminare il governo di Paoli, Rousseau si scaglia duramente contro l’aristocrazia feudale e contro i corsi che rimpiangevano la sua presenza sull’isola. In una delle parti più interessanti del Projet, infatti, afferma: «[I genovesi] si sono anche dedicati alla distruzione della nobiltà, a privarla delle sue dignità, dei suoi titoli, a estinguere i grandi feudi; è una fortuna per voi che si siano incaricati dell’aspetto odioso dell’impresa: forse non avreste potuto attuarla se non l’avessero fatto loro prima di voi. Non esitate a portare a compimento l’opera loro: credendo di lavorare per sé essi lavoravano per voi. Solo il fine è ben diverso: quello dei genovesi si esauriva nella cosa stessa, mentre il vostro è nei suoi risultati. Essi volevano solo umiliare la nobiltà, mentre voi volete nobilitare la nazione. Questo è un punto su cui vedo che i corsi non hanno le 22 Ivi, p. 120. 23 Ivi, p. 117. 24 Ivi, p. 123. 25 Ivi, pp. 124-125. Questa concezione è simile a quella proposta da Buttafuoco nelle sue Memorie da Vescovato. 26 Ivi, p. 125.

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idee chiare. In tutte le memorie giustificative, nella loro protesta di Aix-la-Chapelle27, si sono lamentati che i genovesi avevano avvilito, o piuttosto distrutto, la loro nobiltà. Era senza dubbio un motivo di risentimento, ma non una disgrazia; al contrario è un vantaggio, senza cui non avrebbero la possibilità di restar liberi. Riporre la dignità di uno stato nei titoli di pochi suoi membri significa scambiar l’ombra col corpo. Quando il regno di Corsica apparteneva a Genova, poteva tornargli utile aver marchesi, conti e titolati che facessero, per così dire, da mediatori al popolo corso presso la Repubblica. Ma ora, contro chi gli sarebbero utili protettori del genere, meno adatti a salvaguardarlo dalla tirannia che a usurparla per sé, che lo affliggerebbero con le loro vessazioni e i loro contrasti, finché uno di loro, avendo assoggettato tutti gli altri, facesse di tutti i suoi concittadini i suoi sudditi?»28. Andando avanti nella lettura di queste pagine del Projet, notiamo come Rousseau distingua due tipi di nobiltà: «La nobiltà feudale, propria della monarchia, e la nobiltà politica, propria dell’aristocrazia. La prima include parecchi ordini o gradi, gli uni con titolo, gli altri senza titolo, dai grandi vassalli ai semplici gentiluomini. La seconda, al contrario, unita in un sol corpo indivisibile i cui diritti sono tutti nel corpo, non nei membri, costituisce una parte talmente essenziale del corpo politico che non può sussistere senza questo, né questo senza di lei, e tutti gl’individui che la compongono, uguali fra loro per nascita in titoli, privilegi, autorità, sono accomunati dallo stesso nome di patrizi»29. La nobiltà corsa, per i suoi titoli e per gli estesi feudi che possedeva, con alcuni diritti che rasentavano la sovranità, rientrava sicuramente nella prima classe, derivando probabilmente le sue origini dagli antichi conquistatori arabi o francesi, o addirittura dalle famiglie degli antichi papi che governarono l’isola. Questo genere di nobiltà, secondo Rousseau: «Rientra tanto poco in una repubblica democratica o mista che neanche può essere ammesso in un’aristocrazia, in quanto l’aristocrazia riconosce solo dei diritti di corpo, non dei diritti individuali. La democrazia non riconosce altra nobiltà, dopo la virtù, che la libertà, come l’aristocrazia non conosce altra nobiltà che l’autorità»30. Da qui il consiglio di Rousseau di lasciare a tutti gli altri stati i titoli di marchesi e di conti, poiché sono un’offesa per i semplici cittadini: «La legge fondamentale della vostra costituzione dev’essere l’uguaglianza. Tutto deve riferirsi ad essa, persino l’autorità, che è istituita solo per difenderla; tutti devono essere uguali per diritto di nascita. Lo Stato deve accordare distinzioni solo al merito, alle virtù, ai servizi resi alla patria, distinzioni che non devono essere ereditarie più di quanto non lo siano le qualità su cui si fondano»31. In ragione di questo fatto, Rousseau consiglia ai corsi di abolire per sempre il sistema feudale: «Tutti i feudi, gli omaggi, i canoni e i diritti feudali in precedenza aboliti resteranno dunque aboliti per sempre e lo Stato riscatterà quelli che ancora sussistono, dimodoché tutti i titoli e diritti feudali risulteranno estinti e soppressi nell’intera isola»32. Il Progetto di costituzione per la Corsica costituisce un caso unico tra gli scritti politici di Rousseau proprio per la sua ferrea contrapposizione al sistema aristocratico d’Ancien Régime. Ma fino a che punto Rousseau si era scagliato contro la feudalità prima della Rivoluzione corsa? E perché soltanto in quest’opera si avverte un astio profondo, radicato, contro la classe nobiliare? a) La polemica antiaristocratica nelle opere precedenti al “Progetto di costituzione per la Corsica” Già nel Discorso sull’origine della disuguaglianza, Rousseau aveva affermato che le prime società umane si erano governate aristocraticamente (l’antica aristocrazia era quella degli anziani tra gli Ebrei, dei geronti a Sparta e del senato a Roma), ma che con il passare del tempo: «L’ambizione dei maggiorenti profittò di tali circostanze per perpetuare le loro cariche nelle famiglie; il popolo, già avvezzo alla soggezione, alla quiete e ai comodi della vita, e già incapace di spezzare le sue catene, consentì a lasciar aumentare la sua schiavitù per consolidare la sua tranquillità: e così i capi, divenuti ereditari, s’avvezzarono a considerare se stessi come i proprietari dello Stato, di cui in origine non erano che ufficiali; a chiamar loro schiavi i cittadini; a contarli, come bestiame, nel novero delle cose che loro appartenevano; e a chiamare se stessi uguali agli dei e re dei re. (...) Se seguiamo il progresso della disuguaglianza in queste diverse rivoluzioni, troveremo che la fondazione della legge e del diritto di proprietà ne fu il primo termine, l’istituzione della magistratura il secondo, e il terzo e ultimo fu il cambiamento del potere legittimo in arbitrario; di modo che la distinzione di ricco e povero fu legittimata dalla prima epoca, quella di potente e debole dalla seconda, e dalla terza quella di padrone e schiavo, che è l’ultimo grado della disuguaglianza, e il termine cui mettono capo infine tutti gli altri, fin che nuove rivoluzioni dissolvano del tutto il governo e lo ravvicinino alla legittima istituzione»33. Proseguendo nella lettura del Discorso, Rousseau faceva notare che le distinzioni principali nella società erano la ricchezza, la nobiltà, la potenza e il merito personale, ma non spiegava esattamente in cosa consistessero queste differenze. La ricchezza era quindi la causa della distinzione sociale tra gli uomini, ma soprattutto era l’origine del predominio politico dei potenti sui più deboli. Nel Discorso sull’Economia politica, Rousseau continuava ad affrontare questo tema affermando che: «Ciò che in un governo è più necessario e forse anche più difficile è quella ferma integrità che permette di render 27 La pace di Aix-la-Chapelle o di Aquisgrana del 1748, al termine della guerra di Successione austriaca, ristabiliva il dominio genovese in Corsica. 28 Progetto cit., p. 126. 29 Ivi, p. 127. 30 Ibid. 31 In uno dei Frammenti sparsi del Progetto troviamo una nota molto interessante, riferita ancora una volta alla necessità di disfarsi della nobiltà isolana: «D’onde vennero alla Corsica i dissensi, le dispute, le guerre civili che la straziarono per tanti anni e la costrinsero infine a ricorrere ai Pisani prima, ai genovesi poi? Non fu tutto ciò opera della sua nobiltà, non fu questa a ridurre il popolo alla disperazione, forzandolo a preferire una tranquilla schiavitù ai mali che soffriva sotto tanti tiranni? E il popolo, dopo aver scosso il giogo, vorrà ora tornare alla condizione che lo obbligò a subirlo?» (ibid.). 32 Ivi, p. 128. 33 Discorso sulle origini della disuguaglianza, in ID., Scritti politici cit., v. I, pp. 72-73.

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giustizia a tutti e soprattutto a proteggere il povero dalla tirannia del ricco. Il peggiore dei mali è già stato commesso se già ci sono dei poveri da difendere e dei ricchi da tenere a freno. È soltanto su una condizione media che si può esercitare completamente la forza delle leggi; esse sono egualmente impotenti sia contro i tesori del ricco che contro la miseria del povero; il primo la elude, il secondo la sfugge; l’uno rompe la tela, l’altro ci passa attraverso»34. In un altro punto della stessa opera troviamo invece: «Tutti i vantaggi della società non sono forse per i potenti e per i ricchi? Tutte le operazioni lucrative non sono forse in mano loro? Tutte le grazie, ogni esenzione, non sono forse a loro uso esclusivo? E l’autorità pubblica non assume forse sempre un atteggiamento favorevole nei loro confronti? (...) Com’è differente la situazione del povero!...Se vi sono corvées o milizie da radunare, è sempre a lui che viene accordata la preferenza; è sempre costretto ad addossarsi oltre ai suoi pesi anche quelli del suo vicino, che, essendo più ricco, è in grado di farsene esentare...Deve reputarsi fortunato se riesce a sfuggire ai soprusi del seguito manesco del giovane duca..Riassumiamo in poche parole il patto sociale dei due stati: Tu hai bisogno di me perché io sono ricco mentre tu sei povero; facciamo dunque un accordo tra di noi: io ti concedo l’onore di servirmi, ma a condizione di consegnarmi quel po’ che ti resta, per ripagarmi della fatica che mi costerà il darti degli ordini»35. Poveri e ricchi, dunque, come sinonimo di potenti e deboli, ovvero di detentori di diritti politici ed esenti dagli stessi, non per una questione di merito o demerito, ma per ragioni di potenza.. Bisogna arrivare al Contratto sociale per avere dei chiarimenti e delle prese di posizione più precise: nel quarto paragrafo del primo libro (Della schiavitù), c’è un riferimento al sistema feudale: «I combattimenti particolari, i duelli, gli scontri, sono atti che non costituiscono uno stato; e quanto alle guerre private, autorizzate dalle istituzioni di Luigi IX re di Francia, e sospese dalla tregua di Dio, sono abusi del governo feudale, sistema assurdo se mai ve ne fu, contrario ai principi del diritto naturale e a ogni buona costituzione di stato»36. Sempre nel Contratto sociale, ma nel terzo libro, Rousseau passa alla descrizione dei diversi tipi di governo, avendo già affermato, però, che essi presuppongono la repubblica come la sola forma legittima di stato37. Il patto sociale, che aveva garantito l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini in quanto sovrani e sudditi, eliminava il problema di un’usurpazione di principio del potere politico. Nel paragrafo riguardante l’aristocrazia, oltre a riprendere l’argomento già trattato nel Discorso sull’origine della disuguaglianza relativo alle sue antiche origini, Rousseau tenta di dare una spiegazione alle cause della sua degenerazione: «Ma, a misura che la disuguaglianza d’istituzione la vinse sulla disuguaglianza naturale, la ricchezza o il potere furono preferiti all’età, e l’aristocrazia divenne elettiva. Infine il potere, trasmesso coi beni dal padre ai figli, nel rendere patrizie le famiglie, rese il governo ereditario, e si videro senatori di venti anni». In parole povere, Rousseau non condannava l’aristocrazia in sé, come forma di governo, ma il principio della sua ereditarietà: «Vi son dunque tre specie di aristocrazia: naturale, elettiva, ereditaria. La prima non conviene che a popoli semplici; la terza è il peggiore di tutti i governi. La seconda è il governo migliore: è l’aristocrazia propriamente detta». L’aristocrazia elettiva garantiva la scelta di membri illuminati e capaci, permettendo ai migliori di governare lo Stato. In una repubblica così composta dovevano emergere gli spiriti più elevati per qualità morali e personali, non soltanto per eredità o per ricchezza. Mettendo in luce l’uguaglianza di diritto dei cittadini, Rousseau non pensava nemmeno lontanamente ad una uguaglianza di fatto dei loro beni e della loro condizione economica. Rousseau era piuttosto propenso all’ideale di una repubblica meritocratica, dove la “virtù” sarebbe servita da discriminante nella scelta delle persone più adatte al governo dello Stato. La polemica antifeudale non deriverebbe, quindi, soltanto da una semplice polemica contro le ricchezze o i titoli, ma dall’idea stessa di aristocrazia come governo dei migliori. I migliori sono coloro che riescono a sacrificare il proprio interesse personale in nome dell’utilità pubblica: non una nobiltà da lasciare in eredità ai discendenti, né una ricchezza o un potere senza limiti, bensì la pubblica stima e gli “onori” che discendono dal servizio reso allo Stato. Lo stesso potere politico deve essere quindi servizio e ricompensa, frutto della preferenza accordata al merito e fonte, per chi lo detiene, di obblighi e di riconoscenza. Su questa base, nel Contratto sociale, Rousseau argomenta l’eccellenza del governo aristocratico elettivo. Rousseau considera errato il potere dell’aristocrazia feudale sia nel principio dell’ereditarietà del potere, sia nella sua attuazione pratica, in quanto non è il governo dei migliori, cioè dei virtuosi, ma il governo dei titolati.

34 Discorso sull’Economia politica, in ID., Scritti Politici cit., p. 111. Inevitabile il richiamo al Contratto sociale, II, 11: «Se volete dunque dare solidità allo Stato, riavvicinate i grandi estremi per quanto sia possibile; non tollerate né gente opulenta né pezzenti. Questi due stati, naturalmente inseparabili, sono ugualmente funesti al bene comune; dall’uno escono i fautori della tirannia, dall’altro i tiranni: fra essi sempre si fa traffico della libertà pubblica: uno la compra, l’altro la vende». 35 Ivi, p. 118. Questo passo fu ripreso da MARX K., Il Capitale, I, 8, 30: «Io permetterò — dice il capitalista — che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che mi concediate il poco che vi resta, per la pena che prenderò a comandarvi». Il termine capitalista è aggiunto da Marx. 36 Contratto sociale, I, 4, in ID., Scritti politici cit., p. 282. 37 Vedi Contratto Sociale, II, 6, ivi, p. 127. «Ogni governo legittimo è repubblicano». La divisione dei governi concerne solo il numero delle persone incaricate dell’amministrazione del potere esecutivo, mentre la legislazione non può che appartenere al popolo.

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Figura 29: l’Europa attorno al 1740. b) Le Considerazioni sul governo di Polonia Appena cinque anni dopo la stesura del Progetto di costituzione per la Corsica, Rousseau era stato interpellato da Wielhorski, agente della confederazione di Bar, per esporre le sue idee sulla difficile situazione della Polonia: le Considérations sur le Gouvernement de Pologne et sur sa réformation projetée (Considerazioni sul governo di Polonia e sul suo progetto di riforma), vennero completate tra l’ottobre del 1770 e il giugno del 1771. La struttura politica della Polonia era in piena crisi: la nobiltà feudale controllava completamente il potere esecutivo. Nonostante ci fosse una distanza abissale tra i grandi signori dell’aristocrazia, che di fatto governavano il paese (come i Czartoryski, i Potocki e i Radziwill) e la piccola nobiltà di campagna (la szlachta, che comunque aveva il diritto di voto nella dieta locale, poteva pretendere tutti i privilegi giuridici della grande nobiltà e tiranneggiare i contadini), di fatto tutta la classe nobiliare polacca aveva il completo controllo delle istituzioni. In seguito all’elezione di Stanislao-Augusto Poniatowski (1764), il paese era ormai allo sbando. Nel 1768, un movimento d’opposizione al re e alla politica d’occupazione di Caterina II di Russia (di cui Poniatowski era l’amante), si riunì a Bar sotto forma di “Confederazione” (che aveva il diritto, secondo le abitudini dei polacchi, di proclamare lo Stato d’assedio nella Repubblica). Conservatori, fedeli alla causa nazionale, cattolici, opposti alle riforme progettate dal re, desiderosi di riportare in Polonia le vecchie leggi della repubblica, i nobili della Confederazione si trasformarono in insorti armati e, dopo due anni di esitazione e di confusione, riuscirono a riprendere le redini del paese. Agli occhi di Rousseau, la Polonia aveva una tradizione singolare e si domandava come avesse fatto «uno stato costituito in modo così bizzarro ad esistere per così lungo tempo»38. Fenomeno tanto più sorprendente in quanto, ovunque in Europa, erano andati moltiplicandosi i segni d’una generale decadenza di tutte le forme politiche esistenti. «Io vedo tutti gli stati d’Europa correre alla propria rovina». In mezzo a un simile deperimento generale la Polonia, «questa regione spopolata, devastata, oppressa, aperta ai suoi aggressori», spiegava invece tutta la sua energia e operava per il proprio rinnovamento: «È in catene e discute i mezzi per conservare la libertà»39. Bisognava accettare e sviluppare un simile slancio. Non alla scienza, non all’interesse si

38 ROUSSEAU J.-J., Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projetée, in Œuvres, a cura di GAGNEBIN B. e RAYMOND

M., Paris 1964, vol. III, p. 951. 39 Nel Contratto sociale (III, 11), Rousseau aveva svolto il tema dell’inevitabile morte del corpo politico, presentando come causa di morte il venir meno del potere legislativo, che è il cuore dello Stato, mentre al cervello dello Stato era paragonato il potere esecutivo. Qui si esprime la fiduciosa convinzione che, a differenza di quanto avviene nei grandi Stati europei, solo in apparenza fiorenti, in Polonia la volontà generale operi ancora, mantenendo la capacità di darsi leggi buone che vincano l’azione corrosiva esercitata dai cattivi governi. Sempre nel Contratto sociale (II, 8) la perdita della libertà era considerata irreparabile, salvo casi rarissimi, in cui il popolo rinasce dalle sue ceneri. Non pare sia questo il caso della Polonia:

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doveva fare appello, ma al cuore: bisognava procedere con gran circospezione, per non rischiare di indebolire o recidere ciò che permetteva alla Polonia di sopravvivere e di combattere. Tutti criticavano l’anarchia. Ma non bisognava dimenticare che: «Le anime di patrioti che vi hanno salvato dal giogo si sono formate in seno all’anarchia che vi riesce odiosa»40. I polacchi, come aveva detto Stanislao Leszczynski, dovevano preferire la «pericolosa libertà», alla «pacifica schiavitù». La repulsione per un incivilimento portato alla conquista, che già aveva spinto Rousseau a schierarsi con i corsi in lotta contro Luigi XV, così come la sua sempre più accentuata polemica con i philosophes, sboccavano qui in un appello alla rivolta, all’originalità, all’indipendenza della Polonia. Era convinto che il pericolo che sovrastava quel paese era terribile: non rischiava soltanto di perdere la guerra e di essere invaso, ma addirittura di perdere la propria anima, di rinnegare le proprie tradizioni e di confondersi con il mondo circostante. Come i corsi gli erano apparsi qualche anno prima l’unico popolo in Europa ancora capace di libertà, così i polacchi erano gli unici capaci di difendere «una fisionomia nazionale». Gli altri popoli in Europa si somigliavano quasi tutti, ma i polacchi avevano conservato un’istituzione particolare, che permetteva loro di mantenere una «forma nazionale». I loro nemici erano perciò tanto più pericolosi in quanto si presentavano come benefattori politici, sociali, economici. Rousseau spingeva i polacchi ad allontanare il più possibile i russi dai confini, ed insieme a loro tutte le usanze che li caratterizzavano: all’imitazione bisognava contrapporre lo sviluppo delle forze contenute nella tradizione nazionale. Un nobile orgoglio doveva guidare la nazione. Solo così essa avrebbe ripreso «tutto il vigore di una nazione nascente». Ma come operare una simile rinascita? Rousseau non nasconde le contraddittorietà del suo assunto, del suo programma conservatore e rinnovatore insieme. Le sue soluzioni non vogliono essere dei compromessi, ma degli avviamenti ad una mutazione profonda. Il fatto che la Polonia fosse uno stato grande era un «vizio capitale», perché tutti i grandi popoli gemevano «schiacciati dalle loro masse». Era quindi indispensabile ristringere i confini. Forse proprio grazie alla guerra si sarebbe giunti a «una confederazione di trentatré piccoli stati», unendo così «la forza delle grandi monarchie e la libertà delle piccole repubbliche». Ma Rousseau sapeva bene che in Polonia una simile soluzione era particolarmente difficile, perché ogni riforma rischiava di aprire la strada al nemico. Il punto fermo, dal quale non bisognava deviare, era uno solo: mantenere la costituzione. Rousseau si metteva sulla via delle riforme, ma dichiarava tuttavia fermamente di volerne mantenere i fondamenti: «Ah, non lo ripeterò mai abbastanza, pensateci bene prime di modificare le vostre leggi, soprattutto quelle che hanno fatto di voi ciò che siete». I re dovevano restare elettivi, e bisognava conservare i tre elementi essenziali della struttura politica del paese: la dieta dei nobili, il senato e la monarchia: «La repubblica di Polonia, si è spesso detto e ripetuto, è composta di tre ordini: l’ordine equestre, il senato e il re. Io preferirei dire che la nazione polacca si compone di tre ordini: i nobili, che sono tutto; i borghesi, che non sono nulla; i contadini, che sono meno di nulla». Rousseau sosteneva che la nobiltà avrebbe dovuto conservare il monopolio del potere politico: «Ma in Polonia, togliete l’ordine equestre e non c’è più senato, perché nessuno può essere senatore se non è prima nobile polacco (...) il re stesso, che presiede la Dieta, non ha allora il diritto di votare se non è un nobile polacco». Ma anche se la nobiltà polacca aveva l’obbligo di mantenere il potere, doveva ugualmente cercare di aprire le sue porte alla borghesia, attraverso una costante opera di allargamento dei ranghi e grazie ad una politica volta al bene dello Stato: «Nobili polacchi, siate qualcosa in più: siate uomini! Solo allora sarete felici e liberi, ma non vi illudete mai di esserlo finché terrete i vostri fratelli in catene». La liberazione delle plebi dei servi sarebbe stata una «grande e buona opera», ma non in quel momento; bisognava prima educarli alla libertà e proprio alla nobiltà spettava questo compito: «Prima di tutto bisogna renderli degni della libertà e capaci di tollerarla i servi che si vogliono liberare. Esporrò più oltre uno dei mezzi che si possono impiegare a tal fine (...) Ma qualunque esso sia, ricordatevi che i vostri servi sono uomini come voi, che hanno in sé la stoffa per divenire tutto ciò che siete: cominciate col puntare su questo e liberate i loro corpi solo quando avrete liberato le loro anime». Rousseau proponeva alla nobiltà polacca di adottare «il Libro d’Oro di Venezia» e l’idea, veneziana anch’essa, di aprire «alla borghesia la porta della nobiltà e degli onori» attraverso le cariche affidate ai cittadini: in parole povere, Rousseau cercava di modificare la struttura politica della Polonia, ma senza stravolgere immediatamente la sua legislazione: prima bisognava garantire la sopravvivenza del paese, difeso dalla confederazione dei nobili, poi riformare gradualmente il sistema feudale in una forma mista tra monarchia e aristocrazia, sotto l’egida di un governo repubblicano. La Polonia non doveva fare altro che sostituire lentamente ad un sistema aristocratico-feudale un sistema aristocratico-meritocratico. È significativo che Rousseau abbia consigliato ai polacchi di evitare una monarchia ereditaria: «Per esprimere in poche parole il mio parere in proposito, ritengo che una corona elettiva col più assoluto potere sarebbe sempre meglio, per la Polonia, di una corona ereditaria con potere quasi nullo. Al posto di questa legge fatale che renderebbe la corona ereditaria ne proporrei una nettamente contraria che, se venisse accolta, manterrebbe la libertà della Polonia. Consisterebbe nel prescrivere con una legge fondamentale che mai la corona passi dal padre in figlio e che ogni figlio di re di Polonia resti escluso per sempre dal trono (...) sottraendo al re ogni speranza di usurpare e trasmettere ai figli un potere arbitrario, si trasferisce tutta la loro attività verso la gloria e la prosperità dello Stato, unica prospettiva che resti aperta alla loro ambizione». Ma a prescindere da questo provvedimento particolare, lo Stato stesso doveva essere conformato in modo da suscitare e dirigere verso le mete più alte l’ambizione di ogni cittadino. A ciò si richiedeva che, per principio, ogni posto nello Stato fosse accessibile a chiunque, nei limiti del possibile. In Polonia anche al re doveva rimanere sino alla fine della sua vita una possibilità di “promozione”: la sentenza emessa

la Polonia in catene non ha perduto la libertà di decidere: lotta per conservarla. Nell’inverno ‘70-71, quando Rousseau scriveva, la lotta pareva tra l’altro promettere un esito favorevole ai polacchi che validamente contrattaccavano giungendo persino a passare all’offensiva contro la Russia. 40 ROUSSEAU J.-J., Considérations sur le gouvernement cit., in Œuvres, p. 954.

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dopo la sua morte da un tribunale convocato espressamente a questo fine, poteva dichiararlo “principe giusto e buono” e concedere alla famiglia una serie di onori e privilegi, ovvero cancellarne il nome dal registro dei re di Polonia se egli aveva regnato male, se cioè aveva attentato alla libertà pubblica41. Rousseau, quindi, nonostante trovasse una terra ancora governata dalla grande aristocrazia feudale e una monarchia controllata dalla nobiltà, cercava di portare lentamente queste strutture verso un sistema elettivo, basato sul merito. Come ha affermato Irvin Fetscher42 «in Rousseau l’ambizione di ogni cittadino può dunque trovare davanti a sé un campo d’azione illimitato che però consiste esclusivamente nel servizio della comunità: «Perché ognuno veda libera davanti a sé la strada per arrivare ovunque...»43. L’uguaglianza postulata da Rousseau non significa dunque livellamento completo della cittadinanza, ma solo un’uguaglianza di chances. In Corsica come in Polonia, Rousseau prevede una stratificazione legale della popolazione e, nel caso della Polonia, non intende nemmeno abolire ad un tratto la servitù della gleba né la nobiltà, pur considerando almeno la prima come un male. Ma anche fra i cittadini di prima classe vuole introdurre un’ulteriore gerarchia che favorisca l’ambizione. Il desiderio di onore che anima i cittadini dello Stato (e, in Polonia, soprattutto i nobili) è una sorgente inesauribile per il popolo. Così ogni membro del Magistrato deve, per esempio, appartenere a una gerarchia riconoscibile anche esteriormente da placche di metallo. La classe più bassa porta placche d’oro, la più alta d’acciaio azzurro, affinché mediante quest’inversione della stima del valore dei metalli si rendano ben consapevoli i cittadini44 che il bene più grande non è la ricchezza ma l’onore di aver servito lo Stato virtuosamente e felicemente. I tre gradi si chiamano servitore dello Stato, cittadino d’elezione e guardiano delle leggi. Anche se, per principio, ogni funzionario può pervenire al grado di guardiano delle leggi, solo pochissimi raggiungeranno quel rango supremo. I membri di una gerarchia formano nello stesso tempo delle corporazioni politiche che assolvono determinate funzioni: i cittadini d’elezione per esempio, devono costituire il tribunale chiamato «a sentenziare sulla condotta di governo del defunto re». Ma al di là di questi esempi, è evidente che Rousseau aveva in mente uno stato meno ieratico e più fluido, in cui la nobiltà feudale doveva lasciare gradualmente i titoli ereditari per acquisirne altri sulla base dei servizi resi alla patria, in cui la monarchia poteva essere giudicata sulla base del suo operato, in cui anche ai semplici borghesi fosse consentito il passaggio alle classi nobiliari. Un lento cambiamento, non una rivoluzione. Qui non si parla di distruzione della nobiltà, ma di una sua evoluzione, di una sua apertura. Perché allora il tono che ha usato Rousseau nel Progetto di costituzione per la Corsica sembra tanto diverso? Anche nel Projet aveva consigliato ai corsi di «accordare distinzioni solo al merito, alle virtù, ai servizi resi alla patria, distinzioni che non devono essere ereditarie più di quanto non lo siano le qualità su cui si fondano», ma aveva anche detto: «non esitate a portare a compimento l’opera loro (cioè dei genovesi)» nell’eliminazione dei titoli, delle dignità e dei feudi nobiliari: Il cambiamento di tono e di contenuto è evidente. Sia la Corsica che la Polonia erano accerchiate da nemici potenti e rischiavano l’invasione straniera: ma in Corsica era già in atto una rivoluzione, la feudalità era già stata eliminata quasi del tutto e la struttura interna era pronta per una forma di governo democratica. La Polonia, invece, doveva prima salvare la sua identità nazionale (messa in pericolo dall’ingerenza russa) con l’aiuto dell’aristocrazia e solo in un secondo momento doveva cercare di modificare la sua struttura politica, estendendo alla borghesia la gestione del potere. Questa è la spiegazione più verosimile. D’altronde la Corsica rappresentava per Rousseau l’unico campo di prova delle sue teorie politiche: il paese sembrava aver realizzato già prima del suo progetto di legislazione tutte le riforme che avrebbero garantito l’ordine interno e l’uguaglianza dei diritti. Il grado di maturazione e di compattezza raggiunto dalla Corsica non era paragonabile a quello di nessun altro paese europeo. L’isola lottava da quarant’anni per la sua autonomia, e le riforme del governo indipendentista la rendevano pronta per un sistema democratico. Solo in un secondo momento la Corsica avrebbe potuto «darsi un’amministrazione più brillante». Il governo aristocratico che Rousseau auspicava per l’isola era un governo meritocratico in cui i migliori, coloro cioè che più avevano contribuito al bene della patria, dovevano preoccuparsi dell’amministrazione senza rilanciare vecchi titoli e privilegi ereditari, ma solo il servizio al bene comune. In Polonia questo messaggio doveva essere temperato dall’augurio che la feudalità, superate le difficoltà contingenti, fosse disposta ad allargare le fila alla borghesia cittadina: prima di tutto perché il paese avrebbe rischiato il collasso e poi perché, tolta la nobiltà con le sue diete, i suoi privilegi e le sue strutture, non sarebbe sopravvissuto nemmeno lo Stato. In parole povere, La Corsica era già matura per una costituzione, mentre la Polonia poteva arrivare ad una maturazione politica soltanto dopo essersi salvaguardata dal disfacimento. Questo non poteva trattenere Rousseau da una partecipazione viva e profonda alla causa dei ribelli corsi, che erano riusciti, «senza amici, senza appoggi, senza denaro, senza esercito» a togliere il giogo dei genovesi e a stabilire un regime di uguaglianza. c) L’atteggiamento di Rousseau verso l’aristocrazia feudale nelle Confessioni. La spiegazione di questo “sbilanciamento” antiaristocratico nel Progetto di costituzione per la Corsica non può essere giustificata soltanto dalla particolare situazione storica dell’isola. Si tratta di capire perché Rousseau si sia mostrato

41 Ivi, p. 1255. 42 FETSCHER I., La Filosofia politica di Rousseau cit., p. 177. 43 ROUSSEAU J.-J., Considérations sur le gouvernement cit., p. 1057. 44 Cfr. a questo proposito la svalutazione dei metalli nobili nell’Utopia di Tommaso Moro: «Poiché, mentre (gli Utopiani) mangiano e bevono in vasi di creta o di vetro, bellissimi senza dubbio, ma di nessun valore, dell’oro e dell’argento, non negli alberghi comuni soltanto, ma anche nelle case private, fanno comunemente vasi da notte o destinati agli usi più vili, e inoltre si formano con gli stessi metalli anche catene e grossi ceppi per legare gli schiavi. (...) Così in tutti i modi cercano presso di loro di far avere in ispregio l’oro e l’argento...». Tr. it. L’Utopia o la migliore forma di repubblica, a cura di FIORE T., Bari 1971, pp. 96-97.

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titubante nel resto dei suoi scritti a scagliarsi altrettanto duramente verso quella nobiltà che, volente o nolente, conservava ancora influenza e prestigio nell’Europa dei Lumi. Come ha affermato Casini, «nessun altro dei grandi teorici della politica sotto l’Ancien Régime ebbe un’esperienza così diretta dei bassifondi della società contemporanea, della degradazione umana, osservata dal punto di vista del reietto e del picaro»45. Nelle Confessioni, emerge la triste esperienza di chi ha vissuto le contraddizioni sociali e gli abusi delle istituzioni come esperienze reali, vive, pagate di persona. Si può dire che in tutta la sua vita Rousseau sia stato costretto ai margini della grande società: i traumi della prima infanzia, il periodo di apprendistato a Ginevra e l’esilio, le frustrazioni del catecumeno e del lacché a Torino, gli espedienti del musico dilettante, i viaggi, la singolare educazione sentimentale dovuta a Madame de Warens, la tarda iniziazione letteraria dell’autodidatta, i vari servizi di precettore e di segretario46, lo avevano portato ad un conflitto multiforme, sordamente coltivato per anni, tra la sua semplicità interiore e il bel mondo dei salotti parigini, dove la ricca aristocrazia e gli intellettuali illuminati sembravano reggere i fili del mondo. Rousseau era venuto spesso a contatto con l’aristocrazia francese e anche con quella tedesca, specialmente dopo la pubblicazione del Contratto sociale, quando fu costretto a cambiare ripetutamente sede a causa della condanna della sua opera. Ma non si era potuto mai esporre chiaramente in virtù di una condizione esistenziale che lo costringeva a chiedere aiuto e appoggio ai grandi signori dell’epoca, non ultimo Federico II di Prussia. In realtà egli si sentiva «una specie di essere a parte» che (come afferma nelle Confessioni), proprio per il fatto di non avere una collocazione precisa nella società, è stato costretto a vivere nelle situazioni più bizzarre: «Ho conosciuto tutte le condizioni, ho vissuto in tutte, dalle più basse alle più elevate, eccettuato il trono. I grandi uomini non conoscono che grandi uomini, i piccoli uomini non conoscono che i piccoli uomini... Non essendo nessuno, non volendo nulla, io non imbarazzavo né importunavo nessuno...qualche volta mangiavo al mattino con i principi e la sera cenavo con dei contadini...In qualunque oscurità io abbia potuto vivere, se ho pensato di più e meglio dei re, la storia della mia anima è più interessante di quella della loro».

Figura 30: Ritratto di Jean-Jacques Rousseau di Maurice-Quentin de La Tour al Musée Antoine Lécuyer, Saint-Quentin. § 9. Il livellamento dell’isola Oltre ad aver favorito l’eliminazione dell’aristocrazia dell’isola, i genovesi avevano apportato inconsapevolmente altri enormi vantaggi ai corsi: prima di tutto la quasi totale assenza di commercio con l’estero, che Rousseau sconsigliava vivamente per tutto il periodo della costruzione del nuovo stato. E poi il sistema giurisdizionale delle pievi, che gli oppressori avevano mantenuto a scopo fiscale. Se la democrazia era attuabile, secondo il pensiero espresso nel Contratto sociale, soltanto in una città di modeste dimensioni, le suddivisioni capillari esistenti in Corsica avrebbero permesso di adattarla ad un paese di quella grandezza: era necessario riequilibrare le pievi tra loro, in modo che con dei leggeri cambiamenti la Corsica si sarebbe trovata divisa in dodici giurisdizioni47. Un simile sistema amministrativo avrebbe permesso di continuare, una volta ottenuta la pace, la lotta contro le città costiere, riducendone l’importanza e il peso nella vita della nazione48. Anche il centro amministrativo del paese, che Rousseau pensava situato a Corte, doveva 45 CASINI P., Introduzione A Rousseau, Bari 1974. 46 ROUSSEAU J.-J., Confessions, in Œuvres cit., I-VI. 47 «Perché tutte le parti dello Stato mantengano tra loro, per quanto è possibile, quell’uniformità di livello che tentiamo di stabilire fra gl’individui, si determineranno i confini dei distretti, delle pievi e delle giurisdizioni in modo da diminuire gli estremi squilibri che vi si fanno notare (...) Con questi lievi mutamenti, l’isola di Corsica che suppongo del tutto libera, si troverebbe a esser divisa in dodici giurisdizioni che non sarebbero eccessivamente sproporzionate, soprattutto quando si sarà ridotto il peso della giurisdizione delle città restringendone come di dovere i diritti municipali» (ID., Projet de Constitution pour la Corse cit., p. 128). 48 «Le città sono utili in un paese in proporzione allo sviluppo del commercio e delle arti, ma solo a detrimento del sistema che abbiamo adottato. I loro abitanti sono impegnati nell’agricoltura oppure sfaccendati. Ora, l’agricoltura rende sempre di più in mano ai coloni che ai cittadini e, quanto all’ozio, è la fonte di tutti i vizi che fin qui hanno afflitto la Corsica». Ivi, p. 128.

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essere piuttosto un capoluogo che una capitale49. In questo caso Rousseau contraddice ciò che aveva scritto nel Contratto sociale a proposito dei mezzi per mantenere l’autorità sovrana50. Le città erano state in passato «i nidi della tirannide». Sarebbero state in futuro, se non se ne riduceva l’importanza, dei centri di corruzione sociale e politica. La Corsica forniva pertanto un efficace esempio dell’indispensabile lotta delle campagne contro le città; Corte, invece, essendo lontana dal mare, era riuscita a conservare la semplicità e il carattere originario del popolo corso e non è un caso che proprio da questa città Paoli aveva diretto la sua ribellione e istituito l’unica università tuttora esistente sull’isola. § 10. La suddivisione del corpo sociale Sicuramente questa è una delle parti più originali ed interessanti del Progetto di costituzione per la Corsica: Rousseau, dopo aver livellato il territorio e i diritti politici degli abitanti, propone ora una struttura triadica per la suddivisione dei poteri e dei compiti del governo. Premesso che i mezzi più rapidi e sicuri per fare in modo che il popolo ami l’occupazione che gli si vuole dare sono il legame dell’uomo alla terra (e quindi, come vedremo, lo sviluppo dell’agricoltura) e il rafforzamento dei vincoli della famiglia, Rousseau divide l’insieme della popolazione in tre classi, la cui disuguaglianza è legata soltanto alle funzioni, non ai beni o ai feudi. Alla classe dei Cittadini appartengono tutti i corsi al di sopra dei venti anni d’età. Il loro primo atto è un solenne giuramento che sancisce l’unità dello Stato: «Tutta la nazione corsa si riunirà con un giuramento solenne in un solo corpo politico e, da quel momento, tanto i corpi che devono formarlo come gl’individui saranno i suoi membri. Quest’atto d’unione sarà celebrato nello stesso giorno in tutta l’isola e tutti i corsi vi assisteranno per quanto sarà possibile, ognuno nella sua città, borgata o parrocchia come sarà più dettagliatamente disposto. Formula del giuramento pronunciato sotto il cielo e con la mano sulla Bibbia: In nome di Dio onnipotente e sui santi Vangeli, con un giuramento sacro e irrevocabile, mi unisco col corpo, coi beni, con la volontà e con ogni mio potere alla nazione Corsa, per appartenerle in assoluta proprietà, io e tutto ciò che dipende da me. Giuro di vivere e di morire per essa, di osservare tutte le sue leggi e di obbedire ai suoi capi e magistrati legittimi in tutto quello che sarà conforme alle leggi. Così Dio mi aiuti in questa vita e accordi la sua pietà all’anima mia. Viva sempre la libertà, la giustizia e la repubblica dei corsi. Amen. E tutti, tenendo alta la mano destra risponderanno: amen». Non si può non vedere in questo giuramento un riferimento al patto sociale (cfr. C. S., I, 6); un patto sociale in cui tutti i contraenti alienano se stessi e i loro diritti alla comunità, che con questo atto si forma, e di cui ciascuno è parte integrante come sovrano e come suddito. Ciò significa che ognuno mantiene nello Stato sociale la sua libertà naturale, in quanto ubbidendo alle leggi che ha contribuito a fissare, di fatto non ubbidisce che alla propria volontà. Eppure nel giuramento si riesce ad avvertire una presenza quasi religiosa, confacente comunque alle direttive russoiane della “religione civile”, in cui il quarto dogma è proprio quello della «santità del contratto sociale e delle leggi»51. Tornando alla classe dei Cittadini, in un frammento separato del Projet, Rousseau aveva disposto che ogni giovane che si fosse sposato prima dei venti anni compiuti o solo dopo i trenta, o che avesse sposato una ragazza minore di quindici anni, o una persona, nubile o vedova, con una differenza d’età di oltre vent’anni, sarebbe rimasto escluso dall’ordine dei cittadini, a meno che non vi sarebbe giunto nuovamente per pubblica ricompensa per servizi resi allo Stato. Mentre, in un altro frammento ancora, Rousseau consigliava di garantire ad ogni figlia di cittadino che sposava un corso di qualsiasi classe una dote dalla pieve dello sposo; questa dote doveva consistere sempre e comunque in un terreno, e doveva garantire allo sposo il suo passaggio dalla classe degli aspiranti a quella dei patrioti. Alla classe degli Aspiranti appartengono tutti i nati nell’isola che non hanno ancora raggiunto il ventesimo anno d’età. Ogni aspirante legalmente coniugato con dei beni in proprio viene iscritto alla classe dei Patrioti. Ogni patriota con due figli viventi, una propria abitazione e un pezzo di terra sufficiente per dargli da vivere entra automaticamente nella classe dei Cittadini. Purtroppo l’incompletezza dell’opera non permette di capire le ragioni alla base di queste suddivisioni. Né Rousseau ha avuto modo di spiegare, se non in pochi frammenti, la funzione di altre strutture amministrative e politiche che aveva in mente di disporre. Ad esempio, molto dura appare la considerazione dei celibi: «Ogni corso che a quarant’anni compiuti non sarà sposato né lo sarà mai stato, sarà privato per tutta la vita del diritto di cittadinanza». E ancora: «Nessun celibe potrà testare; tutti i suoi beni passeranno alla comunità». Mentre sono favorite quelle coppie che prolificheranno il maggior numero di figli: «Ogni bambino nato nell’isola sarà cittadino e membro della repubblica, alla debita età, in conformità 49 «L’isola, che non è abbastanza grande per rendere necessaria una simile divisione [in stati confederali], lo è troppo per poter fare a meno di una capitale. Ma questa capitale deve costituire il punto d’incontro di tutte le giurisdizioni senza attirarne gli abitanti; deve essere in comunicazione con tutto, ma tutto deve restare al suo posto. In una parola, la sede del governo supremo, più che una capitale, deve essere un capoluogo...Corte, situata nel mezzo dell’isola, è in una posizione press’a poco equidistante da tutte le coste. Collocata esattamente tra le due grandi partizioni, di qua e di là dai monti, si trova ugualmente alla portata di tutto» (ivi, p. 130). Poco prima Rousseau aveva detto a proposito delle capitali: «Se dunque le città sono dannose, le capitali lo sono ancora di più. Una capitale è un baratro in cui la nazione, quasi per intero, sprofonda corrompendo i suoi costumi, le sue leggi, il suo coraggio, la sua libertà...dalla capitale incessantemente si sprigionano esalazioni pestilenziali che minano la nazione e finiscono col distruggerla». Inevitabile il confronto con l’Emile, in Œuvres cit, V, p. 703: «Sono le grandi città che esauriscono uno stato e cagionano la sua debolezza: la ricchezza che esse producono è una ricchezza apparente e illusoria; è molto denaro e poco effetto. Si dice che la città di Parigi valga una provincia al re di Francia; io credo che gliene costi parecchie, che sotto più rispetti Parigi è nutrita dalle provincie e la maggior parte dei loro proventi sono riversati in questa città e vi restano, senza mai ritornare né al popolo né al re». 50 «Tuttavia, se non si può ridurre lo Stato a giusti limiti, resta ancora un espediente: di non tollerarvi una capitale, di far risiedere il governo alternativamente in ogni città, e di adunarvi anche, a vicenda, le assemblee del paese» (Contratto sociale, III, 13, in ID., Scritti politici cit., p. 321). 51 Cfr. Contratto sociale, IV, 8 ed ancora il Manoscritto di Ginevra: «Non appena gli uomini vivono in società hanno bisogno di una religione che ve li mantenga...Facendo della patria l’oggetto dell’adorazione dei cittadini, insegna loro che servire lo Stato significa servire Dio...» in ID., Scritti politici cit., v. II, p. 79.

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degli statuti; nessuno potrà esserlo in nessun’altra maniera. Per ogni figlio in più oltre i cinque sarà concesso un patrimonio sui beni comuni. I padri che avranno figli assenti non potranno tenerne conto se non dopo il loro ritorno e di quelli che resteranno per un intero anno fuori dell’isola non si potrà tener conto neppure dopo il ritorno». Notiamo subito il giudizio molto severo per chi abbandona l’isola, come anche per chi decide di cambiare pieve, mentre diventa ancora più difficile per uno straniero entrare a far parte della nazione corsa: «Ogni privato che mutando domicilio passerà da una pieve all’altra, perderà il suo diritto di cittadinanza per tre anni e in capo a questo periodo sarà iscritto nella nuova pieve pagando un diritto, senza di che continuerà ad essere escluso dal diritto di cittadinanza fino a quando non abbia pagato. Si eccettuano dal precedente articolo tutti coloro che coprono cariche pubbliche; questi devono godere di tutti i diritti di cittadinanza nella pieve in cui si trovano finché vi risiedono per dovere d’ufficio. Il diritto di cittadinanza non potrà essere accordato a nessuno straniero, eccetto un’unica volta in cinquant’anni, a una sola persona che si presenti a chiederlo e ne sia giudicata degna, o la più degna di quanti si presenteranno. La sua ammissione sarà una festa generale, in tutta l’isola». Nei Frammenti sparsi Rousseau parlava anche di alcune cariche politiche di cui non conosciamo esattamente la funzione: si tratta dei “Custodi delle leggi” e del “Gran Podestà”, quest’ultimo, probabilmente, una sorta di Statholder. Riguardo alle milizie, Rosusseau afferma che esse non potevano mai costituire una categoria a parte, ma dovevano essere sempre sottoposte ai magistrati e considerarsi come «i ministri dei ministri della legge»; questo perché «Se la nobiltà avesse delle prerogative, delle distinzioni tra le truppe, quelli che hanno cariche nell’esercito non tarderebbero a credersi al di sopra dei funzionari civili; i capi della repubblica sarebbero guardati solo come dei legulei e lo Stato governato militarmente piomberebbe con gran rapidità nel dispotismo». Come si vede, gli elementi essenziali della Rivoluzione corsa erano accettati da Rousseau e trasposti su un terreno di principio, egualitario e democratico.

Figura 31: Rappresentazione della Corsica nel 1730 (fonte: POMPONI F., Histoire de la Corse, Paris 1979). § 11. L’agricoltura Fra i mezzi e i provvedimenti che devono servire alla conservazione della repubblica e dello spirito repubblicano dei cittadini, le misure economico-politiche occupano per Rousseau un posto non trascurabile. Considerando il suo pensiero non si deve tuttavia dimenticare che l’economia non costituiva un ambito culturale indipendente, che egli non conobbe leggi peculiari dell’economia né si propose di tenere conto nei suoi provvedimenti di punti di vista puramente economici. A questo proposito è tipico, come nel caso della Corsica, che egli non solo volesse creare repubbliche autarchiche, ma anche all’interno di un paese, non che adattare la produzione agricola alle condizioni produttive delle diverse regioni, voleva che, nella misura del possibile, in ogni distretto si coltivassero tutti i prodotti di prima necessità, essendo più importante «adoperare nel modo più giusto gli uomini che la terra». Pur di ottenere un vantaggio politico,

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egli accetta dunque consapevolmente un danno economico: «…È un indiscutibile vantaggio destinare ogni terreno alla produzione che più gli si confà; questa è fra tutte la strada migliore per ricavare da un paese un raccolto più abbondante ed agevole. Ma questa considerazione, per importante che sia, resta solo secondaria. Meglio vale che la terra produca un po’ meno e che gli abitanti abbiano un ordinamento migliore». Fine supremo di ogni politica è, secondo Rousseau, la fondazione e la conservazione dell’unità e della concordia di una repubblica e a questo fine devono essere subordinati tutti i provvedimenti, anche quelli di politica economica. Ma il pericolo forse più grave e tipico che minaccia la sicurezza dello Stato è l’esorbitante brama di ricchezza, che assegna una funesta preponderanza all’esclusivo interesse privato. Già per questo la politica economica non deve proporsi come proprio ideale la massima produzione, perché più si produce, più crescono i bisogni; e poiché i nuovi bisogni per principio possono essere soddisfatti solo da pochi, ciò significa anche nuova disuguaglianza e nuovo stimolo ad un’attività economica illimitata nell’interesse esclusivo dei privati. Nel Contratto sociale, che pur contiene ben poche norme economiche concrete, si legge: «Nessun cittadino dev’essere abbastanza ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da esser costretto a vendersi»52. In un frammento su «il lusso, il commercio, le arti» Rousseau indica la condizione economica che lo Stato dovrebbe procurare col nome di abundance e la definisce «Una condizione in cui nel paese si trovano riunite tutte le cose necessarie per vivere, in quantità sufficiente perché ciascuno possa, col lavoro, mettere insieme senza difficoltà tutto ciò che gli occorre per il proprio mantenimento». Ognuno deve insomma vivere del proprio lavoro e la società più adatta a ricevere una costituzione repubblicana è quella in cui ciascuno possiede «qualche cosa» e nessuno possiede «troppo»53. Sono fatali soprattutto le differenze eccessive di beni, non solo perché istituiscono relazioni di dipendenza fra i cittadini, ma anche perché la soverchia ricchezza dà la possibilità di sottrarsi alle leggi e l’eccessiva povertà produce un’indifferenza completa per gli affari pubblici. Ma anche dove non si è ancora arrivati a tanto, la concentrazione della ricchezza in poche mani dà vita a una sorta di secondo governo; proprio nel Progetto di costituzione per la Corsica Rousseau infatti afferma: «Ovunque dominano le ricchezze il potere e l’autorità sono abitualmente separati, perché i mezzi di acquistare le ricchezze e i mezzi di giungere all’autorità non essendo gli stessi, di rado sono impiegati dalle stesse persone. Allora il potere apparente è nelle mani dei magistrati e quello reale è nelle mani dei ricchi»54. Il governo, la cui funzione è di applicare ai casi particolari le norme generali della volontà pubblica (amministrazione e giurisdizione), diventa così sempre più impotente e lo Stato repubblicano deve perire o «assumere un’altra forma»55, cioè trasformarsi in tirannide. Rousseau presuppone dunque come una cosa ovvia che i ricchi impieghino la loro forza nell’interesse privato delle proprie persone, o comunque della propria classe, e non per il benessere generale. Ma altrettanto indesiderabile dell’eccessiva ricchezza è la grande povertà o addirittura la nullatenenza, sia perché i poveri tendono a vendere la loro libertà ai ricchi, sia perché non forniscono alla società e al suo organo esecutivo, il governo, alcuna garanzia di adempiere ai loro doveri civili. La proprietà, come sottolinea Rousseau nell’articolo sull’Economia politica, è infatti «il vero fondamento della società civile e la vera garanzia dell’impegno dei cittadini: infatti, se i beni non fossero garanti delle persone, niente sarebbe più facile che eludere i propri doveri e burlarsi delle leggi»56. Perciò, nonostante la tendenza ad estendere anche al campo economico la richiesta di uguaglianza e a rendere lo Stato il più forte possibile, Rousseau non auspica un sistema economico in cui lo Stato abbia il monopolio della proprietà dei mezzi di produzione. Nel Progetto di costituzione per la Corsica si legge infatti: «lungi dal volere che lo Stato sia povero, vorrei, al contrario, che avesse tutto e ciascuno partecipasse alle comuni disponibilità solo in misura dei suoi servigi». Il diritto del sovrano (e del governo che ne è l’esecutivo) di disporre si estende a tutte le proprietà dei cittadini, ma questo diritto non può essere scambiato con quello dei proprietari. Nessun privato può essere espropriato dallo Stato perché la proprietà privata dei cittadini è il fondamento giuridico della società politica e, con l’istituzione della repubblica, il puro possesso si è trasformato in una proprietà giuridica tutelata dalla legge. Certo, si può immaginare che il sovrano decida che non debba più esserci proprietà privata (sebbene questa decisione sembrerebbe folle a Rousseau), ma non può mai permettere che singoli cittadini siano espropriati57, perché in tal modo, sarebbe distrutto il principio dell’uguaglianza giuridica e soppressa la giustizia. Poiché la legge può sempre riguardare soltanto un certo ambito di azioni in generale, mai singole azioni o persone in particolare, è anche impossibile una «legge retroattiva»58. Questa

52 Contratto sociale cit., libro II, 11, p. 125. 53 Ivi, libro I, par. 9. 54 Progetto cit. in ID., Scritti politici, v. III, p. 159. 55 Lettre à d’Alembert, in ID., Œuvres, I, p. 256: «In una monarchia, in cui tutte le classi occupano una posizione intermedia fra il principe e il popolo, può essere indifferente che alcuni uomini passino dall’una all’altra...ma in una democrazia, in cui i sudditi e il sovrano non sono che gli stessi uomini considerati sotto diversi rapporti, non appena una minoranza prevale in ricchezza sulla maggioranza lo Stato deve necessariamente perire o mutare forma...». 56 Articolo sull’Economia politica, I, in ID., Scritti politici cit., p. 300. Inversamente, perciò, anche a una popolazione di nullatenenti non è più possibile imporre un dominio ordinato: «..la sovranità e la proprietà sono incompatibili... I diritti del principe non sono fondati che su quelli dei sudditi e...è impossibile comandare per lungo tempo a un popolo che non ha più niente da perdere». Certo, se la virtù dei cittadini fosse perfetta, essi potrebbero vivere in società anche senza possedere alcun bene, ma in tal caso non servirebbe più neanche un ordine politico. 57 Emile, tr. cit., in ID., Œuvres, pp. 433: «Se l’autorità sovrana è fondata sul diritto di proprietà, deve rispettare tale diritto più di ogni altro, deve considerarlo inviolabile e sacro finché permane un diritto privato e particolare; ma non appena sia considerato comune a tutti i cittadini, esso si trova sottoposto alla volontà generale e questa volontà può annullarlo. Così il sovrano non ha alcun diritto di toccare i beni di uno o di più privati cittadini, ma può legittimamente impadronirsi dei beni di tutti, come avvenne a Sparta al tempo di Licurgo...». 58 In ID., Scritti Politici cit., p. 54: «...In una parola, qualunque funzione che si riferisca a un oggetto particolare non appartiene al potere legislativo ed è questa una delle ragioni per cui una legge non può avere effetto retroattivo, perché avrebbe deliberato a proposito di un fatto particolare, anziché in generale su una specie di azioni che, non essendo ancora quelle di nessuno, non hanno nulla di individuale se non dopo la pubblicazione della legge e

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norma impedisce l’esproprio dei cittadini i cui beni hanno oltrepassato un determinato limite, cosicché quello Stato sociale che Rousseau considera la premessa necessaria di una comunità politica che funzioni bene (la mancanza di ricchezza e povertà estreme), non può più essere restaurato per via legale una volta che sia andato perduto. La società può, invece, decidere che in futuro nessuno possa più acquistare se non un determinato stato patrimoniale, giacché una legge generale come questa non concerne alcuno in particolare ma ognuno, favorito dalle circostanze, può, in linea di principio, trovarsi in tale condizione e perciò esprimere il proprio voto nell’assemblea nazionale. Nel Progetto di costituzione per la Corsica Rousseau prevede espressamente che «Nessuno potrà possedere più di [...] di terra (probabilmente egli si riservava di fissare la misura massima di questa quota sulla base di una conoscenza più approfondita del paese, dei suoi prodotti, ecc.). Chi ne avrà in questa quantità potrà, attraverso scambi, aver terre in quantità pari, ma non superiore, quando anche si tratti di terre meno buone, e tutti i doni o legati che gli potranno esser destinati in terre saranno nulli»59. La base sociale ideale della repubblica russoiana è una società di piccoli proprietari che coltivano direttamente il loro fondo, o di artigiani che producono coi loro propri strumenti i beni necessari alla vita e li scambiano con le eccedenze dell’agricoltura. Mentre nell’Emilio veniva esaltato l’artigiano che esercita un mestiere utile (in contrasto col fabbricante di articoli di lusso), nel Progetto Rousseau attribuisce maggior valore alla prosperità dei contadini. Nella sane famiglie contadine, che devono vivere distribuite il più ugualmente possibile in tutta l’isola, egli vede il terreno in cui meglio si radica la libertà repubblicana: «il commercio produce la ricchezza, ma l’agricoltura assicura la libertà»60. Questa diversa valutazione è dovuta al fatto che in Corsica bisogna allevare dei buoni cittadini e legare il più saldamente possibile gli uomini alla loro patria, e la proprietà contadina rappresenta il legame più stretto che si possa concepire con un paese61. Il sistema rurale è anche l’unico possibile in Corsica, perché solo chiudendosi in se stessa (e quindi evitando il commercio) l’isola avrebbe evitato le crescenti tensioni che già si vedevano affiorare. Questa esaltazione dell’agricoltura farebbe pensare ad una contraddizione nella concezione dell’economia di Rousseau. Infatti nel Discorso sull’origine della disuguaglianza e nel Saggio sull’origine delle lingue aveva esaltato la vita pastorale; nel Progetto di costituzione per la Corsica, come abbiamo visto, e nella Nuova Eloisa, l’agricoltura; nell’Emilio l’artigianato. Ma in realtà queste tre forme sono solo in apparente contraddizione: non si possono ascrivere a un’evoluzione del suo pensiero, ma si devono considerare quasi come livelli di un ideale adattato ai diversi stadi di sviluppo storico della società. Il pensiero di Rousseau si potrebbe così formulare nel modo più semplice: il genere umano raggiunse la sua condizione più felice e più libera quando la terra era popolata da grandi famiglie di pastori, unite non troppo strettamente e perfettamente autarchiche e libere. L’avvento dell’agricoltura rappresentò sicuramente per l’uomo un progresso verso una migliore utilizzazione della natura, ma il nuovo modo di vita comportò, con la proprietà fondiaria e la possibilità di escluderne una parte degli uomini, il pericolo di una prima disuguaglianza, quella dei poveri e dei ricchi. In confronto con l’età pastorale e con la vita dei pastori, l’età dell’agricoltura e la vita dei contadini furono dunque meno felici e meno libere. In una repubblica costituita da cittadini di quasi uguale agiatezza, il ceto rurale può tuttavia formare la base di una società libera. Ma se invece di paragonare, retrospettivamente, la vita dei contadini a quella dei pastori, la confrontiamo con quella che sarà la vita cittadina, essa ci appare infinitamente più sana e più vicina alla natura, più autentica e più morale. Tutto ciò dipende certamente dal fatto che lo Stato, in cui vive l’agricoltore, sia una repubblica legittima o una tirannide. Negli stati corrotti è più conveniente per il privato non essere legato ad un possesso fondiario, ma, al contrario, possedere nella propria abilità (nella sua specialità artigiana) un capitale che egli possa portare sempre con sé. Rousseau rettifica, per così dire, a poco a poco, il suo ideale nella misura in cui la società si è sviluppata ed allontanata sempre più dalla sua origine. Egli non propone alcun ideale assoluto, eternamente valido, ma ricerca, per ogni epoca, le migliori possibilità di vita morale e umana per contrastare il processo naturale di decadenza. Il modo migliore di vita è per lui sempre il più naturale compatibile con il grado di sviluppo raggiunto dalla società. Alcune delle pagine più belle del Progetto di costituzione per la Corsica riguardano il confronto fatto da Rousseau tra la Corsica e la Svizzera, entrambe osservate con affetto, entrambe viste come terre abitate da popoli fieri e capaci di vivere isolati dai lussi e dagli ozi degli altri paesi. Sicuramente Rousseau ricordava, nel portare gli esempi descritti nel Projet, alla comunità dei Montagnons presso Neuchâtel, che conobbe nella sua giovinezza, che è forse quanto vi sia di più conforme al suo ideale sociale. I Montagnons non sono solo agricoltori che producono tutti i mezzi di sostentamento di cui hanno bisogno, ma, nello stesso tempo, anche artigiani abilissimi, anzi artisti, che hanno raggiunto un alto livello di civiltà. Nella loro comunità l’infausta divisione del lavoro, che ha causato la dipendenza reciproca degli uomini, è nuovamente vinta e ogni famiglia produce ogni cosa e consuma tutto ciò che produce (eccettuata un’eccedenza di prodotti di meccanica di precisione che essi possono esportare). Perciò le famiglie dei Montagnons rappresentano quello che i corsi sarebbero dovuti diventare: delle famiglie economicamente indipendenti per la volontà di chi le commette». 59 Progetto cit., in ID., Scritti politici, vol. III, p. 163. 60 Ivi, p. 123. Su questo punto Rousseau si allontana in modo significativo da Montesquieu, che distingue fra lo spirito commerciale, valutato positivamente, e una smodata accumulazione, distruttrice dell’uguaglianza e degna di essere criticata: «Vero è che, quando la democrazia è fondata sul commercio, può accadere assai facilmente che dei privati posseggano grandi ricchezze senza che i costumi siano corrotti. In effetti lo spirito commerciale porta con sé lo spirito di frugalità, d’economia, di moderazione, di lavoro, di saggezza, di tranquillità, d’ordine, e di regolatezza. Così, finché esiste questo spirito, le ricchezze che esso produce non hanno alcun effetto cattivo. Il male giunge quando l’eccessiva ricchezza distrugge questo spirito commerciale; tutt’a un tratto si vedono sorgere i disordini della disuguaglianza...» (MONTESQUIEU, Esprit des Lois cit., XXI, p. 14). 61 «I contadini sono attaccati alla loro terra molto più di quanto i cittadini non lo siano alle loro città. L’uguaglianza, la semplicità del vivere rustico ha per chi non ne conosce altro un’attrattiva che esclude il desiderio di un mutamento. Di qui la contentezza del proprio stato che rende l’uomo pacifico, di qui l’amore della patria che lo lega alla sua costituzione» (ivi, p. 122).

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fra loro, in cui il loro regime sociale riposa esclusivamente sull’inclinazione naturale. Se Rousseau fosse stato un idealista utopista avrebbe generalizzato questi Montagnons come modello desiderabile; ma, da quel realistico pessimista che egli fu sempre, rimase consapevole del carattere eccezionale di quella piccola comunità di svizzeri e riporta nel Progetto la loro degenerazione62. Per Rousseau niente è per sempre, neanche il progetto di costituzione per un paese per tanti versi esaltato come ancora «primitivo» e proprio per questo «adatto ad una legislazione». Dietro le sue teorie e i suoi consigli si nasconde sempre la coscienza della degenerazione e del fallimento di tutto ciò che è umano. § 12. Il fisco Lo Stato, ossia l’unione dei cittadini costituenti la repubblica, deve disporre dei fondi sufficienti per retribuire i suoi magistrati (funzionari), costruire edifici pubblici e per poter costruire depositi per i periodi di carestia. Si tratta perciò di stabilire il modo migliore in cui lo Stato possa procurarsi queste entrate. Innanzi tutto si pone qui, per Rousseau, un problema giuridico. Da una parte, infatti, la proprietà privata è il presupposto del diritto di cittadinanza, che dovrà essere tutelata e rispettata con tutti i mezzi dalla repubblica. Se si prescinde dal caso ideale, in cui i cittadini consegnino spontaneamente allo Stato la quota necessaria delle loro proprietà o dei loro redditi, si arriva alla spiacevole alternativa: o contributi volontari, il cui gettito di regola è nullo, o imposti e allora illegittimi. E «la difficoltà d’una giusta e saggia economia sta in questa crudele alternativa di lasciar perire lo Stato o di attaccare il sacro diritto di proprietà che ne è la base»63. Rousseau vede la miglior soluzione di questo dilemma nell’istituzione di demani dello Stato, dal cui gettito possano essere coperte le spese pubbliche64. Il fondo statale (che può consistere anche in denaro, soluzione che Rousseau considera però meno desiderabile per diverse ragioni) dev’essere stabilito e approvato dall’assemblea del popolo. Oltre al gettito del pubblico demanio Rousseau considera anche il reddito da imposte. Il carico fiscale dev’essere ripartito sulla popolazione in rapporto alle sue facoltà. Nell’articolo sull’Economia politica Rousseau prevede non solo un’imposta progressiva, ma prende inoltre in considerazione delle agevolazioni speciali per i ceti più poveri65. Una ragione di questa forte progressione dell’onere tributario è vista nel fatto che i vantaggi, che ciascuno ricava dal consorzio civile sono assai disuguali, perché questo «protegge fortemente gl’immensi possessi del ricco, mentre a un miserabile concede a malapena di godere della capanna che ha costruito con le proprie mani». Da questa osservazione e dalla descrizione particolareggiata dell’effettiva difesa giuridica di cui godono i ricchi, e dall’inanità di quella riservata ai poveri e ai deboli, risulta chiaramente che Rousseau aveva qui di mira lo Stato corrotto del suo tempo e — come il suo grande modello Vauban66— pensava esclusivamente a una serie di misure amministrative per l’eliminazione dei singoli abusi economici. Degne di nota nel Progetto di costituzione per la Corsica sono le riflessioni economiche che Rousseau elabora esaminando l’imposta fondiaria (tassa sulle terre) o la tassa sul grano. Il primo inconveniente di un’elevata imposizione pecuniaria sui coltivatori consiste nel fatto che con queste misure il denaro scorre unicamente nelle città senza rifluire in ugual quantità nella campagna. Ciò dipende dal fatto che i proventi fiscali passano dalle mani del governo o dei finanzieri in quelle di chi esercita le arti o il commercio, da cui non tornano più, o solo in minima parte, agli agricoltori. Rousseau paragona questa circolazione a senso unico a quella di un organismo dotato sì di vene, ma non di arterie. Egli vuole ovviare a questo inconveniente proponendo che le imposte dei contadini siano esatte fondamentalmente in prodotti naturali; allo stesso tempo si dovrebbe provvedere, mediante misure adeguate, affinché gli esattori siano onesti. L’inconveniente principale di un’elevata imposta pecuniaria sui coltivatori consiste nel fatto che li costringe a vendere frumento e, in tal modo, ne mantiene basso il prezzo anche negli anni di cattivo raccolto. Rousseau mette così in rilievo la differenza fondamentale tra un’imposta sulle terre e un’imposta sulle merci. Il contadino tassato in ragione del suo fondo o del raccolto, deve procurarsi l’equivalente del tributo richiestogli vendendo una quantità corrispondente di frumento, ma vendendo solo in epoche fisse, non può rifarsi delle imposte che ha pagato. Con l’aumento della produzione di merci superflue e l’aumento, connesso, della massa di denaro circolante, il contadino diventa relativamente più povero e la crescita, corrispondente ai bisogni del governo, porta per di più ad un aumento della tassazione. Ciò significa che l’onere dell’agricoltore aumenta senza che crescano le sue entrate. Agli occhi del filosofo questa era la situazione degli agricoltori francesi nella seconda metà del secolo XVIII, che perciò condanna con parole taglienti la politica fiscale contemporanea, rea di portare il paese sull’orlo della rovina distruggendo quel ceto rurale che è la base della nazione. Al posto della rovinosa imposta pecuniaria sul grano e anzitutto sul suolo, Rousseau raccomanda perciò una serie di tributi che colpiscano in primo luogo le merci di lusso:

62 «Un po’ alla volta si corruppero e non furono altro che dei mercenari. Il gusto del denaro li portò ad accorgersi di essere poveri; il disprezzo del loro stato ha distrutto lentamente le virtù che ne derivavano, e gli Svizzeri sono diventati uomini da cinque soldi, come i francesi sono uomini da quattro... La povertà si è fatta sentire in Svizzera solo quando ha cominciato a circolare la moneta. Ha creato una disparità di risorse corrispondente alla disparità di fortune; è diventata un gran mezzo d’acquisto tolto a chi non aveva nulla...la vita oziosa ha introdotto la corruzione e moltiplicato gli stipendiati dei potenti; l’amor di patria, spento in tutti i cuori, ha fatto posto al solo amore del denaro...Ecco dei grandi insegnamenti per il popolo corso» (Progetto cit., in ID., Scritti politici cit., vol. III, pp. 134-135). 63 Scritti sull’Economia politica, I, in ID., Scritti politici cit., p. 302. 64 «Voglio, in una parola, che la proprietà dello Stato sia tanto grande e forte e la proprietà dei cittadini tanto piccola e debole quanto è possibile... L’istituzione del pubblico demanio non è, ne convengo, così facile da attuarsi nella Corsica d’oggi, già divisa fra i suoi abitanti...Tuttavia so che resta nell’isola una gran quantità di terre incolte, da cui il governo potrebbe trar partito con gran facilità...» (Progetto cit., in ID., Scritti politici, III, p. 151). 65 L’imposizione non dev’essere stabilita solo in ragione dei beni del contribuente, ma in ragione composta della differenza delle condizioni e del superfluo dei beni. Operazione di grande importanza e difficoltà...» (Scritti sull’Economia politica, in ID., Scritti politici, I, p. 311). 66 VAUBAN S., La dîme royale, 1707. Rousseau accoglie il sistema tributario di Vauban nelle Considerazioni sul Governo di Polonia, in ID., Scritti politici cit., II, p. 240.

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tasse che sarebbero pagate “volontariamente” in quanto nessuno è costretto ad acquistare tali merci. Così egli propone, per esempio, di mettere un alto dazio d’importazione sulle merci di cui i cittadini hanno desiderio senza che siano necessarie al paese; ma anche un dazio d’esportazione sugli articoli che non superano il fabbisogno interno e che sono richiesti urgentemente dai paesi stranieri. E anzitutto vorrebbe tassare i «prodotti delle arti inutili e troppo lucrose» e, in generale «tutti i generi di lusso»67. Imposte di questo genere presentano il vantaggio che «alleviano la povertà e gravano sulla ricchezza»68. Bisogna tuttavia badare che non aumenti troppo lo stimolo al contrabbando, perché i cittadini che siano stati indotti a praticarlo una volta potrebbero diventare facilmente anche nel resto persone disoneste e cattivi cittadini. Il principio secondo cui sarebbe compito del governo «salvaguardare i privati dalla lusinga dei profitti illegittimi» indica d’altronde la posizione caratteristica di Rousseau: piuttosto che fondare lo Stato sulla speranza, sempre dubbia, che i cittadini si comportino moralmente, è necessario disporre in maniera tale affinché ciascuno trovi il proprio tornaconto comportandosi conformemente alla legge. Ma questo non cambia nulla nel compito fondamentale dello Stato, quello di educare i cittadini alla virtù indirizzandone l’ambizione verso azioni gloriose e introducendo il patriottismo come termine medio fra l’egoismo privato e l’ideale morale. Ma anche se l’alta tassazione dovesse danneggiare la produzione dei beni di lusso non sarebbe un male, perché in tal modo diminuirebbe anche il fiscalismo delle corti e potrebbero affluire (o riaffluire) alla campagna forze lavorative, col risultato di aumentare la produzione agricola. Così Rousseau spera anche che misure fiscali di questo genere avvicinino «insensibilmente tutte le fortune a quella media condizione che fa la vera forza di uno Stato». Nel Progetto di costituzione per la Corsica l’imposta progressiva e la tassazione degli articoli di lusso non hanno lo stesso ruolo che nel Discorso sull’Economia politica data l’ipotesi che nell’isola le fortune non presentino differenze così grandi e che la corrispondente corruzione abbia fatto minori progressi. In Corsica, oltre alle entrate demaniali, Rousseau vuole riscuotere anzitutto una “decima” corrispondente a quella percepita dalla chiesa. La stessa proposta egli fa anche ai polacchi: «Tutti i beni reali, terrieri, ecclesiastici e soggetti a oneri feudali, devono pagare ugualmente, ossia in proporzione all’estensione e al reddito, chiunque ne sia il proprietario». Si potrebbe anche evitare la complicata compilazione di un catasto: «Fissando l’imposta, non direttamente sulla terra, ma sui suoi prodotti, il che sarebbe anche più giusto; si tratterebbe cioè di stabilire, nella proporzione che venisse giudicata opportuna [qui si può pensare anche a un’aliquota progressiva], una decima da prelevare in natura sul raccolto, come la decima ecclesiastica...». Per giustificare questa riscossione in natura dell’imposta sul reddito Rousseau adduce il fatto che risulterebbero meno facili le malversazioni da parte degli esattori. Per quanto possibile, l’esazione non dev’essere affidata ad appaltatori (sistema à ferme), che hanno sempre interesse a cavar fuori da un territorio, per le proprie tasche, più di quanto occorra allo Stato, ma avvenire attraverso un’amministrazione statale (en regie), anche se questa dovesse riscuotere meno. L’esazione delle imposte non dovrebbe essere un mestiere (métier), ma esclusivamente una sorta di «noviziato dei pubblici impieghi e il primo passo per arrivare alle magistrature»69. Nel Progetto di costituzione per la Corsica Rousseau propone che l’amministrazione dello Stato, determinando l’equivalente pecuniario delle quantità di derrate (e dunque fissando il prezzo di queste), eserciti un’efficace influenza sul rapporto fra la produzione agraria e quella manifatturiera. In questa idea si può scorgere un primo tentativo di politica congiunturale dello Stato70. Assegnando, qui, al governo il compito di mantenere la proporzione ottimale fra agricoltura e manifattura (e artigianato) mediante misure di politica economica, Rousseau interviene a fondo nella legge propria della società e ancora una volta manifesta chiaramente la sua concezione anti-liberale dell’economia. Si deve del resto considerare che questi provvedimenti non si trovano più in alcun rapporto dichiarabile con le leggi (in quanto espressioni della volontà della repubblica), ma sono rimessi al giudizio di amministratori specializzati. Compito di quest’organo esecutivo della volontà generale non è di tener conto delle mutate condizioni sociali (per es. dello spostamento di parte della popolazione agricola nel totale della popolazione), ma di impedire, per quanto possibile, tali mutamenti. Il gettito tributario può discostarsi in due modi dalla proporzione calcolata come giusta: quando la quantità di derrate risulta relativamente maggiore del previsto, e minori le entrate pecuniarie — o nel caso opposto. È degno della massima considerazione che lo stesso Rousseau contraddica, qui, la tendenza economica del suo Progetto di costituzione, chiaramente orientato verso la creazione di piccole aziende agricole autarchiche. Egli vede molto bene che questo «stato ideale» renderebbe le famiglie dei contadini «troppo selvatiche», cioè completamente indipendenti, perciò insiste sulla 67 «Si impongano forti tasse sui domestici, sugli equipaggi, sugli specchi, sui lampadari e gli articoli d’arredamento, sulle stoffe e le dorature, sulle corti e sui giardini dei palazzi, sugli spettacoli d’ogni genere, sulle professioni improduttive; come saltimbanchi, cantanti, istrioni; in una parola su quella congerie di generi di lusso, fatti per lo svago e l’ozio, che tutti gli occhi vedono e che non possono nascondersi, tanto più perché la loro funzione è proprio di farsi vedere, in quanto se nessuno li vedesse, sarebbero inutili». Vd. Scritti sull’Economia politica, in ID., Scritti politici cit., vol. I, pp. 314-315. 68 «Bisogna prevenire il continuo aumento della disparità di fortune, l’asservimento ai ricchi di una folla di operai e di servitori inutili, il moltiplicarsi di gente oziosa nelle città, l’abbandono delle campagne» (in ID., Scritti politici cit., p. 315). 69 Quest’idea gli fu ispirata dall’Hôtel Dieu (Ospedale maggiore) di Lione, che, all’opposto dell’ospedale di Parigi, era amministrato da funzionari i quali, più tardi, speravano di salire a più alti gradi e si preoccupavano perciò di agire in modo onesto e coscienzioso. La stessa proposta Rousseau fece del resto anche ai polacchi, laddove, oltre agli scrupolosi amministratori dell’ospedale maggiore di Lione, cita, come modelli, i questori dell’esercito Romano. Vd. Considérations sur le gouvernement de Pologne, in ID., Scritti politici, II, p. 239). 70 «Poiché i privati saranno sempre liberi di pagare la loro aliquota in denaro o in derrate nella misura stabilita anno per anno in ogni singola giurisdizione, il governo, una volta calcolata la miglior proporzione che deve esservi tra le due specie di contributo, appena la proporzione si altererà, sarà in grado di accorgersene subito, di cercarne la causa e di apportarvi rimedio. È qui la chiave del nostro governo politico, la sola parte che richieda un’arte, dei calcoli, della riflessione. Perciò la Camera dei conti, che altrove, dappertutto, è solo un tribunale molto in sott’ordine, qui sarà al centro degli affari, metterà in moto tutta l’amministrazione e sarà composta dalle migliori teste dello Stato» (Progetto cit., in ID., Scritti politici, III, p. 155).

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necessità di una minima produzione industriale, che faccia dello stato l’istanza regolatrice per lo scambio delle merci fra i diversi gruppi della popolazione. Solo se anche i contadini hanno bisogno di qualche manufatto, come i lavoratori della manifatture (e gli artigiani) hanno bisogno dei prodotti agricoli, si rende necessario un solido ordinamento di cui è garante lo Stato, il cui compito in politica interna risulterebbe altrimenti nullo. Ma subito Rousseau torna al suo ideale e spiega che questo difetto di proporzione è poco da temere, è anzi un «segno infallibile di prosperità» (ibid.). Lo stesso non vale, però, per il difetto opposto, «perché quando i contribuenti forniranno più denaro che derrate, ciò sarà indizio sicuro di un eccesso di esportazione all’estero, di un commercio che diventa troppo facile, dell’estendersi delle arti lucrative nell’isola a danno dell’agricoltura e quindi del fatto che la semplicità di costume e tutte le virtù ad essa collegate cominciano a degenerare». Purtroppo a questo punto si interrompe il ragionamento puramente economico di Rousseau e le misure atte a ristabilire il giusto rapporto fra agricoltura e produzione manifatturiera non sono descritte. È detto solo, un po’ laconicamente: «Gli abusi che determinano questa alterazione indicano i rimedi che si devono apportare». Nel seguito del discorso si rimanda soprattutto all’educazione al patriottismo e alla stima dell’onore repubblicano anziché delle ricchezze. I provvedimenti economici a cui Rousseau può aver pensato si riducono alla conversione dell’equivalente pecuniario fissato per i prodotti naturali. Rousseau ammette che gli agricoltori paghino le imposte in natura, mentre le aziende manifatturiere le paghino in denaro. Ora, se — come si suppone nel primo caso — il gettito fiscale in denaro diminuisce, si può ovviare ribassando il prezzo delle derrate. Ciò non significa che gli agricoltori debbano pagare più tasse, ma che i proventi della manifatture salirebbero perché il tenore di vita dei lavoratori e le materie prime sarebbero meno costosi. Il caso opposto dovrebbe verificarsi qualora fosse aumentato il valore in contanti dei prodotti agricoli. Scopo di queste misure è, come s’è detto, il mantenimento del rapporto giudicato una volta per tutte vantaggioso, o la salvaguardia del carattere prevalentemente agricolo dell’economia nazionale. Quanto gli stia a cuore consolidare anzitutto la prosperità degli agricoltori, risulta altresì dal fatto che Rousseau insiste che si dovrebbe fare in modo che gli operai delle manifatture restino il più vicino possibile al modo di vita dei contadini. Ma «in caso di contrasti interni è nella natura della nostra costituzione che sia il colono a dettar legge all’operaio». La Corsica deve restare un paese agricolo, in cui le manifatture servono esclusivamente a produrre gli oggetti utili, necessari al paese stesso e a rendere la repubblica indipendente all’estero. Al di sopra delle contribuzioni in natura e in denaro Rousseau colloca tuttavia le prestazioni personali dirette dei cittadini a favore della repubblica, che devono essere preferite ad ogni altra forma di entrata dello Stato perché esse si valgono veramente di ciascuno con uguale intensità e mettono i singoli in grado di contribuire attivamente alla creazione del bene comune71. A questa convinzione Rousseau rimase fedele anche nel Progetto di costituzione per la Corsica e nelle Considerazioni sul governo di Polonia, pur se là non rifiuta così radicalmente il pagamento delle imposte: nel Progetto egli cita le corvée come la terza fonte di entrate dello Stato, dopo il demanio e le decime72. La spiccata predilezione di Rousseau per le prestazioni personali — che gli fa rifiutare o considerare come un male sia gli eserciti mercenari che i rappresentanti del popolo e le imposte pecuniarie — getta una luce significativa sulla sua concezione della libertà. Infatti, considerando il progresso della libertà dal punto di vista liberale, difficilmente si troverebbe un peggior segno di schiavitù che l’impiego forzato di cittadini per lavori pubblici. Certo, Rousseau sarebbe pienamente d’accordo con gli avversari liberali delle corvées nel rifiutare servizi di questo genere a beneficio di singole persone privilegiate dell’aristocrazia, ma egli introduce una differenza di principio fra le prestazioni per il monarca o per i signori, quali si praticavano in Francia, e quelle di un libero repubblicano per la sua repubblica. § 13. L’Autarchia Gli uomini naturali originari ipotizzati da Rousseau erano pienamente autarchici, non avevano bisogno né fisicamente né moralmente degli altri uomini e, in questa loro autosufficienza, Rousseau aveva visto il presupposto della libertà o, più esattamente, dell’ indépendance. Il male, la finzione, la falsità erano apparsi nel mondo quando gli uomini si resero 71 «Non appena il servizio pubblico cessi di essere il principale impegno dei cittadini e questi preferiscano servire con la loro borsa piuttosto che di persona, lo Stato è già prossimo alla rovina. Bisogna andare a combattere? Pagano delle truppe e restano a casa; si deve andare al consiglio? Eleggono dei deputati e restano a casa. A forza di pigrizia e di denaro finiscono con l’avere dei soldati per asservire la patria e dei rappresentanti per venderla. A cambiare in denaro le prestazioni personali sono le preoccupazioni del commercio e delle arti, l’avido interesse di guadagno, la mollezza e l’amore delle comodità. Si cede una parte dei propri profitti per aumentarli più comodamente. Date denaro e presto avrete catene. La parola finanza è una parola da schiavi; è sconosciuta in uno Stato libero. In uno Stato veramente libero i cittadini fanno tutto con le loro mani e nulla col denaro: anziché pagare per esimersi dai loro doveri, pagherebbero per adempierli di persona. Io sono molto lontano dalle idee correnti: credo le corvées meno contrarie alla libertà che non le tasse» (ivi, p. 148). 72 «Una terza specie di entrata, la più sicura e la migliore, la ricavo dagli uomini stessi, impiegando il loro lavoro, le loro braccia e il loro cuore piuttosto che la loro borsa al servizio della patria, sia per la sua difesa chiamandoli a prestar servizio nell’esercito, sia per migliorare le sue attrezzature, facendoli partecipare ai lavori pubblici mediante corvées. Come questo termine corvées spaventa i repubblicani! So che in Francia è detestato; ma lo è forse in Svizzera? Le strade vi si costruiscono anche mediante corvées e nessuno si lamenta. L’apparente comodità del pagare può far presa solo su spiriti superficiali, mentre è una regola certa che, meno intermediari ci sono fra il bisogno e il servizio, meno il servizio deve risultare oneroso». Progetto cit., in ID., Scritti politici, III, p. 152. E similmente nelle Considerazioni sul Governo della Polonia: «Vorrei che sempre si mettessero a contributo più le braccia degli uomini che la loro borsa; vorrei che le strade, i ponti, gli edifici pubblici, il servizio del principe e dello Stato si facessero mediante corvées, e non dietro pagamento in denaro. Questa specie d’imposta, è, in fondo, la meno onerosa e soprattutto quella di cui meno si può abusare; infatti il danaro, uscendo dalle mani che lo pagano, sparisce, mentre ciascuno vede in cosa gli uomini sono impiegati e sovraccaricarli in pura perdita è impossibile. So che questo metodo è inattuabile dove regnano il lusso, il commercio e le arti, ma niente è così agevole presso un popolo semplice e di buoni costumi e niente è più utile per mantenerli tali». Vd. Considerations sur le Gouvernement de la Pologne, in ID., Scritti politici, vol. III, p. 238.

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a poco a poco sempre più indipendenti gli uni dagli altri e ciascuno cominciò ad aspirare al proprio vantaggio personale. Ognuno tentò di assoggettare a sé ogni altro o lo costrinse a stimare la propria persona per tornare così ad essere «indipendente». Tuttavia, da quando fu introdotta la divisione del lavoro e dopo che il possesso privato divenne proprietà garantita dalla legge ad esclusione di tutti gli altri, non si poté più pensare all’autarchia dei singoli. Anche Èmile, che pur viene educato come un «selvaggio» destinato a vivere nelle città, non è propriamente autarchico, bensì in condizione di guadagnarsi ovunque da vivere in cambio delle prestazioni della sua specialità artigianale. Infine, i Montagnons, descritti nella Lettre sur les spectacles, rappresentano una fortunata eccezione. Ma l’ideale autarchico, ormai irraggiungibile per i singoli, può nondimeno risorgere su un piano più elevato e costituire la meta dell’economia repubblicana. Già nel Contratto sociale Rousseau menziona l’autarchia fra le condizioni preliminari per l’istituzione di una legittima repubblica: «Qual è dunque il popolo adatto a ricever delle leggi? (...) quello che può fare a meno degli altri popoli e di cui tutti gli altri popoli possono fare a meno»73. Ugualmente Rousseau nel Progetto di costituzione per la Corsica, dopo aver elogiato i corsi per la loro tenacia nel difendere la propria indipendenza, afferma: «Ecco dunque i principi che secondo me devono stare alla base della loro legislazione: trar partito dal loro paese quanto più sarà possibile; coltivare e collegare le proprie forze poggiando solo su di esse, e quanto alle potenze straniere farne lo stesso conto che se non esistessero affatto»74. Resta sempre decisivo il fatto che un paese non deve mai avere più abitanti di quanti ne possa nutrire e che si deve disporre di una base sufficiente di alimentazione da sfruttare completamente grazie a una densità massima di popolazione di cui Rousseau stabilisce l’optimum. Probabilmente egli preferirebbe conservare questo stato ottimale di forza di un paese, ma sa — almeno nel Progetto di costituzione per la Corsica — che lo sviluppo procede oltre questo punto di «saturazione»75. Rousseau sa bene, dunque, che la condizione che egli stima ideale è transitoria, ma poiché ad essa non potrà seguire che una funesta decadenza dei costumi, desidera almeno prolungarla il più possibile. In una altro passo del Projet Rousseau sembra perfino approvare e auspicare il progresso oltre il punto di saturazione demografica: «Quando il paese è saturo di popolazione, l’agricoltura non ne può più assorbire l’eccedenza, che va impiegata nell’industria, nel commercio, nelle arti e questo nuovo sistema (sociale) richiede un’altra (sorta di) amministrazione. Possa ciò che la Corsica sta per realizzare metterla presto nella necessità di un simile mutamento. Ma finché non avrà più uomini di quanti ne possa nutrire, finché resterà nell’isola un pollice di terra non dissodata, deve attenersi al sistema rurale per mutarlo soltanto quando l’isola diventerà insufficiente». L’idea autarchica corre come un filo rosso attraverso il Progetto di costituzione per la Corsica: «Chiunque dipende da altri e non trova in sé le proprie risorse è nell’impossibilità di essere libero», leggiamo quasi all’inizio. E subito l’agricoltura è indicata come la condizione preliminare dell’autarchia76. Fortunatamente la Corsica non ha nessun bisogno d’importare, può anzi nutrire molti più abitanti di quanti al momento vivano nell’isola: il governo che deve compilare «un preciso registro delle mercanzie importate nell’isola durante un certo numero d’anni» e questo registro fornirà informazioni attendibili sulle merci «di cui non può fare a meno»77. Dalle importazioni, così stabilite, si possono inoltre sottrarre le merci che in futuro potranno essere prodotte nell’isola stessa. Concludendo, Rousseau parla delle misure necessarie per raggiungere il fine della più ampia autarchia possibile: per prima cosa si devono assicurare le fonti necessarie di materie prime. Occorre innanzi tutto tutelare il patrimonio forestale e, se è possibile, trovare il ferro di cui Rousseau sospetta la presenza. È sfiorata anche la questione dei luoghi più favorevoli agli impianti industriali78. In nessun caso si devono installare manifatture nelle zone fertili dell’isola, dove si affollerebbero masse troppo grandi di uomini, bensì nei territori sterili, non sufficientemente popolati. Una volta impiantate le manifatture indispensabili, la necessità di importare sarà limitata a pochissimo ed anche qui si potrebbe fare a meno del denaro. L’ideale autarchico non si limita alla repubblica nel suo insieme, ma vale anche — mutatis mutandis — per le singole provincie, distretti e parrocchie, anzi, da ultimo, persino per la stessa economia domestica dei coloni. Intento di quest’autarchia locale, così perseguita, è di rendere superfluo il commercio da cui derivano tanti abusi e allettamenti al vizio, e dal quale può nascere la disuguaglianza sociale. Ma per il momento le province dipendono ancora le une dalle altre: la provincia di Capo Corso, per esempio, produce solo vino e ha bisogno del grano e dell’olio che le vengono

73 ROUSSEAU J.-J., Contratto sociale, v. II, in Scritti politici cit., p. 10. 74 ID., Progetto cit., in Scritti politici, v. III, p. 121. 75 «In questo caso [si riferisce evidentemente alla fase, che seguirà inevitabilmente, della sovrappopolazione], si deve impiegare l’eccedenza dei prodotti dell’industria e dell’artigianato per acquistare all’estero ciò di cui una popolazione diventata così numerosa abbisogna per il proprio sostentamento. Allora nasceranno anche, a poco a poco, i vizi connessi necessariamente con queste istituzioni (manifatture e commercio privato), vizi che corrompendo gradualmente il gusto e i principi della nazione, finiscono per corrompere e distruggere la forma dello Stato. Questa sciagura è inevitabile; e poiché tutte le cose umane devono un giorno perire, è bello ed è bene che uno stato, dopo un’esistenza lunga e vigorosa, perisca per eccesso di popolazione» (Progetto cit., in Scritti politici, v. III, p. 158). 76 «L’agricoltura è il solo mezzo di mantenere uno stato indipendente dagli altri. Se anche aveste tutte le ricchezze del mondo, non avendo di che nutrirvi dipendereste dagli altri. I vostri vicini possono attribuire al vostro denaro il prezzo che vogliono perché possono attendere; ma il pane che ci è necessario ha per noi un prezzo su cui non potremmo discutere e in ogni specie di commercio a dettar legge all’altro è sempre quello che ha meno fretta» (ivi, p. 122). Su questo punto, ma solo su questo, Rousseau concorda con la concezione fisiocratica. 77 Le sole merci di cui si sentì veramente la mancanza durante il blocco degli anni 1735-36 furono «munizioni per la guerra (...), cuoio (...), cotone per gli stoppini; ma il cotone fu sostituito col midollo di certe canne» (ibid.). 78 Ivi, p. 147: «Nell’isola si è trovata, dicono, una miniera di rame; è una bella cosa, ma le miniere di ferro valgono anche di più. Nell’isola ce ne sono di certo; la situazione delle montagne, la natura del suolo, le acque termali che vi si trovano nella provincia di Capo Corso e altrove, tutto mi fa credere che cercando bene e impiegando nella ricerca persone qualificate si troveranno parecchie di queste miniere. Supponendo che sia vero, non se ne permetterà uno sfruttamento privo di regole ma si sceglieranno le ubicazioni più favorevoli, più prossime ai boschi e ai fiumi per installarvi delle ferriere e dove si possano aprire le strade più comode per i trasporti».

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forniti dalla Balagna e così via. Ma, primo, «col concorso del governo, questo commercio può avvenire in gran parte attraverso scambi», secondo, «con lo stesso concorso e per mezzo dei naturali sviluppi della nostra istituzione, tale commercio e tali scambi devono diminuire di giorno in giorno riducendosi infine a pochissima cosa»79. Rousseau descrive questo sistema con insolita ricchezza di particolari: in ogni parrocchia (comune) dev’essere istituito un pubblico deposito o, comunque, un registro in cui siano annotati i prodotti e il bisogno di materie prime. Le parrocchie e le provincie si scambiano questi registri e il governo può fissare il prezzo di scambio dei prodotti80. Il risultato è che gli agricoltori non producono più merci per il mercato, ma esclusivamente gli oggetti del loro fabbisogno e quelli che servono allo scambio diretto con qualche prodotto mancante. Ma poiché gli scambi sono sempre meno comodi e meno sicuri che il produrre per proprio conto, Rousseau fa assegnamento su un progressivo adeguamento della produzione di ogni provincia, anzi di ogni parrocchia e fattoria, al fabbisogno locale: «Ognuno si sforzerà di avere in natura e coltivandole in proprio tutte le cose che gli sono necessarie». L’ideale dell’autarchia locale non si estende però alla produzione artigiana e manifatturiera, perché in tal caso avremmo già davanti a noi i nostri bravi Montagnons di Neuchâtel, la cui comunità idillica lo stesso Rousseau considera, invece, solo come un caso fortunato. L’autarchia dell’agricoltore corso ha e deve avere i suoi limiti. Trattando dei piani di politica congiunturale abbiamo già accennato a un importante passo del Progetto di costituzione per la Corsica in cui Rousseau metteva in relazione il grado di dipendenza dei singoli dal governo con la prosperità delle manifatture: quando la produzione manifatturiera diminuisce, è segno che gli agricoltori son diventati «troppo indipendenti, troppo selvatici», troppo poco interessati alle cose del governo. Il che significa che solo per lo scambio dei prodotti agricoli, manifatturieri e artigianali, il colono (quanto al resto perfettamente autarchico) ha bisogno della protezione e dell’intervento dello Stato. Poiché, in teoria, l’agricoltore assolutamente autarchico potrebbe vivere in un regime d’anarchia, Rousseau diventa, qui, infedele al suo ideale economico e invoca espressamente una sia pur limitata promozione dei bisogni, di cui in verità egli dovrebbe dispiacersi. L’unica spiegazione di questa apparente contraddizione di Rousseau è proprio che egli pensava in modo troppo realistico per considerare ripristinabile l’estrema autarchia individuale e per contentarsi di un legame puramente ideale della società civile. Perché, in teoria, sarebbe anzi possibile immaginare, per le famiglie autarchiche dei piccoli coltivatori corsi, una convivenza pacifica e armonica in sommo grado: una comunità siffatta si riunirebbe solo per le feste comuni e in caso di necessità, per la comune difesa o per la costruzione di opere di utilità generale; quanto al resto, i suoi membri sarebbero affatto indipendenti fra loro e dallo Stato. I cittadini di questo stato potrebbero — sempre in teoria — unirsi come puri spiriti in modo libero e perfetto dato che la loro parte materiale rimane, per così dire, al di fuori e al di sotto della società politica, in un isolamento protetto e autosufficiente. § 14. Conclusioni Era una simile visione d’un mondo contadino prospero senza esser ricco e d’uno stato ricco senza commerci e senza moneta intenzionalmente volta contro i tentativi di sviluppo commerciale, monetario e minerario che s’andarono compiendo proprio in quegli anni in Corsica? È molto probabile81. Rousseau sente quanto sia debole la concorrenza che, su questo terreno, l’isola può opporre ai grandi stati che la circondano, alla Francia soprattutto, e cerca perciò un piano nuovo e diverso su cui porre l’economia e la politica della Corsica. Soltanto con l’isolamento e con la coscienza della propria singolarità, della propria natura egualitaria e democratica l’isola avrebbe potuto sopravvivere ed affermarsi. Imitando gli altri si sarebbe perduta. È difficile dire quanto contribuissero a distogliere Rousseau dal proseguire nella sua esperienza corsa le ragioni personali (timore di muoversi, ansia di fronte alla responsabilità del compito assunto, sospetti sempre più gravi che i suoi nemici si servissero di questi suoi progetti per renderlo ridicolo di fronte al mondo) e quanto pesassero invece le contraddizioni politiche interne del compito che aveva voluto assumersi82. Che peso avesse la Corsica nell’animo di Rousseau lo si vide tuttavia ancora, alla fine degli anni ‘60, quando il problema gli tornò di fronte, in occasione della pubblicazione del suo Discorso sull’eroe del 1750 e dell’invasione francese dell’isola. Non gli fu difficile constatare che i tagli apportati dall’«Année littéraire», non potevano che essere intenzionali. Come spiegarsi altrimenti l’omissione del suo «bell’elogio del popolo corso» e dell’elogio «ancora più bello delle truppe francesi e del loro generale»?83. Anche nell’animo suo la rivoluzione isolana era sconfitta ed egli era tornato a guardare con qualche

79 Progetto cit., in ROUSSEAU J.-J., Scritti politici, vol. III, p. 140. 80 Ivi, pp. 141-42: «Vedo che sotto i governatori genovesi, che opponevano mille divieti ed intralci al traffico delle derrate tra una provincia e l’altra, i comuni creavano dei depositi di grano, vino, olio, per aspettare il momento favorevole in cui il traffico era consentito, e questi depositi servivano di pretesto ai funzionari genovesi per mille odiosi monopoli. L’idea di tali depositi, non essendo una novità, sarà tanto più facile da mettere in pratica e fornirà per gli scambi un mezzo comodo e semplice per il pubblico e per i privati senza il rischio degl’inconvenienti che ne facevano ricadere gli oneri sul popolo». 81 In un frammento poi non utilizzato egli scriveva: «I corsi si trovano ancora quasi allo Stato di naturale purezza, ma per conservarli così occorre una grand’arte, perché i loro pregiudizi tendono ad allontanarli dallo Stato attuale: hanno esattamente ciò che va bene per loro, ma vogliono ciò che non va bene; i loro sentimenti sono retti; sono i loro falsi lumi che li ingannano. Vedono il falso splendore delle nazioni vicine e bruciano dal desiderio di essere come loro, perché non ne avvertono la miseria e non si rendono conto di essere infinitamente migliori». Ivi, p. 158. 82 DEDECK-HERY E., Jean Jacques Rousseau et le Projet cit., p. 49 e sgg. Già nella primavera del 1766 la voce correva di questa sua rinunzia. «Il celebre Sig. Rousseau a cui i corsi si sono rivolti per ottenere la sua assistenza per formare le loro leggi, — scriveva «The London chronicle» del 5-8 aprile, — ha addotto la sua salute debole e incerta come scusa per declinare l’incarico che avrebbe richiesto un enorme sforzo mentale. Egli, comunque, è impegnato a scrivere in onore dei coraggiosi isolani, trattando la loro storia; riguardo a questo numerosi documenti sono stati raccolti dall’Abbé Rostini. Ci aspettiamo un grande interesse nel vedere il selvaggio filosofo apparire nei panni di uno storico: la sua straordinaria eloquenza non potrebbe mai essere maggiormente esercitata che nel trasmettere alla posterità gli annali della Corsica». 83 ROUSSEAU J.-J., Correspondance complète, Genève-Oxford 1980, vol. XXXVII, p. 328, lettera del 12 marzo 1770. L’opera Correspondance

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simpatia ai programmi di riforma del marchese di Cursay. Ciò non impediva che egli considerasse la recente conquista, compiuta per volontà del marchese di Choiseul, come una «Iniqua e ridicola spedizione, che offende la giustizia, l’umanità, la politica, la ragione. Spedizione che, col suo successo, è ancora più ignominiosa, per il fatto che «non avendo conquistato questo popolo con il ferro, l’ha conquistato con l’oro». Ormai, in Europa, diceva, non esisteva più, dopo la fine dell’indipendenza corsa, «un altro popolo nato per distruggere, né un altro grande uomo per denigrare il suo illustre e virtuoso capo». Rivendicava altamente, di fronte al ministro di Luigi XV, la responsabilità del suo tentativo d’aiutare e appoggiare la Corsica e Pasquale Paoli: «Si saprà che io ho visto il primo popolo disciplinabile e libero in tutt’Europa quando sembrava ancora un mucchio di ribelli e di banditi; che ho visto germogliare le palme di questa passione nascente, che mi ha scelto per innaffiarle...che i suoi primi combattimenti furono delle vittorie, che non potendo più vincerlo, si era dovuto comprarlo?». Certo Choiseul aveva vinto, era riuscito a sconfiggere insieme i liberi isolani e lui, il solitario Jean-Jacques. Al momento della conquista dell’isola la sua sensibilità troppo grande, esacerbata dalla sofferenza, aveva a poco a poco determinato il suo delirio di persecuzione, di cui non si liberò mai per tutta la vita. Credeva di essere in cima all’odio di Choiseul, odio che attribuiva a un passaggio male interpretato del Contratto sociale84; aveva la debolezza di credere che Choiseul avesse conquistato la Corsica semplicemente per togliergli l’occasione di legiferare per essa, come afferma nelle Confessioni: «Avevo sempre sospettato il signor di Choiseul di essere l’autore nascosto di tutte le persecuzioni che soffrivo in Svizzera... E non credevo di avere in Francia altro nemico potente che il duca di Choiseul»85. Il ricordo di Buttafoco, guadagnato dalla corte francese proprio quando Rousseau s’accingeva a scrivere la Costituzione, continuava a tormentarlo. Si chiedeva se, accettando quell’invito, egli non avesse contribuito in qualche modo alla rovina dei corsi, coll’assicurare a Buttafoco quella fama e quel prestigio di cui questi si era poi servito per indebolire e scalzare Pasquale Paoli. «La scelta, - diceva, - ha fatto la sua sfortuna (di questa nazione nascente) e la mia»86. La mancata divulgazione del progetto costituzionale di Rousseau lasciò libera la briglia a chi volle tentar d’indovinare quale sarebbe stata la soluzione da lui proposta del problema corso e suscitò una serie di discordanti interpretazioni del suo pensiero. Ci fu addirittura chi diede questo progetto per già pubblicato87. Il silenzio, la rinuncia di Jean-Jacques erano un invito a tentar di prendere il suo posto, a proporsi come legislatori della Corsica. Nel 1766 Dalmazzo Francesco Vasco intitolava Suite du Contrat social il suo progetto di costituzione per l’isola e, scrivendo a Rousseau, gli diceva quanto egli avesse cercato d’ispirarsi al suo pensiero. Anche dopo l’annessione alla Francia, Pommereul venne influenzato da quanto poté filtrare delle idee di Rousseau e cercò d’indovinarne e discuterne il pensiero. Quanto a Rousseau, ormai vecchio, e stanco di dover girovagare attraverso gli stati d’Europa per trovare un angolo di pace, rimase profondamente deluso per l’esito della rivoluzione. Nelle Confessioni ricorderà sempre con emozione il periodo in cui pensava di poter trascorrere gli ultimi anni di vita sull’isola88, ma la coscienza della propria inevitabile fine e il timore di non poter essere veramente d’aiuto ai corsi, impedirono a Rousseau di poter realizzare questo sogno: «Era chiaro che non avrei più potuto disporre di me stesso, e che, trascinato, mio malgrado, in un turbine per il quale non ero nato, vi avrei condotto una vita del tutto contraria ai miei gusti e mi sarei mostrato in maniera a me svantaggiosa. Prevedevo che, sostenendo male con la mia presenza complète de Jean-Jacques Rousseau è edita da LEIGH R. e pubblicata in 52 volumi (1965-98); contiene circa 7.000 lettere di cui 2.700 scritte dallo stesso Rousseau. I corrispondenti di Rousseau erano numerosi ed appartenevano a diverse categorie sociali, dai sovrani (Federico II, Gustavo III) e dagli autori (Diderot, Hume, Buffon, Linnaeus e Voltaire) a uomini di chiesa, dottori, semplici lavoratori ed orologiai. 84 Vedi ROUSSEAU J.-J., Contratto sociale, in Scritti politici cit., libro III, capitolo VI (della monarchia). Rousseau aveva scritto: «Ma se è difficile che un grande stato sia ben governato, molto più difficile è che sia governato bene da un solo uomo; e ciascuno sa ciò che avviene, quando il re si crei dei sostituti. Un difetto essenziale e inevitabile, che metterà sempre il governo monarchico al di sotto di quello repubblicano, è in ciò: che in questo la designazione pubblica non innalza mai ai primi posti se non uomini illuminati e capaci, che li occupano con onore; là dove quelli che arrivano nelle monarchie non sono spesso che piccoli imbroglioni, piccoli bricconi, piccoli intriganti, ai quali le piccole capacità, che nelle corti fanno arrivare ai grandi posti, non servono che a mostrare al pubblico la loro inettitudine, appena vi siano arrivati. Il popolo si inganna in questa scelta assai meno che il principe; e un uomo di vero merito è quasi tanto raro nel ministero, quanto uno sciocco a capo di un governo repubblicano. Così quando, per qualche caso fortunato, uno di questi uomini, nati per governare, prenda il timone degli affari in una monarchia ridotta quasi all’estremo da queste masnade di ministri galanti, si resta tutti stupefatti dei mezzi che sa trovare; e ciò segna un’era in un paese». 85 ID., Confessions, libro XII, p. 1120. 86 ID., Lettera a Saint-Germain del 26 febbraio 1770. In Correspondance complète cit., vol. XXXVII, 1980, pp. 290 sgg. 87 Il redattore di una delle più influenti riviste politiche d’Europa, il Mercure historique et politique, che si pubblicava in Olanda, scriveva nel settembre del 1765: «Circola a Livorno la copia di un nuovo codice di leggi ad uso degli isolani redatto da Jean-Jacques Rousseau, che dividerà con Licurgo e Solone la gloria della legislazione. Le lettere aggiungono che queste leggi si fanno ammirare per la loro saggezza e per la loro profondità. Noi crediamo che per comporle Rousseau avrà intinto la sua penna nel sangue di Dracone. Avrà consultato l’umanità. Senza dubbio le sue leggi faranno onore alla filosofia». Cfr. «Mercure historique et politique», settembre 1765, pp. 277. Questo periodico continuava ad esprimere la propria ammirazione per Rousseau anche l’anno seguente (gennaio 1766). Dopo aver esortato i corsi a vivere liberi, «secondo il loro ingegno e le loro leggi», dedicandosi ai lavori di pace e non usando delle armi che per difendersi aggiungeva: «Inoltre essi consultino il loro saggio, il grande Rousseau, a cui, come di costume, la terra non renderà giustizia sufficiente che quando non esisterà più...Potrebbe accadere che Rousseau, prima di recarsi a Londra, prenderà un giorno la decisione di rifugiarsi dai corsi, i quali, se ciò che abbiamo previsto e che abbiamo riportato si avvera, saranno felici di non essere secondi a nessun altro popolo e di sottomettersi a lui». 88 «Ma quando le persecuzioni di Môtiers mi fecero pensare di lasciare la Svizzera, questo desiderio si rinnovò con la speranza di trovare finalmente presso quegli isolani il riposo che non mi si concedeva in nessun posto. Una cosa sola mi spaventava di quel viaggio; era l’inattitudine e l’avversione che ho sempre avuto per la vita attiva alla quale stavo per essere condannato. Fatto per meditare a mio agio nella solitudine, non lo ero per parlare, agire, trattare di affari con gli uomini.. la natura che mi aveva dato la prima capacità mi aveva rifiutata l’altra. Tuttavia, sentivo che, anche senza prender parte direttamente agli affari pubblici, sarei stato costretto non appena in Corsica ad abbandonarmi alla foga del popolo, e a conferire molto spesso coi capi. L’oggetto stesso del mio viaggio esigeva che, anziché cercare un ritiro cercassi, in seno alla nazione, i Lumi di cui avevo bisogno». ID., Confessions in Œuvres cit., p. 1118.

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l’opinione di capacità che i miei libri avevano potuto dar loro, mi sarei screditato presso i corsi e avrei perduto, con loro e con mio danno, la fiducia che mi avevano dato e senza la quale non potevo compiere con successo l’opera che attendevano da me. Ero sicuro che, uscendo così dai miei limiti, sarei divenuto loro inutile, e che mi sarei reso infelice». L’esito disastroso della rivoluzione l’aveva ancora più demoralizzato. Non affrontò più il problema della conquista francese dell’isola se non sporadicamente. L’ultima volta che Rousseau parlò ancora della Corsica fu in una lunga lettera a M. de Saint Germain, il 26 febbraio 1770, otto anni prima della morte. Tutto era finito, la Corsica era ormai vinta, annessa alla Francia, Paoli era partito, a sua volta, cercando rifugio in Inghilterra. Non gli restava che difendere le sue scelte, le sue idee, la sua personalità: del grande sogno di una nazione giovane, potente e libera resteranno solo dei frammenti sparsi, l’ultimo dei quali è, forse, il più bello e significativo: «Nobile popolo, non voglio darvi leggi artificiali e sistematiche inventate da uomini, ma ricondurvi sotto le sole leggi della natura e dell’ordine che comandano ai cuori senza tiranneggiare le volontà».

Figura 32: Il trattato di Versailles del 1768 conservato all’Archives Nationales, Paris.

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CAPITOLO 6 IL SISTEMA COSTITUZIONALE DI PASQUALE PAOLI

§ 1. Premessa Il sistema di governo istituito da Pasquale Paoli durante il suo generalato in Corsica ha suscitato opinioni contrastanti. I filosofi non mancarono d’applaudire l’impresa con la quale gli isolani, durante la ribellione del 1729, erano riusciti a liberare la maggior parte del loro paese dalla dominazione coloniale dei genovesi. Abbiamo appena osservato, inoltre, quanta influenza avesse avuto nel pensiero politico di Rousseau la fase finale della Rivoluzione corsa e quanta ammirazione avesse il filosofo ginevrino per il Generale. Ma Rousseau non era affatto isolato: lo scrittore James Boswell, nel 1765, decise di rendere visita a Paoli, studiò il suo regime e lo descrisse come «il miglior modello che sia mai esistito nella forma democratica». Il giudizio di Voltaire, contemporaneo alla sconfitta di Pontenovo, è più sfumato: Paoli, uomo di «grandi qualità - scriveva - non chiede mai il titolo di re… Ma lo fugge in maniera diversa mettendosi alla testa di un governo democratico». Legislatore del popolo per Boswell, reggente costituzionale per Voltaire, Paoli è piuttosto «un despota che mira alla dittatura», come affermava Pommereul, ufficiale francese che si era informato sul suo regime durante i combattimenti del 1769. Eppure Pommereul, discepolo dei Philosophes, non si esime dal fare l’elogio della Dieta, assemblea legislativa stabilita da Paoli1. La tesi di una democrazia corsa ante litteram, che prevalse nel corso del XIX secolo, fu messa in dubbio in seguito. Mentre Mathieu Fontana, autore nel 1907 della sola opera interamente consacrata alla costituzione di Paoli, segue la scia della tradizione boswelliana, storici più recenti tendono a considerare Paoli come un despota, dichiarato o meno, e a contestare il carattere democratico del suo regime. Altri ancora non vedono nel suo sistema che un amalgama di istituzioni troppo instabili perché si possa parlare di una costituzione2. Le fonti più importanti sull’argomento sono conservate all’Archivio di Stato di Genova ed all’Archives départementales de la Corse du Sud, che racchiudono i rapporti sulle sessioni della Dieta, gli atti di votazioni legislative e numerose corrispondenze amministrative che coprono tutta la durata dei tredici anni e mezzo di regime. Informazioni altrettanto utili provengono dalla raccolta delle lettere di Paoli, che includono diversi documenti di Stato. Non bisogna, inoltre, trascurare la Cronaca di Ambrogio Rossi, storico della fine del XVIII secolo, che ha usato fonti dell’epoca. Nel quadro delle conoscenze fino a qui acquisite, le narrazioni-testimonianze di Boswell e di Pommereul prendono un posto secondario, pur conservando un notevole valore. § 2. Proclamazione della Costituzione Le fonti d’archivio hanno finora attirato poco l’attenzione degli storici corsi e francesi: la scoperta di un documento originale che annunciava la creazione di un sistema di governo di Paoli è stata accolta con sorpresa. Lunga meno di dieci pagine, questa lunga lettera è firmata “Pasquale Paoli”. Per Paoli e per i suoi compatrioti si trattava veramente di un costituzione, come è affermato nella premessa: La Dieta Generale del populo di Corsica, lecitimamente Patrone di se medesimo, secondo la forma dal generale convocata nella Cita di Corti sotto li giorni 16, 17, 18 novembre 1755. Volendo, riacquistata la sua libertà, dar forma durevole, e costante al suo governo riducendoli a costituzione tale, che da essa ne derivi la felicità della nazione3. La sovranità del popolo, «legittimamente Padrone di sé medesimo», è stata dichiarata senza equivoci, sette anni prima della pubblicazione del Contratto sociale di Rousseau. Il popolo sovrano si arroga il diritto di redigere una costituzione volta ad assicurare il proprio benessere: questa sembra una presa di posizione nuova in assoluto. In effetti, R. R. Palmer, studioso delle rivoluzioni del XVIII secolo, ma che ignorava il movimento che si manifestava allora in Corsica, segnalava il popolo del Massachusetts come il primo ad erigere un «potere costituente», quando promulgò la costituzione del 1780. Le idee esposte in questo testo di Paoli, nel loro contenuto come nella loro forma, sembrerebbero anticipare di molti decenni i temi rivoluzionari fondamentali americani e francesi. La libertà, come risulta dal termine “riacquistata”, viene considerata un diritto naturale; la parola “nazione”, intesa qui come l’insieme del popolo sovrano, sembrerebbe piena di un contenuto rivoluzionario, contenuto che diverrà la regola durante la Rivoluzione francese4. Come è potuto accadere che i corsi, abitanti di un paese isolato, con un’economia e dei costumi notoriamente arcaici, si siano mostrati, in questa occasione, all’avanguardia del pensiero politico dell’epoca? Non c’è alcun dubbio che l’autore del testo citato sia Pasquale Paoli; e Paoli, come sappiamo, aveva preso conoscenza delle dottrine dei filosofi durante i suoi studi a Napoli, dove aveva accompagnato suo padre durante l’esilio. Se l’influenza del pensiero di Rousseau è da escludere in ragione delle date delle sue pubblicazioni maggiori, non si può dire lo stesso per Montesquieu, di cui Paoli aveva portato le opere in Corsica al momento del suo rientro nel 1755, con la speranza di farsi nominare capo degli insorti5. Anche se la lettura di Montesquieu non basta a spiegare il livello giuridico del documento, la costituzione di

1 BOSWELL J., An Account of Corsica cit., p. 161. VOLTAIRE, Précis du siècle de Louis XV, in Œuvres historiques, Paris 1957, p. 1550. (DE) POMMEREUL F.R., Histoire de l’isle de Corse, Berna 1779. 2 FONTANA M., La constitution du généralat de Pascal Paoli, Paris 1907. Sulla costituzione corsa vedi anche ETTORI F., La révolution de Corse (1729-1769), in Histoire de la Corse a cura di ARRIGHI P., Toulouse 1971. 3 Siamo debitori a LAMOTTE P., archivista corso, della scoperta di questo documento, così come della copia che abbiamo fornito. 4 GODECHOT J., Nation, Patrie et Patriotisme en France au XVIIIe siècle, «Annales historique de la Révolution française», 43 (1971). 5 «Questi libbri son molto necessari in Corsica», scriveva a suo padre. Cfr. la Lettera di Paoli, allora sull’isola d’Elba, del novembre 1754, in cui domanda al padre di inviargli le Causes de la grandeur des Romains... e l’Esprit des Lois.

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Paoli è marchiata delle impronte dell’Esprit des Lois: lo si intende dall’estensione dei poteri che questi si è dato in quanto capo dello Stato e soprattutto dalla separazione del potere legislativo e dell’esecutivo in due corpi distinti, ma interdipendenti. Senza dubbio Paoli è debitore a Montesquieu dello stesso termine di “costituzione”, utilizzato per la prima volta per designare il sistema di governo. La scelta di questa parola denota la volontà di rompere con il passato, di mettere un termine al carattere provvisorio delle istituzioni che avevano fino ad allora retto la nazione. Nello spirito di Paoli si trattava, dunque, di una carta costituzionale che doveva predisporre il sistema politico attraverso le istituzioni legislative, esecutive e giudiziarie. Detto questo, bisogna ammettere che la lettura del testo originale, dopo l’impressionante preambolo, è piuttosto deludente. Soltanto un quarto della raccolta è destinato alle istituzioni; il resto tratta della procedura giudiziaria e della legislazione criminale. La descrizione delle istituzioni, assai sommaria, resta oscura in certi punti essenziali e non permette una conoscenza più approfondita del regime paolino. Ciononostante, i poteri accordati a Paoli, così come la struttura dell’esecutivo e della Dieta, sono assai ben dettagliati; non è detto nulla riguardo alle funzioni legislative e fiscali della Dieta, né della sua composizione, nemmeno una parola che sottolinei l’originalità, sorprendente per l’epoca, di essere in parte formata da membri eletti con suffragio universale. Il documento non può essere compreso a pieno se non viene ricordato che il sistema di cui si tratta non era del tutto nuovo, né interamente imposto da Paoli. Al contrario, era il risultato di una serie di tentativi d’organizzazione politica intrapreso sin dai primi anni della ribellione contro i genovesi. Nel 1755, le istituzioni essenziali esistevano già ed erano funzionanti, sebbene in modo assai confuso ed irregolare. Il ruolo di Paoli è stato quello di rimodellarle, di coordinarle (e in questo contesto il suo compito assume un notevole rilievo), per integrarle in una struttura stabile e coerente. Per intraprendere questo compito egli si ispira in parte a Montesquieu, in modo che la sua costituzione può essere considerata come il risultato di una convergenza storica dei principi di Montesquieu e delle tradizioni politiche corse. § 3. Tradizioni politiche e strutture sociali Nonostante le continue dominazioni straniere, i corsi avevano conservato e sviluppato le loro tradizioni politiche e sociali, le cui origini risalivano all’età medievale. L’abitudine alle elezioni era costante presso le comunità rurali: numerose famiglie, come si è detto, avevano usurpato dei privilegi di carattere feudale riuscendo a rendere ereditarie le funzioni di cui erano state investite, prendendole in virtù di un’antica usanza di capitaneria elettiva. Nel XIV secolo, la feudalità venne eliminata in una parte dell’isola da una fazione popolare sostenuta da Genova, che sfruttò quest’occasione per impadronirsi della Corsica. I signori feudali scampati a questa rivoluzione sociale furono eliminati a loro volta dal governo coloniale, in modo che prima della fine del XVI secolo la nobiltà isolana si trovava da una parte spossessata, dall’altra ridotta all’impotenza6. Affidandosi a Genova, gli isolani avevano cambiato una dominazione feudale con una dominazione coloniale, anche se i genovesi, arroccati in una decina di città fortificate sul litorale, non intervenivano che in minima parte nelle questioni rurali, ovvero nella percezione delle imposte e nell’amministrazione della giustizia di grado superiore. I corsi rimasero fortemente attaccati all’idea di potersi governare autonomamente, come già facevano, in larga misura, con l’intermediazione dei loro rappresentanti. Si videro sorgere, da un periodo all’altro della storia dell’isola, delle assemblee rappresentative nazionali o regionali, che sembravano riflettere un tipo di governo sempre presente nello spirito della popolazione. Già nel 1264 (molto prima della conquista genovese), il nobile Giudice de Cinarca era stato nominato provvisoriamente capo dell’isola e convocava i rappresentanti delle signorie e delle comunità libere per far loro adottare una forma rudimentale di governo nazionale7. Alcuni capi isolani nei periodi di ribellione e di guerra civile, e talvolta gli stessi genovesi, riunirono nel corso dei secoli delle assemblee di questo genere, conosciute con il nome di consulte o vedute. Queste tendenze mostravano ai capi della rivoluzione del XVIII secolo la via da seguire nella ricerca di un’organizzazione nazionale. Il popolo aveva già una lunga abitudine, sul piano locale, ad una forma di governo che sarebbe azzardato al giorno d’oggi chiamare democratico, ma che rispondeva ad un costume ben ancorato di amministrazione elettiva. La nobiltà allora era in piena decadenza; soltanto quattro famiglie conservavano le vestigia dei privilegi feudali, ed una sola, quella degli Istria, disponeva di un feudo di qualche importanza. Non che le differenze di condizione sociale fossero allora sconosciute: nel corso dei centosessant’anni di “pace genovese”, una nuova fascia di popolazione aveva acquistato autorità e una certa agiatezza. Si trattava dei notabili, che i documenti contemporanei designavano come patricii, principali, o più semplicemente migliori. Per la maggior parte mercanti nelle città, in campagna erano dei proprietari terrieri che approfittavano dei reali incoraggiamenti concessi all’agricoltura da Genova e che spesso si arricchivano con l’esportazione dei loro prodotti. Nondimeno questi notabili erano, tra gli isolani, quelli che si sentivano più danneggiati dal regime coloniale, perché Genova imponeva dei monopoli che intralciavano le loro attività commerciali. Come ha mostrato Francis Pomponi, i notabili rurali si erano accaparrati, a poco a poco nel corso del XVIII secolo, il controllo degli affari comunali. Essi erano i Capi populo, che menavano il giogo alle elezioni e si arrogavano le cariche principali, in modo che la concezione primitiva ed egualitaria della comunità si trovava ad essere già alterata. Non bisogna dimenticare, comunque, che i villaggi che gestivano ancora le terre comunali rappresentavano quasi il 30% della superficie dell’isola8 e che lo spirito egualitario era ancora così sentito da colpire gli stranieri che arrivavano in Corsica nel corso

6 Vedi CASANOVA A., Essai d’étude sur la seigneurie banale en Corse cit., p. 19. Per gli avvenimenti, EMMANUELLI R., L’Implantation génoise, in Histoire de la Corse a cura di ARRIGHI P., cit. 7 DELLA GROSSA G., Cronaca cit., pp. 181-82. 8 ALBITRECCIA A., Le Plan Terrier de la Corse au XVIIIe siècle, Paris 1942, Marseille 1981.

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del XVIII secolo: è il caso, tra gli altri, di Boswell e del conte di Marbeuf9. I notabili rurali non erano privi d’istruzione: come quelli delle città, fornivano alla Corsica medici, uomini di Chiesa e di legge, e quasi tutti avevano studiato nelle università italiane. Fino allo scoppio della rivoluzione contro Genova, essi furono i creatori dell’organizzazione nazionale. Si presenta immediatamente un’analogia tra il ruolo dei principali nella Rivoluzione corsa e quello della classe borghese nella Rivoluzione francese, sebbene con notevoli differenze sostanziali. Il termine “classe borghese” non è applicabile alla società corsa, la cui specificità esige un vocabolario ancora da definire. I notabili non formavano una classe sociale propriamente detta, se proprio si vuole denominare così un gruppo capace di mostrarsi solidale nella lotta contro gli altri strati della scala sociale. La società isolana era allora divisa piramidalmente in numerosi gruppi, ognuno con un capo, una famiglia dominante, degli alleati, dei dipendenti ed una clientela più o meno importante. Si trattava di una struttura arcaica, la cui impronta non è mai sparita dall’isola fino ai giorni nostri. Questi gruppi, vere e proprie potenze territoriali, e che conviene chiamare partiti o clan, vivevano in uno stato di continua rivalità, se non di ostilità, e riducevano sempre l’efficacia del movimento insurrezionale. Ciononostante, bisogna notare che all’epoca della rivoluzione non emersero quasi mai segnali di disaccordo tra i notabili e i contadini. Affievolita, certamente, dai conflitti tra i capi, e diversamente seguita a seconda delle regioni dell’isola, la rivoluzione acquistò forza sufficiente per far nascere la coesione tra le diverse categorie sociali dell’isola. § 4. Cause ed obiettivi della Rivoluzione. Sviluppo di una coscienza nazionale La rivoluzione scoppiò nel dicembre del 1729 da una rivolta contadina contro l’esazione delle imposte. Dapprima esitanti, i notabili si unirono con il clero (eccetto i vescovi, tutti conniventi con i genovesi). Numeroso in rapporto alla popolazione, ma povero, il clero corso non suscitava alcun sentimento d’ostilità in un popolo poco incline a mettere in dubbio le dottrine religiose. Monaci e preti secolari si segnalavano per la loro dedizione alla causa nazionale. Così, nello spazio di un anno, il movimento rivoluzionario si trovò organizzato sotto la direzione di due generali: uno nobile, l’altro notabile, ed un membro del clero, tutti e tre proclamati capi per volontà popolare. Abbiamo già analizzato gli avvenimenti dei quarant’anni di nascita e sviluppo della Rivoluzione corsa: in sostanza, i genovesi persero il controllo effettivo dell’interno dell’isola sin dalla prima campagna e non arrivarono mai a riprenderlo in modo durevole, mentre gli insorti non riuscirono mai a prendere possesso delle piazzeforti marittime. In diversi momenti i belligeranti ricorsero agli aiuti stranieri: i genovesi chiesero l’intervento dell’Imperatore Carlo VI (1731-32), in seguito della Francia (in maniera intermittente dal 1738), fino a quando non cedettero i loro diritti sulla Corsica a Luigi XV nel 1768. Gli insorti beneficiarono dell’intervento dell’Inghilterra, della Sardegna e dell’Austria, in seguito alla guerra di Successione austriaca. Per molto tempo i ribelli furono uniti più dalle lamentele che da un vero programma nazionale. Tutti reclamavano una diminuzione delle imposte; tutti erano esasperati dalla giustizia debole e corrotta, che ritenevano responsabile dei 900 omicidi commessi annualmente nell’isola e del brigantaggio generalizzato. Il malcontento era per di più aggravato dal dispotismo altezzoso dei membri del governo coloniale. D’altro lato, all’interno del movimento, i differenti gruppi sociali esprimevano delle rivendicazioni eterogenee. I contadini si accanivano soprattutto contro una fiscalità onerosa; i nobili decaduti domandavano la restituzione degli antichi privilegi e il clero il diritto di accedere alle alte cariche ecclesiastiche, riservate solo ai nativi di Genova. Dalla lettura della Cronica di Ambrogio Rossi, nel 1731, gli insorti sembrano ripartiti in tre posizioni: quella del partito indipendentista, che mirava a proclamare la Corsica repubblica indipendente: era la soluzione estremista, che la maggior parte della popolazione considerava irrealizzabile. Quella del partito protezionista, che voleva assicurare la protezione di un qualsiasi principe straniero per non dipendere più da Genova. Infine il partito concessionista, che voleva soltanto strappare delle concessioni a Genova, al limite con le armi. Movimento di decolonizzazione, la Rivoluzione corsa mancò, all’inizio, di una base ideologica. Se Genova avesse accolto l’insieme di queste rivendicazioni, la società corsa sarebbe potuta diventare più stabile e prospera, ma al tempo stesso più gerarchizzata: le numerose trattative intraprese con Genova furono un continuo fallimento. La speranza di trovare una protezione straniera venne ugualmente delusa. La Spagna rifiutò di interessarsi alla Corsica, mentre la Francia aspettò fino all’ultimo l’offerta di cessione che le venne da Genova soltanto nel 1768. La coscienza nazionale si sviluppò dietro lo stupore di queste continue delusioni. La soluzione di una repubblica indipendente, rigettata all’inizio, si presentava ogni volta di più come valida. Ridotti alle loro sole forze, gli insorti si trovarono obbligati a stabilire un’organizzazione politica per continuare l’azione rivoluzionaria e a creare in fretta una parvenza d’ordine tra una popolazione già demoralizzata dalla pessima amministrazione giudiziaria di Genova. Ne risultarono una serie di tentativi di organizzazione nazionale che terminarono nel 1755 con il governo di Paoli. Durante questo quarto di secolo, che Fernand Ettori descrive giustamente come «il passaggio dalla rivolta alla rivoluzione», le rivendicazioni dei diversi gruppi sociali cambiarono per forza di cose. Così Paoli riuscì a fare accettare un sistema egualitario nel suo concetto di fondo, borghese nella pratica, che contentava la massa, ma che indispose, a suo detrimento, la maggior parte dei nobili e dei notabili.

9 Comandante delle truppe francesi in Corsica, 1764-68, il conte di Marbeuf fu governatore militare dell’isola nel periodo compreso tra il 1770 ed il 1786.

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Figura 33: Ripartizione delle principali zone sociali ed economiche dell’isola nel XVIII secolo. § 5. Tentativi d’organizzazione politica: le Consulte Il primo saggio d’organizzazione politica di cui abbiamo testimonianza come documento originale è datato 30 gennaio 173510. L’insieme delle istituzioni adottate in questa occasione non merita certo il nome di costituzione; si tratta, come precisa Rossi, di un sistema di governo provvisorio, con la finalità di rafforzare l’unione dei ribelli e mettere un freno ai sanguinosi lutti tra le famiglie. Così una legislazione criminale caratterizzata da una grande severità andava di pari passo con le istituzioni, come sarà poi la regola per la maggior parte dei sistemi di governo corsi, compreso quello di Paoli. L’uso frequente dell’espressione «che s’elegga» all’interno di queste istituzioni non deve ingannare sull’estensione dei poteri dei tre generali (uno dei quali era Giacinto Paoli, padre di Pasquale) che sono chiamati Primati. La Giunta di Governo (corpo dotato di funzioni a un tempo legislative ed esecutive) e la Dieta Generale (assemblea rappresentativa della nazione, munita di poteri fiscali) erano elettive, ma si legge in un altro punto che i Primati conservavano il diritto di nominare i membri delle due assemblee. Si deve supporre che le elezioni potessero essere annullate dai Primati. Questo sistema, che ha avuto per risultato quello di confermare l’autorità dei generali, fu comunque approvato dai rappresentanti delle comunità, riunite in Consulta a Corte. Riallacciandosi all’antica pratica di convocare tali assemblee, i capi della rivoluzione non fecero altro che sviluppare un’istituzione abituale, appropriata alle circostanze ed in grado di aumentare i loro poteri. Delle Consulte furono convocate durante tutto il periodo dei primi venticinque anni di rivoluzione. Rossi ne enumera settanta per quell’epoca, delle quali solo una quarantina influenzarono realmente l’insieme dei territori impegnati nel movimento insurrezionale. La loro frequenza variava a seconda delle esigenze della situazione politica: più numerose all’inizio della rivoluzione (se ne contano cinque nel solo 1731), alla fine furono convocate al ritmo di due o tre per anno, aumentando notevolmente nei momenti più difficili della rivoluzione ed interrompendosi quando il paese finì provvisoriamente sotto il controllo delle potenze straniere. I capi militari indicavano nelle loro convocazioni le categorie di persone che speravano di vedere: erano sempre invitati i Padri di comune, i Podestà di tanto in tanto; inoltre erano convocati dei procuratori, eletti per la circostanza, con il fine di rappresentare la propria parrocchia e qualcuna delle sessantasette pievi. Potevano essere chiamate in causa almeno 300 parrocchie: una Consulta poteva raggiungere un numero davvero elevato di partecipanti in rapporto ad una popolazione inferiore ai 100.000 abitanti; Rossi, a questo riguardo, racconta che una Consulta nel 1731 riunì 4.000 persone. Un’assemblea numerosa costituiva un segnale di fiducia per i capi che l’avevano convocata e quindi essi

10 Pubblicato da LAMOTTE P., La declaration d’indipendance de la Corse. Consulte de Corte du 30 janvier 1735, «Etudes corses», 2° trimestre 1954.

Prevalenza del sistema signorile

Prevalenza del sistema mezzadrile legato ai commerci

Prevalenza del sistema comunitario agro-pastorale

Prevalenza del sistema mezzadrile legato al grande latifondo

LA CORSICA NEL XVIII SECOLO

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incoraggiavano a presentarsi, oltre alle persone appartenenti alle categorie già citate, un numero indeterminato di capi e buoni patriotti, capi de’ paesi o persone di buon senso e qualità. Si trattava, come si capisce, di potenti e di notabili ed è probabile che i Podestà, i Padri di comune e i procuratori fossero di condizione assimilabile. Nondimeno le consulte erano rivestite di una funzione di rappresentanza nazionale nella quale si rifletteva il costume del suffragio accessibile, in via di principio, a tutti i maggiorenni. Attraverso le consulte furono adottati i sistemi di governo successivi, che diedero alla Rivoluzione corsa il suo carattere originale. Durante questo periodo difficile, lo spirito d’inventiva politica degli isolani non venne mai meno. Anche quando Teodoro di Neuhoff, nell’aprile 1736, si fece incoronare re di Corsica, essi l’obbligarono ad accettare un regime di monarchia costituzionale. Gli fu aggiunto, infatti, un consiglio di ventiquattro membri, eletti per rappresentare le differenti regioni del paese, in modo da togliergli, di fatto, ogni potere reale. Teodoro abbandonò la Corsica verso la fine di quell’anno: il suo regno fu seguito da un intervento francese. Nel 1739 gli insorti furono battuti e i loro capi andarono in esilio, compreso Giacinto Paoli, che si ritirò a Napoli con il figlio Pasquale, allora quattordicenne. I tentativi di organizzazione politica ripresero in seguito con le consulte, ma solo dopo la partenza dei francesi. Diversi sistemi di governo furono adottati successivamente nelle consulte del 1743, 1745, 1746, 1747. Le nuove istituzioni non presentavano che delle minime variazioni: la carica di presidente fu concessa a un collegio di due o quattro generali (ugualmente chiamati presidenti o protettori); essi erano assistiti da alcuni corpi di magistrati nominati individualmente dalle consulte. In determinati periodi, essi esercitavano le loro cariche a turno, e lo stesso valeva per i capi di Stato. Giocando il ruolo di un’assemblea nazionale in modo più evidente e continuo rispetto alle altre diete e consigli convocati fino ad allora nei diversi regimi, tutti precari, le consulte arrivarono ben presto a costituire la base di un sistema oclocratico diretto dal notabilato. Non c’è affatto bisogno di sottolineare i difetti di questo sistema: non era stato previsto alcun meccanismo per rinnovare il personale dei governi stabiliti dalle consulte e tanto meno per convocare le consulte stesse, che restavano l’unica sicurezza della struttura politica della nazione. Questa struttura, del resto, era rudimentale: c’era una continua confusione tra le funzioni militari e civili, tra il potere esecutivo e quello giudiziario e mancava un’autorità legislativa definita e riconosciuta. Tuttavia, alla fine del 1752, dopo un secondo intervento francese e sotto l’impulso del generale Gaffori, fu adottato un altro sistema di governo nazionale, che non faceva altro che ripetere gli errori precedenti su scala più grande. Il potere supremo venne posto nelle mani di un tribunale, il Consiglio supremo, comprendente 103 membri che esercitavano a turno le loro cariche. Altri consigli furono investiti di poteri ad un tempo giudiziari ed esecutivi. I tre magistrati furono sottoposti alla sorveglianza di un corpo di sindacatori, istituzione ripresa dal governo genovese. L’assassinio di Gaffori nel 1753 fece vacillare il movimento insurrezionale e riportò in Corsica Pasquale Paoli. Prima di tornare, egli propose ai capi una nuova forma di governo: apparentemente quello che fu adottato da una Consulta composta dai rappresentanti del nord dell’isola, riunitasi qualche giorno prima del suo sbarco nell’aprile 1755. Essa si distingueva per un’estensione della pratica elettorale e per l’autorità quasi illimitata accordata ai corpi giudiziari. Il paese doveva essere retto da un consiglio di 72 magistrati, eletti nelle singole province, che, oltre ad esercitare il loro potere, dovevano riunirsi a Corte due volte all’anno. Le loro decisioni, compresi i giudizi sui delitti, sarebbero state prese a scrutinio segreto. La loro competenza non poteva essere messa in discussione, salvo nei rapporti con le potenze straniere; in questo caso, non potevano decidere nulla senza il consiglio di dodici assistenti, chiamati statisti, ed i rappresentanti delle pievi11. Il 15 luglio seguente, Paoli si fece eleggere Generale Capo. A questa Consulta parteciparono solo sedici pievi. Inoltre si presentò un candidato rivale, Emmanuele Matra, che non tardò a farsi proclamare generale in una nuova Consulta riunita con i suoi sostenitori. § 6. Creazione della Dieta Benché si trovasse in una situazione alquanto precaria, Paoli convocò un’altra Consulta nel novembre dello stesso anno: essa adottò la costituzione del 1755. A questa Consulta, Paoli diede il nome di Dieta generale: con un vero colpo da maestro egli non solo trasformò la struttura, ma anche il carattere del governo nazionale. Secondo la costituzione il Generale (vale a dire Paoli) aveva l’obbligo di convocare la Dieta una volta all’anno; in questo modo Paoli elevò a istituzione l’abituale assemblea nazionale. Con questa mossa, egli si guardò allo stesso tempo con abilità dagli intrighi di Matra o di altri capi rivali. Infatti, poiché la Dieta, che confermava la sua posizione, era un corpo dello Stato, tutte le altre consulte convocate dagli altri capi rivestivano, ormai, una forma irregolare e sovversiva. Tanto più che si era arrogato il diritto, di sua spontanea iniziativa in quanto capo dello Stato, di convocare delle assemblee di altro genere, congressi generali e particolari. In questo modo egli usò i mezzi più innocui per mettere fuori legge tutti i dissidenti politici e tutte le consulte convocate senza il suo consenso. Qualsiasi cosa si possa pensare del regime di Paoli, è evidente che la creazione della Dieta, che instaurava la separazione del potere legislativo e di quello esecutivo, donò al paese un’organizzazione che, rispetto a quelle precedenti, ben merita il titolo di costituzione. La Dieta ereditò le funzioni esercitate dalle consulte, vale a dire quelle di decretare le leggi, fissare le imposte e decidere della politica nazionale. In effetti, i deputati della Dieta erano perfettamente coscienti del loro ruolo tradizionale. Il testo di una risoluzione presa nella sessione del dicembre 1763 si richiamava alle antiche usanze del paese («inerendo alle antiche costumanze del regno»); le proposte presentate all’assemblea dovevano essere votate a scrutinio segreto («li voti segreti di tutti i vocali») e a maggioranza dei suffragi. Le decisioni prese dovevano essere rispettate come se i membri della Dieta avessero trattato di affari pubblici nelle loro assemblee parrocchiali: «come se vi fossero intervenuti li medesimi 11 Vedi la lettera di Paoli a suo padre, 20 ottobre 1754, in PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli cit.

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Populi con li loro Podestà e Padri del Comune». La Dieta godeva di un’indipendenza sconosciuta alle antiche consulte. Mentre i generali, un tempo, presiedevano le consulte, Paoli non aveva un seggio nella Dieta; non era che il presidente permanente di un consiglio esecutivo designato dalla Dieta stessa. D’altronde la Dieta, in quanto legislatura nazionale, aveva il potere di modificare la costituzione di cui Paoli era stato teoricamente l’autore. Che la costituzione del novembre 1755 sia stata opera di Paoli non c’è alcun dubbio; nondimeno viene mostrata come un’emanazione della Dieta, che rappresentava il popolo sovrano. La Dieta decretava l’istituzione del consiglio esecutivo, il Consiglio di Stato e a quest’ultimo conferiva l’autorità suprema negli affari politici, militari ed economici, e procedeva all’elezione di tutti i membri. § 7. Limiti ed estensioni dei poteri di Paoli Secondo le disposizioni comprese nel regime del 1752, i membri del Consiglio erano numerosi: 36 presidenti e 108 consiglieri, divisi in numero uguale nelle tre camere delle finanze, di giustizia e di guerra. Essi si riunivano due volte all’anno; nel resto del tempo assolvevano le loro cariche a turno per periodi di un mese per il presidente, e di soli dieci giorni per i consiglieri. Una tale composizione era concepita per soddisfare le pretese del maggior numero possibile di ambiziosi e per impedire a ciascuno di essi di prendere troppo potere. D’altronde, se essi non avessero esercitato le loro funzioni per un periodo molto limitato, secondo la costituzione del 1755, sarebbero stati eletti a vita o sarebbero arrivati a ergersi a gruppo dominante della nazione. Non sappiamo se furono i timori di Paoli o quelli della Dieta a spingere l’assemblea a modificare la composizione del Consiglio: nel 1758, esso venne ridotto a 18 membri eletti per sei mesi, con l’obbligo di risiedere a Corte, per essere poi portato, nel 1764, a 9 membri eletti per un anno. Ridotto e riorganizzato, il Consiglio di Stato aumentò il suo potere. D’altra parte, secondo Pommereul, da quando fu trasferito a Corte, subì ancora di più l’influenza di Paoli: egli era stato nominato a vita Generale della nazione. Anche se questo non era scritto da nessuna parte, era considerato scontato: nel maggio 1764 la Dieta decretò le modalità dell’elezione di un nuovo generale nel caso in cui il posto fosse vacante per la sua morte, o «in qualunque altra maniera». Questa maniera non poteva essere che una destituzione pronunciata dalla Dieta. Secondo la costituzione del 1755, Paoli doveva aprire ogni sessione con un discorso sugli atti del suo governo, per attendere poi «con sottomissione il giudizio del Popolo». Prendendo autorità dalla Dieta, Paoli dipendeva comunque dalle sue decisioni. In quanto capo generale e presidente permanente del Consiglio di Stato, i suoi poteri erano determinati con precisione, ma aveva doppia voce nelle deliberazioni del Consiglio e, in materia di guerra, il suo parere era decisivo. Era poi incaricato personalmente dei rapporti con le potenze straniere. Questa importante funzione non è menzionata nel documento del luglio 1755, ma gli fu accordata, con numerose riserve, alla fine della sua elezione al generalato nella Consulta del 1755. In questa occasione, fu deciso che Paoli sarebbe stato «capo politico ed economico», ma che non poteva trattare gli affari esteri senza consultare i rappresentanti della nazione12. Facendosi attribuire questi poteri, Paoli si considerava verosimilmente come un reggente costituzionale, facendo riferimento al monarca descritto da Montesquieu nel suo capitolo sulla costituzione inglese dell’Esprit des Lois13. Secondo Montesquieu, «il potere esecutivo deve essere nelle mani di un monarca», così come il comando dell’esercito e la politica estera e tutte le «cose che dipendono dal diritto delle genti». Rossi racconta che i corsi erano soddisfatti della loro costituzione, perché credevano che essa somigliasse non soltanto a quella di Sparta e a quella della Roma repubblicana, ma anche a quella inglese. Per contro, l’esistenza della Camera di Giustizia nel seno del Consiglio di Stato è in piena contraddizione con l’opinione di Montesquieu della separazione dei poteri, come affermava nello stesso capitolo dell’Esprit des Lois14. La Camera di Giustizia era il tribunale supremo della nazione; solo qui si poteva condannare all’esilio o a morte. Non era soltanto un tribunale: essa rappresentava la più alta autorità nelle questioni politiche e generali. Come era stato affermato nei documenti del novembre 1755, ciascuna delle tre camere doveva essere incaricata di una parte essenziale del governo, «cosicché quella del politico si dirà la Camera di Giustizia». In questo articolo della costituzione, Paoli non faceva che seguire la tradizione politica corsa, ma di fatto ebbe il controllo dei beni e della vita dei suoi concittadini. In pratica la Camera di Giustizia non giudicava che i crimini più gravi. Le altre questioni, di materia penale e civile, erano rimesse a diversi tribunali e magistrati, eletti in parte dal Consiglio di Stato, in parte dalla Dieta, in parte direttamente dal popolo, e rispetto all’esecutivo avevano una certa libertà d’azione15. Paoli sorvegliava comunque la giustizia ad ogni livello per mezzo del Syndicato. Istituzione ripresa dal regime del 1752, a un tempo tribunale dell’inquisizione e corte d’appello, il Syndicato venne stabilito, nel novembre 1755, per permettere alla Dieta di controllare i magistrati e i funzionari. Doveva essere composto dal generale e da quattro membri designati dalla Dieta. Le testimonianze contemporanee mostrano che il Syndicato, riunito a intervalli irregolari, funzionava come un tribunale itinerante, pratica che offriva a Paoli delle grandi possibilità per assicurare il proprio potere su tutta l’estensione dello Stato. I racconti di Boswell e Pommereul concordano 12 Paoli non poteva trattare «di materia di Stato» senza l’intervento dei «deputati e rispettivi rappresentanti» (ROSSI A., op. cit., L. X, p. 124). «Materia di Stato» sarebbe un’espressione poco chiara se non conoscessimo il testo dell’aprile del 1755, dove senza alcun dubbio «materie appartenenti allo Stato» significa affari esteri: «Dichiariamo per ciò che dovendosi trattar con qualsivoglia Principe di materie appartenenti allo Stato...». 13 MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, in Oeuvres complètes, ed. A. MASSON, Paris 1950-1955, to. 1, pp. 168, 173, 163. 14 «Non c’è affatto libertà se il potere di giudizio non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo» (MONTESQUIEU, op. cit., t. 1, p. 164). 15 La Rota civile, composta di 3 dottori in diritto nominati a vita dal Consiglio; le magistrature provinciali, in cui il presidente era eletto dalla Dieta per un periodo di 6 mesi. I giudici eletti in ogni pieve dal popolo; i podestà che avevano la funzione di giudici di pace nelle loro parrocchie. Secondo Boswell, i nobili (cioè quelli che ancora avevano qualche feudo) erano incaricati di esercitare la giustizia nei loro domini, senza la sorveglianza dei magistrati provinciali, ma sempre sottoposti all’autorità della camera di Giustizia e del Sindicato. Fu l’unico privilegio che Paoli accordò alla nobiltà.

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nell’affermare che il Syndicato agiva con uno spirito di conciliazione e di clemenza. Tutt’altra cosa era la Giunta della guerra, tribunale non previsto dalla costituzione del 1755, ma istituito dalla Dieta in tempo di crisi per infierire contro i traditori e i banditi. I suoi membri percorrevano il paese con pieni poteri, avendo anche il diritto di chiedere l’aiuto dell’esercito; potevano far rinchiudere in prigione, torturare, confiscare e distruggere i beni del condannato. Lo stesso diritto di condannare a morte, riservato alla sola Camera di Giustizia, fu aggiunto quando Paoli, già presidente del Consiglio di Stato, venne nominato presidente anche di questa giunta. Così nel maggio 1762, la Dieta ordinò la creazione di un Giunta della guerra, con Paoli presidente, «con la facoltà di procedere sino alla pena di sangue contro i sediziosi e perturbatori della pubblica quieta». Se un simile tribunale poteva essere giustificato in tempo di guerra è perché in realtà forniva a Paoli un formidabile strumento di dittatura. Era con questa terribile giunta, secondo Pommereul, che Paoli annientava i suoi antagonisti, all’epoca numerosi e minacciosi. Infatti, durante i primi otto anni del suo regime, aveva dovuto lottare contro dei nemici dichiarati: nel nord dell’isola c’era la fazione di Matra, aiutata da Genova, che si opponeva con le armi in pugno; nel sud quella di Antonio Colonna, nobile sostenuto dai francesi, che riuscì a riunire un partito filo-genovese nella Consulta del 1758. Soltanto alla fine del 1763 Paoli riuscì a sconfiggere questi gruppi ostili, in concomitanza con la cacciata dei genovesi dal Capo Corso e dalle loro ultime roccaforti, fatta eccezione, come già sappiamo, per le città costiere.

Figura 34: Antica mappa del 1766 di Louis Brion de la Tour. § 8. Paoli e la Dieta: Composizione dell’assemblea Le testimonianze contemporanee portano a credere che a partire dal 1763, da quando era riuscito ad assicurare la propria posizione e a consolidare la liberazione dello stato, Paoli si fosse impegnato a dominare la Dieta. Una volta definiti i poteri della costituzione, egli la utilizzò per assicurare i propri. Paoli si trovò così ad aver creato un’istituzione

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assolutamente eccezionale e con un enorme potere, che in seguito venne ridotto. La Dieta corsa era eccezionale per la sua stessa esistenza: infatti nessun paese d’Europa era dotato, allora, di una legislazione con un carattere di rappresentanza nazionale. I suoi poteri erano notevolmente estesi: essa decretava le leggi e fissava le imposte, come faceva il Parlamento inglese: ma dato che le decisioni di quel parlamento erano sottoposte alla volontà del re, la Dieta disponeva di una libertà ancora maggiore. Essa designava i capi dell’esecutivo, mentre in Inghilterra la nomina dei ministri apparteneva al monarca. Inoltre, secondo la costituzione corsa, la Dieta aveva un potere di censura e di destituzione verso qualsiasi membro dell’esecutivo, Paoli compreso. In quanto corpo dello Stato rappresentante la nazione, la Dieta (secondo le disposizioni della Consulta del luglio 1755), poteva esercitare, almeno in teoria, un controllo sulla politica estera. Non sorprende, quindi, che Pommereul, preso dal culto contemporaneo per la libertà, parlasse con entusiasmo di questa assemblea: «in essa risiede pienamente e senza limitazioni il potere legislativo e il potere sovrano» a differenza degli Stati generali d’Olanda e del Parlamento inglese, che ai suoi occhi non erano che delle «barriere contro il potere assoluto». Senza dubbio Pommereul non aveva considerato l’influenza che il parlamento inglese aveva preso sull’esecutivo con la “scappatoia” del ministro di Gabinetto. E verosimilmente ignorava la contemporanea costituzione della Svezia, dove il Rikstag possedeva gli stessi poteri della Dieta corsa e nominava anch’esso i membri del consiglio esecutivo ed in cui il re, come Paoli, non era che il presidente, con una doppia voce nelle sue deliberazioni16. L’aspetto più liberale ed originale della Dieta corsa risiedeva nelle elezioni attraverso cui il popolo si faceva rappresentare. Durante tutta la durata del regime, non fu richiesta alcuna particolare qualità agli elettori e agli eletti, se non quella di avere più di venticinque anni17. Questo principio era la continuazione di una antica abitudine praticata attraverso i secoli nell’amministrazione delle parrocchie. Nell’Europa di quell’epoca, pertanto, una tale organizzazione appariva come una sorprendente novità. Nessuno aveva ancora progettato, in nessun paese, l’elezione dei membri di una legislatura nazionale con suffragio universale. Le assemblee che esistevano allora erano elette e controllate da alcuni settori ristretti e privilegiati della società. Né il parlamento inglese né il Rikstag svedese sfuggivano a queste regole. È stato detto che la Dieta derivava la sua struttura dalle consulte, ma non è stato detto nulla circa la sua composizione nel documento del novembre 1755; era evidente che i membri dell’assemblea nazionale sarebbero stati reclutati nello stesso modo che nel passato. Ora, nonostante queste abitudini tradizionali, i membri eletti dal popolo non erano più i soli a partecipare alla Dieta. Paoli, conformemente alle prerogative esercitate dai suoi predecessori, si riservò di convocare altre categorie di persone. Così nel maggio del 1762, invitò i presidenti e i consiglieri delle magistrature provinciali a riunirsi nella successiva sessione della Dieta, ed ugualmente fece per i commissari delle pievi18; questi ultimi erano dei comandanti militari che erano stati designati dal Consiglio di Stato, vale a dire, di fatto, da lui. A partire dal 1763, invitò il clero a partecipare alla Dieta; nella sua lettera di convocazione del gennaio dello stesso anno, fece convocare i vicari foranei e i pievani (preti che avevano autorità nelle singole pievi)19. In seguito il clero ebbe il suo specifico sistema rappresentativo, in ragione del quale aveva la possibilità d’inviare alla Dieta 136 membri. Lo stesso Rossi non si faceva illusioni riguardo ai motivi che spinsero Paoli a dare al clero una voce così potente nell’assemblea: accettava le richieste che gli venivano fatte per renderli docili. In effetti, il clero si piegava alle esigenze dello Stato acconsentendo ad una contribuzione finanziaria generosa. La Chiesa corsa fu per Paoli un’alleata sicura ed egli non si era fatto alcuno scrupolo nell’usurparne i privilegi. Molto prima che il clero fosse ammesso alla Dieta, l’assemblea aveva decretato una legge per sottometterlo al diritto comune20. Anche se non sedeva di persona nella Dieta, Paoli aveva comunque i mezzi per influenzarla. Il suo discorso d’apertura all’inizio di ogni sessione, in cui doveva rendere conto del suo operato come capo del governo, gli forniva l’occasione d’inserire all’ordine del giorno le questioni che considerava più urgenti: la creazione di una moneta, di una marina, di un’università, così come le modificazioni da apportare alla costituzione. Per imporsi aveva bisogno di una maggioranza sicura e fedele. È per questo motivo, senza dubbio, che egli convocò il clero, docile e patriota, i commissari, che gli erano debitori del loro compito, e diversi membri dell’esecutivo e del giudiziario sui quali, lo si può pensare, esercitava una certa influenza. In compenso sembrava che Paoli cercasse di ridurre il numero degli eletti dal popolo. Questo risulta già dalle lettere di convocazione del maggio 1762 e del gennaio 1763: il generale non invitava i rappresentanti delle parrocchie, in numero di trecento e più, ma quelli delle sessantasette pievi21. Questi ordini verosimilmente non furono seguiti, tanto che nel dicembre 1763, la Dieta, riunita per la seconda volta durante l’anno, in sessione straordinaria, decretò una legge per limitare, per l’avvenire, i rappresentanti del popolo a uno per pieve, scelti a sostegno delle elezioni di secondo grado. Paoli aveva convocato in questa sessione non soltanto le categorie di persone che avevano partecipato alle sessioni precedenti, ma anche i Podestà e i Padri di comune di ogni parrocchia. Gli eletti dal popolo, anche se tutte le parrocchie avevano inviato i loro procuratori, si sarebbero dunque trovati in minoranza. Tenerli in 16 Vedi SVANSTROM M. e PALMSTIERNA C., A short History of Sweden, Oxford 1934, pp. 189-253. Il Rikstag era composto da quattro stati, in cui uno rappresentava i contadini. I nobili non erano mai eletti, ma assistevano di diritto alle sedute; essi predominavano al consiglio esecutivo, come anche nel Comitato segreto, organo potente nel seno del Rikstag, dove i contadini erano esclusi. 17 Non si può sapere con sicurezza se questa regola, che non figura in nessuna legge, si applicava agli elettori come agli eletti. Paoli precisò, in una lettera circolare di convocazione della Dieta del 1764, che i procuratori dovevano essere «uomini che siano maggiori di anni 25 finiti», ma non spiegava se questa specifica età fosse richiesta agli elettori. 18 Lettera circolare del 16 maggio 1762, Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7. 19 Lettera circolare del 7 gennaio 1763, ibidem. 20 ROSSI A., Osservazioni storiche sopra la Corsica cit., XI, p. 71. Il clero fornì dei metalli provenienti dagli oggetti di culto ecclesiastici per il conio delle monete. 21 Lettere circolari del 16 maggio 1762 e 7 gennaio 1763, Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7.

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minoranza in maniera permanente era lo scopo della legislazione che fu allora adottata dall’assemblea22. Se la nuova legge fosse stata rispettata, gli eletti del popolo sarebbero stati ridotti a sessantasette, numero veramente insignificante in confronto a quello del clero, a cui erano state aggiunte altre persone che potevano sedere nella Dieta. Ma questa legge non fu rispettata. Boswell e Pommereul si accordarono nell’affermare che le parrocchie oltrepassavano la legge continuando ad inviare alla Dieta ogni loro rappresentante eletto a suffragio diretto. Inoltre, allo stato attuale, non è stato ritrovato un solo documento concernente l’elezione di un procuratore di una pieve al secondo grado, anche se le attestazioni delle elezioni dei procuratori delle parrocchie sono numerose negli archivi corsi. Si può immaginare che la nuova legge sia stata male accolta, a giudicare dal procedimento piuttosto contorto, usato da Paoli per presentarla alla convocazione della sessione della Dieta del maggio 1764. Egli non fece parola, nella sua lettera circolare, delle elezioni dei rappresentanti di pievi, ma invitava ogni parrocchia e viceparrocchia a procedere all’elezione di un procuratore, spingendo ogni cittadino a votare con il rischio di incorrere in un’ammenda. Il procuratore doveva essere munito dei poteri prescritti in un formulario stampato, aggiunto alla lettera di convocazione23. Si tratta di un documento di più di mille parole, redatto in forma di attestazione notarile, in vista dell’elezione del procuratore di una parrocchia. Questi era autorizzato ad assistere alla Dieta, dove aveva il potere di «suggerire, insinuare, dire, proporre, domandare, rispondere, opporre o contraddire tutti ciocchè stimerà buono, espediente utile, o necessario per lo suo Populo, Comunità ed Università, ed uomini della medesima, e per tutto il Comune del regno e nazione tutta»24. Il repertorio delle sue funzioni era costituito da altre 500 parole, costituendo un’esposizione completa delle funzioni della Dieta. Solo verso la fine del documento si legge che il procuratore, munito di tanti poteri e responsabilità, aveva anche l’autorità di riunirsi con gli altri della sua pieve per eleggere uno o più procuratori rappresentanti la pieve intera. La nuova legge non venne quindi presentata come un ordine, ma come un invito ad esercitare un nuovo potere ed era già stata modificata per permettere l’elezione di più procuratori rappresentanti della pieve. I procuratori eletti nelle parrocchie erano, in effetti, muniti di queste attestazioni; negli archivi corsi se ne trovano circa trentaquattro per l’anno 1765. La maggior parte di esse (ma non tutte), fanno menzione del diritto che aveva l’eletto di procedere all’elezione di uno o più procuratori per rappresentare l’intera pieve; tuttavia non è stato ancora trovato alcun documento che permetta di supporre che una tale elezione al secondo grado sia mai avvenuta. Mancano le informazioni per sapere quali motivi o circostanze abbiano potuto ispirare una nuova legge elettorale nel 1766. Comunque la Dieta di quell’anno decretò un regolamento che ha cambiato radicalmente la maniera di eleggere i procuratori nelle parrocchie. Per comprendere questo sistema alquanto complicato, e che Rossi riporta in modo inesatto, è necessario risalire al documento originale conservato all’Archives di Ajaccio. Attraverso lo studio di questo documento si può affermare che la libera scelta tradizionale dei procuratori era stata abolita. Ormai, in ogni parrocchia, i candidati, in numero di tre, venivano proposti agli elettori dal Podestà e dai Padri di comune. Allo stesso tempo, era stato abolito il suffragio universale: solo i capifamiglia avevano diritto di voto. Ciascuno di essi votava, con scrutinio segreto, a favore o contro uno dei tre candidati. Sarebbe stato eletto quello riportava più dei due terzi dei suffragi. Se, al contrario, ciascuno dei tre non otteneva la maggioranza dei due terzi, doveva avere luogo un’altra elezione, per la quale i candidati venivano proposti dai capi delle famiglie. Se qualcuno dei tre candidati così scelti otteneva una maggioranza di due terzi, la parrocchia sarebbe stata privata della rappresentanza a quella sessione della Dieta, «pena della disunione in cui vive». L’esame delle 248 attestazioni delle elezioni dei procuratori alla Dieta del 1768 indica che questo sistema, in generale, non era stato ben seguito. Solo cinque di esse precisano in modo chiaro ed indiscutibile che le elezioni si erano svolte secondo le prescrizioni della nuova legge. Notiamo che queste non menzionano in nessun modo il diritto dei procuratori di procedere ad un’elezione, al secondo turno, dei rappresentanti delle loro pievi. La legge elettorale del 1766 diede scacco a quella del 176325. Si deve supporre che Paoli avesse rinunciato al disegno di ristringere il numero degli eletti. È pertanto difficile capire le ragioni che lo hanno potuto spingere a formulare la legge elettorale del 1766, ammesso che egli ne fosse l’autore. Gli scopi della nuova legge potevano essere: la concessione della scelta dei candidati a uomini abituati a trattare gli affari pubblici, la limitazione del suffragio ad elettori con la facoltà di un giudizio ponderato o l’assicurazione che lo scrutinio, ormai segreto, si svolgesse secondo un ordine rigoroso. Le nostre conoscenze del sistema elettorale corso e della politica di Paoli consentono di trarre anche altre conclusioni: limitare il voto ai soli capifamiglia era un modo per impedire alle famiglie composte da molti membri maschi d’imporsi alle elezioni; era un fatto impensabile, in Corsica, che un figlio votasse diversamente dal padre. In questo modo Paoli poteva difendersi dalle ambizioni delle famiglie numerose, o secondo l’espressione corsa, «ricche in uomi». Stabilire lo scrutinio segreto era un altro modo per frenare la loro influenza nelle elezioni. Allo stesso tempo, la scelta dei candidati al primo turno era messa nelle mani degli ufficiali municipali, persone sulle quali Paoli aveva la possibilità di esercitare qualche pressione. Insomma, si può pensare che la legge del 1766 sia stata approvata per fare da contrappeso alle ambizioni dei clan locali.

22 Lettera circolare, 29 novembre 1763, ibidem. In questa stessa sessione fu accordato ai magistrati provinciali il diritto d’eleggere i loro propri rappresentanti nella Dieta. 23 Un esemplare di questo formulario si trova all’Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7. 24 Lettera circolare del 29 marzo 1764: Formulario della scrittura Da Stendersi di ciascheduna Parrocchia, e Vice-Parrocchia per costituire li Sindici e Procuratori di essi. 25 Rapporto della Dieta del maggio 1766. «Mentre soffre per la disunione nella quale vive». Le disposizioni della legge del 1766 non erano senza precedenti nei costumi locali tradizionali; le elezioni nelle assemblee parrocchiali, d’altro canto, potevano essere valide agli occhi degli amministratori genovesi, dovendo essere fatte dai due terzi della popolazione: in certi villaggi votavano solo i capifamiglia. Cfr. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C8.

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§ 9. Elettori ed eletti Chi veniva eletto alla Dieta, e da chi? Le risposte a queste domande potrebbero chiarirci le idee sugli intrighi di Paoli e dare un’immagine più esatta al carattere del suo governo. Come prime testimonianze abbiamo le attestazioni elettorali conservate all’Archives départementales de la Corse du Sud (Ajaccio); se ne possono contare 34 per l’anno 1765 e 248 per il 1768. L’analisi dettagliata di questi documenti, tenuto conto dei dati provenienti da altre fonti, fornisce delle chiarificazioni sulla condizione sociale degli eletti e degli elettori, permettendo di comprendere, relativamente ad alcune zone, in quale proporzione la popolazione si servisse del diritto di voto. Quello che stupisce all’inizio della lettura delle attestazioni, è il numero ristretto di persone che sembrano aver partecipato alle elezioni. Conviene evidentemente considerare con riserva i documenti del 1768, quando il voto era limitato ai soli capifamiglia, anche se non sono state rinvenute fonti che attestino il rispetto effettivo di questo regolamento. Secondo il formulario distribuito da Paoli nel 1764, il procuratore di una parrocchia doveva essere nominato nel corso di una riunione composta dal Podestà, dai Padri di comune, «e con essi tutti del detto luogo... le quali compongono la maggior parte, e quasi tutta la Comunità». Quando arriviamo ad esaminare le attestazioni, troviamo molto spesso che i nomi del Podestà e dei Padri di comune (qualche volta designati come “i nobili”), sono seguiti da un piccolo numero di persone che avevano un’importanza ufficiale o sociale in seno alla comunità, o una descrizione collettiva di quelle persone che pretendevano di comporre la maggior parte della comunità. Tanto che, nel 1765, sono menzionati a Pino, con i loro nomi, otto anziani (ufficiali municipali), e a Canari sei; a Casaglione è una questione di “capi populi”, a Morosaglia dei “sign. di consiglio sindici” (membri di un consiglio municipale). Anche se si trattava soltanto di formule stereotipate, possiamo supporre che si trattasse realmente di una assemblea parrocchiale plenaria, come a Moriani, dove sono «radunati tutto il Populo e homini». In aperto contrasto, bisogna citare Sartena, città che contava allora circa 800 abitanti, dove solo due anziani, con il notaio e i suoi testimoni, dichiaravano di aver costituito il procuratore della città. Probabilmente il popolo, in principio, si era disinteressato delle elezioni, o lasciava nominare i suoi rappresentanti dagli ufficiali municipali e da qualche nobile. I documenti in questione, si ricorda, non sono dei processi-verbali sullo svolgimento delle elezioni, ma delle attestazioni che «tali persone sono state elette». Ufficiali municipali, notai, testimoni, notabili, assistevano dunque alla registrazione di una scelta: non veniva detto che erano i soli a farla. Secondo la formula prescritta da Paoli nel 1764, questa selezione è sempre descritta come unanime: il procuratore viene eletto a unanime consenso. Non viene mai fatta menzione dei candidati rivali, o di una qualsiasi opposizione (salvo, beninteso, in quei documenti che riflettono la legge elettorale del 1766). Le attestazioni, nella maggior parte dei casi, si presentano dunque come testimonianze della fase finale delle discussioni che avevano portato alla scelta di un rappresentante. Fino al 1766, sembra che seguendo l’antico costume delle assemblee parrocchiali, il voto sia stato fatto per acclamazione. La legge del 1766 introdusse lo scrutinio segreto: nelle attestazioni dei villaggi dove i regolamenti sono stati pienamente rispettati, si trova menzionata, per la prima volta, l’urna. Si votava a favore o contro i candidati con dei biglietti bianchi o neri, come è indicato a Corte e a Fozzano. Queste due comunità fornivano delle cifre precise riguardo al numero dei votanti. A Corte 11 capifamiglia si erano recati alle urne. Un censimento fatto nel 1768, durante l’occupazione francese, permette di constatare che esisteva oltre il 50% di astensione al voto, dato che questa città di 1369 abitanti contava allora 229 capifamiglia maschi. A Fozzano, i 75 votanti indicati nell’attestazione del 1768 corrispondevano esattamente al numero di fuochi segnalati nello stesso censimento. Le attestazioni nel 1768 di altri villaggi che fornivano delle indicazioni sulle modalità del voto, mostrano la lista nominativa degli elettori, il cui numero non era affatto in rapporto con quello dei capifamiglia censiti un anno dopo. Ad Algajola votarono 40 uomini, nonostante ci fossero nel 1769 solo 32 capifamiglia; a Castifao una cinquantina, mentre i capifamiglia erano 70; a Zicavo, capoluogo della pieve di Talavo, con 125 capifamiglia e 686 abitanti, nelle attestazioni elettorali si trovano soltanto i nomi di 14 persone, oltre agli ufficiali municipali, che dichiaravano di essere «la più e migliore e maggior parte, e quasi tutta la comunità». Nello stesso tempo, sette piccoli villaggi dei dintorni si unirono per eleggere i propri procuratori servendosi di un solo notaio; non si trattava dell’elezione di un rappresentante della pieve, ma di una unione di convenienza, conclusa verosimilmente per limitare le spese notarili. Ciascun villaggio inviava «nel luogo detto Tiga», i Podestà e i Padri di comune e almeno le comunità più importanti, una o due altre persone. Si può supporre che essi costituissero i loro procuratori secondo una scelta prestabilita nelle loro parrocchie e non è da escludere che il popolo influì più sulle elezioni di quanto appare, a prima vista, nelle attestazioni notarili. Tra gli eletti si riscontrano molti nomi di famiglie ben conosciute nella storia dell’isola, e appartenenti ad alcune classi della società costituite da nobili decaduti e da notabili ambiziosi. La maggior parte di queste famiglie riuscirono a farsi attribuire dei titoli nobiliari in seguito alla conquista francese. A Sartena fu eletto un Petri, a Olmeto un Peretti, a Zerubia un Susini, a Santa Maria d’Ornano un discendente della celebre famiglia di feudatari di quel luogo. Un Muraccioli fu eletto a Vivario, un Savelli a Cateri. A Corte, nel 1768, Francesco Gafforio riportò la maggioranza dei voti; figlio del generale capo dei patrioti assassinato nel 1752, abbandonò Paoli in seguito all’invasione francese e si segnalò come realista durante la Rivoluzione. Uno dei suoi antagonisti nell’elezione di Corte fu un Arrighi, membro di una famiglia che divenne illustre sotto l’Impero nella persona del duca di Padova, parente di Napoleone. Nello stesso 1768, i pastori di Casamaccioli, villaggio su un altopiano, scelsero come loro procuratore un certo Sansone Ordioni, «uno dei migliori di detto luogo», il cui discendente fu generale e barone dell’Impero. Che i notabili fossero predominanti nella Dieta era una cosa quasi inevitabile. Le parrocchie, senza dubbio, giudicavano importante farsi rappresentare da persone istruite, che facessero buona impressione all’assemblea, e che fossero capaci

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di sopportare le spese della loro carica: era necessario, infatti, che i deputati riuscissero a pagare la spesa del viaggio a Corte ed il soggiorno nella capitale, che poteva durare anche tre settimane, come previsto nella sessione del maggio 1764. In questa occasione Paoli ebbe bisogno di ricordare ai procuratori che loro dovevano sopperire ai loro bisogni personali senza contare sull’ospitalità della città. Fu comunque permesso loro di farsi rimborsare dalle rispettive comunità alcune spese, ma non quelle relative alle guardie del corpo, ai pedoni e fucilieri, che potevano portare a Corte. Boswell affermava che il sussidio dei procuratori era fissato a una lira al giorno, che si rivelò insufficiente sin dall’inizio: questa somma era infatti il salario normale di un bracciante26. § 10. Paoli contro la Dieta Leggendo i testi relativi alle elezioni, notiamo che i notabili erano proprio le persone che Paoli desiderava vedere nella Dieta. Il testo della legge elettorale del dicembre 1763 incitava il popolo a scegliere come procuratori i cittadini che non soltanto erano i più illuminati e zelanti, ma anche i più facoltosi; questi stessi ordini sono ripetuti, a più riprese, in termini quasi identici, nella lettera attraverso la quale Paoli convocò la sessione della Dieta nel marzo 1764. Il testo della legge del 1766 insiste ugualmente sulla necessità di scegliere dei procuratori illuminati, pieni di zelo, e oltretutto ben visti; c’era ancora un’allusione ai migliori. I risultati delle elezioni sembravano dunque ben rispondere alla volontà del capo dello Stato27. Comunque, egli si muoveva su un campo disseminato di mine. Se trovava tra i notabili qualche collaboratore di valore, doveva sempre attendersi che qualcuno di loro gli si rivoltasse contro, utilizzando la propria famiglia e i propri alleati. Nobili e notabili gli erano stati contrari nei primi anni del suo regime e alcuni di essi lo tradirono durante l’invasione francese. In quel frangente bisognava capire che il malcontento era cresciuto: i nobili, che avevano sperato di riacquistare gli antichi privilegi durante la rivoluzione antigenovese, si trovarono al contrario sottoposti ad un regime a carattere democratico; i notabili, privati della libertà di commercio, trovarono i migliori porti dell’isola nelle mani dei genovesi, che tra l’altro mantenevano il blocco navale. Senza dubbio la verità è nella confessione che fece Paoli, nel 1769 dopo la sua sconfitta, a Saverio Bettinelli, come testimonia una sua lettera: «…non è mai stato padrone in Corsica ed ha sempre avuto attorno a sé le gelosie derivate dalla sua gloria e dalla sua autorità»28. Queste gelosie appartenevano precisamente alla categoria della popolazione che forniva i membri eletti alla Dieta; e la Dieta, non va dimenticato, aveva il potere di destituire il capo dello Stato in qualsiasi sessione. Visti i pericoli che rappresentava la Dieta per Paoli, non è strano che egli tentasse apertamente e subdolamente di ridurre il potere di questa assemblea. Anche quando la Dieta si riunì nel maggio 1764, Paoli l’attaccò frontalmente domandando di accordare al Consiglio di Stato un diritto di veto. Secondo Pommereul, egli avrebbe all’inizio domandato il diritto di veto assoluto, che avrebbe avuto l’effetto di «renderlo sovrano»; ma questo proposito, sempre secondo Pommereul, fu vivamente contrastato dall’assemblea. Essa comunque finì per adottare un progetto modificato con il diritto di veto sospensivo. Anche Boswell ha parlato di un veto sospensivo, affermando che questa proposta riscontrò un’opposizione tale che dubitava sarebbe stata mai accettata. Secondo la legge che fu alla fine promulgata, una “risoluzione” della Dieta per avere forza di legge doveva ottenere i due terzi dei voti dell’assemblea e l’approvazione del Consiglio di Stato. In caso di rifiuto la risoluzione poteva comunque essere riconsiderata, dopo che il Consiglio aveva spiegato le ragioni del dissenso, in una successiva sessione della Dieta. Le risoluzioni che avevano raccolto soltanto la metà dei voti potevano essere ripresentate una seconda e una terza volta nella medesima sessione. Quelle che raccoglievano meno della metà dei voti sarebbero state rifiutate; esse potevano comunque essere ripresentate in una sessione futura, a condizione che il Consiglio di Stato lo consentisse. Per Paoli questa non era che una mezza vittoria: in tutte queste lotte con la Dieta non era stato sostenuto dall’autorità del suo ruolo: Montesquieu non aveva forse scritto che il potere esecutivo fa parte del legislativo «per la facoltà di astenersi»? Le testimonianze contemporanee indicavano che dopo questo affronto Paoli indurì il suo atteggiamento verso la Dieta cercando di governare il più possibile con il solo potere esecutivo. Secondo i termini della sua elezione al generalato nel giugno 1755, doveva consultare i rappresentanti della nazione tutte le volte che trattava con i paesi stranieri. I rappresentanti della nazione erano i membri della Dieta: pertanto, per quello che riguardava gli affari esteri, Paoli, piuttosto che riunire la Dieta, si serviva del diritto che gli era stato accordato dalla costituzione del novembre 1755 di convocare dei congressi particolari. Così, quando bisognava adottare una politica nazionale verso le truppe francesi stabilitesi nelle città marittime a partire dall’agosto 1764, Paoli convocò, nell’ottobre dello stesso anno, un Congresso straordinario, nel quale invitò i consiglieri di Stato dimessi, soprattutto quelli che erano stati riconosciuti come capi popoli e alcuni membri dell’esecutivo che esercitavano in quel momento le loro cariche. Al Congresso presenziavano, senza dubbio, tutte le persone che erano attaccate, o che dipendevano, dalla sua autorità. Le decisioni prese in questo congresso e i risultati che ne derivarono furono comunicate alla Dieta solo alla fine della sessione ordinaria del maggio 176529. Ci fu comunque un momento ancora più critico, nel 1767, quando la corrispondenza diplomatica che Paoli intratteneva con Choiseul portò ad una bozza di accordo tra la nazione corsa e Genova. Paoli riunì allora un altro congresso particolare, di composizione simile al precedente, al quale diede il nome di Gran consiglio della Nazione. Pommereul sosteneva che attraverso questo procedimento, Paoli aveva trasformato un 26 Lettera circolare di Paoli, 27 aprile 1764, Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7. 27 Rapporto della Dieta del dicembre 1763; lettera circolare di Paoli del 29 marzo 1764; rapporto della Dieta del maggio 1766. Vd. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7. 28 BETTINELLI S., Observations sur M. de Paoli écrites à Madame de l’Hopital cit., p. 1881. 29 Secondo la spiegazione più precisa di Ambrogio Rossi, Paoli invitò a questo congresso, oltre ai consiglieri di Stato dimessi: «tutti l’impiegati attualmente»; cfr. il discorso di Paoli alla Dieta del maggio 1765, Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Fonds Paoli C7.

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sistema di governo democratico in un sistema aristocratico30. Comunque, secondo le testimonianze dell’epoca, Paoli aveva abilmente raggirato la costituzione, senza mai violare i suoi principi. Nella sua lettera di convocazione alla sessione della Dieta del 1767, aveva invitato ad assistere gli ex-consiglieri di Stato: in questo modo la Dieta fu rappresentata al Gran consiglio una volta in più. § 11. Paoli e la nazione Nelle diverse opere che hanno trattato la costituzione di Paoli, si riscontrano fondamentalmente due interpretazioni. Da una parte, quella di Paoli come capo di uno stato democratico, adorato dall’intera nazione: è la tesi proposta da Boswell e che è diventata, per così dire, una leggenda storica. Dall’altra la tesi di un Paoli che, a dispetto del sistema rappresentativo di cui era stato l’autore, ripiegò, per desiderio personale, verso il dispotismo, la dittatura: così viene giudicato il capo dello Stato da Pommereul ed anche, con qualche titubanza, da Rossi e da alcuni storici recenti (tra cui Venturi ed Ettori). Nessuna delle due tesi è sostenibile in base alle testimonianze analizzate. Se volessimo seguire il ragionamento di Boswell, che ha descritto Paoli, in modo convincente, come l’idolo dei contadini corsi, dovremmo riconoscere che comunque egli ha dovuto lottare contro l’opposizione tenace di un partito di nobili e di notabili che poteva contare sull’appoggio popolare. Questi capi, molto più dei contadini analfabeti, erano in grado di resistere alle strutture del regime. Il problema di Paoli era di non poter governare senza i notabili. Per risolverlo egli cercava di rafforzare in continuazione la sua autorità. Ma questa politica, praticata insidiosamente, con scaltrezza ed astuzia, contrastava con un paese che si voleva già liberare da un regime. In pratica Paoli, che secondo la costituzione da lui concessa, aveva meno poteri di qualsiasi sovrano dei suoi tempi (con l’eccezione, senza dubbio, del re di Svezia e del monarca eletto in Polonia), fu vivamente tacciato di dispotismo. Come ha scritto Rossi, egli fu «terribilmente accusato di cercare in tutti i modi di avvilire la nazione», essendosi proclamato «Principe assoluto»31. Accusa in genere ripetuta in seguito, senza tenere conto delle idee, veramente originali per l’epoca, che hanno ispirato il suo sistema. Infatti, malgrado tutto, Paoli credeva nel sistema repubblicano; una concezione del governo e dell’esecutivo, certamente, che non corrisponde alla disciplina attuale. La professione di fede pronunciata nella premessa della costituzione del 1755 venne confermata in una lettera del 1764: «La perfetta uguaglianza è il punto desiderabile in uno stato democratico, ed è quel punto che rende felici gli Svizzeri, e gli Ollandini». La Corsica, ai suoi occhi, non meno della Svizzera e dell’Olanda, era un paese felice: regnava l’uguaglianza; ognuno poteva candidarsi per un impiego nello Stato, «la pluralità dei voti è quella che decide». Era un paese libero, dove il popolo «veramente sente la propria libertà»32. Si può ammettere che Paoli non avesse affatto torto alla condizione, beninteso, di considerare il suo regime nel contesto dell’epoca. Il sistema offriva un grado di rappresentanza e di libertà poco comune nell’Europa della metà del XVIII secolo. Garantiva l’uguaglianza davanti alla legge e l’assenza dei privilegi nobiliari o ereditari; tutti gli impieghi e le cariche pubbliche, come sottolineava Paoli nella lettera citata, erano accessibili per via elettiva. Per la maggior parte della durata del suo regime, ogni maggiorenne aveva il diritto di votare alle elezioni legislative, ed anche quando il suffragio venne ristretto, a partire dal 1766, non si considerava il voto per censo. La Dieta, tutto sommato poco paragonabile all’idea attuale di una assemblea nazionale democratica, offriva comunque alla nazione dei mezzi, eccezionali per l’epoca, per controllare il destino del paese. Senza dubbio, quando Paoli rientrò nel 1755, la Corsica, liberata dal sistema feudale, dotata di antiche strutture elettive e comunitarie, gli doveva apparire come una terra predisposta a mettere in atto la sua concezione del governo repubblicano. Ma la base egualitaria della società sulla quale egli contava era più ideale che reale. Le antiche tradizioni comunitarie erano decadute da lungo tempo; la nazione era governata da capi avidi di ricchezza e di potere. Ma il sistema istituito dal Generale si prestava ad una flessibilità enorme, e poteva facilmente essere adattato a realtà diverse socialmente ed economicamente (si pensi, ad esempio, al tipo particolare di rappresentanza istituito nel Dilà, garantito da enormi autonomie amministrative ed elettorali). L’unico scopo che spingeva Paoli ad agire era il raggiungimento dell’indipendenza dell’isola, anche a costo di sacrificare la stabilità del sistema politico. Le diverse realtà isolane, con zone a prevalenza pastorale (legate alla comunione dei beni, all’amministrazione democratica ed alla gestione plurifamiliare degli strumenti di produzione, corrispondente, secondo le fonti, alla Corsica centrale), zone a prevalenza agricola (legate alla proprietà individuale, all’amministrazione mezzadrile dei beni ed alla gestione familiare nucleare degli strumenti di produzione, corrispondente alle regioni settentrionali) e zone a prevalenza demaniale (legate ai grandi latifondi, alla proprietà notabilare ed alla forte fiscalità, specie nella zona meridionale dell’isola), non poteva permettere una gestione omogenea del potere. Paoli era costretto ad usare il sistema elettivo della Dieta, a seconda delle situazioni e delle necessità, in maniera diversa. Questo dato di fatto, inevitabilmente, indeboliva la struttura del potere, che rimase, al di là della volontà democratica del generale, fortemente legato ai clan notabilari. Quando intervenne la Francia, nobili e notabili passarono in massa al nemico, mentre il popolo rispose con una leva in massa che, per un anno intero, tenne in scacco l’armata francese33. La permanenza delle strutture amministrative, economiche e politiche isolane nel periodo successivo alla conquista testimoniano l’impossibilità, anche da parte di una 30 Ambrogio Rossi afferma che il congresso era composto da membri del Consiglio di Stato e dai Capi popolo. François René de Pommereul ritiene che esso era formato da tutti i consiglieri di Stato dimessi dopo il 1761. 31 ROSSI A., Osservazioni storiche sopra la Corsica cit., XI, p. 87: «Nullameno il medesimo generale fu terribilmente accusato che tirando le sue mire all’indipendenza dell’isola, e lui esserne il Principe assoluto, cercasse ogni mezzo di avvilir la Nazione». 32 Paoli a Giovan Quilico Casabianca. 16 luglio 1764, cit. da ETTORI, La revolution de Corse cit., p. 360. 33 Vedi CARRINGTON D., The Corsican constitution of Pasquale Paoli, «The English historical review», 88 (1973), pp. 481-503.

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FABRIZIO DAL PASSO, Il Mediterraneo dei Lumi. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni CAPITOLO 6 – Il sistema costituzionale di Pasquale Paoli

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potenza di prim’ordine come la Francia, di gestire dall’alto la specifica realtà sociale dell’isola.

Figura 35: il Palazzo sede della Dieta generale a Corte.

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FABRIZIO DAL PASSO, Il Mediterraneo dei Lumi. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni CAPITOLO 7 – Il sistema sociale ed economico della Corsica: il Plan Terrier (1769-1791)

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CAPITOLO 7 IL SISTEMA SOCIALE ED ECONOMICO DELLA CORSICA:

IL PLAN TERRIER (1769-1791)

§ Premessa Il Plan Terrier è senza dubbio il progetto più importante portato avanti dagli agrimensori francesi, immediatamente dopo l’annessione della Corsica nel 1769, ed è stato notificato con un editto dell’aprile 1770 «per l’organizzazione delle terre di dominio del Re e per la creazione di una camera dei domini in Corsica»1.

Figura 36: Planimetria generale del Plan Terrier de la Corse, 1773. (Paris, Arch. Nat., Paris, Q1 2981). L’obiettivo dei francesi era duplice: stabilire l’ordine nelle proprietà e realizzare una descrizione dettagliata e circostanziata del paese. Il risultato del lavoro fu il regesto di un piano terriero-catastale veramente ammirevole, completato tra il 1773 ed il 1795, diviso in 17 volumi di commentario e 37 rotoli di mappe disegnate in maniera sorprendente, che “fotografano” perfettamente la Corsica di quegli anni. Il Plan era la gloria dei geometri francesi: essi lo avevano tracciato tra enormi difficoltà, tra cui la resistenza dei proprietari, giustamente inquieti per la clausola che precisava come «tutto ciò che si trovava senza legittimo proprietario apparteneva di diritto al Re»2. Una delegazione di proprietari corsi, nel 1775, protestò contro il Re per la predisposizione del Plan, dato che si prestava inevitabilmente al sospetto della volontà di spoliazione e di parzialità della Monarchia. Infatti, se le vecchie famiglie di feudatari e di notabili non avevano alcun problema a presentare i titoli di proprietà3, non poteva accadere lo stesso per le famiglie di bassa condizione, per le quali il possesso del suolo, complicato dalla comunione dei beni immobili, era spesso un affare affidato alla trasmissione orale. La spoliazione fu tanto più violenta nelle terre che, da secoli, erano ritenute di proprietà comune. Questa è stata la prima, grande incomprensione tra corsi e francesi: non si poteva seriamente pensare di trasformare in poco tempo una terra abituata agli usi comunitari delle proprietà in una provincia francese. Le terre gestite dalle comunità furono subito incamerate nei domini del Sovrano o consegnate alle grandi famiglie, corse o francesi, come ricompensa della loro fedeltà4. Questa pratica scosse profondamente l’ordine sociale dell’isola e provocò un enorme risentimento delle classi agricole e pastorali della Corsica verso gli “invasori” francesi ed i signori locali, unificando il risentimento nazionale con la protesta sociale. §1. la società corsa e la sua evoluzione prima del 1789 § dati generali Le fonti storiche relative alla società corsa ed al suo sviluppo tra l’XI ed il XIX secolo sono scarse e solo recentemente sono stati affrontati studi in grado di fornire un quadro esauriente della Corsica in età moderna. Le forme d’organizzazione sociale del lavoro agricolo hanno sempre avuto una struttura dualista: coltivazione ed organizzazione familiare da un lato, gestione-

1 I fondi Q1 2981 fino a Q1 2987 conservati all’Archives Nationales, Paris, raccolgono i microfilm del Plan Terrier General de la Corse. Recensements de la population 1769-1791. 2 CODE CORSE cit., art. 17. 3 POMPONI F., in Un siècle d’histoire des biens communaux en Corse dans le Delà des Monts (1770-1870), «Études corses», 3 (1974), ha mostrato chiaramente che soltanto dopo la pubblicazione del Plan Terrier si costituirono definitivamente, attorno a Porto Vecchio, nel Fiumorbo ed attorno a Coti-Chiavari, i grandi domini che avevano fatto la fortuna dei notabili. Si tratta, secondo Pomponi, di una politica che aiutava il “partito francese” a consolidarsi. 4 Cfr. Archives Départementales Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93. Observations des Domaines sur le Domaine de Porto-Vecchio, Janvier 1780.

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regolamentazione comunitaria dei beni (nella scala del villaggio e della pieve) dall’altro. Con un’evoluzione costante, questa struttura si ripete dall’XI al XIX secolo; tuttavia, sia la proprietà ed i modi di gestione familiare, sia i diritti e le regolamentazioni comunitarie subiscono dei cambiamenti nel lungo periodo. Il processo si accompagna all’evoluzione dei rapporti tra le classi, che si organizzano nel quadro di una struttura dualista. Questa struttura subisce, a sua volta, una trasformazione interna, come accade per i conflitti agrari di cui essa è, ad un tempo, causa ed effetto: nel corso dei secoli, infatti, il lavoro produttivo si perfeziona ed acquista maggiore complessità. Le tappe sono lunghe e diverse a seconda delle regioni, con grande disparità tra il Diquà ed il Dilà5. Questo lento processo permette di comprendere l’indissolubilità di due fenomeni paralleli: da un lato la permanenza delle unità familiari legate alla produzione e alla cooperazione in comunità rurali e, dall’altro, le forti differenziazioni in classi ed in strutture sociali. Da quest’evoluzione prendono origine delle forme particolari come, ad esempio, le capitanerie rurali e le strutture comunitarie durante la crisi delle signorie nobiliari (alla fine del XIV secolo nel Diquà ed alla fine del XV nel Dilà) ed ancora, a partire del XV secolo, l’ascesa dei grandi proprietari terrieri (latifondo). La società corsa si inserisce, dunque, in maniera originale nell’evoluzione generale delle strutture economiche, sociali e culturali delle campagne europee. Il polo dominante qui è costituito dall’aristocrazia dei grandi proprietari fondiari, che si era stabilita a partire dal XV secolo. Attraverso frequenti conflitti tra clan, questa classe di capopopoli, di principali, di prepotenti, si è trovata associata alla gestione ed al funzionamento della struttura amministrativa statale, dalla dominazione genovese alla monarchia francese. L’aristocrazia fondiaria ha avuto, sin dal 1770, la possibilità di rafforzare la propria influenza ed i mezzi di coercizione sui contadini e di condizionare l’evoluzione generale dell’isola. Lo sfruttamento dei produttori rurali avviene in maniera complessa: un ruolo importante deriva dai prelievi operati indirettamente sui contadini-salariati attraverso i contratti verbali di mezzadria: il proprietario si attribuisce una parte della produzione, il mezzadro riceve il resto. Questi contratti si basano sulle terre con il terratico, o sul bestiame, con prelievi che vanno da un quarto alla metà della produzione. Altri metodi di sfruttamento delle famiglie contadine sono l’usura e la confisca dei beni comunali: i contadini sono costretti a pagare diritti ed affitti – generalmente il terratico e l’erbatico per la coltivazione o il pascolo – per l’uso di spazi di godimento comunitario, indispensabili al funzionamento del sistema agro-pastorale. Questo tipo di dominazione e di sfruttamento del lavoro contadino diventa a poco, a poco analogo al sistema signorile: l’innalzamento dei prelievi sui contadini con il contratto di mezzadria e la presenza – grazie al controllo delle istituzioni politiche e giudiziarie dei villaggi e delle pievi – di obblighi extra-economici, consentono ai grandi Principali di condizionare le comunità rurali. Con notevoli differenze, storiche e geografiche, questo sistema ha seguito un percorso simile a quello delle altre regioni del bacino occidentale del Mediterraneo, non subendo modifiche sostanziali nemmeno durante la Rivoluzione corsa e la Rivoluzione francese.

Figura 37: mappa generale della Corsica e delle pievi attorno al 1770 (Bibliothéque Nat. François Mitterrand, Paris, Rez de Jardin). § La ripartizione della popolazione Le caratteristiche demografiche generali dell’isola alla fine del XVIII secolo, ad un primo sguardo, testimoniano i tratti essenziali del livello tecnico raggiunto. Questi i due aspetti maggiori: 1. la Corsica, anche se poco popolata, è composta di una popolazione prevalentemente rurale. La popolazione varia dai 148.000 ai 150.000 abitanti (dopo il Plan Terrier6). Si tratta di un aumento generale (vedi Grafico 1), che ha fatto passare la Corsica dai 120.000 abitanti del 1740 ai 130.000 del 1770 ed ai 186.000 del 1786. La densità media è scarsa7. Il tasso di 5 Si ricorda che con i termini Diquà e Dilà si indicano le regioni del Diquàdamonti, nel Nord-Est dell’isola, e del Dilàdamonti, nel Sud-Ovest, separate dalla Catena centrale corsa (M. Cinto, 2710 m), corrispondenti approssimativamente agli attuali dipartimenti dell’Haute Corse (cap. Bastia) e della Corse-du-Sud (cap. Ajaccio). 6 Cfr. SIMI P., Démographie et mise en valeur de la Corse, in Mélanges d’Études Corses offerts à Paul Arrighi, Aix-en-Provence 1971, pp. 248-249. 7 Corrisponde a 15 ab/km2. Sul continente all’epoca la densità media era di di 50 ab/km2. Cfr. LEMEE R., Un dénombrement des Corses, an 1770, in AA. VV., Problémes d’Histoire de la Corse (de l’Ancien Régime à 1815). Actes du Colloque d’Ajaccio, «Société des Études robespierristes» - «Société d’Histoire moderne», Paris 1971, pp. 22-43. COMITI V.P., La géographie médicale de la Corse à la fin du XVIIIe siècle, Genève-Paris 1980, pp. 65-81.

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urbanizzazione per l’isola è dell’11,5%. Le sei città principali (vedi Tabella 1) nel 1786, hanno un numero di abitanti compreso tra gli 809 di Sartena ed i 5386 di Bastia. La struttura sociale è essenzialmente rurale ed i primi insediamenti “industriali” vengono installati nelle campagne. 2. La ripartizione regionale della popolazione verso il 1786-1789 presenta una netta disparità tra il Diquà ed il Dilà. Nel 1786 quest’ultimo raggruppa il 34% della popolazione contro il 66% del Diquà. Il fenomeno attesta il mantenimento nel 1789 dell’ineguale sviluppo delle forze e delle capacità produttive che caratterizza l’evoluzione storica delle due grandi regioni insulari. Il Plan Terrier attribuisce così al Dilà il 46% della superficie totale della Corsica, il 53% della superficie coltivabile e soltanto il 34% della superficie coltivata. Il Diquà, con il 54,70% della superficie totale insulare, detiene il 45% della terra incolta coltivabile ed il 66% della superficie coltivata (Grafico n° 2).

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Giurisdizioni

Anni

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1740

1770

1786

Grafico 1: Risultati generali dei censimenti del 1740, 1770 e 1786 (Cfr. LEMÉE R., «Un dénombrement des Corses», p. 39).

CITTÀ POPOLAZIONE NEL 1786

Bastia 5286 Corte 1378Calvi 1042

Ajaccio 3907Bonifacio 2468Sartena 809

Totale 14 890

Tabella 1: Le principali città corse nel 1786.

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Dilàdamonti

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Superficie totale

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Grafico 2: Parte della superficie totale, della superficie coltivata ed incolta coltivabile della Corsica relativa al Diquà ed al Dilà (in base al Plan

Terrier).

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Diquà Dilà Corsica

Regioni

Ripartizione della superficie agraria nelle due grandi zone della Corsica

% di suolo coltivato

% di suolo incolto

% di suolo

Grafico 3: Ripartizione della superficie agraria nelle due grandi zone della Corsica.

§ L’universalità del Sistema Agro-Pastorale La natura globale delle forze produttive in Corsica alla fine del XVIII secolo può essere analizzata alla luce di quanto riportato nel Plan Terrier. Le fonti relative all’andamento o alle statistiche degli anni 1775-1790 mostrano che l’asse portante è costituito da un sistema agricolo di tipo agro-pastorale8; questo sistema si basa sull’associazione di una cerealicoltura estensiva e di un allevamento senza foraggio che sin dall’Alto Medio Evo prevale in Corsica ed in Italia9. Presente in tutto il bacino Mediterraneo, questo sistema detiene un’importanza capitale in Corsica prima del 178910. Lo si percepisce subito dall’esame degli estratti dei geometri del Plan terrier11. Il Grafico n° 4 riunisce i dati concernenti i cinque dipartimenti della Corsica12. La ripartizione globale delle superfici coltivate è eloquente: i boschi occupano il 30% della

8 Cfr. GEORGES P., Précis de géographie rurale, Paris 1967, pp. 139-140: «l’insieme delle tecniche si basa sullo sfruttamento per trarne un reddito»; in questo quadro «la realtà supera largamente il senso letterale delle parole: si tratta difatti, in primo luogo, della combinazione culturale che risponde molto esplicitamente all’accettazione precisa ed esplicita del termine, ma anche di tutto ciò che può essergli integrato (allevamento, pesca, raccolta)». Cfr. anche LEBEAU R., Les grands types de structures agraires dans le monde, Paris 1969, p. 8. Sul collegamento tra movimento storico, tecniche, rapporti sociali, strutture agrarie e paesaggi, cfr. FAVORY P., Propositions pour une modélisation des cadastres ruraux antiques, in AA. VV., Cadastres et espace rural. Approches et réalités antiques. Table ronde de Besançon, mai 1980. Pubblicato sotto la direzione di Monique Clavel-Levêque, Paris 1980, pp. 51-135. 9 Questo sistema è caratterizzato allora dalla «preminenza delle attività dell’allevamento brado e della caccia su quelle dell’agricoltura» e dalla «diffusione sulle rare terre a cultura dei sistemi agrari del debbio e a campi ed erba» come ha scritto Emilio Sereni nella sua notevole sintesi sulla Storia del Paesaggio agrario italiano, Bari 1964, pp. 54-55. Cfr. anche JONES P.J., Per la storia agraria nel medio evo: lineamenti e problemi, «Studi di storia agraria italiana», «Rivista storica italiana», a. LXXVI, 1964, II, pp. 287-348. Sull’evoluzione dei sistemi di coltivazione (e dell’insieme delle forze produttive) nelle campagne italiane dalla metà del XVIII secolo alla fine del XIX secolo, cfr. VILLANI P., Feudalità, riforme capitalismo agrario, Bari 1968, in particolare le pp. 111-167. 10 Pierre Birot e Jean Dresch vedono nell’associazione dei pascoli estensivi e delle culture cerealicole nomadi un tipo di utilizzazione del suolo ancora diffusa. Cfr. BIROT P., DRESCH J., La Méditerranée et le Moyen-Orient, I, Paris 1966, pp. 110-120 e pp. 246-254. 11 Per una presentazione di insieme del Plan Terrier, cfr. ALBITRECCIA A., Le Plan terrier de la Corse au XVIIIe siècle, Paris 1942. 12 Questi dati, relativi a diversi dipartimenti, sono stati riuniti a partire dalle cifre fornite per ogni comune e cantone dagli autori del Plan terrier. Nelle

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superficie totale ed il grano il 54%. L’arboricoltura (castagni, viti, olivi) detiene soltanto il 16% del suolo. La vite rappresenta solamente il 4% dello spazio coltivato e gli olivi l’1,24%. La parte essenziale (il 10,70%) del territorio dedicato all’arboricoltura è devoluta ai castagni: le castagne e la farina di castagne, infatti, forniscono il succedaneo del pane di cereali. Questa situazione è confermata dall’esempio dei tre dipartimenti del Diquà durante l’inchiesta dell’anno X: su 186 villaggi che rispondono alla domanda n° 255 (Di quali e quante specie di biada si fa il pane?) e 112 (Per quanti mesi dell’anno si mangia comunemente nel paese il pane di castagne?) del prefetto del Golo, due consumano solamente il pane di grano, 28 consumano pane di grano e/o di orzo con l’aggiunta, talvolta, del miglio, 75 (o il 40,50%) mangiano un pane fatto di grano, di orzo o di segale 70 (o il 37,60%) e fanno ricorso durante l’anno al pane di castagne come complemento/sostituto del frumento, dell’orzo o della segale, del mais o dei lupini. Questi villaggi si incontrano soprattutto nel Dipartimento di Corte (34 sui 47 totali del Diquà): essi rappresentano il 46% delle comunità rurali. La distribuzione geografica quasi universale di questa struttura mostra chiaramente la sua potente egemonia: tutti i dipartimenti della Corsica lasciano al boschivo ed ai cereali il maggiore investimento dello spazio agrario coltivato. I cantoni della Castagniccia (quelli di Piedicroce di Orezza e di Valle di Alesani nel dipartimento di Corte13, quelli della Porta e di Mariana nel dipartimento di Bastia) sfuggono a questo dato generale, ma danno preponderanza al castagno. Solo nei cantoni del Capo Corso come quelli di Centuri-Rogliano, di Cardo e di Brando le viti e gli olivi conquistano, alla fine del XVIII secolo, la parte preponderante dello spazio coltivato. Ma nella percentuale totale delle coltivazioni del Capo Corso, il grano costituisce oltre il 55% del suolo messo a coltura.

0 500000 1000000 1500000 2000000 2500000

Estensione (in arpenti)

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Le coltivazioni in Corsica alla fine del XVIII secolo (dopo il Plan terrier)

Coltivata

Totale

Grafico 4: Estensione delle terre coltivate nelle diverse giurisdizioni dell’isola (1770-1790)

tabelle n. 12 e 13 si ritrova la ripartizione delle colture nei dipartimenti della Corsica. Cfr. anche i dati forniti in Serie C, Plan terrier de La Corse, volume I, Description générale et détaillée de l’île, état présent, article troisième (p. 31 e seguenti). Paris, Arch. Nat. - Microfiches Plan Terrier. 13 Cfr. CASANOVA A., Forces productives rurales, peuple corse et Révolution française (1770-1815), thèse de Doctorat d’État, Université de Paris I, 1988.

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percentuali

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iDettaglio delle superfici coltivateBoschivo

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Castagni

Vigne

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Grafico 5: Dettaglio dell’uso dei terreni in Corsica alla fine del XVIII secolo (dopo il Plan terrier)

L’uso del legname nel Nord Est della Corsica alla fine del XVIII secolo (in seguito alle domande 13 e 134 dell’Elenco dell’anno X)

0

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Corte (15 cantoni) Bastia (19 cantoni) Calvi (5 cantoni) Diquà (39 cantoni)

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Per il fuoco

Come materiale dacostruzione edequipaggiamento delle case

Come mangime per ilbestiame

Come materiale per lafabbricazione di mezzi diproduzione (botti ed aratri)

Per la fabbricazione dioggetti domestici

Non precisato

Grafico 6: L’uso del legname nel Nord Est della Corsica alla fine del XVIII secolo (in seguito alle domande 13 e 134 dell’Elenco dell’anno X).

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Ingredienti del pane

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Cereali

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Diquà

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CORTE

Grafico 7: Gli ingredienti del pane nei villaggi del Diquà nell’anno X.

§ 2. evoluzione storica della società e natura dei rapporti sociali tra il 1770 ed il 1780 I dati relativi alla struttura agricola corsa ed i caratteri generali delle forze produttive alla fine del XVIII secolo possono aiutare a chiarire i processi evolutivi risalenti ai secoli precedenti; quest’analisi dei caratteri originali della storia rurale corsa è utile, a sua volta, per capire le strutture, le contraddizioni, le lotte e le tensioni scoppiate nell’isola alla fine del XVIII secolo e dopo il 1789. Solo in questa prospettiva si possono comprendere le caratteristiche originali della società rurale corsa. I rapporti tra forze produttive e strutture sociali, così come si presentano nel decennio 1770-1780 sono, infatti, il risultato di un lungo, complesso e singolare processo storico. §. Pievi, paesi, famiglie: una struttura dualistica Gli atteggiamenti e le forme sociali di organizzazione del lavoro sono in stretta connessione, nelle campagne corse, con l’evoluzione delle forze produttive di cui abbiamo rievocato le caratteristiche. Queste forze produttive acquistano una reale efficacia solo nel quadro delle diverse forme di organizzazione del lavoro, che lentamente, ma inesorabilmente, vengono messe in tensione e trasformate. Esse si presentano in Corsica, da tempo immemorabile, con una struttura dualistica14: sfruttamento ed organizzazione familiare da un lato, gestione comunitaria dall’altro. Questi poli contrapposti della vita comunitaria intrattengono dei rapporti complementari e contrapposti. Questo dualismo rimane stabile dall’XI al XIX secolo. Le relazioni tra la proprietà familiare e la regolamentazione comunitaria subiscono delle modifiche a seconda delle attività produttive e delle classi sociali. § Sfruttamento familiare e collaborazione dei lignaggi Si può, innanzitutto, sottolineare un dato essenziale: l’uso delle risorse nel bacino del Mediterraneo rende per molto tempo difficile qualsiasi altra forma di commercializzazione che non sia legata all’«artigianato» agrario e al piccolo sfruttamento familiare. Al livello di ciascuno degli elementi che le compongono (allevamento, cerealicoltura, giardinaggio, arboricoltura, mantenimento e costruzione delle abitazioni, fabbricazioni domestiche) e a fortiori della loro combinazione, le forze produttive del sistema agricolo insulare possono essere attivate solo da produttori dotati personalmente di particolari attitudini professionali15. Nelle comunità corse, lo sfruttamento combinato delle tecniche dell’allevamento e della policoltura può essere realizzato solo all’interno di una cornice familiare; questa unità economica di base, necessaria alla realizzazione della produzione, trova le sue condizioni ottimali nel quadro della cooperazione familiare o all’interno di lignaggi più estesi.

14 Per un approccio ai problemi teorici posti dallo studio comparativo del processo d’evoluzione della struttura dualista in diversi contesti socio-culturali, cfr. i contributi riassunti in AA. VV., Communautés rurales, capitalisme, socialisme, «Recherches Internationales à la lumiére du marxisme», 90 (1977). Cfr. anche PARAIN C., Outils, ethnies et développement historique, «Recherches internationales à la lumiére du marxisme», 58 (1979), pp. 425-459. 15 «…La ricerca degli elementi costitutivi di un ciclo agricolo - nota Faucher - mi sembra necessariamente contornato di brancolamenti, di speranze più o meno fatte di osservazioni diverse, coordinate poco, a poco… Nello stesso tempo, il contadino deve, se non scoprire, quanto meno adattare le tecniche elementari grazie a cui può preparare il terreno, inseminarlo, curare le colture, raccoglierle, conservare e trasformare i prodotti. Nel fare l’inventario dettagliato dei lavori da compiere durante tutto l’anno, non ci si sorprende di constatare la loro varietà, la loro complessità e le loro interferenze». FAUCHER

D., Routine et innovation dans la vie paysanne, «Journal de psychologie normale et pathologique», 1948 (n. speciale su «le travail et les techniques», p. 92). Cfr. anche ID., Le paysan et la machine, Libro I, pp. 13-36. Cfr. anche gli studi di BLANCHE J., L’aménagement du travail agricole, «Études rurales», 1 (1965) e RAMBAUD P., Le travail agraire et l’évolution de la société rurale, «Études rurales», 22, 23, 24 (1966).

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Le pratiche testamentarie degli umili contadini corsi dal XVI al XVIII secolo lo testimoniano con precisione16: la cooperazione familiare era necessaria; nel caso dei beni inalienabili (pena l’azzeramento del loro valore) i testatori attribuiscono la proprietà a parecchi legatari, ciascuno con una parte indivisibile; lo stesso accade per gli strumenti di produzione (case, stenditoi, presse), per i quali i testatori stipulano una comunione assoluta dovuta all’importanza della loro destinazione economica. § Proprietà e regolamentazione comunitaria A questo livello delle forze produttive, il lavoro familiare presuppone la regolamentazione e la mutua assistenza comunitaria (di pieve e/o di villaggio). Le ragioni sono evidenti: la coltivazione esige una costante regolamentazione, che assicuri la lavorazione equilibrata dei principali elementi (cereali, allevamento estensivo). Come nel caso dei villaggi della Balagna e delle signorie del Capo Corso, le soluzioni adottate per regolamentare le comunità erano simili: ripartizione del territorio della pieve per assicurare l’allevamento estensivo, mantenimento dei percorsi di transumanza, protezione reciproca contro le devastazioni degli animali. Tutto questo per rispondere alla necessità di far riposare il suolo seminato a cereali. Questa organizzazione costituisce così un vero strumento sociale con cui le famiglie che compongono la comunità assicurano un’efficace valorizzazione degli elementi costitutivi del loro livello tecnico. Le famiglie sono così portate necessariamente ad intrattenere (di fatto e di diritto) dei continui legami collettivi, mentre ogni pretesa di individualismo (pericoloso per il mantenimento della struttura) viene escluso durevolmente dall’essenza stessa del sistema. In questo quadro, la gestione di mezzi di produzione come le foreste, i pascoli e le terre coltivabili, può essere soltanto collettiva. La gestione comunitaria della pieve e/o del villaggio si manifesta in due modalità principali, le cui relazioni reciproche si evolvono nelle differenti regioni corse in funzione delle modifiche delle forze produttive e dei ruoli sociali giocati dalle componenti rurali. §. Il destino della proprietà comunitaria La prima tipologia essenziale di gestione comunitaria è caratterizzata dal mantenimento, attraverso i secoli, dalla proprietà comune dei pascoli e delle terre arabili. Questa proprietà coesiste dall’Alto Medioevo con la proprietà privata basata sugli orti, sui vigneti, sugli uliveti e sui terreni coltivati a cereali. La coesistenza di lunga durata conferisce alla società rurale corsa una solida struttura dualista in costante evoluzione: il progresso delle colture, la diffusione dell’arboricoltura tende allo stesso tempo a restringere la parte globale della proprietà comunitaria ed a limitare questa proprietà alle terre incolte e non coltivabili. La crescita della proprietà privata è particolarmente netta nelle zone a forte prevalenza della vite e dell’olivo; essa rende sempre più acuta la domanda di godimento e di divisione della proprietà tra comunità, signori e principali, e (soprattutto all’inizio del XIX secolo) tra famiglie di differenti classi sociali. La situazione della proprietà collettiva rappresentata dal Plan terrier mostra chiaramente questo doppio processo evolutivo. Considerata rispetto al totale della superficie delle pievi e dei villaggi, la proprietà comunale occupa una posizione ancora importante (il 26% del suolo nel Diquà, il 37,56% nel Dilà, quasi il 32% per l’insieme della Corsica), corrispondente al ruolo predominante dei legami comunitari nelle attività delle famiglie contadine. Ma considerando solo questi dati si trascura l’altro (e capitale) aspetto delle realtà storiche isolane: il rafforzamento considerevole e multiforme della proprietà privata. Questo rafforzamento è strettamente connesso alle lotte ed agli obiettivi che hanno accompagnato, nel lungo periodo, i processi quantitativi (estensione delle superfici coltivate) e qualitativi (sviluppo dell’arboricoltura) delle forze produttive. I dati forniti dal Plan terrier sono illuminanti: considerata non in rapporto all’insieme delle terre, ma solo rispetto alla superficie coltivata, la proprietà comunale si trova ovunque in posizione di inferiorità rispetto alla proprietà privata: quest’ultima rappresenta l’81% del suolo contro l’11% della proprietà collettiva nel Diquà; il 59% contro il 36% nel Dilà; il 70% contro il 23% nel totale dell’isola. Più ci si inoltra nelle zone in cui i sistemi di coltura riservano un posto importante alla vite ed all’olivo, più la proprietà comunale arretra: nei dipartimenti di Calvi e di Bastia, essa costituisce rispettivamente il 9,37% ed il 3% del suolo coltivato (contro il 70,63% ed il 94% della proprietà privata). Significativo il caso del Capo Corso: viti ed olivi occupano il 52% del suolo (il 7% nel Diquà, il 5% nell’insieme dell’isola) mentre la proprietà privata rappresenta l’89,80% dello spazio coltivato. Ogni volta che diventa preponderante la parte di terreno riservata all’arboricoltura (si arriva all’81,50% del suolo coltivato nel cantone di Rogliano), regredisce lo spazio della proprietà comunale (lo 0,31% nello stesso cantone). Tuttavia, questi processi fondamentali non potrebbero, da soli, dare un’idea completa delle trasformazioni storiche che hanno modificato la struttura dualistica delle campagne corse. Bisogna considerare anche altri fenomeni: l’aumento delle confische dei grandi proprietari e le concessioni fondiarie a lunga permanenza dei beni comunali mediante le appropriazioni di Stato (come fece Genova nel XVI e XVII secolo e la monarchia francese tra il 1769 ed il 1789). Testimone di questo processo è quel 10% di proprietà demaniale presente nel dipartimento di Calvi nel 1789 (si tratta essenzialmente del vasto territorio demaniale nella zona di Galeria) ed il 22% di territorio nella regione di Sartena. Bisogna ricordare, infine, che questi dati del Plan terrier non tengono conto dei precedenti processi di confisca attuati dai grandi proprietari sulle terre gestite collettivamente17. I dati del Plan terrier non possono tener conto nemmeno di altri processi sottili e contraddittori: è il 16 Sulle relazioni tra forze produttive, comunità rurali, famiglie nucleari e forme di cooperazione tra le coppie nel quadro delle famiglie estese, è utile lo studio (per il Niolo tra il XIX ed il XX secolo) di LENCLUD G., Des feux introuvables. L’organisation familier dans un village de la Corse traditionnelle, «Études Rurales», 76 (1979), pp. 7-51. Per la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo cfr., nella stessa opera, la I parte, capitolo IV. 17 Così, nella pianura orientale dell’isola, la parte detenuta dal Demanio è enorme (specialmente nella regione di Porto-Vecchio). Più a nord, invece, i padroni di Migliacciaro (il cui potere è tenacemente contestato dai pastori-coltivatori) controllano quasi il 15% delle famiglie ed il 17% delle terre coltivate a cereali. Nel settore di Sari, Conca, Lecce, il Demanio detiene il 99% della superficie coltivata a cereali e controlla l’85% delle famiglie dei pastori-

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caso dell’estensione del controllo dei grandi proprietari corsi sulla proprietà collettiva (coltivata e coltivabile) attuata «ricomprando» (in cambio di cereali o di denaro, impiego di mezzadri precari, «protezioni» ed altro...) i diritti di usufrutto delle terre18. Ne consegue, paradossalmente, un allargamento della proprietà privata dei principali proprio attraverso i diritti comunitari: i grandi Notabili giungono spesso a rivendicare la proprietà di grandi estensioni di terre comunali, anche appropriandosi delle briciole di terra dei turni di capanne dei pacciali19 lavorate dai loro mezzadri20. Si tratta di un processo che la piccola e media classe contadina cerca di contrastare in ogni modo, preoccupata di conservare il godimento delle terre comunali o, almeno (a partire dalla fine del XVIII secolo), di assicurare la loro equa ripartizione. Si assiste così, con il passare dei secoli, alla trasformazione della struttura dualistica dei villaggi corsi. Questa struttura dualistica, basata sull’evoluzione delle forze produttive, non potrebbe essere compresa senza i difficili e costanti scontri di classe. Proprietà familiare, usufrutto comunitario delle terre (sotto forma di lotti coltivati e/o di spazi per il pascolo), organizzazione collettiva della vita sociale e dello spazio hanno costituito il fondamento dell’esistenza e delle lotte della classe contadina e della reiterazione dei rapporti feudali. Questo processo ha conosciuto una forza singolare in Corsica tra l’XI ed il XVI secolo. La trasformazione della struttura dualistica ha fatto emergere, con il passare dei secoli, la preponderanza della proprietà privata sulla proprietà comune delle terre e contemporaneamente ha favorito lo scoppio di conflitti sociali di enorme portata: l’assorbimento della proprietà collettiva sarà attuata ad esclusivo vantaggio della grande proprietà fondiaria dei Principali, attraverso la riduzione forzata dei contadini in mezzadri e la divisione coatta della proprietà comune. §. L’organizzazione collettiva dello spazio e la sua storia La seconda tipologia essenziale di gestione è la regolamentazione comunitaria dello spazio agricolo. Le terre arabili (e in tempi remoti anche il bestiame) sono essenzialmente proprietà ed oggetto del lavoro familiare, ma quest’ultimo può concretizzarsi solo se viene inserito in un sistema collettivo di rotazione e ridistribuzione dello spazio produttivo. I riferimenti di alcune fonti d’archivio, e soprattutto, i documenti dei Signori del Capo Corso, permettono di vedere le forme assunte, fin dal Medio Evo, dalla regolamentazione comunitaria nei rapporti tra allevamento e cerealicoltura. Nelle signorie dei Da Mare e dei Gentile, il bestiame viene confinato in una parte di territorio ben delimitata (chiamata reghione) e non viene lasciato uscire durante il periodo della semina. Un’altra porzione è riservata alla coltivazione estensiva dei cereali locali: si tratta della presa, che, nel nord della Corsica, sembra risalire almeno all’XI secolo21. La presa, a partire dai secoli XIV e XV, si impianta anche nelle regioni più evolute dell’isola, come il Capo Corso e la Balagna. Questo modello si ritrova in tutti i paesi del Mediterraneo in cui era necessario combinare le esigenze della semina con quelle di un allevamento assetato di spazi22. Le trasformazioni intervenute nella regolamentazione collettiva sono collegate alla lenta trasformazione del sistema delle colture. Nel Capo Corso ed in Balagna, questo problema si presenta fin dal Medioevo: un terzo del territorio veniva difeso permanentemente dal bestiame e riservato alla coltivazione della vite e degli alberi da frutto: si tratta del circolo della vite. Questa organizzazione è largamente attestata nel Diquà a partire dal XVI secolo: in Balagna si ritrova nelle pievi attorno a Bastia, nella pieve di Alesani ed in alcune pievi attorno a Corte (a Castifao)23. Nel territorio ajaccino è testimoniato a partire dal XVI e XVII secolo24. I caratteri particolari che riveste questo sistema cambiano da una pieve all’altra, da un villaggio all’altro e sono suscettibili di

coltivatori. Nell’insieme, verso il 1780, il Demanio nella zona di Porto-Vecchio possiede delle terre ripartite in sei “cantoni” (Sari, Conca, Lecce, Favone, Tozze, Porto-Vecchio, Ficaja) per un totale di circa 124.200 arpenti (Cfr. Archives Départementales Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93. Observations des Domaines sur le Domaine de Porto-Vecchio, Janvier 1780). Queste terre sono contese tra lo Stato, alcuni grandi principali (i Peretti, gli Ettori, i Quenza) e i comuni. Qui il Demanio, come mostra il Plan terrier, rappresenta il 75,21% del totale delle terre contro lo 0,10% dei comuni ed il 24,70% dei privati. Queste terre rappresentano il 12% delle terre coltivate (a cereali per il 99%), il 22% delle terre incolte ed il 31% delle terre incolte del dipartimento di Sartena. 18 Nella provincia di Sartena verso il 1770-1785 i grandi proprietari sono ostili alla divisione egualitaria dei beni comunali «…che impedirebbe», nota Patin de la Fizelière, «di condurre nei terreni il loro numeroso bestiame». Al momento della divisione periodica delle terre coltivabili tra le famiglie, essi avrebbero comprato per una debole somma il diritto alla porzione comunale «di coloro che non hanno le bestie ed i grani per seminare». Cfr. PATIN DE LA

FIZELIÈRE A., Mémoire sur la province de la Rocca, p. 96. Il controllo privato delle terre per la coltivazione ed il pascolo è praticato nelle zone del Talavo e dell’Ornano nel sud-est dell’isola già nel XVII secolo (Cfr. Arch. Dép. Corse-du-Sud, Serie C 522. Civile Governatore. Moca Croce 1690) e nel XVIII secolo (Cfr. C 517. Contentieux de Santa Maria Sicche Memoire du Subdélégué d’Ajaccio, 25 settembre 1779). 19 Si tratta delle piccole estensioni di terra, spesso attorno ad una capanna, di proprietà di un gruppo di pastori, utilizzate per il foraggio nel periodo della transumanza. 20 Fortemente radicato e sviluppatosi negli anni attorno al 1770, questo processo incontra la resistenza di diversi gruppi contadini (Cfr. Arch. Dép. Corse-du-Sud, Serie C 93. Rapport de l’Inspecteur des Domaines, 28 janvier 1778). Appariranno in tutta la loro violenza durante la Rivoluzione francese (Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, 2Q 38). 21 Su questo processo e sull’evoluzione delle strutture agrarie e sociali della Corsica nel Medioevo, cfr. CASANOVA A., Révolution féodale, pensée paysanne, «Études corses», 15 (1980), pp. 19-91 ed ID., Évolution historique des sociétés et voies de la Corse, ivi, 18-19 (1982), pp. 105-146. 22 Probabilmente è stato preceduto, in Corsica, da un sistema di organizzazione del territorio meno rigido, come lascia supporre l’esempio del Fiumorbo (dove l’allevamento regna sovrano da secoli): nel XVI secolo questa regione presentava, infatti, un modello di regolamentazione collettiva poco strutturato ed i contadini richiedevano proprio l’adozione del sistema delle prese. In seguito alle guerre ed ai tumulti della metà del XVI secolo, gli abitanti del Fiumorbo si sforzano di ottenere un regolamento che restringa il percorso del bestiame ed assicuri una coesistenza efficace tra agricoltura e pascolo. Contrari all’idea di chiudere i terreni seminati, essi stimano inutili le recinzioni, inefficaci contro i percorsi del bestiame senza pastore; così domandano al governatore di impedire il disordinamento del bestiame senza pastore e l’imposizione nel Fiumorbo del sistema d’organizzazione collettiva del territorio (con prese e accantonamento del bestiame): «E che in l’avenire si faccian le prese con le tenute delle biade como si suole per tutto il restante dell’Isola e in Aleria confina da Fiumorbo», febbraio 1589, Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Fondo Civile Governatore C 50. 23 Arch. dép. Corse-du-Sud, Fondo Civile Governatore, 68 (ottobre 1574). 24 Arch. Mun. D’Ajaccio, Libro Grosso ff 272-273; cfr. anche PINZUTI N., Histoire economique et sociale d’Ajaccio, «Corse historique», 13-16 (1964).

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una grande varietà di sfumature, in funzione della natura delle terre, dell’evoluzione demografica locale, del movimento delle forze produttive, delle tensioni e delle lotte sociali che hanno per oggetto la regolamentazione collettiva. Nella Balagna del XV secolo, le prese sono costituite essenzialmente da terre destinate ai cereali: campi e lenze rappresentano, in proporzione, i 9/10 del territorio coltivato. Non è esclusa la coltivazione, in alcune prese, di alberi da frutto (fichi e peri) o, raramente, di vigne. Le comunità contadine sembrano disporre abbastanza presto di prese diversificate con cui ricomporre o adattare le coltivazioni in base ai cambiamenti delle forze produttrici e dei rapporti sociali25. Ma esiste anche un altro tipo di presa, quella di San Colombano: in questo caso, dopo un anno di lavorazione il territorio viene lasciato a maggese per cinque anni. Le prese comunali sono composte di piccoli appezzamenti familiari chiamati lenze, trasformati in seguito in proprietà privata (chiosi posti e da ponersi), mentre in altre pievi, tanto nel XVII, XVIII quanto nel XIX secolo, esse sono ancora oggetto di ridistribuzioni periodiche26. Nello stesso periodo la comunità di Ajaccio arriva all’elaborazione di un modello simile, ma più complesso, di regolamentazione: oltre al circolo, l’insieme delle terre comunali viene diviso in tre prese o terzieri, dedicati rispettivamente alla cerealicoltura, al pascolo del grande e a quello del piccolo bestiame; ossia tre anni per ogni tipologia di presa e dunque un ciclo completo che si esaurisce in nove anni. La vasta presa collettiva devoluta per tre anni alla coltivazione è a sua volta divisa in tre porzioni, con conseguente rotazione dei cereali (un anno a mais, due anni a grano nei secoli XVII e XVIII). Nell’insieme, alla fine del XVIII secolo, le rotazioni dei cereali sono relativamente diversificate. Esse dipendono dalla natura delle terre, dalla presenza dei concimi e dall’estensione della superficie per i contadini. In generale, la regolamentazione a circoli tende, alla fine del XVIII secolo, a diventare il modello sociale e tecnico predominante, con cui si manifesta anche una lenta, ma costante evoluzione). Questo sistema è predominante nei dipartimenti di Calvi e di Bastia (il sistema a circoli domina in dieci cantoni su quindici nel Capo Corso; in otto su tredici nel Nebbio; in sei su nove nella Casinca). Al contrario, nel dipartimento di Corte la regolamentazione delle reghioni, prese e circoli nel periodo 1789-1800 non è ancora completa e prevale la gestione comunitaria della proprietà. Il caso del Diquà mostra così la realtà, la lentezza e la complessità di questa evoluzione. §. Struttura dualistica, parentela e modelli storici dei rapporti di classe L’evoluzione delle forze produttive in Corsica include la divisione e l’organizzazione del lavoro nel quadro di una struttura dualistica in cui si articolano gestione, proprietà familiare e regolamentazione comunitaria. A causa del lungo predominio dell’organizzazione familiare e parentale del lavoro, i rapporti di produzione sono stati percepiti come dei rapporti tra famiglie nello spazio ristretto della pieve e del villaggio. Le transazioni economiche, sociali e politiche sono state concepite necessariamente come relazioni tra parenti, tra famiglie e gruppi di famiglie all’interno delle varie comunità rurali. Queste relazioni sono unite strettamente ad investimenti e a tensioni familiari. Al contrario, i rapporti di parentela comportano inevitabilmente dei rapporti di cooperazione o di sfruttamento sociale: lo sfruttamento (dall’XI al XVI secolo) signorile dei contadini, o quello delle comunità e delle famiglie rurali da parte dei caporali e degli altri grandi principali (dal XV al XVIII secolo) si sviluppano sotto forma di rapporti personalizzati da lignaggio a lignaggio, di «servizi» e «benefici», in relazione al livello di parentela. Le rivalità, i conflitti e le cooperazioni tra i membri delle classi dominanti per il mantenimento e l’estensione dei mezzi (terre, castelli, alleanze strategiche) e dei poteri sulla classe contadina hanno deviato e finalizzato i rapporti di parentela. Questi processi peseranno per molto tempo sulle relazioni familiari a livello economico, sociale e politico: purtroppo manca ancora uno studio dettagliato sulla funzione delle donne, degli uomini e del matrimonio nelle grandi tappe della storia sociale dell’isola27. I diversi processi evolutivi delle proprietà familiari da un lato, e della regolamentazione collettiva dall’altro, saranno l’oggetto di conflitti tra classi e strati sociali all’interno delle pievi. Solo considerando questi processi si riescono ad inquadrare i due aspetti fondamentali della genesi e dell’evoluzione economica in Corsica: essi sono strettamente connessi alla nascita e all’instaurazione della società feudale. È necessario, pertanto, rievocare i sistemi che hanno trasformato e rinnovato il dominio dell’aristocrazia fondiaria dopo la scomparsa del sistema delle signorie. §. Il nuovo dominio sociale dell’aristocrazia rurale dal XV al XVIII secolo La presenza di una forte aristocrazia feudale aveva spinto la Repubblica di Genova, già dalla fine del XIV secolo, ad appoggiare, nella gestione amministrativa, giurisdizionale e politica dell’isola, il notabilato corso. Genova era riuscita, con il passare dei secoli e con l’attuazione di una forte politica repressiva, ad eliminare quasi completamente i Signori dal potere, concedendo in appalto o in affidamento diretto ai clan notabilari (ed ai vari “caporali”) la gestione dell’intera macchina burocratica isolana. Al momento della scomparsa delle signorie rurali (nella seconda metà del XIV secolo nel Diquà, 25 Così il villaggio di Spanno, che possiede tre prese all’inizio del XIV secolo, fraziona la presa di Lama e ne crea una nuova, quella di Chiaffusi, documentata nel 1381. Numerose comunità dispongono generalmente di due prese: è il caso, nel Nebbio, della pieve di Mariana e di quella di Alesani; in Balagna, all’inizio del XVII secolo, nel villaggio di Belgodere, si consumano alternativamente due prese comunali, la presa soprana, e la presa sottana. L’analisi delle deliberazioni contadine di un intero ventennio mostra che le prese sono soggette alternativamente a due anni di lavorazione e a due anni di riposo. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie E, Fondi del notaio Giacomo di Belgodere (1585-1605). 26 Specialmente nel Dilà, nelle pievi di Ornano e Taravo; cfr. LAMOTTE P., Deux aspects de la vie communautaire en Corse avant 1768 cit., pp. 88-93. Sempre nel Dilà, nell’anno X, nelle pievi di Nebbio e Murato. Le risposte alle domande 37 e 38 dell’inchiesta prevostale mostrano l’esistenza di tre prese, ognuna seminata per un anno e lasciata in giacenza per due anni. Al momento della coltivazione ogni presa «si divide per mezzinate o bacinate ad ogni famiglia». 27 Cfr. CASANOVA A., Mariage et communauté rurale: l’exemple corse, «Cahiers du centre d’études et de recherches marxistes», 1965-1966; cfr. anche ID., Femmes corses et femmes méditerranéennes, n. speciale di «Études corses», 6-7 (1976).

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all’inizio del XVI secolo nel Dilà) le forze produttive non erano ancora abbastanza evolute per accelerare la scomparsa della piccola proprietà e delle strutture comunitarie. «L’artigianato» agrario e la gestione familiare assicuravano soltanto la permanenza del sistema agro-pastorale, che tendeva ad arricchirsi con lo sviluppo delle colture arbustive. L’evoluzione dell’agricoltura e la crescente differenziazione sociale all’interno delle comunità favorirono lo sfruttamento delle famiglie contadine da parte dei notabili rurali, specie nelle pievi che avevano maggiormente sviluppato l’allevamento e l’agricoltura di mercato. Ripresero vigore le antiche forme di sfruttamento sociale, adattate alle nuove condizioni. Alla classica mezzadria si sostituisce, lentamente, un contratto in cui il contadino, oltre ad essere sottoposto ad un proprietario, si trasforma in produttore autonomo, gestisce gli strumenti di produzione e diventa responsabile della coltivazione dei campi. Questo è evidente nelle relazioni contrattuali come l’affitto o, meglio ancora, nelle relazioni operate sulla base del terratico, dell’erbatico o, per il bestiame, del contratto di soccida. Il disegno di fondo del boatico è analogo a quello dell’usura, diffusa nelle campagne corse tra il XIV ed il XVIII secolo: il creditore (curato, «caporale» grande proprietario, commerciante genovese o corso) preleva sul debitore una forte rendita. Quest’ultimo si trova comunque in una situazione di dipendenza: è sfruttato sia come produttore indipendente, sia come autonomo utente dei propri strumenti di produzione. Oltre a lavorare con i propri mezzi su terre che gli appartengono, deve anche affrontare la responsabilità dei raccolti, da cui dovrà decurtare (in natura o in denaro) il prelievo per il Signore. La presenza delle piccole proprietà contadine era comunque troppo diffusa per permettere ai Signori di assoggettare facilmente queste comunità: esistono numerosi piccoli proprietari che non sono né loro salariati né loro mezzadri, né loro debitori. I grandi proprietari non possono trarre profitto dal loro lavoro come facevano (a livello fiscale) i padroni delle signorie banali nella seconda metà del XIV secolo. Non vogliono tuttavia abbandonare quei surplus già ampiamente sfruttati in passato dai nobili, dai signori di vassalli, e dai padroni delle castellanie. I notabili di campagna, a partire dalla fine del XIV secolo, cercano di risolvere questi problemi adattandosi alle nuove esigenze ed alle nuove realtà. I primi a tentare una soluzione furono i grandi ed influenti proprietari del Diquà che dominavano le pievi ed i villaggi più sviluppati dell’isola, tra il 1360 e la prima metà del XV secolo28. Emersi dal seno dell’antica nobiltà, priva ormai del potere banale, ma soprattutto dalle famiglie «popolari» fuoriuscite della rozzezza (attraverso i servizi feudali e soprattutto attraverso l’accaparramento dei beni e delle funzioni ecclesiastiche), spesso sobillatrici di rivolte antifeudali, queste famiglie di caporali non riescono a sostituirsi ai padroni delle signorie banali e rilevare, sotto questa forma, delle rendite feudali sui contadini. I tentativi dei principali (nel lungo periodo) si possono riassumere in tre tipologie essenziali: 1. Il mantenimento e l’estensione del loro potere in bestiame, terre e, soprattutto, lo sfruttamento (con forme che vanno della devastazione all’usura) del più grande numero possibile di famiglie contadine. 2. Il controllo (a partire da una base di lignaggi-dipendenze e di catene parentali) delle istituzioni politiche dei villaggi e delle pievi, predisponendo, direttamente o indirettamente (attraverso amici, parenti, famiglie di notabili, «obbligati»...), una rete di clan quanto più possibile estesa. Questo tipo di controllo presenta parecchi vantaggi essenziali: innanzitutto permette alle famiglie caporalizie di estendere e sviluppare l’impiego o l’usurpazione (o ancora l’usurpazione-appropriazione privata) dei beni comunali e dei diritti collettivi più fruttuosi. In ragione della stessa struttura dualistica delle comunità rurali, questo controllo permette al «caporale» ed agli altri principali di imporre gradualmente “obblighi” e di accedere al beneficio dei beni comunali (diritti di uso, protezione giudiziale, fiscale...). I grandi notabili possono così esercitare un’efficace pressione sui contadini, anche su quelli che non sono loro mezzadri o loro debitori. Pressione che permette di ricavare una rendita costante (derivata direttamente dalla rendita feudale), sotto forma di regalie estorte con diversi pretesti (spostamenti, matrimonio, pretesa protezione contro le decisioni statali)29. 3. L’estensione di questo controllo delle pievi e dei villaggi procura allo stesso tempo ai principali un ultimo vantaggio essenziale, complementare ai precedenti. Si tratta del potere socio-politico, che permette di negoziare meglio col potere statale (instauratosi a partire dalla fine del XIV secolo) e di partecipare alla rendita centralizzata (con lo sviluppo del sistema fiscale e delle strutture amministrative): poteva trattarsi di sussidi versati regolarmente (come le «pensioni» che Vincetello di Istria, allora principe-conte dell’isola, regolarizza all’inizio XV secolo), di posti o «uffici» nella giustizia e nell’amministrazione, di vantaggi agrari, fiscali, commerciali, ecc... § 3. I rapporti sociali dominanti nelle campagne corse (1770-1780) La diversa tipologia dei rapporti sociali analizzati finora rimane nella sfera del metodo di produzione feudale, pur costituendo un rinnovamento qualitativo, una forma di adattamento allo sviluppo delle forze produttive, degli scambi, dei rapporti sociali, culturali, politici in Corsica e nel Mediterraneo. La realizzazione concreta del sistema sociale si attua in momenti diversi, che richiedono un’attenzione specifica. § Le caratteristiche dei rapporti di produzione verso il 1770 Questi rapporti (tenuto conto degli effetti e dei cambiamenti) strutturano il sistema sociale delle campagne corse nel corso del XVIII secolo. Il polo dominante in questo tipo di rapporti sociali è costituito dall’aristocrazia dei grandi proprietari

28 Sulle caratteristiche dell’evoluzione economica e sociale nei secoli XIV, XV e XVI e l’ascesa dei grandi notabili rurali, cfr. CASANOVA A., Notes sur les Caporaux et les communautés rurales corses fin XIVe et XVe siècles, «Corse Historique», 9-10 (1963). 29 Sul processo di estensione della rendita di tipo feudale e della “protezione”, cfr. il caso del massiccio prelievo in denaro ed in natura operato nel XV secolo dai grandi notabili, con la scusa di esentare le famiglie contadine da un trasferimento a Porto-Vecchio.

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terrieri, di cui abbiamo appena rievocato l’origine a partire dal XV secolo. La classe dei capopopoli, principali, prepotenti, attraverso frequenti conflitti di clan, si è trovata associata alla gestione ed al funzionamento dell’apparato statale in Corsica dall’epoca del dominio genovese, fino a Paoli (che non poteva escluderla dalla gestione amministrativa del potere politico)30, ed alla monarchia francese. Essa possiede così, fino al 1770, la possibilità di rafforzare il proprio ascendente ed i mezzi di coercizione extra-economica sulla vita dei contadini. È essenziale precisare che la natura dei rapporti di produzione generata da questa evoluzione forma il quadro strutturale in cui, e contro cui, opera l’evoluzione delle forze produttive materiali ed umane nelle campagne. I rapporti di produzione che questi grandi proprietari intrattengono con la classe contadina non hanno nulla di paragonabile con la feudalità francese, che sfruttava i piccoli proprietari delle comunità rurali attraverso una complessa associazione di corvées, tasse in natura e tasse in denaro (quest’ultimo prelevato da un proprement seigneurial attraverso banalità, poteri giudiziali ed amministrativi). Non si tratta nemmeno di una borghesia rurale «all’inglese», che gestiva le grandi proprietà con una manodopera di salariati liberi. Il processo di sfruttamento dei produttori rurali corsi prima e dopo il 1770, è complesso: esso agisce indirettamente sul «salariato misto» e soprattutto attraverso la predominanza di contratti (spesso verbali) di mezzadria sugli introiti. Sulle terre, l’aristocrazia fondiaria prelevava i beni con il terratico (prelievo che nel Diquà vale da un quarto alla metà del prodotto) o sul bestiame (con un prelievo che va da un quarto alla metà nel Diquà, alla metà nel Dilà)31. Mezzadria precaria dunque, piuttosto che affitto (per il bestiame il nome del contratto è livello). Lo sfruttamento dei produttori al dettaglio si attua attraverso l’usura, molto diffusa (soprattutto dopo le crisi di sussistenza), ma anche in altri modi. Il dominio dei grandi notabili si attua anche attraverso il controllo fiscale: fenomeno è evidente soprattutto durante il generalato di Paoli. Questo dominio, che implica necessariamente dei rapporti clientelari tra contadini e prepotenti e le liti tra i clan, si evolve lentamente con il passare dei secoli. Come i caporali dei secoli XIV, XV e XVI, i principali del XVII e XVIII secolo, in collegamento con il lento movimento delle forze produttive, mantengono in Corsica un rapporto di produzione di tipo feudale, che s’immette nel sistema capitalistico attraverso la mezzadria generalizzata. Pur con notevoli differenze storiche e geografiche, questo processo ha tracciato il suo percorso in tutte le terre del bacino occidentale del Mediterraneo (dall’Italia del centro, del sud e delle isole, fino al Portogallo)32. § 4. Le classi sociali nelle campagne corse alla fine del XVIII secolo È molto difficile, allo stato attuale della documentazione archivistica, avere un’idea chiara delle caratteristiche e dei limiti delle principali classi sociali dell’isola alla fine del XVIII secolo, specialmente riguardo alla proprietà fondiaria ed alla percentuale della popolazione. Alle consuete difficoltà di questo tipo di ricerche, si aggiungono gli ostacoli della realtà corsa: le fonti sono eterogenee e prive di informazioni statistiche; lo studio delle classi sociali è appena agli inizi e manca una bibliografia esauriente sul territorio; sono scarse le informazioni catastali e fondiarie33, enormi le lacune degli inventari dei beni nazionali, quasi inesistenti gli stati di sezione34. Alcuni documenti35 forniscono tuttavia dei dati relativamente precisi sulla proprietà fondiaria e sulle caratteristiche di classi e strati sociali rappresentativi dei principali sistemi di cultura delle forze produttive. Altre informazioni utili sulle professioni e sulle «condizioni sociali» sono reperibili nei verbali delle assemblee di villaggio delle pievi a sud di Ajaccio36 (che elaborarono i Cahiers de Doléances) e nei registri parrocchiali37. Tuttavia il contributo di queste fonti può dare adito a molteplici interpretazioni, in ragione della loro stessa natura. Lo stato di sezione di Tomino mostra chiaramente quanto siano profonde le differenze sociali rispetto ai mezzi di produzione. A partire da questi dati, oscuri e difficili, si è stato tentato di tracciare brevemente i lineamenti delle classi e degli strati sociali che popolano le campagne corse nel periodo 1770-1780. § I Giornalieri

30 Cfr. ROVERE A., La Corse au temps de Pascal Paoli, in ID., Peuple corse Révolution et Nation Française, Paris 1979, pp. 15-107. 31 Questi dati si mostrano chiaramente nelle risposte al Questionario dell’Anno X, volume annesso I, cap. XI, notizia documentaria I e tabelle n. 7, 8, 9 e 10. 32 Cfr. VILLANI P., Feudalità, riforme cit. e SERENI E., Storia del paesaggio rurale italiano cit., pp. 244 e 280-285. Cfr. anche SOBOUL A., La révolution française dans l’histoire du monde contemporain, in ID., Les voies de la révolution bourgeoise, «Recherche Internationales à la lumière du marxisme», 62 (1970), ed ID., Problèmes paysans de la Révolution (1789-1848), Paris 1976 pp. 9-23 e 335-431 ed anche GIORGETTI G., Capitalismo e agricoltura in Italia, Roma 1977, pp. 51, 263-273 e 331-352. 33 Cfr. quelle della Rebbia nel Bozio, vicino a Corte. Arch. dép. Corse-du-Sud (Serie C. Intendence 580) e quelle della provincia di Vico (Serie C. Intendence 1). Queste ultime sono state utilizzate da MAGDENEL E. nelle Recherches sur les communautés rurales en Corse au XVIIIe siècle, op. cit. 34 Allo stato attuale della documentazione si dispone solamente di due sezioni ritrovate da M. Lacroix, direttore degli Archivi dipartimentali dell’Haute-Corse. Si tratta di quelli di Tomino e di Centuri nel nord del Capo Corso. Lo stato di Centuri è incompleto e presenta solamente delle indicazioni superficiali. Quello di Tomino permette invece di afferrare con una rara precisione le relazioni tra tipi di coltura, proprietà, classi e strati sociali. 35 Si tratta delle Tabelles del 1774 (in cui risultano censite le famiglie di pastori-coltivatori di diciassette villaggi della Piana Orientale dell’isola), dell’estratto delle proprietà di Città di Pietrabugno nel 1785 (a nord di Bastia), dello stato delle proprietà di Ajaccio del 1775, dello stato di sezione di Tomino. Il contributo di questi testi può essere completato in parte con i dati frammentari forniti dai documenti della Sovvenzione della Rebbia e della provincia di Vico nel 1772. 36 Arch. dép. Corse-du-Sud. Série C 637, Cahiers de Doléances de la province d’Ajaccio. In questo fondo si trovano 47 Quaderni dei villaggi che appartengono a sette pievi dell’est e del sud-est della provincia di Ajaccio. 37 Arch. dép. Corse-du-Sud. Série II E, Registres paroissiaux. In certi villaggi, ma senza regolarità cronologica, i curati indicano la professione e la «condizione» delle persone iscritte nei loro registri. Queste menzioni sono particolarmente frequenti negli atti di matrimonio. L’analisi di queste fonti permette di conoscere in modo molto approssimativo la natura delle «condizioni» sociali di alcuni villaggi come Aregno in Balagna, Murato nel Nebbio, Luri nel Capo Corso, Santa Lucia nel Bozio, Albertacce nel Niolo, Quenza nel Sartenese. Si è tentato anche un sondaggio più sistematico nei villaggi delle pievi di Tavagna, Casinca, Casacconi, Rostino, Ampugnani, Orezza. I primi due sono localizzati nelle colline della pianura orientale, gli altri si trovano nella Castagniccia (Orezza) e nella zona montagnosa centrale.

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La maggioranza della popolazione dei villaggi corsi, nel periodo 1770-1780, sembra composta da produttori al dettaglio e da piccoli proprietari, relativamente padroni dei mezzi di sussistenza e sottoposti ad un processo di sfruttamento differenziato. In questo insieme, una classe dai tratti specifici è costituita da contadini quasi totalmente privi di terra, che sopravvivono facendo delle «giornate» di lavoro presso altri agricoltori. Queste persone, che vendono regolarmente la propria forza-lavoro, sono qualificate dagli inquirenti, dagli osservatori o dai curati parrocchiali come giornalieri, o persone di zappa, o povera gente, reputata di «condizione miserabile» o «infima»; i dati delle città di Pietrabugno, di Ajaccio e soprattutto di Tomino permettono di identificare abbastanza chiaramente i caratteri generali di questa categoria. Le famiglie dei giornalieri detengono tra l’1% e l’1,5% del suolo. Queste comunità agricole costituiscono la base delle micro-proprietà familiari, comprese tra 1,30 (ad Ajaccio) o 1,70 (a Tomino) bacinate, cioè dieci-undici are38. Nei villaggi della Piana Orientale la terra coltivata in proprio dai giornalieri è praticamente inesistente, perché si aggira attorno alle 0,70 bacinate. La classe dei giornalieri rappresenta una percentuale compresa tra il 10 (a Pietrabugno) ed il 15-16% (rispettivamente a Tomino ed ad Ajaccio) della popolazione. La proporzione è simile nelle pievi della Piana Orientale. I dati di Tomino e di Pietrabugno lasciano supporre che questi lavoratori avessero generalmente un patrimonio ed un reddito fondiario estremamente debole. È difficile valutare il peso globale della classe dei giornalieri, sprovvista quasi interamente di terre, nella società rurale corsa degli anni settanta del XVIII secolo. Nel Capo Corso e nella terra di Ajaccio, rappresenta probabilmente il 10-15% della popolazione, contro l’8-15% delle pievi agro-pastorali della costa orientale. Probabilmente la percentuale diminuisce nelle comunità rurali dell’interno. Nella provincia di Vico, verso il 1775, questi contadini hanno un reddito compreso tra 0 ed 1 lira e costituiscono l’1-1,5% degli abitanti. I dati fondiari e fiscali non vengono completati dalle informazioni fornite dai Cahiers de Doléances dei villaggi o dai registri parrocchiali. Dall’analisi dei Cahiers si ha l’impressione che i giornalieri, abbastanza numerosi nei villaggi attorno ad Ajaccio, si attestino tra il 3 ed il 4% della popolazione. L’esame dei registri parrocchiali della giurisdizione della Porta fornisce dati diversi, ma ancora più incerti. I giornalieri sembrano costituire il 4% della popolazione dei villaggi delle pievi montanare ed agro-pastorali contro una percentuale variabile tra il 20 ed il 30% nella Casinca. Forse i giornalieri agricoli compongono allora una percentuale compresa tra il 3-4 ed il 15% dei contadini nelle zone a prevalenza agro-pastorale. Potrebbero assestarsi attorno al 10-15% nelle regioni più evolute, con un’arboricoltura di mercato, arrivando forse al 20% in Casinca.

38 Vd. MONTI A.D., Essai sur les anciennes unites de mesure utiliseés en corse avant l’adoption du systeme metrique, Cervioni 1982: «la bacinata est la superficie de terrain capable de recevoir un bacinu de semence en céréales. Pour un bacinu déterminé, cette mesure variait en fonction de la qualité de la terre. En effet, l’ensemencement était plus dense dans les terres riches que dans les terres pauvres: «la pianura riceve più semente che la collina e le terre macchiose». Voici une correspondance avec le système métrique: bonnes terres 3,01 ares, terres médiocres 3,93 ares, mauvaises terres 4,63 ares. Le Chanoine Casanova donne la correspondance suivante: 10 arpents valent 139,9 bacinate en bonnes terres, 107,11 en terres médiocres, 84,63 en terres mauvaises. En comptant l’arpent de Paris 34,18869 ares, on obtient pour la bacinata: 2,44 ares en bonnes terres, 3,19 en terres médiocres, 4,04 en terres mauvaises. Bien entendu, il faut aussi tenir compte du bacinu local. En 1839, le juge de Cervioni estime à 5 ares la bacinata dans la plaine alluviale de Fiumalisgiani. Lors de l’estimation des biens nationaux de la communauté de Brandu, faite le 13 floréal en VI, la bacinata vaut 3,6 ares (Arch. dép. Ajaccio 1 Q 43)». Per le fonti sulle unità di misura in Corsica, cfr. Elenco di dimande fatte dal prefetto del Golo alli Sotto-Prefetti, Maires, e Giudici di Pace del detto Dipartimento sulla Statistica (1801), Communes de Cervione, San Giuliano et Valle di Cervione. Arch. Dép. Ajaccio, 13 M2; «Tavole di ragguaglio per le misure, i pesi e monete moderne e antiche» trascritte dal Pellegrino, Consigliere Nobili, Vice-Presidente Reggio, tip. Torregiana e Compagnia, 1829 «U Muntese», 52 (1959).

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La ripartizione della proprietà in alcune pievi della Corsica (1770-1780)

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Grafico 8: La ripartizione della proprietà in alcune pievi della Corsica verso il 1770-1780. Percentuale rispetto alla popolazione

La ripartizione della proprietà in alcune pievi della Corsica verso il 1770-1780 - percentuale di terra coltivata

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Grafico 9: ripartizione della proprietà e percentuali

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§. Il vasto gruppo dei contadini dipendenti di tipo misto Al di sotto questa classe contadina quasi interamente priva di terra, che vive della vendita della propria forza-lavoro, si trova il vasto insieme dei piccoli proprietari, mezzadri e giornalieri saltuari o (relativamente) regolari. Si tratta di una categoria variabile, ma che lascia discernere al suo interno i contorni di tre strati sociali ben delineati. a) I piccoli proprietari giornalieri-mezzadri La prima classe è costituita da famiglie qualificate come “miserabili”, anche se dispongono di una maggiore quantità di terra rispetto ai giornalieri: in media 2/5 bacinate o 14/37 are. Resta comunque una quantità misera, che le obbliga a cercare sussistenza nelle attività salariali e nella mezzadria, come accade nel Capo Corso. Nella pieve di Tomino questa categoria sociale, rappresentata dalle famiglie che possiedono in media 5 bacinate, comprende i giornalieri, alcuni vignaioli e dei marinai. Queste persone detengono circa il 9% del suolo comunale, rappresentano il 32% della popolazione e dispongono di un reddito fondiario che, approssimativamente, si aggira tra una e cinque lire. A sud del Capo Corso, a Pietrabugno, questi micro-proprietari detengono tra le due e le cinque bacinate e possiedono il 7,5% del suolo, rappresentando il 29% della popolazione. Ogni famiglia detiene in media 2,25 bacinate. Nella terra d’Ajaccio, attorno al 1775, si trova una situazione simile: la proprietà familiare è in media di 3,28 bacinate. I lavoratori detengono poco più del 2% della superficie censita, dove costituiscono il 25% della popolazione dei capi famiglia iscritti nelle dichiarazioni di proprietà. Contemporaneamente nelle pievi della Piana Orientale questi contadini micro-proprietari dipendenti mantengono lo status di mezzadri precari. La loro condizione è simile a quella dei «miserabili» giornalieri, ma si distinguono per l’affitto e la semina annuale di una quantità di terra circoscritta tra le pievi di Rogna, Cursa e Porto-Vecchio39. In media questi pastori-coltivatori (mezzadri precari) coltivano da tre a quattro bacinate per famiglia. La loro presenza cresce proporzionalmente al passaggio dalla pieve di Rogna fino a quella di Porto-Vecchio40, per assestarsi intorno al 25% della popolazione ed al 15% della superficie seminata. Il gruppo sociale dei micro-proprietari dipendenti sembra così rappresentare dal 7 al 10% della popolazione nelle zone dove predomina un’agricoltura caratterizzata dalla forte presenza dell’olivicoltura e soprattutto della viticoltura. In questo tipo di terre, i contadini micro-proprietari dipendenti sono piuttosto dei proprietari-giornalieri. Nelle regioni dove predominano i sistemi di coltura agro-pastorali, i micro-proprietari dipendenti si presentano con caratteristiche diverse. Si tratta di contadini che possono svolgere delle giornate di lavoro per aumentare il reddito, ma che vivono essenzialmente con la presa di terra e con il bestiame a mezzadria precaria; rappresentano circa il 25% della popolazione nei villaggi della Piana Orientale dell’isola. Nella provincia di Vico, attorno al 1775, i contadini che ricevono da una a cinque lire di reddito annuale costituiscono il 20-21% del totale. Al centro dell’isola (a Rebbia, nel Bozio, vicino a Corte) rappresentano il 17% circa della popolazione. Generalmente queste famiglie di produttori al dettaglio sfruttati come giornalieri-mezzadri o come mezzadri costituiscono forse il 7-10% della popolazione nei territori del Capo Corso ed il 20-25% nelle zone agro-pastorali. I contadini appartenenti a questi strati sociali sono accomunati da un accesso limitato alle forze produttive esistenti sul suolo delle loro pievi. b) Lavoratori e vignaroli proprietari-mezzadri Un’altra tipologia di contadini dipendenti è costituita dalle famiglie di proprietari e mezzadri precari. La parte di proprietà delle famiglie di questo terzo gruppo è più sostanziale: si estende generalmente tra 5/10 bacinate. A Tomino i contadini possiedono in media 8,6 bacinate per famiglia di cui 3,5 devoluti alla vite, 4,4 alla macchia, con frammentarie porzioni ad olivi (0,40 bacinate) e cereali (0,20 bacinate). A Pietrabugno i contadini della stessa categoria detengono sette bacinate per famiglia. Si riscontra una minore quantità di macchia, una percentuale leggermente maggiore in cereali (0,75 bacinate) e, riguardo all’arboricoltura, un’inferiore presenza delle vigne. Una struttura simile, attorno al 1775, si ritrova ad Ajaccio. La gamma delle colture è qui più completa rispetto a quella dei ceti contadini precedentemente esaminati: la vite ed i cereali, tuttavia, sono quasi del tutto assenti. Anche se la proprietà dei mezzi di produzione, sia per l’estensione delle terre che per il sistema di coltivazione, è più forte che negli altri due gruppi sociali dei contadini-microproprietari e contadini-dipendenti, non riesce comunque ad assicurare la sussistenza. Perciò a Tomino gli abitanti che possiedono da cinque a dieci bacinate fanno ricorso alle locazioni di terra o alle attività salariate. Queste famiglie sono composte essenzialmente da vignaioli, da giornalieri e da marinai. Il reddito fondiario annuo delle loro terre si aggira tra le cinque e le dieci lire. Nelle terre caratterizzate dall’egemonia dell’arboricoltura (come il Capo Corso) o dalla sua prevalenza, questo strato sociale può rappresentare dal 9 al 15% (talvolta anche il 24%) della popolazione41 e detenere dal 3 al 12% del territorio42. I villaggi delle zone agro-pastorali sembrano contenere una maggiore proporzione di contadini di statuto misto, che dispongono di un reddito fondiario variabile tra 1 e 5 lire. Nelle comunità della Piana Orientale essi rappresentano circa il 44% della popolazione. Coltivano ogni anno il 57-60% della superficie censita nelle Tabelles. Queste famiglie sono meglio fornite in mezzi di produzione (e non sottoposte alle usurpazioni della mezzadria) rispetto a quelle dei pastori-coltivatori, generalmente formate da mezzadri precari. Infatti detengono la maggior parte del bestiame ed una magra porzione di terre43.

39 I pastori-coltivatori che vivono solamente di mezzadria coltivano ogni anno undici/dodici bacinate nella pieve di Rogna, sei/sette in quelle di Castello e di Covasina, una in quelle di Cursa e di Porto-Vecchio. 40 I mezzadri rappresentano l’8% della popolazione delle Tabelles nella pieve di Rogna, il 17% in quella di Covasina, il 23% in quella di Cursa, il 25% in quella di Castello, il 37% in quella di Porto-Vecchio. 41 il 9% a Tomino, il 24% a Città di Pietrabugno, il 15% ad Ajaccio. 42 il 4% a Tomino, il 2,80% ad Ajaccio, il 12% a Città di Pietrabugno. 43 Questa porzione è ridotta. Nella pieve di Rogna, i contadini di statuto misto che affittano il bestiame e sono proprietari della loro terra o che coltivano dei

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Nell’insieme, l’attività e la gestione familiare di questi contadini mezzadri-proprietari è quantitativamente e qualitativamente più equilibrata rispetto alle altre due classi di contadini dipendenti. La superficie di terra coltivata annualmente, più forte nella pieve di Rogna, ancora molto debole in quella di Porto-Vecchio, si aggira tra le dodici e le tredici bacinate, di cui i 2/3 coltivati a grano. Queste famiglie possiedono l’attacco per i buoi soltanto nelle pievi di Rogna e di Castello ma, in ciascuno dei diciassette villaggi, i pastori-coltivatori dispongono di una mucca. Le greggi allevate da ogni famiglia sono più numerose e presentano una più ampia presenza di ovini44. Nell’insieme questi contadini proprietari e mezzadri sono generalmente qualificati di «condizione miserabile» e di «condizione mediocre». Le classificazioni dominanti nelle campagne corse li distinguono tra giornalieri o tra famiglie rurali quasi interamente immerse nella mezzadria. Qualificati come coloni o pastori, i mezzadri puri sono inclusi dai curati o dagli autori delle Tabelles nella «condizione miserabile». I contadini di statuto misto sono spesso distinti dai produttori al dettaglio, che riescono a vivere del lavoro dei propri mezzi di produzione. Questi ultimi sono dei lavoratori dei propri beni, dei lavoratori del proprio45 o dei lavoratori (o travagliatori) e pastori a suo uso46. I contadini semi-dipendenti sono invece, nelle stesse comunità rurali, qualificati soltanto come lavoratori o travagliatori. A Quenza, nel Sartenese sono detti lavoratori di conditione paesana. Nel Capo Corso, i curati registrano spesso i lavoratori o i vignaioli, e talvolta precisano anche le loro attività47. Questo non significa, comunque, che essi appartengano ad una classe sociale economicamente stabile, anche perché sono facilmente sospinti alla miseria o alla delinquenza dalle malattie, dai lutti, dai debiti o dai cattivi raccolti. Considerate nella loro globalità, queste famiglie di produttori dipendenti o semi-dipendenti sembrano rappresentare il nocciolo principale della popolazione dei villaggi corsi nei decenni che precedono la Rivoluzione francese. Durante il periodo della Rivoluzione corsa, la maggioranza delle pievi costituite da questa categoria di persone eleggeva, attraverso il sistema elettivo comunitario, i propri deputati alla Dieta di Corte. Al di là delle differenze che la costituiscono, questa classe presenta due caratteri essenziali: 1) l’insufficiente possesso dei mezzi di produzione, che permettono di vivere in modo relativamente autonomo; 2) l’immissione in rapporti di produzione determinati e chiusi. I contadini non sono sfruttati in qualità di giornalieri, ma come lavoratori di unità produttive familiari che hanno la responsabilità dei mezzi di produzione ricevuti dall’alto. Essi provvedono al loro mantenimento a partire dal lavoro effettuato con il bestiame e con il godimento delle terre, completando o in parte sostituendo il profitto con i beni comunali. Con questi caratteri generali, i contadini dipendenti o semi-dipendenti occupano un posto di primo piano nella struttura sociale dei villaggi della Corsica, anche se con differenze notevoli all’interno dell’isola. Infatti, nei comuni dove predomina un sistema agricolo-pastorale, l’insieme dei contadini-lavoratori rappresenta il 40-50% degli abitanti48. Sembra si raggiunga una percentuale simile nei villaggi delle zone agro-pastorali come la provincia di Vico o nelle pievi del centro montano49. Questi fenomeni si trovano quantitativamente e qualitativamente rafforzati nelle zone dove l’egemonia della grande proprietà fondiaria è più accentuata. Infatti la percentuale dei contadini-mezzadri e dei proprietari-mezzadri si alza fino al 70% tra i pastori-coltivatori dei villaggi della Piana Orientale, dove si trova, tra l’altro, una percentuale di giornalieri vicina al 14%. Le caratteristiche di questi territori sono inscindibili dalla presenza della grande proprietà fondiaria. Nella provincia di Sartena, i documenti del contenzioso fiscale confermano le opinioni di Patin de la Fizelière50, secondo cui le grandi famiglie nobili controllano come mezzadri-associati (in terra, in bestiame ed in «corporazioni») la maggioranza dei villaggi. Nelle comunità rurali della Piana Orientale, i Frediani ed i Morelli, padroni del Migliacciaro, ed i grandi fittavoli del Demanio Reale (per molto tempo gli Ettori ed i Rocca-Serra) hanno alle loro dipendenze solo il 36% dei pastori-coltivatori che vivono di mezzadria51. Questa classe di produttori al dettaglio, a partire dai contratti di mezzadria precaria (come il terratico, la corporazione, la soccida, il cinquino, il guadagno52) dipende così dai capi di villaggio e, più ancora, dai beni comunali costituiscono l’8% dei contadini di statuto misto ed ogni anno coltivano ventisei bacinate di terra. Nella pieve di Castello, rappresentano il 3% dei contadini proprietari dipendenti e possiedono, in media, diciassette bacinate di terra coltivata per famiglia. Nella pieve di Cursa questi contadini sono l’8% del totale dell’insieme a statuto misto e dispongono in ogni proprietà di tre o quattro bacinate a famiglia (su un totale di sette/otto coltivate ogni anno). Nella pieve di Covasina grazie alla presenza dei beni comunali coltivabili goduti dalle comunità rurali, i contadini che non sono obbligati ad affittare la loro terra costituiscono il 21% dello strato sociale dei pastori coltivatori di statuto misto; coltivano ogni anno sei/sette bacinate di terra, proveniente per il 74%, da fondi comunali. 44 Queste famiglie possiedono in media tre maiali ed un gregge di piccola taglia, produttore di latte (37 capi in tutto, di cui il 70% di caprini ed il 30% di ovini). Nelle famiglie dei puri mezzadri, la taglia media del gregge preso ad affitto è di 25-30 capi di cui il 71,50% di caprini ed il 28,50% di ovini. 45 Registro parrocchiale del villaggio di Ghisoni II E 142 (1785). 46 Registri parrocchiali dei villaggi di Albertacce e di Calasima nell’alta valle del Niolo. 47 Il registro parrocchiale di Luri nel Capo Corso li classifica nel 1771 come lavoratori de mediocre conditione vivente colla propria fatica. 48 il 41% a Tomino, il 53% a Città di Pietrabugno, il 40% ad Ajaccio. I dati forniti dall’esame dei registri parrocchiali della giurisdizione della Porta non forniscono indicazioni statistiche precise. Al massimo si possono trarre delle considerazioni: le pievi di Casinca e Tavagna sembrano avere circa il 10-11% dei contadini mezzadri (ed il 30-40% di contadini giornalieri) ed il 45-65% di contadini di statuto misto. 49 L’esame dei registri parrocchiali del Rostino, di Ampugnani, di Orezza mostra che la classe dei contadini di statuto misto in ciascuna di questi pievi dovrebbe essere del 70,52 e 25% contro il 22,10 e 11% per i contadini totalmente dipendenti, composti da coloni o pastori mezzadri. In queste pievi la proporzione dei capifamiglia che vivono solamente del lavoro agricolo salariato, qualificati come giornalieri, sembra attestata tra il 4% (il Rostino) ed il 10-11% (Orezza ed Ampugnani). 50 Infatti 68 capifamiglia di Giuncheto, la maggioranza della popolazione del villaggio, sono compagnoni o hanno preso a soccida delle mandre (greggi) per conto di alcuni grandi proprietari di Sartena. 51 In questa zona le Tabelles mostrano che il 7% dei pastori-coltivatori ha preso della terra in mezzadria dipendente da tre grandi notabili, ognuno con 10-20 mezzadri; l’8% dei pastori-coltivatori dipende dai sette proprietari che hanno 5-10 mezzadri ed il 7% dai 28 contadini proprietari che hanno 1-5 mezzadri. 52 TIPOLOGIA DEI CONTRATTI PASTORALI: LIVELLO: colui che prende il bestiame paga in moneta il proprietario (20 soldi a capo) o in natura (3 lire di formaggio secco nel cantone di Venaco). CINQUINO: il pastore riceve dal padrone del bestiame una retribuzione in natura come rimborso-spesa, ossia 1 pelone, 1 ascia e 6 bacini di farina per gruppi di 10 pecore (Santo Pietro, Morosaglia, Gavignano, Belgodere). Gli spetta 1/5 della lana e di formaggio, 1 agnello macellato su 5 e una delle bestie divenute adulte su 15 o 20 capi. MEZZADRIA: Il produttore immediato prende carico e responsabilità del capitale

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grandi latifondisti, che hanno una grande influenza sui poteri amministrativi e che, con il controllo dei beni comunali, dispongono di mezzi di costrizione extra-economici su tutta la classe contadina. Questo tipo di rapporto sociale non permette ai contadini-dipendenti o semi-dipendenti di sviluppare le forze produttive, di perfezionare o di rendere più complesso l’allevamento ed il sistema agricolo della loro regione: si tratta, al contrario, di una situazione che rende problematica l’estensione dei mezzi di sussistenza. § Le caratteristiche dei «lavoratori dei propri beni» Ad un livello superiore si trova la classe dei contadini che riescono, generalmente, a vivere con i propri mezzi di produzione o grazie ai beni comunali. La denominazione caratteristica di questi contadini è quella di lavoratori dei propri beni o lavoratori del proprio, o ancora lavoratori o pastori a suo uso e la loro condizione è dichiarata mediocre o talvolta onesta. Il reddito fondiario annuo medio sembra coincidere tra 10 e 50 lire. A Tomino tra i contadini che possiedono almeno dieci/quindici bacinate, non figurano né giornalieri né marinai. Quasi tutti sono dei vignaroli che, con più o meno difficoltà, vivono del lavoro delle loro terre. La possibilità di disporre di surplus relativamente regolare e di arrivare all’agiatezza, pur rimanendo nella classe sociale dei contadini, implica il possesso di 40/70 bacinate (3/5 ettari53). Nelle regioni dell’isola a prevalenza agro-pastorale, la proprietà varia tra 93 e 120 bacinate (7/9 ettari) di cui 30/40 coltivate. Lo stesso vale per i villaggi della Piana Orientale. I contadini che vivono dei propri mezzi di produzione sono distinti e caratterizzati nettamente dagli autori delle Tabelles: tuttavia esse indicano solamente la superficie di terra seminata ogni anno dai pastori-coltivatori, per cui la superficie seminata annualmente e la superficie posseduta non si identificano: è molto difficile chiarire il rapporto tra proprietà familiare e superficie coltivata ogni anno a cereali. Nella pieve di Rogna (l’unica dove questa classe è preponderante54), i contadini indipendenti coltivano ogni anno 25-30 bacinate e, tenendo conto del tipo di rotazione in vigore in queste terre mediocri, dovrebbero possedere circa 90 bacinate. Questo gruppo sociale che comporta, come vedremo, delle notevoli disparità interne, sembra rappresentare il 37% della popolazione a Tomino, il 34% a Città di Pietrabugno ed Ajaccio e forse include quasi il 40% degli abitanti dei villaggi montagnosi come quelli della provincia di Vico55. Nella pieve di Rogna, in cui prevale la coltivazione a gestione comunale, la classe dei contadini in grado di sopravvivere autonomamente rappresenta il 38% della popolazione. Questa classe tende invece a ridursi quando prevale la grande proprietà: è il caso della provincia di Sartena. Nei villaggi della Piana Orientale, i contadini appartenenti a questa tipologia dovrebbero corrispondere al 17% della popolazione, ma la proporzione si assottiglia al 14%, all’8%, per sparire del tutto, quando si scende nelle pievi (come quella di Cursa e di Castello di Porto-Vecchio) in cui è più forte il peso dei latifondisti del Migliacciaro o del Demanio Reale. I contadini-proprietari possono detenere delle porzioni di terra particolarmente grandi (dal 55% al 67%) in una regione dall’agricoltura complessa ed intensiva come il Capo Corso56. La percentuale scende tra il 20 ed il 35% nelle pievi agro-pastorali rinserrate dalla presenza della grande proprietà57. Cade invece tra il 20 ed il 15% nelle zone con forte presenza di proprietari di media grandezza58. La presenza più o meno diffusa dei principali è consequenziale all’assottigliamento o alla scomparsa della piccola proprietà contadina indipendente. In questo insieme sociale si trovano diverse gradazioni d’autonomia: messa in difficoltà dal dominio dei grandi capipopolo sui beni comunali, gravemente pressata dalla fiscalità genovese, paolina e monarchica, una parte di questa classe si trova sprovvista di mezzi di produzione e negli anni di crisi viene pesantemente minacciata. Non è a caso, dunque, che i primi focolai rivoluzionari, motivati dalla difesa del territorio comunale e dal rifiuto della fiscalità genovese prima, francese poi, siano avvenuti proprio nelle pievi caratterizzate da questa struttura socio-economica. Alcuni dei suoi membri possono cadere (attraverso l’indebitamento e l’usura) nella dipendenza. Il caso di questi contadini è chiaramente segnalato dagli autori delle Tabelles: nel loro commento introduttivo, ritengono che si tratti di contadini che «coltivano e seminano i campi quel tanto che essi credono sufficiente per la sussistenza della loro famiglia e niente di più59». L’analisi dettagliata dei dati codificati nelle Tabelles permette di constatare che questa situazione era particolarmente diffusa nella pieve di Castello. Nelle zone devolute all’arboricoltura, le famiglie di piccoli proprietari autosufficienti detengono tra 10/15 e 30/40 bacinate. A Tomino, si tratta in media di vignaioli benestanti, con circa trentaquattro bacinate. Con un reddito fondiario variabile tra le dieci e le venti lire, essi sono reputati di «mediocre» o «di onesta condizione»; rappresentano il 23% della popolazione e coltivano il 23% del territorio. La situazione di questi contadini è riscontrabile anche a Città di Pietrabugno e ad Ajaccio60. Nella Piana Orientale la tipologia dei lavoratori di propri beni è presente soprattutto nella pieve di Rogna. I contadini che può ricavare dalle sue bestie. Le perdite ricadono su di lui, salvo i casi in cui si può dimostrare che sono causate da un predatore. Alla fine del contratto (un anno per le pecore, tre anni per i maiali, da 3 a 6 anni per le mucche), il prodotto (lana, latte, bestiame) è diviso a metà. È un sistema chiamato anche SOCCIDA, GUADAGNO, CAPITALE. CAPEZZO: il pastore fornisce un terzo del capitale e il padrone le altre due parti; alla fine dei 3 anni si divide il bestiame a metà; le perdite sono a carico dell’incaricato. 53 Ossia una media per famiglia di 59 bacinate (di cui 15 a vite, 4-5 ad olivi, 3-4 a cereali, 34 a macchia) a Tomino, 42-43 a Città di Pietrabugno (di cui 14-15 a vite, 12-13 ad olivi, 0,65 ad ortaggi, 6 a cereali, 8-9 a macchia) e 51 (di cui 33 a vite, 3 ad ortaggi, 7-8 a cereali, 7 a macchia) ad Ajaccio. 54 Rappresenta il 38% della popolazione dei villaggi e detiene il 56% del suolo coltivato contro il 26% della popolazione ed il 25% del suolo coltivato in quella di Covasina, il 14% degli abitanti ed il 20% del suolo nella pieve di Castello, l’8% degli abitanti a Cursa, lo 0% nella zona di Porto-Vecchio. 55 L’insieme dei contadini che hanno un reddito fondiario annuo di 10-50 lire sembra rappresentare il 41% della popolazione. 56 Ossia il 55% del suolo a Tomino, il 67% a Città di Pietrabugno. 57 Nella Piana Orientale, la pieve di Rogna presenta un caso di questo tipo. I pastori-coltivatori proprietari possiedono il 35% del suolo dei villaggi. 58 È il caso di Ajaccio, dove la grande proprietà detiene il 56,50% del suolo ed i contadini proprietari il 16%. 59 Tabelles, cit., Préliminaires, f. 2. 60 A Città di Pietrabugno questa classe di contadini proprietari possiede 15/20 bacinate per famiglia ed un patrimonio fondiario di 400/1000 lire, occupa il 24% del suolo e costituisce il 23% della popolazione. Ad Ajaccio questi piccoli proprietari hanno 22/23 bacinate per famiglia ma detengono soltanto l’11% del suolo, pur rappresentando il 29% dei proprietari di terre censiti in città. I capifamiglia di questo strato sociale non possiedono qualifica.

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coltivano 20/35 bacinate, possiedono buoi, mucche e greggi di piccola taglia (in genere ottanta capi) e concedono piccoli appezzamenti a mezzadria ad altri contadini. Nelle terre che hanno maggiormente sviluppato l’arboricoltura, questo strato di contadini proprietari possiede dalle 30/40 alle 70 bacinate (2/5 ettari). A Tomino, si trovano famiglie che possiedono 59 bacinate (di cui 34 a macchia) in cui la preponderanza della vite si accompagna (diversamente dal resto della classe contadina) ad una netta presenza degli olivi e dei cereali. Questi vignaioli hanno un reddito fondiario di 30/50 lire e sono «di onesta condizione»: costituiscono il 14% della popolazione e detengono il 36-37% del territorio. A Città di Pietrabugno, le famiglie possiedono in media 42 bacinate ciascuna (quasi tre ettari), ma la parte di macchia è ridotta a 9 bacinate, mentre la superficie della vite è equivalente a quella di Tomino; si riscontrano anche 12/13 bacinate coltivate ad olivi, 6 a cereali e quasi sette ad ortaggi. Queste persone hanno un patrimonio fondiario variabile tra le mille e le tremila lire, detengono il 42% del suolo e costituiscono il 31% della popolazione. I loro omologhi di Ajaccio possiedono 51 bacinate a famiglia. La proprietà, in questo caso, è caratterizzata dal predominio della vite e da una notevole presenza di agrumi e cereali. La fascia di popolazione occupa il 5% del suolo e costituisce il 5% del totale. Nonostante il 65% della popolazione risulti non classificato, il 30% si vede conferire il titolo di signori, attribuito generalmente ai ricchi proprietari. § I Signori della borghesia rurale L’insieme sociale i cui i membri si vedono designati come Signori sembra, complessivamente, delineare i contorni di una borghesia rurale. I caratteri costitutivi li distinguono qualitativamente dai contadini proprietari e dalla grande aristocrazia fondiaria. Vi si trovano inclusi, infatti, i commercianti e gli armatori che investono nei prodotti agricoli destinati al mercato insulare o continentale61. Si notano ancora più frequentemente dei personaggi legati alla produzione al dettaglio, generati dalla classe contadina, che dispongono di una solida proprietà fondiaria e di un vasto equipaggiamento (per il lavoro salariato e la mezzadria) trasformatisi da ricchi contadini in produttori-venditori permanenti. È il caso dei ricchi vignaroli del Capo Corso e dei facoltosi lavoratori della comunità di Vico. Il 31% dei lavoratori ha un reddito fondiario annuo compreso tra le 50 e le 200 lire, mentre il 13-14% di questa stessa categoria dispone di una somma variabile tra le 100 e le 400 lire62. Essi formano la tipologia dei notabili contadini, che costituiscono allo stesso tempo la base della borghesia rurale e la radice di altri elementi di questa stessa borghesia campagnola, come i notai, i medici ed i curati (canonici ed arcipreti). Infatti il notabile che, sulla scala del villaggio o della pieve, «è un grosso produttore...costituisce sempre la base della produzione contadina. Da contadino diventa ufficiale municipale, occupa delle funzioni più importanti a livello di pieve poi è eletto agli Stati della Corsica. Se ha ricevuto qualche insegnamento, diventa notaio, medico o membro del clero»63. Questi proprietari possiedono il 21% del suolo e costituiscono il 4-7% della popolazione. Non esistono fonti precise per le regioni agro-pastorali; tuttavia, nella provincia di Vico la loro presenza sembra sia stata importante. Nei villaggi della Piana Orientale i capi hanno da due a venti mezzadri64 e possiedono circa il 42% del suolo coltivato dai pastori-coltivatori. Anche le fonti relative a Tomino, Città di Pietrabugno ed Ajaccio sono poco precise: si trovano dati compresi tra le 70/80 e le 500 bacinate (5/6 ettari e 35/37 ettari), con uno sfruttamento familiare medio che a Tomino, è di un centinaio di bacinate (circa 7/8 ettari); in queste regioni il notabilato agricolo esprime a pieno tutte le possibilità produttive, pur privilegiando la viticoltura e (in misura inferiore) l’olivicoltura; alle 34 bacinate coltivate a viti (due ettari e mezzo) si uniscono 8 bacinate ad olivi, 2 ad ortaggi, 2 a cereali, 34 a macchia. Una struttura simile si riscontra a Città di Pietrabugno: su 113 bacinate (circa otto ettari) posseduti in media dalle famiglie della borghesia, 31 sono coltivate a vite, 24 ad olivi, 7 ad ortaggi ed agrumi, una bacinata a castagni e 15 a cereali e sodaglia (35 /37 bacinate). Ad Ajaccio la superficie coltivata è più vasta, perché i cereali qui assumono un ruolo preponderante: essa varia tra le 138 e le 337 bacinate (o tra dieci e ventitre ettari), di cui una buona parte (tra le 75 e le 266 bacinate) a cereali, dalle 20 alle 26 a macchia, una trentina a viti e 6-18 ad agrumi. Nelle terre ancora essenzialmente agro-pastorali, i notabili dei villaggi dispongono di tutta la gamma delle forze produttive, combinano l’allevamento degli ovini, di caprini, di bestiame da tratto o da trasporto (come buoi, muli, cavalli) alla coltivazione di castagni, viti ed olivi. I loro mezzi di produzione sono qualitativamente e quantitativamente più complessi, meglio equilibrati. Nella provincia di Vico, se il 31% dei fuochi possiede meno di dieci capi di pecore o di capre, il 3,20% (corrispondente ai borghesi di villaggio) ne ha più di cento65. Nella stessa Vico, la proprietà degli ovini è quasi interamente inclusa in tre fuochi. Questo è ancora più evidente per la vite (i produttori-venditori di vino a Vico sono inscritti in due canoniche); i notabili della comunità possiedono quasi la metà degli olivi e dei buoi da lavoro66. Arricchitisi con le terre dei beni comunali (come mostrano i documenti di procedura delle proteste dei grandi proprietari corsi o francesi contro le concessioni demaniali della Monarchia assoluta dopo il 1770), questi personaggi erano economicamente molto attivi. Essi «prestano» i loro buoi agli altri contadini contro boatico, concedono degli appezzamenti in affitto e a terratico, dispongono del surplus fornito dal lavoro dei pastori delle loro terre o delle comunità vicine con i contratti di mezzadria (soccida, 61 Questa è la situazione del Capo Corso. Il catasto di Tomino (più preciso) mostra che la classe dei proprietari fondiari agiati è costituita da commercianti, padroni di navi e ricchi vignaroli. 62 L’analisi dei dati della sovvenzione di Vico permette di vedere che tra i lavoratori di questa grossa comunità l’1,20% dispone di un reddito fondiario annuo di mezza lira (e sono in effetti dei lavoratori-giornalieri); il 13% di un reddito da una a dieci lire; il 10,40% di un reddito da dieci a venti lire; il 42,80% di un reddito da venti a cinquanta lire; l’11% da cento a duecento lire; il 2,60% oltre le duecento lire. 63 MAGDENEL E., Recherches sur les communautés rurales corses au XVllIe siècle. La province de Vico cit., p. 165. 64 I proprietari che hanno da 2 a 20 mezzadri controllano il 42% del suolo ed il 21% dei pastori-coltivatori. 65 MAGDENEL E., op. cit., p. 86. Nel villaggio di Appriciani, Domenico Colonna possiede 353 bestie sulle 854 censite nel 1770, ossia il 42,30% del bestiame, detiene il 75% delle mucche, il 20% dei buoi, il 38% delle capre, il 74% dei maiali. 66 Quasi il 68% dei fuochi della provincia di Vico non possiede buoi, lo 0,50% ne conta più di cinque (Censimento della popolazione. Provincia di Vico, Archives Nat., Paris, serie Q 1.298 4).

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guadagno, capitale o cinquino): si preoccupano di utilizzare pienamente tutte le possibilità produttive di cui dispongono sviluppando la coltivazione dei cereali, degli ortaggi, delle viti e degli olivi nelle terre comunali incolte, a costo di rivendicarne la proprietà. Questo processo è evidente nelle zone costiere della regione di Vico e nella provincia di Ajaccio. I notabili delle pievi di Ornano, di Celavo, di Talavo hanno costruito case, forni, mulini e presse, estendendo la coltivazione del grano, delle viti e degli olivi anche prima del 177067. Questa borghesia fondiaria, spesso preponderante nelle istituzioni municipali, tende ad orientare a proprio vantaggio il funzionamento dei diritti di uso e la gestione dei beni comunali (da sempre divisi in maniera equa tra i contadini) per estendere i propri domini68. Ma viene costantemente minacciata dagli intrighi dei grandi proprietari capopopoli, successori dei caporali, che cercano di bloccare l’estensione delle proprietà, l’utilizzazione della forza-lavoro rurale e gli investimenti in greggi, grano, olivi e viti. Non bisogna sottovalutare la realtà concreta di questa contraddizione: l’esame dei dati forniti dalle Tabelles mostra che la classe dei capipopolo occupa un posto preminente nelle pievi in cui il peso della grande proprietà è meno forte, come a Rogna e Castello, mentre la borghesia rurale viene indebolita, o addirittura soffocata, nelle pievi in cui si sviluppa il grande latifondo69. La politica della monarchia francese contribuirà ad acuire questa contraddizione. Ad esempio, nella provincia di Vico, le concessioni demaniali prelevate sulle terre già commercializzate si accompagneranno a scambi falsamente compensatori, disastrosi per i contadini-produttori: le perdite dei ricchi proprietari delle comunità contadine saranno considerevoli70. Questo conflitto non esclude affatto l’esistenza di altri processi evolutivi, che si sviluppano nel quadro dei rapporti di produzione dell’Ancien Régime ed in contraddizione con essi. Il ricorso alla mezzadria, all’usura, al lavoro salariato specializzato (con modalità e tempi diversi in base alla dislocazione geografica) nelle relazioni sociali dei borghesi rurali, possono associarsi alla presa in affitto delle decime ecclesiastiche71 o addirittura al controllo dei territori dei grandi proprietari. Nel concreto questa classe ha decretato il successo, e poi lo smacco, delle istituzioni stabilite da Pasquale Paoli nel periodo dell’indipendenza isolana: è riuscita a garantire la presenza ed il potere dei propri rappresentanti (i capifamiglia) all’interno della compagine governativa del generale corso ed ha segnato, allo stesso tempo, il successo delle truppe francesi quando il sistema parlamentare di Paoli aveva mostrato i propri limiti nella gestione e nell’accaparramento delle terre comunali. Non è facile quantificare con precisione il reddito fondiario delle famiglie di questa classe sociale: esso varia tra un primo livello compreso tra le 50 e le 100 lire annuali ad altri livelli compresi tra le 500 e le 600 lire. Tra queste persone figurano, quindi, dei signori classificati di migliore conditione, o ancora di conditione civile o cittadina. La percezione sociale delle loro attività li qualifica come personaggi assistenti a suoi affari, vivente per se, medici, notai padroni di navi o ricchi proprietari, coltivatori di suoi beni e vivente colle rendite dei suoi poderi. Ad uno sguardo generale, notiamo subito che i curati, i pievani ed i canonici fanno parte di questa complessa borghesia rurale. La natura dei terreni che detengono in gestione diretta ed il loro livello di reddito fondiario li avvicina alla classe alto-borghese. Questa realtà è difficilmente percepibile, dato che le fonti e gli inventari dei beni ecclesiastici in Corsica sono precisi soltanto per 57 villaggi del Dilà e per 14 villaggi del Capo Corso. L’esame dei documenti archivistici permette, tuttavia, d’intravedere alcuni tratti contraddittori nei rapporti di produzione del clero durante i due decenni che precedono la Rivoluzione francese. Curati e pievani entrano direttamente in commercio con i giornalieri ed i mezzadri, delegando una porzione sostanziale della proprietà ecclesiastica dei villaggi. Detengono generalmente dei terreni estesi tra le sessanta e le ottanta bacinate (il 66% a cereali, il 30% a vite, il 31% ad olivi) nel Capo Corso, tra le sessanta e le centoquaranta bacinate (il 14% a macchia, l’85% a cereali, lo 0,50% a vite, lo 0,15% ad ortaggi) nelle comunità rurali del circondario di Ajaccio72. Il reddito fondiario annuo medio di questi ecclesiastici di campagna non è valutabile per il Capo Corso. I dati del Dilà permettono di localizzarlo tra le 100 e le 400 lire, o addirittura ad un livello superiore, che eguaglia quello degli altri notabili di villaggio. Sembra che soltanto una piccola percentuale di curati non raggiunga le cinquanta lire di reddito fondiario annuo. Nella provincia di Vico, in base all’elenco delle sovvenzioni, l’88% dei curati, pievani e canonici gode di un reddito fondiario variabile tra le 50 e le 400 lire ed il 55% tra le100 e le 400 lire. Inoltre, curati e pievani traggono vantaggio (anche se in maniera limitata) dal potere fondiario della Chiesa e dai benefici feudali. I dati di cui disponiamo sono molto limitati, ma forniscono comunque degli spunti interessanti su due gruppi di villaggi situati all’estremità della Corsica, ai poli opposti 67 I notabili corsi lo ricordano con forza col passare degli anni e lo confermeranno nel 1789. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C (Intendence), Cahiérs de doléances della provincia di Ajaccio. cfr. MAGDENEL E., op. cit., pp. 163-171. Esempi dettagliati di usurpazioni a Renno nel 1787 in Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence 131 e 524. 68 Manca uno studio preciso di questa materia. Alcuni documenti lasciano intravedere un’evoluzione contraddittoria dalla fine del XVII secolo. Così, nel Sartenese, una richiesta dei «poveri di Moca-Croce» (Arch. dép. Corse-du-Sud, fondo Civile Governatore C 522, agosto 1690) indica che le terre delle pianure vicine al mare erano divise in porzioni uguali tra i fuochi del villaggio al momento dei lavori. I «proprietari dei buoi» pretendono «che quelli che non hanno buoi non hanno nessuno diritto su queste terre» e «questo anno hanno voluto appropriarsi di tutto». 69 Nelle pievi di Cursa, di Covasina e di Porto-Vecchio dove pesa l’egemonia dei padroni del Migliacciaro, il Demanio Reale, i principali (spesso fittavoli del Demanio), ed i grandi proprietari di villaggio (che hanno dei mezzadri pastori-coltivatori) possiedono dal 44 al 47% della proprietà del suolo (nei villaggi di Cursa e di Covasina) per sparire completamente nella zona di Porto-Vecchio. 70 I 34 proprietari che hanno dei beni nella zona dell’Ombriccia del Pero, presa dal Demanio nel 1770, si vedono scambiare i loro piccoli appezzamenti contro le terre di taglia leggermente superiore della zona di Paomia. Le stesse perizie ufficiali danno a queste nuove proprietà un valore considerevolmente inferiore. Per i sette maggiori proprietari, le perdite in valore e qualità si attestano tra il 50 ed il 60%. Un rappresentante di questa borghesia rurale come Domenico Colonna del villaggio di Appriciani subisce una perdita in valore del 51% con questo «scambio». Cfr. i documenti che riguardano questo scambio presentato da MAGDENEL E., op. cit., pp. 169-170. 71 Monsignor Guernes, vescovo di Aleria, consente nel 1778 ad un notabile della pieve di Vallerustia un affitto triennale al prezzo di 1085 lire, per incamerare le decime delle pievi. Il pagamento si effettuava con il versamento di 45 stare di grano in agosto e di 545 franchi in denaro al Natale di ogni anno. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C 326. Controllo degli atti d’ufficio di Cervione. 72 Nella zona di Ajaccio e di Vico, i curati gestiscono direttamente la proprietà fondiaria della Chiesa. Nel Vicolese, possiedono in media 40 bacinate per villaggio; nelle zone Est e Sud-est di Ajaccio, possiedono dalle 164 alle 206 bacinate.

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del sistema agricolo insulare. In base a questi dati parrocchiali, l’estensione della proprietà fondiaria della Chiesa non è affatto trascurabile: rappresenta il 2% delle terre coltivate nel 1789 nella zona di Vico, il 18% nei cantoni a sud di Ajaccio, il 12% nel Capo Corso. Ai redditi guadagnati con la commercializzazione diretta di una parte di queste terre si uniscono quelli provenienti dalla manomorta (o livello) e, soprattutto, quelli delle decime e dei lasciti. La somma totale di questi prelievi, nei villaggi attorno ad Ajaccio, sembra rappresentare l’80-84% di un reddito lordo vicino alle novecento lire. Sottraendo le spese, il reddito medio annuo al netto di un curato delle pievi a sud di Ajaccio dovrebbe aggirarsi attorno alle 800 lire. Negli anni compresi tra il 1770 ed il 1780 questa borghesia rurale sembra costituire il 4% della popolazione dei villaggi del Capo Corso ed il 7% dei proprietari terrieri di Ajaccio; rappresenta il 12-13% degli abitanti dei territori agro-pastorali della provincia di Vico ed il 16% della popolazione del Boziu: probabilmente si trattava del 10-12% della popolazione complessiva. Si tratta di una categoria sociale con dei caratteri qualitativamente distinti, ma costituita allo stesso tempo da realtà nettamente diversificate. A livello regionale, esistono delle differenze pratiche, tecniche e culturali tra i vignaroli, i commercianti, i padroni delle navi, gli imprenditori agricoli del Capo Corso (legati da sempre al capitale commerciale, all’investimento nelle attrezzature marittime, alla viticoltura da mercato) ed i capipopuli produttori-venditori della costa orientale o della regione di Vico, la cui attività commerciale è più circoscritta, a vantaggio della mezzadria. Differenze ancora più sensibili sembrano caratterizzare i poteri e le pratiche sociali dell’alta borghesia rurale. Questo è il ceto delle famiglie maggiormente provviste di terra e di potere economico-sociale: si tratta dei padroni-proprietari di almeno dieci-venti mezzadri nei villaggi della Piana Orientale o dei notabili campagnoli della regione di Vico o delle ricche famiglie ajaccine. Anche se a considerevole distanza dai ricchi prepotenti, sia nel potere fondiario reale che in quello simbolico73, le persone di questo strato sociale hanno spesso dei titoli ecclesiastici o magistratuali e possiedono in media 337 bacinate ciascuno (contro le 1075 dei grandi aristocratici). Essi sono perfettamente inseriti nelle attività della borghesia corsa dell’epoca, pur mirando ad integrarsi nella grande aristocrazia fondiaria. Il caso della famiglia Bonaparte (il registro delle proprietà di Ajaccio del 1775 permette di localizzare con precisione la posizione della famiglia nei rapporti sociali cittadini) è illuminante e singolare: negli anni ‘70 questa famiglia cerca (con successo) di far approvare la richiesta di nobilitazione. I Bonaparte appartenevano ad una frangia di notabili vicina all’alta aristocrazia fondiaria: le loro vicende rivelano le esitazioni e le contraddizioni di tutta la borghesia corsa. Questa classe, fortemente inserita nei rapporti sociali d’Ancien Régime e contemporaneamente protagonista di nuove pratiche produttive e sociali, teme la grande aristocrazia dei principali e combatte l’estensione del suo potere, pur volendo spesso imitarlo. Si tratta, insomma, di processi e contraddizioni che saranno aumentati e prolungati dalla politica di rinnovamento e rafforzamento del dominio aristocratico a seguito dall’annessione francese, ma che avevano toccato il loro punto critico già durante il governo di Paoli. §. Le casate dei «Prepotenti» dell’aristocrazia fondiaria Rappresentata inegualmente nelle differenti regioni dell’isola, la vera classe dirigente è quella dei grandi proprietari fondiari. Le sue origini sono complesse, come la sua evoluzione, derivata dall’ascesa dei «caporali» del XV secolo al rango di grandi notabili, principali e prepotenti, che dominano la società corsa nella seconda metà del XVIII secolo74. Questi potenti lignaggi possiedono grandi greggi e fondi estesi parecchie centinaia di ettari: «una grande parte [degli abitanti della Rocca] sarebbe molto ricca, nota Patin de la Fizelière, se coltivasse i propri campi. Ce ne sono sette od otto che potrebbero stabilire delle intere colonie»75. Questa classe di grandi proprietari si è stabilita particolarmente nel Dilà, nel Sartenese. Nel Diquà, anche se si manifesta in un contesto in cui la proprietà fondiaria (latifondo e semi-latifondo) e l’estrema precarietà dei diritti dei mezzadri sulla terra e sul bestiame sono meno dominanti, il loro potere si fa ben sentire nel Nebbio, in Castagniccia, in Casina e nei villaggi della Piana Orientale. I livelli e l’influenza di questa classe verso il 1770-1780 possono essere apprezzati quantitativamente nel territorio di Ajaccio e (in parte) nelle pievi e nei villaggi del bordo orientale dell’isola. Il suo ascendente sembra considerevole: ad Ajaccio le famiglie di questo strato sociale rappresentano il 3% della popolazione dei proprietari censiti nel 1774 e controllano il 56-57% del suolo. Sulla costa orientale, i Frediani ed i Morelli ed alcune potenti casate che hanno preso in affitto il Demanio Reale, possiedono il 21% del suolo coltivato nel 1775 ed il 36% dei pastori-coltivatori. La proprietà dei signori, qualificati anche come nobili e magnifici, sembra corrispondere ad un’estensione inclusa tra le 500 e le 1.000 bacinate (o tra 37-38 e 76 ettari) fino alle 3-4.000 bacinate (da 200 a 300 ettari) nella terra di Ajaccio, dove prevale un’agricoltura intensiva. Ogni famiglia di questi nobili signori possiede qui in media 1.705 bacinate (o 128 ettari) di cui l’83% a cereali, l’1,37% a vite, l’1% in orti-frutteti, il 15% a macchia. Queste superfici aumentano nelle zone agro-pastorali della Piana Orientale, nelle regioni di Porto-Vecchio, Sartenese ed Ornano. I dati archivistici permettono di vedere meglio alcuni dei caratteri essenziali della classe signorile, i rapporti di produzione 73 I capifamiglia di questo strato superiore della borghesia sono signori mentre quelli che appartengono alla grande proprietà fondiaria sono quasi tutti nobili signori. 74 Vi si trovano incluse alcune famiglie di antichi feudatari: i nobili di Ornano, che si scontravano con le comunità delle pievi di Ornano e di Talavo per il godimento dei beni comunali coltivabili ed i Gentile di Brando, che nel XVI secolo avevano ricevuto delle concessioni nelle zone costiere della provincia di Vico. Vi si trovano inclusi anche i discendenti dei «Caporali» del XV secolo: i Matra, i Casabianca, i Campocassi o i discendenti delle famiglie genovesi (come i Sauli, padroni del feudo di Galeria, gli Spinola, i Fieschi), o corse come i Buttafoco ed i Luccioni in Castagniccia, i Boccheciampe ed i Morati (padroni di feudi nel Nebbio), i Fabiani in Balagna, i Morelli ed i Frediani (che possedevano il Migliacciaro sulla costa orientale). Tali ancora, nel centro, i Gaffory a Corte, i Panzani o i Martinetti a Ghisoni. Nel Dilà troviamo le famiglie di sjo (signori) della zona di Porto-Vecchio e Sartena, come gli Ettori, i Quenza, i Rocca-Serra, i Cesari-Rocca (che avevano contribuito al processo di frazionamento di 40.000 ettari di terre comunali a Porto-Vecchio), i Ponte (che pretendevano il dominio delle isole Sanguinarie), i Bacciochi, i Peraldi, i Tortaroli nella comunità di Ajaccio. 75 PATIN DE LA FIZELIÉRE A., Mémoire cit., p. 78.

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che contraddistinguono il suo dominio ed il rapporto con le forze produttive. L’aristocrazia dei grandi principali appare infatti saldamente impiantata nelle regioni agro-pastorali: è poco presente nel Capo Corso ed assai diffusa nelle province di Sartena e nelle pievi di Sud-ovest; detiene comunque delle solide posizioni nelle zone vitivinicole (come Ajaccio) ed ha il predominio in quelle dedite all’olivicoltura. Ma il caso di Ajaccio, come ha rivelato Patin de la Fizelière, mostra che i domini dei prepotenti hanno un orientamento ed una struttura produttiva ben diversi dalla borghesia rurale, dovuta proprio alla notevole estensione del loro potere fondiario. I sjo della terra d’Ajaccio possiedono, ad esempio, delle enormi estensioni di terre destinate alla produzione di grano ed all’allevamento. Nel Capo Corso, le famiglie della borghesia rurale possiedono terreni di un centinaio di bacinate in cui la vite, gli olivi, gli ortaggi, gli agrumi e gli alberi da frutto occupano dal 44% (a Tomino) al 55% (a Città di Pietrabugno) del suolo, le macchie dal 30 al 54%, i cereali dal 2 al 13%. Ad Ajaccio, nelle proprietà della stessa borghesia, la parte lasciata a macchia si aggira tra il 6 ed il 19%, mentre quella coltivata a cereali si estende fino al 54% e, in alcune zone, al 78%; l’arboricoltura arretra ma rimane sostanziale (dal 15 al 27% del territorio). Per le famiglie dell’aristocrazia fondiaria la situazione è notevolmente diversa, perché delle 1.700 bacinate possedute in media, il 2-37% è devoluto alla vite ed agli orti76, contro il 15% lasciato a macchia e l’83% a cereali. I grandi proprietari dispongono così di un’estensione di terre e di una gamma di forze produttive che permettono di dominare le campagne. Contemporaneamente, tra il 1770 ed il 1780, essi manifestano un’egemonia assoluta nella commercializzazione dei prodotti della mezzadria precaria. Questo accade specialmente per la cerealicoltura e l’allevamento, mentre la viticoltura e l’olivicoltura incontrano, alla fine del XVIII secolo, delle difficoltà maggiori. In questo contesto appare più efficace l’attività dei giornalieri specializzati, assai rari in un tipo di produzione legata allo sfruttamento dei contadini e dei mezzadri micro-proprietari. I grandi proprietari si sforzano di accrescere i loro guadagni, nel quadro dell’evoluzione globale dei rapporti di produzione, attraverso la vendita di prodotti agricoli sui mercati locali, regionali, insulari e continentali. È ancora in questo quadro che essi tentano di rinvestire le loro risorse monetarie attraverso l’usura, i prestiti in denaro, i censi e la gestione delle imposte77 (settore comunque controllato dal patriziato genovese). I caratteri generali della classe dominante non escludono affatto l’esistenza di differenze di ricchezza, di mentalità, di intenzioni al suo interno. Alcune differenze sono particolarmente evidenti nell’atteggiamento dei notabili del Capo Corso, del Nebbio, di Ajaccio e dei loro omologhi delle regioni agro-pastorali. Anche attraverso queste concrete divergenze, le famiglie dei prepotenti (in cui si ritrovano gli eredi delle castellanie medievali, quelli delle casate caporalizie del XIV e XV secolo ed i discendenti delle famiglie giunte allo status di alti principali nel XVI e XVII secolo) costituiscono, alla fine del XVIII secolo, la vera classe dominante corsa. Nell’insieme questi lignaggi rappresentano solamente una minoranza, anche se gli unici dati precisi di cui disponiamo per gli anni ‘70 sono relativi alla comunità di Ajaccio, dove i grandi signori e nobili fondiari costituiscono il 3% dei proprietari censiti nel 1775 (comunque nessun altro documento sembra opporsi alla stima del 3%, o forse meno, rispetto alla popolazione complessiva dell’isola). Il valore patrimoniale dell’aristocrazia fondiaria potrebbe essere calcolato con precisione solo attraverso l’analisi statistica degli atti notarili. I dati limitati e parziali forniti dagli inventari dei beni degli emigrati, del patrimonio ecclesiastico e delle doti, relativi al Diquadamonti fra il 1770 ed il 1785, costituiscono una base utile e relativamente esauriente. Essi mostrano che le casate aristocratiche, integrate alla nobiltà francese dopo il 1770, dispongono di fortune e di redditi talmente elevati da attribuire ai loro bambini delle doti (in denaro o in beni immobili) comprese tra le 5.000 e le 8.000 lire, potendo arrivare anche alle 10.000 lire78. Non poteva essere diversamente, per la classe più ricca e potente dell’isola. Con forme originali, nate dall’evoluzione storica dei capipopolo rurali e delle strutture pievane in signorie feudali ed in seguito con l’ascesa dei caporali nel XV secolo come classe dominante, fino alla costituzione di particolari rapporti sociali (simili a quelli descritti da Emilio Sereni per l’Italia meridionale79), la Corsica mantiene una struttura singolare rispetto all’evoluzione economica, sociale e culturale del resto d’Europa. È in questo quadro che le forze produttive diventano al tempo stesso tappe ed elementi di accelerazione delle lotte sociali, specie a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. I grandi principali dispongono di un insieme di poteri economici ed extra-economici (controllo diretto o indiretto delle istituzioni di pieve e di villaggio, associazione al potere statale) ed intendono sviluppare il commercio, aumentare la produzione agricola e pastorale utilizzando tutte le potenzialità del livello tecnico, trasformando senza tregua l’organizzazione e la gestione dei beni comunali, dei diritti di uso, della struttura agricola collettiva, al punto da renderli assoggettabili. Essi tendevano a creare le condizioni per un maggiore controllo sui produttori indipendenti, per l’estensione dell’usura e della mezzadria precaria, fino a rendere impossibile la riproduzione dinamica dei mezzi di produzione rurale.

76 Questo 2,37% di proprietà dedicata alla vite ed agli orti piantati ad agrumi nel 1775 è costituito da quaranta bacinate, ossia una superficie maggiore di quella che detengono in media le famiglie della borghesia. 77 Si tratta di una tipica forma di rendita corsa. Il creditore può chiedere una rendita in natura o in denaro sul prodotto del lavoro del debitore; il lavoro viene realizzato dal debitore (che è generalmente un contadino produttore al dettaglio) sulle proprie terre. Questo tipo di investimento è praticato frequentemente nel XVII secolo (cfr. POMPONI F., Essai sur les notables ruraux...cit., p. 183) e nel XVIII secolo. Annibale Folacci, grande proprietario divenuto nobile nel 1772, Tesoriere della provincia di Ajaccio, concede (tra il 1754 ed il 1762), sette prestiti (per un importo totale di 200 lire) sotto forma di rendite con un interesse medio del 13%. Folacci concederà altri quattordici prestiti (per un importo totale di 1713 lire) tra il 1772 ed il 1780. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie 2 B-307. Inventario dopo il decesso dell’eredità di Annibale Folacci. 78 A titolo indicativo si rammenta che Letizia Ramolino, la cui famiglia sembra essere stata inclusa in questa classe prima dei Bonaparte, aveva ricevuto (in appartamenti botteghe, vigne) una dote di 6705 lire. Cfr. MIRTIL M., Napoléon d’Ajaccio, Paris 1948, p. 77. Sui Ramolino, cfr. CARRINGTON D., Les parents de Napoléon, «Annales historiques de la Révolution française», 242 (1980). 79 Cfr. SERENI E., Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino 1948; ID., Comunità rurali nell’Italia antica, s.l., 1955; ID., La lotta per la conquista della terra nel Mezzogiorno, «Cronache meridionali», v. IV, 3 (1957), p. 100; ID., La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, Torino 1975; ID., Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1972.

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Tutto questo, ovviamente, con notevoli differenze sociali e geografiche. Così la classe dei capipopolo, di cui si è tentato di delimitare i contorni verso il 1770-1780, dispone dei mezzi necessari per sviluppare tutta la gamma delle forze produttive ed agisce sia con la propria forza-lavoro, sia con lo sfruttamento dei contadini-mezzadri, avocando a sé la gestione dei beni comunali e monopolizzando (con la gestione amministrativa dello stato, il fisco, la violenza, le armi) la struttura economico-sociale dell’isola. I produttori autonomi (lavoratori di suoi beni) ed i contadini dipendenti o semi-dipendenti lottano contro gli usurpatori (prima genovesi, poi francesi), contro le trasformazioni della gestione dei beni comunali e dei diritti collettivi e contro lo sfruttamento dei borghesi di paese e dei prepotenti, conducendo una guerra in cui si mescolano problemi sociali, economici e politici. In questo senso, la struttura e la potenzialità delle forze produttive alla fine del XVIII secolo non possono essere comprese al di fuori dei processi e delle tendenze del lungo periodo. Allo stesso tempo, non potrebbero essere comprese senza l’analisi delle tendenze e dei processi legati all’annessione francese.

Figura 38: dettaglio della Mappa dell’isola di Corsica di I. Vogt del 1735.

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CAPITOLO 8

CORSICA E RIVOLUZIONE FRANCESE: I «CAHIERS DES DOLEANCES» (1787-1789) Il rapporto tra la società corsa e la Rivoluzione del 1789 non può essere affrontato senza l’analisi della politica di «riforma» della Monarchia assoluta sulle strutture amministrative, politiche ed economiche. Questa politica di riforma è, nell’insieme, profondamente contraddittoria: ha condotto ad un vicolo cieco, ad una crisi globale che la monarchia ha cercato di modificare con la convocazione degli Stati Generali. L’orientamento contraddittorio della politica monarchica è evidente già dall’evoluzione delle strutture signorili: adattamento e razionalizzazione della percezione dei diritti feudali1 (appalti agli affaristi, riattamento dei terreni per una gestione più efficace; aumento delle confische sui beni comunali e lotta ai diritti d’uso) permettono alla nobiltà di approfittare dello sviluppo degli scambi e del rialzo dei prezzi per rafforzare i diritti feudali. Il potere politico ed i rapporti di produzione vengono utilizzati per aumentare i guadagni dell’aristocrazia, deviando a suo esclusivo vantaggio gli effetti dell’evoluzione delle forze produttive ed il movimento degli scambi. Questo orientamento non sembra avere risolto le contraddizioni dell’Ancien Régime. Oggetto di un attacco feudale e monarchico ancora più rigoroso, i contadini non riescono a diventare pienamente dei produttori-commercianti2. La «reazione aristocratica», che sembra adottare in maniera contraddittoria dei metodi capitalistici per un tipo di produzione ancora feudale ha avuto probabilmente degli effetti molto seri sull’evoluzione della congiuntura economica e sull’aggravamento delle crisi sociali tra il 1770 ed il 1789. La politica riformatrice della monarchia mira a sopprimere o a diminuire gli antichi privilegi (come le corvées, per garantire, almeno in linea di principio, l’uguaglianza fiscale), a razionalizzare l’amministrazione, il sistema giudiziario (depenalizzazione delle procedure, diminuzione dei poteri politici delle corti giudiziarie) in modo da adattare il dominio dell’aristocrazia alle nuove condizioni e permetterle di custodire i suoi privilegi nello stato e nella società. Questa politica di «riforme» che non metteva in discussione la tipologia dei rapporti feudali, aggrava inevitabilmente la situazione delle masse rurali, scontenta la borghesia, non regola la crisi finanziaria e segna il punto di rottura tra la classe politica e la società. Di fronte a questa situazione, l’aristocrazia si dividerà sull’opportunità e sulla tipologia delle riforme da compiere. Una parte (la nobiltà di toga in particolare) farà anche ricorso allo sciopero ed alla sommossa contro lo Stato: il 1788 rappresenta l’apice della crisi politica dell’Ancien Régime. È difficile capire con precisione come sia stato vissuto in Corsica questo contraddittorio orientamento riformatore dell’Ancien Régime. Nelle sue caratteristiche essenziali, l’azione della monarchia rappresenta il dispiegarsi dei disegni dello stato assoluto ed il risultato dell’adattamento alle realtà insulari. I militari, gli amministratori, i ministri trovano nell’isola dei grandi proprietari che non possiedono i diritti della nobiltà francese. In Corsica non esiste venalità delle cariche, non ci sono Parlamenti, né poteri giudiziali ed amministrativi banali e la monarchia si guarda bene dal creare nell’isola ciò che intendeva riformare sul continente. Già prima dell’89 esisteva in Corsica una relativa uguaglianza fiscale, corredata dall’assenza di banalità e di venalità delle cariche. Gli amministratori francesi tendono perciò a salvaguardare ed aumentare il potere economico e politico dei grandi proprietari e si preoccupano di nobilitare questa classe senza instillare al suo interno le stesse velleità politiche dell’aristocrazia continentale. Così lo Stato monarchico non conferisce dei diritti banali, né privilegi fiscali analoghi a quelli dei nobili francesi, ma permette ai Signori di disporre di maggiori mezzi economici e di aumentare la rendita ed il surplus sui produttori-coltivatori e si prodiga nel creare in favore di questi grandi proprietari dei privilegi giuridici e politici efficaci. Con diverse variazioni, i caratteri essenziali di questa politica si estendono dall’epoca di Marbeuf al 1789. Del resto, essa è sostenuta attivamente dalla classe dei principali e dei prepotenti, che possono perseguire gli obiettivi che non avevano potuto realizzare al tempo di Genova e durante la rivoluzione di Paoli. A livello politico, il sistema dei diritti e delle istituzioni riflette la preponderanza sociale della casta dei grandi proprietari. I poteri municipali sono nelle mani degli alti notabili e spesso restano nelle mani delle stesse persone per lunghi anni: è ciò che accade a Bastia, dove il nobile Rigo si era fatto

1 SOBOUL A., De la pratique des terriers à la veille de la Révolution, «Annales» 19ème année, 6 (nov.-dic. 1964) e BLUCH F., in Les magistrats du Parlement de Paris au XVIIIe siecle, Paris 1960, hanno mostrato l’unità della nobiltà nella diversità degli strati che la compongono nel XVIII secolo (cfr. p. 386) ed il fatto che i nobili parlamentari del XVIII secolo, al di là delle apparenze, non sono mai entrati nel rapporto di produzione capitalista, ma praticavano una «gestione borghese» (p. 237) dei beni nobili e dei diritti feudali. Senza dubbio questo atteggiamento (evolutosi diversamente in base alle province) dei nobili mirava a rispondere in modo più efficace agli stimoli legati allo sviluppo degli scambi, pur rimanendo nella cornice di un mantenimento dei rapporti di produzione feudali, che provoca un aggravamento delle lotte sociali nelle campagne alla fine del XVIII secolo. LE

ROY LADURIE E., Révoltes et contestations rurales en France de 1675 à 1788, «Annales», 1974, n. janvier-février; ed in Histoire de la France rurale, II: L’âge classique des paysans de 1340 à 1789, Paris 1975, pp. 554-575 rileva ed analizza questo processo, non tenendo conto della specificità contraddittoria di questi rapporti sociali e parlando di demanio «capitalista signorile». Non c’è giustapposizione, ma sforzo di razionalizzazione, di adattamento al mercato nel quadro ed al servizio del «complesso feudale». L’eventuale ricorso, per una parte delle terre dei Signori, agli investimenti diretti in capitale fisso o all’impiego di salariati o il fatto di dare in affitto una parte del terreno si inseriscono in un sistema globalmente dominante di rapporti sociali e di struttura politica contrassegnate dal complesso feudale e dai privilegi. A livello della vita delle campagne, è ancora la rendita feudale (modernizzata) che avvolge e domina la rendita fondiaria capitalista. (cfr. in dettaglio GINDIN C., La rente foncière en France de l’Ancien Régime à L’Empire, «Annales historiques de la Révolution Française», 247 (1982), pp. 1-34. Con delle modalità qualitativamente diverse, ritroviamo qui dei processi vicini a quelli delle signorie dell’Europa danubiana, centrale ed orientale, cfr. ID., Le deuxième servage en Europe centrale et orientale, «Recherches internationales à la lumiére du marxisme», 63-64 (1970). 2 Cfr. GAUTHIER F., Les luttes entre les différentes voies de développement du capitaliste en France à la fin de l’Ancien Régime et pendant la Révolution. L’exemple de la Picardie, thèse de doctorat de III cycle, Université de Paris I, 1975.

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riconoscere Podestà a vita. La tutela degli amministratori e dei commissari del Re diventa sempre più pesante. Dispensati dalle tasse, i neo-nobili si vedono attribuire legalmente degli importanti privilegi politici: hanno il monopolio dell’attività giudiziaria, amministrativa, politica dell’isola ed il controllo della scala sociale. I Collegi reali e le scuole militari sono riservate ai loro rampolli. Solo i nobili possono diventare ufficiali superiori (al Real Corso ed al Reggimento provinciale) o ancora membri del Consiglio Superiore. Soprattutto, solo i nobili possono entrare nella Commissione permanente dei Dodici (8 membri per il Diquà e 4 per il Dilà) che s’insedia tra le due sessioni degli Stati della Corsica. La tutela della burocrazia monarchica diventa più pesante dopo il 1781; tra il 1785 ed il 1788 le elezioni municipali sembrano sospese: in numerosi Quaderni di villaggi si chiede espressamente che l’elezione dei magistrati municipali si faccia nel rispetto della «pluralità dei suffragi» e non a discrezione del governo, mentre gli Stati provinciali vengono convocati una sola volta in sette anni (nel 1785). Strettamente legati al potere, i grandi notabili hanno comunque dei limiti: i loro diritti, prerogative e trattamenti (per la nobiltà di toga) sono inferiori a quelli degli omologhi continentali. Nel Quaderno generale della nobiltà si richiede espressamente la piena uguaglianza con i nobili di Francia e l’estensione dei privilegi e dei diritti feudali. Alcuni nobili corsi manifestano un’esplicita volontà di ritorno alla situazione del Medio Evo; particolarmente nette sono, a questo riguardo, le esigenze dei nobili delle regioni di Ajaccio e di Sartena3: il Cahiér des dolèances della nobiltà locale chiede che i consigli comunali siano costituiti dagli eletti del Terzo Stato, ai quali dovrebbero unirsi come membri di diritto, per l’elezione del Podestà e dei Padri di comune, tutti i nobili del luogo. I deputati di Sartena presentano anche delle riserve sulla partecipazione alle elezioni dei pastori e dei contadini della loro giurisdizione. Questa politica di rafforzamento della classe dei grandi proprietari ha avuto delle manifestazioni e delle conseguenze rintracciabili nell’evoluzione delle forze produttive e dei rapporti sociali nelle campagne. § 1. La politica della monarchia assoluta e l’evoluzione agraria in Corsica § Le concessioni demaniali La monarchia francese ha favorito il mantenimento e l’estensione della grande proprietà fondiaria. La politica delle concessioni demaniali detiene un ruolo essenziale: a partire dal 1770 lo Stato mette mano sui vasti territori dell’isola, occupandoli come beni del Demanio Reale. I diritti e le terre ereditate della Repubblica di Genova vengono inglobati a pieno titolo nel Demanio, così come accade per i beni comunali, adibiti dalle comunità rurali all’allevamento ed alla libera coltivazione: si trattava di spazi comunitari che avevano favorito la nascita della piccola proprietà privata, appartenenti ai coltivatori di propri beni (notai, curati, grandi possidenti) ed ai coltivatori autonomi. Ad ogni modo, la confisca demaniale è vissuta dai corsi come una vera spoliazione: lo testimoniano i documenti relativi ai processi ed alle proteste popolari, soprattutto perché i tribunali e l’amministrazione regia concludono i processi quasi sempre a favore del Demanio e dei grandi concessionari. Queste terre sono, infatti, date dallo Stato in concessione privata4 per la loro capitalizzazione (da cui lo stato riscuote anche un plusvalore fiscale) ad una trentina di nobili. Queste concessioni si localizzano soprattutto nelle zone dell’isola che erano state già in precedenza appannaggio della grande proprietà. I contratti di concessione portano ad un rafforzamento del potere economico dei grandi proprietari, sempre più equiparati ai grandi nobili continentali: anche se i potenti non ricevono diritti giuridici e banalità... possono comunque sottomettere i contadini (come quelli del marchesato di Marbeuf, in base alla confessione del subdelegato di Ajaccio) ad un vero dispotismo signorile: nessun riconoscimento della municipalità, scarso rispetto degli editti reali, ecc. Ad ogni modo, i conti ed i marchesi hanno il diritto di riscossione dell’erbatico e del terratico sugli allevatori ed i coltivatori5. Le conseguenze di questa politica saranno molto pesanti per le comunità rurali dell’interno che utilizzavano abitualmente le pianure e le colline costiere. Le confische rappresentano almeno l’11% della superficie totale dell’isola, ma questa percentuale si alza al 23% nel dipartimento di Sartena ed al 36% in quello di Calvi. Il loro peso aumenta considerevolmente nella zona degli Agriati (dipartimento di Bastia) e nella pianura di Aleria (dipartimento di Corte) mentre nei dipartimenti di Calvi, Sartena ed Ajaccio sono numerose le superfici coltivate e che passano sotto il diretto controllo dei grandi aristocratici6. Il dominio sui terreni e sui beni comunali privava i piccoli allevatori-agricoltori dei

3 Cfr. articolo 70 dei Cahiers: «Che la nobiltà della Corsica sia reintegrata nei suoi diritti feudali nel possesso dai quali era al tempo del governo del Repubblica di Genova e che il Comandante in capo della Provincia sia autorizzato a ricevere a nome di Sua Maestà il giuramento dei signori feudatari» e l’articolo 93 «Che i Nobili della suddetta giurisdizione di Ajaccio aveva mantenuto nei loro diritti feudali o aveva reintegrato diversamente, ed in particolare i feudatari di Bozi e Locari che avevano il più grande numero di vassalli, secondo i voti contenuti nel Quaderno delle doglianze della detta giurisdizione secondo le memorie che si riservano di dare a questo proposito». Cfr. FRY HYSLOP B., A guide of Generals Cahiers of 1789, «American Historical Review», Vol. 42, 2 (1937), pp. 313-314 e PONCIN L., Les problémes de la Corse â travers les Cahiers de 1789, Ajaccio 1988. 4 Rapport sur les domaines nationaux à l’Isle de Corse fait au nom du Comité des Domaines par M. Barrère, député des Hautes-Pyrénées (septembre 1791), Paris, Bibliothèque Nationale François Mitterrand, Rez de Jardin, doc. 688/fr. 5 È documentato ampiamente per il terreno di ottomila arpenti dato in concessione al principe di Bourbon-Conti negli Agriati, per il territorio di Porto-Vecchio, per le contee della zona di Coti-Chiavari. I nobili possono riscuotere anche le rendite signorili in natura, le decime (1/10 su tutte le produzioni, di cui 1/3 al concessionario e 2/3 al re) ed i censi (dieci soldi per casa): è il caso dei Casabianca ad Aleria, dei Colonna nella Cinarca, dei Maimbourg a Porto-Vecchio (che ricevono anche la terza parte dei beni comunitari), dei Colonna di Istria e del conte di Marbeuf nel Vicolese. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie B (Consiglio superiore) 1 B3. Estratti dei registri del Consiglio di Stato, p. 55. Colonna, conte di Cinarca riceve 2000 arpenti nel territorio di Sia. Lettera patente, 7 ottobre 1787, Paris, Archives Nationales, fondo Q 1.298. 6 Cfr. CASANOVA A., Forces productives cit., vol. annexes I, cap. XII, tabella n. 4, colonna III (i prati rappresentano il 20% del coltivato nel dipartimento di Calvi, il 12% in quello di Sartena, lo 0,27% per quello di Corte), colonna IV (il 50% del coltivabile nel dipartimento di Calvi, il 22% in quello di Sartena, il 21% in quello di Ajaccio, dall’1% al 2% in quello di Corte). Colonna V (il 43% dell’incoltivabile nel dipartimento di Calvi, il

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diritti di uso per la caccia, per la pesca e per la macerazione negli stagni, ma soprattutto faceva diminuire i campi adibiti alla transumanza, all’allevamento e alle coltivazioni. Spesso si impediva anche il controllo dell’acqua, come mostrano le lamentele delle comunità di Serra e Conca-Lecci contro i prepotenti Rocca-Serra, Ettori e Giudicelli. I contadini sono costretti a pagare la decima (champart), l’erbatico ed il terratico per l’usufrutto di beni e diritti comunali che gli appartenevano da secoli. Questi prelievi si aggiungono alle decime reali ed alle tasse comuni, rendendo insopportabile il peso fiscale negli anni di mediocre o cattivo raccolto: numerosi contadini sono costretti ad indebitarsi verso i grandi proprietari o gli appaltatori delle tasse, spesso esponenti della stessa famiglia. Ma questa politica suscita anche la collera della borghesia rurale in evoluzione, che si vede contestare l’uso delle terre comunali e la proprietà privata, fondata sulle stesse terre comunali: questo fenomeno è evidente nelle zone di Porto-Vecchio e di Vico e giustifica la partecipazione, fin da 1772 dei capi locali al movimenti di protesta contro i coloni greci di Cargese e contro il marchesato di Marbeuf. § Politica fiscale ed evoluzione dei rapporti di classe Abbiamo analizzato una delle direzioni essenziali della politica agraria della monarchia e dei grandi proprietari insulari. Ne ritroveremo gli orientamenti a livello fiscale. Si tratta di una realtà poco studiata, poco compresa e tuttavia di importanza capitale. I nobili corsi sono sottomessi, ovviamente, alla tassa diretta; sono esentati tuttavia da quelle forme di costrizione particolarmente penose come la corvée per il rifacimento delle strade o per l’alloggio delle truppe di guerra. Oltre a questi obblighi, per i non privilegiati intervengono anche le tasse indirette, come le gabelle o le tasse sul commercio dei beni, numerose in tutto il regno. Questi prelievi in Corsica possono variano dal 15% fino al 25% del valore dei prodotti. La gabella sul sale (importato della Sardegna e rivenduto nei granai reali) era gravemente sofferta nell’isola, dato che gravava soprattutto sul popolo e sulla borghesia commerciale. Tra i sessantatre Cahiers de Doléances documentati per la Corsica figurano numerose richieste di soppressione della gabella sul sale; si riscontra la stessa richiesta nel Quaderno Generale del Terzo Stato, mentre in quello dei nobili figura soltanto la richiesta di una diminuzione. Non deve essere dimenticata l’esistenza (e l’aumento nel 1785) della tassa sulla carta bollata, estesa a tutti gli atti degli ufficiali municipali. Questo diritto si ritorce essenzialmente contro il popolo che, in caso di devastazione dei raccolti per il passaggio del bestiame, esita oramai a richiedere perizie e procedure a causa dell’elevato prezzo dei diritti di controllo e delle carte bollate, come testimoniano le lamentele scritte nei Quaderni dei villaggi della giurisdizione della Porta e del villaggio di Calacuccia. § Sovvenzione, rendita centralizzata ed aristocrazia corsa La tassa diretta, chiamata allora sovvenzione, si ricollega nelle sue ispirazioni di principio agli orientamenti raccomandati in materia fiscale dai ministri riformatori della Monarchia. La riscossione della sovvenzione era prevista originariamente in denaro, ma di fronte all’incapacità dei contadini di accumulare risparmi a causa delle crisi di sussistenza e delle agitazioni (specie nel periodo 1773-1776 e, nel Sud7, nel 1777-1778), ed in seguito all’enorme accumulo degli arretrati (che provocarono delle soprattasse e l’acquartieramento delle milizie o dragonnades), il sistema venne riformato nel 1778. Da allora, la tassa è stata percepita in natura. La sua pesantezza ed il suo carattere classista è stato finora totalmente ignorato o profondamente sottovalutato negli studi sulla Corsica d’Ancien Regime. Infatti, osservando i dati solo superficialmente, la sovvenzione può apparire come il segno di una politica fiscale giusta e sopportabile, perché pesa in linea di principio su tutte le categorie sociali, proporzionalmente al prodotto dei raccolti (il ventesimo del prodotto annuo, sottratta la quantità dalle sementi). I meccanismi concreti dell’imponibile e soprattutto della percezione di questo contributo in natura inducono ad osservare diversamente il suo peso e la sua funzione nei rapporti sociali. Il livello contributivo, regolato in base alla produzione, permette ai contribuenti più potenti di fornire delle false dichiarazioni, assicurando una contribuzione ben più leggera rispetto alle capacità effettive8. Trattenuti dal timore di questi grossi contribuenti, gli ufficiali municipali, a dire degli stessi commissari, pronunciano dei giudizi che avallano queste false dichiarazioni. Ma la funzione sociale della sovvenzione si manifesta soprattutto nella sua riscossione: i proprietari più ricchi dispongono di un potere che permette loro di aggirare la tassa e di trarre profitto dal lavoro dei contadini di ogni pieve. A partire dal 1778, la tassa diretta viene riscossa, come si è detto, in natura e non in denaro: questo fenomeno è indice del debole grado di realizzazione, nella Corsica degli anni ‘70, di una rete stretta e completa di scambi (base necessaria, tra l’altro, dell’unità nazionale). Come si trasformavano i grani, le castagne e gli

29% in quello di Sartena, l’1,30% in quello di Corte). 7 Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, 534. La corrispondenza (la sola ininterrotta durante questi anni) di Folacci, tesoriere della provincia di Ajaccio, torna continuamente sulle difficoltà di pagamento malgrado l’invio di truppe nei villaggi nel 1775, 1776, 1777. Nel 1778 e 1779 testimonia l’«universale miseria» e la fuga disperata dei contadini contribuenti fuori dai villaggi. 8 Lettre des commissaires du roi aux députés des piéves à l’Assemblée de la province d’Ajaccio du 16 janvier 1781. Archivi municipali di Ajaccio, BB 34, F. 23, 24. Il contenzioso della provincia di Sartena (Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C 585, 586, 587) mostra che gli appaltatori non sono nobili ed alti principali, ma affittuari dei villaggi; essi non sono in grado di far pagare i grandi proprietari fondiari. Infatti, come Lucchini, appaltatore del villaggio di Giuncheto e Poli di Olmeto, un altro “povero uomo” appaltatore nel 1786 a Zerubia, non riesce ad ottenere il pagamento della sovvenzione sulle terre e sul bestiame dei contadini mezzadri dei grandi proprietari di Sartena. Generalmente sostenuti dai Nobili Dodici (che assistono l’intendente nelle sessioni degli Stati della Corsica), i principali secondo un rapporto del giudice reale Patin de la Fizeliére (settembre 1785, Serie C 585) agiscono sugli ufficiali municipali dei villaggi «come su una molla» per far sotto-tassare o esentare le loro terre. Con minor precisione e regolarità, la Corrispondenza dei Nobili Dodici (Serie C, 567, 568, 569) lascia intravedere dei processi analoghi nel Nord-est dell’isola.

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altri prodotti dei villaggi in denaro per la Cassa Reale? La sovvenzione viene data in aggiudicazione in base alle pievi. Quattro volte all’anno, l’appaltatore deve versare in denaro contante alla Cassa civile le somme prefissate: la riscossione delle derrate, la loro vendita e la consegna della somma prefissata restano a suo carico. Con tali obblighi, possono diventare appaltatori di pieve soltanto i grandi proprietari, come i Campocassi nella regione di San-Fiorenzo nel 1789. Spesso si tratta anche di magistrati municipali, come Biagini, appaltatore della pieve di Vallerustia e Podestà di Corte nel 1789, oppure di nobili9. Gli appaltatori dispongono di un esercito privato per costringere gli inadempienti a pagare (attraverso le dragonnades), hanno autorizzazione al porto d’armi e sono membri di diritto delle assemblee di pieve. Questi privilegi e strumenti di pressione non sono trascurabili: permettono agli appaltatori di agire con la massima libertà, di pagare la Cassa, di poter rientrare nelle spese e di trarre un beneficio supplementare, una vera estorsione, in collegamento con il sistema amministrativo dello Stato. I metodi sono diversi, ma fondamentalmente consistono nell’indebita estensione della sovvenzione ai prodotti animali o vegetali che, pur non essendo soggetti all’imposta, non ne sono tuttavia esplicitamente esentati. È il caso, ad esempio, delle castagne, oggetto di consumazione domestica, e del bestiame, necessario al fabbisogno familiare. Un altro metodo consiste nel condannare arbitrariamente i contadini a versare il quadruplo dei prodotti con il pretesto di dichiarazioni inesatte o di ritardo nei versamenti10. Il procedimento più oneroso e più diffuso, screditato e condannato da numerosi Quaderni dei villaggi (41 su 63) consisteva nel richiedere la ventesima parte, non sul prodotto al netto (cioè con la sottrazione dei semi e delle spese di coltivazione), ma al lordo, che ne aumentava considerevolmente il peso. Anche il Quaderno generale del Terzo Stato chiede (all’articolo 7) di prelevare sementi e spese per la coltivazione prima del pagamento della ventesima e della decima parte; quello della nobiltà ammette la necessità di sottrarre le spese di semina, particolarmente per gli anticipi dati ai mezzadri. § Confische legalizzate, speculazione in denaro Il potere degli appaltatori cresce anche perché l’incameramento legale di masse enormi di derrate permette loro di influenzare i prezzi dei mercati e di speculare negli anni di carestia. Il loro ascendente si rafforza a scapito della classe contadina: incapaci di pagare le tasse, addirittura di disporre di semi per lavorare, migliaia di piccoli contadini chiedono credito, in grano o in castagne, agli appaltatori, che prestano i propri beni ad usura. Contemporaneamente, nei periodi di cattivo raccolto, di carestia, di innalzamento dei prezzi, questi personaggi, che possiedono le scorte alimentari grazie all’appalto delle tasse in natura, speculano ed aspettano il momento favorevole per riversare il loro grano sui mercati corsi o italiani. Agenti attivi e considerevoli del rialzo dei prezzi, essi realizzano dei profitti supplementari. La fiscalità monarchica in Corsica non ha avuto, dunque, l’influenza indolore che le era stata accreditata: in realtà essa ha favorito solo i grandi proprietari. Inizialmente costretti a pagare la sovvenzione, gli esponenti di questa classe riescono a scaricarsela di dosso in poco tempo. Soprattutto, essi sono i soli a poter mobilitare le risorse e ad avere la possibilità di diventare appaltatori di pieve. Eludendo gli obblighi, essi estendono la loro influenza sui contadini-produttori riuscendo a realizzare degli enormi guadagni in denaro. L’appalto della sovvenzione in natura mette i grandi principali (che costituiscono ormai la nobiltà), nella condizione di incamerare una rendita centralizzata in natura (integrata alla tassa diretta) e di disporre di prelievi supplementari in prodotti. Questi prodotti, tenuto conto del potere e delle possibilità conferite dalla struttura statale, permettono agli appaltatori di praticare l’usura su larga scala e, in collegamento con i grandi mercanti di Bastia, di incidere speculativamente sui prezzi. In queste condizioni, per riprendere i termini di un osservatore francese, «…la sovvenzione è una tassa cara e tanto più pesante quando manca il raccolto. Il Re ne ricava poco, e i sudditi ne sono schiacciati. Si vedono gli appaltatori ritirare ogni volta più denaro di quello che entra nei forzieri del Re»11. Giudizio confermato dalla lettura delle diverse memorie12 redatte dall’amministrazione e dalla corrispondenza dei Nobili Dodici tra il 1780 ed il 178913. Si verifica così in Corsica, dopo il 1778, una forte osmosi tra le grandi fortune fondiarie e il sistema fiscale statale. L’investimento nella macchina fiscale e finanziaria rappresenta per i nobili principali (anche grazie ai mancati 9 Questo fatto viene confermato da un’analisi più attenta dei documenti relativi al contenzioso sulla sovvenzione nella provincia di Sartena tra il 1779 ed il 1789, cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 585, 586; i dati mostrano che gli appaltatori di pieve sono dei proprietari nobili. Nella pieve di Sartena si tratta, tra il 1779 ed il 1788, dei Peretti di Levie, poi dei Pietri; in quella di Tallano, degli Ortoli; in quella di Porto-Vecchio, dei Quenza, poi degli Ettori e dei Cesari-Rocca; in quella di Viggiono, dei Durazzo. 10 Questi processi sono denunciati dall’Assemblea provinciale di Bastia nelle sedute del 16, 17 e 19 febbraio 1781. Cfr. Procès verbal de l’Assemblée provinciale de Bastia convoquée à Bastia le 15 février 1781. Publié par ordre et de l’autorisation du Roi. Bastia 1781. Fondi della Biblioteca municipale di Bastia. 11 CRISSE T., Mémoire sur la Corse. Réflexion et observations sur les différents impôts, la manière de les percevoir, les inconvénients qui peuvent en résulter. Arch. nat., Paris, K. 1225-11. 12 Cfr. particolarmente l’esame critico operato dai servizi di Versailles, Tableau de l’administration de la Corse (febbraio 1788), Fondi degli Arch. mun., «Piéces ministérielles Statistiques», collezione Mattei SM G 1. La memoria mostra che la pesantezza della sovvenzione cresce perché l’amministratore (con l’accordo dei Nobili Dodici, dei subdelegati e degli ufficiali municipali) ad ogni nuova aggiudicazione «fa stampare un Quaderno delle cariche e non manca di fare dei cambiamenti al precedente per estendere la sovvenzione a qualche oggetto in più» (p. 79). Quanto agli appaltatori, essi hanno «dissipato il prodotto» della sovvenzione che hanno percepito e non li si persegue che «con indulgenza» (p. 80-82). 13 Facendo il bilancio, il 4 gennaio 1788, dei 71.613 libri degli appaltatori per i tre anni precedenti, i Nobili Dodici notano che se i contribuenti sono costretti a pagare molto, gli appaltatori tendono a considerare la tassa diretta come una rendita legalizzata (con l’appoggio dell’apparato dello Stato) per il proprio tornaconto: «Ognuno sà che i contribuiti sono solleciti a pagare la loro sovvenzione, e le persecuzioni, alle quali sono soggetti da parte degl’aggiudicatari, se non riempiono esattamente quel carico. Il debito dunque è degl’aggiudicatari, la maggiore parte de’ quali convertono il danaro ed i proventi della sovvenzione in proprio loro beneficio e migliorando la loro sorte, ed il loro patrimonio, impoveriscono cosi la Cassa della provincia», in Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 568. Corrispondenza dei Nobili Dodici (1788).

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versamenti alla Cassa Reale) uno strumento che assicura un guadagno enorme in prodotti naturali ed un controllo privilegiato sui mercati corsi, già fonti di profitti elevati. Questa realtà, pur con caratteristiche specifiche, somiglia fortemente ai contemporanei processi attuati in Europa dalle altre strutture fiscali statali, che garantivano dei profitti in denaro alle classi dirigenti. § Sistema fiscale, forze produttive e produttori al dettaglio Al contrario, questo meccanismo fiscale instaurato dalla Monarchia contribuisce a contrastare la piena utilizzazione delle potenzialità produttive dei produttori al dettaglio. Ciò si verifica con due modalità diverse, anche se collegate fra loro. Il gettito fiscale frena l’accumulazione dei capitali necessari agli anticipi dei piccoli contadini e dei proprietari agiati, che vogliono sviluppare l’arboricoltura e modernizzare le tecniche per vendere meglio sul mercato. Al prelievo fiscale statale, bisogna aggiungere in numerose regioni quello legato alle concessioni demaniali e, dovunque, la decima (da cui i nobili sono esenti). Anche se caratterizzata da una quotazione variabile (è più pesante nel Dilà) la decima toglie generalmente da un decimo ad un ventesimo del prodotto lordo. Il suo peso non è trascurabile e ventiquattro Cahiers de Doléances su sessanta dei villaggi conosciuti ne richiedono l’abbassamento o la soppressione14. Il peso del carico fiscale globale pesa soprattutto sulla povera classe contadina, che sopporta anche gli effetti delle tasse indirette, delle gabelle, dei diritti di controllo e della carta bollata, tra l’altro aumentata nel 178515. Meno colpita, la borghesia urbana e rurale si preoccupa degli investimenti per modernizzare l’agricoltura e sviluppare il commercio, anche se risente dei cattivi effetti del gettito fiscale. Occorrerebbe, cosa molto ardua data l’assenza di documenti adeguati, stimare il peso di questo carico fiscale: un osservatore dell’epoca lo valuta, comprendendo tutte le tasse, al 30% del reddito lordo di un proprietario olivicoltore, ovvero a cento barili d’olio del reddito lordo: il 33% della spesa di raccolta, il 10% della spesa di spremitura, il 15% dei diritti di uscita, il 10% dei diritti di tratta ambulante, il 5% di sovvenzione, corrispondente ad un reddito netto del 27% rispetto al totale. Anche se limitati ad una tipologia particolare di produzione, questi dati forniscono un chiarimento solo parziale. La stima globale dei prelievi subiti dai produttori agro-pastorali (che costituiscono allora la maggioranza della classe contadina) è difficile: si può azzardare soltanto una cifra approssimativa. In questa prospettiva, la sovvenzione (che in Corsica era allo stesso tempo una tassa reale ed un prelievo diretto dei grandi proprietari appaltatori) può essere stimata nel 1789 attorno ai 2/20 (il 10%) del prodotto lordo. La decima si aggira almeno ad 1/200 (o il 5%) di questo stesso prodotto. Nelle contee, nei grandi campi e nelle concessioni, i prelievi sotto forma di champart, di erbatico e terratico si aggirano in media attorno ad 1/5 o 1/6 del prodotto raccolto (il 15-20%). Abbiamo così caratterizzato un prelievo fiscale che si attesta intorno al 25-35% del prodotto lordo dei lavoratori, calcolato in base alla tassa reale, alle decime ed ai versamenti ai grandi proprietari. A queste detrazioni andrebbero aggiunte le tasse indirette. Non si potrebbero comprendere le conseguenze della fiscalità (ed in modo particolare della sovvenzione in natura) sull’evoluzione delle forze produttive senza localizzarle nella cornice dei dati relativi al livello tecnico insulare alla fine del XVIII secolo. La sovvenzione mette in crisi l’accesso e l’utilizzazione degli elementi di base del sistema agro-pastorale dei contadini dipendenti: essa costituisce un prelievo in natura su dei beni (bestiame, cereali, castagne) appena sufficienti ad assicurare la semplice riproduzione dell’esistenza e dei mezzi di produzione (rinnovo del bestiame, sementi): «La sovvenzione in natura pesa sul “necessario assoluto”, in un paese in cui generalmente si raccoglie soltanto ciò che occorre per la semina; gli abitanti sarebbero ridotti alla miseria assoluta se non avessero alcune buone annate»16. Con degli effetti simili a quelli delle banalità, la sovvenzione provoca confusione anche a causa della modalità di riscossione e di controllo imposto dagli appaltatori; costituisce infine (in stretto rapporto con la tendenza permanente degli appaltatori ad appesantire la sua applicazione ed a diffonderla alle nuove produzioni) un vero disincentivo allo sviluppo dell’allevamento, delle viti, degli olivi dei culture ortofrutticole e degli alberi da frutto17. § Sovvenzione e produzione agricola Le conseguenze negative della sovvenzione in natura per la riproduzione e lo sviluppo delle forze produttive materiali ed umane dei contadini si manifestano, in modo specifico ed illuminante, nella produzione del vino e dell’olio. Nel territorio dell’aggiudicazione, che costituisce, per molti versi, una vera «periferia»18, i raccolti di uva o di olive non 14 Ovvero sette Quaderni (su quattordici) nella giurisdizione della Porta e diciassette (su quarantasei) nella provincia di Ajaccio che ne denunciano la pesantezza, ne richiedono la diminuzione (chiedendo che sia riportata ad 1/20, ad 1/30 o alleggerita della metà) o la soppressione contro un trattamento fisso per i vescovi, i curati, i pievani. Ma le critiche contro la gestione degli ecclesiastici riguardo ai beni della chiesa, alle decime, all’insegnamento ed al comportamento verso i beni parrocchiali si ritrovano in trentadue villaggi (venticinque nella provincia d’Ajaccio). Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, C 571, Quaderni della giurisdizione de la Porta ed anche C 637, Quaderni della provincia di Ajaccio. 15 Il decreto del 30 settembre 1785 porta a nove denari il prezzo di mezzo foglio di carta intestata che si vendeva a sei denari. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie A 10. 16 CRISSE T., Arch. Nat. K 1225-11. 17 La Corrispondenza dei Nobili Dodici (Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C Intendence 568 e 569) riporta numerosi casi di estorsione di questo tipo. In generale favorevoli agli appaltatori, questi magistrati segnalano tuttavia talvolta dei gravi pericoli; gli «eccessi» si rivolgono contro il nuovo potenziale produttivo agricolo ed ancor più all’estensione delle culture esistenti ed all’introduzione di nuove colture. Il 24 marzo 1788 la sovvenzione viene estesa ai meli ed ai peri domestici, alle cipolle destinate alla consumazione familiare (30 settembre 1788), alle patate (19 novembre 1789); all’uva ed ai fichi destinati alla fabbricazione dei mustosi, biscotti del Sartenese che i Peretti, grandi proprietari ed appaltatori, tassano nel 1781 a Sartena (cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C Intendence 585). 18 I poteri dell’appaltatore sulla sua circoscrizione sono definiti da un decreto del 1778 e precisati, col passare delle contestazioni, dall’amministratore o dalla commissione dei Nobili Dodici. Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 568, Corrispondenza dei Nobili Dodici (1788), pp. 16 e

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possono essere lavorati e pressati prima del controllo degli esattori, a costo di pagare il quadruplo della tassa. I produttori devono inoltre recarsi obbligatoriamente ai torchi della circoscrizione fiscale sulla quale si trovano le terre che hanno coltivato. È vietato andare altrove, anche se si tratta del proprio villaggio di residenza, senza l’espressa autorizzazione dell’appaltatore19. Il detentore del potere fiscale dispone inoltre di un diritto di requisizione per l’utilizzazione prioritaria di strumenti (come i barili) destinati a conservare prima della vendita le quantità di beni previste a titolo d’imposta. In questo quadro istituzionale, l’intero processo fiscale ostacola la piena utilizzazione delle potenzialità tecniche ed umane per la spremitura dell’uva o delle olive. Si comprende da ciò la confusione provocata dal controllo del grande proprietario appaltatore sul lavoro e sugli strumenti di produzione dei contadini e lo scoraggiamento dei produttori nell’applicazione di tecniche agricole migliori, finalizzate, in ultima analisi, solo al pagamento della sovvenzione in natura: il caos, incontestabile, è denunciato dai contribuenti e notato dagli stessi Nobili Dodici. Appare incomprensibile la lunga attesa causata dall’interdizione alla lavorazione dell’uva e delle olive prima del passaggio degli appaltatori fiscali. In più di un villaggio, questa attesa veniva raddoppiata dalle lunghe code presso i torchi di Pieve. I Nobili Dodici si rassicurano dichiarandosi convinti dell’esistenza di un numero di torchi sufficiente («siamo convinti che in ogni territorio ci sono dei palmenti e quando un particolare ne sia privo cié la facilità e l’uso di servirsi di quelli degli altri»20). I documenti relativi al contenzioso e le loro prese di posizione mostrano, tuttavia, il contrario. Questa attesa di parecchi giorni, aggravata dall’autorizzazione dell’appaltatore per poter spremere altrove, genera importanti e rapide perdite e contribuisce a rovinare la qualità dell’olio e del vino. A tutto questo va aggiunto il controllo esercitato dagli addetti sulle operazioni: il processo di trattamento risulta inevitabilmente ritardato. La confusione diventa ancora più grande quando i proprietari vengono minacciati di confisca delle giare d’olio o dei barili di vino perché l’appaltatore requisisce gli utensili della comunità e vende il proprio raccolto prima degli altri21. Il fatto è particolarmente grave negli anni di abbondanza, quando la conservazione dei prodotti diventa necessaria all’esportazione. § 2. Contraddizioni delle forze produttive In Corsica, tra il 1770 ed il 1789, l’azione dello Stato e quella dei grandi proprietari favorisce la costituzione dei potenti principali in casta nobiliare. Filippo Buonarroti aveva, in gran parte, afferrato l’essenza e la natura di questa evoluzione, tanto da affermare, nel 1793, a proposito della politica monarchica in Corsica: «Ognuno ambisce ai titoli di nobiltà, ai posti, all’oro e agli sguardi di un amministratore; delle concessioni immense avevano arricchito alcune famiglie e fatto risorgere i principi del regime feudale. Le vecchie virtù si erano rifugiate all’ombra dei castagni e degli abeti»22. Il processo in corso seguiva ed aggravava l’evoluzione dei rapporti sociali nell’isola prima del 1770. Il processo tendeva a trasformare la classe contadina delle comunità rurali in un vasto popolo di mezzadri precari: una forma particolarmente lenta e temibile di passaggio dall’Ancien Régime al capitalismo. § L’influenza della politica monarchica e l’accentuazione delle contraddizioni della società corsa Gli aspetti riformatori, innovativi, gli elementi di ammodernamento economico, di razionalizzazione delle strutture istituzionali ed amministrative (dopo quaranta anni di guerra in Corsica) sono incontestabili e di profonda portata durante il periodo 1770-1789. La politica della monarchia francese è incomparabilmente meno arcaica, meno contraddittoria (e quindi più razionale e meno arbitraria) del regime genovese. Ma questi processi sono allo stesso tempo all’origine di contraddizioni più gravi, perché orientati al rafforzamento della tutela burocratica dello Stato reale ed all’egemonia della casta dei grandi proprietari. D’altro canto proprio al capovolgimento di fronte dei grandi proprietari si deve una delle cause principali della disfatta del governo nazionale di Pasquale Paoli: la Francia poteva garantire molti più vantaggi a questa categoria sociale rispetto ad uno Stato corso indipendente. Un comandante militare francese, il visconte di Barrin, ha mostrato chiaramente le contraddizioni di questa politica in una lettera confidenziale al suo ministro, scritta il 31 agosto 1789: «Probabilmente ai corsi sono stati concessi gli Stati, ma senza fare molto attenzione alle loro richieste. Si è seguito quasi sempre il principio dell’autorità sostenuta dalla forza. Abbiamo avuto dei desideri generosi, particolarmente quello di migliorare l’agricoltura, ma i progressi si sono fermati per i carichi e le pastoie che gravano sul paese, come per i considerevoli diritti sul commercio. Sono state date in concessione le terre del Re, o pretese tali, e buona parte di esse era stata già richiesta da alcuni individui, per non parlare delle loro

169; cfr. anche Intendence 533, contenzioso relativo alla Balagna. 19 Cfr. le precisazioni dei Nobili Dodici del 21 agosto 1788 (Arch. dép. Corse sud, serie C 568, Corrispondenza dei Nobili Dodici, p. 169). I Nobili Dodici stimano che dovessero essere valide ovunque in Corsica le stipulazioni ottenute dall’appaltatore delle comunità di Bastia, Pietrabugno e Santa Maria di Lota: i proprietari che possedevano delle vigne sul territorio di questi villaggi «saranno tenuti a pressare le uve nei tini (palmenti) di questo stesso territorio. Se non esiste un torchio su questo territorio, i proprietari saranno tenuti ad avvertire l’appaltatore, in modo tale che possa autorizzare per iscritto, a pressare le uve nella comunità di loro residenza, e ciò separando queste uve dagli altri raccolti...». 20 Lo si vede in Balagna per la presenza di frantoi “commerciali”, presso i quali si poteva fare triturare e spremere le olive versando un diritto (chiamato lému) al proprietario del mulino. Lo si vede anche per le installazioni private destinate ai gestori agricoli, che ne sono proprietari. A Sartena nel 1784, il vinaio Mancini è costretto dall’appaltatore (che è anche il Podestà di pieve) ad interrompere la spremitura (alla pressa ad albero) della vinaccia che è nel suo troglio (o palmento) per riprenderlo solamente in presenza degli addetti. Cfr. Corrispondenza dei Nobili Dodici, Arch. dép. Corse-du-Sud, serie C, Intendence 568 (1788), 21 agosto 1788. 21 Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence 586. Affare dei barili necessari al nobile Ettori, appaltatore. Sul contenzioso ed il controllo delle otri d’olio, cfr. Serie C, Intendence 568, Corrispondenza dei Nobili Dodici (1788). 22 BUONARROTI F., Giornale Patriottico di Corsica, «B.S.S.H.N.C.», fasc. 389-392 e 421-424 (1919 e 1921).

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rimostranze...»23. Queste contraddizioni si manifestano con forza nell’evoluzione delle forze produttive nelle loro connessioni con i rapporti sociali. § Convergenze e Divergenze La percezione (limitata, ma più netta) di queste contraddizioni si esprime in parte nelle richieste e nelle diverse tendenze dei grandi proprietari nobili negli anni compresi tra il 1785 ed il 1787. In generale, i grandi principali si accordano per mantenere ed estendere il loro controllo per lo sfruttamento dei beni comunali. Essi vogliono allo stesso tempo orientare la polizia agraria verso un rafforzamento delle attività e delle possibilità dei piccoli produttori pastori-coltivatori, mantenendo e sviluppando la politica fiscale e demaniale dello Stato in vigore dal 1770. Due tendenze diverse che si sovrappongono e (in parte) si contrastano, ma che comunque si compenetrano. Infatti i concessionari nobili, corsi o continentali, come quelli della zona di Porto-Vecchio o della Rocca, non si disinteressano affatto dei miglioramenti e degli investimenti agricoli: queste persone, tuttavia, cercano soprattutto di estendere le loro entrate in surplus commerciale e la loro sfera di influenza sociale mantenendo ed aumentando la quantità di prodotti ottenuti con la mezzadria, estendendo i prelievi dell’erbatico o del terratico con la nuova politica demaniale e con la crescita del loro potere nell’ambito del sistema fiscale. Non si preoccupano tanto dell’aumento degli investimenti produttivi, ma di un allargamento del loro ascendente diretto ed indiretto sul lavoro delle famiglie contadine, che continuano a sopravvivere in condizioni sociali aggravate dallo sfruttamento delle forze produttive. Questo atteggiamento è comune alla quasi totalità dei grandi concessionari. Nel rifiuto di questa politica e degli orientamenti che essa sviluppa in materia di attuazione delle potenzialità produttive si costituisce una larga convergenza e un netto divario tra classe contadina e la borghesia. Queste contraddizioni, che si manifesteranno con forza durante la Rivoluzione francese, ma che erano già evidenti durante il governo di Pasquale Paoli, si radicano nei complessi processi dei rapporti di produzione. La borghesia insulare sostiene le forze produttive agrarie attraverso la mezzadria, l’usura, le pressioni (effettuate grazie all’ingerenza nei poteri dei villaggi e delle pievi) e con la gestione dei beni comunali, della polizia agraria e dell’appalto della sovvenzione24. Queste realtà si intrecciano organicamente e contraddittoriamente con lo sviluppo degli scambi e degli investimenti produttivi, con l’impiego di attrezzature e di metodi a più alto rendimento, con il ricorso a lavoratori salariati specializzati e qualificati. La preponderanza accordata all’uno o all’altro di questi poli, si presenta in modo differente a seconda delle regioni dell’isola; può essere mobile e diversificarsi nel seno di una stessa famiglia. Ma in tutti questi aspetti dell’evoluzione sociale (comprese le speranze di accedere in parte ai vantaggi della nobiltà) la borghesia insulare è urtata sempre più dai caratteri essenziali della politica dell’Ancien Régime: colpita dalle gabelle25, dalla politica demaniale, dalla sovvenzione, dai privilegi nobiliari, non aveva nessuno strumento per partecipare ad una gestione degli affari pubblici in maniera conforme ai suoi interessi. La borghesia considera la lotta contro le concessioni e la captazione aristocratica dei beni comunali come una “riconquista” delle terre, il che non implica affatto la loro restituzione alle comunità rurali o la divisione egualitaria, ma una caccia alle aste pubbliche. Ciò rende la borghesia corsa piuttosto diffidente nei confronti delle rivendicazioni e delle azioni contadine, proprio come era già successo nel periodo dell’indipendenza isolana. Su queste basi l’insieme della borghesia delle campagne insorgerà contemporaneamente contro la grande aristocrazia insulare e contro la tutela e la politica imposta in Corsica dalla monarchia assoluta. Perciò darà prova di una volontà riformatrice netta (chiedendo la soppressione del sistema fiscale-finanziario, la chiusura delle concessioni e la democratizzazione delle istituzioni politiche), ma limitata. Per certi versi, questa presa di posizione corrisponde a quella che ha caratterizzato il governo di Pasquale Paoli. È intorno a questa posizione che nasceranno, dopo il 1789, delle evoluzioni e delle oscillazioni legate all’avvicinamento ai sostenitori dell’antico regime o, al contrario, a più nette radicalizzazioni rivoluzionarie. § La crisi del «modello antico» in Corsica dal 1770 al 1789: aspetti e problemi. L’evoluzione dei rapporti di produzione si accompagna alla crisi del modello economico, che contribuisce probabilmente a spiegare i tratti specifici della Corsica durante il periodo 1770-1789. I ritmi delle oscillazioni e dei movimenti del tempo sociale nell’isola nei secoli XVII, XVIII (e XIX) sono ancora poco studiati. La stessa analisi per gli anni 1770-1789 incontra delle difficoltà considerevoli ed in gran parte poco superabili. L’approccio provvisorio che ne è stato tracciato autorizza tuttavia due constatazioni essenziali. La prima riguarda l’esistenza di quattro grandi periodi di crisi (1769-1774; 1777-1779; 1781-1784 e, in numerose regioni, il 1787; 1788-1789). Queste crisi sono segnalate dalle fiammate dei prezzi del grano e dell’orzo (aumento del 50%, 100% o addirittura del 200%), dalla malnutrizione e dall’indigenza aggravata che estende notevolmente l’indice di mortalità (rispetto al consueto periodo di agosto e 23 BARRIN, Lettre â La Tour du Pin, Arch. nat., Paris, F 7 36671. 24 Per i notabili dei villaggi, si tratta raramente della sovvenzione di pieve: l’appalto della sovvenzione dei villaggi può rivelarsi rovinosa. L’attrazione per queste pratiche, la volontà di dividere i vantaggi di cui beneficia la parte più potente della nobiltà corsa dal 1770, sono forti soprattutto nell’alta borghesia. Si tratta di famiglie piuttosto potenti, che dominano il grande latifondo agricolo, e che vivono con la compravendita delle terre, delle rendite a credito e con l’esercizio delle libere professioni (è il caso di Carlo Andrea Pozzo di Borgo, di Carlo Bonaparte). Il loro prestigio economico e simbolico deriva spesso dall’appoggio francese (anche se i più grandi principali, nobilitati dalla monarchia, discendevano dai lignaggi dell’antica nobiltà corsa, le casate, come i Casabianca, i Rocca-Serra). 25 I Quaderni del Terzo Stato di Corsica sottolineano il rafforzamento della politica agraria, il rafforzamento delle chiusure (chiudende), all’individualismo, e pretendono che non ci siano più concessioni territoriali senza un accordo delle parti interessate. Cahier de doléances du Tiers État de Corse, Bastia 18 maggio 1789. Arch. dép. Corse-du-Sud, serie C 638. Legislazione civile. Agricoltura, articoli 1, 5. 6 e 8.

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settembre) e dalle epidemie stagionali. La seconda constatazione è che queste crisi si manifestano con intervalli sempre più ravvicinati. Per la stragrande maggioranza dei contadini corsi la fase 1770-1789 rappresenta una lunga depressione ventennale, in cui le difficoltà conoscono una lunghezza, un’estensione ed una profondità fortemente accentuate, specie dopo il 1778. Le crisi più grandi sono quelle degli anni 1780-1784 e 1788-1789. Questi periodi critici, nonostante le favorevoli condizioni meteorologiche, sono separati soltanto da deboli momenti di tregua. Per il loro ravvicinamento e per la tendenza all’estensione sull’intero spazio insulare, essi tendono (come giustamente ha notato R. Lemée), a rallentare considerevolmente la ripresa demografica iniziata nel 1774, subito dopo i quarant’anni di guerra per l’indipendenza. Le caratteristiche delle crisi spingono per molteplici aspetti a riconsiderare l’inflessione alla base dell’evoluzione sociale (e le relazioni per lo scambio delle forze produttive). Questo tipo di inflessione (soprattutto dopo il 1778, data dell’instaurazione della sovvenzione in natura) accentua la depressione economica e le sue cause recondite26. Rispetto a tutti i prelievi fiscali anteriori alla conquista francese, l’esistenza della sovvenzione in natura garantisce ai grandi proprietari appaltatori la possibilità di riscuotere una rendita estendibile a tutti i produttori. Allo stesso tempo, essa fornisce agli appaltatori ed ai grandi commercianti (legati fra loro) le condizioni legali per l’accaparramento di una enorme quantità di derrate alimentari e, come abbiamo visto, l’istituzionalizzazione della speculazione. Tutto questo contribuisce a rafforzare le manovre speculative dei grandi proprietari e dei commercianti. I processi economici che abbiamo analizzato provocano delle sacche d’indigenza all’interno di una relativa abbondanza o, comunque, contribuiscono a far nascere delle crisi cicliche (come nel 1785) anche nelle pievi maggiormente produttive. L’estorsione fiscale del grano necessario alla sussistenza e delle forze produttive delle famiglie contadine, l’incameramento delle derrate ad opera degli appaltatori e la loro esportazione fuori dalla pieve d’origine determina infatti delle considerevoli carestie di cereali ed un forte rialzo dei prezzi. Colpiti da questa crisi economica con radici sociali, gli «abitanti senza proprietà» delle pievi dell’interno sono costretti allora (a partire dal mese di marzo e fino al mese di giugno) ad acquistare le castagne a prezzo d’usura dagli appaltatori o dai commercianti di Bastia o delle città vicine. Il loro indebitamento aumenta e la loro salute tende a rovinarsi alla fine dell’estate: essi sono le vittime abituali di epidemie regolari e violente (specialmente dissenteria e febbri tifoidi) che i rapporti medici qualificano spesso come «malattia della miseria» e «della malnutrizione»27. Questi fenomeni si collegano a vecchi e nuovi prelievi fiscali, all’estensione delle confische e alle frustrazioni di terre legate allo sviluppo delle concessioni. Dopo il 1778, aumentano fortemente i rischi di degradazione del potenziale produttivo della classe contadina, sia in modo diretto che indiretto28. Nel 1779, 1780, 1781 1784, 1787 in quasi tutta la Corsica, i piccoli proprietari contadini sono costretti a ricorrere al soccorso di sementi di grano. I grandi proprietari appaltatori, forti delle enormi scorte accumulate (come mostra la corrispondenza dei Nobili Dodici) ed i grandi commercianti di Bastia, diventano concorrenti in questi acquisti; intascano i contributi pubblici per acquistare grano destinato alla semina, a basso costo e di pessima qualità. L’impiego di questi grani darà risultati disastrosi negli anni successivi alle semine29. Il carattere delle crisi e delle fluttuazioni economiche in Corsica tra il 1770 ed il 1789 si radica così nel movimento dei rapporti sociali, accusando ed amplificando le contraddizioni essenziali del Paese. La crisi che scoppia nel 1788-1789 riflette ed acuisce il movimento di queste contraddizioni della società corsa; esso acquista ampiezza rivoluzionaria in virtù di una crisi politica globale: la convocazione degli Stati Generali ne è al tempo stesso il simbolo ed il punto di svolta. § 3 La Corsica e la crisi del 1788-1789 Nel periodo 1788-1789, la congiuntura economica isolana contribuisce ad esasperare tutte le contraddizioni sociali, passando attraverso una crisi di sussistenza generale, ma con un’andatura ed uno svolgimento specifico. § La crisi di sussistenza in Corsica e le contraddizioni sociali. Nel 1788, le intemperie (in modo particolare la permanenza di vento secco, come ricorda un rapporto dell’intendenza del 15 aprile 1789) sono all’origine di un cattivo raccolto di cereali, particolarmente evidente nella provincia di Ajaccio.

26 L’amministrazione reale provoca questi fenomeni. Sono significative a questo riguardo le analisi presentate dal subdelegato di Sartena in una lettera-rapporto all’amministratore della Corsica nel 1787: «Sarebbe auspicabile, Signore, che si usasse lo stesso espediente per il commercio interno dell’isola, altrimenti le diverse pievi, sebbene ricche di derrate di prima necessità, non saranno mai dotate del necessario per la sussistenza del Popolo. Vedo, infatti, Signore, che le pievi di Sartena, Istria, Viggiano abbondano di grano ed orzo e che tuttavia gli abitanti che non hanno nessuna proprietà sono ridotti tutti gli anni alla carestia e sopravvivono solo grazie ad un aiuto che li rende sempre più miserabili, cioè grazie alle castagne che i signori di Bastia ed i commercianti li costringono a pagare fino a 45 soldi a bacinella. Questo inconveniente è provocato dall’esportazione dei grani, che viene perseguita senza lasciare il necessario per l’isola. È crudele per le persone nate in una pieve fertile, dopo avere contribuito all’abbondanza con i loro lavori, vedersi costretti a mendicare in pievi lontane e pagare a caro prezzo un mezzo di sussistenza che è oltretutto pernicioso alla salute nei mesi di marzo, aprile e maggio, periodo in cui una parte degli abitanti di qui è costretta a sopravvivere con le castagne». Arch. dép. Corse-du-Sud, Serie C, Intendence C 62 (1). Rapporti sulla sussistenza. 27 Su questo tipo di epidemie rurali alla fine del XVIII ed all’inizio del XIX secolo, si trovano numerose tracce in Arch. dép. Corse-du-Sud, 5M (Salute pubblica e igiene). Fogli 89-130 (Epidemie). Il contenuto è spesso illuminante per la conoscenza delle reali condizioni di vita, di lavoro e di riproduzione della forza lavoro. 28 La sovvenzione subisce un continuo incremento dal 1778 al 1788. Nel 1788 viene elevata ai 2/20 del prodotto lordo. 29 Il Quaderno generale della Nobiltà protesterà nel 1789 contro delle pratiche diventate frequenti dopo il 1779: «il grano e l’orzo distribuiti nel 1787 per la carestia, essendo di cattiva qualità ed incapaci di germogliare da soli, hanno obbligato le popolazioni a procurarsi gli indennizzi per le perdite» (articolo 69).

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Con diverse gradazioni30, tuttavia, le zone più colpite dell’isola sono la Casinca, la Castagniccia, il Nebbio, il Capo Corso, Bastia, la zona di Corte, la provincia di Vico, il Sartenese, Bonifacio. Il cattivo raccolto porta delle conseguenze molto più serie rispetto alle crisi che colpiscono in quel periodo la Francia e l’Italia. In Corsica, la situazione è aggravata da un inverno rigoroso, insostenibile per il bestiame. Malgrado interdizioni e multe, i contadini del Bozio (zona di Corte) sono costretti a tagliare per tutto l’inverno delle frasche per nutrire le bestie, minacciate dalla carestia. Il cattivo raccolto si trasforma rapidamente in carestia, sotto l’effetto di meccanismi legati più ai rapporti sociali ed all’atteggiamento contraddittorio dell’amministrazione reale, che al clima. Intendenti e subdelegati tentano di frenare una speculazione ed un rialzo dei prezzi che gli appaltatori della tassa, i grandi proprietari ed i ricchi commercianti nutrono e rinforzano sulla base anche del gioco delle istituzioni fiscali e delle decisioni governative. Si può, grazie soprattutto al lungo rapporto dell’intendenza dell’aprile 178931, delineare il carattere generale di questo processo. Inquieti, fin dall’ottobre 1788, per la situazione delle regioni di Ajaccio e di Vico, l’amministratore ed il subdelegato generale si sforzano di inviare orzo e castagne in enormi quantità in diverse zone della Corsica. Nel gennaio 1789, essi tentano anche di vietare le esportazioni fuori dall’isola. I Nobili Dodici si oppongono invocando la necessità, per gli appaltatori detentori delle scorte, di esportare e vendere ad alto prezzo per pagare la Cassa della Corsica. I grandi commercianti di Bastia, alla fine dell’inverno 1789, appena il mare si calma, spediscono in fretta delle grandi quantità di castagne a Livorno, dove il grano è carissimo. Nel Capo Corso, che si era rifornito in Italia (via Livorno)... si riesporta in Provenza per approfittare degli alti prezzi di Tolone (dove domina la carestia). Premi e direttive pubblicate dall’amministrazione reale incitano ad andare in questa direzione. Insomma, le derrate scarseggiano ed i prezzi aumentano; gli appaltatori corsi accumulano scorte aspettando che i prezzi si impennino ancora, per vendere ciò che non hanno esportato: essi realizzano dei profitti mentre la carestia e la mancanza di sementi diventano ossessive per le famiglie più povere32. In generale, l’amministrazione reale sembra voler frenare ogni misura che trascinerebbe la caduta dei prezzi in poco tempo. Un’inchiesta della municipalità di Bastia (del marzo-aprile 1790) e la corrispondenza delle autorità reali mostrano che l’editto del Consiglio del 9 maggio 1789, che accordava dei premi a chi esportava delle derrate in Corsica, non è stato pubblicato, né affisso nell’isola, «sotto pretesto che prima che l’ordinanza giunga in Corsica, il paese era approvvigionato, il raccolto di orzo già fatto, quella di grano imminente»33. Le conseguenze della carestia sono gravi: la tassa diretta diventa sempre più difficile da pagare. Nella primavera del 1789 in Balagna, nel Nebbio, in Casinca, in Castagniccia, nel Rostino, nella provincia di Ajaccio, i contadini sono costretti a chiedere degli anticipi in sementi agli appaltatori, anticipi da rimborsare a tasso d’usura e con le more della tassa non pagata. Nell’agosto e nel settembre 1789, gli appaltatori premono sulle guardie per fare ritirare la tassa con la forza; i contadini devono pagare anche le decime. Peraltro, l’azione delle tasse sul commercio continua a farsi sentire: esse irritano la borghesia e sono considerate responsabili del rialzo del costo della vita per le masse popolari. In questo processo di impoverimento della maggioranza dei piccoli contadini, gli abitanti di alcuni villaggi invadono i boschi in inverno per tagliare la frasca ed evitare la moria del bestiame; il mantenimento delle pratiche pastorali diventa vitale. La repressione si amplifica: le multe per reati agrari e forestali si moltiplicano e si aggiungono a quelle dei periodi anteriori. Questi prelievi, impossibili da pagare, contribuiscono ad esasperare la collera popolare. Si riscontra un analogo appesantimento della situazione per le tasse devolute ai conti, ai marchesi ed agli altri concessionari dei grandi domini: tasse come il terratico e l’erbatico pesano su terre che i contadini giudicano di loro appartenenza; la mediocrità dei raccolti e la carestia, rendono ancora più insopportabile il pagamento di tasse ai Signori. L’alto costo della vita crea problemi anche per il pubblico impiego: si ravvivano le rivendicazioni dei pescatori, dei marinai (sottomessi alle tasse per uso boschivo), degli artigiani delle corporazioni di Bastia34 e di Ajaccio35. La collera per la concorrenza dei pescatori napoletani, per l’impiego di stranieri sulle barche (particolarmente le navi postali) si esaspera. A Bastia sarà uno dei temi principali dell’assemblea generale rivoluzionaria del 14 agosto 1789. L’alto costo della vita e la carestia acuiscono anche il problema del lavoro nei campi. Il subdelegato di Ajaccio segnala l’esistenza, nelle pievi vicine, di centinaia di capifamiglia costretti a cercare lavoro salariato per sopravvivere: l’esercito li costringe a costruire strade e ponti ed a

30 Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence C 62 (1), C 572. Cfr. anche C 569, Corrispondenza dei Nobili Dodici nel 1789; il registro delle deliberazioni della municipalità di Bastia nel 1789 e 1790, permette di seguire l’evoluzione della crisi di sussistenza. 31 Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence C 61. Lettera dell’Intendente a Puységur (29 gennaio 1789). Il freddo e la malnutrizione provocano un’epidemia epizootica nel sud-ovest dell’isola. 32 Questi fatti sono testimoniati dalle richieste d’aiuto a Souiris, subdelegato di Ajaccio: egli decide, verso la metà di aprile del 1789, di bloccare l’aggravamento della carestia con l’invio di navi finanziate dai commercianti di Sartena e soprattutto di Bastia, e con l’acquisto del carico di due barche armeggiate ad Ajaccio. In realtà le sue azioni sono dettate più dalla paura delle sommosse popolari che dal senso dello Stato. Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence C 62. Lettere di Souiris al subdelegato generale Renault dell’11 marzo 1789, 28 marzo 1789 e 1° aprile 1789. 33 Il paese viene rifornito così poco e così male, che il timore della carestia si manifesta frequentemente nella zona di Bastia per tutta l’estate e l’autunno del 1789. Anche ad Ajaccio, all’inizio del mese di agosto 1789, mentre si aspetta il nuovo raccolto, l’inquietudine e l’emozione sono ancora così vivi che la popolazione cerca di opporsi con la forza alla partenza per Rogliano di due barche capocorsine cariche di cereali Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence C 62. Lettera di Souiris a Renault, 11 agosto 1789. A partire dalla fine del mese di agosto 1789, i Nobili Dodici constatano la persistenza e la gravità generale della carestia con le sue conseguenze (le tasse non ritornano, il malcontento si diffonde). Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence C 569, Registro di corrispondenza, particolarmente le constatazioni generali del 31 agosto, pp. 117-118; 10 settembre, p. 129; 24 settembre, p. 144; 26 settembre, p. 150; 13 ottobre, pp. 161-166; 4 dicembre, p. 223. 34 Sull’atteggiamento delle corporazioni dei pescatori, artigiani marinai e le loro agitazioni a Bastia, dall’aprile 1789 al momento delle assemblee elettorali delle corporazioni di mestiere Cfr. Lettera di La Guillaumye a Puységur (16 maggio 1789). Arch. nat. BA 34. 35 Rivendicazione contro le tasse per l’uso dei boschi nelle concessioni. Cfr. Arch. nat. F7 33671. Rapporto a La Tour du Pin dell’11 settembre 1789.

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lavorare gratuitamente nei vigneti del Demanio. Souiris si rallegra di questa situazione perché obbliga numerosi piccoli contadini a lavorare a basso costo, favorendo gli interessi dei grandi proprietari, costretti a pagare profumatamente i lavoratori specializzati. § Identità corsa e conflitto tra Nobiltà e Terzo Stato La crisi economica inizia ad assumere una portata inedita, in Corsica, in ragione dell’esistenza di una crisi politica generale. Gli effetti politici della crisi di sussistenza del 1788-1789 saranno seri e profondi: il rialzo dei prezzi, la carestia ed il rincaro del pane creano un legame tra le rivendicazioni delle masse popolari urbane e quelle delle popolazioni rurali. La crisi concentra l’attenzione della classe contadina contro i grandi proprietari concessionari e gli appaltatori di pieve, accaparratori ed usurai, la cui responsabilità è percepita come indissolubile da quella dello Stato e del suo apparato: doganieri, subdelegati, direttori del Demanio, tesorieri, Nobili Dodici, ecc. Essa rende sempre più insopportabile un sistema politico in cui, dal livello del villaggio o della pieve a quello dell’isola, il Terzo Stato nelle sue diverse componenti (e per ragioni diverse a seconda che si tratti dei contadini, degli artigiani o della borghesia urbana) sembra non avere voce in capitolo. Queste prese di posizione sembrano affermarsi attraverso la coscienza della specificità della Corsica e dei corsi. Lo studio dei Cahiers de Doléances delle comunità permette di analizzare la complessità della coscienza isolana: perciò occorre deplorare, ancora una volta, la scomparsa della stragrande maggioranza dei Quaderni dei villaggi. La coscienza di una specificità etnica della Corsica e dei corsi si manifesta chiaramente, con forme diverse nei Quaderni delle comunità: 12 su 16 villaggi nella zona Calvi-Corte-Bastia, 36 su 63 nella zona di Ajaccio. Lo prova inoltre l’attaccamento agli Stati di Corsica, che si vorrebbero con gli stessi diritti e privilegi di quelli Linguadoca, cioè di un Pays d’Etat. Lo prova anche la richiesta fatta da quattro comunità della giurisdizione di Ajaccio del diritto di navigazione per le navi corse con la bandiera a testa di moro. Lo testimonia ancora la distinzione operata in due Quaderni della Porta e in altri tre della zona di Ajaccio tra corsi, francesi residenti da molto tempo in Corsica (giudicati affini ai corsi), ed altri francesi. Nelle doléances si manifesta anche una forte esigenza (sottolineata in vent’otto Quaderni) della piena uguaglianza tra corsi e francesi nell’accesso alle cariche ed agli uffici reali in Corsica o nel resto del Regno.

Atteggiamento verso la Francia

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Favorevoli al Regno

Autonomia con pari diritti

Integrazione alla Francia

Grafico 10. Questo grafico distingue, classifica e raggruppa i villaggi in base a quattro (I, II, III, IV) diversi atteggiamenti rispetto ai problemi della Corsica e dei corsi nel Regno. Il segno in verde raggruppa le comunità che non hanno posto veti all’inclusione della Corsica nel Regno di Francia. Il segno rosso raggruppa i villaggi che hanno espresso delle rivendicazioni relative alla bandiera a testa di moro o all’accesso dei corsi agli impieghi pubblici a parità di diritto dei francesi naturalizzati corsi. Il segno azzurro raggruppa i villaggi che chiedono con diverse modalità (o direttamente ed espressamente, o rifiutando i vescovi liguri, o chiedendo l’assimilazione della Corsica allo statuto degli altri Paesi di Stato, particolarmente a quello della Linguadoca) che la Corsica sia definitivamente ed a pieno titolo integrata al Regno. Il segno giallo raggruppa l’insieme dei villaggi in cui le questioni relative alla posizione dei corsi e della Corsica nel Regno sono state espresse in maniera diversa.

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non classificabili

Piena integrazione

Accesso agli impieghi

Bandiera a testa di moro

Grafico 11: Coscienza corsa e Francia nei Quaderni dei villaggi nel 1789. Il segno azzurro riunisce i villaggi che ignorano la domanda della posizione della Corsica rispetto al Regno. Il segno viola riunisce le rivendicazioni relative alla bandiera a testa di moro, che si vorrebbe equiparare ai vessilli delle altre province francesi o al padiglione reale o chiedendo il diritto di inalberare una o l’altra bandiera a scelta. Il segno giallo raggruppa le domande che richiedono l’accesso dei corsi agli impieghi reali in Corsica: sia senza altra considerazione, sia chiedendo la precedenza ai corsi ed ai francesi che vivono in Corsica. Il segno rosso raggruppa i villaggi che hanno manifestato la volontà di integrare la Corsica al regno: chiedendolo direttamente; esigendo che non ci fossero più vescovi stranieri (liguri); chiedendo per la Corsica le stesse tariffe fiscali delle altre province; chiedendo un aumento della presenza delle truppe reali; chiedendo un principe di sangue per governare l’isola. La coscienza di questa specificità e delle rivendicazioni che l’accompagnano non è vista come un distacco dal Regno di Francia. Se l’ossessione del ritorno del dominio genovese traspare direttamente o indirettamente dal rifiuto di vescovi «liguri» in Corsica36, il mantenimento della specificità corsa ed il rifiuto di ogni statuto di inferiorità dei corsi è considerato in piena associazione al Regno. Si chiede così che la Corsica abbia diritto alla bandiera a testa di moro come si fa per le altre province. Esigenza di rispetto dei diritti dei corsi ed esigenza di equiparazione al resto del regno sono legati frequentemente. Più generalmente, la rivendicazione che appare fondamentale è quella della piena uguaglianza di diritti tra corsi e francesi, tra la Corsica e le altre province del Regno: in materia economica, in materia di cariche ed impieghi, in materia di strutture politiche. I corsi reclamano per il Consiglio superiore ed i loro consiglieri le stesse prerogative dei Parlamenti, per gli Stati di Corsica gli stessi diritti degli Stati della Linguadoca; due villaggi chiedono anche che la Corsica abbia come governatore un principe di sangue. Ciò che appare predominante ed essenziale nei trentasei Quaderni delle comunità è la richiesta della piena uguaglianza tra corsi e francesi, la piena incorporazione al Regno a parità di diritti con le altre province. Le località che formulano delle rivendicazioni relative alla bandiera a testa di moro, o all’accesso dei corsi agli impieghi reali, si pongono in questa prospettiva (diciassette comunità, quattro nel nord-est e tredici nella zona di Ajaccio). Numerose sono peraltro le comunità che associano queste domande ad esplicite richieste (sul piano economico, politico o giuridico) di integrazione al Regno a parità di diritti con le altre province. È il caso di undici comunità, sei nel nord-est, cinque al sud, mentre sette località fanno riferimento solo a questo tipo di richieste. L’esigenza del rispetto dei diritti dei corsi e della piena integrazione al Regno accomuna in parte le aspirazioni del Terzo Stato e dei Nobili37. Ma si tratta comunque di richieste profondamente contraddittorie. Il Quaderno generale della Nobiltà corsa chiede il godimento degli stessi diritti dei nobili del continente: in questo caso la concezione del rispetto della Corsica e dell’uguaglianza tra corsi e francesi tende ad un’estensione dei privilegi nell’isola38. Al contrario i Quaderni delle Comunità pongono con forza la richiesta della necessaria 36 I Quaderni di Venzolasca e La Porta, manifestano questa ossessione in maniera eloquente. Nella provincia di Ajaccio, si manifesta nel rifiuto di vescovi stranieri, vale a dire “liguri”, “genovesi”. Cfr. Quaderni di Ajaccio, Appietto Sari d’Orcino, Sarrola-Carcopino, Cuttoli e Perito. L’ostilità al ritorno dei genovesi si manifesta sotto forma di “rumori”, di “paure”, nell’estate e nell’autunno del 1789. In un libello, i Nobili-Dodici accusano il partito rivoluzionario di spargere questi rumori per seminare torbidi. Lettera dei Nobili Dodici, 1° ottobre 1789. Stampata a Bastia (Fondi della Bibl. di Bastia, Lettere politiche diverse). 37 L’articolo 1 del Quaderno generale della Nobiltà chiede che la Corsica sia «incorporata espressamente alla Corona e faccia parte integrante di questa monarchia». L’articolo 4 chiede che gli Stati provinciali della Corsica godano della libertà, dei diritti e dei privilegi di cui godono gli Stati delle altre parti del Regno. 38 Questo atteggiamento si manifesterà con una viva ostilità ai decreti dell’Assemblea Nazionale ed alle Lettere Patenti del Re scritte su questi decreti, che abolivano la nobiltà ereditaria. Questa ostilità è visibile nel Sud della Corsica. A Sartena, la nobiltà manifesta con le armi contro questo decreto. Cfr. documento pubblicato e presentato da GAULEJAC B. (de) e LAMOTTE P., Protestation de la noblesse de Sartène contre la suppression des titres

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uguaglianza tra nobili corsi e Terzo Stato corso. Questo problema preoccupa i villaggi in modo più diretto rispetto a quello della giusta posizione e dei diritti della Corsica nel Regno: quarantotto villaggi su un totale di sessantatre (contro trentasei su sessantatre) lo manifestano e condannano tutti o parte dei privilegi essenziali della nobiltà corsa. Infine una trentina di villaggi, essenzialmente situati nella provincia di Ajaccio, rigettano duramente, l’abbiamo visto, concessioni demaniali e monopoli signorili su boschi, pascoli e stagni. Diciassette villaggi chiedono la soppressione delle esenzioni dei nobili dalle corvées, e dall’alloggio delle truppe di guerra. Quarantotto villaggi rifiutano così di ammettere i privilegi della nobiltà in Corsica, con diverse modalità: undici condannano al tempo stesso i grandi domini, i privilegi sociali (esenzioni, monopolio dell’accesso ai Collegi Reali ed ai gradi di ufficiali superiori) ed i privilegi politici (diritto di essere eletto tra i Nobili Dodici, a non essere sottomessi alle sentenze degli ufficiali municipali...) dei Nobili. Sette villaggi sono al tempo stesso ostili alle concessioni demaniali ed ad un solo tipo (sociale o politico) di privilegio, mentre ventuno comunità condannano almeno un gruppo di privilegi (le grandi concessioni demaniali, i privilegi sociali o i privilegi politici). Allo stesso modo, quarantotto Quaderni delle Giurisdizioni su sessantatre si schierano contro le richieste dei nobili corsi in materia di ristabilimento dei diritti feudali, di voto per ordine, di riforma oligarchica delle istituzioni municipali.

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Grafico 12: i Quaderni delle Comunità, i privilegi dei Nobili e le rivendicazioni del Terzo Stato corso. La grandezza delle sfere indica le aspirazioni del Terzo Stato insulare: i villaggi che esigono al tempo stesso il libero accesso del Terzo agli impieghi, la partecipazione uguale o maggioritaria del Terzo alle strutture governative dell’isola e la democrazia municipale (con sottomissione dei Nobili agli ufficiali municipali).

de noblesse, «Études corses», 2 (1955), pp. 72-78.

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Grafico 13: Valutazione dell’importanza delle concessioni demaniali fatte tra il 1770 ed il 1789 (misurazioni in Arpenti).

Queste richieste sono enunciate con modi e livelli diversi: trentadue villaggi presentano almeno uno dei tre grandi tipi di rivendicazioni: accesso del Terzo Stato a tutte le funzioni ed impieghi, partecipazione (in parti eguali o con diritto alla metà delle sedi), alle strutture di governo delle province o della Corsica intera, democrazia municipale con libera elezione degli ufficiali municipali e sottomissione dei nobili alle sentenze di questi ultimi. Otto località presentano congiuntamente due di queste richieste, mentre altre nove le formulano tutte insieme. Infine, considerata la richiesta del Terzo di gestire gli affari dell’isola congiuntamente ai Nobili ed ai francesi, alcuni Quaderni dei villaggi ed il Quaderno generale pongono la richiesta dei diritti del Terzo Stato nel suo insieme: essi cercano un’unica soluzione per tutto il Regno. Le Comunità attorno a Bastia (giurisdizione della Porta) richiedono espressamente ai deputati del Terzo Stato corso agli Stati Generali di «formulare le stesse domande di quelli delle altre province» e affermano «che i deputati che, nel loro interesse personale, trascureranno il bene pubblico siano tenuti alla restituzione delle spese di viaggio» e siano, inoltre, biasimati pubblicamente e sanciti39; all’articolo 10 si chiede che la Corsica «goda di ogni diritto e vantaggio di cui godono le altre province». La libertà per il Terzo della Corsica, la libertà per il Terzo della Francia e la lotta contro il dispotismo ed i privilegi sono sentite come inseparabili. Questo modo brusco di porre le richieste in termini politici globali a partire dalle realtà corse è stato facilitato dagli effetti sociali della crisi di sussistenza; la coscienza dell’interesse generale si è potuta sviluppare grazie alla trasformazione della crisi politica del regno, che si manifesta apertamente con la convocazione degli Stati Generali, con la campagna elettorale e con la stesura dei Cahiers des doléances. In questo modo, le richieste delle masse rurali corse guadagnano forza ed ampiezza non con il rifiuto, l’ignoranza o l’opposizione al movimento rivoluzionario del Terzo Stato, ma proprio a partire dall’intensa attività politica apertasi nel regno con la convocazione degli Stati Generali. Nell’aprile 1789, l’elezione dei delegati e la stesura dei Quaderni trascina una veloce ed intensa mobilitazione politica. L’analisi ed il confronto esaustivo (per la Corsica e per tutta la Francia) dei Quaderni resta un lavoro ancora da compiere: l’elaborazione di questi documenti è stata fatta in un momento essenziale di confronto, di dibattito di circolazione delle idee, di mobilitazione e di elevazione qualitativa del livello di coscienza delle masse popolari. Elaborazione che ha costituito un atto riformatore fondamentale (per la mobilitazione che ha provocato) della situazione politica generale. Conviene, in questo caso, fornire delle osservazioni limitate. In Corsica, i Quaderni rappresentano un’opportunità di chiarimento, discussione, formulazione di rivendicazioni più o meno ristrette, localizzate (strade, ponti, conflitti fra municipalità, curati o conventi), e di riforme globali (come gli articoli contro la sovvenzione, le gabelle, la decima o le rivendicazioni per l’uguaglianza con i nobili e con i francesi; l’esigenza della partecipazione del Terzo Stato alle riunioni dei Nobili Dodici, ecc.). Questa esperienza insegna al popolo ed ai borghesi a percepire i legami che esistono tra i problemi del Terzo Stato in Corsica ed i problemi del Terzo Stato nel resto del Regno. Le elezioni e la redazione dei Quaderni diventano così un momento di assembramento, riflessione e circolazione delle idee. Nelle città si leggono opuscoli, libelli, formule innovatrici, critiche e preoccupazioni per delle vere riforme; si leggono soprattutto i testi inviati dai corsi del continente, condannati 39 Nella provincia d’Ajaccio, i Quaderni dei villaggi della pieve d’Ornano (i più serrati contro i privilegi dei conti e dei marchesi) sono spesso preceduti da una premessa che mostra come la fiscalità reale, la fiscalità ecclesiastica, le tasse e le rendite sulle concessioni demaniali, i privilegi e le esenzioni nobiliari gravino tutte sul Terzo Stato. Il Terzo Stato viene definito «fondamento o sia sostentamento di tutta la macchina» e «fatta la deduzione di tutti li sopra detti gravami li rimane appena la ventesima parte dei suoi sudori».

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dall’amministrazione reale40. Con diverse forme ed a livelli vari, a seconda delle zone e delle classi, risulta da tutto questo processo una larga mobilitazione politica. La pratica, intensa nell’isola, delle assemblee generali, dell’elezione dei delegati, stabilisce quadri e strutture organizzative per l’azione concreta. Gli avvenimenti di Bastia41 (fine aprile-inizio maggio 1789) e quelli di Ajaccio (all’inizio di agosto) ne sono una prova. Queste strutture politiche spontanee si confondono più di una volta nelle campagne con le strutture municipali. Si combatte con gli ufficiali municipali (a Vico, nel Bozio) dopo averli costretti alla resa (a Zicavo) o dopo averli sostituiti (a Corte, a Bastia). Risulta così, da tutta questa fase di attività politica nei mesi di aprile e maggio 1789, concomitante alla crisi di sussistenza, un’intensa attesa di cambiamento, di riforme profonde: riforme per cui il popolo ha discusso nei villaggi, per cui gli Stati si sono riuniti in assemblea a Bastia, per cui quattro deputati sono partiti il 10 giugno 1789, con un ritardo dovuto a circostanze ed a peripezie elettorali. Riforme, infine, per cui la Corsica è pronta a lottare a Versailles.

§ 4. Conclusioni §. La crisi produttiva dell’Ancien Régime I dati sembrano confermare la profondità del processo economico europeo alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX attraverso la contraddizione tra il regime di produzione feudale e le trasformazioni delle forze produttive. I contadini sono allora al tempo stesso i produttori e gli agenti di trasformazioni legate alle attrezzature, agli atteggiamenti, alle forme di cooperazione sociale, alle aspirazioni. Le classi contadine, di fronte alle costrizioni della fiscalità signorile, sentiranno sempre più forte l’esigenza di diventare libere nella produzione e nella vendita dei prodotti e di poter sviluppare tutti gli aspetti della loro individualità. Alla base del processo di transizione dal feudalismo al capitalismo risiede, infatti, lo sviluppo delle forze produttive, l’esigenza delle potenzialità individuali di migliaia di produttori-venditori e lo sviluppo (anche nell’ambito delle unità familiari dei produttori autonomi, artigiani e contadini) del lavoro agricolo salariato, connesso ai piccoli e grandi produttori-venditori, vivaio del sistema capitalistico. In questo senso le trasformazioni che segnano l’evoluzione delle forze produttive nelle comunità acquistano un valore antropologico. Questo tipo di trasformazione suscita allora dei bisogni e delle esigenze crescenti nei contadini-produttori al dettaglio: essi tendono a voler dominare l’impiego annuo del tempo di lavoro, ad instaurare dei nuovi rapporti con la terra, con i mezzi di produzione e con il potere politico, per assicurare il pieno sviluppo delle proprie capacità. Nell’Europa del Settecento, questo movimento dai ritmi lenti, modesti, diversamente evoluti ma di consistenza sempre maggiore, si delinea all’interno delle condizioni e dei limiti delle strutture feudali. Queste modifiche e trasformazioni presentano dei caratteri comuni. Nell’insieme, la classe dominante è portata ad assegnare ai prelievi sul lavoro delle famiglie e delle comunità rurali delle finalità e degli obiettivi che non erano stati elaborati originariamente. Si tratta di garantire un tipo di sub-lavoro sconosciuto nel modello di produzione feudale originario, dove predominava il valore d’uso e dove il sub-lavoro era circoscritto nel cerchio di bisogni determinati. Il sub-lavoro è destinato oramai a fornire alla nobiltà dei crescenti introiti monetari: l’aristocrazia si sforza di ottenere la crescita dei redditi non con gli investimenti in capitale fisso e con l’impiego dei liberi salariati, ma con l’adattamento ed il rafforzamento diretto ed indiretto dei prelievi sul lavoro dei contadini. Questi ultimi (differenza qualitativa essenziale con il lavoratore salariato propriamente detto) possiedono e/o gestiscono i mezzi di produzione (attrezzi, piante, bestiame, rapporto con la terra, forme di cooperazione) e devono assicurare la propria sopravvivenza. I modi e le caratteristiche per operare l’adattamento della produzione feudale e per ottenere l’aumento dei redditi in denaro differiscono profondamente nell’Europa centrale ed orientale, in Francia o in Italia. Questi obiettivi alla fine del XVIII secolo e (per l’Europa dell’Est) nella prima metà del XIX secolo, possono essere accomunati dall’egemonia schiacciante della rendita feudale sul lavoro agricolo; si tratta di un sistema di pesanti e crescenti corvées sulle riserve demaniali dei nobili, imposte ai produttori contadini. In Francia il rapporto di produzione feudale ha assunto una forma complessa, in cui diverse categorie di prelievi fiscali si uniscono a delle banalità in natura, specie nel quadro della signoria locale, ed in denaro (in modo particolare attraverso la rendita centralizzata, elevata a tassazione dall’apparato finanziario della monarchia) sul lavoro dei contadini o sui piccoli proprietari. In Italia, i prelievi feudali in natura ed in denaro pesano su una classe contadina che (soprattutto nell’Italia centrale e meridionale) è composta allo stesso tempo da mezzadri e da precari. Dovunque, secondo modelli convergenti e contrastanti, le potenzialità, i bisogni e le esigenze (che si ricollegano al ruolo crescente del mercato ed all’evoluzione delle forze produttive), mettono sempre più profondamente in discussione la produzione feudale e la crescita della produttività del lavoro. Questo modello socio-economico (a stadi diversi da un estremo all’altro dell’Europa) è fondato sull’esistenza di una classe contadina di produttori-venditori relativamente autonomi nella gestione dei loro mezzi di produzione e su una forte tendenza della nobiltà alla confisca delle terre (specie comunali) e del periodo di lavoro (settimanale o annuale) delle famiglie contadine. Il modello produttivo feudale, nel suo tentativo di aumentare i redditi monetari della

40 Sul contenuto di questi libelli inviati in massa dal continente e l’atteggiamento (ostile, ma prudente) dell’amministrazione reale, cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, C 636, Convocazione degli Stati Generali. Corrispondenza (fine aprile-inizio maggio 1789) tra il subdelegato generale ed i subdelegati di Ajaccio. Cfr. anche FRANCESCHINI E., Les assemblées générales de la Corse. Les élections aux États Généraux de 1789, «B.S.S.H.N.C.», 1° trimestre 1920. 41 Si tratta delle agitazioni del 1° maggio, nel corso dai quali la popolazione di Bastia si solleva contro il sindaco, Rigo il cui un cugino viene ucciso durante i moti. Nei primi giorni di agosto, Rigo passerà in Italia. Su questi avvenimenti del 1° maggio, cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Intendence C 636. Rapporto (datato 16 maggio 1789) dell’Intendente a Puységur; Arch. dép. Corse-du-Sud (Consiglio superiore) I B 23, seduta del 4 maggio 1789.

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classe dirigente, tende a frenare e contrastare le forze produttive agricole, sempre più fondate sulla diversificazione delle attrezzature e sulle attitudini individuali dei produttori-venditori. In Francia, i nobili si sforzano di aumentare il reddito con prodotti in natura (come l’olio, rivenduto poi sui mercati) a partire da un’utilizzazione più rigorosa e sistematica del diritto di banalità sui torchi e sui mulini. Questo orientamento contrasta inevitabilmente, alla fine del XVIII secolo, con l’utilizzazione sociale delle trasformazioni tecniche, che permettono di perfezionare quantitativamente e qualitativamente la macinazione del grano o la spremitura delle uve e delle olive. Questi fenomeni, con caratteristiche diverse, si ritrovano in Italia, in Spagna in Portogallo. Le crisi, le tensioni e le soluzioni appaiono così di ampia e molteplice portata a seconda delle possibilità (economiche, sociali, culturali, individuali) delle forze produttive contadine e del tipo di produzione feudale. La Rivoluzione francese si inserisce in un lungo processo europeo di trasformazione tra feudalesimo e capitalismo. Lo sviluppo e la trasformazione delle forze produttive umane, il ruolo del mercato e della commercializzazione delle campagne, lo sviluppo della borghesia, quello delle lotte sociali e delle elaborazioni culturali in cui queste realtà si esprimono e pensano, fondano le basi per delle nuove esigenze e delle nuove realtà. Queste riguardano le attrezzature, gli atteggiamenti, le forme di cooperazione sociale, le aspirazioni dei contadini, degli artigiani, dei salariati, della borghesia. Tutti (ma a diversi livelli di coscienza, secondo gli strati, le classi ed i paesi) provano sempre più, dal 1750 alla metà del XIX secolo, il bisogno di liberarsi dalla vasta rete di prelievi (in corvées o in tasse signorili), privilegi ed istituzioni con cui gli aristocratici si assicurano rango e ricchezze. La volontà di trasformazione dalla vecchia alla nuova società borghese cresce così in numerosi paesi, con esiti e caratteristiche diverse. Nei paesi dell’Europa orientale e mediterranea, ad esempio, il capitalismo s’inserisce in una cornice di riforme limitate, fondate su un’intesa tra le aristocrazie (in posizione dominante) e la borghesia, alle spalle dei contadini, costretti a versare delle pesanti indennità in terra e denaro ai nobili. Un tentativo particolare, in parte simile al precedente, è stato fatto in Francia, tra il 1789 ed il 1791: esso ha assunto la forma di un compromesso politico tra l’alta borghesia e l’aristocrazia; compromesso incomparabilmente più radicale di quelli dell’Europa orientale o mediterranea, ma socialmente fondato sull’obbligo per i contadini di pagare dei pesanti diritti di riscatto ai nobili. L’evoluzione e l’acuirsi delle lotte sociali e politiche tra Rivoluzione e Terrore, l’azione dei sanculotti e, soprattutto le lunghe, massicce e molteplici iniziative autonome del movimento contadino, imposero finalmente un’altra via: quella del rifiuto di una transizione strettamente borghese e dell’affermazione di una via democratica, legata ad un compromesso tra borghesia e masse popolari; compromesso contrassegnato dall’abolizione definitiva e senza indennità (nel 1793) dei diritti signorili e con l’instaurazione (o almeno la proclamazione) in ogni campo di una forza democratica allora sconosciuta altrove. § Transizioni, nazioni, regioni ed evoluzione delle identità etniche Il caso singolare e limitato delle realtà insulari ha condotto un’altra serie di problemi, complessi, difficili ed ancora poco studiati. Questo campo di problemi riguarda un aspetto dell’inesauribile movimento di connessione tra caratteri originali (“nazionali”) di transizione e processi differenziati di trasformazione, rinnovamento delle basi sociali e delle identità delle regioni che partecipano al movimento di uno stesso percorso nazionale: 1. Il dominio di una grande aristocrazia fondiaria di principali sui diversi ceti di produttori contadini si esercita in gran parte con prelievi fondiari diretti; si esercita anche attraverso uno sforzo costante di questa aristocrazia per acquisire il controllo diretto o gestionale degli spazi comunali. Questi rapporti di sfruttamento e di dominio si fondono al tempo stesso al dominio delle casate (o lignaggi) aristocratiche, ed ai conflitti ed alleanze claniche tra le varie famiglie; queste strutture sono anche (contraddittoriamente) strumenti della resistenza delle differenti classi contadine al dominio degli alti principali che la monarchia riconosce come nobiltà dopo il 1770. 2. La conoscenza del movimento delle forze produttive permette di percepire quale sia stato l’incremento del potere dell’aristocrazia fondiaria e l’aumento delle difficoltà per i contadini nella valorizzazione delle potenzialità produttive esistenti nella Corsica d’Ancien Régime, dal periodo di instaurazione di un governo nazionale (1755-1769) al periodo dell’amministrazione monarchica (1770-1789). 3. A partire da queste realtà si stagliano i caratteri originali degli antagonismi che segnano le campagne corse tra il 1755 ed il 1815, così come le modalità della loro articolazione sul conflitto nazionale e globale tra Rivoluzione e Terrore. Questi antagonismi si radicano nelle azioni e nelle strategie contraddittorie che aristocrazia, borghesia e classe contadina sviluppano rispetto al sistema fiscale, rispetto alla domanda dei beni nazionali e del controllo delle terre comuni. 4. Dalle dense e complesse lotte ed esperienze realizzate in questi processi si comprende la trasformazione delle basi e dei simboli dell’identità insulare. Questi fenomeni sono inseparabili dai nuovi e complessi caratteri che, dal 1789 al 1815, fanno nascere le lotte sociali che segnano la fine dell’Ancien Régime nell’isola; ciò accade a livelli diversi. In ragione stessa della partecipazione organica della Corsica alla vita politica francese, si constata, infatti, da un lato lo sviluppo di nuovi caratteri di differenziazione (dovuti all’esperienza dei combattimenti, alla natura delle esperienze sociali e delle rappresentazioni politiche realizzate tra il 1789 ed il 1815), rispetto alle zone dell’Italia con cui l’isola possiede delle reali parentele sociali e culturali. Contrariamente a ciò che vivono i contadini corsi (progressi, delusioni, ritorno all’Ancien Régime, consolidamento limitato del sistema dominante nel 1789), i contadini della Toscana o dell’Italia del Sud acquisteranno coscienza dei loro diritti molto più tardi e l’esperienza della Rivoluzione sarà meno

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vissuta. Se le riforme portate avanti dal 1800 al 1815 non sono da sottovalutare, globalmente in Italia ci troviamo di fronte ad una rivoluzione agraria mancata (nell’Italia meridionale vige il sistema del riscatto dei diritti signorili, l’allargamento della grande proprietà fondiaria, la schiacciante predominanza della mezzadria), che caratterizzerà la vita di queste regioni anche dopo l’unità nazionale. Ormai la Corsica, attraverso l’integrazione alla Rivoluzione francese, vede sviluppare nel proprio tessuto sociale delle esperienze, delle realtà, che introducono delle differenze qualitative all’interno delle stesse parentele dall’area culturale italiana. Queste esperienze, realtà e rappresentazioni risultano dalla partecipazione (dal 1789 in poi) ad un tipo di processo agrario, sociale, economico, culturale, politico legato all’avanzamento nazionale della Francia nel sistema capitalistico. Ma i caratteri dell’evoluzione dell’isola riguardano anche, ed allo stesso tempo, i caratteri specifici che si manifestano rispetto ad altre regioni della Francia. In ragione delle forme prese in Corsica dai rapporti sociali prima del 1789, con l’indipendenza dell’isola sotto il governo di Pasquale Paoli; in ragione della natura originale dell’avanzamento delle lotte di classe e del carattere delle realtà sperimentate durante la Rivoluzione, in modo particolare tra il 1794 ed il 1796, periodo in cui, a differenza di tutte le altre zone della Francia, l’isola ha vissuto un’esperienza sociale di controrivoluzione (Regno Anglo-Corso). Uguale esperienza porterà i contadini corsi a stabilire nuovamente delle forti connessioni tra la riforma del sistema sociale e la politica del vecchio Regime. Queste stesse realtà conducevano peraltro i contadini insulari a vedere dei collegamenti tra il regno anglo-corso (con riferimenti nazionali, sociali ed economici «inglesi») ed il ritorno delle costrizioni sociali, agrarie e fiscali della politica aristocratica filofrancese. Le conseguenze di queste sperimentazioni saranno notevoli per l’evoluzione politica e sociale dell’identità corsa. § I diversi contenuti dell’identità corsa nel 1789 Il caso della Corsica permette di mettere in luce alcuni dei processi attraverso i quali tra il 1789 ed il 1815 sono state modificate le basi sociali di una comunità etnica e la trasformazione della rappresentazione di questa identità. Alla vigilia della Rivoluzione, la coscienza sociale dell’originalità e della specificità del popolo corso esisteva in modo netto e vigoroso. Tale coscienza era il frutto ed il risultato di un’evoluzione storica complessa, i cui tratti sono ancora poco studiati. La coscienza della comunità corsa ingloba l’intera isola e supera la cornice dei villaggi e delle pievi con le loro signorie: si estende al di là delle unità micro-regionali e dei due grandi territori del Diquà e del Dilà. Dall’XI al XVIII secolo, il processo unitario cammina in collegamento con l’evoluzione delle forze produttive, dei rapporti commerciali, delle lotte contadine, dei conflitti tra signorie e famiglie caporalizie. Possiamo far risalire agli sforzi di Giudice de Cinarca, nel XIII secolo (sotto forma di un principato feudale) la nascita dell’identità e delle basi sociali e politiche dell’unità etnica corsa. Questo processo si accompagna alla prima (ma ancora fragile e contraddittoria) affermazione della coscienza sociale di un’identità nazionale. L’evoluzione storica della Corsica dal XIV alla seconda metà del XVIII secolo favorisce una costante evoluzione della coscienza autoctona, assumendo sempre più una coloritura indipendentista. A partire dalla fine del XVII secolo, questo movimento si sviluppa contro gli effetti del dominio economico, sociale e politico del patriziato genovese. Al momento delle guerre contro Genova e del generalato di Paoli, i processi economici, sociali, politici avevano portato la classe contadina, gli strati della borghesia rurale ed i grandi principali dell’aristocrazia fondiaria a pensare alla specifica identità nazionale con contenuti di classe differenti. Mancava la coesione sociale tra le varie classi, non la coscienza della propria identità: questo è stato il vero banco di prova di Paoli. Nel 1789, dalla lettura dei Cahiers de Doléances, si ritrova la coscienza di un’identità corsa, ma i riferimenti all’unità nazionale sembrano nascosti, quasi protetti all’interno di uno Stato molto più grande ed in grado di garantire degli interessi generali: l’occupazione francese, anche se violava l’identità culturale e storica dell’isola, garantiva notevoli vantaggi. Se a questo si accompagna il rifiuto del dispotismo politico e militare e, più ancora, del ritorno alla dominazione genovese, si comprende come questa coscienza “nazionale” non escludesse l’inserimento nella cornice dello Stato francese. Durante la Rivoluzione, la coscienza dell’identità corsa varia a seconda delle esigenze e dei vantaggi della nobiltà o del Terzo Stato insulare. Le lotte di classe che accompagnano l’avanzamento della Corsica si inseriscono nel quadro sociale del 1789, anche se con numerose eccezioni: in Corsica si attendeva una rivoluzione sociale ed economica, più che una rivoluzione politica e culturale. § Rivoluzione francese, Impero ed identità nazionale Le successive sperimentazioni sociali dei venticinque anni trascorsi tra il 1789 ed il 1815 (con le fasi 1789-1793, del regno anglo-corso, del Consolato e dell’Impero) vedono realizzarsi gli insuccessi delle imprese (agrarie, sociali, politiche) della Controrivoluzione. È nel corso di questi processi che vengono distrutti gli sforzi dell’aristocrazia fondiaria per spingere i corsi a vivere e rappresentare l’identità nazionale come separazione dalla “nazione rivoluzionaria” francese. Al contrario, queste successive sperimentazioni sociali sviluppano una serie di esigenze e di atteggiamenti che costituiscono un nuovo modello di coscienza sociale dell’identità corsa. Questa coscienza è quella del legame organico che esiste tra liberazione sociale dall’Ancien Régime, la promozione della Corsica e dei corsi come partecipanti alla “libertà, uguaglianza e fraternità” rivoluzionarie, ed all’azione di Napoleone Bonaparte. L’esperienza sviluppatasi dal 1800 aveva così, attraverso le contraddizioni e le crisi del regime imperiale, sostituito e prolungato le esperienze fatte all’inizio della Rivoluzione francese. Rifiuto di qualsiasi ritorno al modello sociale antecedente al 1789 (caratterizzato dall’estensione dei prelievi e dall’estensione del controllo delle terre per conto dell’aristocrazia dei

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grandi principali), esigenze di mantenimento della migliore qualità di vita e di lavoro, opposizione massiccia ad ogni tentativo di separazione della nazione francese, diventano i maggiori caratteri dell’identità corsa. Questi tratti si condensano nella figura di Napoleone I. L’Imperatore, come in altre regioni della Francia, appare nel 1815 come il garante ed il rappresentante della difesa delle esperienze sociali e dei simboli della Rivoluzione, il baluardo contro l’Ancien Régime. Napoleone è stato, sotto questo aspetto, lo strumento migliore per una “francesizzazione” forzata dell’isola. Gli avvenimenti del 1814 e del 1815 mostrano che una politica di reazione e di restaurazione non poteva ignorare e mettere in discussione il nuovo prolungamento che la pratica sociale degli anni della Rivoluzione e dell’impero avevano portato all’identità etnica corsa nelle masse popolari dell’isola. L’appartenenza alla Francia rappresentava la liberazione dal duro giogo dell’aristocrazia fondiaria isolana, la garanzia contro i tentativi genovesi ed inglesi di riconquista dell’isola. I corsi, non avendo di fronte a sé nessuna controparte favorevole alla loro difesa ed al loro mantenimento (l’Italia era ancora frastagliata nella miriade dei suoi Stati, la Spagna in piena decadenza, l’Inghilterra, per quanto benevola, distante culturalmente ed economicamente dalla realtà isolana) non potevano che abbracciare la nazione sorella, specie in un periodo, come quello rivoluzionario, di grandi sconvolgimenti sociali.

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APPENDICE

Figura 39: Mappa del Cantone di Tomino dal Plan Terrier de la Corse 1770-1795 (Paris, Archives Nationales).

Figura 40: Mappa del Capo Corso dal Plan Terrier de la Corse 1770-1795 (Paris, Archives Nationales).

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Figura 41: anteprima del Plan Terrier per la pieve di Pietacorbara.

Figura 42: - Mappa della Pieve di Rostino dal Plan Terrier de la Corse 1770-1795 (Paris, Archives Nationales).

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Figura 43: lo stato delle finanze del Regno di Francia nel 1774.

Figura 44: La tassa sul sale in Francia.

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CAPITOLO 9 IL SISTEMA CLANICO E LA “VENDETTA” CORSA

Sale e vindetta ùn merziscenu mai. A vindetta, à chì la fà l’aspetta

- proverbi corsi - § 1. Premessa L’analisi della realtà politica ed economica della Corsica alla fine del XVIII secolo risulterebbe incompleta senza lo studio delle dinamiche sociali che hanno caratterizzato, da secoli, l’evoluzione della storia isolana. Si tratta, in effetti, di collegare alla storia della Rivoluzione corsa quelle linee portanti della società isolana che hanno contribuito, nel lungo periodo, alla formazione dell’identità corsa, alla sua maggiore o minore autodeterminazione rispetto agli avvenimenti, ai poteri ed alla congiuntura economica. Il quadro generale della storia événementielle della Corsica rivoluzionaria appare come un mare continuamente increspato da lotte, guerre, contrapposizioni e giochi di potere; al di sotto di questa superficie è sempre stato presente, comunque, un autonomo ambito culturale, politico ed economico, difficilmente assimilabile alle altre realtà dell’Europa continentale: la Corsica è apparsa, sotto questi aspetti, come uno spazio storico notevolmente interessante ed originale. La storia sociale appare allora come l’immobile fondale su cui le diverse correnti politiche, economiche e culturali che hanno investito l’isola nel corso del XVIII e del XIX secolo hanno lasciato segni più o meno evidenti del loro passaggio: la società corsa è fatta, come vedremo, di immobilismi, di ritualità, di partecipazione e di isolamento. In questa parte del presente studio si cercherà di legare ed analizzare le vicende storiche con le caratteristiche sociologiche ed antropologiche del popolo corso, cercando di far affiorare le caratteristiche “sedimentarie” dello spazio isolano. § 2. L’evoluzione del sistema politico Quando si leggono la Chronica di Giovanni della Grossa, che riporta il resoconto delle lotte che devastarono la Corsica dall’XI al XIV secolo o le Memorie di Sebastianu Costa che descrive, giorno per giorno, gli avvenimenti che segnarono la rivoluzione all’inizio del XIII secolo, si rimane colpiti dalla permanenza degli stessi conflitti nella società insulare. A sei secoli di distanza, il corpo sociale è lacerato dalle stesse tensioni, al punto da far sembrare contemporanee le due opere. Secondo la Chronica di Giovanni della Grossa, sei grandi categorie coprono il ventaglio delle lotte politiche: 1. le inimicizie tra famiglie; 2. le rivalità all’interno delle famiglie; 3. le lotte tra comunità; 4. le rivolte del popolo (comunità) contro i “signori” ed i “conti”; 5. le guerre dei corsi contro il potere straniero; 6. le guerre tra le potenze straniere per il possesso della Corsica, a cui partecipano le grandi famiglie insulari. Queste sei categorie si annodano tra loro in maniera sottile, generando dei conflitti secondari: per esempio, un’inimicizia tra due famiglie o due rami di una stessa famiglia può esplodere ed innestarsi all’interno di una rivalità che oppone due comunità ovvero sommarsi all’opposizione tra Genova e Pisa, che si contendono la Corsica. Nelle Memorie di Sebastianu Costa si ritrovano alcune di queste categorie tra cui: 1. alcune inimicizie tra famiglie; 2. alcune guerre tra comunità paesane e pievane; 3. le lotte dei corsi contro il potere straniero. Anche qui, i conflitti si sublimano, lasciando apparire delle costanti più sottili: lotte tra fazioni o clan che si affrontano in base all’atteggiamento di adesione o di ostilità nei riguardi della Repubblica di Genova, ecc. L’esistenza degli stessi tipi di conflitti, testimoniati da della Grossa e manifestati da Costa, pone degli interrogativi sulla dinamica politica della società corsa, nonostante tutti i cambiamenti e gli apporti esterni che ha subito nel tempo. Ancora oggi, con forme diverse, si constata pressappoco la stessa dinamica dei conflitti sociali. Sarà utile, allora, analizzare i tratti essenziali della società isolana, non dimenticando che questa dinamica è anche espressione del doppio movimento che scuote la società corsa: la resistenza e l’apertura alla storia. § 3. La segmentazione egualitaria della società corsa Quando due corsi che non si conoscono si incontrano per caso, si pongono l’un l’altro due domande: di quale site (di chi siete, a quale famiglia appartenete)? Di induve site (di dove siete, di quale villaggio)? Essere “corso” significa appartenere prima di tutto ad una famiglia ed ad un villaggio; queste due entità ne presuppongono un’altra, che le ingloba: l’isola, il corpo primitivo. Ciascuno di questi tre campi di appartenenza definisce un aspetto dell’identità corsa; i tre insiemi definiscono l’essenza di cui il corso ha bisogno per riconoscersi come tale. I tre piani si mescolano e si completano, ricoprendo anche la funzione paradigmatica degli altri. Sotto una prospettiva particolare, il villaggio è percepito come una famiglia, così come l’isola; da un’altra angolazione, la famiglia ed il villaggio sono considerati come i corpi primitivi che si riproducono su scala inferiore. Per comprendere il sottile legame che intercorre tra la famiglia, il villaggio e l’isola bisogna analizzare i loro rispettivi ruoli nella definizione dell’identità1. 1 Si ritrovano le stesse fasi di identificazione presso i greci di Cipro: «Le tre categorie sociali con cui un greco si identifica sono la famiglia, la

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La famiglia è la prima area di appartenenza dell’individuo. Quest’ultimo si trova nel villaggio come se facesse parte di un gruppo familiare, identificato dal cognome. Vista dell’esterno — dal punto di vista della comunità — una persona non ha identità se non in quanto parte di un gruppo familiare. Ogni famiglia ha la propria economia, il rispettivo campo di sfruttamento, dei diritti specifici: è un’entità autonoma che si afferma nel villaggio, di fronte alle altre famiglie. In un certo senso, l’individuo esiste come parte di un tutto: se scoppia un conflitto tra due individui che appartengono a due famiglie diverse — soprattutto se il conflitto ha il carattere di un reato — automaticamente la questione diventa un regolamento tra due blocchi. La responsabilità collettiva è la regola dei rapporti comunitari. Tuttavia, all’interno della famiglia, ogni individuo ha la propria autonomia: anche se sottomesso all’autorità ed al potere decisionale del capofamiglia — il nonno —, ognuno esprime il proprio parere personale, come accadeva già all’epoca delle assemblee familiari, riunite per discutere degli affari più importanti: matrimoni, vendetta, richieste di patrimonio familiare. Occorre, certo, che la famiglia appaia unanime all’esterno, ed inevitabilmente l’opinione contraria a quella generale o a quella del capofamiglia viene sacrificata con la sottomissione; ma bisogna comprendere che questa sottomissione non significa necessariamente uno schiacciamento della volontà individuale. Ogni individuo concepisce la propria volontà come quella di una parte del gruppo familiare (un corpo unico), ma cerca, attraverso l’opinione personale, di convergere verso l’opinione generale. Nella maggior parte dei casi esistono delle regole tacite, abituali, che operano come i criteri di una scelta: regole di solidarietà nella vendetta, regole di trasmissione del patrimonio, regole di gestione del bilancio familiare. Per tutti i problemi esiste un ventaglio limitato di risposte, sempre le stesse, come accade in tutte le società tradizionali. La famiglia corsa — famiglia estesa — presenta in genere due facciate: una volta all’esterno, che deve presentare un solo viso, senza fessure, ed un’altra volta all’interno; in questo caso le divergenze possono manifestarsi, ma devono essere lentamente eliminate. Questa facciata riguarda soltanto la sopravvivenza giuridica del gruppo familiare: sotto un altro punto di vista, la vita privata dei membri della famiglia si unisce strettamente a quella della comunità. Per tutta una serie di lavori domestici, dal bucato alla cottura del pane, alla filatura della lana, il lavoro è collettivo: i membri di uno stesso quartiere o di uno stesso villaggio si incontrano nello stesso luogo, utilizzano lo stesso forno, si radunano per sbucciare i fagioli o i piselli sulla piazza. Le case sono aperte: i vicini ed i bambini, durante la giornata, entrano senza preoccuparsi e senza bussare alla porta. L’interno delle case deve essere trasparente, non deve avere niente da nascondere. L’intimità della vita corrisponde al destino collettivo: il fondo oscuro della soggettività non deve essere custodito nella psicologia privata, ma si proietta piuttosto verso le credenze, verso gli antenati, verso i morti — con cui i vivi intrattengono delle relazioni potenti e quotidiane (attraverso i sogni, le pratiche rituali, i gesti e le parole). Si ritrova così una sfaldatura costante tra l’esterno e l’interno della famiglia: presentando una superficie trasparente alla comunità, essa salvaguarda un’opacità interna. Ma questa opacità si sfalda in se stessa, nella vita interiore della famiglia: ogni individuo si mantiene nella chiarezza dell’accettazione delle norme familiari, nel suo contributo alla solidarietà comune. Quanto alla vita privata, essa si realizza all’interno dei modelli collettivi e nel rapporto con la morte. L’oscillazione tra questi due aspetti della famiglia si ritrova sul piano del villaggio. Anch’esso ha una vita propria, chiusa in se stessa, ed una vita volta all’esterno. In quanto originario di un villaggio, il corso si presenta ai corsi degli altri villaggi come se provenisse da un centro: tutto il resto è periferia. Ed egli sa che rispetto agli altri villaggi, il proprio luogo di origine custodisce il suo segreto, il suo esoterismo, la sua identità. Come la famiglia, il villaggio costituisce un’unità economica autonoma: possiede terre e macchia, pascoli e aree coltivate, utilizzate da ogni famiglia in base ad un regime di rotazione. La proprietà comunale era così estesa, in Corsica, che i terreni privati costituirono, fino alla I Guerra Mondiale, circa il 10% del totale dell’imposta fondiaria. Anche se iniziato molto presto, il processo di appropriazione privata delle terre si è svolto molto lentamente. Ciò ha contribuito probabilmente ad attenuare le differenze tra gli strati sociali: i più bisognosi, quelli che non avevano né proprietà, né gregge, si servivano abbondantemente, nella sfera comunale, dei boschi, della selvaggina, delle castagne. Nonostante le differenze micro-regionali, ed i due grandi tipi di stratificazione che ha conosciuto la Corsica tradizionale — la Terra di comune nel Diquadamonti e la Terra dei Signori nel Diladamonti — si possono rintracciare tre principali categorie nella società rurale: quella dei notabili e degli sgiò — che possedevano terre e beni sufficienti per non avere bisogno di lavorare — le cui case, separate della massa delle costruzioni del villaggio (che formano dei blocchi uniti, muro contro muro) si notano ancora per la loro grandezza ed il loro aspetto massiccio; quella dei lavoratori che, non possedendo sufficiente proprietà e bestiame sono obbligati a lavorare per sopperire ai bisogni della famiglia (arando le terre, o affittandole a regime di mezzadria); infine, quella dei giornalieri, già nominati, operai agricoli che lavorano alla giornata. Ma tutte le famiglie, anche le più povere, hanno almeno un maiale e parecchie pecore o capre: ogni mattina, il pastore del villaggio viene a prenderle dal recinto — o addirittura dalla cantina — familiare, riunendo questo “gregge comunale” per pascolarlo fino a sera (nei villaggi corsi esisteva ancora, negli anni cinquanta, un gregge di questo tipo). La ripartizione della popolazione contadina secondo questi strati mostra che il 60% del totale appartiene alla categoria degli agricoltori e pastori, circa il 20% ai notabili ed al clero, il resto alla classe degli artigiani, dei liberi professionisti e dei commercianti. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che queste cifre possono subire dei cambiamenti importanti a seconda delle regioni, particolarmente quando si passa da una pieve a predominanza

comunità d’origine e la nazione. Esse gli procurano, nella maggior parte dei contesti, la dualità necessaria alla differenziazione, alla separazione — ed all’opposizione — tra il Noi e il Loro». PERISTIANY J.C., Honour and Shame: the values of Mediterranean society, London 1965, p. 173.

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agricola ad un’altra a dominazione pastorale (come il Niolo, al centro della Corsica). In generale, il villaggio corso tradizionale non conosce delle stratificazioni sociali molto nette: non esistono né grandi proprietari fondiari, né miserabili. Il territorio comunale protegge gli abitanti dalla miseria (legata al contrario, dall’estensione della proprietà privata)2. Nella pieve, che ingloba parecchi comuni, ogni villaggio si definisce per opposizione agli altri: i blasoni paesani manifestano al tempo stesso le tensioni ed i rapporti privilegiati che intrattengono certi villaggi: tra Venzolasca e Vescovato si tesse tutta una rete di relazioni, fatta di rivalità, di gelosie e di aiuto; tra Loreto e Vescovato, sempre nella pieve di Casinca, prevale il disprezzo. Queste relazioni si trasmettono concretamente in svariati modi, dai processi sui contributi da pagare per un lavoro pubblico — un ponte che divide i due comuni —, fino a delle vere battaglie per un territorio disputato o per il possesso della statua di un santo, fino alle spedizioni omicide dovute ad un matrimonio contestato (coniugi che appartengono a due villaggi differenti ed antagonisti)3. Nel villaggio, quando si vive la propria quotidianità, l’equilibrio della vita sociale si rivolge all’interno dei nuclei familiari, bilanciando le tensioni che l’attraversano e che presuppongono, come si è visto, un larvale stato di opposizione tra clan. Quando esplode un conflitto tra villaggi, le tensioni interne spariscono o sono rinviate: tutte le famiglie fanno fronte comune contro il villaggio “nemico”. La solidarietà paesana preme allora sui conflitti interni. Le liti e le inimicizie si cancellano davanti al pericolo comune; gli abitanti si radunano per la difesa dei diritti del villaggio. Questi conflitti che esplodono tra famiglie di due comunità differenti e che provocano delle morti, impegnano l’insieme della popolazione: sono i Procuratori dei due comuni che si dirigono dal Governatore (al tempo del dominio genovese) per discutere dell’affare; in caso di pace ottenuta grazie ai Parolanti (mediatori), sono ancora loro (e non le famiglie rivali) che firmano i trattati di pace, davanti al notaio4. Si ha così un primo quadro della dinamica segmentaria corsa: delle unità politiche di base (le famiglie) si uniscono in un’unità più vasta (il villaggio) per lottare contro il nemico comune. Si tratta di un movimento che definisce la fusione dei segmenti o unità politiche; queste stesse unità si dividono quando il pericolo esterno sparisce, ed entrano in uno stato di conflitto potenziale: la scissione sfalda il villaggio in famiglie rivali. Quando si passa dalla famiglia al villaggio, la responsabilità e la solidarietà si estendono, trasferendosi alle intere comunità. Ma questa dinamica non si ferma alle opposizioni tra villaggi. Si estende alle pievi ed all’isola, in base al tipo di conflitto. La pieve è un’unità territoriale, economica, politica e religiosa: corrisponde in generale ad una o più valli e copre un territorio in cui si trovano due, tre o addirittura dieci comuni. Con l’instaurazione dell’amministrazione francese e la creazione dei dipartimenti e dei cantoni, la pieve è sparita ufficialmente; tuttavia, ha custodito — soprattutto durante la prima metà del XIX secolo — la sua forza nei costumi delle relazioni tra villaggi: talvolta corrisponde ad una parrocchia, con una chiesa in mezzo alla valle. Dal punto di vista economico, la pieve detiene delle proprietà e dei pascoli usufruiti dai comuni; a livello politico elegge dei rappresentanti presso il Governatore genovese, con il compito di esercitare la giustizia all’interno dei confini amministrativi. La pieve entra nel gioco segmentario allo stesso titolo della famiglia o del villaggio. Anche se i conflitti tra pievi non impegnano sempre la solidarietà di villaggi di un dipartimento, ed appaiono così meno pregnanti nella dinamica segmentaria, essi non sono meno importanti: basti pensare alle guerre secolari tra i pastori del Niolo e gli abitanti del Cortenese; o ancora, tra i Niolini ed i Balagnini, sempre per le stesse ragioni: le contestazioni sulla proprietà dei pascoli che gli abitanti di Corte e della Balagna volevano vietare alle greggi del Niolo, che scendevano per pascolare durante l’inverno. Si evidenzia così, nella stratificazione delle unità politiche della Corsica tradizionale, un incastro che definisce la dinamica del conflitto: queste unità, che si distinguono per la loro autonomia economica e politica, discendono, per così dire, le une dalle altre, essendo al tempo stesso agenti nel conflitto e, ad un livello superiore, spazi di pace. Il villaggio, in cui esplodono le inimicizie interfamiliari, è anche lo spazio dove esse devono essere risolte; allo stesso modo la guerra tra villaggi trova la sua soluzione nella pieve. Si stabilisce un rapporto preciso tra il conflitto e gli ordini nella gerarchia delle unità politiche: l’autonomia politica del villaggio, così come la sua natura comunitaria, dipende dalla struttura conflittuale delle relazioni tra famiglie; parimenti, la pieve è un’unità territoriale che estende ad una comunità più vasta i conflitti tra villaggi. In breve, i conflitti e le tensioni tra unità inferiori nascono e si decidono nell’unità immediatamente superiore. Alla fine del processo le pievi tendono ad unirsi per combattere l’invasore o il potere straniero — come attestano certi periodi della storia della Corsica, particolarmente all’inizio della rivoluzione che, nel XVIII secolo, culmina nell’indipendenza politica5.

2 Vd., per un periodo preciso, CARRINGTON D., Aperçu sur les inégalités sociales en Corse rurale au XVIIIe siècle, «Annuario Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea», XXXI-XXXII (1979-1980). 3 Il fondo Civile Governatore abbonda di conflitti tra comunità: «Richiesta affinché la disputa tra le frazioni di Sorbu e Ocagnanu relativa alle terre sia sottomessa all’arbitraggio del Rev. Tomasino Moracchini e di Lazaro Maria Donati» (25 febbraio 1678, C. G., arch. 521), o il «Lamento portato dal comune di Furiani contro le genti di Oletta che vengono a mano armata a far pascolare sul territorio di Furiani gli animali, di cui parecchi infetti di mal di lupia» (28 luglio 1660). Cfr. Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, fondo Civile Governatore, serie C e G. 4 Le guerre tra villaggi potevano raggiungere, in Corsica, una durata straordinaria: quella tra Pastoreccia di Rostino ed il vecchio villaggio di Brocca si è prolungata per tutto il tredicesimo secolo. Queste guerre sono state un costante focolaio di agitazioni: quando Felice Pinelli assume la carica di Governatore di Genova in Corsica, nel 1728, si deve confrontare subito con una serie di conflitti sociali tra cui figurano, al primo posto per numero e gravità, quelli che oppongono le comunità per i diritti di pascolo. Cfr. PINELLI F., Relazione del governatore Felice Pinelli (1728-1730), scritta dal medesimo e tratta per la prima volta dagli archivi della famiglia Brignole-Sale, Bastia 1854. 5 Il ruolo della pieve nella dinamica segmentaria deve essere precisato. L’utilizzazione del modello delineato finora si rivela, in questo caso,

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Figura 45: la Corsica in una mappa di Jean Bleau 1662-1665 (Bibl. Fesch - Ajaccio)

Certamente questa dinamica non opera in modo automatico e perfetto, secondo la legge della fusione-fissione, ma corrisponde sicuramente ad una tendenza profonda — ad una logica — del sistema politico. Se non funziona sempre in modo “puro” è perché la Corsica ha subito l’innesto di sistemi di potere venuti dall’esterno, che hanno provocato, o almeno avvantaggiato, la formazione di organizzazioni politiche particolari (specie quella dei clan, la cui caratteristica principale è quella di piegare la dinamica egualitaria a vantaggio di una famiglia o di un gruppo di famiglie). Dal punto di vista di quelli che si potrebbero chiamare i “livelli di identità”, le tre unità (la famiglia il villaggio e l’isola) si completano: sono i livelli di riconoscimento del singolo individuo. Nella famiglia il soggetto si sente incluso in un insieme unico, specifico, in cui la profondità genealogica lo colloca nella comunità dei morti e dei vivi. Il riconoscimento dell’individuo all’interno del blocco familiare dipende, tuttavia, anche dalla sua apertura all’esterno. L’identità individuale richiede propriamente una dimensione sociale che, grazie allo spazio pubblico del villaggio, può affermarsi come rappresentativa di una determinata famiglia. Per le stesse ragioni, ogni individuo deve partecipare alla “vita sociale” del villaggio quando si rivolge al settore più vasto della pieve e dell’isola (quest’ultimo è il settore della guerra a carattere “nazionale”). In questo caso l’individuo si ritrova integrato in una comunità politica più estesa: è il grado in cui tutti si riconoscono “corsi”6. Questa scala dei livelli di riconoscimento, dalla famiglia fino all’isola,

particolarmente delicato, perché gli manca la dimensione storica; la segmentazione, con le sue divisioni in unità come la famiglia, il villaggio e la pieve «non terrebbe conto del processo di occupazione dello spazio». Così, prima che il villaggio si caratterizzi come un’unità politica definita, la pieve era il fulcro delle comunità: nel Medio Evo, l’urbanizzazione dispersa in frazioni e piccoli agglomerati (cittadine e città) corrispondeva ad un’economia pastorale fortemente nomade. La comunità rurale pievana aveva le sue istituzioni: l’assemblea, gli eletti, la chiesa parrocchiale; comprendeva le popolazioni di una o più valli, di un altopiano o, talvolta, diversi quartieri di uno stesso borgo. Alla fine del Medio Evo e fino al XVI secolo, si assiste allo sviluppo del villaggio come unità politica e territoriale, con un’assemblea paesana, una specifica comunità, delle istituzioni periferiche. Questo sviluppo è accompagnato dal declino della pieve; ma, in genere, e fino al XVIII secolo, i due tipi di comunità coesistono. Lo sviluppo del villaggio è avvenuto, probabilmente, a detrimento della pieve; ma l’apparizione tardiva del villaggio non può essere considerata una valida ragione per rifiutare il modello di segmentazione clanica. Anzi, l’applicazione di questo modello risulta maggiormente utile se calata in realtà spaziali e temporali ben contraddistinte: per la segmentazione clanica medievale si può tranquillamente scavalcare il piano del villaggio, dato che prima del XV secolo lo spazio di risoluzione dei conflitti interfamiliari era la pieve (la struttura a famiglia estesa o lignaggio era l’unità fondamentale); con un lento processo di municipalizzazione, il villaggio prende parzialmente il posto della pieve, che si trasforma in unità superiore del sistema segmentario (cambiando, certamente, alcune sue funzioni). L’assemblea di villaggio sostituisce in parte l’assemblea pievana, ma le vedute interpievane persistono ancora e diventano la base, nel XVIII secolo, delle consulte nazionali: prova evidente degli spostamenti di competenza che la struttura segmentaria ha provocato all’interno della pieve. Queste osservazioni rispondono in parte alle obiezioni formulate da RAVIS-GIORDANI G. sull’utilizzazione del modello segmentario di Edward Evans-Pritchard: «sarebbe interessante vedere come questi spazi si inseriscano gli uni negli altri. Si potrebbe dire che all’interno della pieve il cerchio di riferimento sia la comunità e dentro alla comunità sia il villaggio (...). Questo modello, in Corsica è tanto più allettante quanto inefficace. Certo, esso funziona abbastanza bene; ma non tiene conto di tutto, in particolare ha il difetto di congelare un lungo e lento processo di investimento, di addomesticamento e di appropriazione dello spazio». Cfr. RAVIS-GIORDANI G., Bergers corses, les communautés villageoises du Niolu, Aix-en-Provence 1983, pp. 91-92. Il libro di Ravis-Giordani descrive in modo preciso e dettagliato la struttura, il funzionamento ed i ruoli delle unità socio-economiche: la famiglia, la comunità paesana e la «Corsica». 6 Ancora un tratto somigliante ai ciprioti greci: «Il cipriota greco si sente se stesso nelle relazioni con i suoi compatrioti di villaggio: è l’agente di una famiglia e, fuori dal villaggio, l’agente del suo villaggio, della sua provincia (o isola) o della nazione». PERISTIANY J. C., op. cit., p. 14.

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corrisponde ad un ciclo di identità: la famiglia è un’unità politica, anche se “privata” nel suo cerchio interiore; l’insieme delle famiglie forma il villaggio, che costituisce un’unità politica territoriale; l’isola, il corpo primitivo, ha la funzione di chiudere il ciclo dell’identità individuale e collettiva, presentandosi come un livello astratto — quasi mitico — assente ai livelli inferiori: l’isola rappresenta il potere estremo, che giustifica e garantisce tutti gli altri poteri, fino all’affermazione dell’indipendenza politica. Il corpo primitivo è innanzitutto la patria. La letteratura insulare è ricca di questi temi: la Corsica è percepita dagli isolani, già da diversi secoli, come il luogo natale che segna la differenza con gli altri popoli. Si tratta, certamente, di un effetto precoce — rispetto al resto dell’Europa, in cui il nazionalismo appare prevalentemente con la nascita dello Stato — delle guerre che i corsi hanno dovuto condurre contro gli invasori. Non stupisce affatto di leggere negli scritti di Pietro Cirneo delle frasi che si riferiscono senza ambiguità alla terra natale come ad una “patria”7. Ma ci sono due altre ragioni che spingono a quest’esigenza di un’identità nazionale e riguardano la dinamica stessa della segmentazione corsa. Questa dinamica è quella del potere: si tratta, per l’individuo che si afferma come membro di una famiglia, di riconoscersi nell’assoluto possesso dei propri poteri. L’affermazione di sé, dei propri diritti e della propria autonomia deve essere completa; deve estendersi a tutti i livelli di potere, altrimenti si troverebbe mutilata8. L’autonomia della famiglia (che impegna l’onore) richiede un diritto che la garantisca ad un livello di potere più elevato di quello del villaggio ed al quale i diritti locali siano sottomessi. Questo livello estremo è quello del governo di tutta l’isola: il pieno riconoscimento dei diritti privati implica il riconoscimento dei diritti specifici della comunità corsa, considerata come un’unità territoriale globale, politica ed etnica. Questa funzione giuridico-politica del corpo primitivo si evince in modo particolare dalla connessione delle unità segmentarie. Abbiamo visto che esiste una sorta di incastro della famiglia nel villaggio, del villaggio nella pieve e della pieve nell’isola. Ciascuna di queste unità costituisce uno spazio di tensioni latenti ed aperte ed è, al tempo stesso, lo spazio di risoluzione dei conflitti dell’unità immediatamente inferiore — la famiglia grazie alla sua assemblea sotto l’autorità del capo, agisce come un’entità giuridica pacificatrice dei conflitti individuali; il villaggio possiede i dispositivi di potere necessari al regolamento dei conflitti tra famiglie — attraverso la Consulta (anche detta Dieta o Assemblea). Le Consulte eleggono gli ufficiali comunali, i Padri di comune, il Podestà (le cui funzioni giudiziali, nel XVIII secolo, si limitavano ai casi non superiori alle 4 lire), i Procuratori della pieve (spesso assistiti dei Padri di comune nei conflitti tra villaggi) ed, infine, i Nobili Dodici ed i Nobili Sei, incaricati di rappresentare le popolazioni del Diquà e del Dilà presso il potere genovese: questa istituzione, oltre alle funzioni amministrative e fiscali, aveva il compito di consigliare il Governatore nell’amministrazione della giustizia nelle pievi e costituiva, agli occhi delle popolazioni, una sorta di istituzione nazionale. Ad ogni scala conflittuale corrispondono delle costituzioni giuridico-politiche ad acta, che esercitano la loro autorità sulle unità inferiori. Queste istituzioni, create dal popolo, erano state accettate da Genova, che le aveva adattate all’amministrazione, fissando i limiti della loro giurisdizione ed imponendo le funzioni (specie a livello fiscale) tipiche di un sistema politico coloniale. È significativo il fatto che l’organizzazione giudiziaria ed amministrativa popolare non si occupi della vendetta. Quest’ultima è appannaggio esclusivo del potere centrale genovese che, in caso di omicidi tra famiglie, invia i suoi Commissari di campagna, assistiti da un plotone di soldati e di sbirri: «…essi installavano il loro quartiere generale nel paese, alloggiavano i loro uomini dai parenti dell’omicida, inviavano delle spedizioni, procedevano alle inchieste sul posto»9. Tutto il diritto genovese è volto alla repressione della vendetta: essa sfugge alla giurisdizione locale ed è disciplinata direttamente dalla legge dello Stato10. Genova ha voluto estendere la responsabilità collettiva, nei casi di omicidio per vendetta, non solo alla famiglia, come era costume, ma al villaggio e all’intera pieve: la Dominante ha allargato il carattere particolare del conflitto tra famiglie, provocando indirettamente delle vendette trasversali. La classe dirigente genovese ha trovato in Corsica una tradizione talmente radicata da non poter fare appello a nessuna istituzione locale per bloccare la vendetta; la violenza familiare diventa un affare di Stato, perché lo Stato deve detenere il «monopolio della violenza legittima»11. Rendendo delle intere pievi responsabili degli omicidi e dei danni commessi all’epoca delle guerre tra famiglie, Genova ha trasformato le norme abituali che regolavano la vendetta: il suo territorio

7 Vedi, ad esempio, questo brano della sua Cronaca, scritta verosimilmente verso la fine del XV secolo, che descrive un episodio del seggio di Bonifaziu (nel 1420) contro il Re Alfonso d’Aragona: «Gaggio, passando di riga in riga (gli eserciti), infiammava con delle parole brucianti la collera dei suoi soldati: «Pensate, diceva, alla perfidia dei nemici; contro il diritto delle genti, senza essere stati provocati, sono venuti ad attaccare la Corsica. Pensate alla loro barbarie; hanno massacrato perfino le donne ed i bambini (...). Salvate con il vostro coraggio, dunque, i vostri bambini, le vostre donne, i vostri genitori e la vostra libertà; perché oggi è per la vostra isola, per voi stessi, per la vostra libertà, per i vostri bambini, per il vostro suolo natale che siete costretti a combattere. Respingete lontano dalle vostre teste il giogo odioso di Alfonso». CIRNEO P., Istoria di Corsica di Pietro Cirneo, sacerdote d'Aleria, divisa in quatro. Recata, per la prima volta, in lingua italiana, ed illustrata da Gio. Carlo Gregorj, e quindi pubblicata per munificenza di S.E. il conte Pozzodiborgo, Parigi, dalla tipografia di Pihan Delaforest, p. 351-353, Paris 1834; rist. sul «B.S.S.H.N.C.», marzo-aprile 1884. Sull’autore si hanno scarsissime notizie. Nato nel 1447 in Corsica da povera famiglia, studiò a Venezia. Già sacerdote ad Aleria, prese il nome di Cyrnaeo in ricordo della patria (significa infatti: Corsico) quando si trasferì sul continente. Non si hanno più notizie di lui dopo il 1506, anno che conclude la narrazione della sua storia della Corsica (per il De rebus Corsicis, cur. MURATORI L.A., RIS, XXIV, Mediolani 1738, Praefatio, pp. 411-2). 8 È ciò che si verifica quando i poteri stranieri reprimono la vendetta, o vogliono regolamentarla (come è accaduto per tutte le potenze che hanno dominato la Corsica, da Pisa fino alla Francia: v. BUSQUET J., Le droit de la vendetta et les paci corses, Paris 1920). Si comprende perché il diritto «privato» delle famiglie corse si sia sempre scontrato con il diritto pubblico della potenza dominante. Questo diritto delle famiglie esige dunque, naturalmente, un prolungamento nella gerarchia dei poteri pubblici. 9 Vd. BUSQUET J., op. cit., p. 171. 10 Idem, I parte, Libro II. 11 Idem, p. 168.

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viene allargato, le forme di arbitraggio e di conciliazione vengono cambiate; solo a livello normativo non risulta alcuna modifica sostanziale al processo tradizionale. Le istituzioni paesane e pievane subiscono l’effetto di questi cambiamenti, così come i conflitti tra villaggi e tra pievi: questi tendono ad inasprirsi, quelle a malfunzionare. Il modello paradigmatico della vendetta può essere imputato anche tra i fattori scatenanti dei conflitti tra unità politiche locali, o tra i corsi e gli stranieri: le guerre tra villaggi e pievi richiedono l’intervento di paceri e, talvolta, la guerra nazionale appare come un tipo particolare di vendetta12. Si comprende allora la funzione politica del corpo primitivo nella dinamica segmentaria: paradossalmente, ed a causa dell’agitazione introdotta dalla politica repressiva di un potere straniero, che oppone direttamente a questa pratica giudiziale il malgoverno del sistema giuridico tradizionale, si richiede una soluzione in base al principio di sussidiarietà del potere. La ferocia generalizzata dei corsi contro la legge dello Stato trova origine, così, nel sentimento di giustizia del popolo corso contro il diritto privato e pubblico genovese. Si può affermare che, in un certo senso, la generalizzazione della vendetta ad ogni forma di conflitto tra unità politiche (le istituzioni non sono state concepite per risolvere questo tipo di violenze) ha contribuito a trasformare l’anarchia in un carattere strutturale della società corsa. Carattere che attraversa la dinamica segmentaria da parte a parte: la scissione prevale sulla fusione, ed al malfunzionamento del sistema giuridico-politico corrisponde solamente una soluzione generale, nazionale. Nell’anarchia che regna da secoli nella società insulare, rimane una base stabile che rinvia all’immagine utopistica di una comunità unita: il corpo primitivo, l’isola unificata politicamente. La seconda ragione che spinge i corsi a volersi riconoscere come membri di una sola comunità è più complessa e non meno decisiva: riguarda lo stesso concetto di patria come entità politico-culturale. La patria è la terra degli antenati, il territorio mitico-storico dell’origine della comunità. Si può pensare che, per molti corsi, la patria sia innanzitutto il villaggio; certi diranno anche che hanno solamente una patria, il loro villaggio, e che la Corsica «viene solamente dopo». Bisogna vedere in questo il risultato dell’estrema fissione delle unità segmentarie, disunite al punto tale da spingere ognuno all’interno della propria cerchia collettiva. La nozione di patria non è, tuttavia, meno presente: si tratta di un ripiegamento del corso sul villaggio natale piuttosto che un attaccamento esclusivo a quest’ultimo. Il villaggio è percepito allora secondo il modello del corpo primitivo, cioè come un mondo chiuso che ingloba la comunità dei corsi. Basta che scoppi la guerra nazionale, o che delle condizioni particolari oppongano i corsi ad una comunità straniera, per far esplodere il risentimento collettivo13. Le unità politiche segmentarie rappresentano, per l’individuo, dei gruppi di appartenenza attraverso cui realizzare la propria identità; quest’ultima corrisponde ai tre maggiori modelli di potere e di riconoscimento dei diritti. La famiglia, il villaggio e la patria inducono e permettono, in base a comportamenti precisi e a territori delimitati, delle separazioni o delle alleanze tra gruppi. Ora, man mano che le unità si allargano, i legami di appartenenza si distendono, il tessuto sociale e la superficie territoriale diventano meno definiti: paradossalmente, l’individuo trova nella “patria” un più grande margine di libertà ed un minor numero di elementi per il proprio riconoscimento. Nella famiglia e nel villaggio l’identità e la condizione soggettiva sono più nette ed immediatamente reperibili: tutta una rete di riferimenti cinge l’individuo e lo riporta alla sua immagine originale. Questa caratterizzazione è già inferiore nella pieve: la stessa definizione di “corso” è abbastanza sfumata, se si esclude la contrapposizione al termine “straniero”. Il fatto che i corsi si siano confrontati con dei popoli stranieri sul loro territorio ha sicuramente rafforzato il significato originario di “patria”, accelerando il sentimento di riconoscimento collettivo. Si può dire che l’idea di patria abbia rafforzato l’identità individuale del corso: quest’idea racchiude il riconoscimento dell’individuo nelle altre unità politiche. Infatti, nella famiglia e nel villaggio, l’individuo si riconosce come membro di un gruppo: in questo senso, la solidarietà e la socializzazione prevalgono sulla singolarità. Ma è nel passaggio da un gruppo all’altro — e particolarmente, da un’unità politica all’altra, da membro di una famiglia ad abitante di un villaggio — che nasce la propria singolarità. In questa dimensione l’individuo riprende la sua libertà e l’espressione individuale: nel villaggio si presenta come membro di una famiglia e tuttavia non lo è già più, è altro. C’è un margine di libertà non completamente definita dalle norme culturali che obbliga l’individuo a definire se stesso, ad agire secondo la propria singolarità. Questo è vero per il passaggio alla pieve, ma anche per ogni articolazione delle suddivisioni territoriali e politiche (quartieri di uno stesso villaggio, per esempio). Ad un livello più elevato, quello della patria, l’individuo si ritrova, per così dire, solo; quando raggiunge la più vasta comunità dei suoi compatrioti, possiede soltanto un ristretto numero di elementi che lo incorniciano sociologicamente: la libertà deve fare appello a dei riferimenti interiori per opporsi allo straniero. La guerra diventa così guerra patriottica, in grado di condensare tutti gli altri livelli di identità (famiglia, villaggio, pieve). Il riconoscimento di una patria unica pone in secondo piano l’articolazione della libertà in tutte le altre unità politiche: lottando per la patria, il corso salda queste unità in un insieme, attraverso il compimento della sua singolarità nell’appartenenza al gruppo più vasto. Quei margini di libertà (in senso politico) che si aprivano all’individuo al momento del passaggio da un’unità a quella immediatamente superiore, convergono e si condensano nello spazio di libertà definito, circoscritto ed occupato dalla guerra. Ecco perché la guerra contro lo straniero è sempre stata, per il corso, una guerra patriottica ed una lotta per la libertà: attraverso la guerra si

12 In un canto guerriero di 1731, Sunatu hè lu cornu, si pronunciano queste strofe: «Aiò! tutti! fratelli chi hè l’ora/Di stirpà sta razza maledetta/Grida in celu, per noi vindetta/Tantu sangue è tanta infedeltà». 13 Nelle pubblicazioni delle comunità corse dell’Indocina o del Maghreb, al tempo dell’impero coloniale francese, si evidenzia un fenomeno curioso: un problema di identità dovuto all’oscillazione tra l’attaccamento alla «grande patria» (la Francia) ed alla «piccola patria» (la Corsica).

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risolvono le contraddizioni che nascono dalla necessità di appartenere ad un gruppo e di esprimere la singolarità individuale. Abbiamo appena tracciato uno schema; se si pensa che nella realtà (delle famiglie e dei villaggi corsi) le cose non accadono altrettanto semplicemente, che l’isola formicola di conflitti interfamiliari, che i limiti alla libertà sono onnipresenti, che la società corsa, nel corso dei secoli, è sempre sfociata nell’anarchia, si prende atto dell’esigenza politica che la guerra nazionale rappresenta nel dare coesione ed unità a tutto un popolo. Per completare la sua identità il corso ha bisogno di riconoscersi come membro di una comunità nazionale. Tutto ciò è testimoniato anche delle credenze e delle pratiche magico-religiose sulla morte. La divisione dei vivi ha la sua controparte nella divisione dei morti: non c’è nulla di stupefacente, dato che proprio dai morti i corsi traggono una parte del loro potere. Come membro di una famiglia, l’individuo ha il suo posto in una genealogia, in un insieme di morti e di vivi. In secondo luogo, il villaggio ha la funzione di completare il rapporto di ogni famiglia con i propri morti (grazie alle feste ed ai riti funebri ai quali sono invitate le altre famiglie). Nonostante questi riti comunitari, l’organizzazione collettiva non crea, da sola, una comunità di morti, ma solo un riflesso del gioco segmentario dei vivi: come ogni villaggio si definisce solamente attraverso l’opposizione agli altri villaggi della stessa pieve, ugualmente i morti di un villaggio formano un insieme solo attraverso l’opposizione ai morti di un’altra comunità, in genere preferenziale. In alcuni villaggi della Corsica si assiste ancora alle cerimonie di omaggio reciproco rese da una comunità ai morti della comunità rivale. Il venerdì santo, gli abitanti di Venzolasca invitano quelli di Vescovato a fare un pasto nel loro cimitero; l’indomani, sono i venzolaschesi a recarsi al cimitero di Vescovato, per mangiare. Ad Eccica Suaredda e Cavru, si usano dei riti analoghi14. Questi riti, causati verosimilmente dalle rivalità paesane, hanno la funzione di cementare la pace, incrociando gli scambi degli omaggi ai morti. Come è impensabile, sul piano delle relazioni tra villaggi, che una famiglia onori i morti di un’altra famiglia, allo stesso modo le divergenze genealogiche spariscono quando ci si oppone, in quanto membri di un villaggio, ad un villaggio rivale. Si può pensare allora ai propri morti come a membri di una comunità orizzontale, superando il legame “verticale” verso gli antenati, connesso ad un gruppo esclusivo di vivi. Nell’ultimo stadio della fusione segmentaria (la patria), la comunità dei morti assume un altro carattere: in questo caso il destino individuale raggiunge quello dell’intera collettività. Questa comunità ha la sua sede in un solo territorio: l’isola, il corpo primitivo, le cui frontiere definiscono naturalmente il distacco dal territorio nemico. Ma affinché l’isola diventi realmente una terra dai molteplici significati simbolici — non si tratta di una proprietà comune, ma di uno spazio mitico-reale a partire del quale (ed in cui) si possono concepire degli spazi territoriali separati dall’organizzazione politica, giuridica ed economica della società —, occorre un elemento separato da tutti, e da cui tutti possano ricevere il potere allo stesso modo. Questo elemento è la morte, non percepita come evoluzione delle genealogie, ma come un’astratta filiazione diretta (mitica), che fa coincidere il luogo d’origine dei vivi con il luogo di destinazione dei morti. La terra è mediatrice tra i cicli dei morti e dei vivi, tra il nonno che muore ed il nipote che prende il suo nome. Esistono ancora dei miti sull’origine delle montagne, dei laghi e dei fiumi corsi che raccontano come il fondo sotterraneo delle montagne sia il luogo in cui riposano i morti o dove inizia l’inferno15. La terra mitica, fondatrice, sostiene la cultura di tutto un popolo. La lingua comune, la diffusione delle notizie in tutta l’isola, hanno permesso l’elaborazione di una memoria storica, raccogliendo l’immagine di una Corsica-patria, di un’unità territoriale politica e mitica che unisce tutti gli isolani, vivi e morti. Il corpo primitivo dell’isola rappresenta il territorio mitico dell’origine. Molti fattori hanno contribuito all’elaborazione di questo mito: dalla trasformazione degli avvenimenti storici e guerrieri in racconti e leggende, raccontati nelle piazze dei villaggi (come è accaduto per le leggende di Orso Alamanno, nel Sud16, o per i racconti della guerra d’indipendenza, nel XVIII secolo) — il tempo della storia diventa così un tempo mitico, originario, l’oggetto di un’elaborazione simbolica che trasforma la cultura in folclore —, fino alla caratterizzazione dello spazio con leggende che fanno il giro dell’isola attraverso un elemento decisivo: l’esistenza di un potere politico supremo regnante su tutta la Corsica ed imposto dell’esterno. Di fronte a questo dato, i corsi si sentono come un blocco etnico separato, con i propri costumi, la propria lingua, il proprio territorio e soprattutto con un distinto potere politico. Questo potere diretto si è realizzato soltanto due volte nella storia (i due periodi di indipendenza suggellati da Paoli), anche se in precedenza non sono mancati altri tentativi di unificazione del paese. Il corpo primitivo, entità dalle molteplici funzioni, è presente anche quando l’isola è sottomessa alla dominazione straniera; la patria è l’elemento di coesione estrema della comunità dei corsi in guerra con altri popoli; è sempre ricordata e vantata dal popolo e l’eroismo dei padriotti viene costantemente decantato dai cronachisti e dagli storici che attingono alla tradizione orale; la patria ha sostenuto il ruolo di un governo unificato, senza istituzioni, senza Stato, senza dirigenti, ma non per questo meno politico, perché in grado di raggiungere l’obiettivo principale di ogni potere statale: il consenso della popolazione. Infine, bisogna notare che questo governo senza Stato, questo crogiolo delle tendenze unitarie di tutto un popolo, questo territorio libero ed unito si è adeguato perfettamente alla natura egualitaria delle istituzioni popolari: è un potere non statale, non trascendente, che

14 FUMAROLI V.D., Esquisse géographique et historique sur la pieve de Bastelica, «B.S.S.H.N.C.», 425-428 (1921), p. 65. Altre pratiche (o credenze?) dello stesso tipo, sono le battaglie dei mazzeri del 31 luglio. In questa data, verso mezzanotte, le confraternite dei mazzeri che appartengono a villaggi rivali, si affrontano sui colli di alcune montagne, armati di asfodeli: il risultato del combattimento determina la più o meno grande mortalità dei villaggi per l’anno successivo. (Il mazzeru è un personaggio importante del sistema magico corso. «Cacciatore di anime», egli «dona», predice ed annuncia le morti al suo villaggio). 15 Vd. per queste leggende CHANAL E., Voyages en Corse, Description, récits, légendes, Paris 1890. 16 Vd. CASANOVA A., Révolution féodale, pensée paysanne et caractères originaux de l’histoire sociale de la Corse, «Études corse», 15 (1980).

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impone la coesione interna. Inevitabilmente, se il corpo primitivo rappresenta un potere, è anche attraverso i morti che esso si realizza: l’isola è il luogo in cui i morti riposano, al quale accedono attraverso passaggi determinati, luoghi selvaggi che prolungano lo spazio del villaggio al di là di quello dei vivi, attraverso altre contrade, indeterminate, che circoscrivono i limiti dell’isola. Non si tratta di una comunità di «morti per la patria», analoga a quella di tanti discorsi nazionalistici (anche se è una tipica tendenza della Corsica del XVIII secolo e resta una tendenza del nazionalismo insulare nella seconda metà del XX secolo), ma piuttosto di una “patria per i morti”, di un’entità mitica e reale al tempo stesso, base estrema della comunità dei vivi17. I corsi hanno un doppio atteggiamento davanti all’atto di dare la morte, a seconda che si tratti di una vendetta, o della guerra. Il morto, vittima di un omicidio, non trova riposo fino a quando non viene vendicato dalla morte dell’omicida. Non ha diritto ad un funerale religioso. La credenza popolare ne fa un’“anima dannata”, uno spettro che erra nella macchia, senza la pace di un sepolcro. Ma se si tratta di guerra — e di guerra patriottica —, la vittima del nemico è come giustificata, e può essere celebrata anche per il suo coraggio ed il suo eroismo: è sepolta con il concorso del prete e la questione del debitu di sangue, che sfocia nella vendetta, non conosce tregua. Questo diverso atteggiamento è legato al fatto che la vendetta mette in gioco i rapporti tra i vivi ed i morti di una stessa comunità — rapporti fatti di un estremo timore, di doveri e di obblighi rituali, di paura, di rappresaglia da parte del morto se la famiglia non lo vendica, ecc. Quando si tratta di uno straniero, non accade la stessa cosa: tra i membri della comunità corsa e quelli della comunità straniera non ci sono legami di sangue; e così, l’intervento (una morte provocata dal nemico) dello straniero in battaglia, nel rapporto tra vivi e morti corsi, non porta nessuna agitazione, non richiede nessuno scambio. La “comunità” dei morti corsi si realizza, come quella dei vivi, solo nel confronto di tutto un popolo contro un popolo straniero. La figura dello straniero, u furesteru, sostiene un ruolo importante nella dinamica segmentaria: è una figura simbolica, polisemica, che attraversa come un filo rosso i differenti piani identificativi della società corsa, che, come abbiamo visto, si dividono e si uniscono a seconda del contesto. Lo straniero è, innanzitutto, quello che non appartiene alla propria famiglia; ma anche gli abitanti di un altro villaggio sono considerati “stranieri”18; infine, i non-corsi, il “saraceno”, l’italiano, il francese, sono dei furesteri (possono essere anche detti strangeri). Il senso generale di furesteru è, quindi, «colui che non è dei nostri». Si è visto come l’invidia costituisca una causa della divisione in blocchi e della divisione segmentaria: quando un villaggio entra in conflitto con un altro villaggio, la morte, che sfocia nel rischio estremo dell’affronto, appare come qualcosa che minaccia due blocchi o due famiglie. Il simbolismo della morte coincide parzialmente con quello dello straniero: è la straniera, la nemica per eccellenza. Come lo straniero agisce nei tre piani della divisione segmentaria, i morti abitano nei territori che gli corrispondono: le regioni selvagge della macchia, i fiumi fuori dal villaggio, ma anche, come riportano i racconti e le leggende, gli spazi sotterranei delle profondità del mare o delle isole vicine19. La morte e lo straniero simboleggiano i nemici, nei tre livelli dell’opposizione segmentaria; e questo provoca l’unione dei corsi nel combattimento contro il comune nemico20.

17 Ogni nazionalismo — ovviamente si parla dell’ideologia di uno Stato-nazione composto da parecchie nazionalità — vuole fondare «l’unità nazionale» sulla fusione dei morti in una stessa comunità; processo che può rivelarsi più o meno artificiale, a seconda dei legami culturali dei vivi della stessa nazionalità. 18 Talvolta — ma è un caso estremo — lo «straniero» proveniente da altri villaggi è gettato fuori da tutte le comunità, perché percepito come un reietto. Così, in uno studio sulla comunità di Fuzzà, Pierre Lamotte mostra come le sette famiglie «aborigene» fondatrici del paese, praticassero, originariamente, una sorta di «comunismo»; la comunità in seguito si è stratificata; le domande di proprietà hanno giocato un ruolo decisivo nello scoppio di numerose vendette che hanno insanguinato Fuzzà; infine, nel 1854 quando si presentò la domanda di divisione dei beni comunali, nonostante la stratificazione sociale, gli abitanti di Fuzzà fecero blocco contro le pretese dei «pastori, coloni e commercianti» stranieri alla comunità, che si erano insediati sul territorio del comune. Lamotte cita la lunga «Deliberazione» del Sindaco che, parlando a nome della comunità, spiegava le ragioni del suo “rifiuto”; egli, opponendo i «diritti di promiscuità territoriale» degli abitanti di Fuzzà all’«interdizione sociale» fatta agli stranieri di integrarsi, giudicava quei «padri laboriosi, che fanno parte di questo formicaio ambulante e nomade originario di Palneca, Cozzano....», di «tendenze invidiose»; essi consideravano gli «aborigeni [di Fuzzà come] degli stranieri, per cui non provano nessun legame di fraternità»; «si capisce quanto una simile contrapposizione risenta dei contatti abituali con municipalità di altra natura; non si possono confondere questi due modi d’essere ed identificarli l’un l’altro....». Cfr. LAMOTTE P., La structure sociale d’une communauté de la Rocca: Fozzano, «Études corses», 11 (1956). 19 La morte appare nei racconti sotto diverse forme: un cavaliere, una vecchia che abita nella foresta, un diavolo che vive in fondo al mare, ecc. In ogni caso appare sempre come una «straniera», venuta dall’esterno. 20 Lo straniero è un fattore di coesione comunitaria non solo in tempo di guerra, ma anche in tempo di pace. Lo straniero e la minaccia che rappresenta condiziona l’importanza dei riti dell’ospitalità: «...nei giorni di festa, [i corsi] invitano cortesemente tutti gli stranieri; si dividono con loro e li fanno sedere al loro tavolo, senza servire loro tuttavia nulla più del necessario e senza alcuna ricercatezza. Il vero nobile presso di loro è quello che riceve molti ospiti e che apre la sua casa ad una folla di persone di ogni condizione. I corsi sono infatti i più ospitali tra tutti i popoli...», CIRNEO P., De rebus corsicis cit., p. 54. Si può interpretare il rito dell’ospitalità come un cerimoniale destinato a scongiurare la minaccia simboleggiata dallo straniero.

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Figura 46: Corsica – Stato delle anime della parrocchia di San Pietro d'Alata (375 persone) nel 1766 (Archives Départementales de la Corse-du-Sud - AD-2A: BMS (1708-1795) Paroisse Saint-Pierre d'ALATA; Collection Départementale). § 4. La segmentazione clanica Anche se questo schema di un processo segmentario “dal basso”, sviluppando delle unità sempre più larghe, corrisponde ad una tendenza innegabile della realtà politica, non ne fornisce comunque un’immagine completa. Ciò che oggi si presenta come una tendenza ha costituito probabilmente, in tempi remoti, l’essenza del processo politico: forse questa divisione nasce da una segmentazione molto più pura, determinata dalla logica divisione di una stirpe, come quella che Evans Pritchard ha scoperto presso i Nuer dell’Alto-Nilo. Evans-Pritchard mostra come i Nuer abbiano trovato un modo per fare coincidere le unità politiche territoriali (tribali) con i segmenti del “clan”, così che il villaggio,

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per esempio, corrisponde ad un segmento terziario di una stirpe. In Corsica, lo stato attuale delle ricerche permette soltanto delle supposizioni21: in certi casi, si può pensare che i villaggi formatisi alla fine del Medio Evo, grazie alla sedentarizzazione dei pastori nomadi, siano stati fondati da una o più famiglie; in questo ultimo caso, grazie ad un’accentuata endogamia (ci si sposava tra parenti di secondo grado), gli abitanti di un solo villaggio diventavano rapidamente membri di una stessa rete parentale. Le monografie si riferiscono spesso ad un “antenato fondatore” del villaggio; peraltro, sembra che spesso i quartieri di un villaggio corrispondessero alle varie famiglie e giocassero il ruolo di unità esogamiche; ma non si può dire più22. Sicuramente la realtà politica insulare è molto più complessa degli schemi che abbiamo tracciato. Innanzitutto, esiste un altro tipo di segmentazione, descritta da G. Ravis-Giordani nei suoi aspetti moderni23, rintracciabile già nei secoli XV e XVI, quando si formavano dei partiti insulari opposti per ragioni interne o conformemente ai poteri stranieri che si battevano per il possesso dell’isola, o alle organizzazioni politiche opposte alla potenza straniera dominante. Questa segmentazione, opposta a quella che abbiamo appena descritto e fondata sull’egualitarismo del popolo corso, corrisponde ad un altro tipo di sistema politico: il clan. Si può dire, in generale, che il clanismo corso, sviluppatosi e rimasto pressoché invariato nei secoli per alcuni suoi tratti specifici, sia diventato tale perché vissuto all’ombra del potere straniero. In questo senso, esso deriva anche dagli innesti delle potenze conquistatrici su un sistema sociale e politico popolare, di natura originale. Il clan corso emerge come una forza intermedia che si articola tra il potere locale ed il potere straniero, traendo forza proprio dalla sua articolazione. Le colonizzazioni imposte da Pisa — per risalire in maniera approssimativa all’origine dei clan — poi da Genova e dalla Francia, hanno creato un enorme vuoto di potere: la grande disparità tra le istituzioni dei due sistemi politici, quello di origine autoctona e popolare e quello imposto da uno Stato straniero, ha favorito l’edificazione di un’organizzazione politica intermedia. Lo sviluppo del clanismo è stato ancora più favorito dalla fragilità intrinseca della Terra di Comune, che permetteva l’insorgenza di poteri e controlli eterogenei. Le agitazioni, la cattiva amministrazione, gli squilibri provocati dall’insediamento dello stato invasore, hanno permesso l’avanzata del sistema clanico proprio perché esso rappresentava l’unica soluzione per adattare il potere straniero alla realtà sociale e culturale insulare. Il clan si forma attorno ad una famiglia: prestando i suoi servigi alla potenza occupante, che li accetta, essa governa le popolazioni sottoposte al suo controllo attraverso un potere di vassallaggio. Grazie alla rete di fedeltà che riesce a costruire — difendendo le cause delle popolazioni presso lo Stato, creando dipendenze economiche e politiche di ogni tipo —, la famiglia clanica si trasforma in una sorta di “partito” o, piuttosto, di “fazione”. La regola della segmentazione clanica vuole che ci siano due grandi fazioni, due clan che si dividono il potere politico nell’isola. Ogni fazione esercita un potere quasi assoluto sul suo territorio: fino a non molto tempo fa, l’influenza del clan si faceva sentire ad ogni livello della vita pubblica, ad ogni grado dell’amministrazione, della giustizia, delle istituzioni. Prefetti, magistrati, impiegati della pubblica amministrazione appartenevano alla rete clanica: il clan (grazie alla complicità con il governo centrale e con l’aiuto dei gradi della gerarchia politica statale occupati dai suoi membri) faceva convocare, dimettere, condannare o assolvere davanti ai tribunali chiunque gli sembrasse meritevole. Possedendo delle terre e potendo procurare degli impieghi in Corsica ed all’estero, il clan deteneva anche il potere economico; in parole povere, controllava la totalità dei poteri all’interno dell’isola. Questo significa che nei villaggi, i minimi dettagli della vita quotidiana dipendevano da una famiglia, dai suoi rapporti di vassallaggio o di opposizione al clan al potere. Questa situazione è rimasta stabile per svariati secoli. Ravis-Giordiani ha caratterizzato la segmentazione clanica come un movimento proveniente “dal basso”. L’opposizione tra due clan sfalda in fazioni tutte le istituzioni politiche, dalla Consulta regionale al comune. Ad ogni livello si ritrova lo scontro tra il partitu ed il contrapartitu, tra un clan ed il clan avverso. Consideriamo brevemente i due tipi di segmentazione: la prima (segmentazione egualitaria) presuppone un sistema politico egualitario; trae la sua legittimità dal diritto consuetudinario e si articola nel sistema culturale magico-religioso (la vendetta, per esempio, come insieme di credenze e di riti ancestrali); tende a stabilire un equilibrio di forze nel villaggio (e fuori dal villaggio), impedendo che un potere esclusivo, esercitato da un gruppo o da una famiglia, emerga a scapito della comunità. La sua dinamica di fusione-fissione s’incentra naturalmente sulla costituzione di un’unità politica che ingloba tutte le altre (famiglie, villaggi): è il corpo primitivo nella sua funzione politica che, in determinati periodi storici, cerca di darsi una forma istituzionale (un potere unificato ed indipendente). Il secondo tipo di segmentazione (segmentazione clanica) impone un potere disuguale, venuto “dall’alto”. Divide in due tutte le unità politiche: ogni rete clanica coinvolge, all’interno del villaggio, una parte delle famiglie; nel cantone (pieve), detiene il potere su una parte dei villaggi. È un potere puramente politico, senza connotazioni magico-religiose, senza radici nella cultura. Contrariamente al primo tipo di segmentazione, la dinamica fusione-fissione non gioca a favore dell’unificazione politica dell’isola; ogni clan dipende dal vassallaggio ad un partito straniero; l’opposizione ad un clan insulare rivale - il contrapartitu - resta sempre coperta, condizionata dalle rivalità dei partiti stranieri. In effetti, non c’è dinamica: una volta costituiti i clan, la divisione tende a stabilizzarsi ed a coagularsi. In questo senso, la dinamica clanica è il fattore più potente dell’immobilismo politico della Corsica. Tutto si riduce al cambiamento di 21 Gli studi sulla parentela sono recenti; Jean e Laurence Jehasse fanno corrispondere le dodici tribù primitive della Corsica, di cui parla Tolomeo, ai territori da cui presero origine le pievi medievali (cfr. JEHASSE J. e L., La Corse antique, la Corse domaine, in ARRIGHI P., Histoire de la Corse, Toulouse 1971. 22 Sui quartieri dei villaggi come unità exogamiche, v. lo studio di RAVIS GIORDANI G. relativo ai villaggi del Niolu in Bergers corses cit. 23 V. RAVIS-GIORDANI G., Le pouvoir politique, in CRESSWELL R., Eléments d’ethnologie, II, Paris 1975, pp. 185-186.

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potere dei candidati, dei sindyci, dei deputati di un clan o dell’altro, all’opportunità delle elezioni, ecc…24. Le due segmentazioni implicano dei processi contrapposti che, in un certo senso, si escludono. L’urto di questi due processi che caratterizzano il sistema politico corso è all’origine dei molteplici malfunzionamenti del primo tipo di segmentazione; esso spiega, in parte, la disgregazione progressiva della vita insulare, che, al giorno d’oggi, raggiunge una soglia pericolosa. Quali sono gli effetti dell’opposizione delle due dinamiche?

L’opposizione F1-F2 si cancella quando le due famiglie si radunano nell’opposizione comune a V2; e così via. In realtà questo schema causa malintesi, perché si potrebbe supporre che il movimento di fusione e di fissione si realizzi tra coppie di unità (famiglie, villaggi cantoni); mentre le tensioni all’interno del villaggio coinvolgono diverse famiglie (F1, F2...FN), tutte unite nell’opposizione ad un altro villaggio; a loro volta, le tensioni tra diversi villaggi cementano l’unità alla pieve, ecc. La segmentazione clanica potrebbe essere rappresentata così:

Ciascuna unità della segmentazione egualitaria si trova divisa politicamente in due fazioni. Il clan cerca di sfruttare a suo vantaggio la solidarietà familiare (propria della prima divisione), costituendo delle clientele con le famiglie; è tutto un blocco familiare (e non un solo individuo) che offre il suo appoggio al capo di un clan. Mancando, tuttavia, la definizione di una regola politica di solidarietà familiare nei confronti del clan (anche nella vendetta si assumono i membri di una famiglia fino al terzo grado di parentela), la famiglia si trova spesso divisa al suo interno: una parte vota per un clan e l’altra per il clan contrario. Sul piano del villaggio, la sfaldatura è netta: esso è tagliato in due, e non secondo un’opposizione tra famiglie (non dimentichiamo che lo schema che raffigura la prima segmentazione si presta a dei malintesi: non si tratta di due, ma di molteplici famiglie). Questo significa che all’interno di uno stesso clan può nascere spesso inimicizia tra famiglie25; e che può esistere, da un villaggio all’altro, una solidarietà clanica opposta alla 24 È interessante notare come nella Cronica di Giovanni della Grossa, a proposito degli avvenimenti politici dell’XI secolo, appaia già la base d’urto di questi due processi contrapposti. In un racconto in cui si mescolano inestricabilmente la leggenda e la realtà, Giovanni della Grossa descrive il formidabile sconvolgimento (ed il conseguente sfaldamento dell’unità politica della Corsica) seguito all’assassinio di Arrigho Bel Messer, nell’anno mille, che esercitava il potere su tutta l’isola. Per più di due secoli, la Corsica venne devastata dalle lotte intestine tra i pretendenti al potere. Dal nord al sud è un continuo formicolio di lotte fratricide ed ogni volta la situazione si presenta nella stessa maniera: alcuni fratelli o cugini entrano in discordia, fondano dei castelli, ed impegnano le popolazioni sottoposte al loro dominio a combattere per loro. Ad un certo punto, queste si stancano delle guerre dei Signori, rompono i loro legami di sottomissione e proclamano un «governo popolare», a popolo e a commune. Eleggono alcuni loro compatrioti, nominati «conti» e delegano loro il potere di esercitare la giustizia; all’inizio, tutto sembra stabilizzato. In seguito compaiono dei regimi dispotici, di natura diversa: questi «conti» si arrogano altri poteri e trasformano la loro funzione in una carica ereditaria, finché non esplode qualche nuova rivolta che li caccia via. Si constata, in questo complesso processo, un doppio movimento: di unione, contro la divisione in fazioni imposta dall’alto, e di divisione, quando le rivalità tra i Signori obbligano le comunità ad opporsi con la forza. 25 Paul Bourde descrive molti casi di questo genere. Il capo clan cerca allora di intervenire per fare la pace, riprendendo l’antico ruolo del paceru (paciere) della vendetta. Ma è chiaro che questo ruolo lo assume grazie al proprio potere: il vecchio paceru, non si sarebbe messo mai sullo stesso piano delle famiglie in vendetta, tenendosi pronto ad entrare in conflitto in caso di rottura del trattato di pace. Cfr. BOURDE P., En Corse, Paris 1887.

FIGURA 31: LA SEGMENTAZIONE EGUALITARIA P= Pieve V= Villaggio F= Famiglia

FIGURA 33: LA SEGMENTAZIONE CLANICA F= Famiglia V= Villaggio P= Pieve C= Clan

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solidarietà paesana (secondo la quale, in certe questioni, tutti gli abitanti di uno stesso villaggio devono unirsi per lottare contro l’altro)26. Si nota subito una tendenza caratteristica dei due processi: l’esistenza di famiglie legate da una contraddittoria doppia alleanza - alla comunità del proprio villaggio contro un altro villaggio ed al proprio clan, che ingloba una parte del villaggio opposto. Una stessa famiglia può così trovarsi divisa nell’opposizione ad un clan e nell’obbedienza alla solidarietà familiare (che richiede un solo comportamento politico). Questa situazione è assai frequente in Corsica. Ma la conseguenza maggiore dell’innesto del sistema politico clanico nell’egualitarismo popolare è la disgregazione progressiva della solidarietà paesana. Il processo è complesso, ma è utile riportare alcuni aspetti fondamentali. Innanzitutto, si evidenzia una sfaldatura tra la sfera politica e quella socio-culturale: nonostante tutti i tentativi dei clan per mantenere lo stampo culturale del sistema politico popolare, quest’ultimo ha sempre resistito. Il clan non ha potuto riassorbire mai le inimicizie tra famiglie e villaggi imponendo il proprio potere: di colpo, esse hanno perso il loro carattere pubblico (o indirettamente pubblico) e politico; l’inimicizia è diventata, a poco a poco, un affare “culturale” o “abituale”. Questo piano politico del conflitto tra famiglie o villaggi — che si risolveva nel sistema giudiziale tradizionale e che impegnava la vita politica del villaggio — si è ristretto, si è staccato dall’insieme della vita sociale: dato che il potere reale non derivava più dall’organizzazione dei rapporti di forze tra queste unità, ma proveniva “dall’alto”, la stessa vendetta è diventata sempre più una questione “privata”. Lo scoppio e la diffusione della vendetta sono fuoriusciti dal controllo sociale, diventando una realtà marginale: tutto accade al di fuori della vita comunitaria. Questa situazione si verifica anche nella Corsica moderna: non esiste più la vendetta con i suoi riti e le sue regole, ma nascono delle vere battaglie tra famiglie, senza nessun controllo. Si dice spesso che l’impennata della vendetta nel XIX secolo (la sua proliferazione, il suo snaturamento, l’apertura permanente delle ostilità per ragioni in cui, talvolta, l’onore non era in causa) è dovuto all’assenza di un potere statale forte. Ma quel potere esisteva, così come il suo rappresentante: il clan. La verità è che il potere clanico non poteva risolvere dei conflitti che appartenevano ad un ordine politico diverso dal suo; bisogna leggere nell’esacerbazione della violenza un effetto dell’inadeguatezza del potere clanico ad una realtà politica diversa, che non è riuscita a sottomettere totalmente. La disgregazione della coesione comunitaria si è manifestata anche con il taglio dell’articolazione tra il piano familiare, sociale e politico del villaggio. La preponderanza e la presenza schiacciante del clan ha attenuato il peso politico — necessario all’equilibrio dei poteri nella comunità — delle tensioni interfamiliari. Il potere clanico è dispotico, supremo; il partitu (con il suo rappresentante nel villaggio: il sindaco) detiene la chiave dei problemi di ogni famiglia. Il rapporto di potere nel villaggio passa da un livello orizzontale — distribuito tra famiglie — ad un livello verticale, dal clan alla famiglia. La partecipazione politica della famiglia alla vita del villaggio è circoscritta dal potere clanico. Dato che la solidarietà interfamiliare non può più esercitarsi sul piano politico del villaggio, ogni famiglia ripiega su se stessa: la forza di separazione (fissione) prevale allora su quella dell’unione. La famiglia diventa, così, il rifugio estremo contro tutte le ingiustizie, l’unico settore in cui l’individuo può trovare ancora della solidarietà, l’estremo bastione contro i poteri discriminatori del clan. Questa situazione — e lo Stato su cui poggia — ha distrutto la vita comunitaria della Corsica. «Ognuno per sé» — ecco la regola della vita sociale attuale; «tutti contro tutti»: l’invidia ha libero sfogo, non esiste possibilità d’azione individuale. Sorgono allora dei comportamenti da parata che girano a vuoto, delle manifestazioni di sbaccata senza reali manifestazioni di potere. Ognuno continua, secondo i modelli culturali tradizionali, ad affiggere dei segni di potere, ad affermare i propri diritti, ma senza avere la possibilità di esercitarli realmente. Si è perso il potere, resta lo sbruffo, la parodia del potere. Il popolo corso, che ha sempre avuto un ancestrale senso dell’onore, ha perduto ogni reale potere decisionale. Questo sconvolgimento, caratteristico della Corsica moderna, la trasformazione degli atteggiamenti e delle gestualità del potere in segni apparenti è frutto dello schiacciamento del vecchio sistema politico da parte del clan e dello Stato che lo sostiene. Nel popolo resta oggi la violenza dell’incomprensione, la rivolta ed il rifiuto dell’imposizione esterna, che cerca dei nuovi sistemi di controllo. § 5. L’origine del clan Dal confronto degli schemi precedenti, abbiamo notato la corrispondenza di due dinamiche contraddittorie. Nel lungo periodo, è la segmentazione clanica a prevalere sulla segmentazione egualitaria. Di quest’ultima non resta, d’altronde, che una tendenza globale all’unione (ed alla divisione) degli individui, nei momenti in cui entrano in gioco le antiche molle del sistema politico tradizionale. Con la scomparsa di unità amministrative come le pievi, con la distruzione della famiglia, con l’assorbimento del suo ruolo politico nel clan e con la devitalizzazione dei villaggi, è stato disgregato tutto

26 La dinamica segmentaria gioca spesso in questo modo: le rivalità tra gli abitanti di villaggi diversi (spesso vicini) scatenano degli affronti; attraverso le solidarietà familiari, che formano delle trame che si estendono su altri villaggi della pieve, la primitiva rivalità si allarga fino a diventare una guerra tra blocchi di villaggi opposti. Ecco un esempio, nel XIX secolo: «Una discussione che prese presto un carattere tale da scaldare gli spiriti, si era alzata tra i fratelli Dari di Taglio ed i fratelli Marchetti di Isolaccio. Si trattava di una mucca catturata da questi ultimi e richiesta dai Dari. Dopo avere scambiato alcune parole, essi corrono alle armi; si tiravano colpi di fucile da una parte all’altra, ed uno di essi ha raggiunto una sfortunata, estranea alla contestazione. L’irritazione era al culmine. Si temeva un attacco generale tra le due frazioni di Taglio ed Isolaccio. Si era già sentito il suono del corno marino, campana a martello dei montanari corsi. Ogni partito aveva avvertito i parenti e gli amici dei paesi vicini per la terribile lotta che stava per iniziare. Aspettando, essi si osservavano accuratamente, si tenevano sulla guardia; qua e là si vedevano degli individui che prendevano posizione e si mettevano in imboscata nei dintorni di Taglio ed attorno ad Isolaccio. Alcuni abitanti del villaggio di Porri, attaccati alla famiglia Marchetti, erano accorsi, armati di tutto punto, per prestargli assistenza. Tutto annunciava l’inizio di uno scontro insanguinato...». Gazette des Tribuneaux, 23 septembre 1840, audience du 30 juin de la Cour d’Assises de Bastia, citato da SORBIER P., Dix ans de magistrature en Corse, Agen 1863, p. 206.

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il sistema politico tradizionale e la sua dinamica. Il clanismo ha congelato così a fondo la politica corsa e si è talmente ben adattato al sistema francese, che al giorno d’oggi agisce soltanto la segmentazione politica. E tuttavia il clan è alle prese con numerosi cambiamenti: la storia passata e la storia recente — con l’emergenza del nazionalismo — lo provano ampiamente. Comprendere questi cambiamenti costringe ad un esame attento del funzionamento del sistema clanico fin dalle sue origini. Ci si accorge allora che il funzionamento globale dei due schemi diventa più complesso. Il clan non si è costituito dell’esterno, con l’aiuto del potere straniero; questo ha favorito, certo, il suo sviluppo e gli ha impresso alcuni tratti, ma non l’ha generato. La sua origine, che deve essere cercata all’interno della società corsa, condiziona direttamente, e fin dall’inizio, la segmentazione egualitaria, che subisce una distorsione essenziale: il clan la usa a suo profitto e, sfruttando il movimento di fusione verso l’alto, costruisce i mezzi per la propria estensione. A partire dal basso (dalle famiglie), i clan organizzano dei vasti gruppi di potere che comprendono le famiglie, i villaggi e le pievi. L’origine del clan non è molto chiara. Potrebbe essere duplice: da una lato, esso deriverebbe dell’accumulazione di potere delle famiglie notabilari dei Caporali, capi delle pievi della Terra di Comune, eletti dal popolo. Da protettori e giudici delle comunità, i Caporali si sarebbero trasformati in Signori o Governatori, sfruttando le popolazioni e rendendo ereditarie le proprie cariche. Questo processo si accompagna ad un arricchimento costante e molteplice: le famiglie dei Caporali di origine popolare si presentano già, nel XVI e nel XVII secolo, come le vere famiglie signorili, con pretese di nobilitazione (e conseguente rivalità con l’antica aristocrazia del Sud, che vuole occupare un rango superiore nella gerarchia della rappresentatività del potere genovese)27. Come si sono costituite queste grandi unità politiche che oggi formano i clan? Ambroggio Rossi ritiene che esse derivino dalle guerre di vendetta: alcune famiglie, afferma Rossi, cercando di rinforzarsi contro le famiglie nemiche, si sono unite per comune interesse, nonostante l’assenza di legami di parentela: questo ha spinto i capifamiglia ad abdicare il proprio cognome e ad adottare il “nuovo” cognome della lega (o albergho)28. Questa nota di Rossi indica un processo preciso, di cui possiamo tracciare le linee generali: 1) La necessità di costituire delle leghe deriva dalle guerre tra famiglie; i nuovi gruppi si formano per necessità di vendetta. Da ciò deriva una trasformazione notevole delle forme di solidarietà familiare, dato che la vendetta obbliga i membri di una stessa famiglia fino al terzo grado incluso. La lega supera questo grado e crea verosimilmente una solidarietà che va oltre il legame familiare. 2) Per la stessa logica della trasformazione, le famiglie cambiano il cognome: il cognome, che è l’emblema dell’onore e del sangue, ora investe un altro tipo di associazione e di rapporti. Si può pensare che all’inizio la lega tendesse a funzionare sul modello della solidarietà familiare, secondo i legami del sangue. Tuttavia, essa non poteva diventare un’altra famiglia o un’unità familiare estesa, perché ogni nucleo continua a preservare la propria autonomia, la propria genealogia, a praticare i riti funebri dei morti ecc. Tutto questo perché la costituzione della lega trasforma gli obiettivi della lotta: formatasi per parare i pericoli delle inimicizie particolari, la lega si è mantenuta stabile anche in tempo di pace, trasformandosi da organizzazione guerriera in organizzazione politica. Conseguentemente fanno la loro prima apparizione i capi-clan, che devono sostenere spesso il ruolo di mediatori (paceri) per acquietare le inimicizie tra le famiglie dello stesso clan. Del resto, Rossi segnala la mutazione delle norme guerriere: «essi adottano certe regole militari», ed evidentemente le regole prescritte dalla vendetta subiscono un cambiamento. Tutte queste trasformazioni vanno a turbare il movimento segmentario di fusione famiglia-villaggio-pieve-paese. Come afferma ancora Rossi, le leghe comprendevano parecchi «paesi e pievi». Il territorio della vendetta si allarga e le opposizioni tra clan proseguono contro il processo di fusione famiglia-villaggio-pieve. Interi villaggi possono dividersi in due, ed ogni metà unirsi alle metà di altri villaggi, a villaggi interi, o ancora ai comuni di un’altra pieve, sfaldando il territorio politico. Si prenda come modello del processo il seguente movimento: a) due famiglie di uno stesso villaggio entrano in guerra; b) ciascuna di queste famiglie trova dei rinforzi in altri villaggi, dove si fronteggiano altre due famiglie. Sul piano della pieve prende forma, allora, un altro schema segmentario che divide queste unità politiche: secondo la segmentazione egualitaria, invece, esse tenderebbero ad unirsi. Ne risulta uno sfaldamento della tendenza alla fusione: uno stesso villaggio si trova diviso a metà ed ogni fazione si unisce ad una parte del villaggio opposto per combattere la fazione concorrente della propria comunità. Se una delle due tendenze alla fusione (secondo la segmentazione egualitaria e quella clanica) non trova un punto di fuga verso l’alto, cioè, se il rapporto tra il potere popolare ed il potere clanico si annulla, esplode l’anarchia: le famiglie si dividono in solidarietà contrapposte, gettandosi ora da una parte, ora dall’altra. Si verificano allora dei voltafaccia repentini, degli affrettati cambiamenti di fedeltà; oppure si scatenano delle rivolte popolari, particolarmente dure contro le famiglie dei capi-clan: il popolo si ritrae da combattimenti che avverte estranei ai propri interessi: le cronache di Giovanni della Grossa e di Filippini sono ricche di questi dettagli. La posizione dei Caporali di fronte al potere dello Stato resta ambigua: ora lo combattono — quando questo potere, volendo rompere l’influenza del clan sulle popolazioni, tende a schiacciarlo —, ora si riavvicinano — quando sperano di ottenere dei privilegi particolari29. Ed i capi-clan ricevono spesso dei benefici dal potere straniero che, naturalmente, si ritorcono contro il popolo (rafforzando la divisione in fazioni nemiche, mantenendo la sfaldatura che ha permesso l’estensione dei loro feudi e della clientela nel sistema politico popolare ed impedendo, al più alto livello della dinamica 27 Vd. POMPONI F., Essai sur les notables ruraux en Corse au XVIIe siècle, Aix-en-Provence 1962. 28 «Queste soleano unirsi in leghe di più parentadi con interessare interi paesi e pievi, ed usando certe regole militari»; ROSSI A., op. cit., lib. VIII, p. 307; v. anche lib. I, p. 311. 29 L’oscillazione tra queste due tendenze spiega, per esempio, l’ambiguo atteggiamento di certi capi della prima Rivoluzione corsa, all’inizio del XVIII secolo.

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di questo sistema, l’unione di tutto il Paese)30. Possiamo così delineare tre grandi movimenti nella dinamica politica corsa, che corrispondono ai tre strati di potere della società insulare ed ai tre tipi di segmentazione che abbiamo appena descritto: due “dal basso verso l’alto”, ma non coincidenti, ed il terzo “dall’alto verso il basso” (dalle divisioni politiche straniere alla segmentazione clanica) con le seguenti estrinsecazioni: 1) il popolo può unirsi allo Stato straniero per bloccare il potere dei clan; si assiste allora alle lotte tra le pievi governate da regimi popolari contro i Signori che tengono altre pievi sotto il loro ascendente; 2) i capi-clan possono, in alcuni casi, diventare i difensori delle aspirazioni popolari ed unirsi in un combattimento comune contro lo Stato; 3) i clan, minacciati dal sollevamento popolare, si schierano dalla parte dello Stato, contrastando il movimento di fusione della segmentazione egualitaria. Questi tre casi-limite possono coesistere in uno stesso periodo, dato che i clan non costituiscono un potere unitario, ma una serie di poteri con una relativa autonomia.

Figura 47: La pieve di Taravo nel 1740 (Nouvelle carte de l'Isle de Corse apartenante a la Republique de Genes. Presentement divisée et soulevée, sous les ordres du baron de Neuhoff, élu roy sous le nom de Theodore Premier / donnée au jour par Renier et Iosué Ottens. Cermoires et ordres de chevalerie du roy Theodore premier). § 6. La dinamica segmentaria nel XVIII secolo Le Memorie di Sebastianu Costa, che descrivono gli avvenimenti antecedenti alla proclamazione dell’indipendenza da parte di Pasquale Paoli (1759) danno un’idea sorprendente della complessità di questa dinamica politica31. Esse riescono a mostrare il doppio movimento segmentario e la sua articolazione con la molla fondamentale della struttura egualitaria della società corsa: l’invidia. Costa descrive, per così dire, “a caldo”, la guerra delle invidie e l’equilibrio egualitario proprio nel momento in cui la divisione clanica stava per essere rafforzata dal potere straniero. Scritte per «far rivivere (...) gli sforzi dei corsi per sottrarsi alla servitù genovese», le Memorie hanno il vantaggio di prospettare al lettore la storia della Rivoluzione corsa nel suo divenire: Sebastianu Costa ci permette di seguire, quasi giorno dopo giorno, il doppio movimento che trascina ora le popolazioni verso il compromesso con Genova, ora verso la rottura e la ricerca di un potere politico indipendente32. Il fatto che il memorialista sia stato uno dei protagonisti degli 30 In certe circostanze — come all’epoca della rivoluzione per l’indipendenza — i capi clan possono diventare i rappresentanti delle popolazioni in lotta contro lo Stato e spingere alla conclusione naturale il processo di fusione: in quel periodo, tutte le divisioni intestine (le famiglie in un villaggio; i villaggi in una pieve; le pievi nell’isola) si dissolvono. Ma anche in quel momento non esiste coincidenza tra la segmentazione egualitaria e la segmentazione clanica: si tratta piuttosto di un processo accelerato di fusione delle unità politiche. 31 Vd. LUCIANI R., Mémoires de Sebastianu Costa (1732-1736), édition critique, Aix-en-Provence/Paris 1972. 32 «...La Corsica era piena di persone che avrebbero venduto la loro patria, ma che riunite, l’avrebbero difesa fino alla morte...», scriveva un ufficiale di Piccardia. Cfr. Mémoires historiques sur la Corse par un Officier du régiment de Picardie, 1774-1777, «B.S.S.H.N.C.», 100-102 (1889), p. 12.

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avvenimenti, aggiunge interesse al racconto: trovandosi tra quelli che non hanno ceduto mai alla tentazione dell’accomodamento con il potere genovese, ma non avendo una base sociale nell’isola che gli permettesse di alzarsi al rango di capo della nazione, Costa cerca di motivare, con la necessaria distanza, le ragioni dell’insuccesso dell’unione nazionale. Le ragioni che Sebastianu Costa riporta continuamente nelle sue Memorie sono: 1) la rivalità tra fazioni; 2) il desiderio di ogni capo di comandare su tutti gli altri. Non bisogna prendere le analisi dell’avvocato “fisionomista” (come si vantava di essere) come delle interpretazioni psicologiche, nel senso odierno del termine: quando Costa descrive le discordie tra i capi guerrieri, il doppio gioco degli uni, la fedeltà indefettibile degli altri, i tradimenti, il desiderio di gloria, le ambizioni, le vigliaccherie, riporta dei comportamenti “tipici” dei corsi, dei veri e propri atteggiamenti culturali. Il racconto di Sebastianu Costa comincia nel 1733. Dopo l’insuccesso della prima rivoluzione, con l’imprigionamento dei suoi quattro principali capi — Andrea Ceccaldi, Luigi Giafferri, il Reverendo Carlo Raffalli ed il pievano Giovanni Aitelli —, poi con la loro liberazione, la Corsica sembra pronta per una nuova, grande ondata rivoluzionaria. Essa è guidata da personaggi che avevano condotto la prima rivoluzione (Giafferri ed Aitelli), e da altri capi il cui potere ed il cui patriottismo emergevano su tutti gli altri (Giacinto Paoli, Fabiani, Castineta ecc.). Questi capi hanno la loro zona di influenza nelle rispettive pievi dove, come notabili, possono reclutare dei combattenti; quando le pievi diventano “zone franche” dal potere locale, i capi esercitano la giustizia, prelevano le tasse per la guerra, costituiscono delle milizie con le popolazioni fedeli. Giafferri ha il suo territorio in Tavagna, Paoli nel Rustinu, Fabiani in Balagna. Tuttavia questo potere, anche se corrispondente alla sfera d’influenza di ogni capo, non è affatto diffuso ed omogeneo: le comunità della Tavagna, per esempio, non obbediscono incondizionatamente a Giafferri e quest’ultimo deve contrastare continuamente il potere di altri capi locali schierati a favore di Genova. Appena si sente parlare della defezione di una persona fidata che, ostile ai padriotti, stabilisce dei collegamenti con i genovesi, viene subito predisposta una scorta più o meno imponente di fucilieri per colpirlo a tradimento. Alla prima occasione propizia (un’azione di giustizia, un’accoglienza particolarmente favorevole alle truppe filo-genovesi), il capo fa irruzione nel villaggio “fellone”, brucia la casa del colpevole, uccide alcuni suoi sostenitori e, seminando il terrore, impone di nuovo l’obbedienza alle popolazioni. La divisione dei poteri non è affatto netta e definitiva: la potenza dominante, Genova, occupa Bastia, Ajaccio ed altre città e presidi del litorale; l’interno, dove i capi nazionali sono riusciti a stabilire il loro dominio, formicola tuttavia di enclavi non conquistate alla rivoluzione o pronte a tradirla. Tutto il lavoro dei genovesi, all’epoca del loro declino militare — essi perdono battaglia su battaglia —, consiste nel favorire le divisioni nascenti tra i capi patrioti. La loro astuzia, la loro seduzione, le loro offerte costanti di alte cariche in cambio della pace e della sottomissione, gettano l’agitazione tra i corsi, esasperando le rivalità interne. Da allora, la rivoluzione naviga tra due scogli: il compromesso con Genova ed il desiderio di imporre all’interno del movimento nazionale il proprio partito: ecco le tentazioni che contraddistinguono la maggior parte dei capi ribelli. Queste due tendenze contraddittorie rendono impossibile l’unione nazionale. Apparentemente sembrano tendenze caratteristiche di ogni movimento rivoluzionario, ma il modo in cui si manifestano nel corso delle lotte per l’indipendenza del XVIII secolo è decisamente originale: esse sono radicate nell’organizzazione politica della società corsa. Il problema affrontato da Sebastianu Costa che, tra gli intrighi e le rivalità delle fazioni, cerca solamente il “bene comune” (egli sostiene spesso il ruolo di mediatore), era quello di realizzare l’unione dei notabili/capi guerrieri. Osservando attentamente i sentimenti dei suoi compatrioti, Costa ha rintracciato la causa delle divisioni: è «l’invidia, l’ambizione, che si insediava a poco, a poco nei cuori dei corsi e li dominava ogni giorno»33; è la «rivalità del potere»34, l’invidia, che spinge Giacinto Paoli ad opporsi a Giafferri, suo compagno nella lotta di liberazione nazionale: impedendogli di condurre delle spedizioni punitive in Tavagna, egli cerca di evitare che il suo “amico-rivale” sia circondato dalla gloria. Parimenti, Arrighi si rifiuta di partecipare all’assalto del presidio di San Pellegrinu, perché «le meschine ragioni dell’amor proprio e gli enormi torti della superbia fecero tutta la loro impressione su uno spirito che pensava solamente ai mezzi per rinforzare il suo partito sulle montagne per contrastare quanto più possibile Paoli»35. Inutile moltiplicare gli esempi. È la gelosia che oppone costantemente un capo (una fazione) all’altro, ritarda le operazioni, provoca gli insuccessi. Ma ci sono due tipi di invidia, due modalità con cui si manifesta: la prima oppone, all’interno del movimento nazionale, un capo all’altro; la seconda permette di instillare il tradimento fra i corsi, attraendo una fazione, che aveva lottato fino a quel momento contro i genovesi, nel seno della potenza dominante. La speranza di ottenere un alto grado militare nella gerarchia genovese rompe spesso, infatti, la fedeltà patriottica. C’è qualcosa di apparentemente incomprensibile in questa «incostanza» dei corsi, come afferma Sebastianu Costa. Come comprendere l’atteggiamento di un patriota come Gian-Giacomo Castineta che, dopo aver combattuto coraggiosamente per la causa corsa è pronto a presentarsi dal commissario genovese Rivarola, di recente chiamato a Bastia? C’era, è vero, l’opposizione dei “compari”36; ma questa era una ragione sufficiente per ostinarsi ad impedire l’attacco del presidio di San Pellegrinu, che avrebbe inferto un

33 Vd. LUCIANI R., Mémoires de Sebastianu Costa cit., p. 281 34 Ivi, p. 267. 35 Ivi, p. 827. 36 Ivi, p. 773.

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colpo terribile ai genovesi? Rivarola riesce nell’impresa e quando i corsi si decidono ad attaccare il presidio è ormai troppo tardi. Castineta aveva ceduto alle promesse di «grandi ricompense» che gli aveva fatto, per lettera, il governatore genovese, ritardando il progetto contro San Pellegrinu e imponendo una spedizione contro Campuloru. Lo stesso Castineta cerca di contrastare la spedizione di Campuloru; ma al momento del combattimento il suo comportamento cambia: «lo squadrone di Castineta, fin dai primi spari mostrò poco ardore e si allontanò dalle mura [di U Poghju] (...) solo M. Fabiani mostrò il suo valore; egli attaccò deliberatamente»37; Castineta abbandona la sua postazione e si ritira; Fabiani riesce ad aprire una breccia e ad entrare nel villaggio fortificato; Castineta allora torna nella sua postazione e «incoraggiando il suo squadrone con l’esempio di M. Fabiani, che provoca l’invidia generale, si impossessò delle mura della chiesa...»38. Castineta riprende dunque attivamente il partito dei corsi, mentre doveva, verosimilmente, fare il gioco dei genovesi. Nel comportamento dei capi guerrieri c’è un costante desiderio di potere. Ma questo desiderio non mira, paradossalmente, al dominio sugli altri a vantaggio di uno solo: non si tratta di intrighi di palazzo per accedere ad un potere esclusivo; non si tratta nemmeno, per Paoli, di diminuire l’influenza di Fabiani sulla Balagna per prendere il suo posto: non esiste un potere costituito, una struttura statale da conquistare. La situazione della Corsica, in questo periodo, è quella di un paese colonizzato in rivolta, che tenta di elaborare un potere nazionale a margine del potere dell’occupante. Ciò determina la prima caratteristica di queste lotte per il potere: i capi non mirano a conquistarlo, poiché non è costituito; mirano al prestigio e, innanzitutto, al prestigio guerriero. Il gioco delle rivalità diventa così un’oscillazione continua tra le spinte verso il potere e l’arresto di questo slancio nel godimento del prestigio. Ciò che sorprende in queste lotte di invidie è proprio il secondo movimento: ci si contenta di “segnare il punto” davanti all’altro capo. Se un capo aumenta il proprio prestigio grazie ad un combattimento, sbilanciando l’uguaglianza di base, arriva un altro che vorrà fare altrettanto e di più, contrastando il prestigio nascente del primo. I due movimenti sono contemporanei: nel tentativo di fermare l’incremento del prestigio di un capo rivale, ristabilendo l’equilibrio egualitario, c’è la tendenza ad accaparrarsi tutto il prestigio possibile. Quando Arrighi, in collera contro Giacinto Paoli, decide di tornare sulle sue montagne — nel Rustinu, territorio che condivide con Paoli — lo fa per fermare la diffusione del prestigio del generale, che minaccia di assorbire completamente il suo. La lotta per il prestigio non concepisce uguaglianza. Tuttavia, se l’accaparramento esclusivo del prestigio guerriero non si accompagna ancora ad una lotta per il potere, esiste già un territorio (geograficamente, militarmente e politicamente determinato), dai contorni sempre più distinti su cui si concentrano progressivamente le diverse rivalità: la sfera del potere nazionale corso. Questo campo di battaglia si presenta, sul piano immediato della lotta per il prestigio, come una scena (uno spazio reale analogo allo spazio pubblico della sfida e della parata, nel villaggio). Ogni capo cerca la gloria, un incremento della propria influenza e del proprio splendore con prodezza guerriera; il riflesso della fama è rintracciabile ovunque: dall’entusiasmo delle popolazioni, dai gesti, dall’atteggiamento, dal comportamento e dalle parole degli altri capi, di rango superiore o inferiore. Questa immagine basta a soddisfare la propria invidia, perché, per un effetto strano, eclissa totalmente l’immagine dei rivali. Nello spazio della parata, l’invidia si riflette in se stessa; non ci si paragona più all’altro, ma si afferma il valore singolare, l’autonomia guerriera. Questo spiega perché certi capi, come Fabiani, si accontentino pienamente del proprio valore guerriero e, più generalmente, perché la lotta per il prestigio, in cui tutti si trovano impegnati, non si trasformi in guerra per il potere. L’effetto “a specchio” riproduce la doppia tendenza che abbiamo rievocato, verso l’arresto della lotta e verso la sua continuazione. Nel primo caso, entra in azione un meccanismo egualitario: ciascuno, lottando per il prestigio personale, si accontenta della fama, lasciando agli altri la libertà di fare altrettanto nello stesso territorio. Così, in certi momenti, si assiste ad una forma di tregua e di unione di tutti i capi; le gelosie cessano, le rivalità spariscono; ognuno si rallegra di sé e si complimenta con gli altri per il loro coraggio e le loro prodezze. L’invidia non ha più libero corso, poiché ciascuno ha aumentato il proprio prestigio. In questi momenti, si forma una scena nazionale che ingloba armoniosamente le scena territoriale dell’influenza personale e la scena della sfida tra i capi: è un effetto del movimento segmentario di fusione di tutte le unità politiche. Si arriva all’uguaglianza nel quadro generale del prestigio del movimento corso. Ma l’altra tendenza è altrettanto presente: agendo dall’esterno, arriva al cuore della corrente nazionale. Essa proviene dal potere oppressore, da Genova, che propugna la pace ed i benefici, i vantaggi della ricchezza, del prestigio e del potere. E, soprattutto, introduce un altro ordine di prestigio: non quello derivato della guerra, ma quello derivato da una situazione di potere: un alto rango nell’amministrazione o la nobilitazione. Queste promesse attirano i corsi, anche perché l’incertezza sull’esito del combattimento contro un potere presente da quattro secoli non fornisce nessuna garanzia sulla condizione dei notabili. L’azione di Genova, sotto questo aspetto, consiste nel progettare un’altra scena davanti ai corsi, un altro specchio in cui i capi possono contemplare la loro immagine. Chiaramente si tratta di una scena sempre presente agli occhi dei corsi, anche se le estorsioni, l’ingiustizia ed il rifiuto di nobilitare le famiglie l’hanno screditata nel corso dei secoli. Alle prime avvisaglie del pericolo, Genova si prodiga a trasformare l’immagine del potere, fingendo di metterlo al servizio dei corsi. Questo dato emerge chiaramente dalle Memorie di Sebastianu Costa. In un discorso di Giacinto Paoli, la tensione tra le

37 Ivi, p. 817. 38 Ivi, p. 819.

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due scene del prestigio — una interiore, tendente all’esterno; l’altra esterna, tendente all’interno del fronte nazionale — è disegnata chiaramente. Si trattava di scegliere tra l’assalto di San Pellegrinu e l’escursione vendicatrice ad U Poghju, nel Campuloru: «Si ordina comunque la marcia e, al suono dei corni, tutti si radunano sulla piazza della chiesa parrocchiale di Castellana, Santu Niculaiu, per prendere la decisione necessaria. Si fecero molti discorsi; il generale Paoli che voleva attirarsi la benevolenza generale, mostrando di accogliere le voci ed i pareri di tutti, pronunciò una breve allocuzione: “Popoli amati, vi dedico queste ultime parole sulle nostre dispute attuali, che dividono gli spiriti sensati su quale delle due operazioni che dobbiamo scegliere sia più facile e più utile. (...) È tempo che facciate conoscere ai Signori genovesi che il nome “corso” non è così meschino come essi hanno ritenuto di far vedere alle nazioni straniere. A voi stessi, corsi, con la vostra umiltà, spetta il compito di mostrare le ragioni di questo nome, per renderlo sempre più glorioso ed illustre. (...) La lode non è altro che una testimonianza di stima per le opere che la meritano veramente; dunque per essere correttamente e ragionevolmente lodati, non c’è altro mezzo che operare valorosamente. E se, per l’ingratitudine o l’invidia dei genovesi, la vostra virtù è stata fino qui misconosciuta, che il passato non vi turbi, ma che l’avvenire vi incoraggi. Siate certi che, anche se l’invidia acuta dei genovesi ha privato la vostra virtù dal suo tributo di lodi, non gli toglierà mai l’onore. Perché la virtù, anche se non lodata, risplende da sola ed irradia i suoi potenti raggi per ferire quelli che la guardano malvolentieri — i genovesi — e per rallegrare quelli che l’amano — tutte le altre nazioni”»39. Paoli mostra la necessità di armonizzare le due scene del prestigio. La scena esterna, guidata da Genova, impedisce la formazione di una scena interiore nazionale. Non basta «operare valorosamente» e ricevere la lode dei compatrioti; occorre una scena esterna su cui far riecheggiare il nome corso affinché, proprio con il prestigio di questo nome, si realizzi l’unione di tutti i patrioti. Emerge allora un filo-rosso che va dall’interno all’esterno della mentalità corsa: la logica dell’incremento del prestigio e del riconoscimento. Questo filo deve tessere la scena, lo spazio globale in cui sciogliere le rivalità tra fazioni e le dispute (discurdie); se non si costruisce questo spazio, o se prevale uno schermo divisorio tra i corsi (scena interiore) e le nazioni (prolungamento di questa scena verso l’esterno), sorge allora il pericolo che rinascano le fazioni40. Questo schermo è costituito dalla scena proposta da Genova (una scena fatta di promesse, di poteri e di ricchezze) a scapito del sentimento nazionale. La scena nazionale, a detta di Paoli, deve essere prolungata armoniosamente verso l’esterno. A causa di un potere straniero dominante (Genova), i corsi non hanno la possibilità di ottenere il prestigio che ambiscono nello spazio del potere pubblico (o nei rapporti con la Dominante); di conseguenza, all’interno del fronte nazionale, del territorio socio-politico corso, proliferano le divisioni. Il taglio esterno-interno, non potendo estendersi secondo la dinamica della segmentazione egualitaria, si riproduce nel fronte interno, opponendo i corsi gli uni agli altri: la scena nazionale, volta all’esterno, dipende dalla dinamica della segmentazione, che esige la costituzione di unità politiche sempre più vaste. La doppia faccia, interna ed esterna, della famiglia, si trasforma nello spazio pubblico del villaggio, poi nello spazio nazionale, ognuno con il suo lato esterno ed interno. Così, ad un livello più alto, nasce il bisogno di sentire una “scena internazionale”— che rappresenta non solo uno specchio per il prestigio ma, nella trasformazione del prestigio in potere, uno spazio di potere. Le Memorie di Sebastianu Costa permettono di intravedere due movimenti contraddittori: uno che tende verso l’unità nazionale, verso la fusione dei corsi e lo scioglimento delle fazioni; l’altro che fomenta ogni giorno nuovi partiti e nuove rivalità. Queste tendenze corrispondono alle due segmentazioni già esposte. Il racconto di Costa descrive le esitazioni, le oscillazioni dei notabili trasformati in capi guerrieri. Essi ora giocano il ruolo di rappresentanti eletti dal popolo e seguono la logica della segmentazione egualitaria, guerreggiando per l’unità nazionale; ora si arrabbiano come capi-clan, vendono il loro vassallaggio al potere straniero e sposano la logica della segmentazione dall’alto, lasciando aperte tutte le sfaldature tra le fazioni. Tutto sembra girare attorno all’idea di prestigio: questa è la vera base del potere. Le apparenti contraddizioni sono soltanto espressione dei due principali modelli di prestigio, che cercano di imporre il rispettivo potere negli incerti anni della rivoluzione. In determinate condizioni sociali e storiche, predomina la prima tendenza: si assiste allora alla ribellione generale del popolo ed al tentativo di fondare l’unità nazionale. In altre circostanze, il movimento inverso prende il sopravvento: le rivalità pullulano, ciascuno si oppone al suo vicino, lo sfaldamento dei partiti si moltiplica all’infinito, proliferano i conflitti. Infine, è possibile che i due movimenti segmentari si oppongano direttamente, in un determinato periodo storico: in questo caso prevale l’anarchia41. I modelli descritti chiariscono la dinamica conflittuale della società corsa. La loro applicazione favorisce la costruzione di sub-modelli: in questo risiede, forse, la loro pertinenza alla realtà. Se, per esempio, si adoperano quegli schemi come

39 Ivi, p. 805. 40 Descrivendo i costumi dei corsi, Pietro Cirneo afferma: «Nemici nella loro patria, essi. Sono, fuori dalla loro patria, amici come fratelli. Avidi di cambiamento, preferiscono la guerra alla pace; se non hanno dei nemici stranieri da combattere, cercano di fare nascere la guerra civile». Vd. CYRNEO

P., De rebus corsicis cit., p. 50. 41 Riferendosi all’importanza della vendetta nel periodo che abbiamo appena rievocato - l’inizio della Rivoluzione corsa del XVIII secolo —, G. Salveti descrive nettamente l’urto delle due tendenze segmentarie: «Ma se le inimicizie tra l’uno e l’altro comune [di Venacu e di Nuceta] diventavano, col passare degli anni, più rare, quelle tra le famiglie apparivano più durature durante le lotte politiche, mentre all’epoca dei disordini civili capitava che o una fazione cercava la protezione del governo, o il governo cercava l’appoggio di una delle fazioni e, quando non poteva attirare una delle due, divideva ciascuna di esse in due tronconi. Così, si vedeva la parte di una stessa fazione sostenere il governo contro i ribelli e l’altra sostenere questi contro il governo. Nessun dato chiarisce meglio la tenacia delle inimicizie private di questo fatto curioso: quando gli uomini di una stessa fazione prendevano chi il partito del governo, chi quello dei ribelli, sebbene fossero sotto due bandiere nemiche, si ritrovavano di nuovo d’accordo gli uni con gli altri nella loro inimicizia particolare, facendo una sorta di congiura alla fazione opposta, sia che questa fosse alleata dei ribelli che della Repubblica [di Genova]». SALVETI G., La vendetta in Corsica, edito a cura dell’Ass. «Gruppi di Cultura Corsa», 1952, pp. 34-35.

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punto di partenza per l’analisi dell’epoca paolina, ci si accorge della complessità del gioco delle fazioni, dei clan e delle inimicizie e del modo con cui Pasquale Paoli ha dovuto risolvere questo problema, rompendo la dinamica clanica e quella delle vendette popolari, realizzando l’unione nazionale contro il nemico straniero. Non si può dire dunque, semplicisticamente, che l’unione nazionale sia il risultato della segmentazione popolare egualitaria. Emergono inevitabilmente altri problemi, come quello dello slittamento della vendetta provocata dalla giustizia di Genova; o quello, più generale, della compatibilità tra il potere statale ed una forma di potere egualitario segmentario: gli aspetti della Costituzione di Paoli, dell’organizzazione giudiziaria, politica e militare si comprendono solo alla luce del confronto tra il suo progetto politico — la formazione di uno Stato indipendente, la pacificazione del corpo sociale, lo schiacciamento dei clan — e le contraddizioni delle tendenze segmentarie della società corsa. Il generale era costretto a sfruttare i clan, le famiglie o le masse contadine a seconda dei casi e delle esigenze di governo: l’isola partecipava in maniera diversa alla gestione del potere politico a seconda della struttura economica, sociale ed amministrativa delle comunità. L’attività politica di Paoli, che non può essere definita unicamente come “dispotica”, “democratica”, “giustizialista” o “giurisdizionalista”, mirava all’obiettivo primario dell’indipendenza dell’isola. L’analisi della Rivoluzione corsa secondo questa prospettiva porta un’intelligibilità nuova ai movimenti profondi della società corsa. § 7. Clan e partiti Dalla lettura delle varie “Storie” della Corsica che trattano del XVIII secolo, si ha solamente una pallida idea dei cambiamenti straordinari che ha subito la società insulare con l’occupazione francese. Questa occupazione si distingue da tutte le precedenti perché ha provocato un profondo cambiamento di mentalità e perché ha esasperato la resistenza del popolo corso, al punto che la situazione non si è sedata nemmeno ai nostri giorni. Si usa abitualmente un termine specifico, complesso, difficilmente percepibile per l’evoluzione sociale e politica: l’«integrazione» della Corsica alla Francia. Si tratta in realtà di diverse integrazioni, di cui l’ultimo esempio, sul piano istituzionale, è la fallita approvazione dello «statuto particolare». Si tratta di un processo difficilissimo: se si segue il percorso tracciato dalla rivoluzione, composto da tre organizzazioni di potere che costituiscono il sistema politico corso — uno popolare e comunitario, un altro clanico ed uno straniero e statale —, ci si accorge che dopo la disfatta di Ponte Novo (1769) che sancisce il dominio francese sull’isola, lo sfruttamento, la resistenza ed il terrore non provengono sempre dalla stessa direzione. La corrente nazionale e popolare si esprime in due direzioni principali: ribellioni collettive contro la legge dello Stato (che possono andare dai sollevamenti di villaggi interi contro le forze dell’ordine per diverse richieste come la coscrizione, all’inizio del XIX secolo, o l’interdizione della vana pastura), fino alle campagne guerriere che impegnano parecchie pievi, capi degli eserciti o delle milizie (come la “Guerra del Fiumorbu”, che, tra il 1815 ed il 1816, ha mantenuto un’intera provincia in stato di insubordinazione); esistono poi le rivolte individuali, che si manifestano nel banditismo, vera espressione della componente «nazionale» corsa. Anche se queste due direzioni talvolta si incrociano (un bandito, per esempio, nega di mettersi al servizio della repressione dello Stato)42, la resistenza popolare può prendere delle espressioni politiche sorprendenti: il comandante Poli, capo degli insorti del Fiumorbu, non si è schierato contro la Restaurazione in nome della sua fedeltà a Napoleone (la cui politica corsa, tra l’altro, si può riepilogare in tre parole: sfruttamento degli uomini come carne da macello, abbandono e repressione). Il banditismo d’onore si tramuta rapidamente, fin dall’inizio del XIX secolo, in banditismo di racket, prendendo talvolta le peggiori forme del gangsterismo politico. Se volgiamo l’attenzione verso i clan ed il potere francese, si nota subito che, fino all’ascesa di Napoleone III, né l’Ancien Régime, né la Repubblica, né l’Impero, né la Restaurazione, né la Monarchia di Luglio hanno potuto insediare pienamente il potere dello Stato francese in Corsica. L’instabilità politica dei regimi che si succedevano a Parigi ha contribuito sicuramente; ma hanno giocato anche altri fattori, non ultima l’ambizione dei clan di regnare sull’isola. Così si assisteva a lotte infinite, scrupolose e barocche tra gli agenti dello Stato (prefetti, viceprefetti, comandanti militari, commissari di polizia) ed i notabili locali, che seminavano la discordia tra i primi43; molto rapidamente, di fronte alla ragnatela intessuta dai clan per impossessarsi del potere, di fronte al banditismo dilagante di anno in anno e davanti all’insuccesso della politica, che manifestava un’evidente incomprensione dei problemi dell’isola, lo Stato si è dichiarato impotente. I prefetti fuggivano44; le commissioni di inchiesta sulla situazione in Corsica si succedevano senza soluzione di continuità. Quando esplose la rivoluzione del 1848, la Francia era pronta a lasciare la Corsica45. Paradossalmente — ma è soltanto un paradosso apparente — l’integrazione dell’isola si è attuata grazie ai corsi, o meglio, grazie, essenzialmente, ai clan. Innanzitutto bisogna considerare la figura di Napoleone I e la sua lunga storia, piena di insegnamenti sull’evoluzione dell’atteggiamento francese nei confronti della Corsica: egli inaugura la serie di vicoli ciechi che, a poco a poco, costringe i corsi ai comportamenti politici “schizofrenici” che vediamo oggi, quando votano il clan per «votare corso».

42 Fu il caso del bandito Carchetto, durante la guerra di Fiumorbu. 43 «Ogni minuto, ogni istante, si scopre una politica diretta ora contro l’autorità giudiziaria, ora contro l’amministrazione». Vedi La Corse sous la Restauration, les rapports de Constant commissaire spécial de police en Corse (1816-1818), «B.S.S.H.N.C.», 449-452 (1923-1924), p. 102. 44 Tra il 1814 ed il 1830 si sono succeduti nove prefetti. I funzionari, in questo periodo, avevano solamente un desiderio: restare in Corsica il meno possibile. 45 Ciò sarebbe accaduto, probabilmente, se Cavaignac fosse stato eletto Presidente della Repubblica al posto di Luigi Napoleone Bonaparte alle elezioni del dicembre 1848.

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Napoleone non ha unificato la Corsica: l’ha semplicemente sottomessa ad un potere straniero di cui lui era a capo. Poco importava se questo potere fosse corso o francese, tanto più che era ancora viva la memoria dello stato indipendente di Paoli46. Si potrebbe vedere in questa “scelta di campo” lo shock e la fusione forzata degli effetti di due tendenze segmentarie opposte: quella che mira all’unificazione del paese, e quella che l’impedisce, consegnando il comando ad un potere straniero. Napoleone ha risolto il problema (aiutato in questo da una repressione feroce) evitando di trattare gli aspetti economici e sociali di una difficile situazione insulare. Egli è diventato, tra l’altro, un’immensa sorgente di fierezza per i corsi, rivestendo la grande figura mondiale, guerriera e dominatrice, celebrata da tutti i popoli. Napoleone ha trasportato la scena corsa della sfida sul piano internazionale e l’ha ingrandita alle dimensioni di un Impero: ma egli è diventato importante da solo, abbandonando il suo paese natale “alle ortiche”, obbligando i corsi ad una rivisitazione immaginaria, ad un “mito corso” inesistente in Napoleone. In effetti, la sua figura è disgiunta dal movimento reale della comunità: i corsi — quelli che hanno raccolto “l’eredità napoleonica” —, l’hanno dovuta ricostruire in modo immaginario alla loro scala, e questo ha dato origine ad un folclore pietoso, con i suoi riti le sue cerimonie «alla memoria», con canti e majorettes, di cui Ajaccio costituisce lo sfondo simbolico47. Ma Napoleone ha dato origine al bonapartismo, forza politica clanica che ha mantenuto il suo ascendente nell’isola fino alla fine del Secondo Impero. Se Napoleone I inaugura quell’interferenza di riferimenti che è diventata il meccanismo essenziale dell’integrazione ideologica, Napoleone III, traendone profitto, inaugurò la nuova era del clan, che insedia definitivamente lo Stato francese in Corsica. Napoleone III è il grande integratore. Rievocheremo solamente un aspetto della sua politica, che ebbe come effetto il rafforzamento del clan: l’accordo tra il potere amministrativo centrale ed i poteri clanici locali. Fino al 1851, il clan aveva un ascendente solo sulla magistratura48; questo ascendente era soggetto, talvolta, alla mancanza di determinazione di certi magistrati continentali e, soprattutto, alla maggiore o minore indipendenza dei prefetti e viceprefetti nei confronti del clan49. Con Napoleone III, la forza e l’autorità dello Stato si fanno sentire direttamente — e pesantemente — in Corsica, particolarmente attraverso la repressione del banditismo, condotta a tamburo battente da circa 1000 gendarmi; grazie all’infiltrazione dei corsi nell’apparato statale, a Parigi, i dissensi tra funzionari e capi clan si attenuano e spariscono. Fino a quel momento, il prefetto nominato dal governo tendeva a sfuggire le influenze delle fazioni e passava il suo tempo a tentare di bilanciare i due partiti contrapposti, vedendo così la sua azione neutralizzata e ridotta all’impotenza; durante il Secondo Impero la politica dello Stato e quella del clan coincidono50: non ci sono più lotte con i prefetti, spariscono le contraddizioni tra il potere dello Stato e quello dei notabili, il banditismo è domato in pochi anni ed ogni velleità di opposizione (con una coloritura «nazionale corsa» abbastanza difficile da contrastare, come nel caso dei Pinnuti, società segreta in stretto rapporto con i Carbonari italiani — e di cui Luigi Napoleone Bonaparte, prima di diventare Napoleone III, fece parte...) liquidata. Inizia una nuova tappa dell’edificazione del sistema clanico. Per permettere al clan di governare l’isola, occorre predisporre due condizioni essenziali: fare in modo che detenga il potere all’interno dell’apparato statale, ed estendere il suo dominio a tutto il sistema politico corso. La seconda condizione implica l’accaparramento di una terra incognita molto estesa (il potere incontrollato), che raggiunge, all’inizio del XIX secolo, delle proporzioni straordinarie (ben manifeste nella forza del banditismo e delle rivolte popolari); bisogna, inoltre, favorire lo sviluppo del sistema clanico, fornirgli una struttura coerente, elaborando una solida rete di influenze in grado di coprire la popolazione secondo una gerarchia di potere ben determinata, distribuita tra gli agenti del partitu. Questa logica di estensione del clan aderisce perfettamente alle istituzioni politiche insulari, 46 «Il sistema di Paoli vive ancora in molte teste... molte persone pensano ancora che la Corsica possa governarsi e mantenersi indipendente», notava un commissario di polizia nel 1818. cfr. FRANCESCHINI E., La Corse sous la Restauration cit., p. 128. 47 Si riportano alcuni estratti de «L’Ajaccienne», canto alla gloria di Napoleone in onore del ritorno degli esiliati, scritto verso il 1848 e tuttora cantato in certe occasioni festive: «Réveille-toi ville sacrée/La Corse touojurs la première/Dans ton orgueil et ton amour/Après vingt ans d’obscurité/La Sainte Famille est rentrée/Voit le retour de la lumière/Les exilés sont de retour/Le réveil de la liberté/Oh les voici, victoire, victoire/La république les rappelle/ Qu’il soit tête dans sa maison/ L’aigle n’est plus, mais les aiglons/ L’enfant prodigue de la gloire/ A leur tour combattront pour elle/ Napoléon, Napoléon/ Napoléon, Napoléon.... ce fut ici nouvelle Rome/ Que le four de l’Assomption/ Une autre fois Dieu se fit homme/ Napoléon, Napoléon». 48 Questo è ciò che scriveva il commissario Constant, nel 1818: «[Il tribunale di Bastia] è composto da un presidente, M. Pallavicini, da un procuratore del Re, M. Jucherau de Saint-Denys, da tre giudici, Sigg. Froytier, Benedetti e Viale. da due supplenti, i Sigg. Milanta e Galeazzini. I Sigg. Pallavicini e Juchereau sono un tutt’uno; il giudice Viale è stato messo al posto che occupa dai due precedenti. M. Benedetti è troppo povero per avere un parere differente dal loro. I due supplenti sono ai loro ordini, dato che vogliono diventare giudici. Froytier, che è giudice istruttore, è solo contro tutti e sempre battuto. Con il pretesto di alleggerirlo, gli si ritirano tutte le cause raccomandate e tutto si fa per consorteria» (da FRANCESCHINI

E., La Corse sous la restauration cit., p. 54). Il controllo del sistema giudiziario è, da sempre, essenziale al potere del clan. È attraverso la giustizia che esso può sostenere il ruolo di protettore della popolazione di fronte alla legge dello stato. La lotta per questo controllo raggiunge dei livelli straordinari nel XIX secolo e durante la Repubblica. Ecco cosa afferma un magistrato francese riguardo all’importanza della giustizia in Corsica, all’inizio del XIX secolo: «... in Corsica, [la Corte d’assise] offriva lo spettacolo di una lotta accanita tra i querelanti ed i genitori degli imputati, una lotta aperta alle famiglie nemiche, di cui l’imponente apparato della giustizia non poteva contenere l’esaltazione, l’odio e la vendetta. (...) In questa isola, la tranquillità di un’intera popolazione dipendeva talvolta dal verdetto della Giuria. La sentenza delle cause in discussione gettava i comuni nella pace o nella guerra. Si percepiva l’interesse vivo della Corsica ai dibattiti della corte di assise; lì si trattavano i grandi affari dal paese: era la parte vitale del servizio; tutto il resto passava in secondo piano». Estr. da SORBIER P., Dix ans de magistrature en Corse cit., p. 48. 49 Così prende forma una vera lotta tra magistrati locali e magistrati continentali durante la Restaurazione e la Monarchia di Luglio. Per farla terminare — e per non introdurre ulteriori sobillazioni — Gavini, presidente delle corti d’Assise della Corsica, chiede nel 1848 che i funzionari restino più tempo in Corsica «per studiarne bene i costumi e comprenderne gli interessi». Estr. da Allocution de M. le Conseiller Gavini, président des Assises de la Corse, a MM. Ses Jurés (udienza del 6 gennaio 1848), Bastia 1848, p. 7. 50 Tra il 1852 ed il 1870 furono nominati solo quattro prefetti.

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assicurando una comunicazione verticale tra la clientela elettorale ed i capi clan (eletti al Consiglio generale, all’assemblea Nazionale o al Governo), passando attraverso i consiglieri municipali, i sindaci, estendendosi ai magistrati e compatibilmente, all’amministrazione. I cambiamenti istituzionali dei regimi politici francesi e l’anarchia locale avevano impedito ai clan di costruire un tale sistema. Quest’anarchia «si esprime in modo particolare in un punto, rivelatore dello stato di non-strutturazione del sistema clanico in quanto organizzazione di potere: la congiunzione delle lotte politiche con le vendette tra grandi famiglie51, mai represse severamente dalla giustizia»52. Tutto accadeva come se, dopo il cedimento dello stato indipendente di Paoli, il corpo sociale insulare stesse esplodendo sotto la pressione dell’occupazione straniera. I tentativi di ristrutturazione dei clan — durante l’Ancien Régime, sotto il Regno Anglo-Corso e nei periodi successivi — dipendono ancora delle lotte internazionali. Il potere dei notabili rurali, fondato soprattutto sulla proprietà, non riesce ad accordarsi con le personalità che, ad Ajaccio ed a Bastia, cercano di strutturarsi politicamente e deve fare fronte al disordine sociale che scuote l’interno della Corsica. Si assiste allora all’esplosione delle inimicizie, in cui si mescolano i motivi politici ed i motivi d’onore tradizionali; talvolta questi ultimi prendono il passo sui primi, altre volte coincidono, o ancora, cozzano l’un l’altro. Questo aspetto dell’evoluzione sociale corsa alla fine del XVIII ed all’inizio del XIX secolo resta praticamente inesplorato; ma è certo che esso manifesta una tensione tra le due tendenze segmentarie già citate, entrambe legate all’organizzazione clanica. L’evoluzione sociale dell’isola dall’inizio del XVIII secolo viene condizionata così, da un lato, dalla permanenza dell’ambigua posizione dei clan (che si collocano tra il popolo ed i poteri stranieri) e dall’altro, dall’impotenza sia del sistema clanico, sia di quello statale, nel controllare l’accesso al potere politico-amministrativo. L’elezione di Luigi Napoleone Bonaparte alla più alta carica dello Stato cambia bruscamente questa situazione. Grazie all’entusiasmo che suscita nell’isola l’elezione del futuro Napoleone III, l’ordine dello Stato viene accettato e termina l’anarchia politica. Il Secondo Impero porta la pace civile ed una prosperità relativa alla Corsica: l’isola si trova di nuovo unificata da una famiglia corsa. Il lungo Regno di Napoleone III prende, in Corsica, l’andatura di un dominio patriarcale: l’isola si trova sotto l’«alto patronato» dell’Imperatore: non è il clan a dirigere come lo Stato, ma lo Stato a dominare come un grande clan. La spinta propulsiva all’integrazione si accelera: si afferma l’idea che la Corsica e la Francia abbiano un’origine storica comune (Carlo Magno), dunque una storia nazionale unica; le loro ultime grandi figure, “dello stesso sangue” (Napoleone Padre e Figlio) lo manifestano in modo inoppugnabile; la Corsica, piccola nazione, appartiene definitivamente alla grande nazione: la Francia. La presenza dell’ultimo Imperatore illumina retroattivamente la storia insulare: la storia corsa, con i suoi eroi, da Sampiero a Paoli, si comprende solo se integrata nella nuova finalità di Napoleone III… il patriottismo corso diventa, improvvisamente, inoffensivo53. Era necessario che un corso accedesse al potere della potenza conquistatrice per ben due volte affinché il clan realizzasse la sua opera di integrazione che, come si è visto, era indissociabile dalla sua edificazione. Il clanismo ha lavorato su una base storica di armi, di repressione brutali, di esecuzioni sommarie, di villaggi incendiati, di errori54. Il Paese brancola sull’orlo di un baratro: per più di un secolo ha conosciuto, quasi senza interruzioni, la guerra e talvolta la miseria; ora con Napoleone III gli si offre la pace ed il pane in cambio di una sottomissione, tra l’altro, tollerabile, anche perché proveniente da un capo di Stato corso55. L’integrazione alla Francia assume altre forme: riavvicinamento politico, economico, culturale (con ampia accezione: dall’insegnamento obbligatorio del francese56 alla folklorizzazione della cultura corsa nell’opinione francese e, di riflesso, nell’isola stessa). Clan e Stato lavorano di concerto, dividendosi i compiti. Resta, comunque, un malinteso di fondo: Napoleone III era corso, ma il partito bonapartista (rappresentato dai clan degli Abbatucci, dei Gavini, dei Casabianca dei Pietri57) regnava da padrone sull’isola: lo Stato si confondeva troppo

51 Come quella, celebre, che esplose nel 1830 tra i Durazzo, del partito supranu del villaggio di Fuzzà, ed i Carabelli, del partito suttanu e che Mérimée prese come argomento per Colomba. 52 Grazie alle influenze familiari e claniche. Esistevano anche casi di magistrati i cui parenti prossimi erano dei contumaci e dei banditi. Cfr. VERSINI

X., Un siècle de banditisme en Corse, 1814-1914, Paris 1964, pp. 59-60. 53 Si erige, nel 1854, una statua di Pasquale Paoli a Corte ed una di Napoleone I a Bastia. Con un discorso memorabile, che, attraverso il problema dell’unificazione del corpo giudiziario corso (al riparo dalle fluttuazioni del potere parigino) illustra le esigenze del nuovo ordine clanico che si stava preparando, Alexandre Colonna d’Istria, primo Presidente della Corte d’Assise di Bastia, sviluppa una teoria del potere che si potrebbe riassumere così: ciò che unisce gli uomini è la legge, garanzia della forza dello Stato; la dottrina della successione della legge (In vetere novum latet: in novo vetus patet) fonda la stabilità dei legami sociali. La legge è la ragione e la ragione è il popolo; quando la ragione si incarna in un grande uomo, tutti gli elementi del potere si coniugano. Da ciò deriva la necessità di far terminare il «federalismo giudiziario» (eco delle lotte tra magistratura corsa e continentale) e di assicurare l’inamovibilità del corpo della magistratura con la legge, e quindi con il «Codice Napoleone» («generato con la legge, esso ne ha raccolto, allo stesso tempo, tutta la forza e tutta la maestà»), che ha separato il diritto privato dal diritto politico. Così si formula curiosamente l’esigenza di un assoluto ascendente del clan sulla magistratura, sotto l’egida di un potere politico forte (ma di cui non si desidera l’ingerenza negli affari giudiziari). Chiamando il Presidente della Repubblica «Restauratore della Magistratura», Colonna d’Istria finisce la sua allocuzione con queste parole: «Così, Signore, la Corsica si rivelerà degna in tutto della grande nazione a cui ha l’incontenibile gioia di appartenere, degna dell’interesse che l’illustre Capo della Repubblica porta a questa terra, patria del suo augusto Padre, il glorioso e fortunato Napoleone il Grande». Estr. da COLONNA D’ISTRIA A., Discours d’Installation de la magistrature, udienza del 30 novembre 1849, Impr. Fabiani, Bastia, p. 850. 54 Vd. SANTONI C., Résistance et répression en Corse 1769-1819, «Les Temps Modernes», num. sulle «Minorités nationales en France», agosto-settembre 1973. 55 Napoleone III mantiene comunque dei prefetti francesi nell’isola, nominando, al contrario, dei prefetti corsi sul continente. 56 Vd., per la storia dell’insegnamento del francese in Corsica, THIERS J., Aspects de francisation en Corse au XIX siècle, «Études corses», 9 (1954). 57 Tutte queste famiglie occupano dei posti-chiave nell’apparato statale come funzionari, imperiali, ministri, prefetti, deputati, senatori, capi di

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con il clan, e quest’ultimo non possedeva il potere autonomo che gli occorreva. Il clan aveva bisogno di un’autorità locale senza divisioni - che provenisse esclusivamente dalle sue fila — per sfuggire alle ondate dei governi parigini; ed il bonapartismo impediva la costituzione di due grandi blocchi clanici, favorendo, al contrario, la diffusione sull’isola di una dinamica bipartita, capace di unificare il potere in un solo sistema. Sotto Napoleone III i clan detenevano un potere quasi assoluto; ma il sistema clanico soffriva la frammentazione del potere locale. Alcuni anni dopo la caduta del Secondo Impero, la fragilità del sistema clanico apparve chiaramente: il bonapartismo perse in poco tempo quasi tutto il suo potere. Questa brusca scossa era, una volta ancora, legata al cambiamento di regime a Parigi. Il bonapartismo era morto, ma restavano i clan: era necessaria una nuova mutazione per adattarli alle istituzioni repubblicane e modificare la struttura del potere. Tutto si è giocato attorno all’idea del suffragio universale. La legge elettorale del 1848, che stabiliva il suffragio universale maschile abolendo il voto per censo, ha apportato un cambiamento considerevole all’organizzazione delle reti di clientela claniche. Ormai i deputati all’Assemblea Nazionale sarebbero stati eletti da tutti i corsi ed i sindaci non sarebbero stati più nominati dai prefetti. Ogni individuo ed ogni famiglia disponeva così di un potere di intervento diretto nel gioco politico. Se il clan è riuscito a realizzare senza troppe difficoltà la transizione dal voto censitario al suffragio universale durante il Secondo Impero (con alcune agitazioni, controllate dalle forze armate, nel periodo elettorale), fu solamente grazie alla stretta connessione tra un sistema clanico compatto ed un forte potere statale. Alle elezioni cantonali del 1881, Emanuele Arene, membro del partito repubblicano (senza influenza nell’isola), proveniente da Parigi (ma corso di Ajaccio), semplice giornalista, rovescia la corrente tradizionale sconfiggendo un Abbatucci: era la prova che i notabili locali non avevano più la padronanza del potere. Curiosamente Arene non reclutò i suoi aderenti nella borghesia delle città, ma nell’elettorato rurale, dove il clan sembrava più forte. Il suffragio universale, sotto il regime repubblicano, rivelava le lacune del vecchio sistema delle fedeltà claniche. Il tipo di fedeltà che la nuova legge elettorale instaurava tra elettori e candidato sconvolgevano le regole abituali, dando ai primi un potere non controllabile dal secondo (è essenziale il fatto che la Corsica conosca in questi anni un periodo economicamente molto difficile, cui i clan non possono fare fronte). Il clanismo doveva riuscire a controllare il potere offerto ad ogni corso, creando una nuova formula di contratto tra l’elettore ed i capi di partitu, in modo da non lasciare più nessuna possibilità allo Stato (o alle forze di origine francese) di intercettare il legame politico: bisognava assoggettare la popolazione al potere clanico. Paradossalmente, fu un uomo dall’ambigua personalità, non appartenente ai clan tradizionali, generato da una famiglia di emigrati, che terminò l’opera di strutturazione del sistema clanico, fornendogli quei metodi, tuttora presenti in Corsica, che garantiscono la piena autonomia locale nei confronti dello Stato. Arene inaugurò il contratto politico che conosciamo oggi: un voto contro un servizio (una pensione, un posto nell’amministrazione). Certo, il “servizio reso” (o “raccomandazione”) era una pratica conosciuta, ma non esisteva ancora come moneta di scambio del voto politico: ora entrava negli scambi semi-feudali tra capi-clan e famiglie. Arene politicizzò totalmente il contratto clanico: la sua formula ebbe un successo folgorante, garantendo il rastrellamento dei voti nei villaggi più remoti e diffondendo i corsi in tutti gli angoli dell’impero coloniale francese. Marx ha detto, parlando del colpo di stato di Napoleone III, che «la storia presenta sotto forma di commedia ciò che prima era una tragedia». Si potrebbe aggiungere, riferendoci al “colpo di forza” ed ai metodi che portarono Emanuele Arene al potere quasi assoluto in Corsica (lo si chiamò U Re Emmanuellu, il Re Emanuele), che la storia si ripete una seconda volta sotto forma di farsa58. Questa lunga farsa venne mantenuta per 27 anni (1881-1908): Arene, pur difendendo le tradizioni dei suoi compatrioti contro le calunnie dei francesi, li ingannava nella maniera più cinica59; si trattava di uno scherzo cinico, di un cinismo leggero, mondano, senza rimorso, come quei teatri da “boulevard” parigino di cui Arene fu un autore di successo. Napoleone I, Napoleone III, Emanuele Arene: la tendenza che seguono i capofila dell’integrazione è quasi verticale. L’ultimo Re della Corsica non è nemmeno un alto funzionario: presidente del consiglio generale, deputato, si rifiuta di diventare ministro o prefetto; come se questa scelta personale del giornalista-politico fosse dettata dalla nuova struttura del clanismo, che poteva fare a meno, ormai, di produrre un capo di Stato (Arene aveva tessuto una solida rete di influenze nell’apparato clanico e statale). Al clan bastava, adesso, che nell’isola prevalesse un capo che non ricorresse ai soccorsi del governo; qualcuno che traesse la sua autorità dal nuovo contratto clanico e la sua legittimità dal potere francese; che, una volta ancora, certificasse il potere politico in Corsica grazie ai soli meccanismi della politica insulare; che dividesse il sistema clanico da quello statale, confuso da Napoleone III e che dividesse l’articolazione armoniosa della dinamica del bonapartismo insulare con il gioco dei partiti del regime repubblicano. Prese le necessarie garanzie, i clan non avranno più bisogno di Arene: fin dagli anni ‘90, le due fazioni rivali, i Casabianca ed i Gavini, si coalizzano gabinetto ministeriali, prefetti di polizia, ecc… 58 Napoleone I disse un giorno parlando dei corsi: «Bisogna guidarli con fermezza, senza trattarli arbitrariamente». Napoleone III affermò, nel 1860: «La Corsica non è per me un dipartimento come un altro, è una famiglia…». Emmanuele Arene, rispondendo ad un prefetto che si meravigliava di aver trovato in un villaggio un postino analfabeta, scrisse: «Sono io che l’ho nominato! Se avesse saputo leggere, l’avrei nominato prefetto». 59 Ne abbiamo un saggio nella sua risposta ad Alfonse Daudet, che scriveva: «tutte uguali, queste antiche famiglie corse, crasse e vane. Mangiano ancora, in stoviglie piatte come le loro armi, le castagne rifiutate dai maiali»; Arena: «Potrebbero trovarsi benissimo in Corsica i Daudet. L’isola resterà l’incorreggibile paese aperto a tutti come una locanda, con le sue famiglie sempre numerose se non grandi, i cui figli popolano i reggimenti della Francia. Tutti quelli che sono partiti dai suoi confini, preti, soldati o funzionari, portano ovunque le tradizioni del suolo natale, la riconoscenza per i servizi resi, il ricordo del bene ed il disprezzo del male...». estr. da VERSINI X., Emmanuel Arène, roi de Corse sous la Troisième République, Ajaccio 1983. p. 121.

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contro di lui, iniziando una lunga lotta per la ripresa del potere. Un’immensa corruzione guadagna tutta la vita sociale corsa. Il contratto clanico diventa il canale di comunicazione essenziale dei corsi: Arene lo aveva istituzionalizzato, per così dire, trasformandolo in un costume corso, al punto da fare del “servizio reso” in cambio del voto politico un diritto rivendicato dalle persone. Ma soprattutto, egli ha completato la strutturazione del clan come sistema politico, grazie allo sfruttamento di certi tratti culturali del popolo corso; erigendo la deviazione della legge a metodo di governo, ha ripreso sistematicamente la tendenza ancestrale del popolo ad opporsi allo stato straniero, ma innestando altri obiettivi, tra cui il principale (mantenere la Corsica sotto il potere francese per la sopravvivenza dei clan) contraddittorio ai suoi stessi principi. Questa deviazione non viene perpetuata per la difesa della cultura e della società corse, ma in nome della fedeltà ad un clan contro un altro: la segmentazione clanica si appiattisce così sulla segmentazione popolare. A partire da Arene, tutto è permesso nella lotta delle fazioni per la presa del potere locale. Il contratto clanico diventa la molla della corruzione e la corruzione non conosce limiti, diventando una sorta di “fascismo” en plein air. Adeguandosi al principio di questa legge, sempre più deviata (si giustifica l’esercizio esclusivo della forza e la sovranità assoluta del potere), le pratiche claniche realizzano dei veri dispotismi di villaggio. Certo, tutto questo esisteva già: Arene non ha fatto altro che dare forma ad una tendenza inscritta nella natura del clan. Lo stesso può dirsi per l’articolazione del sistema clanico nel potere statale, articolazione che il primo cercava subdolamente attraverso l’occupazione francese e che Arene adatta alle istituzione repubblicane: a partire da questo momento il clan presenta due volti differenti, uno girato verso l’isola, l’altro verso il potere: forma uno schermo, un filtro, e si comporta, in Corsica, come uno Stato nello Stato. Dopo Arene, non è più l’amministrazione francese che vuole imporsi in Corsica, è la Corsica dei clan che si impone all’amministrazione: prefetti, magistrati funzionari sono ai suoi piedi. L’opera di integrazione politica del sistema clanico è finita; si confonde con l’edificazione di questo sistema nella forma odierna. Bisogna ancora “integrare” il paese, la sua lingua, la sua cultura, la forza della sua specificità. Si tratta di un lavoro delicatissimo, in cui il clan gioca un ruolo contraddittorio: mentre il consolidamento del sistema clanico e la sua osmosi al potere condanna il popolo corso alla “francesizzazione” forzata, l’autonomia locale, lo schermo culturale, la mentalità popolare e la sua vocazione all’immobilismo costituiscono ancora dei potenti fattori di preservazione delle strutture tradizionali della società insulare. A questa breve storia del clan moderno mancano i fattori contemporanei: l’intervento diretto dello stato nell’economia corsa, lo sviluppo del capitalismo, l’irruzione nazionalista e la stesura dello statuto particolare dell’isola. Tuttavia, dal punto di vista della struttura globale, il clanismo, come si presenta alla fine del “Regno di Arene”, presenta una struttura paradigmatica valida ancora ai nostri giorni.

Figura 48: il giuramento della vendetta.

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FABRIZIO DAL PASSO, Il Mediterraneo dei Lumi. Corsica e democrazia nella stagione delle rivoluzioni CAPITOLO 10 – la Corsica francese: dall’Ancien Régime a Napoleone (1770-1815)

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CAPITOLO 10

LA CORSICA FRANCESE: DALL’ANCIEN RÉGIME A NAPOLEONE (1770-1815)

§ 1. La Corsica sotto l’Ancien Régime (1769-1789) La conquista della Corsica è stata veramente il capolavoro della diplomazia francese nel XVIII secolo1. I contemporanei erano divisi riguardo a questo successo: alcuni, come Rousseau, risposero con parole durissime all’affronto fatto al popolo corso2, altri, come Voltaire, pensavano che la Corsica potesse «facilmente, se ben coltivata, nutrire duecentomila uomini, fornire dei bravi soldati, e fare un giorno un utile commercio»3. I philosophes avevano opinioni contrastanti sul diritto d’autodeterminazione: se alcuni consideravano la conquista come un oltraggio ad una nazione libera, altri si limitavano ad ironizzare sui benefici che la Francia poteva aspettarsi da un paese montagnoso, improduttivo, senza ricchezze naturali e sulle spese necessarie per conservarlo. Ma alla fine la Corsica era di fatto francese ed i philosophes ne presero atto senza troppe lagnanze. L’interesse per l’isola si spostava dal problema sul “benessere” ed il “diritto dei popoli” a quello dell’amministrazione di una terra conquistata. La parola passava agli ufficiali, agli intendenti, ai governatori. L’obiettivo ed i mezzi erano chiari e duplici: pacificare ed amministrare con fermezza. La riduzione all’obbedienza La partenza di Paoli e l’adesione alla Francia dei principali capi rivoluzionari diedero un limite provvisorio alla campagna militare. Il conte di Vaux forse scrisse troppo frettolosamente a Choiseul il 22 giugno 1769: «Tutta la Corsica è sottomessa al Re»4, così come erano frettolose le rassicurazioni dei notabili, riunitisi a Corte: «la nuova patria che abbiamo acquistato ci renderà solleciti a rendervi felici»5. I corsi adottarono un atteggiamento diffidente verso il nuovo governo: nonostante gli editti6 del 23 maggio 1769 e del 24 maggio 1770, che prescrivevano la consegna delle armi sotto pena di morte, soltanto 1/5 dei fucili recensiti furono consegnati (12.000 su 60.000). Questa reticenza si spiega più con il secolare attaccamento dei corsi alle armi da fuoco che con la preoccupazione di non finire senza difesa alle rappresaglie del nemico o agli attacchi dei banditi. “Banditi”, “banditismo” sono parole che tornano costantemente nella corrispondenza di Vaux - costantemente irritato per l’insubordinazione generale - che sollecitava Versailles per delle misure di rappresaglia esemplari: demolizione delle case, devastazione delle proprietà, arresti inappellabili ecc... Marbeuf, che gli succedette dopo le dimissioni del maggio 1770, continuò ad esasperare questa politica di repressione, mentre la sinistra litania degli editti regi si allungava a dismisura. Dalla persecuzione dei banditi si passò direttamente a quella dei paolisti: con l’editto del 24 settembre 1770 furono condannati all’esilio, nello spazio di un mese, i parenti dei patrioti che avevano seguito Paoli in Toscana. I pastori dell’interno furono costretti al domicilio coatto nelle abitazioni di fortuna sotto la minaccia della pena a tre anni di prigione; si estese la misura anche agli altri cittadini (tranne i nobili, gli ecclesiastici ed i funzionari): dopo un mese d’assenza, le case ed il bestiame potevano essere confiscati dal Demanio regio. Furono create delle giurisdizioni speciali (le quattro juntes nationales), quella di Orezza, di Caccia, di Tallano e di Mezzana, con il compito di monitorare le pievi sospette e far rispettare gli editti regi (agosto 1772). L’assassinio veniva punito con la ruota, la casa del colpevole rasa al suolo, i discendenti esclusi per sempre dalle funzioni pubbliche. Non si indietreggiava davanti a nessuna perfidia: i pastori del Fiumorbo che avevano accettato di deporre le armi furono comunque fucilati, i banditi che si arrendevano con la loro masnada ed a cui era stato promesso il perdono venivano esiliati in America: insomma, si era tornati al regime di terrore della repressione genovese. L’organizzazione amministrativa e politica Se la pacificazione era stata ottenuta con dei metodi sbrigativi, l’organizzazione amministrativa procedeva con la volontà di rispettare i particolarismi, di legare le élites e di “francesizzare” la Corsica quanto più era possibile. La ristrutturazione amministrativa si basava su una definizione giuridica che rendeva la Corsica un pays d’Etat, statuto conferito in Francia alle province con un particolarismo accentuato (Artois, Bretagna, Linguadoca, Provenza, Béarn, Borgogna). I corsi potevano eleggere 23 rappresentanti per ciascun ordine (Nobiltà, Clero, Terzo Stato), in entrambe le

1 L’opera fondamentale resta, malgrado l’ottica francofila, la tesi di VILLAT L., La Corse de 1768 à 1789, 2 vol., Besançon 1924-1925 (con l’aggiunta di un volume di bibliografia critica). Si confrontino anche le sintesi di EMMANUELLI R. (cap. IX dell’Histoire de la Corse, Privat, e cap. XVI del suo Précis d’histoire de Corse cit.) e di DIANI D. nel vol. coll. Deux siècles de vie française, pp. 86 e segg. Per la storia sociale, cfr. ARRIGHI P., La vie quotidienne en Corse au XVIIIe siécle, Paris 1970; utili anche le recenti opere di COLOMBANI J., Aux origines de la Corse française, Ajaccio 1978 e di DEFRANCESCHI J., La Corse française (30 nov. 1789-15 juin 1794), «Société des Études robespierristes», 1980. 2 «La spedizione di Corsica, iniqua e ridicola, offende la giustizia, l’umanità, la politica e la ragione….quest’inutile e costosa conquista…». Estr. da

ROUSSEAU J.J., Confessions in Œuvres complètes, IV, Paris 1964, p. 385. Un nemico di Choiseul ironizzava sul «vero motivo dell’insensato progetto di conquistare la Corsica…questo miserabile paese, che non è coltivato, né coltivabile…questo regno della miseria». Estr. da una lettera del duca d’Aiguillon, citato da VILLAT, op. cit., I, p. 136. 3 VOLTAIRE, Précis du siècle de Louis XV, in ID., Œuvres historiques, Paris 1957, p. 168 4 Archives Nationales, Paris, Corréspondance consulaire, B1 591. 5 Archives départementales de la Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C 93, Rapport de l’Inspecteur des Domaines, 28 janvier 1778. 6 Cfr. [ACTE 1772-08-15. COMPIEGNE] Etat des 66 pieves de l’île de Corse distribuées en 4 districts pour les 4 juntes crées par l’édit d’août 1772. Conseil d’Etat de France [13-1791]. Bibliothéque Nationale François Mitterrand, Paris, Rez de Jardin.

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province dell’isola (Deçadamonts e Delàdamonts); alle assemblee rappresentative venne lasciato il nome di “Consulte” per rimarcare la continuità con le precedenti strutture amministrative: esse si riunivano ogni due anni (tra il 1770 ed il 1789 si riunirono otto volte). Il ruolo delle Consulte, tuttavia, era puramente nominale: esse non potevano emettere voti ed avevano il solo, ingrato, compito di ripartire e ricevere le imposte. L’illusione dello status quo venne perpetuato fino al mantenimento nominale dei “Nobles Douze” (Nobili Dodici), a cui era confidato il ruolo di commissione permanente per conferire sulla situazione dell’isola entro lo spazio temporale di due sessioni degli Stati Provinciali. Riprendendo ancora l’antica carica genovese dell’Oratore, si permise l’elezione di tre Orateurs de la nation alla fine di ogni sessione degli Stati, incaricati di presentare al Re le richieste dei deputati, previa approvazione del Governatore e dell’Intendente. I corsi non avevano alcun potere decisionale: ogni deliberazione finale, ogni atto efficace, passava sopra le loro teste. La Monarchia concedeva solo istituzioni consultive o giurisdizioni amministrative limitate: Versailles decideva tutto7. Ai corsi restava solo la possibilità di presentare dei Quaderni di lamentele (Cahiers de doléance) da cui emergevano richieste confuse e diversificate, tra cui quella di un’università o della rinascita del regno di Corsica, comprovanti la reticenza alla francesizzazione. L’unica vera libertà d’azione per i corsi, bloccati a livello decisionale, restava l’amministrazione locale: rimase in vigore la figura del podestat, assistito da due péres de commun per ogni villaggio e del podestat major per la pieve; si trattava, in concreto, di un regime di notabili che assicurava la continuità con la tradizione genovese. L’unica novità riguardava la sommità della piramide del potere: il ruolo del Governatore venne diviso da due diverse figure amministrative: il Governeur e l’Intendant. Il primo assumeva i poteri militari, mentre il secondo amministrava gli affari finanziari. Questa dualità fu all’origine di innumerevoli conflitti di potere: la partenza del conte di Vaux nel 1770 e la lotta tra Marbeuf ed il suo secondo comandante Narbonne sono solo alcuni esempi. Il potere effettivo di queste due figure era troppo grande rispetto all’amministrazione tradizionale dell’isola: l’Intendent ed il Governeur agivano come due veri viceré e la loro permanenza (Marbeuf dal 1770 al 1786 come governatore, Boucheporn dal 1775 al 1785 come intendente) marcò profondamente l’isola della loro personalità, imponendo una mentalità centralista che strideva con il particolarismo locale. La Giustizia Il problema che Marbeuf e l’amministrazione francese cercarono di risolvere al meglio, comprendendone la gravità, fu quello della giustizia. I francesi ebbero la saggezza di lasciare in vigore gli antichi Statuts civils nell’attesa della compilazione di un Code Corse, iniziato nel 1778 e terminato nel 1790. L’amministrazione giudiziaria venne riformata completamente: nel giugno 1768 si istituì un Consiglio superiore o Cour souveraine, omologo dei Parlamenti continentali; la sede, a Bastia, comprendeva una maggioranza di magistrati francesi (6 consiglieri su 10) presieduta dall’Intendente. Lo stesso può essere detto per le giurisdizioni inferiori, gli undici Presidial, tribunali civili di primo grado che giudicavano in appello ed applicavano gli statuts civils8. Ma è anche vero che esisteva una misura che attribuiva ai giudici corsi una retribuzione inferiore della metà rispetto agli omologhi del continente. La francesizzazione era un’arma a doppio taglio: da un lato permetteva ad un numero elevato di notabili corsi di accedere ai pubblici impieghi, favorendo la nascita di una classe di funzionari devoti alla Monarchia; dall’altro apriva le porte dell’isola ad una folla di nobili e notabili francesi che cercavano di arricchirsi. La Chiesa La francesizzazione si estese anche alla Chiesa. Le cinque diocesi tradizionali (Aleria, Mariana, Ajaccio, Sagona, Nebbio) rimasero inalterate, ma si cercò di inculcare al clero isolano i principi della Chiesa gallicana: la sottrazione all’obbedienza degli arcivescovati stranieri ed in una certa misura a quella del Papa, per metterla unicamente sotto l’autorità della Monarchia. Questa politica urtava con i sentimenti ultramontani del clero corso e si esprimeva con alcune misure vessatorie che risentivano dell’anticlericalismo militante del secolo dei Lumi: diminuzione del numero dei religiosi, soppressione delle feste di precetto, espulsione dei secolari ostili ai francesi, perdita dei privilegi (per primo quello del “foro”, che sottraeva i membri del clero alla giurisdizione civile), obbligo alla sottoscrizione della dichiarazione del clero del 1682 (che aveva fondato giuridicamente il gallicanismo), nomina di tre vescovi francesi per controbilanciare l’influenza dei vescovi locali9, nomina regia dei maestri in teologia e dei dottori di diritto canonico, soppressione di tutti i benefici concistoriali. In breve, si trattava della disfatta della Chiesa corsa: «…con il pretesto di difendere la Chiesa, il Re aveva completamente asservito e subordinato [la Chiesa] allo Stato»10. La nobiltà Al contrario di quanto accadde per il clero, con la nobiltà isolana si arrivò ad un rapido accomodamento, anche perché 7 Villat cita questa frase caratteristica del Ministro francese: «Fin quando è evidente che ci si propone di agire per l’utilità generale, non c’è alcuna necessità di ascoltare una provincia che è ancora troppo poco illuminata sui suoi veri interessi per sapere ciò che può esserle utile o nocivo». Estr. da VILLAT L., op. cit., II t., p. 85. 8 In aggiunta esistevano i tribunali marittimi o Bureaux d’amirauté di Bastia ed Ajaccio. 9 Nonostante le proteste di Roma, che proclamava di non voler «alienare né diminuire i diritti temporali di cui godeva la Santa Sede nell’isola»; Archivio Segreto Vaticano, fondo Segreteria di Stato, serie Corsica, fascicoli 8 e 9 e serie Francia fasc. 3-7; Archivio di Stato di Roma, fondo Congregazione degli Spogli, buste 132 e 133; fondo Camerlengato, parte I, busta n. 47 (1816-1823) I. affari esteri, disposizioni e regolamenti, fogli 6 e 7, nota dei consoli pontificii. 10 Mons. De Guernes, vescovo di Aleria, che aveva osato criticare l’amministrazione di Marbeuf, fu confinato nella sua diocesi con la clausola di non poterne uscire. Venne graziato nel 1789. Cfr. CASANOVA A., op. cit., III, p. 64.

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senza la partecipazione della classe nobiliare non poteva avvenire una reale assimilazione. La preoccupazione di far aderire un’élite sociale alla classe dirigente francese e la volontà di marcare nettamente la differenza con l’amministrazione genovese, spinsero Versailles ad aprire le porte dell’amministrazione alla nobiltà corsa. Si trattava di un’apertura che contrastava nettamente con la parsimonia genovese che, in quattro secoli, aveva nobilitato solo cinque famiglie (Cortinco de Bagnaja, Casale, Sorba, Cuneo, Matra). L’editto regio dell’aprile 1770 era di una liberalità estrema: furono riconosciute e nobilitate quasi 80 famiglie corse. Congiuntamente alla creazione di una nuova nobiltà, furono ampiamente ricompensate le persone che avevano dato prova costante di lealtà alla Francia prima della conquista. Inoltre, per favorire la fusione dei gradi militari superiori, la Monarchia accordò delle borse di studio ai giovani nobili che frequentavano le scuole militari del continente per terminare gli studi superiori (oltre al giovane Bonaparte a Brienne, partirono anche i figli dei notabili più in vista). Le giovani donne potevano beneficiare, invece, delle “borse di carità” per la scuola di Saint-Cyr, fondata nel 1685 da Luigi XIV su ispirazione di Madame de Maintenon, che assicurava l’educazione delle giovani nobili cadute in disgrazia. L’istruzione La Monarchia tendeva a perseguire la politica di francesizzazione e di integrazione con ogni mezzo: non si trattava solo di governare, ma di assimilare la Corsica e questo presupponeva la fusione dell’autonoma cultura nazionale. L’istruzione era quindi una direttiva fondamentale dell’osmosi forzata tra la Francia e la Corsica. Nonostante le promesse di riapertura, reiterate cinque volte dagli Stati provinciali, l’Università di Corte non venne più riaperta. Per quanto riguarda l’istruzione secondaria, si riaprì nel 1770 uno dei due collegi gesuiti (a Bastia), chiuso nel 1768 in conformità con l’editto del 1764, che sopprimeva la Compagnia di Gesù. Rimase chiuso anche il collegio di Ajaccio e, comunque, entrambe le istituzioni scolastiche, nel 1773, furono soppresse: gli insegnanti si dispersero in altre scuole dell’isola o presero la via dell’esilio. La fondazione, nel 1777, di quattro nuovi collegi (Bastia, Calvi, Ajaccio, Cervione) non modificò di molto la situazione: i collegi di Calvi e di Cervione furono soppressi nel 1785, quello di Bastia declinò lentamente. Al contrario, un nuovo, grande impulso venne dato all’istruzione primaria: ogni comunità possedeva il suo maestro (in genere un sacerdote), pagato in denaro o in natura; tuttavia, dato che la maggior parte degli allievi di queste scuole si indirizzava alla carriera ecclesiastica, l’amministrazione francese ne impedì lo sviluppo concreto, evitando l’erogazione di borse e di sussidi. La mentalità fortemente anticlericale giustifica la lentezza nel riaprire i seminari: a partire dal 1764, essi furono trasformati in caserme e ripresero la loro originaria attività solo tra il 1783 ed il 1784. Per la formazione dei sacerdoti era prevista la frequenza ai seminari di Aix-en-Provence, di Avignone e di Autun, con l’applicazione dei criteri del numerus clausus e della condizione sociale (potevano accedere solo i membri di famiglie in grado di assicurare il mantenimento economico del seminarista). Il clero corso si era allineato solo in parte alla Monarchia: in materia ecclesiastica, il confronto tra il regime genovese ed il regime francese è sfavorevole a quest’ultimo. Gli effetti della conquista si fecero sentire in maniera pesante solo sulle masse popolari; per la nobiltà e l’alta borghesia l’affiliazione ad una Monarchia e ad uno Stato potente come quello francese, arrecava dei vantaggi indiscutibili. Questo era ancora più evidente nel settore della politica economica. § 2. La Politica economica dell’Ancien Régime I progetti della Francia per il ristabilimento di un’economia forte e prospera nell’isola erano lungimiranti11: «bisogna ridare all’isola quella prosperità che le spetta. Le intenzioni sono eccellenti, i regolamenti un po’ meno, la messa in pratica non vale nulla»12. Questo giudizio severo contrasta con i vivi elogi che Louis Villat aveva dato alla colonizzazione agricola dei francesi in Corsica. Bisogna dire che, in linea di massima, il bilancio della politica economica francese è stato positivo: le linee d’ombra sono imputabili unicamente alla mancanza di tempo (appena vent’anni) e all’incomprensione tra le intenzioni dei nuovi conquistatori e la secolare resistenza alle innovazioni tipica dei corsi, come si è già notato sotto la dominazione genovese ed in seguito alla notifica del Plan Terrier del 1770.

11 Oltre all’opera già citata di VILLAT L., La Corse de 1768 à 1789, in particolare il II tomo, capp. IX e X. Cfr. anche i capp. I e III de La vie quotidienne en Corse au XVIIIe siècle di ARRIGHI P. Per l’agricoltura, cfr. l’opera di SPINOSI F., Essai sur l’economie rurale corse aux XVIIe et XVIIIe siècle ed infine Le Plan Terrier de la Corse au XVIIIe siècle di ALBITRECCIA A., cit. 12 cfr. DIANI D., vol. coll. Deux siècles de vie française cit., p. 89.

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Figura 49: Planimetria del circondario di Cargese dal Plan Terrier de la Corse, 1773 (Arch. Nat., Paris, Q1 2986). L’agricoltura Conformemente alle disposizioni del Plan Terrier si tracciarono dei precisi piani per la valorizzazione dell’agricoltura. In questo caso Marbeuf poteva contare sull’appoggio dell’intendente Bouchepron e sfruttare la ricca documentazione fornita dalle inchieste agricole promosse dai francesi sin dal loro insediamento in Corsica. In Francia prevaleva un ottimismo eccessivo e fuori luogo, che generò illusioni presto smentite: Boswell, Germanés e Pommereul esaltavano la prodigiosa fertilità del suolo, a cui contrapponevano l’immobilismo o il “disgusto” dei corsi per il lavoro della terra. In seguito, prese le misure della reale estensione del territorio e verificate le sue condizioni, i francesi cominciarono una lunga opera di fertilizzazione del suolo: dissodamento, prosciugamento delle paludi, canalizzazione degli stagni, incoraggiamento alla coltivazione dei cereali e degli alberi da frutto13. I proprietari dei castagneti furono incentivati con un premio per le piantagioni, mentre l’esportazione delle castagne, inizialmente vietata, venne incoraggiata. I francesi cercarono di incentivare la coltivazione degli olivi per ricavare un maggiore quantitativo d’olio e favorirono la coltivazione degli agrumi, estesa a molte zone dell’isola. L’introduzione di nuove colture, come quella del tabacco, del lino, della canapa, delle patate e del gelso, favorì gli investimenti di alcuni notabili. I francesi sollecitarono anche una riorganizzazione del sistema dell’allevamento, con una serie di misure fortemente osteggiate dai pastori (regolamentazione della “vana pastura”, obbligo di recinzione, divieto della libera circolazione delle capre, degli asini e dei cavalli; stretta sorveglianza delle mandrie, regolamentazione del debbio). Si trattava, insomma, di tentativi e progetti di enorme portata, anche se non sempre allineati alla secolare struttura agricola e pastorale dell’isola. Le manifatture Le misure adottate per l’agricoltura si accompagnavano spesso a tentativi più timidi per lo sviluppo manifatturiero. La lavorazione dei prodotti in legno rimase debole per la scarsità delle vie di comunicazione. Si tentò, ma anche qui con scarso successo, di installare manifatture di sapone; si favorì la fabbricazione e l’esportazione di cera, di miele, di sego, ma con scarsi risultati. Stesso insuccesso per la seta e per le tele, entrambe prodotte per la prima volta a Bastia. Nella maggioranza dei casi, non mancava affatto la volontà o l’aiuto della Monarchia: l’insuccesso può essere imputato allo scarso spirito d’iniziativa dei corsi, che mal sopportavano l’introduzione di tecniche industriali contrarie ai loro interessi immediati. Se l’isola non ha mai avuto un vero decollo economico è colpa sia dei francesi, che non hanno compreso la peculiarità economica, politica e culturale dell’isola, sia dei corsi, poco inclini a sperimentare ed avviare le riforme promosse dalla Francia nel loro interesse. Strade e Porti I francesi riuscirono pienamente nell’impresa di sviluppo e miglioramento delle strade dell’isola, pressoché inesistenti: non esisteva una strada degna di questo nome, ma solo qualche sentiero. L’amministrazione si preoccupava soprattutto di costruire strade strategiche, la cui assenza aveva ritardato la conquista dell’isola (le prime due vie di collegamento costruite furono quelle tra Bastia ed Ajaccio, passando per Corte, e quella tra Bastia e San Fiorenzo), senza pensare di collegare i villaggi, che rimasero isolati sulle montagne. Venne incoraggiato lo sviluppo del commercio, cercando di difendere gli scambi mercantili dei corsi dalla concorrenza genovese, vietando l’apertura di nuove botteghe senza

13 Arch. dép. Corse-du-Sud, Ajaccio, Série C, Intendence 98. Anche Serie B, Conseil superieur ed 1B3 pp. 105-109.

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l’accordo dei magistrati14. La politica commerciale portata avanti dalla borghesia isolana era poco equilibrata: le importazioni superavano ampiamente le esportazioni (in proporzione: 5 contro 1 nel 1787) e si sviluppava secondo lo schema tipico dell’economia coloniale: si esportavano i prodotti del suolo o dell’allevamento per importare i prodotti finiti. Le vie commerciali, infine, si snodavano tra le coste italiane ed il porto di Marsiglia, prova supplementare della progressiva integrazione dell’economia isolana nell’orbita francese. Il commercio restava comunque modesto, commisurato alla minuscola flotta isolana che, con i suoi 283 bastimenti, rappresentava, nel 1787, una massa totale di merci di appena 4041 tonnellate. Le finanze Nei primi anni dell’occupazione, i francesi scelsero delle manovre impopolari e vessatorie: ristabilimento delle corvées, delle taglie, delle gabelle, alloggiamento gratuito dei militari nei borghi e nelle città (dragonnades). A partire dal 1770, si decretò il pagamento di una modica provvigione (120.000 lire) ripartita tra le regioni dai Douze Nobles sotto il controllo dei francesi. L’evidente malafede delle dichiarazioni, le rivalità delle pievi, i secolari intrighi locali, provocarono un generale malcontento aggravato dal pesante gettito fiscale, poco naturale per un popolo povero ed abituato a pagare poche imposte. Nel 1778 viene istituita una “sovvenzione sulla frutta”, che era una vera e propria decima sui prodotti della terra, fissata ad 1/20 dei raccolti (vingtiéme): essa recava, apparentemente, l’eguaglianza fiscale, ma in realtà non era sempre proporzionata agli introiti e nemmeno facilmente controllabile15. Le entrate cominciarono ad aumentare nel corso del decennio 1778-1788: il Re si accontentò di prelevare costantemente 120.000 lire di sovvenzione fiscale, ma le entrate del Demanio regio erano, per la maggior parte, indirette. Gran parte della storiografia francese ha sottolineato come il sistema fiscale monarchico fosse il «beneficio più sicuro che i corsi abbiano tratto dal riconoscimento della loro povertà: basti pensare che nei Cahiers de doléances del 1789 non si è ritrovata alcuna lamentela su questa forma di imposizione fiscale»16. Questa interpretazione della politica fiscale della Monarchia è, comunque, poco precisa: i documenti d’archivio hanno mostrato, al contrario, non soltanto una dura presa di posizione dei pastori-coltivatori contro la politica fiscale dell’amministrazione regia, ma anche una enorme presenza di «sabotatori e sediziosi» che cercavano di impedire, anche con la forza, la riscossione della vingtiéme. La colonizzazione I corsi non avevano, comunque, una fede cieca e totale sulle intenzioni dei francesi. Certe iniziative governative, in effetti, potevano inquietare la popolazione, come nei costanti tentativi di colonizzazione, spiacevolmente ispirati ai precedenti tentativi genovesi. Genova aveva introdotto nell’isola dei coloni greci (a Paomia) e progettava di far insediare degli olandesi a Porto Vecchio, anche se questi tentativi andarono in fumo per l’ostilità dei pastori corsi. Marbeuf riprese questo progetto: i greci di Paomia, rifugiatisi ad Ajaccio, furono inviati a Cargese nel 1775, una piccola città adatta al loro numero17. Gli sfortunati greci di Cargese subirono spesso, come altre volte in passato, la collera dei corsi delle montagne: essi furono cacciati dalla città nell’ottobre 1793 e vi tornarono solo nel 1811. Anche gli altri tentativi di colonizzazione straniera subirono una sorte infelice: alcuni canadesi d’origine francese furono contattati dal governo francese per fondare una colonia nell’isola, ma il progetto fallì quasi subito. Al contrario, una cinquantina di famiglie della Lorena furono trasferite alle Porrette, attorno allo stagno di Biguglia: decimata dalla malaria, la colonia venne evacuata nel 1773. Stesso insuccesso per una colonia francese che si era insediata nelle terre di Galeria ed attorno a Calvi, costretta a fuggire per l’ostilità degli isolani. Soltanto l’immigrazione spontanea degli stranieri, tra cui molti italiani, era riuscita ad aprire un varco all’interno dell’isola. La Demografia La povertà demografica della Corsica era una preoccupazione costante per il governo francese. Un primo censimento enumerava, per il 1740, circa 120.000 abitanti18. Quello del 1770 permise di calcolare circa 130.000 persone; quello del 1786 ne annoverava 150.000 circa. In generale il progresso fu lento, ma costante ed indica certamente un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Buona parte di questa crescita demografica era dovuta al calo della mortalità, grazie alla nuova politica sanitaria: medici più numerosi e ben qualificati; migliore igiene nella città e fondazione di “uffici di sanità”; lotta contro le epidemie, modernizzazione degli ospedali, ecc. Questo aumento demografico era evidente soprattutto nelle città19, dove si registravano migliori condizioni di vita, ma anche nelle campagne, seppure con indici più bassi (con la sola eccezione del Niolo, vittima della ribellione del 1774 e delle rappresaglie francesi). Il dato

14 MARTINI M., Aspects de l’activité agricole et marittime de la Corse cit., pp. 179-206. 15 Cfr. Arch. dép. Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C, Intendence 585. Memoria di Collières, appaltatore di Bonifacio, concernente la frode sulle presse. 16 Cfr. DIANI D., nel vol. coll. Deux siècles de vie française, pp. 98 e segg. Cfr. inoltre ARRIGHI P., La vie quotidienne en Corse au XVIIIe siécle, Paris 1970; utili anche le recenti opere di COLOMBANI J., Aux origines de la Corse française (Politique et institutions), Ajaccio 1978 e di DEFRANCESCHI J., La Corse française cit. 17 La presenza dei greci sembrava ancora più inopportuna perché simboleggiava la prepotente ostentazione del potere francese: Marbeuf, divenuto marchese di Cargese nel 1778, fece costruire qui, nel 1780, un superbo castello circondato da un grande giardino con numerosi alberi da frutto, olivi e gelsi, dove veniva a passare una parte dell’anno con la sua famiglia. Cfr. PAPADACCI E., Histoire de Cargèse-Paomia, Paris 1967. 18 Secondo Roger Le Mée è una cifra plausibile. Cfr. LE MEE R., Un dénombrement des Corses en 1770, «Acte du Colloque d’Ajaccio de 1969: Problémes d’histoire de la Corse (de l’Ancien Régime à 1815)», Paris 1971, pp. 23-43. 19 Soprattutto a Bastia che, dal 1740 al 1786 passò da 28.000 a 36.500 abitanti; Ajaccio da 21.000 a 23.400; Sartena da 9.600 a 14.500; Corte da 14.800 a 18.000.

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più interessante è costituito dal tasso di crescita annuo (circa 8,5‰) «cifra che poche altre province francesi potevano rivendicare»20. Sicuramente le cause di questo lieve incremento devono essere attribuite alla nuova urbanizzazione, alle migliore condizioni di vita generali, alle maggiori cure sanitarie, ma anche agli stessi corsi, che avevano diminuito enormemente gli omicidi e le vendette per paura delle rappresaglie del governo.

Figura 50: Mappa generale delle Corti di giustizia e dei parlamenti francesi nel 1786 (Bibliothéque Nationale François Mitterrand, Paris, Rez de Jardin). Un bilancio della Corsica alla vigilia della Rivoluzione (1769-1789). Non è semplice tracciare un bilancio preciso del ventennio d’Ancien Régime in Corsica. Gli storici corsi della prima metà del XX secolo mostravano forse un eccessivo attaccamento alla causa francese, testimoniata dall’opera di Louis Villat21: il titolo della sua tesi “Il dono della Corsica alla Francia” è già esemplificativo. La Francia era sicuramente riuscita nella sua opera di assimilazione, anche se solo in superficie: la francesizzazione si era fermata, così come accadde per Genova, alla costa: porti, città, luoghi presidiati. A questa assimilazione orizzontale si univa anche l’assimilazione verticale: soltanto i notabili, i nobili, i militari corsi si erano sentiti partecipi della nuova nazione (con l’eccezione dei Bonaparte, inizialmente paolisti, poi riallineati ai nuovi quadri dirigenziali e nobiliari francesi). Il popolo dei contadini, dei pastori, delle comunità, dei villaggi, delle pievi non era mai stato veramente genovese: allo stesso modo, non poteva passare nel giro di vent’anni all’obbedienza incondizionata alla monarchia francese. L’unica vera differenza, rispetto al governo genovese, era una maggiore potenza dell’invasore, ed un governo molto meno disposto ad accettare le differenze economiche, politiche, amministrative e culturali dell’isola. In effetti, c’erano dei motivi seri dietro a questo rifiuto dei corsi: 1) l’abuso di regolamentazioni che nessuno prendeva sul serio all’interno dell’isola, anche perché poco conformi alla realtà locale; 2) la molteplicità contrastante dei poteri (Gouverneur contro Intendant; ministero della guerra contro ministero delle finanze o della giustizia); 3) gli eccessi dei funzionari francesi che, oltre alla prepotenza, aggiungevano il disprezzo per gli isolani; 4) il malessere economico dovuto al passaggio della Corsica, a partire dal 1773, sotto la giurisdizione del controllore generale delle finanze; questa tutela, durata fino al 1788, si tradusse nella proliferazione di funzionari ed esperti tendenti a ridurre fortemente l’erogazione di crediti a favore dell’amministrazione isolana. A queste cause, di per sé insufficienti a spiegare l’insubordinazione delle masse popolari, si deve aggiungere il disprezzo per la lingua corsa (assimilata all’italiano e fortemente osteggiata) e la

20 LEMÈE R., op. cit., p. 45. Cfr. anche SIMI P., Démographie et mise en valeur de la Corse, in AA. VV., Mélanges d’Études Corses offerts à Paul Arrighi, Aix-en-Provence 1971, pp. 248-249 e COMITI V.P., La géographie médicale de la Corse à la fin du XVIIIe siècle, Genève- Paris 1980, cap. VI, pp. 65-81. 21 Vedi il bilancio tracciato da AMBROSI A., nell’Histoire des Corses cit.: «Era la prima volta che un governo straniero si preoccupava di sollevare economicamente e moralmente la Corsica, senza pensare solo ad arricchirsi a sue spese».

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conseguente imposizione del francese in tutti gli atti ufficiali, negli editti, nelle gazzette, nei tribunali, nelle scuole: la lingua degli invasori dominava la vita pubblica. Esistevano, ovviamente, anche altri seri motivi di malcontento, come ha messo bene in evidenza Diani22: 1) il rincaro del costo della vita, provocato dall’eccessiva tassazione sui diritti d’entrata dei materiali e dei manufatti; 2) la mentalità colonizzatrice dei francesi: essi favorivano con ogni mezzo l’ascesa dei notabili allineati al regime che, già detentori della ricchezza fondiaria, si accaparravano anche il potere politico. 3) la memoria del periodo d’indipendenza governato da Pasquale Paoli. L’integrazione alla Francia, dal punto di vista sociale, era connaturata al sistema: l’aristocrazia corsa si allineava alla Monarchia francese perché in essa ritrovava la conferma ufficiale degli antichi privilegi giuridici ed un sostegno vigile al proprio dominio economico. Anche i notabili si uniformavano ad un regime che, se non garantiva proprio tutti i posti chiave (la concorrenza francese era spietata), almeno lasciava aperte le porte della carriera militare, che garantiva il prestigio e la fama dei discendenti. Il clero, specie quello secolare, doveva avere inevitabilmente delle riserve, dato che si sentiva sorvegliato ed umiliato dagli anticlericali. Non deve stupire affatto che il popolo minuto si opponesse con forza all’occupazione francese: pastori e contadini non comprendevano lo slittamento verso un’economia di produzione industriale che ledeva i loro interessi e modificava la struttura tradizionale dell’economia isolana. Se a questo si aggiunge, poi, il lento, ma costante sommovimento delle coscienze verso le nuove idee rivoluzionarie (che in Corsica erano state già preannunciate nei quarant’anni di governo di Pasquale Paoli), si riesce a delineare un quadro esauriente della situazione isolana alla vigilia della Rivoluzione Francese.

Figura 51: Mappa amministrativa della Corsica nel 1770.

§ 3. La Rivoluzione francese e la Corsica: 1789-1794 La sfaldatura politica tra le classi sociali apparve chiaramente allo scoppio della Rivoluzione francese. In Corsica, a differenza di quanto accadeva in Francia, pochi segni lasciavano presagire un profondo cambiamento politico: i notabili si lamentavano, già prima dell’89, di essere tenuti all’oscuro degli affari della nazione. Un documento del 1788, che riassumeva le lamentele della Corsica, si limitava a reclamare il ritorno dell’isola sotto la tutela del Département de la Guerre, richiesta esaudita nell’agosto di quell’anno. I notabili corsi deputati agli Stati Generali insistevano per far affermare solennemente «il carattere costante, fisso, ufficiale, definitivo, stabile, irrevocabile» dell’unione dell’isola alla Francia, per far tacere le voci persistenti su un imminente ritorno della Corsica a Genova23. Quando apparve ormai

22 DIANI D., vol. coll. Deux siècles de vie française cit., p. 58 e segg. 23 Esistono soltanto sessantatre Cahiers de Doléances documentati per la Corsica (quelli della giurisdizione della Porta, presso Bastia, quelli della provincia di Ajaccio e solamente un Quaderno [quello di Calacuccia] per la giurisdizione di Corte, ed un altro [quello di Olmi-Capella] per la giurisdizione di Calvi). Cfr. i documenti conservati all’Arch. dép. Corse-du-Sud, Ajaccio, Serie C, 637. I Quaderni di Calacuccia e di Olmi Capella si trovano negli archivi municipali di questi due villaggi. Una copia è stata depositata all’Archives départementales de la Haute-Corse a Bastia. Il testo

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evidente, alla convocazione degli Stati Generali del 1789, che la Corsica sarebbe stata rappresentata come tutte le altre province francesi, a parità di diritti e di riconoscimenti, scoppiò l’entusiasmo dei rappresentanti: l’assimilazione alla nazione francese aveva, in tal senso, un riconoscimento ufficiale24. I Cahiers de doléances Non emergono sentimenti d’insofferenza verso la nuova patria dai Cahiers des doléances che i quattro deputati (l’abate Peretti per il clero, il conte Matteo Buttafoco per la nobiltà, l’avvocato Saliceti ed il conte Colonna de Cesari Rocca per il Terzo Stato) portarono a Versailles. In generale, le riforme proposte dai deputati corsi variavano da un Ordine all’altro25. La Nobiltà, grande beneficiaria dell’occupazione francese, si trovava d’accordo con il Terzo Stato nel sostenere la totale incorporazione della Corsica alla Francia, ma quest’ultimo proponeva che le navi corse potessero esporre la testa di Moro (emblema vietato dal 1768) insieme alla bandiera francese: era comunque il segno della sopravvivenza di un forte sentimento nazionale. Il Terzo Stato e la Nobiltà erano d’accordo – caso unico rispetto alle altre province francesi - nel promuovere una certa liberalità nell’ostensione delle prove nobiliari: i deputati corsi sostenevano che, in assenza di titoli formali, il tenore di vita ed i titoli potessero comprovare l’appartenenza all’aristocrazia. La richiesta di questo riconoscimento non impedì al Terzo Stato di reclamare la soppressione dei privilegi feudali maggiormente difesi dalla Nobiltà: riscossione delle corvèes, ereditarietà delle cariche, distinzione delle pene, diritto al porto d’armi, reintegrazione dei diritti giurisdizionali riconosciuti dal governo genovese, ecc. Questo dato mostrava chiaramente come la Nobiltà corsa non fosse assimilabile all’omonima continentale, ma provenisse in gran parte dalla classe dei Notabili, attaccati più che mai alle forme esteriori, soprattutto onorifiche: infatti, al di là delle apparenze, il Terzo Stato e la Nobiltà corsa convergevano su quasi tutti i punti. Le richieste dei deputati erano omogenee: da un lato si richiedeva il libero acceso a tutte le funzioni pubbliche e l’apertura degli impieghi ai corsi (rivendicazione presentata con più vigore dal Terzo Stato, che reclamava per sé la metà dei deputati agli Stati provinciali), a cui il governo monarchico rispose positivamente. Dall’altro, si denunciava il malfunzionamento della giustizia (erano numerose le richieste per la pubblicazione di un nuovo Codice criminale, per la mitigazione delle pene e per la soppressione della lettre de cachet - ordine d’imprigionamento) e dell’amministrazione (uguaglianza di trattamento tra funzionari francesi e corsi; maggiore libertà ai poteri locali). Il Terzo Stato e la Nobiltà convergevano ancora su altri punti essenziali: l’inviolabilità del diritto di proprietà (garanzia al cittadino contro le espropriazioni dello Stato e le confische attuate «per motivi d’utilità pubblica» non seguite da risarcimento) e, dal punto di vista economico, sul diritto di dogana (con questa differenza: il Terzo Stato ne domandava la soppressione pura e semplice, la Nobiltà una diminuzione). I deputati dei vari Ordini convergevano anche su altri due punti essenziali: la ricostituzione dell’Università di Corte e l’estensione degli sgravi fiscali (imposta regressiva), con il conseguente aumento delle partecipazioni statali in un’isola che poteva offrire unicamente un «tributo di zelo e di fedeltà». In sostanza, non traspariva nulla di rivoluzionario nei Cahiers de doléances. Il livello ideologico e politico delle richieste dei deputati corsi era moderatamente riformista, dato che non erano messe in discussione né la Monarchia, né l’unione della Corsica alla Francia, né la struttura gerarchica della società (il Terzo Stato si limitava a chiedere una maggiore responsabilità nella direzione degli affari generali), né i fondamenti economici del sistema (il diritto di proprietà era, al contrario, solennemente riaffermato). Tutt’al più si potrebbero rintracciare le linee politiche della futura corrente girondina, data l’importanza che i deputati corsi accordavano all’autonomia provinciale, alla decentralizzazione, alla partecipazione dei cittadini alla vita politica nazionale. I notabili corsi somigliavano ai loro omologhi delle province francesi: essi non aspettavano una rivoluzione, ma solo un insieme coerente di riforme.

del Quaderno generale del Terzo Stato si trova alle Archives Nationales di Parigi, serie B A 34. I Quaderni generali dei tre ordini sono stati pubblicati dall’abate LETTERON nel «B.S.S.H.N.C.», VI (1897) in appendice all’edizione di ROSSI A., Osservazioni storiche sopra la Corsica, redatte tra il 1778 ed il 1820, 17 vol., di cui 13 pubblicati nel «B.S.S.H.N.C.», 1895-1906, vd. vol. VI (1897, fs. 202-205), VII (1898, fs 209-213), VIII (1899, fs. 214-217), IX (1900, fs. 229-233), X (1900, fs. 237-240), XI (1902, fs. 260-265). 24 Questo atto generò reazioni diverse sul continente: il giovane Bonaparte, per esempio, era profondamente ostile al riconoscimento formale della Corsica come provincia francese; dalla guarnigione di Valence egli scrisse a Paoli (per il suo 61° compleanno, il 26 aprile 1786) che «sperava sempre nella fine del giogo francese». Il 3 maggio, alla vigilia di un congedo che doveva riportarlo in Corsica dopo otto anni d’assenza, immaginava: «I compatrioti coperti di catene, che baciano tremanti la mano che li opprime…francesi, non contenti di aver rapito tutto quello che amavamo, avete anche corrotto i nostri costumi…». Tre anni più tardi, i suoi sentimenti non sembravano cambiati: «Generale, io sono nato quando la patria moriva, trentamila francesi gettati sulle nostre coste hanno affogato il trono della libertà nel sangue…la schiavitù fu il prezzo della nostra sottomissione, oppressi dalla tripla catena del soldato, del legislatore e dell’esattore, i nostri compatrioti vivono infelicemente». Cfr. BONAPARTE N., Manuscrits inédits. 1786-1791, a cura di MASSON F. e BIAGI G., Paris 1910, p. 23. 25 Sulle rivendicazioni proprie del clero, il primo “ordine” secondo la gerarchia dell’Ancien Régime, non possiamo dire nulla di preciso, perché non è rimasta traccia delle richieste; molti fondi d’archivio sui Cahiers sono andati perduti, e solo con lo spoglio di quelli della Nobiltà e del Terzo Stato si possono trovare riferimenti esaurienti. In materia religiosa, contrariamente a quello che accadeva sul continente, non esisteva una vera ostilità verso la Monarchia; la sola eccezione era data dal basso clero e dal vescovo di Ajaccio, Mons. Doria, d’origine genovese.

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Figura 52: l’assalto alla Bastiglia di Jean Pierre Houel. La Rivoluzione in Corsica Gli avvenimenti in Corsica andarono ben più velocemente di quel che credeva la classe dirigente: si passò dalla Monarchia alla Repubblica con una dinamica rivoluzionaria tipica della struttura sociale e politica dell’isola, sebbene in modo conforme al processo generale del paese26: Gli isolani seguivano con un’attenzione crescente, con una specie di fiero entusiasmo, gli avvenimenti della Francia. Qualcuno si inquietava per le voci ricorrenti di una nuova cessione dell’isola a Genova, ma, al di là dei timori del Gouverneur, non avvenne alcuna sommossa generale. L’organizzazione rivoluzionaria era stata introdotta in Corsica da alcuni repubblicani, tra cui il più noto era il giovane Bonaparte: quest’ultimo, tornato nell’isola nel settembre 1789, si era attivato per la formazione delle milizie civiche e delle guardie nazionali. Bonaparte denunciava gli intrighi dell’amministrazione, formata da «avventurieri che vengono nel nostro paese solo per arricchirsi e lasciare l’esempio di un lusso sfrenato»27 e raggruppava, attorno al fratello Luciano e a suo zio Fesch, i notabili ajaccini per formare la nuova guardia nazionale. Lo stesso accadde a Bastia, grazie all’intervento di Saliceti. L’esempio delle due città principali contagiò, progressivamente, il resto dei villaggi dell’isola. Francesco Gaffori, nominato nel frattempo commissario per il Diladamonti, comprese che l’agitazione stava prendendo l’aspetto di una nuova rivoluzione ed abbandonò precipitosamente Ajaccio, mentre nell’isola scoppiavano dei moti spontanei in cui si mescolavano i rimpianti dell’antica nobiltà, le aspirazioni repubblicane, i sentimenti antifrancesi e le tradizionali rivendicazioni dei pastori-coltivatori. Tuttavia, la maggioranza della classe dirigente isolana era unita alla Francia da troppi interessi e si rivolse ai deputati eletti agli Stati Generali per far confermare la Corsica come «parte integrante dello Stato». Il decreto del 30 novembre 1789. In seguito ad un dibattito confuso, su proposta del deputato Saliceti, l’Assemblea Nazionale approvò il 30 novembre il seguente testo: «L’Assemblea nazionale dichiara che la Corsica fa parte dell’Impero francese, che i suoi abitanti devono essere regolati dalla stessa costituzione degli altri francesi, che, da ora, il Re sarà supplicato di farvi pervenire ed

26 Per un confronto con la Francia d’Ancien Régime e con la Francia rivoluzionaria Cfr. VOVELLE M., Ville et campagne au XVIIIe siècle, Paris 1980; ID., De la cave au grenier, Québec 1980; ID., La découverte de la politique-géopolitique de la Révolution française, Paris 1992; LEFEBVRE G., Les paysans du Nord pendant la Révolution française, Paris 1924 (Réédition Paris 1972); ID., La Révolution française et les paysans, Paris 1933 (Seconda edizione in Études sur la Révolution française, Paris 1954); ID., Le deuxième servage en Europe centrale et orientale, «Recherches Internationales à la lumière du marxisme», 63-64 (1970) e soprattutto SOBOUL A., Comprendre la Révolution, Paris 1981; ID., La Révolution française. (Nuova edizione rivista ed aggiornata), Paris 1982; ID., La civilisation et la Révolution française, to. 1: La crise de l’Ancien Régime, Paris 1970; to. 2: La Révolution française, Paris 1982; to. 3: La France Napoléonienne, Paris 1983. 27 CARRINGTON D., Napoleon and His Parents, London 1988, pp. 16-19.

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eseguire tutti i decreti dell’Assemblea Nazionale». A questo testo venne aggiunto un emendamento proposto da Mirabeau28 e da Saliceti: l’articolo autorizzava il ritorno di tutti gli emigrati, tra cui Pasquale Paoli. La Corsica era in festa: Bonaparte decise di non pubblicare più la sua lettera sulla Corsica29, mentre la Repubblica di Genova osservava con sospetto gli avvenimenti dell’isola. L’attaccamento dei corsi alla Repubblica francese era più legato alla speranza di una rivoluzione sociale, che all’idea di patria. Le considerazioni di alcuni storici francesi, come Villat, Diani e Defranceschi30, che hanno sottolineato la spontanea adesione dell’isola alla Francia, sembrano delle forzature a posteriori. L’isola soffriva una dominazione straniera, così come era successo con il governo di Genova. Non esisteva unanimità nell’integrazione, così come non era esistita unanimità nell’accettazione della conquista francese. Oltretutto, gli stessi personaggi che avevano tratto i maggiori benefici dall’occupazione e dalla politica d’assimilazione della Monarchia, non provavano alcun entusiasmo davanti al capovolgimento degli avvenimenti. Si trattava, ancora una volta, di una sfaldatura generale delle classi sociali complicata, in Corsica, dallo spirito di partito. Tra i rivoluzionari ed i notabili isolani esisteva un fossato troppo grande e lo stesso clero era reticente o addirittura ostile alla Repubblica. Se la Rivoluzione, in Corsica, è stata vissuta come una sconfitta, non lasciando quasi nessuna traccia, è per colpa dei numerosi personaggi che hanno parlato e legiferato di principi innovativi, senza averli introdotti nel contesto isolano. Filippo Buonarroti ne aveva perfettamente coscienza, quando denunciava il «diabolico spirito di partito e l’attaccamento ad un capo o ad un clan», che è stato il freno maggiore al successo della Rivoluzione. A seguito dell’approvazione del decreto del 30 novembre 1789, che aveva inserito la Corsica a pieno titolo nella nazione francese e del regio decreto del 4 dicembre 1789, che permetteva a Paoli e agli altri esiliati di rientrare in patria, le elezioni dei deputati per l’Assemblea Nazionale si svolsero nell’euforia generale. La Corsica venne divisa in due Dipartimenti (gennaio 1790), a loro volta divisi in distretti ed in cantoni. Allo stesso tempo furono soppresse le antiche giurisdizioni (Conseil Supérieur) e si decise di eleggere un “Comitato Superiore” (marzo 1790) incaricato di mantenere l’ordine e di predisporre le elezioni. Il potere passava ora ai rivoluzionari: Gaffori non sapeva dove rifugiarsi… e Paoli stava per rientrare nell’isola. Il ritorno di Paoli (luglio 1790) Paoli tornava in Corsica dopo un esilio, in parte volontario, di ventuno anni. A Londra era stato ricevuto con grandi onori, percepiva una pensione regia e frequentava la migliore società inglese; apprezzato da Boswell ed ammesso in una loggia massonica, frequentava gli intellettuali più celebri del tempo (tra cui Samuel Johnson) al Literary Club di Londra. La fama del generale era universale: era il momento della sua apoteosi. In America gli venne dedicato il nome di una cittadina della Pennsylvania, mentre altre città cambiarono il nome in Paoli, Corsica o Corsicana; Caterina di Russia gli offrì ospitalità ed una pensione annua, mentre il Gran Duca di Toscana e l’Imperatore d’Austria lo avevano ricevuto con i massimi onori; i poeti italiani, tra cui Alfieri, l’avevano celebrato come un eroe. Ma l’esilio era amaro e, soprattutto, non permetteva di avere una giusta visione degli avvenimenti. Tra la Rivoluzione e Paoli c’era un grande malinteso: «La sua formazione e le sue abitudini mentali sono tipiche dell’Ancien Régime, per lui la Monarchia è il frutto naturale della saggezza politica ed il dispotismo illuminato è l’ultimo stadio del progresso»31. Al di là dei dibattiti sulla reale o presunta partecipazione alla causa rivoluzionaria, Paoli si adeguò al nuovo ordine di cose: «…di chiunque sia la mano che ha dato la libertà alla nostra patria, io la bacio con tutta la sincerità del mio zelo e della mia sollecitudine»32. Temendo l’insorgere di complotti antifrancesi, precisò il suo pensiero affermando che «…La libertà della Patria è il mio unico scopo; e non sosterrò altro per assicurarle la protezione di una così grande nazione». Tuttavia il Generale esitava ancora a rientrare in Corsica: temeva di non avere nell’isola «alcuna parte attiva nella direzione degli affari», anche se preferiva «l’unione alle altre province francesi ad una libertà indipendente, tanto se ci venisse privata, o qualcuno la vendesse, o se ci fosse un tiranno». Alla fine, dopo lunghe tergiversazioni, smentite e riflessioni, il Generale decise di tornare in Corsica. Dopo aver accettato l’invito di una delegazione dall’Assemblea generale, Paoli si recò a Parigi il 3 aprile 1790. Accompagnato da Lafayette e Mirabeau, ricevuto dal Re, acclamato dall’Assemblea Costituente, salutato da Robespierre, il generale dichiarò ai deputati che quello era il giorno più felice della sua vita e che, trovando libera la patria che aveva abbandonato schiava, non si doveva dubitare della sua fedeltà e della sua lealtà (22 aprile 1790). Il ritorno in Corsica assunse dei toni trionfali: lungo la valle del Rodano, ad Aix, l’attendevano Giuseppe Bonaparte e Pozzo di Borgo; a Tolone, dove Paoli si imbarcò, la folla lo salutava con entusiasmo. In Corsica era il delirio: sbarcato a Macinaggio il 14 maggio, in mezzo ai colpi a salve dell’artiglieria ed al suono delle campane, Paoli ripartì il 17 per Bastia, dove venne ricevuto in maniera grandiosa. Qui il generale rincontrò il fratello Clemente, mentre da ogni parte dell’isola giungevano delegazioni per rendergli omaggio; ad Ajaccio venne eretta addirittura una statua in suo onore. Tre mesi più tardi, alla Consulta d’Orezza (settembre 1790) il Generale venne eletto, all’unanimità, Presidente del Congresso dipartimentale, ricevette in dono un’importante somma di denaro e venne nominato 28 Vedi ORANO P., Mirabeau in Corsica, «Archivio storico di Corsica», 4 (1932), pp. 550-554 e soprattutto gli articoli di ETTORI F., Les Mirabeau et leur temps, pp. 93-109 negli Actes del Convegno di Aix, «Centre aixois d’études sur le XVIIIe siècle», 1966. Mirabeau, che aveva partecipato effettivamente alla campagna del 1769 come sottotenente, rimase in Corsica fino al maggio 1770. 29 Si trattava di un progetto concepito nel 1787, come esternazione dell’odio di Bonaparte verso i francesi ed il suo affetto per Paoli. Doveva essere una storia della Corsica, scritta sotto forma di lettera all’abate Reynal. Cfr. MASSON F., Napoleon: Manuscrits inédits. 1786-1791, Paris 1910. 30 Cfr. le tesi esposte da DIANI D. nel vol. coll. Deux siècles de vie française, pp. 86 e segg.; VILLAT L., La Corse de 1768 à 1789, 2 vol., Millot, Besançon 1924-1925 (con l’aggiunta di un volume di bibliografia critica) e DEFRANCESCHI J., La Corse française (30 nov. 1789-15 juin 1794), «Société des Études robespierristes», Paris 1980. 31 EMMANUELLI R., Précis d’histoire Corse, Toulouse 1979, cap. XV, p. 142. 32 Paoli, Lettera ad Andrei, in PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli cit., p. 128.

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Comandante generale delle Guardie Nazionali. Tutto sembrava sorridergli: il potere era di nuovo nelle sue mani, anche se soltanto in apparenza. La realtà era ben più complessa: i suoi avversari politici erano agguerriti e potenti; i “gafforisti” si erano ritirati a Corte e non avevano alcuna intenzione di cedere il potere. Anche se il clan venne decapitato con l’esilio di Gaffori e dei suoi congiunti, il pericolo non era affatto diminuito: il “partito Buttafoco” era ancora influente e restava sempre ostile a Paoli. Il problema principale era, innanzitutto, l’anarchia in cui la Corsica sembrava essere ripiombata nel periodo 1791-1792. Apparentemente, l’isola era pacificata e ben governata: ogni distretto era amministrato da un Consiglio, da un Direttorio e da un Procuratore Generale Sindico, incaricato di controllare l’applicazione delle leggi. Sul piano giudiziario, furono istituiti dei Tribunali distrettuali, formati da membri eleggibili. Infine, il 15 novembre 1790, l’Assemblea Nazionale scelse Bastia come capoluogo del nuovo Dipartimento: l’assimilazione alla Repubblica era completa. Tuttavia il largo potere accordato alle autorità locali lasciava la Corsica in balia dei piccoli re elettivi: l’isola, ancora una volta, era stata lasciata nelle mani dei capi clan33. Alcuni corsi arrivarono a chiedere all’Assemblea Costituente: «Governateci Voi, perché mai, con il nostro spirito di partito, un Corso renderà giustizia ad un altro»34. La stessa combinazione di favoritismi e di intrighi caratterizzò la formazione delle Guardie Nazionali e dei battaglioni di volontari: i capi clan si erano spartiti i posti di ufficiali, come si erano già accaparrati quelli di giudici. L’unica novità era che i benefici di questo caos restavano nelle mani degli isolani. La questione religiosa Le difficoltà più serie cominciarono con l’applicazione della Costituzione Civile del Clero. Un decreto del 2 novembre 1789 stabiliva che i beni del clero dovevano essere «messi a disposizione della nazione». La confisca dei beni ecclesiastici richiedeva inevitabilmente una riorganizzazione della Chiesa francese: i Costituenti «non intendevano minimamente agire contro il cattolicesimo; essi manifestavano sempre apertamente il loro profondo rispetto per la religione tradizionale»35. Ma il turbine rivoluzionario aveva già intrapreso delle misure molto dure verso la religione cattolica: il 13 febbraio 1790 venne decretata l’abolizione degli ordini monastici; il 20 aprile 1790 venne tolta alla Chiesa l’amministrazione dei beni ecclesiastici; il 12 luglio 1790, infine, l’Assemblea approvò la Costituzione civile del Clero36. Queste disposizioni (che provocarono immediatamente delle rivolte nella Francia meridionale), urtavano contro la mentalità profondamente religiosa della maggioranza dei corsi, soprattutto nelle campagne, dove le nuove idee rivoluzionarie non erano penetrate. L’ostilità dei vescovi alle direttive rivoluzionarie era dilagante: nonostante la gravità delle sanzioni previste (privazione dei diritti civili, soppressione della retribuzione) nessuno, compreso il vescovo di Bastia, intendeva cedere. Anche Paoli si opponeva alla Costituzione Civile del Clero, dato che il clero secolare e regolare l’aveva ben sostenuto al tempo del suo generalato. Pio VI pronunciò una solenne condanna della Costituzione Civile e del giuramento ed incoraggiò la resistenza del clero isolano. Quest’ultimo, contrariamente a quello che stava accadendo in Francia, era compatto ed unanime nel difendere la separazione dei poteri, la persona del Papa ed i suoi rappresentanti in Corsica. Paoli, presentendo la tempesta e contravvenendo i propri principi, moltiplicò gli incoraggiamenti al rispetto della legge, facendo valere il carattere anodino del giuramento. La sua influenza fu talmente elevata che, nonostante le riserve dottrinali, il 90% del clero finì per accettare, in un clima di esultanza popolare. A Bastia si andò ben oltre il rifiuto: il Vicario generale venne eletto, suo malgrado, al posto del vescovo (7 maggio 1791); riunitasi nella chiesa di San Giovanni, arringata dai preti e dai religiosi, la folla dei fedeli proclamò il suo attaccamento al vescovo decaduto ed il 3 giugno saccheggiò le sedi dei clubs patriottici e condusse, con la corda al collo, il rivoluzionario Buonarroti al porto, dove venne fatto imbarcare con qualche sanculotto. Si era trattato di una manifestazione senza futuro, fermamente repressa da Paoli: il Generale fece occupare Bastia da migliaia di soldati, rinchiuse gli ecclesiastici compromessi, sospese la municipalità e trasferì il capoluogo del Dipartimento e la sede vescovile a Corte; per Paoli si trattava sicuramente di misure estreme, legate alla logica della conciliazione nazionale ed al rispetto della legalità costituzionale, ma i suoi nemici vi hanno visto anche una sorta di vendetta. D’altronde questa mossa gli alienò le simpatie dei bastiesi e radicalizzò le ostilità dei preti refrattari. Il clero secolare (1.667 preti nel 1789, con una densità media per abitante cinque volte superiore a quella francese) prestò giuramento in forte percentuale sia per le garanzie sul trattamento privilegiato dei curati-funzionari, sia per la maggiore fermezza del clero regolare. Soppresso con il decreto del 13 febbraio 1790, il clero regolare doveva scegliere tra l’abbandono della vita conventuale (nel qual caso si concedeva una pensione ai sacerdoti che lasciavano i conventi) e l’inserimento in nuovi istituti per coloro che decidevano di rimanere uomini di Chiesa. Nonostante la promessa della pensione, le “uscite”, nel 1790, furono poco numerose. Se esse aumentarono, nel 1791, e si accelerarono nel 1792-1793, è stato fondamentalmente per

33 L’evoluzione sociale dell’isola all’inizio del XVIII secolo viene condizionata così, da un lato, dalla permanenza dell’ambigua posizione dei clan (che si collocavano tra il popolo ed i poteri stranieri) e dall’altro, dall’impotenza sia del sistema clanico, sia di quello statale, nel controllare l’accesso al potere politco-amministrativo. Cfr. GIL J., La Corse entre liberté et terreur, Paris 1991, p. 89. 34 Ma cfr. quest’estratto del Moniteur Universel relativo alla Corsica: «Les élections des juges se sont terminées dans nos districts avec la plus grande tranquillité: les choix sont bons. MM. Leclerc, Chavanne, Bertagne, Dufaur, Serval et Duménil, Français d’origine, ont obtenu le vœu du peuple… M. Barrin lieutenant-général et commandant pour le roi les troupes de l’île en Corse, a quitté ce département; il a su se concilier ici l’estime et l’attachement des habitants du pays, et y maintenir la paix» (Bibl. Nationale François Mitterrand, Paris, rez de jardin). 35 SOBOUL A., Histoire de la Révolution française cit. I, p. 195. 36 «12.VII.90. CONSTITUTION CIVILE DU CLERGE (acceptée par le roi le 24.VIII). Saliceti et Colonna Cesari votent pour: Buttafoco et Peretti votent contre. Le nombre des évêchés est ramené à 83, un par département. Archevêques, évêques et curés doivent être élus par les citoyens à raison d’un curé fonctionnaire par paroisses de 600 habitants (le nombre des prêtres corses est évalué à 1667 pour une population de 150.000 habitants). Les cinq diocèses de la Corse (Aiacciu, Aleria, Bastia, Mariana et Nebbiu) sont donc ramenés à un seul». MONTI A.D., op. cit., p. 7.

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delle ragioni che non avevano nulla a che vedere con l’apostasia o la rinuncia: la confisca dei beni, la cessazione delle questue e la decisione di concentrare all’interno dell’isola i monaci conventuali. Tuttavia, il numero dei religiosi che decisero di tener fede alla loro scelta rimase elevata in Corsica (nel 1791, per esempio, 64 sacerdoti su 68 a Bastia; 107 su 113 a Corte; 46 su 55 all’Isola Rossa). Bisogna poi ricordare che il numero dei religiosi pensionati non può essere interpretato come un’adesione senza riserve alla Costituzione. Gli unici sacerdoti costretti ad accettare il giuramento erano i predicatori, che, in generale, rifiutarono in blocco la Costituzione Civile. Inoltre molti religiosi ricevevano il sostegno dei laici che, senza essere legati da voti solenni, si consacravano con l’elemosina al servizio di un convento. Quando, il 10 agosto 1792, venne decretata la fine della Monarchia e si pretese un nuovo giuramento di fedeltà alla Nazione, la resistenza si fece ancora più viva: i preti refrattari aumentarono e molti preferirono emigrare in Italia, mentre altri, specie nelle comunità montane, continuarono, sotto la protezione armata dei fedeli, ad ignorare la nuova legislazione.

Figura 53: Parigi nel 1789. I moti di Ajaccio (aprile 1792) Ajaccio non attese l’abbattimento della Monarchia e la fine del potere girondino per manifestare un’opposizione dichiarata alle idee rivoluzionarie37. L’elezione di Napoleone e di Quenza, avvenuta con numerose irregolarità e violenze, fece precipitare i rapporti di Bonaparte con Pozzo di Borgo e con Pasquale Paoli, suo protettore. La situazione, tesa ma pacifica, degenerò in moto l’8 aprile 1792, giorno di Pasqua. Gli ajaccini fedeli a Pozzo di Borgo ed a Paoli, la cui ostilità alle idee rivoluzionarie era stata esasperata dalla chiusura del convento dei Cappuccini, inveirono contro le truppe di volontari: durante una rissa, venne ucciso il luogotenente del battaglione. Come rappresaglia, i volontari spararono, il giorno dopo, sulla folla che usciva dalla messa. Questo avvenimento, importante per l’evoluzione del giovane Bonaparte e la storia delle sue relazioni con Paoli, era sintomatico del fossato che si stava innalzando tra i rivoluzionari ed i corsi, attaccati alle loro idee tradizionaliste ed alla loro religione38.

37 Il pretesto era minimo: le elezioni degli ufficiali del II battaglione di volontari corsi. Gli intrighi di Napoleone e l’opposizione dei Bonaparte ai Pozzo di Borgo accesero la scintilla di un incendio che covava sotto la cenere. La legge del 3 febbraio 1792 non permetteva agli ufficiali dell’esercito regolare di arruolarsi nei battaglioni volontari, tranne per il grado luogotenente-colonnello. Napoleone, luogotenente dell’esercito regolare, cercava di ottenere ugualmente la nomina: egli si intese con Quenza, comandante della Guardia Nazionale di Bastia, per eliminare Pozzo di Borgo dalla lista dei candidati. Oltre alle classiche opere di Chuquet e di Marcaggi sulla giovinezza di Napoleone, vedi gli Actes del convegno d’Ajaccio cit. e l’articolo di CARRINGTON D., Les Pozzo di Borgo et les Bonaparte Jusqu’en 1793 cit., pp. 101-130. 38 La Pasqua d’Ajaccio testimoniava perfettamente anche l’opposizione tra i «paesani» (abitanti dei villaggi dell’interno, dove i Quenza ed i Bonaparte avevano amicizie e parentele di clan) ed i «cittadini» (i borghesi d’Ajaccio, attaccati alle loro prerogative, che infervoravano la propaganda rivoluzionaria di Saliceti e Bonaparte). Infine, dato non indifferente, emergeva sempre più l’ostilità di Paoli per i battaglioni volontari, che egli definiva «intriganti e ladri», mentre Bonaparte, dal canto suo, soprannominava gli ajaccini «cospiratori e briganti». Evidentemente la Rivoluzione stava sempre più contrapponendo, in Corsica, i difensori dell’ordine borghese e gli adepti di una nuova società. Tuttavia nell’isola, rispetto alle altre province francesi, l’atteggiamento verso la religione era diventato la pietra di paragone dei sentimenti rivoluzionari. Quanto al destino personale di Bonaparte, bisogna ricordare che i moti dell’aprile 1792 lasciarono ferite profonde nella memoria degli ajaccini, tanto da giustificare l’atteggiamento ostile della città al momento della caduta del futuro Imperatore.

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Figura 54: l’assalto delle Tuileries, del 10 agosto 1792, da parte dei sanculotti parigini e dei federati venuti dal resto della Francia. Il Terrore giacobino La situazione generale cominciò a degenerare, in Corsica, nella primavera del 1792. La fuga del Re ed il suo arresto a Varennes (20 giugno 1791) avevano segnato la fine delle illusioni e dell’«impossibile compromesso»39 tra la Monarchia e la rivoluzione liberale. L’aristocrazia e la borghesia girondina, che dominavano la nuova Assemblea legislativa, concepivano il ricorso alla guerra contro le potenze straniere come una digressione dalla tempesta rivoluzionaria40. La guerra, cominciata nell’aprile 1792 contro l’Austria e risoltasi in una serie di sconfitte iniziali, esasperò l’ostilità dei rivoluzionari verso la Monarchia. A seguito delle forti pressioni delle masse popolari, l’Assemblea votò la deportazione di tutti i preti refrattari ed un nuovo giuramento di fedeltà “alla Nazione” (14 agosto 1792). Queste misure provocarono una viva emozione in Corsica e costrinsero all’emigrazione numerosi sacerdoti, mentre altri si rifugiarono nei villaggi dell’interno. Ormai la rottura tra il clero tradizionalista e la Rivoluzione era inevitabile. A seguito dell’insurrezione del 10 agosto 1792 e con l’avvento del Terrore giacobino, anche la nobiltà progressista fece fronte comune contro la Rivoluzione: l’abolizione, senza indennità, delle entrate feudali e la loro sottomissione a riscatto (25 agosto), oltre al decreto di vendita dei beni nobiliari a favore degli emigrati, sancirono la rottura sociale definitiva. Buttafoco, vedendo la partita definitivamente perduta, decise di emigrare in Italia, seguito da centinaia di altri nobili che avevano già perso (dal settembre 1791) tutti i doni, concessioni, censi e feudi accordati dall’Ancien Régime: le fila degli emigrati di Coblenza aumentava continuamente. La rottura tra Bonaparte e Paoli Per Paoli stavano iniziando delle serie difficoltà: gli Arena ed i Bonaparte si staccarono definitivamente dal suo partito. L’ammirazione cieca e totale di Napoleone per il generale, tradottasi in frasi eloquenti nella Dissertation sur le bonheur del 1791, o nella Lettre à Matteo Buttafoco, erano solo un ricordo. Del resto, al di là dei ricordi scritti nel Mémorial e delle innumerevoli leggende sui due personaggi41, Paoli era stato sempre reticente, sin dal suo ritorno in Corsica, verso il «figlio di Carlo»: non poteva dimenticare il tradimento del padre; l’entusiasmo di Napoleone verso di lui sembrava eccessivo ed inopportuno. Oltretutto, le velleità rivoluzionarie di Napoleone e gli intrighi di Giuseppe Bonaparte inquietavano sempre di più i pensieri del Generale. Anche Napoleone osservava il «padre della patria» con occhi diversi: con il richiamo di Paoli da parte dell’Assemblea Nazionale ed il suo arrivo in carne ed ossa nella patria ritrovata cominciò per Bonaparte la demistificazione del mito… Paoli, insediato a Corte, perdeva quel fascino dell’eroe plutarchiano dovuto alla distanza. Questo cambiamento d’atteggiamento traspariva già dai testi citati (Lettre à Buttafoco, Discours de Lyon), del 1791. Non si può dire con certezza se la rottura tra i due personaggi avvenne, come spesso è stato detto, dopo i moti d’Ajaccio dell’aprile 1791: alla fine del maggio 1792, Napoleone scrisse al padre

39 SOBOUL A., La Révolution française, Paris 1982, to. 2, p. 89. 40 La nuova Assemblea legislativa si stanziò il 1° ottobre 1791; rappresentavano la Corsica Bartolomeo Arena e Carlo Andrea Pozzo di Borgo. 41 Famosa quella riportata da Defranceschi sull’incontro avvenuto a Ponte Novo tra Paoli e Napoleone. In questa occasione il Generale avrebbe detto al giovane luogotenente: «Tu non hai nulla di moderno! Tu appartieni completamente a Plutarco!» Ettori afferma che «non c’è alcun serio motivo di mettere in dubbio questo aneddoto»; cfr. ETTORI F., Paoli, modèle du jeune Bonaparte, Ajaccio 1976, p. 90.

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Giuseppe di tenersi «stretto al generale Paoli. Lui può ed è tutto»42. Nel settembre dello stesso anno Giuseppe era ancora favorevole a Paoli: per convinzione o per calcolo, i fratelli Bonaparte dimorarono nel 1792 nel campo paolista. Il voltafaccia brutale avvenne nel settembre 1792, al momento della sconfitta di Giuseppe alle elezioni dei deputati dell’Assemblea Nazionale. Paoli aveva già rimproverato la sua corruzione, il suo dispotismo e la sua incapacità e probabilmente Giuseppe Bonaparte venne eliminato dalla lista dei deputati e da quella degli amministratori per l’intervento diretto del Generale. Inevitabilmente s’instaurò, a partire da quell’anno, una aperta inimicizia tra Paoli ed i Bonaparte. § 4. La Spedizione in Sardegna L’inimicizia tra Paoli ed i Bonaparte si trasformò in ostilità dichiarata a seguito della fortunosa spedizione in Sardegna43, episodio marginale nella guerra rivoluzionaria, ma importante nell’accelerare la caduta di Paoli. La Convenzione, inorgoglita dalla vittoria di Valmy e riunitasi quello stesso giorno, dichiarò l’offensiva generale44. La riva sinistra del Reno, la Savoia e Nizza furono occupate dalle truppe francesi. Saliceti, sin dal giugno 1792, aveva vivamente consigliato anche l’occupazione della Sardegna e riuscì a convincere i deputati sulle presunte ricchezze dell’isola mediterranea. Paoli manifestava, al contrario, tutta la sua riprovazione per un progetto che contrastava con le proprie idee su due punti essenziali: 1) esso rappresentava un pericolo per la Corsica che «non aveva bisogno né di guerra, né di conquista, ma solo di libertà e di pace»; 2) costituiva un’aggressione ingiusta verso il Regno di Sardegna, per cui nutriva la più alta stima, dato che era sempre stato l’alleato naturale della Corsica45. Egli tentò con ogni mezzo di temporeggiare e far fallire questa spedizione alla quale, in qualità di luogotenente generale delle truppe della Corsica, doveva prestare man forte: invocava la sua cagionevole salute, la debolezza delle guarnigioni e dei mezzi, la disorganizzazione delle guardie nazionali, poco abituate a combattere fuori dal loro territorio. Ed infatti riuscì a raggruppare a malapena duemila uomini (1.000 francesi stazionati nell’isola ed 800 volontari corsi) sui tremila che gli erano stati chiesti; per Paoli erano comunque sufficienti per adempiere «alla più empia e scellerata delle spedizioni»46. Con una mossa azzardata il generale chiese l’intervento del battaglione dei volontari d’Ajaccio, comandati da Bonaparte e Quenza: «Forse Paoli pensava ad un modo per sbarazzarsi di Napoleone, o almeno per rovinare, con una sconfitta, la sua nascente fama»47. Ma Paoli fece anche altro: alcuni contemporanei asserivano di averlo sentito dire a Colonna Cesari, a cui aveva affidato il comando delle truppe: «Fai in modo che questa maledetta spedizione finisca in fumo». La flotta francese rimase ferma due mesi nel porto di Ajaccio e partì solo nel gennaio 1793.

Figura 55: Antica Mappa della Corsica e della Sardegna di Hohmann (seconda metà XVIII sec.). 42 Cfr. MAC ERLEAN J.M.P., Napoleon and Pozzo di Borgo in Corsica 1764-1821 & After, London 1996, p. 98. 43 Cfr. l’opera di PEYROU E., Expédition de Sardaigne (1792-1793), Paris 1912 e di ROSSI H., L’échec de Colonna-Cesari dans la contre-attaque de la Sardaigne en 1793 à la lumiére des documents d’archives, «B.S.S.H.N.C.», 566 (1963), pp. 43-59. Utile anche il minuzioso studio di ESPERANDIEU E., Expédition de Sardaigne et campagne de Corse (1792-1794), Paris-Limoges 1895. 44 20 settembre 1792: sedevano, per la Corsica, Saliceti, Multedo, Andrei, Luce de Casabianca, Ange Chiappe e Bozio, tutti moderati favorevoli a Paoli, tranne Saliceti. 45 «16.XI.92. Pasquale Paoli fait savoir au ministre de la Guerre qu’il est dans l’impossibilité d’apporter un secours important à l’expédition de Sardaigne. 24.XI.92. Corti. Paoli aux députés Andrei et Bozio: «Sauf un miracle, l’expédition de Sardaigne ne peut réussir… Je ferai ce que je peux faire, mais je veillerai à ce qu’on ne mette me l’échec à dos ce que je peux supposer» (MONTI A.D., op. cit., p. 15). 46 «18.XI.92. Corti. Pasquale Paoli envoie copie à Colonna Cesari de deux lettres que lui a envoyées Anselme sans y joindre copie de son titre de mission, ni lui dire qu’il en sera informé par le Pouvoir exécutif: «S’ils veulent se moquer de moi, me donnant prétexte pour me démettre, ce que je ferai d’ailleurs, ils ont pris un mauvais chemin. Je répondrai à ce Monsieur que je n’ai rien reçu du ministre de la Guerre sur le sujet dont il m’entretient… Bien que n’ayant reçu aucune injonction du ministre de la Guerre ou du Pouvoir exécutif je dépends en tout ce qui concerne la défense du département, j’ai cru devoir répondre à M. Truguet, qui s’est annoncé comme responsable de l’expédition de Sardaigne et qui m’a prié de mettre à sa disposition les secours que peut fournir le pays sans mettre sa sécurité en danger, que je lui enverrai le peu de volontaires que l’on peut récupérer en si peu de temps. Et Paoli demande à Cesari de revenir aussitôt qu’il aura conféré avec Semonville, pour décider avec lui de ce qu’il doit écrire au ministre et au Pouvoir exécutif pour leur sa démission». MONTI A.D., op. cit., p. 15. 47 GODECHOT J., Napoléon et l’Empire cit., I, p. 34.

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Figura 56: Corsica and Sardinia di Philip Cluver (Cluverius) 1711. Giunta nelle acque sarde, l’armata bombardò Cagliari (29 gennaio) tentando uno sbarco (15 febbraio) che si risolse in uno scompiglio generale: alla fine fu costretta a ritirarsi senza aver raggiunto alcun obiettivo. Anche la spedizione terrestre, condotta da Colonna Cesari, si risolse in un totale fallimento; a causa di motivi oscuri, che alimentavano il sospetto di tradimento, Colonna Cesari aveva perso un mese in preparativi. All’inizio, tutto sembrava volgere secondo i piani: la fanteria s’impadronì, il 23 febbraio 1793, dell’isola di Santo Stefano, da dove Napoleone iniziò a bombardare la Maddalena48. Mentre si preparava lo sbarco sull’isola, la corvetta francese che proteggeva il corpo di spedizione si

48 Una squadra composta da 23 unità salpò il 20 febbraio 1793 da Bonifacio alla volta delle isolette dell’Arcipelago della Maddalena; al comando delle artiglierie il generale Colonna Cesari, che guidava la spedizione, aveva posto il giovane lungotenente corso Napoleone Bonaparte. Ma i maddalenini avvistati gli invasori, dopo aver posto al sicuro al centro dell’isola i vecchi, le donne e i bambini, si preparano a resistere nelle batterie di Punta Tegge, Guardia Vecchia e Forte Sant’Andrea. Il 22 febbraio la flotta nemica raggiunse l’arcipelago ma dovette rifugiarsi a Cala Villamarina, sull’isola di Santo Stefano da dove, sbarcati i cannoni, cominciò a bombardare l’abitato. Il primo giorno furono esplose 500 bombe e sparate oltre 5000 palle; pare che Napoleone abbia sparato personalmente 60 cannonate. Di fronte a forze nemiche tanto preponderanti i maddalenini erano certamente costretti a soccombere, ma durante la notte, il nocchiero Domenico Millelire ed il timoniere Cesare Zonza, eluso il blocco francese, riuscirono a piazzare due cannoni allo Stintino di Capo d’Orso ed il mattino successivo aprirono il fuoco sul ridosso di Santo Stefano dove avevano trovato rifugio sicuro i legni gallo-corsi. L’impresa fu ripetuta la notte successiva ed in breve la squadra navale assediante si trovò nell’imprevista situazione di assediata. Ai francesi di Napoleone non restava che la via della fuga. Il fallito tentativo di sbarco fu l’occasione in cui la giovane collettività maddalenina ebbe modo di dimostrare con lealtà e fermezza il proprio attaccamento all’isola e alla dinastia sabauda. E questi sentimenti si concretarono nell’improvvisata bandiera fatta sventolare sul Forte Santo Stefano per incitare gli isolani alla lotta. Il drappo raffigura Santa Maria Maddalena ai piedi della croce, con un manto che rappresenta il contorno dell’isola ed il motto “Per Dio e per il Re vincere o morire”. Napoleone

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ammutinò e, minacciando di morte il comandante, costrinse Colonna Cesari a dare l’ordine di ritirata.

Figura 57: Carta nautica originale della Sardegna, Archives Dèp. Corse du Sud, Ajaccio. Si trattava di una disfatta completa, vergognosa e giustificabile solo con il tradimento. Gli avversari di Paoli alla Convenzione, tutti nei ranghi giacobini, accusarono il generale di aver compromesso il successo della spedizione. Saliceti pronunciò un’arringa infuocata: già da tempo la sua ammirazione per Paoli si era trasformata in ostilità49. È strano, al contrario, trovare Napoleone tra gli altri accusatori: in questa situazione il suo atteggiamento fu ambiguo50. A Parigi ci si imbarazzava per delle sfumature: su invito della Società repubblicana di Tolone, che attribuiva a Paoli la disfatta della spedizione e dopo un veemente intervento di Marat, che denunciava «questo vile intrigante che prende le armi per servire la sua isola e fa l’illusionista per ingannare il popolo», la Convenzione decise, il 2 aprile 1793, di sospendere Paoli dalle funzioni militari e di convocarlo a Parigi. Si trattava del risultato di un lento processo di rottura avvenuto giorno dopo giorno e che la spedizione in Sardegna aveva solo contribuito ad accelerare. I giacobini ed i loro alleati corsi (tra i quali Arena e Saliceti), inquieti per i progetti dell’Inghilterra nel Mediterraneo e per i legami sentimentali ed ideologici di Paoli verso la sua terra d’esilio, presero al volo l’occasione per abbattere un uomo che aveva subito preso le distanze da loro e che non nascondeva la sua ostilità verso una rivoluzione regicida (Luigi XVI era ebbe dunque a La Maddalena la sua prima sconfitta e a Domenico Millelire fu conferita la prima Medaglia d’Oro d’Italia. 49 Gli interessi personali avevano giocato, in questa evoluzione, un ruolo importante quanto le motivazioni ideologiche: partecipe con passione alle idee giacobine, Saliceti restava comunque un uomo cupido e venale; era un nuovo ricco, un approfittatore della Rivoluzione, un uomo di clan nell’accezione più stretta del termine: accumulava tre pensioni e dilapidava il denaro pubblico a suo piacimento. Deputato alla Convenzione grazie a manovre ed intrighi oscuri, legato allo spirito di partito, regicida (l’unico fra i deputati corsi), egli era stato incaricato dalla Convenzione, il 1° febbraio 1793, di controllare le mosse militari di Paoli. 50 Bonaparte iniziò la requisitoria (il 28 febbraio 1793) aggiungendo la sua firma alla lettera con cui gli ufficiali del corpo di spedizione della Maddalena assicuravano a Colonna Cesari la loro stima. Due giorni dopo redasse una “protesta dei volontari” indirizzata al Ministro della Guerra, al Comandante dell’Esercito delle Alpi ed a Paoli, in cui criticava l’impreparazione della spedizione, la fuga precipitosa della corvetta e l’ordine di ritirata, esigendo «che si ricerchino e puniscano i vigliacchi ed i traditori che ci hanno fatto fallire». Si potrebbe pensare che questa grave accusa riguardasse solo Colonna Cesari, ma leggendo tra le righe era evidente che l’accusa era rivolta anche a Paoli. Il 7 marzo 1793 il Consiglio Generale del dipartimento della Corsica si dichiarò, all’unanimità, «intimamente convinto della piena ed intera giustificazione del cittadino Colonna” e rigettò la colpa sulla “cattiva condotta dei vigliacchi che hanno costretto la corvetta a fuggire». Questa decisione provocò un voltafaccia spettacolare di Bonaparte, che assicurò la propria amcizia a Colonna Cesari, al punto che è lecito domandarsi se egli sia stato sincero o se non avesse cercato, «mettendo il nipote fuori causa, di addossare sullo zio l’intera responsabilità del fallito contrattacco e di attirargli il sospetto del governo». ROSSI H., L’échec de Colonna-Cesari dans la contre-attaque de la Sardaigne en 1793 à la lumiée des documents d’archives, «B.S.S.H.N.C.», 566 (1963), pp. 43-59.

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stato giustiziato il 21 gennaio 1793) e che gli faceva orrore. Affermare che Paoli fosse il responsabile della sconfitta della spedizione in Sardegna significa fare un salto davvero troppo grande. Chiaramente Paoli non era stato mai favorevole alla spedizione e non aveva fatto nulla per garantirne il successo; ma la spedizione non era fallita per ragioni strettamente militari. Paoli non era presente né alla spedizione navale di fronte a Cagliari, né all’ammutinamento della fregata che stava conquistando la Gallura: la rottura tra Paoli ed i rivoluzionari era diventata insanabile per altre ragioni. § 5. La secessione della Corsica nel 1794 La rottura non avvenne immediatamente: Paoli, fedele a se stesso, temporeggiava con un distacco sorprendente. I suoi fedeli reagirono violentemente alle accuse, denunciando gli intrighi di Arena51, fondando ad Ajaccio, in aprile, un Club che si contrapponeva a Napoleone ed ai nemici di Paoli (uniti, dal 1791, nella “Société des Amis de la Constitution”) e spingendo Paoli a giustificarsi. Ma Paoli attese il 2 maggio per rispondere a queste manifestazioni di incoraggiamento e scrisse una lettera di una neutralità così sorprendente da dare l’impressione di non rifiutare le accuse pronunciate contro di lui. È difficile giudicare se l’atteggiamento di Paoli sia stato dettato dal temporeggiamento, dal distacco o dalla doppiezza. I suoi nemici l’accusarono di aver voluto attendere il momento opportuno per separare la Corsica dalla Francia, ma inizialmente sembravano voler evitare una rottura brutale ed irrimediabile. Non appena Paoli si giustificò davanti alla Convenzione, sospendendo subito l’avviso di comparizione indirizzato il 2 aprile, Saliceti decise di convincerlo della sua volontà di pacificazione. Ma gli avvenimenti correvano troppo velocemente: la rottura definitiva era nell’aria. Già in aprile il Consiglio Generale aveva denunciato agli altri due commissari l’ambizione, l’avarizia, gli intrighi e la corruzione di Saliceti. Per tutta risposta i commissari replicarono con la creazione di un’amministrazione alternativa con sede a Bastia, per la destituzione di Paoli e la deposizione degli amministratori che gli erano devoti52. Avvenne quindi una scissione inevitabile alla Consulta di Corte del 27 maggio 1793: in questa occasione fu rinnovata la fiducia a Paoli; Saliceti, Multedo e Casabianca furono destituiti dal loro mandato di deputazione; i Bonaparte e gli Arena furono denunciati come seminatori di discordia e venne lanciato un appello a tutti i soldati ed ai funzionari di obbedire solo a Paoli ed ai suoi alleati. Nominato Generalissimo, padrone di tutta l’isola con l’eccezione di Bastia, di Calvi e di San Fiorenzo, Paoli poteva opporsi apertamente alla politica della Convenzione su tutti i fronti: finanziario (rifiuto degli assegnati), religioso (richiamo dei sacerdoti refrattari)53 e militare, con il riarmo dei partigiani e l’organizzazione della difesa dei porti già controllati. La replica della Convenzione non si fece attendere. Il 17 luglio, dopo aver ascoltato gli interventi di Saliceti e Lacombe, di ritorno dalla Corsica, la Convenzione dichiarò Paoli «traditore della Repubblica francese», lo mise fuori legge insieme a Pozzo di Borgo ed incaricò le forze di terra e di mare di occupare la Corsica.

51 «Quest’uomo veramente immorale…conosciuto solamente per la sua rapacità, la sua immoralità, e per la versatilità del suo carattere». Cfr. il Manifesto del Consiglio Generale della Corsica ai Dipartimenti e Clubs di Marsiglia e di Tolone, da Corte, il 22 febbraio 1793, pubblicato da LAMOTTE P., «Corse historique», 5-6 (1962), pp. 28-30. 52 Vd. Lettre de Saliceti à ses collègues de Paris 27 avril 1793: «Sans ce décret fatal (quello del 2 aprile), le tout était arrangé et les affaires auraient été très bien, mais maintenant tout est en désordre». Il giorno successivo scrisse: «C’est à la prière de Paoli, que le rassemblement de Corti s’est dissout; c’est d’après son opposition que quelques paysans ont cessé de forcer les citoyens à quitter la cocarde nationale». Lettre de Saliceti à Andrei, 28 avril 1793: «Sans le décret qui commandait l’arrestation de Paoli, tout se serait passé. Soit que Paoli soit mal conseillé, soit que ses intentions ne soient pas pures, il me semble qu’il a sacrifié mille ans d’histoire à la sotte vanité de régner un jour sur le pauvre peuple de Corse». Archives Nationales, Paris, Serie F 12, f. 9. 53 Malgrado la volontà dei giacobini, la “decristianizzazione” della Corsica aveva avuto un successo limitato, con l’eccezione delle città dove si era visto talvolta il matrimonio dei preti, l’abiura, la remissione di oggetti sacri e la celebrazione del culto decadario. Cfr. CASTA F., Le clergé corse et les serments institutionelles, «Corse historique», 33 (1969).

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Figura 59: Napoleone Bonaparte in un ritratto giovanile.

Figura 58: il decreto della Convenzione che ha posto fuori legge Pasquale Paoli.

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§ 6. Il Regno Anglo-Corso (1794-1796)

La Corsica era ormai divisa in due e la situazione interna era complicata ulteriormente dalle lotte intestine54. Paoli non aveva attorno a sé l’unanimità dei consensi: alcuni dei suoi uomini scelsero di fuggire e di ritirarsi nei porti occupati dai francesi (tra questi Abbatucci e Gentili, compagni d’esilio e difensori del Generale davanti agli attacchi di Saliceti ed Arena). Il 25 agosto Paoli inviò un emissario all’ammiraglio inglese Hood, la cui flotta si trovava davanti a Tolone; il 1° settembre, scrisse al ministro degli Affari esteri inglese per chiedergli la protezione dell’Inghilterra55. In quel momento si trattava solo della richiesta di un aiuto militare in una situazione di crisi, ma era il primo passo sul cammino di un’alleanza più stretta ed importante. Bisogna constatare che, nonostante il loro settarismo, i Convenzionati avevano previsto le intenzioni del Generale: il richiamo dell’Inghilterra era nell’ordine delle cose. Paoli si sentiva sinceramente attaccato ad una nazione che, ben prima del 1789, era considerata la più liberale, ma si era lasciato sedurre dai primi fuochi della Rivoluzione (dal 1789 al 1791): l’idea che la Monarchia francese potesse assumere un volto più umano e potesse assicurare alla Corsica una reale autonomia gli avevano fatto sperare in un «governo a parte…sotto l’alta protezione e garanzia della Francia»56. L’accusa mossa al Generale, da molti storici francesi57, di tradimento verso la Francia è poco corretta: bisogna ricordare che Paoli si aspettava dal governo inglese quello che aveva sperato inutilmente da quello francese: il protettorato sull’autonomia isolana, che poteva essere assicurata da un Paese in cui il «liberalismo delle istituzioni sembrava predisporlo particolarmente a giocare questo ruolo»58. Non bisogna, poi, trascurare l’ambizione personale, la speranza, già avuta nel 1768, di un governo effettivo, se non giuridico, sulla Corsica. Qualsiasi siano state le motivazioni di Paoli, ben presto l’isola subì un nuovo capovolgimento di fronte. L’Inghilterra, che aveva seguito e assecondato discretamente il tentativo di Teodoro di Neuhoff, che aveva sostenuto il Re di Sardegna nei suoi progetti ed aveva accolto Paoli in esilio, era di nuovo perfettamente cosciente dei vantaggi strategici che offriva la Corsica nella lotta contro la Francia rivoluzionaria. L’isola costituiva un punto d’appoggio ottimale per la flotta inglese: la possibilità di trovare gli approvvigionamenti la rendevano una base indispensabile per il blocco del Sud della Francia ed un punto d’appoggio prezioso lungo le rotte del Levante e dell’Africa. Gli obiettivi dell’Inghilterra erano noti anche ai Convenzionati: essi, ben coscienti del pericolo, organizzarono in fretta la difesa dell’isola, anche se la Corsica non era in grado, sul piano militare, di opporsi ad uno sbarco inglese. Ciò apparve chiaramente nel gennaio del 1794. La conquista militare inglese La flotta inglese, che nell’agosto del 1793 non era riuscita ad occupare Tolone, nel febbraio 1794 si gettò all’assalto di San Fiorenzo, di cui s’impadronì dopo alcuni giorni di intenso bombardamento. Bastia era riuscita a resistere più a lungo: nonostante il bombardamento della flotta dell’ammiraglio Hood e la carestia, capitolò solo in maggio, con gli onori di guerra, mentre Calvi si arrese in agosto59. La conquista della Corsica era stata facilitata dalla dispersione delle truppe francesi, dall’incapacità della Convenzione nel sostenerli e dall’imperizia dei capi: Lacombe, dopo aver abbandonato San Fiorenzo, lasciò Bastia nel momento più duro del combattimento, mentre Gentili e Casabianca pagarono la scarsa conoscenza strategica del territorio isolano.

54 Vedi lo studio fondamentale di TOMI P., Le royaume anglo-corse, «Études corses» 9 e 14 (1956-1957) e di JOLLIVET M., Les Anglais dans la Méditerranée (1794-1797). Un royaume anglo-corse, Paris 1896. Cfr. Anche MAC ERLEAN J. M. P., Le royaume anglo-corse (1794-1796), «Annales historiques de la Révolution française», LVII (1985) e GREGORY D., The ungovernable rock: a history of the Anglo Corsican kingdom and its role in Britain’s Mediterranean strategy during the revolutionary war, 1793-1797, Cambridge 1985. Cfr. inoltre: BLACK J., Natural and Necessary enemies: Anglo-French relations in the 18th century, Athens (Georgia) 1986; LINOTTE D., La constitution anglo-corse et les constitutions françaises: théorie constitutionnelle, «B.S.S.H.N.C.» 114 (1995); RICOTTI, C. R., Il costituzionalismo britannico nel Mediterraneo (1794-1818), Roma 2005; ROVERE A., Le temps du Governo Separato mai 1793 – mai 1794, «B.S.S.H.N.C.», 114 (1995); per i rapporti tra Paoli e la massoneria inglese vd. VERGÈ-FRANCESCHI M., Paoli un corse des Lumières, Paris 2005. 55 Cfr. Le lettere di Pasquale Paoli al Re Giorgio III ed al Primo Ministro Gueglielmo Pitt conservate a Londra: «Corte 1 Septembre 1793: Lettre de Paoli à S.M. Georges III: Délivré de tout engagement étranger, je retourne, Sire, sans tâche et sans remords aux sentiments qui me sont personnels et que Votre Majesté connaît déjà depuis longtemps. J’implore, au nom de mes compatriotes, l’appui de vos armes et votre protection pour assurer leur liberté qu’ils aiment à combiner avec tout ce qui peut contribuer aux avantages et Votre Majesté et de la nation anglaise. Vos ministres, Sire, sont informés de ma position et des démarches que j’ai faites envers Milord Hood, commandant votre flotte dans la Méditerranée». Corte 1 Septembre 1793, Lettre de Paoli au Premier ministre William Pitt: «Je suis autorisé par mes compatriotes à prendre toutes les mesures que les circonstances pourraient exiger pour la défense et la sûreté de l’île… C’est en conséquence d’une autorisation pareille qu’il m’est donné enfin, après avoir épuisé tout ce que la délicatesse et la loyauté exigeaient de ma nation et de moi envers la France, de pouvoir sans tâche et sans remords renouveler à S.M. britannique les projets et les vœux que j’avais eu l’honneur de lui soumettre autrefois durant mon séjour en Angleterre». Lo stesso giorno Paoli scrisse ad Hood che il suo unico scopo è di assicurare la libertà della sua patria: «ce qui a toujours été l’objet de mes travaux et la règle de ma conduite publique». Il écrit également à Drake, ministre plénipotentiaire du roi d’Angleterre à Gênes et à Lord Grenville, secrétaire d’Etat au Foreingn Office». British Library, London, Add. Manuscripts 32866, f. 335. 56 Lettera ad Andrei, da Londra, 10 novembre 1789: «La libertà della Patria è il mio unico scopo; e non avrò altro desiderio che di assicurarla sotto la protezione di una così grande nazione. Quando ho suggerito un governo a parte, io intendevo sotto l’alta dominazione e garanzia; io volevo dire essere uniti nella guerra e nella pace… Appariva dunque chiaramente che il governo separato non aveva altro scopo che di rendere più adatto al genio ed ai costumi dei corsi l’amministrazione del loro governo». Estr. da TOMMASEO N., Lettere di Pasquale Paoli cit., p. 159. 57 Cfr. gli ACTES DU COLLOQUE D’AJACCIO, Problèmes d’histoire de la Corse de l’Ancien Régime à 1815, «Société des Études robespierristes - Société d’Histoire Moderne», 1971 (rist. 1983). 58 EMMANUELLI R., L’équivoque de Corse, 1768-1805, la Marge éditions, Ajaccio 1989, p. 86 ed ID., Précis d’Histoire Corse, éd. Cyrnos et Méditerranée, Ajaccio 1970, p. 129. 59 Durante il bombardamento di Calvi l’Ammiraglio Nelson perse un occhio.

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Figure 60 e 61: la conquista di Bastia, San Fiorenzo e Calvi nel 1794 da parte dell’esercito inglese. L’organizzazione del Regno Anglo-Corso Conquistata la Corsica, Paoli decise, in accordo con gli inglesi, di riorganizzarla60: fu subito convocata una Consulta a Corte, che legiferò dal 10 al 21 giugno 1794. Eletto presidente all’unanimità il 14 giugno, Paoli giustificò la separazione «assoluta e definitiva» dalla Francia ed il passaggio della Corsica sotto la protezione immediata del governo inglese con una Costituzione che garantiva la libertà della nazione. Il 15 giugno fu approvato all’unanimità il decreto che proclamava «rotto ogni legame politico e sociale» con la Francia. Le motivazioni allegate per giustificare la decisione erano numerose: 1) tirannide «che sotto il nome di libertà e di sicurezza» insanguinava la Francia; 2) disordini provocati in Corsica da una soldatesca indisciplinata che se la prendeva con la religione e gli onesti cittadini; 3) volontà dei rivoluzionari d’impadronirsi delle proprietà altrui e di abolire il culto; 4) atrocità commesse dai giacobini e minacce costanti alla religione e alla proprietà. Le denunce, anche se unite a diversi risentimenti, riaffermavano i principi del conservatorismo sociale e religioso: la difesa della proprietà e della religione erano significativamente evocate insieme. Il 19 giugno 1794 la nuova Costituzione venne approvata all’unanimità: era un compromesso tra la Costituzione paolina del 1755 e le istanze degli inglesi. I principi erano semplici: si trattava di una costituzione monarchica, in cui il potere legislativo apparteneva al Re d’Inghilterra ed al Parlamento corso. Poteva essere dichiarato elettore ogni corso di almeno 25 anni, con l’unica condizione della proprietà terriera: l’eleggibilità era riservata a coloro che possedevano almeno 6.000 lire in beni mobili o immobili. I vescovi facevano parte di diritto del Parlamento, mentre ne erano esclusi i funzionari: chiaramente si cercava di equilibrare il potere legislativo ed il potere esecutivo. Il potere legislativo manteneva una certa indipendenza, ma il Re designava un vicario (Viceré) con dei poteri abbastanza estesi. Il Re d’Inghilterra era il capo dell’esercito, aveva la prerogativa della nomina dei funzionari e poteva convocare, prorogare o sciogliere il Parlamento. Egli doveva scegliere i funzionari solamente tra i corsi ed era costretto – in caso di scioglimento della Camera – a convocare un nuovo Parlamento entro quaranta giorni. Il Vice Re poteva essere richiamato in Inghilterra su richiesta del Parlamento e comunque né l’una, né l’altra figura giuridica aveva il diritto di alienare tutto o parte del territorio nazionale. Le competenze del potere legislativo erano pressoché illimitate: anche nel capitolo delle imposte il Re non poteva decidere nulla senza il consenso della Camera. La Camera aveva l’esclusiva facoltà di regolamentare, anche in disaccordo con le direttive inglesi, le norme sul commercio estero alle necessità della Costituzione. Si trattava, quindi, di un’autentica Costituzione liberale: essa recepiva l’Habeas Corpus, la libertà di stampa, la libertà di pensiero e di religione (la religione cattolica era considerata ufficiale, ma erano autorizzati anche gli altri culti). Il liberalismo della Carta costituzionale era fortemente temperato dalla designazione dei magistrati da parte del Vice Re, anche se, a livello giurisdizionale, venivano mantenuti il controllo del jury e la territorialità delle vertenze (le cause corse venivano discusse e giudicate solo in Corsica). L’unica ambiguità riguardava la reale o presunta indipendenza dell’isola. Contrariamente a quanto era accaduto con la Francia, la Corsica non era stata annessa all’Inghilterra: i deputati della Dieta dovevano solo mantenere il giuramento di fedeltà a Sua Maestà Giorgio III e prestargli fede ed omaggio, conformemente alla Costituzione. Senza dubbio, l’espressione scelta (Regno anglo-corso), il blasone (la testa di Moro unita alle armi d’Inghilterra)61, il motto (Amici e non di ventura) suggerito da Elliott62, sembravano indicare un’associazione volontaria su un piede d’uguaglianza con la madrepatria: questa era certamente l’intenzione di Paoli63. Ma le intenzioni del governo inglese e di Pozzo di Borgo erano interamente guadagnate alle idee

60 Su istruzione del loro governatore, Elliott e Hood avevano pregato Paoli, il 2 aprile, di far eseguire una consultazione popolare, «perché sua Maestà Giorgio III era deciso a non concludere nulla senza il libero e generale consenso del popolo corso». 61 BERETTI F., Les armoiries du royaume anglo-corse, «B.S.S.H.N.C.», 600-601 (1971), pp. 27-31. 62 Questo motto richiama un passo dell’Inferno (Inf. II, 60-63), con un doppio senso provocato dall’ambiguità del verso dantesco: «L’amico mio, e non de la ventura/ ne la diserta piaggia è impedito/ sì nel cammin, che volt’è per paura». 63 Cfr. la lettera di Paoli a Galeazzi del 24 aprile 1794: «Il Re…sarà Re di Corsica: ma la Corsica, se la costituzione inglese aveva dei difetti, potrà correggerli in questa costituzione, per assicurare il suo benessere e la sua libertà. E, cosa che conta ancora di più, non perdiamo il nome di Nazione.

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di Elliott, fortemente desideroso d’esercitare a pieno i suoi poteri ed irritato dalle resistenze del generale. Tra i tre uomini iniziò presto una lotta sordida, non solo per prestigio e vanità. Elliott ed altri suoi collaboratori accusarono esplicitamente Paoli d’aver ambito al ruolo di Vice Re: d’altronde era possibile e profondamente legittimo da parte di un uomo che aveva già governato l’isola. Ben presto le ambizioni di Paoli si sarebbero scontrate con i progetti di Elliott e con gli intrighi dei corsi asserviti all’Inghilterra.

Sir Thomas Elliott, Vice Re di Corsica Elliott fu il responsabile, dal momento della sua nomina fino all’insediamento a Bastia, del rafforzamento autoritario della costituzione64: il Consiglio di Stato ed il Segretario di Stato dovevano sottostare alle sue decisioni. Pozzo di Borgo venne nominato Presidente del Consiglio di Stato in perfetta sintonia con le direttive costituzionali, dato che il Vice Re poteva nominare ad un posto di comando chiunque ritenesse opportuno. In seguito al rifiuto della presidenza da parte di Paoli (febbraio 1795), i deputati della seconda sessione del Parlamento corso (novembre-dicembre 1795) furono così docili da votare le mozioni più servili, in totale ottemperanza alla volontà del Vice Re. Per negligenza o corruzione, essi permisero l’instaurazione progressiva di una sorta di dittatura illuminata: furono votati a maggioranza dei provvedimenti normativi che disciplinavano la soppressione del jury (che provocò l’ira di Paoli); l’internamento cautelativo ed arbitrario dei sospetti; il divieto d’associazione sotto pena di morte e la creazione di una Corte marziale con giudizio inappellabile. I deputati non mancarono, violando la Costituzione, di votare leggi doganali che favorivano il commercio inglese a detrimento dell’economia isolana e decreti che, limitando la vana pastura ed autorizzando la chiusura dei campi, garantivano l’influenza dei grandi proprietari terrieri del Sud, largamente rappresentati in Parlamento (Pietri, Peretti, Roccaserra). Questi grandi latifondisti, che nel settembre 1790 avevano indirizzato al Re di Francia una supplica contro l’abolizione della nobiltà ereditaria, si unirono agli altri notabili isolani per ottenere dal Re d’Inghilterra le protezioni e le garanzie necessarie al mantenimento dei propri privilegi economici. Ai Notabili ed ai Signori furono attribuiti, infatti, tutti i posti d’onore nell’amministrazione o nell’esercito: le milizie furono riorganizzate in due reggimenti con colonnelli inglesi ed ufficiali corsi. Il colpo di mano controrivoluzionario in Corsica era stato completato sotto tutti i punti di vista: il 18 maggio 1795 il Parlamento decretò la confisca dei beni dei corsi che avevano seguito i francesi sul continente, misura che indispose il partito francese e Pasquale Paoli, che la considerava un

La Corsica non era più la Corsica, unita alla Francia. Il regno di Corsica sarà presto libero come quello d’Inghilterra». Estr. da PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli cit., p. 182. 64 Nato nel 1751, sir Gilbert Elliott aveva completato gli studi a Parigi, dove era diventato amico di Mirabeau. Deputato al Parlamento inglese (dal 1776), nel 1793 si trovava a Tolone al momento dell’evacuazione della città da parte dei controrivoluzionari. Insediatosi a Firenze, fu incaricato di occuparsi degli affari di Corsica ed entrò in contatto con Paoli. Egli era rimasto sinceramente affascinato dalla bellezza e dalla singolarità dei costumi e dei paesaggi corsi ed era molto apprezzato dai partigiani paolisti. Al tempo stesso manteneva un candore singolare: Elliott era fortemente attaccato alle leggi del suo Paese ed era convinto «che il sistema di governo inglese era il più perfetto che il genere umano avesse mai immaginato e che i malesseri degli altri paesi provenissero dalle differenze che esistevano fra questi e l’Inghilterra». Cfr. THRASHER A., Pascal Paoli, an enlightened hero 1725-1807, Constable, London 1970, p. 123. Vedi anche la corrispondenza di Elliott sulla Corsica, «B.S.S.H.N.C.» 133-138 (1892) e 218 (1899).

Figura 62:il blasone del Regno Anglo-Corso con il celebre motto: «Amici e non di ventura».

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possibile fermento di discordie intestine65. Paoli criticò aspramente anche la norma, ispirata da Pozzo di Borgo ed Elliott, che mirava a rimettere ordine negli affari religiosi e che si traduceva concretamente in una forte diminuzione delle secolari prerogative della Santa Sede nell’isola (riconoscimento di soli tre vescovati, soppressione delle decime, indipendenza dei vescovi da Genova e Pisa, nomina dei vescovi approvati dal Parlamento, giuramento di fedeltà degli ecclesiastici alla Costituzione inglese, ecc.), violentemente rigettata da papa Pio VI. Il Vice Re si guardò bene, in ogni caso, dall’approvarla esplicitamente.

Figura 63: il Regno anglo-corso (1794-1796). La rottura definitiva Paoli, ritiratosi a Ponticello di Rostino per lo sdegno di non essere stato eletto Vice Re, covava dei seri motivi di malcontento per le direttive approvate dal Parlamento corso, deplorando: 1) l’insufficiente difesa militare dell’isola; 2) il ritorno degli emigrati francesi, che lo condannavano senza appello; 3) il ritorno dei corsi realisti (Gaffori e Buttafoco, nemici di un tempo, ancora più carichi di onori e favori); 4) la convocazione del Parlamento a Bastia, dove risiedeva Elliott, anziché a Corte; 5) la rivalità con Pozzo di Borgo, suo fedele alleato ed ora antagonista, la cui amicizia con Elliott l’esasperava ed infine, 6) l’ostinazione e la cecità di Elliott «che vede e sente solo quello che vuol vedere e sentire»66. Tra il vecchio Generale ed il Vice Re si era instaurata una esplicita inimicizia67. Elliott non aveva misurato la grandezza del malcontento che si accumulava in Corsica: come tutti i personaggi politici senza levatura, egli credeva che una singola deliberazione bastasse a ristabilire la calma e la tranquillità. Decise, infatti, di esiliare Paoli in Inghilterra. I pretesti non gli mancavano: uno dei più gravi era la responsabilità dell’insurrezione dell’agosto-settembre 1795. Il moto popolare, nato da un piccolo incidente (ad Ajaccio era stato bruciato il busto di Paoli), amplificato da Paoli e dai suoi fedeli, aveva guadagnato molte pievi, assumendo l’aspetto di una ribellione contro il Parlamento e Pozzo di Borgo. Anche se il moto era stato portato avanti incontestabilmente dai suoi fedeli, Paoli voleva, a giusto titolo, rigettare la responsabilità degli abusi del governo su Pozzo di Borgo ed esortò i suoi compatrioti «alla calma ed al rispetto delle leggi»68. Ma né Elliott né i suoi partigiani furono convinti. Il Vice Re era ormai deciso a sbarazzarsi di un uomo il cui prestigio restava intatto agli occhi dei corsi: Elliott pregò Giorgio III di richiamare Paoli in Inghilterra, dato che il suo «soggiorno in Corsica, è incompatibile con il mantenimento del governo inglese»69. Il 14 ottobre 1795, Paoli

65 Come rappresaglia, la Convenzione decise di dichiarare ribelli tutti i corsi presi sui bastimenti che portavano il vessillo del “traditore” Paoli (Decreto di cui furono vittime undici sfortunati marinai corsi giustiziati a Tolone). Per controparte si accordò un sussidio ai repubblicani corsi emigrati in Francia. 66 Cfr. la lettera di Paoli del 17 agosto 1795, in PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli cit., p. 203. 67 Il 2 agosto 1795 Elliott scrisse a sua moglie: «Il Generale Paoli mette una confusione del diavolo e non è lontano dal seminare un disordine totale». Il 12 settembre si lamentava dell’opposizione aperta al Governo. All’inizio d’ottobre, infine, qualche giorno prima della partenza di Paoli per il suo esilio definitivo, ricapitolando tutti i motivi di risentimento accumulati contro il generale, Elliott si stupì di vederlo ancora prendere la testa dell’opposizione al governo inglese ed al suo rappresentante in Corsica, opposizione di cui non comprendeva i motivi, perché proveniente da un «uomo che non era che un semplice cittadino, un semplice individuo». Cfr. BERETTI F., Les armoiries du royaume anglo-corse cit., pp. 9-25. 68 Cfr. PERELLI D., Lettres de Pascal Paoli cit., p. 215. 69 Cfr. CARAFFA S., Correspondance de Lord Nelson pendant sa croisière en Méditerranée, déc. 1793-févr. 1797, «B.S.S.H.N.C.», 312 (1910), p. 113.

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s’imbarcò a San Fiorenzo per l’ultimo esilio70. Eliminato il Generale, le cose continuarono a peggiorare velocemente: il regno, privo di colui che ne era l’anima, resisteva solo con la clientela dei corsi al potere, mentre Pozzo di Borgo diventava sempre più impopolare. La questione finanziaria esasperava il malcontento: i corsi, disabituati a pagare delle imposte fisse sin dal 1789, presero malissimo l’istituzione di una tassa sul sale e dell’imposizione territoriale, che aggravava inopportunamente una situazione finanziaria poco brillante. Elliott decise di imporre le nuove tasse con la forza: attese la convocazione del Parlamento a Corte nel novembre del 1795 per decretare delle misure severe, che legalizzavano lo stato d’assedio: approvò l’abolizione del jury, il divieto di associazione di più di venti persone, l’insediamento di una Corte marziale. Il Vice Re credeva di poter tagliare le ali ad ogni tentativo d’insurrezione, ma s’illudeva di aver riportato la calma: nella primavera del 1796 si sollevarono i villaggi al centro dell’isola. Elliott preferì parlamentare e sacrificò Pozzo di Borgo, che si ritirò definitivamente dalla scena politica. Si trattava solamente degli ultimi colpi intimidatori: il governo inglese era vicino al crollo, mentre nell’isola si stava risvegliando il partito repubblicano simbolizzato dalla presenza, a Bocognano, dei fratelli Bonelli, inviati da Napoleone. Il ritorno dei francesi in Corsica La Francia stava preparando apertamente la riconquista dell’isola: nel frattempo, gli eserciti del Direttorio, guidati in Italia da Bonaparte, avevano conquistato la Pianura Padana (primavera 1796). A Londra apparve ormai evidente che era impossibile difendere l’isola ad oltranza: già dalla fine di agosto gli inglesi pensavano alla «immediata evacuazione» della Corsica. Elliott doveva fare fronte alle continue infiltrazioni dei repubblicani emigrati, giunti dall’Italia ed accolti dal popolo come liberatori: il Vice Re si era reso conto che la Corsica non era più gestibile. Un corpo di spedizione repubblicano sbarcò al Macinaggio nell’ottobre del 1796, marciando verso Bastia; l’esercito non entrò in città per lasciare il tempo agli inglesi di rimbarcarsi sotto la protezione di Nelson, che portava con sé un migliaio di corsi e di emigrati francesi fedeli al regno anglo-corso. Il Regno cessò ufficialmente di esistere il 19 ottobre 179671: si era trattato di una costruzione effimera, che non avrebbe mai superato un eventuale cambiamento della situazione militare nel Mediterraneo. Probabilmente il Regno anglo-corso sarebbe crollato anche senza l’intervento della Francia: il malinteso fondamentale che opponeva Paoli ed Elliott sulla natura ed i limiti dell’autonomia della Corsica avrebbe provocato una crisi indipendentemente dagli altri fattori esterni. Paoli aveva capito di essersi perduto in un vicolo cieco: lo sbaglio consisteva nel voler perseguire, in un’Europa conquistata alle idee rivoluzionarie, il sogno dell’autonomia. La debolezza demografica ed economica della Corsica, l’arcaismo delle sue strutture sociali, il ritardo della sua evoluzione ideologica, la condannavano inevitabilmente a cadere alle dipendenze di un grande Stato. Un legame durevole con l’Inghilterra era poco probabile, a meno che l’isola non avesse accettato lo status di Dominion in cui sembrava prefigurarla la costituzione del 1794; con la Francia, si doveva accontentare dello status di colonia: entrambe le soluzioni escludevano, a priori, l’idea dell’indipendenza politica ed amministrativa. § 7. La Riconquista dell’isola sotto il Direttorio La riconquista della Corsica è stata, nel concreto, opera di Bonaparte. Egli l’aveva preparata minuziosamente, sotto ogni aspetto: militare, amministrativo e psicologico. Sin dal maggio 1796 aveva fatto passare nell’isola alcuni suoi fedeli ed aveva convinto il Direttorio, in luglio, che era giunto il momento di «cacciare gli inglesi dalla Corsica». Allo stesso tempo incaricò il generale Gentili d’organizzare a Livorno un corpo di spedizione corso di 1.500 uomini che doveva introdursi nell’isola a piccoli gruppi, per preparare gradatamente il sollevamento generale. Napoleone aveva già predisposto, dal punto di vista amministrativo, la divisione dell’isola in due Dipartimenti (il Golo ed il Liamone), corrispondente «alle leggi della storia e della geografia isolana»; aveva aggiunto a Saliceti, la cui parzialità lo preoccupava, Miot de Melito; si era battuto con tutti i suoi compatrioti per far cessare lo «spirito di partito», per ottenere il perdono generale, con l’unica eccezione di «un piccolo numero di uomini perfidi che hanno messo fuori strada questo bravo popolo». Bonaparte si era anche mosso per ordinare a Gentili, il comandante del corpo di spedizione, di fare il possibile «per ristabilire la tranquillità nell’isola, soffocare gli odi e riunire alla Repubblica un paese agitato da troppo tempo», cercando di eliminare la vendetta. Questo programma non è stato, purtroppo, seguito alla lettera. Se è vero che la riconquista fu una passeggiata militare e la tranquillità interna raggiunta fin dal marzo 1797 (tanto che Bonaparte richiamò in Italia tutti gli ufficiali che aveva invitato in Corsica qualche mese prima), la riorganizzazione amministrativa, abilmente condotta da Miot, urtava con i tradizionali intrighi dello spirito di partito, il maggiore ostacolo alla amministrazione interna. Ricominciarono, allora, le frodi elettorali, l’accaparramento dei posti di prestigio da parte dei clan, la caccia alle sovvenzioni e la dilapidazione del denaro pubblico: in breve, tutto il repertorio dei 70 Paoli, rifugiatosi di nuovo a Londra, condusse un’esistenza solitaria (tutti i suoi amici inglesi erano morti) e triste, ricevendo una pensione mensile dal Re d’Inghilterra e seguendo da vicino gli affari del suo tempo. Egli finì per ammettere, quando la Corsica tornò sotto la dominazione francese, che «La libertà era l’oggetto delle nostre rivoluzioni; ora se ne godeva ampiamente nella nostra isola; che importa da quali mani ella ci veniva?» (lettera del 6 settembre 1802). Egli approvò con sincerità Napoleone: «il nostro compatriota che con tanto onore e tanta gloria ha vendicato la Patria dalle ingiurie che quasi tute le nazioni le avevano fatto» (lettera citata). Egli farà dono ugualmente a Pietri, prefetto di Napoleone in Corsica, nel 1805, di consigli precisi per la rifondazione dell’Università di Corte. Morì a Londra il 5 febbraio 1807 e venne sepolto nel cimitero cattolico di Saint Pancrace. All’Abbazia di Westminster si eresse un busto con un epitaffio pieno di elogi («uno dei personaggi più grandi e celebri del suo tempo»). Riposa, dal 1889, nella cappella della casa natale di Morosaglia. 71 Il 15 novembre Elliott, ritiratosi sull’isola d’Elba, rinunciò ufficialmente al titolo di Vice Re. Quando tornò in Inghilterra non dimenticò i suoi amici corsi esiliati: Pozzo di Borgo, Peraldi ecc. che ricevettero dei sussidi. La sua carriera continuò in maniera brillante: nominato Barone e conte di Minto, inviato straordinario a Vienna, governatore dell’India dal 1806 al 1813. Morì nel 1814 e fu sepolto nell’abbazia di Westminster.

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piccoli espedienti dell’Ancien Régime. A questo si aggiungevano gli eccessi delle forze dell’ordine che, sottopagate o non pagate, si autocompensavano in natura (con gran furore dei contadini), per non parlare dell’eterna ingiustizia fiscale, aggravata dalla situazione critica dei contribuenti. Il malcontento generale era arrivato all’indisposizione: «amministrativamente parlando, la Repubblica aveva mancato il suo rientro in Corsica”72. I Repubblicani insistevano nel loro precedente errore di voler disciplinare la politica religiosa. Bonaparte aveva ben consigliato di lasciare ai corsi “la loro religione, i loro preti, le loro campane», ma i rivoluzionari del Direttorio su questa materia erano più settari dei loro colleghi della Convenzione. Essi avrebbero dovuto comprendere che il clero corso era rimasto fedele al culto cattolico. Le fonti archivistiche mostrano che nel giugno 1797, nel cantone di Ajaccio, esistevano soltanto 5 preti fedeli alle Leggi della Repubblica, contro 16 refrattari e 24 “ritirati”: la lezione non era servita a niente. Dopo il colpo di Stato di Fruttidoro (4 settembre 1797) s’impose il nuovo giuramento (contro la monarchia e l’anarchia) sotto la pena della deportazione in Guyana. Queste misure, applicate con rigore, provocarono l’emigrazione volontaria, il ricorso alla clandestinità e l’arresto dei refrattari. Tutto questo per un magro risultato (in Corsica solo una decina di preti si decise a prestare giuramento): l’odio e l’incomprensione si accumulavano sempre di più, pronti a scoppiare al momento opportuno. La Crociata della Crocetta Nel 1798 scoppiò, al contrario, una rivolta ben più seria, chiamata enfaticamente la “Crociata della Crocetta” (gli insorti avevano cucito sui berretti una piccola croce bianca). Organizzatisi al convento di San’Antonio della Casabianca, i contadini scelsero come capo, nonostante le sue reticenze, Agostino Giafferi73. La rivolta si estese subito alla Casinca ed alla Castagniccia, obbligando il generale repubblicano Casata a ritirarsi; invano i contadini erano riusciti a coinvolgere Corte, Vescovato e l’Isola Rossa: la rivolta si era fermata ai paesi di Borgo e di Murato, non riuscendo ad estendersi oltre questo limite. In totale partecipavano attivamente allo scontro poche centinaia di contadini, che opposero resistenza alle armate governative per pochi giorni, scatenando delle rappresaglie durissime (il generale Giafferi venne fucilato a Bastia il 21 febbraio 1798). La repressione «durissima, senza precedenti nella storia della Corsica»74, prese il nome famigerato di francisata e fu l’ultimo atto delle guerre di religione che avevano avvelenato per anni la vita politica dell’isola. Il colpo di Stato di Brumaio (9 novembre 1799) riportò una calma relativa, almeno dal punto di vista spirituale: quello che restava del clero corso poteva riprendere una normale attività pastorale. Il Direttorio, rassicurato sul piano religioso, tentò di riportare il paese ad una fase più tranquilla della vita politica, facendo tornare dall’esilio i corsi che erano rimasti fedeli alla Repubblica. Si diede un nuovo sviluppo all’istruzione pubblica (organizzazione dell’istruzione primaria nel Liamone, apertura di un collegio per l’istruzione secondaria a Bastia). Ma l’attività politica restava agitata, costantemente impedita o disturbata dai soliti problemi, dall’eterno spirito di partito. In queste condizioni era vano sperare di restaurare una vera unità nazionale: paolisti, realisti, scontenti aspettavano il momento opportuno per tornare alla ribalta. L’occasione favorevole avvenne nel 1799. Sul continente, il Direttorio aveva i giorni contati; l’Italia, la riva sinistra del Reno e l’Olanda erano ormai perdute; la seconda coalizione (Inghilterra, Napoli, Russia), allineatasi il 29 dicembre 1798, minacciava direttamente l’integrità territoriale della Francia. La Corsica tornava ad essere, ancora una volta, lo scacchiere di una partita diplomatica in cui il Regno di Sardegna, la Russia e l’Inghilterra dividevano i propri interessi. Lo Zar Paolo I pensava addirittura di annettere l’isola alla Russia75; il progetto di occupazione della Corsica era sempre più realistico: alle foci del Fiumorbo sbarcavano gli antichi emigrati (Colonna Cesari, Buttafoco, Peraldi) per far applaudire il nome dello Zar: il movimento guadagnò presto il Fiumorbo e la Balagna. L’energico contrattacco dei generali francesi e il lealismo di alcune città76, non permise alla rivolta di estendersi oltre. Il trionfo dei repubblicani s’accompagnò sfortunatamente ad «enormità degne di lacrime eterne»77: case, conventi, chiese e terre bruciate, impiccagioni, fucilazioni, violenze; in breve, tutti gli orrori della guerra civile…Alla fine, anche se a caro prezzo, l’ordine repubblicano regnava di nuovo nell’isola.

72 Idem, p. 219. 73 Figlio di Luigi Giafferi, compagno d’armi di Paoli nel Real Farnese, Agostino Giafferi era rientrato in Corsica nel 1790, dopo una carriera intera al servizio dei Borboni di Napoli. 74 Idem., p. 235. 75 AMBROSI A., Un projet d’annexion moscovite, «Revue de la Corse», 86, 87 (1934). 76 Sartena, assediata, resistette vittoriosamente dall’11 al 18 ottobre 1800. cfr. LAMOTTE P., Une page héroique de l’histoire de Sarténe: le siége de Vendemiaire an IX (octobre 1800) «Corse historique», 12 (1963), pp. 41-51. 77 RENUCCI F.O., Storia di Corsica, Bastia 1833-1834, vol. II, p. 165.

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Figura 64: la Francia durante l’Impero. § 8. Il Consolato e l’Impero Bonaparte ha avuto il merito di rimettere definitivamente ordine nell’isola e di mantenere la promessa che aveva fatto nel 1796: «fare in modo che la Corsica diventi una buona volta francese»78. Per la sua isola natale aveva già esposto delle linee-guida nel rapporto al Direttorio del 9 aprile 1797: «per far sì che la Corsica diventi irrevocabilmente attaccata alla Repubblica, bisogna: 1) mantenere sempre due dipartimenti; 2) non impiegare nessun corso nelle piazze a disposizione del Governo; 3) scegliere una cinquantina di bambini e dividerli in diversi istituti educativi a Parigi, metodo poco costoso ed essenziale. A Parigi, al di là di due o tre istituzioni nazionali, ci sono varie pensioni individuali, in cui i bambini potrebbero ricevere un’educazione migliore di quella del loro paese; oltretutto si accrescerebbe il loro attaccamento alla Francia»79. Questo testo spiegava chiaramente le direttive della politica corsa di Napoleone: 1) chiudere ogni possibilità di secessione: la Corsica doveva integrarsi irreversibilmente alla Francia; 2) accelerare questo processo di fusione intaccando alla base il particolarismo isolano; 3) estirpare lo spirito di partito privandolo del suo alimento essenziale: l’accaparramento degli impieghi preso lo Stato; 4) francesizzare i giovani con l’emigrazione forzata: distaccati dalla mentalità isolana e sradicati dall’isola, essi avrebbero perso le loro caratteristiche e le loro peculiarità per diventare dei francesi a tutti gli effetti. La pagina dell’autonomia era stata definitivamente chiusa: la condanna a morte del paolismo, pronunciata con l’esilio del generale nel 1795, lasciava il campo libero all’integrazione della Corsica al paese dominatore. Il piccolo “Nabulione” paolista, dall’accento italiano, divenuto simbolo di un paese che considerava ormai la sua patria, voleva trasformare ad ogni costo la Corsica in una terra francese. Anche con l’integrazione autoritaria. L’ordine In Corsica, per motivi storici, ma anche per la particolare situazione geografica, esisteva da sempre un autonomismo molto radicato80: «l’applicazione automatica delle leggi fatte per l’intera Francia poteva rivelarsi nocivo»81. Ecco perché Napoleone, prescrivendo la più grande fermezza nel mantenimento dell’ordine, donò – provvisoriamente – uno statuto speciale all’isola natale: la Corsica venne posta fuori dalla Costituzione (13 dicembre 1800). In questo modo la dualità dipartimentale, origine possibile di particolarismo e di separatismo, venne corretta con l’istituzione di un 78 MAC ERLEAN J., Napoleon and Pozzo Di Borgo in Corsica and after, 1764-1821: not quite a vendetta, London 1935, p. 54. 79 Vedi Lettres de Napoléon I concernant la Corse, «B.S.S.H.N.C.», 333 (1911), p. 207. 80 Cfr. L’opera di CROUZATIER J.M, Géopolitique de la Méditerranée, Paris 1988. 81 EMMANUELLI R., Précis d’Histoire Corse, Ajaccio 1970, p. 212.

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Amministratore generale, che coadiuvava i due prefetti e riuniva nelle sue mani tutti i poteri (militare, amministrativo, giudiziario (legge del 7 gennaio 1801). A partire dal 1801 iniziò un processo che, nel 1811, portò la Corsica alla riunificazione in un solo dipartimento fiscale e finanziario82. Il Fisco Il Primo Console, sia per far accettare ai corsi il rigore della giustizia francese, sia per accertarsi dell’effettiva povertà economica e finanziaria, diede all’isola uno statuto fiscale particolare, affidato a Miot, amministratore generale dell’isola dal marzo 1801. Miot decretò delle misure abili, ad un tempo politiche ed eque: esse miravano ad alleggerire l’handicap dell’insularità e a facilitare la ripresa economica della Corsica. I “decreti Miot” (decreti del 21 pratile dell’anno IX - 10 giugno 1801) riducevano i diritti di registro (matrimoni, donazioni, vendite) sopprimendo i diritti di timbro (atti e procedure in materia di abuso campestre e dei tribunali di polizia semplice), le licenze (nei comuni con meno di 1.800 abitanti, vale a dire nella quasi totalità dei borghi), esentando dalla licenza, per due anni, tutti i cittadini che iniziavano una nuova attività professionale; i decreti, inoltre, riducevano o sopprimevano i diritti di dogana per le derrate coloniali e le merci straniere. A questo si aggiunse qualche timida misura di arredo urbano per Ajaccio e Bastia e qualche illusorio progetto agricolo (coltivazione del cotone e della cocciniglia). Non si trattava di una politica lungimirante: la Corsica non aveva la possibilità di attuare quel decollo economico che sperava da tempo. In effetti, la prima preoccupazione del Console era il mantenimento dell’ordine e la riduzione all’obbedienza. Sotto questo punto di vista, furono prese tutte le misure necessarie: solo il temperamento accomodante di Miot alleggerì il peso del controllo governativo. Quando Miot ripartì per il continente (ottobre 1802) poteva illudersi, in buona fede, del suo successo politico83. Ma Bonaparte teneva sempre gli occhi ben aperti sulla sua isola: il 14 settembre 1802 aveva reinserito la Corsica nel dominio costituzionale francese ed aveva nominato come nuovo Amministratore generale il generale Morand (luglio 1801). Morand Morand ha lasciato un ricordo sinistro in Corsica: era un uomo duro ed autoritario. Bisogna tuttavia riconoscere, a sua discolpa, che i regolamenti che applicava con rigore erano opera di Bonaparte o di Miot. Gli storici favorevoli a Napoleone (F. Renucci o A. Ambrosi) hanno parlato di «dittatura militare»84: Morand aveva istituito un regime di terrore: ingresso dei militari (2 su 5) nel tribunale, giustificato da Bonaparte con la debolezza dei giudici per la loro parzialità, istituzione di un’alta polizia, soppressione del jury e del diritto d’appello per le sentenze del tribunale straordinario. Per giustificare la recrudescenza della severità, istituzionalizzata il 12 gennaio 1803 con il “decreto di pieno potere”, il Console allegò la preoccupazione per la guerra marittima tra l’Inghilterra e la Francia e la necessità di estirpare i partigiani dell’Inghilterra in Corsica. Morand, munito di poteri assoluti, che sospendevano tutte le garanzie giuridiche scritte nella Costituzione, fece la caccia ai «partigiani e pensionati» dell’Inghilterra con un’implacabile severità. Un’ondata di spie si insediava in processi verbali spesso menzogneri, nei processi sommari, nei complotti inventati per sbarazzarsi dei nemici: era la vittoria di una giustizia odiosa, che non esitava a ricorrere alle esecuzioni sommarie, alle deportazioni di massa, alla politica della “terra bruciata”. Il successore di Morand, il generale César Berthier, si comportò abilmente nei tre anni di comando in Corsica (1811-1814): non s’immischiò mai negli affari della giustizia, ma si mostrò brusco nell’imprigionare forzatamente i preti corsi che si rifiutavano di prestare giuramento di fedeltà alla Costituzione: questo comportamento maldestro provocò la sollevazione generale di Bastia nel 1814.

82 Cfr. la lettera di Napoleone dell’11 novembre 1800 a Gaudin, ministro delle Finanze, a proposito della percezione delle imposte, in cui prescrive di considerare i due dipartimenti «come uno solo»; Lettres de Napoléon I concernant la Corse cit., p. 213. 83 Miot scrisse al Primo Console che il paese era «generalmente tranquillo, affezionato al governo e gioioso dei vantaggi arrecati». Idem, p. 216. 84 L’origine di quest’affermazione deriva da una lettera di Bonaparte a Miot, del 15 dicembre 1800, in cui veniva istituita la «colonna mobile» ed il «tribunale straordinario» e in cui si ordinava di fare «giudicare ed eseguire tutti i detenuti nella prigione d’Ajaccio come ladri, assassini o istigatori di ribellione» e di far «eseguire sul campo quattro o cinque ribelli presi con le armi alla mano». Cfr. Lettres de Napoléon I concernant la Corse cit., p. 219. Cfr. gli articoli di AMBROSI A., e RÉVÉREND A., Armorial du Premier Empire. Titres, anoblissements et pairies de la Restauration 1814-30. Titres et confirmations de titres: monarchie de Juillet. II République. Second Empire. III République, «Revue de la Corse», 1940 e l’opera di RENUCCI F., Storia di Corsica, Bastia 1833-1834, vol. II, p. 187.

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Figura 65: il colpo di Stato del 18 brumaio 1799. Bonaparte davanti al Consiglio dei Cinquecento. L’opera dell’Impero. Sarebbe ingiusto voler ridurre l’impegno di Napoleone nella sua isola natale ad un semplice richiamo all’ordine. Uno dei suoi nemici l’ha accusato di aver fatto solo una fontana ed una passeggiata: in effetti, l’opera dell’Impero non è stata considerevole. L’accusa principale mossa al Primo Console è stata di aver voluto rendere la Corsica una riserva di soldati85. Ma la coscrizione era mal accolta dai corsi e l’insubordinazione generalizzata, al punto che Napoleone pensò, nel 1813, di attuare delle rappresaglie contro le famiglie dei refrattari. Sicuramente questo atteggiamento dell’Imperatore era motivato dalla politica favoritistica, ispirata dalla sua famiglia e dal desiderio – cosciente o meno – di riscattare la francesizzazione ai concittadini di Ajaccio. Questo dato emergeva sia dai progetti di abbellimento urbano86, sia dall’elevazione di Ajaccio, nel senato-consulto del 19 aprile 1811, al rango di capoluogo amministrativo della Corsica. Questa decisione provocò un vivo malcontento nella capitale storica dell’isola e fu all’origine dei moti del 1814. Al contrario, il favoritismo nazionale, concretizzato con i decreti economici e finanziari del 1811, era certamente la prova di una comprensione profonda del particolarismo dell’isola. I “decreti Miot” ed i decreti del 29 dicembre 1810 e 24 aprile 1811 escludevano la Corsica dal monopolio del tabacco (di cui s’incoraggiava la coltivazione) ed accordavano degli esoneri sui diritti a cui i corsi erano storicamente più attaccati87. A queste disposizioni Napoleone aggiunse qualche timida riforma il cui impatto sull’economia isolana fu meno pesante rispetto 85 Dal 1802, Bonaparte aveva ordinato di reclutare uomini in Corsica con ogni mezzo e fondò, nel 1802 e nel 1803, due battaglioni di soldati corsi. Nel 1805 l’Imperatore esigeva da Morand «il maggior numero possibile di coscritti» e di marinai. Nel 1806 impiegò i corsi nella lotta contro il banditismo…in Calabria. Nel 1815, chiese 500 corsi per la «giovane guardia» e 300 per la «vecchia guardia» (entrambe presenti a Waterloo). Cfr. i riferimenti contenuti nell’opera di IZZO L., Agricultura e classi rurali in Calabria dall’unità al fascismo, «Cahiers internationaux d’histoire économique et sociale», 3 (1974), pp. 1-3. 86 Con il decreto del 1 novembre 1807, Napoleone aveva approvato i progetti per la risistemazione della Piazza del Diamante, del lungomare, del giardino botanico, degli acquedotti e dato l’avvio ad altri progetti urbanistici (prolungamento dell’attuale Cours Napoléon, prosciugamento dello stagno delle Saline, ecc.) 87 «La filosofia della riforma imperiale è facile da capire. Per ridurre le spese di bilancio si riunirono i due dipartimenti in uno solo, comprendente tutta l’isola. Nell’unico dipartimento si sopprimono le esazioni del registro e si caricano i contributi diretti per percepire i diritti ricoperti dall’esazione soppressa…Si maggiorano i beni mobili percepiti con i Contributi diretti con una somma uguale all’ammontare dei prodotti dei diritti riuniti…Alcune di queste disposizioni non sembravano mirate alla promozione economica. Tutte sono dettate dall’intenzione di aumentare le entrate del bilancio». Estr. da NIVAGGIOLI A., Le décret impérial du 24 avril 1811, «Actes du colloque d’Ajaccio», 1969, pp. 279-280.

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alle misure fiscali: 1) modernizzazione della grande trasversale Bastia-Ajaccio (progettata nel 1801, intrapresa concretamente dal 1814); 2) spoliazione delle foreste per la predisposizione delle navi da guerra; 3) insediamento di un mattonificio e di un laboratorio di ceramica ad Ajaccio; 4) costruzione di alcuni altiforni nel Capo Corso per il trattamento dei minerali ferrosi dell’isola d’Elba. Le riforme agricole, durante l’Impero, disciplinarono essenzialmente la scelta delle razze animali da allevamento (incroci di pecore, creazione di una stazione di monta equina) e la promozione della coltivazione del gelso e del cotone, anche se con scarsi risultati. Spesso si riprendevano i progetti ed i metodi dei regimi precedenti, come nel caso dell’insediamento di una colonia maltese (1803) o del reclutamento delle galere napoletane (dissidenti verso il regime francese di Giuseppe Bonaparte). In effetti, il bilancio generale era scarso e Napoleone ne era cosciente. Durante l’esilio a Sant’Elena affermò: «…Avrei voluto migliorare le sorti della mia bella Corsica, avrei voluto dare il benessere ai miei compatrioti, ma i cattivi giorni erano arrivati e non potevo effettuare i progetti che mi ero prefissato»88. Non si può comunque pensare a Napoleone come ad un corso tout court; in lui non viveva la fiamma patria come in Pasquale Paoli: “Io non sono corso; sono stato allevato in Francia, dunque sono francese, come i miei fratelli»89. Sentiva di avere per il suo paese natale il desiderio «di esercitare una salutare influenza sui costumi, di richiamare [i corsi] alla civiltà». Per alcuni versi, era riuscito nell’intento di glorificare la sua patria d’origine con la grandezza delle imprese, ma aveva fallito quasi del tutto il tentativo di riorganizzazione interna e di modernizzazione dell’isola. L’atteggiamento di Ajaccio La nuova capitale del dipartimento di Corsica non ardeva d’amore unanime per il Primo Console ed Imperatore dei francesi. I paolisti che, nel 1793, avevano occupato e bruciato la sua abitazione non erano morti e nemmeno partiti per l’esilio. I repubblicani che avevano riservato al generale Bonaparte (di ritorno dall’Egitto) una buona accoglienza, non rappresentavano affatto la maggioranza degli abitanti, dato che nel luglio 1802 (a seguito del plebiscito che rese Bonaparte Console a vita) Miot constatava con amarezza che l’elezione «non risveglia in favore di un così illustre compatriota alcun entusiasmo». La cospirazione di Ajaccio del 1809, anche se gonfiata nelle sue dimensioni da Morand e poco creduta da Napoleone, mostrava comunque che i nemici del Primo Console erano numerosi e ben armati. Anche se non esiste, dai documenti d’archivio, alcuna conferma dell’esistenza di un complotto, l’atteggiamento degli ajaccini nel 1814 provava in maniera inequivocabile che la borghesia non era bonapartista. Il 23 aprile, infatti, quando un naviglio portò la notizia dell’abdicazione di Fontainebleau e del ritorno dei Borboni, in città si inalberarono le bandiere bianche (della Monarchia), si suonarono le campane e si spararono i cannoni a salve. Il prefetto Arrighi fu il primo a protestare il suo lealismo legittimista, seguito dai notabili della Corte d’Appello (che si rifiutarono di obbedire alla convenzione che metteva la Corsica nelle mani degli inglesi). Una seconda volta (il 20 maggio) quando giunse la notizia della caduta di Napoleone, il sindaco d’Ajaccio inalberò la bandiera gigliata dei Borboni e gettò in mare il busto dell’Imperatore, cambiando nome al “Cours Napoléon”. L’atteggiamento di Bastia L’atteggiamento contrario a Napoleone venne ancora più esasperato nell’antica capitale: gli abitanti richiamarono addirittura gli inglesi (11 aprile). Gli emigrati corsi, tornati da Livorno, istituirono una municipalità autonoma, rifiutando l’obbedienza a Luigi XVIII e riservando un’accoglienza entusiasta ai battaglioni degli occupanti. Il generale inglese concesse titoli nobiliari a nome del Re d’Inghilterra e firmò una convenzione con il generale Berthiér che rimetteva la Corsica sotto sovranità inglese. Ma il lealismo francese del resto dell’isola fece fallire il progetto. Alla fine anche Bastia si riallineò, denunciando il “tiranno”, le “sue creature”, i suoi “parenti” e le empietà a cui la Provvidenza aveva messo termine; intanto i realisti emigrati, tornati in patria, cominciavano a riesumare i titoli nobiliari in attesa della Restaurazione.

88 Lettres de Napoléon I concernant la Corse cit., p. 238. 89 Ibidem, p. 229.

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Figura 66: Mappa di Bastia e dintorni nel 1815. (Bibliothéque Nationale François Mitterrand, Paris, Rez de Jardin). L’atteggiamento del resto della Corsica L’interno dell’isola non si discostava, nel suo atteggiamento verso Bonaparte, dalle due città principali. Dappertutto, dal Nord al Sud e nelle città che avevano chiamato gli inglesi (San Fiorenzo e l’isola Rossa), confluivano delle proteste infiammate di fedeltà a Luigi XVIII. Non appena venne firmata la Convenzione tra Luigi XVIII e gli Alleati, il 23 aprile 1814 (che rimetteva la Corsica sotto sovranità francese) l’Impero sembrava completamente dimenticato, anche se l’esilio di Napoleone sull’isola d’Elba rinfocolava il sentimento di revanche bonapartista. È difficile dire se si sia trattato di incoerenza, della persistenza di un partito napoleonico (sommerso al momento della firma di Fontainebleau dal partito paolista e da quello legittimista) o della consueta divisione sociale tra notabili e masse contadine: il partito bonapartista tornò inaspettatamente alla ribalta. Durante il suo esilio sull’isola d’Elba, Napoleone aveva già predisposto un piano di sollevazione della Corsica. Incaricando alcuni suoi fedeli, raggruppati in una Giunta di governo, della futura amministrazione dell’isola, egli confidò ad un “comitato d’esecuzione” la presa di possesso e l’esecuzione degli ordini, indirizzando ai suoi compatrioti un proclama vibrante, che faceva appello al nazionalismo francese. L’attesa non venne delusa: a Corte, ad Ajaccio, a Bastia si costituirono delle falangi armate; il Fiumorbo si ribellò, mentre il generale Bruslart (che comandava Bastia) s’imbarcò per la Francia. La riconquista della Corsica venne effettuata in pochi giorni, senza opposizione (aprile 1815)90. Tuttavia, al di là delle apparenze, l’opposizione all’Imperatore non si era dileguata nel nulla: si aspettava soltanto il momento opportuno per rovesciare la situazione, giunto con la seconda abdicazione. Il quadro d’insieme sembra mostrare un atteggiamento contrastante verso l’Imperatore: i corsi diventavano bonapartisti, repubblicani, legittimisti ad ogni cambiamento di vento. La convinzione politica era insignificante: ciò che contava nell’isola, come sempre, erano gli interessi, gli schieramenti familiari, le direttive dei capiclan. Si può certamente parlare di una Corsica bonapartista e di una Corsica realista, ma a condizione di non credere mai che questi schieramenti fossero sovrapposti sociologicamente ed ideologicamente all’indole isolana. Solo in questo modo si possono capire le palinodie apparentemente scandalose ed incomprensibili degli ajaccini che, alla notizia della morte dell’Imperatore (nota in Corsica solo il 21 luglio) furono, come ha testimoniato Renucci, sinceramente addolorati e affranti fino alle lacrime. Se è vero che “nessuno è profeta in patria”, non ci si poteva attendere verso Napoleone un

90 La riconquista dell’isola è stata merito di un fedele dell’Imperatore, il comandante Bernardo Poli. Sposo della figlia di una nutrice dell’Imperatore, aveva servito lealmente Napoleone anche nella sfortuna, seguendolo sull’isola d’Elba. Nelle sue Memoires emerge un inalterabile attaccamento all’Imperatore. Cfr. POLI B., Memoires du comandant Poli, «Études corses» 3, 8 (1954-1955) e MARCHI M., Histoire de la guerre de Fiumorbo, Ajaccio 1855.

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entusiasmo unanime, proprio perché nell’isola esistevano da sempre dei nemici irriducibili, che lo perseguitavano con odio vigile e contro i quali egli non aveva potuto trovare una soluzione adeguata. In Corsica l’Imperatore ha cominciato a vivere nella leggenda solo dopo la morte: forse Napoleone si illudeva seriamente, a Sant’Elena, quando affermava che in Corsica, appoggiato ai suoi compatrioti, non avrebbe mai temuto l’abbandono della lotta. La Guerra di Fiumorbo e La Restaurazione Un’estrema fiammata bonapartista sembrò, per un momento, dare ragione alle parole di Napoleone a Sant’Elena. Nel 1816 si scatenò una guerra condotta dal generale Poli nel Fiumorbo: essa mostrava che la pacificazione in Corsica era più un desiderio che una realtà. Sapendo di essere ricercato come bonapartista ed essendosi impadronito dei tesori che Murat gli aveva lasciato in deposito, Poli si era ritirato nel villaggio natale di Sari. Il marchese di Riviére “Commissario straordinario”, comprese subito il tradimento di Poli ed organizzò una campagna militare. Guidato da alcuni ufficiali corsi, iniziò le manovre nel febbraio 1816. Ritiratosi nel Fiumorbo, e sfruttando abilmente la conoscenza del territorio, Poli ed i suoi luogotenenti sconfissero le colonne nemiche una dopo l’altra, costringendo lo stesso Riviére alla ritirata. Si organizzò allora a Bastia un’operazione in grande stile: 8.000 uomini marciarono contro Sari. Il 18 aprile 1816 Poli ed i suoi compagni interruppero la marcia dell’armata franco-corsa, riuscendo quasi a catturare Riviére ed uccidendo i suoi luogotenenti: Poli, agli occhi dei corsi, era il grande vincitore. Il successore di Riviére, il conte Willot, ebbe la saggezza di proporre una «pace da coraggiosi». Invitto, assicurato dall’amnistia generale per lui ed i suoi compagni, Poli accettò l’offerta di Pace (25 maggio 1816) ed abbandonò la Corsica portando con sé il tesoro di Murat91. Anche se il movente apparente di questa lotta, secondo Riviére, era il predominio sul tesoro di Murat e la riduzione dell’opposizione bonapartista, questa sfortunata iniziativa aveva mostrato che i partigiani di Napoleone erano ancora numerosi e risoluti. Eppure la guerra di Fiumorbo non rivestiva, come le rivolte precedenti, un carattere antifrancese: Poli si sentiva francese come i suoi avversari. Non aveva nemmeno un carattere antimonarchico, ma antiborbonico. Quando si videro apparire «i partigiani della Restaurazione…questo potere che le potenze straniere volevano imporre in Francia» non era l’istituzione monarchica ad essere presa di mira, ma i Borboni del 1815, alleati degli avversari dell’Imperatore e tornati, secondo una celebre espressione, «nei bagagli dei nemici»: insomma, la guerra di Fiumorbo era solo l’aspetto più evidente della politica di ripresa della Corsica per mano dei Borboni. Come sempre, questa ripresa portava con sé due aspetti complementari: il ristabilimento dell’ordine e la riorganizzazione amministrativa. La prima si tradusse, oltre alla guerra, con la destituzione, l’imprigionamento, l’esilio in Francia o in Svizzera, di tutti i bonapartisti ed i repubblicani e la loro sostituzione con i realisti nei posti chiave dell’amministrazione. La Corsica conobbe allora, fortunatamente in una forma attenuata e non sanguinosa, il Terrore Bianco, reso più efficace con la creazione della “Compagnia dei volteggiatori corsi”, sorta di esercito specializzato in spedizioni punitive contro i bonapartisti. La riorganizzazione amministrativa comportò delle misure tese a punire Ajaccio, la città natale dell’Imperatore, meno legittimista di Bastia, metropoli del Nord (ed infatti a Bastia fu ricollocata la Corte d’Appello). Per il resto si trattò della tradizionale epurazione politica e giudiziaria, animata dallo spirito di partito: era il momento della rivincita per il clan Pozzo di Borgo, che riuscì a piazzare i suoi uomini in tutti i posti chiave dell’amministrazione francese. Con la fine dell’epoca napoleonica e l’inizio della Restaurazione, i notabili tornarono al potere in maniera massiccia; la Corsica era ormai sfiancata dalle lotte intestine, indebolita dallo spirito di partito e disposta ad affidarsi al nuovo governo francese con uno spirito meno insubordinato. Questa ribellione non può essere considerata né come una continuazione della guerra nazionale, né come una maschera del conflitto sociale tra i notabili alleati ai Borboni ed i contadini fedeli a Poli: era semplicemente l’ultima eroica fiammata del partito bonapartista, e come tale apparteneva già al passato. Dopo questa guerra si voltò per sempre pagina: la Corsica era, volente o nolente, sempre più integrata alla Francia e la sua storia venne circoscritta a quella di un semplice Dipartimento. Le donne e gli uomini di Fiumorbo furono gli ultimi protagonisti della Corsica profonda, sempre conquistata, ma mai sottomessa: dopo di loro si giunse ad un “addio alle armi” definitivo.

91 Poli tornò in seguito in Corsica e, riconciliatosi con Willot (che divenne il padrino della figlia), si dedicò al commercio, sognando di liberare l’Imperatore che, da Sant’Elena, aveva seguito con apprensione la lotta del suo fedele partigiano.

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CAPITOLO 11

CONCLUSIONI

L’oggetto di questo studio si è esteso a numerosi versanti della realtà corsa, spesso non studiati o ignorati, specie dalla storiografia italiana. Mi riferisco, in particolare, all’analisi dei testi giustificativi e dei fondi archivistici, per la maggior parte inediti, relativi alle dinamiche sociali ed economiche della Corsica di fine Settecento. Emergono, da un confronto dei diversi piani dello spazio corso, delle interessanti linee di fondo, che intersecano le vicende dell’isola nei momenti decisivi della sua storia: la questione della democrazia corsa diventa, allora, un semplice richiamo a realtà più profonde, per alcuni versi “ancestrali”, che hanno notevolmente influenzato le vicende isolane. La storiografia francese in genere ha negato il valore dell’esperienza indipendentista dell’isola: numerosi storici hanno sostenuto l’importanza dell’intervento francese nello sviluppo e nel processo di civilizzazione della Corsica e la stretta connessione tra la Rivoluzione corsa e la Rivoluzione francese. Il governo nazionale corso è stato spesso paragonato ad un “Comitato di salute pubblica” gestito dal notabilato isolano, mentre la figura di Paoli è stata ridimensionata a quella di un despota illuminato che cercava di perseguire gli interessi del patriziato locale. Al contrario, la storiografia anglosassone (tra cui Dorothy Carrington) e quella corsa (notevole, sotto questo aspetto, il contributo di Antoine Casanova) hanno riportato alla luce l’originalità dei ribelli corsi, pur esaltando, talvolta in maniera eccessiva, la Costituzione del 1755 e la “democrazia spontanea” del popolo corso. La storiografia italiana, specie nel ventennio fascista, tendeva a sottolineare la connessione tra la Rivoluzione corsa ed il Risorgimento, scadendo spesso in una retorica di regime, pur fornendo degli spunti notevolmente interessanti sulle convergenze tra storia corsa e storia italiana (Gioacchino Volpe). Il contributo storiografico più recente si è invece incentrato sul quarantennio rivoluzionario dell’isola, mettendone in luce il quadro politico (Franco Venturi), religioso (Fausto Fonzi), diplomatico e culturale (Carlo Bordini). Questo studio ha preso come riferimento le basi sociali della Rivoluzione corsa, le reali dinamiche economiche e la natura amministrativa e giuridica dell’esperienza rivoluzionaria. Alla luce della documentazione archivistica reperita, l’intero fronte storiografico sulla Rivoluzione corsa è stato riesaminato e completato. Tutte e tre le visioni storiografiche antecedenti risultano incomplete a causa della mancanza di uno studio sulla condizione socio-economica della Corsica in età moderna: - la visione nazionalista, tendente ad assimilare la Rivoluzione corsa e la Rivoluzione francese come parte di un unico processo di riforme, risulta inadeguata e poco coerente: l’isola non faceva parte del circuito politico e culturale della Francia borbonica, tantomeno presentava una struttura economica e sociale affine a quella delle altre regioni continentali, francesi o italiane. - La visione mitica, incentrata sulla democrazia spontanea della società corsa e sulla figura di Paoli come garante di questa peculiarità, risulta inevitabilmente fallace: l’isola non presentava affatto caratteristiche politiche, sociali ed economiche omogenee. - La visione dispotica non spiega per quale motivo le masse popolari ed il notabilato isolano abbiano ratificato il potere del Generale e siano state promotrici di riforme importanti all’interno dell’isola, seppur con interessi e finalità diverse. Il nodo centrale di questo lavoro, pertanto, oltre all’analisi delle Consulte e della Dieta Generale ed al concetto di democrazia nel sistema politico paolino, si è esteso, grazie al contributo delle fonti, alla realtà economica delle tre diverse amime della Corsica: quella dei signori, dei lavoratori e dei mezzadri. § 1. Il mito: la democrazia corsa Uno dei fattori che ha maggiormente interessato la storiografia francese, inglese ed americana negli ultimi trent’anni è stata la questione della democrazia corsa. È veramente esistita nella Corsica rivoluzionaria una forma di democrazia diretta? Dall’analisi svolta finora è possibile delineare una risposta. La Corsica paolina ha conosciuto indubbiamente forme di democrazia diretta e di suffragio universale, ma limitatamente alle pievi del Diquadamonti (la zona centro-settentrionale dell’isola) che, da secoli, avevano esercitato una forma di elezione diretta dei propri rappresentanti alle Consulte pievane o nazionali: in Castagniccia, nel Niolo, in Casinca. Queste regioni, tra l’altro, corrispondono perfettamente a quelle abitate da una popolazione caratterizzata, sin dai tempi della Terra di comune, dall’equa divisione dei beni comunali (mobili ed immobili), dallo sfruttamento e dalla coltivazione dei terreni comunitari, dalla prevalenza di una popolazione agro-pastorale e dalla scarsa presenza di famiglie aristocratiche o notabilari legate ai commerci o al latifondo. Queste micro-regioni dell’isola corrispondono, trasversalmente, a quelle che hanno maggiormente combattuto il potere genovese, che hanno appoggiato il governo di unità nazionale di Pasquale Paoli e che, tra l’altro, hanno ceduto per ultime alla dominazione francese. In queste zone il sistema sociale era sviluppato prevalentemente nella sua modalità egualitaria, ed i clan familiari avevano una funzione di controllo e di amministrazione dell’ordine sociale. La situazione era ben diversa nelle altre regioni dell’isola: tutta la zona meridionale della Corsica (Dilàdamonti), la terra d’Ajaccio, l’Ornano, il Taravo, la Cinarca, il Fiumorbo, erano caratterizzate da una forte prevalenza del sistema signorile, legato alla mezzadria ed al latifondo. In queste regioni prevaleva la segmentazione clanica della vita sociale

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ed il sistema politico era legato alla ratifica di un potere che apparteneva già agli esponenti della classe dei Signori. In questo contesto il regime istituito da Paoli non aveva una reale efficacia; al contrario, la presenza degli esponenti delle famiglie notabilari all’interno del Consiglio di Stato era diventata una garanzia necessaria alla gestione amministrativa dell’isola. I notabili del Dilà, cioè, accettavano la soprintendenza del potere del Generale, ma di fatto governavano autonomamente i propri territori: Paoli era comunque costretto a cercare il compromesso ed a piegarsi alle esigenze del notabilato. Quest’ultimo, nel tentativo di controllare e gestire le terre comuni nel sud dell’isola, trovò peraltro un rapido appoggio nel partito francese, che, come abbiamo visto, favorì lo smantellamento dell’amministrazione rivoluzionaria ed il passaggio della Corsica nella sfera d’influenza della monarchia. Il resto dell’isola, vale a dire le regioni marittime e maggiormente produttive come la Balagna, il Capo Corso, la Piana Orientale e le pievi attorno a Bastia, era, invece, controllato dalle classi sociali legate ai commerci, agli scambi ed alla produzione intensiva di prodotti per l’esportazione (castagne, grano, sale, frutta, manufatti). In queste regioni il sistema democratico era controllato più o meno direttamente dal Generale. Paoli cercava di garantire, da un lato, l’elezione dei deputati della Dieta attraverso il sistema delle Consulte, ma scoraggiava, dall’altro, la candidatura di esponenti poco affidabili, promovendo, al loro posto, l’elezione di rappresentanti “malleabili” (tra cui anche molti ecclesiastici). Il rovesciamento del potere del Generale avvenne proprio in queste terre di confine tra il sistema comunitario/agro-pastorale e quello notabilare/latifondista. I commercianti bastiesi, i ricchi mercanti del Capo Corso ed i contadini agiati della Balagna e della Piana orientale passarono ai francesi non appena si resero conto che il Generale non era in grado di garantire uno spazio commerciale e mercantile autonomo: fedeli a Genova nel primo periodo rivoluzionario, queste classi di lavoratori di propri beni appoggiarono Paoli con la speranza di poter sfruttare a proprio vantaggio l’indipendenza dell’isola e passarono in massa alla Francia non appena intravidero gli enormi vantaggi legati al commercio ed alle sovvenzioni della monarchia. La sottile promessa, fatta da Choiseul, di nobilitare le famiglie più ricche dell’isola, l’impossibilità, per Paoli, di conquistare le piazzeforti genovesi (necessarie agli scambi) e il fallimento del porto nazionale dell’Isola Rossa, favorirono la rottura del fronte interno. Non si può parlare, per la Corsica, di un «sistema democratico originario», come ha scritto Dorothy Carrington nell’opera Pascal Paoli et sa constitution (eccezion fatta per la Terra di comune nel Diquadamonti), né tantomeno sarebbe corretta l’assimilazione tout cour della costituzione paolina alle successive costituzioni rivoluzionarie francesi o al sistema inglese. Piuttosto si deve riconoscere a Paoli una notevole intelligenza politica, che gli permise di plasmare un sistema legislativo flessibile, misto di democrazia diretta (nelle zone da secoli aduse alla gestione comunitaria) e di aristocrazia notabilare (nelle zone controllate dal notabilato terriero o commerciale), unito ad un forte potere esecutivo (Consiglio di Stato) e giudiziario (Rota Civile e Tribunali di guerra). Si trattava, comunque, di un sistema che portava già in nuce le contraddizioni che decretarono la sua conclusione: conflitti tra gli interessi di diverse categorie sociali, scarsa incidenza sui clan, incoerenza tra le diverse anime della rivoluzione. Un sistema democratico corso è esistito, quindi, ma limitatamente ad alcune pievi, e soprattutto, non solo per merito di Paoli.

Figura 67: un decreto di Paoli del 1767.

§ 2. La Rivoluzione corsa: l’utopia. È realmente esistita una rivoluzione in Corsica? A questa domanda bisognerebbe replicare con una questione ancora più sottile: che tipo di rivoluzione è stata la Rivoluzione corsa? Dall’analisi svolta finora e grazie ai contributi delle fonti, si può affermare che la Rivoluzione corsa sia stata una realtà storica inequivocabile, la cui portata, comunque, deve essere compresa alla luce delle reali problematiche dell’isola e non, come più volte è accaduto tra gli studiosi di storia corsa, nella prospettiva della successiva Rivoluzione francese, dell’avvento di Napoleone o del Risorgimento italiano. La Corsica del XVIII secolo presentava una struttura economica, politica e sociale originale, poco assimilabile alle altre terre del continente, anche vicine, come nel caso della Sardegna. Bisogna tener conto di questo dato per poter valutare

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in maniera oggettiva la portata e l’importanza dell’esperienza rivoluzionaria nell’isola. Sicuramente poco è stato scritto sulle diverse “anime” della Rivoluzione corsa ed in questo studio si è tentato di fornire un approccio il più possibile ampio sulle cause e sull’evoluzione degli avvenimenti rivoluzionari. Emergono, da un’attenta lettura, tre diversi piani sociali, tre grandi “forze rivoluzionarie”: - La borghesia: la nuova borghesia corsa, nata dagli scambi commerciali con Genova, cercava di scrollarsi di dosso il peso del controllo fiscale e commerciale della madrepatria; le ragioni economiche e finanziarie della rivoluzione, infatti, emergono proprio dall’analisi dei dati forniti dal Plan Terrier, dai Cahiers de doléances e dalle Tabelles de la Corse, oltre che dai registri portuali conservati negli archivi di Genova e di Parigi. Alcune forme di opposizione al controllo straniero sui commerci interni ed esterni appaiono evidenti durante tutto il periodo della dominazione genovese e francese, senza soluzione di continuità. La borghesia isolana, probabilmente, cercava di incrementare i propri traffici e gli interessi commerciali, mercantili o immobiliari dei propri esponenti cercando di aggirare l’asfissiante presenza del fisco genovese prima, e francese in seguito. Sono significativi, a questo proposito, i resoconti dei sabotaggi attuati dalla borghesia terriera all’interno delle diverse pievi dell’isola nel periodo della dominazione diretta della monarchia francese. L’istituzione di un libero governo da parte del generale Paoli deve essere sembrato, a questa classe poco abituata alla diretta amministrazione dell’isola, una soluzione ai numerosi problemi legati ai prezzi, alle carestie, agli scambi marittimi, ma anche a quelli legati all’amministrazione del potere, alla possibilità di poter contare nella gestione della vita civile, politica e sociale dell’isola. - Le classi popolari: le classi sociali maggiormente legate alla terra ed all’allevamento, come i giornalieri, i lavoratori di onesta condizione ed i braccianti parteciparono alla sollevazione generale sperando di poter eliminare, d’emblée, il potere coercitivo dei genovesi e dei grandi proprietari capipopolo o signori. Queste categorie sociali traevano la propria forza dalla divisione comunitaria dei beni mobili ed immobili, ed erano riuscite ad evitare le dure carestie della fine del XVIII secolo grazie a questa particolare condizione; tuttavia, abbiamo visto che proprio nel periodo iniziale della sollevazione contro Genova, il notabilato terriero stava cercando di occupare le terre comunali, per poterle controllare e, in un secondo tempo, per poterle inserire nelle grandi tenute. A questa doppia velocità degli avvenimenti devono essere ricollegate le guerre intestine, le defezioni improvvise, l’apparizione più o meno immediata di nuovi capipopolo nel seno delle stesse pievi, l’appoggio tutt’altro che incondizionato a Paoli per la mediazione nelle questioni riguardanti le terre e la loro gestione. I piccoli produttori ed i pastori/coltivatori vedevano nella sollevazione contro Genova la possibilità di rovesciare una difficile tendenza al sopruso da parte dei clan filogenovesi legati al latifondo ed al notabilato. La causa nazionale paventata da Paoli diventò allora un motivo di riscatto sociale: Paoli garantiva la permanenza di strutture civili, politiche ed economiche autogene, e prometteva, come mostra la Costituzione del 1755, un maggior ordine giurisdizionale. - Il notabilato: diversa la situazione della classe notabilare corsa, formata, nella stragrande maggioranza dei casi, dagli scarsi esponenti delle antiche famiglie aristocratiche e dai proprietari terrieri: quest’ultima classe vedeva nella sollevazione contro Genova la possibilità di prendere il possesso di un potere vacante, destituito dalla rivolta delle classi popolari promossa ed appoggiata dalla Serenissima Repubblica per fiaccare la feudalità isolana. Eloquenti, sotto questo aspetto, le pagine scritte da Salvini e da Natali nei “testi giustificativi” della Rivoluzione corsa. La rivoluzione appariva, per questi ceti, come l’estremo tentativo di strappare il controllo politico ed amministrativo dell’isola dalle mani dei genovesi. L’appoggio che i clan notabilari diedero a Paoli nella regolamentazione del sistema legislativo, esecutivo e giudiziario della Corsica era motivato dalla convinzione di poter occupare delle posizioni preminenti, perse o interdette durante la dominazione genovese. Era forte anche la convinzione che la rivoluzione, una volta scemata l’ondata di violenze, sarebbe stata guidata dagli esponenti più influenti dei diversi clan isolani. Niente di più astratto: in realtà, Paoli intendeva giungere ad una forma di controllo sociale finalizzato soprattutto all’indipendenza dell’isola. Quando egli pose mano all’organizzazione amministrativa della Corsica indipendente, cercò di non scontentare nessuna delle diverse “anime” rivoluzionarie, disciplinando la spinta popolare, ma scendendo anche a patti con i Signori del Diladamonti. Il Generale cercò di usare la propria figura come un collante sociale, ben sapendo che la struttura statale reggeva su basi poco solide: quando i notabili locali (i capiclan e gli esponenti della borghesia terriera e mercantile) presero atto delle insufficienti garanzie fornite da Paoli nella gestione dello Stato, passarono in massa alla Francia. Senza l’appoggio di questi poteri, nascosti ma influenti, è evidente che il Generale non poteva sperare di resistere a lungo. La battaglia di Pontenovo, sotto questo aspetto, potrebbe essere vista non tanto come un errore tattico del Generale, o come un estremo tentativo di opposizione all’invasione dei francesi, ma come la scelta disperata da parte di Paoli, cosciente del rischio a cui questa estrema misura esponeva l’indipendenza corsa, di contrapporsi in una battaglia campale ai francesi per ricucire (in caso di vittoria) le fratture, le scissioni, gli odi e le vendette trasversali che stavano decimando il fronte dei “nazionali”. Come abbiamo visto erano assai numerose le lettere, i biglietti e le informazioni che annunciavano a Paoli l’imminente sfaldatura della compagine rivoluzionaria, specie per la defezione dei clan legati ai latifondisti del Sud dell’isola. Pontenovo avrebbe rappresentato, in una situazione di grave difficoltà, la prova definitiva della compattezza del fronte ribelle: per Paoli significava, ad un tempo, la risoluzione delle fratture interne tra i clan e l’estremo tentativo di sollevare la questione corsa a livello internazionale. La sconfitta segnò un passaggio di poteri, più che l’invasione o la compravendita dell’isola: le fratture all’interno del fronte nazionale avevano improvvisamente mostrato la debolezza del sistema politico paolino.

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§ 3. La realtà del lungo periodo È molto difficile riuscire a delineare la realtà sociale, politica, culturale ed economica dell’isola nell’arco della sua lunga storia, ma sotto questo aspetto, l’unico modo per poter valutare ed analizzare la portata, l’ampiezza e le caratteristiche della rivoluzione è quello di inquadrarla all’interno di una storia di lungo periodo, una storia geografica. È per questo che, a livello metodologico, gli avvenimenti del “quarantennio rivoluzionario” (1729-1769) sono stati inseriti all’interno di una prospettiva che va dal dominio genovese (a partire, cioè, dal XV secolo) fino al periodo successivo alla conquista francese. La Rivoluzione corsa, osservata da questa prospettiva, può apparire allora come l’akmé di movimenti ed evoluzioni sociali (la lotta tra le comunità ed i latifondisti, la contrapposizione tra il potere genovese/francese e quello dei clan, l’opposizione tra il Diquadamonti ed il Dilàdamonti, la dicotomia tra il sistema comunitario/democratico e quello notabilare/aristocratico, ecc…), che non sono affatto nati con la rivoluzione e che non si sono esauriti con essa. Paoli appare, in questo contesto, come una pietra di volta, come l’interprete, più che l’artefice, delle forze politiche e sociali nascoste nelle profondità dell’anima corsa, in grado di convogliare e valorizzare le diverse componenti della società isolana verso l’indipendenza. Il mito della democrazia corsa appare, in questo contesto, come una realtà legata alle vicende più antiche della storia corsa, come un’esperienza che si è ripetuta e si ripete nel tempo, come un’istituzione che Paoli ha semplicemente convogliato su un piano nazionale. La stessa utopia della Rivoluzione corsa, vista da numerosi filosofi e pensatori del Settecento come la prima, vera contrapposizione all’Ancien Régime (vedi Rousseau, ma anche Robespierre, Buonarroti, Mably, Morelly, Verri) appare, allora, come una notevole forzatura rispetto alla storia dell’isola: Paoli ed i ribelli non cercavano di contrapporsi ad un potere notabilare/clanico costituito, né intendevano scatenare una guerra sociale all’interno delle pievi: l’unica forza che muoveva Paoli ed il suo governo era l’indipendenza della Corsica. Il tentativo paolino era quello di mediare tra queste anime. La sconfitta era invitabile, perché inevitabili erano le contraddizioni che esistevano, da parecchi secoli, all’interno dell’isola: né Sampiero di Bastelica, né Paoli, né la Rivoluzione, né Napoleone, né la Restaurazione, né la Repubblica francese sono mai riusciti a risolvere queste contraddizioni intestine dello spazio corso. Il fatto che la Corsica, anche a seguito dell’annessione francese, non sia stata mai del tutto sottomessa, che Paoli sia riuscito a tornare nell’isola nel 1790 - appoggiato dai giacobini francesi e da Robespierre - e abbia subito trovato la possibilità di riprendere la lotta per l’indipendenza e la stessa esperienza del Regno anglo-corso (1794-1796), solleva dunque una serie di domande a cui la storiografia dell’ultimo trentennio non è riuscita a dare sempre delle risposte esaustive. Solo la lettura della realtà corsa nel lungo periodo fornisce delle risposte: l’isola ha introiettato da tempo immemorabile l’abitudine ad essere gestita, amministrata, a volte anche sfruttata, dalle potenze straniere. Di questa sottomissione, essa ha fatto un punto di forza: è riuscita, nel corso dei secoli, a lasciare invariata la propria struttura sociale, a salvaguardare il proprio “corpo primitivo”, ad impedire un’eccessiva intromissione degli stranieri all’interno di una serie di immutabili leggi sociali. Probabilmente è per questo che, ancora oggi, la Corsica rappresenta un banco di prova difficile per l’amministrazione francese (vedi l’Accordo di Matignon con il governo Jospin), ma anche per l’Unione Europea (la Carta delle Minoranze Linguistiche del 1992, che contempla la lingua e la cultura corsa, non è stata ancora recepita nell’ordinamento francese). Quando la mattina del 30 ottobre 2003, alla vigilia della sua seconda visita in Corsica dal fallimento del referendum sull’autonomia, il Ministro dell’Interno francese Nicolas Sarkozy annuncia alla stampa di voler “neutralizzare la deriva mafiosa del nazionalismo corso”, in molti sull’isola si sono chiesti se si trattasse della bordata di un politico o, piuttosto, di un tecnicismo. I 273 attentati compiuti in Corsica tra la primavera del 2003 e l’inverno del 2004 sembrano accreditare l’ipotesi di un nazionalismo logorato da vent’anni di scissioni interne, i cui protagonisti, oggi più che mai, sono i clan legati alle attività finanziarie dell’isola piuttosto che allo storico movimento politico e culturale. Nicolas Sarkozy pronuncia queste parole nel novembre del 2003, un giro di vite annunciato di fronte allo spettro del fallimento della politica francese nella gestione della regione, ma le radici di questa pericolosa connessione tra politica, finanza e controllo capillare del territorio risalgono almeno a due secoli prima. La storia della Corsica è rimasta, dunque, anche dopo la conquista francese del XVIII secolo, sostanzialmente ripetitiva; possiamo affermare, in un certo senso, che essa non è realmente cambiata, nonostante le devastazioni e le colonizzazioni che hanno svuotato, se non spezzato, le strutture fondamentali della società isolana. Non a caso, gli autonomisti corsi si riferiscono sempre alla loro storia millenaria. Questa Corsica millenaria è presente ancora oggi: la sua presenza non si manifesta soltanto in rivendicazioni parziali, tipiche dei movimenti autonomistici, ma in una sedimentazione “emotiva”, che ha creato dei circuiti e delle reti nella società corsa. Nelle scuole, la storia di Corsica è stata occultata, deformata dall’istruzione francese – una delle maggiori battaglie degli autonomisti, sul fronte culturale, è stata ed è quella di far rivivere questo passato fatto di rivolte, ribellioni, rivoluzioni, sommosse popolari, quasi sempre dirette contro gli invasori – così che si potesse dire che la storia di cui i corsi sono fieri non ha mai avuto luogo, salvo all’epoca dell’indipendenza conquistata da Pasquale Paoli. I corsi, avendo conosciuto il potere diretto solo in brevi periodi, hanno sempre vissuto, politicamente, come spossessati. Attraverso i secoli, infatti, il potere dell’isola si è trasmesso nelle mani degli stranieri ed ogni volta, nonostante le devastazioni, i massacri, la mescolanza delle popolazioni, l’isola ha salvaguardato e fatto evolvere la sua identità. La

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situazione geografica gioca, in questo caso, un ruolo decisivo. La Corsica non ha potuto avere una storia perché, tranne brevi periodi, è stata vittima della storia: di colpo, la geografia si è vendicata. I corsi hanno costruito per vie traverse una società comunitaria strettamente connessa alla geografia. Dato che il potere, la legge, le istituzioni, appartenevano agli stranieri, essi si sono posti fuori dal potere, dalle leggi, dalle istituzioni. La gerarchia del rapporto con il potere politico è stata rovesciata; non è lo Stato che legittima la vita nella società, non è importante quello che accade superficialmente, ma ciò che sopravvive alle distruzioni, ai cambiamenti di potere. Questa geografia è costituita da un grande corpo primitivo: l’isola. I legami che i corsi hanno intessuto con questo corpo non somigliano affatto a quelli che intercorrono, per esempio, tra il contadino e la terra. C’è innanzitutto un legame di potere (e sul potere): là dove circolano delle forti passioni, si torna al grande corpo primitivo. La geografia è, in definitiva lo spazio-storico dell’autodifesa secolare, uno spazio chiuso in sé, appena intaccato dalla vita delle grandi città del litorale (Ajaccio Calvi, Bastia Porto-Vecchio, Bonifacio) dove i corsi coesistono con i dominatori, adottando spesso il loro stile di vita, le loro leggi, il loro potere. Solo con la consapevolezza di queste realtà sociali ed economiche, di questa particolare forma di “isolamento ed autodeterminazione”, possono essere lette ed interpretate le rivoluzioni dell’isola. § 4. la Corsica come simbolo La Rivoluzione corsa si inserisce nel contesto di crisi dell’Ancien Régime in maniera originale: la sollevazione generale non si espresse soltanto nello scontro dominati/dominatori, ma coinvolse la struttura politica, amministrativa, economica e sociale dell’isola, avviando un sistema costituzionale ed amministrativo alternativo a quello vigente, ed anticipando temi, problematiche ed azioni che si sono ripetute, seppur in maniera più ampia e con conseguenze diverse, in altre zone critiche del Vecchio Regime. Si trattava, in estrema sintesi, di uno dei tanti laboratori delle teorie illuministe, attuato in una situazione unica, sotto certi versi, e sostanzialmente irripetibile. La democrazia corsa, con la modalità e le particolarità che abbiamo visto, contribuì ad alimentare una discussione politica, giuridica e culturale notevole, con interventi di autorevoli personalità dell’età dei Lumi. Non a caso la figura del Generale è stata spesso assimilata, dalla storiografia contemporanea e da quella più recente, a quella di un “despota illuminato”, di un monarca costituzionale, di un notabile riformatore o di un condottiero che esprimeva gli ideali antidispotici dell’età dei Lumi e anticipava sentimenti ribelli già in nuce nella seconda metà del secolo. Tutte queste particolarità hanno contribuito a far nascere e ad estendere il “mito” del governo di Paoli oltre i confini del continente europeo: questo mito non si è esaurito con la sconfitta di Pontenovo, con l’annessione della Corsica alla Francia e nemmeno con l’ascesa di Napoleone. L’appoggio quasi incondizionato dei corsi, nei momenti più alti, all’operato di Paoli e la permanenza, anche ai nostri giorni, della sua figura come simulacro dell’indipendenza e della libertà isolane, testimoniano il segno tangibile di un fascino storico. Sotto certi aspetti, l’isola è diventata a poco, a poco un simbolo: il simbolo dell’applicazione delle teorie illuministe e contemporaneamente della loro sconfitta e, insieme, il simbolo di un radicale e sentito antidispotismo. La Corsica, in realtà, vive ed è vissuta di tutte queste contraddizioni, senza nessuna parzialità. Il governo di Paoli, seppure per poco tempo e con numerose difficoltà, è riuscito a liberare i diversi volti dell’isola per darne, all’esterno ed all’interno, uno compatto. Queste contraddizioni, unite alle ineguali presenze delle forze sociali nell’isola, hanno contribuito all’eterogeneità delle interpretazioni storiche.

Fabrizio Dal Passo

Figura 68: un manifesto del Fronte di Liberazione Nazionale.

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DEA», 1992; ARBOS P., A propos de la maison corse, «Revue de géographie alpine», XXI (1933); ARCHER D., The scented isle, London 1924; ARENDT E., HAYEK-ARENDT K., Islands of the Mediterranean, London 1961; ARKOUN M., L’expansion de l’Islam dans la Méditerranée occidentale, «Revue de l’occident musulman de la Méditerranée», XX (1967); ARMANI V., Le pressoir à huile, u fragnu, «Corse historique», 5-6 (1962); ARRIGHI J.-M., CASTELLIN PH., Projets de constitution pour la Corse, Ajaccio 1980; IID., Disinganno intorno alla guerra di Corsica, Ajaccio 1983; ARRIGHI P., Histoire de la Corse, Paris 1969; ID., Histoire de la Corse, Paris 1966 (nuova ed. 1978); ID., La vie quotidienne en Corse au XVIIIe siècle, Paris 1970; ID., (a cura di): Histoire de la Corse, collectif: préhistoire, protohistoire (R. GROSJEAN/E. BONIFAY); Corse antique (L. et J. JEHASSE); La Corse, terre de saint pierre (H. TAVIANI); Le temps de Sampiero (R. EMMANUELLI); La paix génoise (1569-1729), La révolution de Corse (1729-1769) (F. ETTORI); L’intégration à la France, problèmes d’hier et d’aujourd’hui (R. EMMANUELLI), Toulouse 1986 (3ème

éd.); ARRIGHI P., GROSJEAN R., JEHASSE J., TAVIANI H., ETTORI F., EMMANUELLI R., Histoire de la Corse, Corte 1971; ARRIGHI P., POMPONI F., Histoire de la Corse, Paris 1993 (6ème édition); ARTAUD A., Un armateur marseillais, Georges Roux, Paris 1890; ARTEFEUIL L., Dictionnaire de la noblesse héroïque de Provence (familles Cipriani et Franceschi de Centuri), Avignon, 1757-1759 et 1776-1786, 4 voll.; ARZALIER F., Les perdants. La dérive fasciste des mouvements autonomistes et indépendantistes au XXe siècle, Paris 1990; ASSANTE F., Città e campagna nella Puglia del secolo XIX, Napoli 1969; ASSERETO U., Genova e la Corsica (1358-1378), Bastia 1902; AUBERT DE LA RUE E., L’homme et les îles, Paris 1956; AUDIBERT P., Raccourci des histoires parallèles de la Corse et de la Sardaigne, Avignon 1972; AVERSANO V., Corsica problema tra Europa e Mediterraneo, Napoli 1998; BACHAUMONT L., Mémoires secrets pour servir à l’histoire de la république des lettres en France depuis 1762 jusqu’à nos jours, Londres 1784; BACHELARD G., La poétique de l’espace, Paris 1957; BAEHREL R., Une croissance: la basse Provence rurale (fin XVIe siècle à 1789). Essai d’économie statistique, Paris 1961; BAIROCH P., Victoires et déboires, histoire économique et sociale du monde du XVIe siècle à nos jours, Paris 1997; BALABANIAN O., Les états Méditerranéens de la CEE, Paris 1990; BALME R., Les politiques du néo-régionalisme, Paris 1996; BANCHERO G., Annales, traduites de l’italien, «B.S.S.H.N.C.», 80-82 (1887); BANGS J. K., Mr. Bonaparte of Corsica, New York 1895; BARATIER E., Histoire de Marseille, Toulouse 1973; BARRAU J., BONTE P., DIGARD J.-P., Études sur les Sociétés de pasteurs nomades: I. Sur l’organisation technique et économique, «Cahiers du CERM», 109 (1973); BARRY JOHN W., Studies in Corsica, sylvan and social, London 1893; BARTOLI M., Pasquale Paoli, père de la patrie Corse, Paris 1974; BATISSE M., GRENON M., Le plan bleu: avenirs du bassin Méditerranéen, Paris 1989; BATTESTI J., Un gouvernement démocratique au XVIIIe siècle, Paris 1937; ID., RICHEZ G., Tourisme et mutations: Corse et Majorque, «Études corses», 10 (1982); BATTESTINI F.F., Calvi au XVIe siècle (1563-1607), Asnières 1968; BAZIN R., Les italiens d’aujourd’hui, Paris 1984; BAZZONI A., Carteggio dell’abate Ferdinando Galiani col marchese Tanucci, «Archivio storico italiano», s. IV, to. III (1879); BEAUMONT D., Observations sur la Corse, Paris 1821; BENASSAR B., Le voyage en Espagne. Anthologie des voyageurs français et francophones du XVIe au XIXe siècle, Paris 1998; BENEMATI A., Les pavés de l’enfer: Italie et question méridionale, Paris 1988; BENNASSAR B., Les chrétiens d’Allah, Paris 1989; BENNET J.-H., La Corse et la Sardaigne: étude de voyage et de climatologie, Paris 1876; ID., L’Italie pittoresque. Tableau historique et descriptif de l’Italie, du Piémont, de la Sardaigne, de la Sicile, à Malte et de la Corse, Paris 1836; BENÔIT F., Moulins à grains et à olives de la Méditerranée, in Travaux du I

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riportato altri documenti nei fascicoli 401- 404 (1920); ID., Giornale patriottico di Corsica, Bastia 3 aprile 1790; 1: della libertà, 27 novembre 1790; 2: della libertà (reprint, Milano 1980); ID., La congiura degli Eguali, Paris 1995; BURGEL G., La CEE Méditerranéenne (dossier des images économiques du monde), Paris 1990; BURGIO A., Rousseau la politica e la storia, Milano 1996; BURNABY A., Journal of a tour in Corsica in the year 1766, by the rev. Burnaby at that time chaplain to the British factory at leghorn with a series of original letters from general Paoli to the author, London 1804; BURNOUF E., Essai sur les assolements en Corse, Bastia 1855; BUSQUET J., Le droit de la vendetta e les paci Corses, Paris 1920 (reprint 1994); BUTTAFUOCO A., Fragments pour servir à l’histoire de Corse de 1764 à 1769, Bastia 1859; CABRI R., Notice historique sur l’église Notre-Dame de Bastia, Bastia 1938; CAGNANI M.A., Documents sur les troubles de Bastia, 1, 2 et 3 juin 1791, Bastia 1894; CAILLE J., Davia Franceschini et sa famille, Bastia 1968; CAIRD I., The history of Corsica, London 1899; CALVET-BENETTI R., Scudi et soldi du roi Théodore, «Corse historique», 26 (1967); CAMBIAGI G., Istoria del regno di Corsica (1770-1772), Firenze 1772; CAMERON R., Histoire économique du monde, Paris 1991; CAMPBELL T., Notes on the island of Corsica, London 1868; ID., Southward ho!, London 1868; CAMPI L., Notes et documents sur la ville d’Ajaccio (1492-1789), Ajaccio 1901; CAMPS G., Préhistoire d’une île, Paris 1988; CANAULT, Vie d’Alphonse d’Ornano, maréchal de France, manoscritto, Aix-en-Provence, Bibliothèque Méjanes; CANCELLIERI J.A., Formes rurales de la colonisation génoise en Corse au XIIIe siècle: un essai de typologie, «Mélanges de l’École française de Rome» - «moyen âge-temps modernes», 93 (1981); ID., Homines et populus Corsice, précisions sur la «commune de Corse, Gênes et la dédition de 1358, la dédition de Nice à la Savoie in 1388», Paris 1990; CANEDA M., Riforme religiose in Corsica mediterranea, Cagliari 1928; CARAFFA (DE) S., Correspondance de Sir Gilbert Elliott, vice-roi de Corse avec le gouvernement anglais, Bastia 1892; CARAFFA M.-S., Correspondance de Lord Nelson pendant sa croisière dans la Méditerranée 1794-1797, «B.S.S.H.N.C.», 306-312 (1906); CARATINI R., Histoire du peuple corse, Paris 1995; CARBUCCIA P., Rapport sur l’état actuel de l’agriculture et de l’industrie dans l’arrondissement de Bastia adressé à Monsieur le préfet de la Corse, Bastia 1857; CARILLO E., The Corsican kingdom of George III, «Journal of Modern History» 1962; CARLI M.R., Economic and population trends in Mediterranean islands, Napoli 1982; CARLOTTI J., Monographie agricole de la Corse, Ajaccio 1936; CARLOTTI R., Articles sur l’agriculture et la police rurale en Corse, in «Journal de la Corse» 1845 (13 et 20 janvier; 3 et 17 février; 24 et 31 mars; 7 avril; 5 et 12 juin; 7 et 21 juillet); 1846 (2 et 23 février; 9 mars; 20 avril; 11 et 18 mai; 7 et 28 septembre); de 1853 (4, 11, 18 janvier; 8, 15, 22 février; 1 à 8 mars); 1854 (6 juin; 19 et 26 septembre); 1855 (11 décembre); 1856 (8, 15, 22 avril; 6, 13, 27 mai); ID., Assainissement des régions chaudes insalubres, Ajaccio 1875; CARPENTIER J., LEBRUN F., Histoire de la Méditerranée, Paris 1998; CARRIERE C., Négociants marseillais au XVIIIe siècle, Marseille 1973; ID., BARATTER E., DUBY G., HILDESHEIMER E., Le commerce de Marseille aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris 1990; ID., GOURY M., Georges Roux de Corse, l’étrange destin d’un armateur marseillais (1703-1792), Paris 1990; CARRIERE P., Le climat de la Corse, «B.S.S.H.N.C.», 583-584 (1967); CARRINGTON D., This Corsica: a complete guide, London 1962; EAD., Granite island: a portrait of Corsica, London 1971; EAD., Pascal Paoli et sa “constitution” (1755-1769), «Annales Historiques de la Révolution Française» 1 (1974); EAD., La Corse, Paris 1980; EAD., Napoléon et ses parents au seuil de l’histoire, Paris 1980; EAD., Sources de l’histoire de la Corse au public record office de Londres, Ajaccio 1983; EAD., Napoleon and his parents, London 1988; EAD., The dream hunters of Corsica, London 1995; EAD., DENIS-LARA, CITRAN, GLADIEU, GAUTHIER, LOPUE, GHISONI, Le bicentenaire et ces îles que l’on dit françaises, Bastia 1989; CASABIANCA F., Un monde rural explosif, «Revue française d’études politiques Méditerranéennes», 28 (1977); CASANOVA A., Historie de l’eglise corse, Ajaccio 1931; ID., Types de pressoirs et types de productions à partir de l’exemple corse, in La production du vin et de l’huile en

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INDICE PREMESSA pag. INota Bibliografica pag. III CAPITOLO 1 – IL SECOLO GENOVESE (1559-1729) § 1. Il secolo di ferro pag. 1§ 2. La politica economica pag. 5§ 3. La società pag. 6§ 4. Città e villaggi pag. 8§ 5. Gli scontri sociali pag. 12§ 6. Un rinnovamento spirituale pag. 13§ 7. Un rinnovamento culturale pag. 14§ 8. L’emigrazione pag. 15§ 9. Il bilancio: una società divisa ed in crisi pag. 15 CAPITOLO 2 – I TESTI POLEMICI DELLA RIVOLUZIONE CORSA: DALLA “GIUSTIFICAZIONE” AL “DISINGANNO” § 1. Introduzione pag. 18§ 2. Analisi dei testi giustificativi pag. 21§ 3. Il ruolo del clero corso nella rivolta pag. 22§ 4. Il Disinganno di Giulio Matteo Natali pag. 23§ 5. La Giustificazione di Gregorio Salvini pag. 25§ 6. Conclusioni pag. 27 CAPITOLO 3 – LA PRIMA FASE DELLA RIVOLUZIONE CORSA (1729-1755) § 1. 1729-1733: Moti o Rivoluzione? pag. 30§ 2. Ripresa delle ostilità: la Costituzione del 1735. Il Re Teodoro pag. 33§ 3. Il Primo intervento francese (1736-1742) pag. 36§ 4. 1742-1755. Inghilterra, Austria, Sardegna e Francia in Corsica pag. 38 CAPITOLO 4 – LA SECONDA FASE DELLA RIVOLUZIONE CORSA: PASQUALE PAOLI (1755-1769) § 1. Pasquale Paoli: l’indipendenza della Corsica pag. 43§ 2. La ricerca dell’unità amministrativa pag. 44§ 3. Trionfo e tragedia: dall’indipendenza all’occupazione francese pag. 51§ 4. Le cause della sconfitta pag. 56 CAPITOLO 5 – JEAN JACQUES ROUSSEAU ED IL PROGETTO DI COSTITUZIONE PER LA CORSICA § 1. Premessa pag. 66§ 2. Corrispondenza tra Buttafoco e Rousseau nel 1764 pag. 66§ 3. I primi rapporti tra Rousseau e la Corsica pag. 68§ 4. Lettere ed informazioni dall’isola pag. 70§ 5. L’atteggiamento di Paoli pag. 71§ 6. La Corsica come Repubblica pag. 72§ 7. La democrazia pag. 73§ 8. La polemica contro il regime feudale pag. 73§ 9. Il livellamento dell’isola pag. 79§ 10. La suddivisione del corpo sociale pag. 80§ 11. L’agricoltura pag. 81§ 12. Il fisco pag. 84§ 13. L’Autarchia pag. 86§ 14. Conclusioni pag. 88 CAPITOLO 6 – IL SISTEMA COSTITUZIONALE DI PASQUALE PAOLI § 1. Premessa pag. 91§ 2. Proclamazione della Costituzione pag. 91§ 3. Tradizioni politiche e strutture sociali pag. 92§ 4. Cause ed obiettivi della rivoluzione. Sviluppo di una coscienza nazionale pag. 93

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§ 5. Tentativi d’organizzazione politica: le consulte pag. 94§ 6. Creazione della Dieta pag. 95§ 7. Limiti ed estensioni dei poteri di Paoli pag. 96§ 8. Paoli e la Dieta: Composizione dell’assemblea pag. 97§ 9. Elettori ed eletti pag. 100§ 10. Paoli contro la Dieta pag. 101§ 11. Paoli e la nazione pag. 102 CAPITOLO 7 – IL SISTEMA SOCIALE ED ECONOMICO DELLA CORSICA: IL PLAN TERRIER (1769-1791) § Premessa pag. 104§ 1. La societa’ corsa e la sua evoluzione prima del 1789 pag. 104§ 2. Evoluzione storica della società e natura dei rapporti sociali tra il 1770 ed il 1780 pag. 110§ 3. I rapporti sociali dominanti nelle campagne corse (1770-1780) pag. 114§ 4. Le classi sociali nelle campagne corse alla fine del XVIII secolo pag. 115 CAPITOLO 8 – CORSICA E RIVOLUZIONE FRANCESE: I “ CAHIERS DES DOLEANCES” (1787-1789) § 1. La politica della monarchia assoluta e l’evoluzione agraria in Corsica pag. 127§ 2. Contraddizioni delle forze produttive pag. 131§ 3. La Corsica e la crisi del 1788-1789 pag. 133§ 4. Conclusioni pag. 139 CAPITOLO 9 – IL SISTEMA CLANICO E LA “VENDETTA” CORSA § 1. Premessa pag. 146§ 2. L’evoluzione del sistema politico pag. 146§ 2. La segmentazione egualitaria della società corsa pag. 146§ 4. La segmentazione clanica pag. 154§ 5. L’origine del clan pag. 157§ 6. La dinamica segmentaria nel XVIII secolo pag. 159§ 7. Clan e partiti pag. 163 CAPITOLO 10 – LA CORSICA FRANCESE: DALL’ANCIEN RÉGIME A NAPOLEONE (1770-1815) § 1. La Corsica sotto l’Ancien Régime (1769-1789) pag. 168§ 2. La Politica economica d’Ancien Régime pag. 170§ 3. La Rivoluzione Francese e la Corsica: 1789-1794 pag. 174§ 4. La Spedizione in Sardegna pag. 181§ 5. La secessione della Corsica del 1794 pag. 184§ 6. Il Regno Anglo-Corso (1794-1796) pag. 186§ 7. La Riconquista dell’isola sotto il Direttorio pag. 190§ 8. Il Consolato e l’Impero pag. 192 CAPITOLO 11 – CONCLUSIONI § 1. Il mito: la democrazia corsa pag. 198§ 2. La Rivoluzione corsa: l’utopia pag. 199§ 3. La realtà del lungo periodo pag. 201§ 4. La Corsica come simbolo pag. 202 BIBLIOGRAFIA pag. 203 INDICE pag. 228

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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

* ABBATUCCI (Famiglia): 390, 427. ACCIA (Diocesi): 45 n, 399. ACQUAVIVA S.: 16n. AGOSTINI F.G.: 125n, 127n. AGRIATI (AGRIATES): 27n, 305n, 306. AIGUILLON A.(Duca): 395n. AITELLI G.: 94, 97n, 375. AIX EN PROVENCE: 401, 415. AJACCIO: 6, 20, 20n, 23, 23n, 36, 36n, 38, 40n, 47, 47n, 59, 63n, 80, 90, 114, 120n, 121n, 127n, 137, 139, 140, 150n, 157, 177, 224, 243, 244, 255n, 257, 270, 276, 276n, 277, 278, 280, 284n, 286-288, 290, 291, 293, 294, 296-298, 304-307, 312n, 322-325, 328, 329, 331, 332, 376, 386, 388, 391, 399n, 401, 403, 406n, 409n, 410n, 412, 415, 417n, 418, 422, 425, 442, 444, 445, 447, 449, 453, 460. ALBERONI G. (Cardinale): 97n. ALBERTACCE: 277n, 283n. ALBITRECCIA A.: 10n, 15n, 17n, 120, 228n, 259n, 401n. ALERIA: 20, 20n, 23, 39n, 46n, 96, 97, 99, 114, 269n, 292n, 306, 306n, 399, 400, 417n. ALESANI (ALISGIANI): 97n, 102n, 260, 269, 269n. ALFIERI V.: 5, 58, 133, 414. ALFONSO D’ARAGONA (Re): 352n. ALGAJOLA: 38, 80, 90, 123, 137, 139, 140, 246. ALGERIA: 98. ALTHUSIUS G.: 65n. ALZONNE C.: 15n. AMBROSI A.: 10n, 407n, 439n, 442, 443n. AMBROSI CH.: 106n. AMBROSI G.: 101n. AMERICA: 414. AMIABLE L.: 130n. AMPUGNANI: 94, 277n, 284n. ANDREI A.: 421n, 422n, 426n, 428. ANGELINI J.V.: 130n. ANON J.: 96n. ANTIBES: 107. ANTILLE (Isole): 49, 78. ANTONETTI P. 10 n,12n, 15n, 49n. APOLLO (Dio): 169n. APPIETTO: 328n. APPRICCIANI: 292n. AQUISGRANA (AIX LA CHAPELLE): 106, 106n, 113, 169, 182, 182n. ARANJUEZ: 105n. AREGNO: 277. ARENA (Famiglia): 426. ARENA B.: 419n, 420, 424, 425, 427. ARENE E.: 391-394. * Si omettono le Voci «Corsica» e «Pasquale Paoli», data la frequente citazione in tutto il volume. In Corsivo sono indicati i nomi dei luoghi.

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ARGENSON M. (Ministro): 107, 108n. ARIOSTO L.: 114. ARRIGHI A.: 114n, 377. ARRIGHI G.: 148n. ARRIGHI G.F. (Monsignor): 46n. ARRIGHI J.M.: 118n. ARRIGHI P.: 11n, 16n, 95, 95n, 128n, 224n, 246, 363n, 395n, 401n, 404n, 407n. ARRIGHI P.M. (Prefetto): 446. ARRO: 146n. ARTESIA (ARTOIS): 63n, 397. AUDIBERT P.: 10n, 16n, 49n. AUSTRIA (IMPERO): 78, 92, 96, 98, 99, 100, 100n, 103-105, 136, 137, 229, 414, 420. AUTUN: 401. AVIGNONE: 401. BACCIOCCHI (Famiglia): 295n. BACHAUMONT L.: 165n. BALAGNA: 20, 38, 40 n,107, 122, 147n, 151n, 154n, 156n, 158n, 216, 264, 268, 269, 269n, 277, 295n, 315n, 324, 350, 376, 378, 439, 453, 454. BANCO DI SAN GIORGIO: 19, 19n, 22, 28, 29, 41, 47 n, 48. BAR (Confederazione di): 187,188. BARATTER E.: 49n. BARDET J.: 23n, 36n. BARRERE C.: 11n, 305n. BARRETTALI: 147n. BARRIN A.C. (Visconte): 316, 416n. BARTOLI M.: 10n, 16n. BASTELICA: 358n. BASTIA: 8, 9, 20, 20n, 23, 25, 26, 35-37, 40n, 47, 59, 91, 91n, 92, 93, 101, 105, 108n, 114, 124, 130, 137, 138, 140, 157, 168, 169, 177, 255n, 256, 257, 260, 266, 270, 276n, 303, 309n, 314n, 320n, 321-325, 331-333, 376, 377, 386-389, 399, 399n, 401, 403, 406n, 409n, 415, 417, 417n, 418, 425, 426, 429, 431, 434, 436, 438, 439, 442-444, 447, 448, 449, 454, 460. BATTESTI J.: 118n. BÉARN: 63n, 397. BECCATTINI F.: 12n. BEL MESSER A.: 366n. BELGODERE: 32n, 154n, 155n, 269n, 285n. BENEDETTI F.A. (Giudice): 386n. BERETTI F.: 431n, 434n. BERGAMASCHI G.: 16n. BERGERON L.: 53n. BERNABÉU-CASANOVA E.: 11n, 16n. BERNARDINO DI RAFFAELLO: 49. BERTAGNE (Giudice): 416n. BERTHELOT A.: 128n. BERTHIER C.: 443. BETTINELLI S.: 248. BIAGI G.: 409n. BIAGINI (Appaltatore): 309. BIANCAMARIA J.T.: 11n, 16n. BIGUGLIA (Stagno): 405. BIROT P.: 259n.

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BLACK J.: 427n. BLANCHE J.: 263n. BLUCH F.: 301n. BOCCHECIAMPE (Famiglia): 295n. BOCOGNANO: 435. BOISSIEUX (Conte): 101, 102n, 105n. BONAPARTE (Famiglia): 294, 298n, 407, 418n, 419, 419n, 421, 426. BONAPARTE C.: 318n. BONAPARTE G.: 415, 420, 421, 445. BONAPARTE L.: 412. BONAPARTE P.: 93n. BONELLI F. e A.(Fratelli): 435. BONIFACIO VIII (Papa): 128n. BONIFACIO: 20, 20n, 21, 37, 38, 38n, 59, 140, 257, 322, 352n, 404n, 423, 460. BORDEAUX: 49. BORDES M.: 10n. BORDINI C.: 11n, 12n, 14n, 16n, 67, 67n, 74n, 92n, 133n, 452. BORGO: 101, 141, 438. BORGOGNA: 63n, 397. BOSWELL J.: 5, 9, 11n, 15n, 58, 134, 134n, 162, 168, 223, 224, 228, 237, 237n, 241, 247, 248, 250, 402, 414. BOUCHEPORN C. (Governatore): 398, 402. BOURBON-CONTI (Principato): 27n, 305n. BOURDE P.: 15n, 87n, 368n. BOUTIER J.: 11n. BOY DE LA TOUR (Madame): 172n. BOZIO (BOZIU, BOZZI):40, 85, 146, 276n, 277, 281, 294, 304n, 333. BOZIO D. (Deputato): 421n, 422n. BRANDO (pieve): 39n, 260, 278n, 295n. BRAUDEL F.: 48n. BRENGUES J.: 130n. BRETAGNA: 397. BRIENNE: 162, 400. BRIGNOLE-SALE (Famiglia): 349n. BRION DE LA TOUR L.: 238. BROCCA: 349n. BROCHE G.E.: 100n, 103n, 106n. BRUSLART L.G. (Generale): 447. BUFFON G.: 218n. BULFERETTI L.: 64n. BUOCHBERG S.: 9, 93n. BUONARROTI F.: 315, 316n, 413, 417. BURNABY A.: 176, 176n, 177n. BUSQUET J.: 24 n, 49n, 87n, 353n, 354n. BUSTANICO: 85, 86, 89. BUTTAFOCO (Famiglia): 295n. BUTTAFOCO M.: 82, 158n, 161-168, 172-178, 181, 181n, 220, 410, 416n, 420. BUTTAFUOCO A.: 11n, 110, 110n. BUTTAFUOCO O.: 11n, 88, 88n. CACCIA: 115, 116, 118, 151n, 397. CACCIAGUERRA P.M.: 117.

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CAGLIARI: 59, 423, 425. CAGNANO: 39n. CALABRIA: 444n. CALACUCCIA: 307, 409n. CALASIMA: 283n. CALENZANA: 93n. CALVET-BENETTI R.: 98n. CALVI: 20, 20n, 21, 26, 37, 38, 46 n, 47n, 80, 108n, 114, 123, 127n, 137, 139, 156n, 157, 177, 257, 266, 270, 306, 325, 401, 405, 409n, 426, 429, 460. CAMBIAGI G.: 11n, 62n, 111n, 116n. CAMINER D.: 12n. CAMPI L.: 36n. CAMPO: 150n. CAMPOCASSO (Famiglia): 43n, 295n. CAMPOLORO: 380. CAMPOMORO: 39. CAMPREDON (Cavaliere): 100, 100n. CANADA: 136. CANARI: 245. CANAULT J.: 49n. CANCELLIERI J.A.: 12n. CANNELLI (Funzionario): 154n. CAPO CORSO: 20, 23, 26, 31, 33, 38, 39n, 40n, 47, 50, 89, 107, 109, 116, 120n, 122, 124, 138, 147n, 151, 157n, 176n, 215n, 216, 238, 260, 264, 266, 268-270, 277, 278, 280-283, 287, 289, 293, 296, 297, 322, 445, 453, 454. CAPRAIA (Isola): 124,138, 144. CARABELLI (Famiglia): 388n. CARAFFA M. V.: 11n. CARAFFA S.: 434n. CARATINI R.: 11n. CARBINI: 39n. CARCHETTO (Bandito): 384n. CARDO: 260. CARGESE: 34, 150, 306, 405, 405n. CARLO EMANUELE III (Re di Sardegna): 104, 104n, 105. CARLO III (Re di Napoli): 94. CARLO MAGNO (CHARLEMAGNE): 389. CARLO VI (Imperatore d’Austria): 92, 100, 100n, 102, 229. CARLO XII (R di Svezia): 97n. CARLOS (Don) di Spagna: 92, 100n. CARRINGTON D.: 15n, 16n, 63n, 95n, 118n, 120n, 252n, 298n, 348n, 412n, 419n, 451, 454. CASABIANCA (Famiglia): 251n, 295n, 306n, 318n, 390, 393. CASABIANCA G.Q.: 108n, 154n, 158n, 426, 429. CASACCONI: 277n. CASAGLIONE: 245. CASALE (Famiglia): 400. CASALTA A.F. (Generale): 438. CASAMACCIOLI: 246. CASANOVA A.: 10n, 14 n, 15n, 17n, 27, 28n, 40n, 43n, 44n, 92n, 131n, 132n, 227n, 260n, 268n, 271n, 273n, 306n, 359n, 400, 451. CASANOVA S.: 32n.

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CASINCA (pieve): 86, 158n, 270, 277n, 278, 296, 322, 324, 348, 438, 453. CASINI P.: 194. CASTA (Famiglia): 43n. CASTA F.J.: 23n, 45n, 46n, 426n, 437n, 438n. CASTAGNICCIA: 33, 40n, 50, 86, 111, 120n, 122, 260, 277n, 295n, 296, 322, 324, 438, 423. CASTELLANA: 380. CASTELLANI M.: 35n. CASTELLIN J.M.: 95, 95n. CASTELLIN P.: 118n. CASTELLO: 280n, 281n, 282n, 283, 286n, 287, 291. CASTIFAO: 246, 269. CASTINETA G.G.: 375-378. CASTRIES CH. (Marchese): 137. CATEAU-CAMBRESIS (PACE DI): 6. CATERI: 246. CATERINA II (Zarina): 188, 414. CAVAIGNAC L.E.: 385n. CAVRO (CAVRU): 358. CECCALDI A.: 9, 43 n, 69, 88, 90, 94, 95, 97n, 158n, 375. CECCALDI F.: 128n. CENTURI: 39n, 120n, 134, 147, 260, 276n. CERVIONE: 39, 39n, 278n, 292n, 401. CESARI ROCCA (Famiglia): 295n, 309n. CHANAL E.: 359n. CHAUVELIN F. (Segretario di Stato): 100, 100n, 107. CHAVANNE (Giudice): 416n. CHIAFFUSI: 269n. CHIAPPE A.: 421n. CHIARA (Famiglia): 43n. CHOISEUL E.F. (Barone): 80, 136-139, 139n, 158, 158n, 165, 166, 176, 219, 249, 395n, 396, 454. CHUQUET A.: 419n. CINARCA: 306n, 453. CINTO (Monte): 255n. CIPRO (Isola): 345n. CIRNEO P. (CYRNAEO): 352, 352n, 363n, 381n. CLEMENTE XII (Papa): 69, 73, 75, 92. CLEMENTE XIII (Papa): 44n, 57n, 71, 74, 79, 92n. COBLENZA: 420. CODIONOLA E.: 65n. COLLIÈRES (Appaltatore): 404n. COLOMBANI J.: 395n, 404n. COLONIA: 97n. COLONNA (Famiglia): 306n. COLONNA A.: 93, 118, 126, 126n, 127n, 238. COLONNA B.: 102, 108n, 111. COLONNA D.: 292n. COLONNA D’ISTRIA A.: 389n, 390n. COLONNA D’ISTRIA O.: 158. COLONNA DE CESARI (Conte): 410, 416n, 421n, 422, 423, 424n. COLONNA F.: 146n. COLONNA P.A.: 146n.

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COLONNA U.: 128n. COMITI V.P.: 256n, 407n. COMPIÈGNE: 79, 80, 125, 136-138. CONCA: 266n, 306. CONDILLAC E.: 171. CONSTANT (Commissario): 386n. CONSTANTINI F.: 49. CORBARA: 47n, 49. CORI B.: 16n. CORRADO P.: 16n, 47n. CORSICA (Città): 414. CORSICANA (Città): 414. CORSINI (Famiglia): 69, 73. CORTE (CORTI): 20, 20n, 37, 39, 57, 60, 60n, 61, 64, 76, 89, 93n, 94, 95, 105, 105n, 108,108n, 113, 118, 119, 120n, 121, 124, 127-130, 137, 141, 144, 145, 147, 148, 151n, 165, 195, 196, 224, 231, 233, 235, 245-247, 252, 257, 260, 269, 270, 276n, 281, 283, 295n, 306, 309, 322, 325, 333, 350, 403, 406n, 409n, 411, 415, 417, 418, 422n, 425n, 426, 429, 434, 435, 438, 447. CORTINCO DE BAGNAJA (Famiglia): 400. COSTA S.: 93n, 95, 97, 97n, 344, 374-376, 380-382, 389n, 396. COTI CHIAVARI (Contea): 27n, 150n, 254n, 305n. COUTLET C. (Console): 60n, 108n, 115n. COVASINA: 280n, 281n, 282n, 291n. COZZANO: 361n. CRISSÉ T.: 311n, 313n. CROMWELL O.: 62n. CROUZATIER J.M.: 441n. CRUSOL P.: 14 n. CUNEO (Famiglia) : 400. CURSA: 280, 281n, 282n, 286n, 287, 291n. CURSAY N.M. (Marchese De): 107, 108, 130, 168, 169, 174, 218. CUTTOLI: 328n. CZARTORYSKI (Famiglia): 187. D’ALEMBERT J.: 201n. D’AQUALE (Commissario) : 153n. D’ORNANO A.: 49, 49n, 63n, 133n. D’ORNANO F.: 48. D’ORNANO L.:106n. D’ORNANO R.: 52, 99. DA MARE (Signoria): 268. DA PASSANO P.: 10n, 15n, 17n. DA POZZO C.: 16n. DAL PASSO F.: 59n, 461. DALMAZZO VASCO F.: 12n, 162, 220. DALZETO S.: 10n. DANTE ALIGHIERI: 114, 431n. DARI DI TAGLIO (Famiglia): 368n. DAUDET A.: 392n. DAVIA FRANCESCHINI (Famiglia): 49. DE ANGELIS C. (Monsignor): 45 n, 71. DE BOUDARD R.: 11n. DE FRANCESCO G.: 49.

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DE L’HOPITAL (Madame de): 248n. DE LA FOATA P.: 14 n. DE LECA G.: 40. DE MARI S. (Commissario generale): 104. DE QUENZA J.: 49n. DE TAVERA P. (Hassan Corso): 49. DEDECK-HÉRY E.: 10n, 11n, 16n, 163n, 166n, 218n. DEFFAND M. (Marchesa): 133. DEFRANCESCHI J.: 87n, 395n, 404n, 413, 420n. DELEYRE A.: 171, 172. DELLA GROSSA G.: 9, 227n, 344, 366n, 373. DELLA ROCCA R.: 40. DELORS J.-P. : 10n. DELORS J.-P.: 16n. DIANI D.: 395n, 402n, 404n, 408, 413. DIDEROT D.: 165, 165n, 218n. DIGIONE (DIJON): 169. DONATI L.M.: 348n. DORIA (Famiglia): 92, 139. DORIA B.A. (Vescovo): 410n. DRACONE: 220n. DRAKE F. (Ministro): 427n. DRESCH J.: 259n. DRESSLER-HOLOHAN W.: 11n, 14 n, 17n. DUBY G.: 49n. DUFAUR A.F. (Giudice): 416n. DUMÉNIL C.P. (Giudice): 416n. DURAZZO (Famiglia): 43n, 309n, 388n. DURAZZO C.E.: 103n. DURAZZO M.: 106, 106n, 139. DURAZZO S.: 146n. ECCICA SUAREDDA: 358. EDIMBURGO (EDIMBURGH): 134. EFESO: 163n. EGITTO: 445. ELBA (Isola): 225n, 436n, 445-447. ELLIOTT G.: (Vice Re): 6, 429n, 431, 432n, 433-436. EMMANUELLI R.: 10n, 11n, 15n, 16n, 31n, 32n, 67, 68, 68n, 82-84, 95, 96, 96n, 98, 103n, 227n, 395n, 414n, 428n, 441n. ENRICO III (Re di Francia): 49. ENRICO IV (Re di Francia): 49. ESPERANDIEU E.: 421n. ETTORI (Famiglia): 266n, 285, 295n, 306, 309n, 315n. ETTORI F.: 10n, 11n, 12n, 15n, 35, 63n, 70n, 86n, 92n, 95, 120, 224n, 230, 250, 251n, 413n, 420n. EUGENIO IV (Papa): 75. EVANS-PRITCHARD E.: 351n, 363. FABIANI (Famiglia): 158n, 295n, 375, 376, 378. FARNESE E.: 97n. FAUCHER D.: 263n. FAVONE: 266n. FAVORY P.: 259n.

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FEDERICO II (di Prussia): 78, 134, 162, 194, 218n. FENELON S.F.: 61. FERRANDI J.F., 10n, 15n, 16n. FERTON CH.: 38n. FESCH J.: 37, 412. FETSCHER I.: 191. FICAJA: 266n. FIESCHI (Famiglia): 295n. FILIPPINI P.: 9, 34, 43, 43 n, 373. FILIPPO II (Re di Spagna): 49. FILIPPO V (Re di Spagna): 92, 94, 99, 105. FINALE LIGURE: 104n. FIORE T.: 192n. FIRENZE (FLORENCE): 432n. FITZGERALD P.: 96n. FIUMORBO (Feudo): 28n, 29, 52, 155, 158n, 254n, 268n, 269n, 384, 397, 439, 447-449, 453. FLEURY (Cardinale): 74, 74n, 100. FOLACCI A.: 297n, 307n. FOLACCI S.: 117, 126, 143. FONTAINEBLEAU: 101, 101n, 446, 447. FONTANA J.: 21n, 40n. FONTANA M.: 10n, 16n, 118n, 121n, 224, 224n. FONTANA P.: 93n. FONZI F.: 44 n, 57n, 452. FOZZANI (Famiglia): 43n. FOZZANO (FUZZÀ): 39n, 51, 245, 361n, 388n. FRANCESCHI P.P.: 15n. FRANCESCHINI E.: 385n, 386n. FRANCIA: 5, 7, 48, 49, 60n, 63, 63n, 75,78, 80, 82, 89, 94, 95, 97n, 98-106, 117,125, 129n, 135-138, 140, 141, 158, 163, 166, 168, 169, 172, 172n, 174-178, 196n, 212n, 213, 221, 229, 230, 252, 301n, 304, 322, 328, 332, 334-338, 340-342, 353n, 356n, 364, 383, 385, 389, 390, 392n, 396, 397, 400-403, 407-412, 417, 425, 428-431, 433, 436, 439-441, 443, 445, 447, 449, 452, 454, 457, 461. FRASSETO: 150n. FREDERICK D.: 96n. FREDIANI (Famiglia): 285, 295n, 296. FRIBURGO: 61n. FRIESS C.: 11n. FROYTIER (Giudice): 386n. FRY HYSLOP B.: 304n. FUMAROLI V.D.: 358n. FURIANI: 51n, 91, 348n. GAFFORI (o GAFFORY. Famiglia): 295n. GAFFORI G.P.: 69, 105, 106, 106n, 108-113, 115n, 116, 125, 148, 158n, 174, 233. GAFFORIO F.: 148n, 246, 412, 415. GAGNEBIN B.: 170n, 188n. GAI D.: 113. GAI J.B.: 10n. GALEAZZI P. (Corrispondente): 431n. GALEAZZINI P.(Giudice): 386n. GALERIA: 149n, 266, 295n, 405. GALIANI F.: 133n.

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GALLURA: 425. GARELLI P.: 10n, 16n. GARIN E.: 179n. GAUDIN J.M. (Ministro): 441n. GAULÉJAC B.: 329n. GAUTHIER F.: 302n. GAVIGNANO: 285n. GAVINI (Famiglia): 390, 393. GAVINI (Presidente): 387n. GAY F.: 14 n. GENOVA (GÊNES): 5, 10n, 19, 21-24, 24n, 25-32, 36, 37, 41, 42, 44n, 47, 48, 48n, 50, 52, 55, 57-63, 68-71, 73-77, 79, 80, 82, 86-88, 89-92, 92n, 93-96, 98, 100-113, 118, 122, 124, 129n, 133, 136-140, 149, 153, 156-158, 167, 170, 172, 173, 182, 224, 227, 228, 230, 249, 266, 271, 303, 304n, 339, 344, 354, 364, 374-376, 379-383, 405, 407, 409, 412, 413, 433, 454-456. GENOVESI A.: 114. GENTILE (Signoria): 268, 295n. GENTILI A. (Generale): 427, 429, 436, 437. GEORGES P.: 258n. GERMANES A.: 11n, 63n, 102n, 402. GERMANIA: 99n, 133n. GERONIMI G.: 147n. GERONIMO V.: 52n. GHISONI: 28n, 39n, 283n, 295n. GIABICONI A.: 101n. GIACCHERO G.: 13n, 14n, 50n. GIAFFERI A.: 438. GIAFFERI L.: 88n, 90, 92-95, 97n, 99, 101n, 102n, 133n, 375-377. GIANMARCHI P.: 114n. GIBILTERRA: 104, 105. GIL J.: 11n, 416n. GINDIN C.: 13n, 14 n, 302n. GINEVRA (GENÈVE): 161, 162, 162n, 176n, 179, 194, 197. GIORGETTI G.: 13n, 275n. GIORGIO III (Re d’Inghilterra): 62n, 427n, 429n, 431, 434. GIROLAMI-CORTONA F.: 11n, 113. GIUDICE DE CINARCA (Nobile): 227, 338. GIUDICELLI M. (Funzionario): 156n, 306. GIUNCHETO: 284n, 308n. GIUNTELLA V.E.: 66n. GIUSTINIANI P.M.: 11n, 31n, 57, 61, 61n, 77, 77n, 103, 103n, 104. GODECHOT J.: 14 n, 225, 422n. GOETHE: 5. GOLDONI C.: 46 n. GOLO: 94, 115, 141, 142n, 260, 437. GORDON T.: 173. GOURY M.: 49n. GRAZIANI A.: 11n, 12n, 14n. GRECIA: 58, 169. GREGORI G.C.: 21n, 48n. GREGORI J.: 10n, 16n. GREGORIO VII (Papa): 75.

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GREGORY D.: 10n, 429. GRIMALDI G. (Commissario generale): 103n, 108n. GRIMM C E W. (Fratelli): 134. GRISONI D.: 49n. GROSSETO: 39n. GROSSO P.A.M.: 127n. GUARDIA VECCHIA: 423n. GUELFUCCI B.: 11n, 89n, 111, 112, 131. GUERNES J.J. (Vescovo): 292n, 400n. GUGLIELMI PH.: 130n. GUGLIELMO III (d’Orange): 62n. GUIDI A. (Monsignore): 46n. GUSTAVO III (Re di Svezia): 218n. GUYANA: 438. HABBAKUK H.J.: 13n. HEERS J.: 12n. HEIN P.: 14 n. HILDESHEIMER E.: 49n. HOBSBAWM E.J.: 87n. HOOD S. (Ammiraglio): 427, 429. HUME D.: 218n. INDIA: 136. INDOCINA: 356n. INGHILTERRA (GRAN BRETAGNA): 5, 62n, 79, 97n, 98, 99, 101, 103-105, 136, 137, 172, 221, 229, 239, 340, 424, 427, 428, 430, 432n, 434, 435n, 436, 439, 443, 446. INNOCENZO VI (Papa): 75. ISOLA ROSSA (ILE-ROUSSE): 99, 123, 132, 157, 418, 438, 446, 454. ISOLACCIO: 368n. ISTRIA (Feudo): 40, 126, 126n, 227, 306n, 320n. ITALIA: 5, 48, 58, 66n, 79, 91, 92, 94, 95, 99, 99n, 101, 106n, 124, 133, 259, 275, 322, 334, 335, 337, 340, 418, 420, 423n, 435, 439. JACOBI J.M.: 19. JEHASSE J.: 363n. JEMOLO A.C.: 14 n, 64n, 73n, 92n. JOHNSON S.: 134, 414. JOLLIVET M.: 426n. JONES P.J.: 259n. JOSPIN L.: 459. JUCHERAU DE SAINT DENYS M.: 386n. KOLODNY Y.: 35, 35n, 36, 37. L’AIA (LA HAYE, DEN HAAG): 162. LA GUILLAUYME F.N. (Intendente): 27n, 324n. LA TOUR DU PIN A. (Conte): 317n, 324n. LABARRE DE RAILLICOURT D.: 14 n, 92n. LABROUSSE C.E.: 13n. LACOMBE J.P.: 426. LACROIX M.: 276n. LAFAYETTE M.J.: 415. LAMA: 269n. LAMOTTE P.: 51, 51n, 89n, 106n, 117n, 121n, 224n, 231n, 270n, 329n, 361n, 425n. LANFRANCHI A. (detto Cardone): 85, 86.

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LAW J.: 97n. LE LANNOU M.: 49n. LE ROY LADURIE E.: 13n, 38n, 301n. LEBEAU R.: 259n. LECCE: 266n. LECLERC (Giudice): 416n. LEFEBVRE G.: 13n, 15n, 411n. LEFEVRE M.: 11n, 13n. LEIGH R. : 218n. LEMARCHAND G.: 13n. LEMBERG M.: 176n. LEMEE R.: 257, 405n, 406n. LENCLUD G.: 15n, 264n. LENIEPS T.P.: 177. LENTO: 142. LEONARDO DA PORTO MAURIZIO (Vescovo): 104. LEPANTO : 48n. LESZCZYNSKI S.: 189. LETTERON L.: 13n, 17n, 21n, 52n, 89n, 97n, 100n, 116n, 409n. LEVIE: 39n. LIAMONE (Dipartimento): 437. LICURGO: 134, 178, 202n, 220n. LIGURIA: 28. LINGUADOCA: 63n, 326, 328, 397. LINNEO P.: 218n. LINOTTE D.: 427n. LIONE (LYON): 172n, 209n, 421. LIVI G.: 163n. LIVORNO (LIVOURNE, LEGHORN): 77, 92, 97n, 99, 124, 129n, 176n, 178, 220n, 323, 436. LOCARI: 304n. LOMBARDIA: 100n. LOMELLINI A.: 57n. LONDRA (LONDON, LONDRES): 99n, 105, 120n, 161, 218n, 414, 427n, 434n, 435. LORENA: 74n, 405. LORETO: 102n,348. LUCCHINI (Famiglia): 308n. LUCCIONI (Famiglia): 295n. LUCE DE CASABIANCA M.J.: 421n. LUCIANI R.: 93n, 374n, 377n. LUIGI IX (Re di Francia): 185. LUIGI XIV(Re di Francia): 49, 61, 62n. LUIGI XV (Re di Francia): 21n, 74n, 79, 100, 133, 140, 158, 168, 176, 177, 189, 219, 229. LUIGI XVI (re di Francia): 424. LUIGI XVIII (re di Francia): 446. LURI: 39n, 277n, 283n. MABLY G.B.: 458. MAC ERLEAN J.M.P.: 421n, 426n, 440n. MACHIAVELLI N.: 114, 173. MACINAGGIO: 415, 436. MADDALENA (Isola): 423, 424n. MADRID: 105.

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MAESTRACCI G.: 146n. MAGDENEL E.: 276n, 289n, 290n, 291n, 292n. MAGHREB: 356n. MAGNANIMA L. ( MALANIMA).: 12n, 129n. MAILLEBOIS J.B. (Marchese): 101-103, 103n, 106n. MAIMBOURG (Conte): 150n, 306n. MAINTENON F. (Madame de) : 400. MALTA: 113. MANCINI (Vignaiolo) 315n. MARAT J.P.: 424. MARBEUF L.C.R. (Conte): 137, 228, 228n, 303, 305, 306, 396, 398, 402, 405, 405n. MARCAGGI J.B.: 419. MARCHETTI (Famiglia): 368n. MARCHI M.: 447n. MARIA TERESA D’AUSTRIA (Imperatrice): 104, 104n. MARIANA (Diocesi): 45n, 91, 158n, 260, 269n, 399, 417n. MARIANI BIAGINI P.: 16n. MARIN MURACCIOLE M.R.: 32n. MARIN PH.: 13n. MARSIGLIA (MARSEILLE): 49, 49n, 404, 425n. MARTE (Dio): 169n. MARTINETTI (Famiglia): 295n. MARTINI M.: 27n, 403n. MARX K.: 185n, 392. MASCARDI G. (Vescovo): 39n. MASSACHUSETTS: 225. MASSESI G.: 153n. MASSON F.: 409n, 413n. MATIGNON: 459. MATRA (Famiglia): 43n, 117, 295n, 400. MATRA A.: 106, 106n, 136. MATRA A.L.: 54n. MATRA E.: 233, 234, 237. MATTEI BURGARELLA M. N.: 14 n. MATURI W.: 16n. MAUPASSANT G.: 134. MAZZEGA D.: 14n. MEISTERSHEIM A.: 11n. MERIA: 39n. MERIMEE P.: 134, 388n. MEZIERS: 162n. MEZZANA: 397, MIGLIACCIARO: 266n, 285, 287, 295n. MILANTA (Giudice): 386n. MILLELIRE D.: 423n. MINORCA: 104. MIOT DE MELITO A.F.: 437, 442, 444. MIRABEAU H.: 413, 415, 431n. MIRTIL M.: 298n. MOCA CROCE: 291n. MOLINIER M.: 171n.

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MONTERA G.M.: 148n. MONTESQUIEU C.: 61, 114, 133, 173, 203n, 225, 226, 236, 236n, 248. MONTI A.D.: 101n, 102n, 277n, 417n, 422. MORACCHINI T.: 348n. MORAND J. (Governatore): 432, 443, 444n, 445. MORATI (Famiglia): 295n. MORATI P.: 46n. MORELLI (Famiglia): 285, 295n, 296. MORELLY E.G.: 458. MORIANI: 32n, 125n. MORINEAU M.: 14 n. MORO T.: 192n. MOROSAGLIA: 147n, 245, 285n. MOTIERS: 161, 162, 165, 221n. MOTTE C.: 23n, 36n. MULTEDO A.: 421n, 426. MURACCIOLES S. : 10n, 16n. MURACCIOLI (Famiglia): 246. MURAT G.: 448. MURATO: 127, 270n, 277, 438. MURATORI L.A.: 74, 75n, 352n. MURO: 147n. MUSITELLI J.: 14 n. MUSSOLINI B.: 10n. NAPOLEONE BONAPARTE: 6, 7, 85, 96n, 141, 163n, 246, 298n, 340, 384-386, 389n, 392, 400, 409n, 412, 413, 418, 420-424, 435-437, 440, 441-448, 455, 458, 461. NAPOLEONE III (Imperatore): 384, 385-387, 389-393. NAPOLI (RegnoDue Sicilie): 57n, 60n, 76, 92, 98, 99, 100n, 102n, 105n, 113, 114, 115n, 178, 225, 232, 439. NARBONNE J.F. (Comandante): 398. NATALI F.M.: 101n. NATALI G.M.: 11n, 16n, 61, 66, 66n, 67, 68, 72-77, 80-83, 113, 131, 155, 172n, 456. NEBBIO: 23, 33, 45n, 50, 109, 120n, 121, 269n, 270n, 277, 295n, 296, 297, 322, 324, 399, 417n, NECKER J. (Ministro): 141n. NELSON H. (Ammiraglio): 429n, 436. NEUCHÂTEL: 161,162n, 165, 205, 216. NICOLAI J.B.: 130n. NIOLO: 50, 88, 149n, 277n, 283n, 348, 350, 351n, 406, 453. NIVAGGIOLI A.: 444n. NIZZA (NICE): 421. NUCETA: 102n, 382n. NUER (Popolazione): 363. OCAGNANO (OCAGNANU): 348n. OLANDA (PAESI BASSI): 61, 62n, 97n, 99, 99n, 178, 220n, 239, 251, 439. OLCANI: 147n. OLETTA: 47, 51n, 77n, 103n, 348n. OLIVESE P. (Monsignore): 46n. OLMETO (Pieve): 52n, 246. OLMI-CAPELLA (Giurisdizione): 409n. OMBRICCIA: 292n. ORANO P.: 413n.

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ORDIONI S.: 246. ORESTE G.: 89n. OREZZA: 63n, 69, 70n, 71, 72, 90, 91, 92n, 104, 106n, 115, 277n, 284n, 397, 415. ORNANO: 40, 88, 126n, 150n, 267n, 270n, 291, 295n, 296, 331, 453. ORSO ALAMANNO (P. Mitologico): 359. ORTICONI E.: 69, 73, 74, 91, 92, 94, 97, 97n, 108n, 133n. ORTO (Vescovo): 108n. ORTOLI (Famiglia): 43n, 146n, 309n. OTTENS R.: 374. PADOVA: 46n, 47, 246. PADULELLA: 102n. PAISIELLO G.: 96n. PAJNACCI (Famiglia): 43n. PALADINO G.: 16n. PALLAVICINI M.: 386n. PALMER R.R.: 10n, 16n, 225. PALMSTIERNA C.: 239n. PALNECA: 361n. PANCHERACCIA (Famiglia): 43n. PANZANI (Famiglia): 295n. PAOLI (Città): 414. PAOLI C. (Fratello): 113, 114, 151n, 152n, 176n, 415. PAOLI G. (Padre): 88n, 93, 95, 99, 101n, 102n, 114, 133n, 231, 232, 375, 376-378, 380, 381. PAOLI J.M.: 10n, 17n. PAOLO I (Zar): 439. PAOMIA: 34, 90, 292n, 405, 405n. PAPADACCI E.: 87n, 405n. PARAIN C.: 263n. PARIGI (PARIS): 6, 8, 9, 10n,75, 79, 80, 83, 137, 139n, 161, 162, 167, 169n, 177, 196n, 209n, 222, 253n, 301n, 387, 391, 406, 409n, 415, 424, 426n, 431n, 440. PARINI V.: 134. PARMA (Ducato): 100n, 171. PASQUALINI P.: 147n. PASTOR (VON) L.: 14 n, 92n. PASTORECCHIA (PASTORECCIA): 147n, 349n. PATIN DE LA FIZELIÉRE A.: 52n, 267n, 284, 295, 295n, 296, 308n. PATRIMONIO: 62n. PELLEGRINI S.: 16n. PENNSYLVANIA: 414. PERALDI (Famiglia): 295n, 436n. PERELLI D.: 123n, 125n, 152n, 154n, 156n, 158n, 233n, 414n, 431n, 434n. PERETTI (Famiglia): 266n, 309n, 313n, 432. PERETTI C.A. (Abate): 410, 416n. PERISTIANY J.C.: 345n, 352n. PERITO: 328n. PETTI BALBI G.: 13n. PEYROU E.: 421n. PIANA ORIENTALE: 122, 148, 276n, 278, 280-282, 284-289, 294, 296, 453, 454. PIANURA PADANA: 435. PIEDICROCE: 260. PIETRABUGNO: 276n, 277, 278, 280-282, 284n, 286, 287, 290, 296, 314n.

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PIETRI (Famiglia): 43n, 246, 309n, 390, 432. PIETRI A.G. (Prefetto): 435n. PIETRO G.A.: 146n. PINELLI (Governatore): 86, 86n, 88, 89n, 90, 94, 96, 173, 349n. PINO: 39n, 245. PINZUTI N.: 36n, 37, 269n. PIO VI (Papa): 66, 417, 433. PIRIE V.: 97n. PISA (PISE): 344, 353n, 364, 433. PITT W.: 427n. PLUTARCO: 114, 134, 420n. POLI B.(Comandante): 384, 447, 448, 449. POLI: 308n. POLIDORI A.: 147n. POLONIA: 187-193, 212, 212n, 250. POMMEREUL F.R.: 11n, 142n, 220, 223, 224, 237, 239, 241, 248, 249, 249n, 250, 402. POMPONI F.: 10n, 12n, 14n, 16n, 36n, 48n, 53n, 58n, 86n, 89n, 199, 228, 254n, 297n, 371n. PONCIN L.: 304n. PONIATOWSKI S.A.: 188. PONTE (Famiglia): 295n. PONTE NOVO (Battaglia di): 6, 133, 141, 142, 159, 161, 223, 384, 457, 461. PONTICELLO DI ROSTINO: 433. PORETTE (Feudo): 29, 150, 405. PORRI: 368n. PORTA (Cantone): 260, 278, 284n, 312n, 325, 328n, 331, 409. PORTO LONGONE: 102n, 115n. PORTO VECCHIO: 20n, 27n, 29, 32n, 34, 37, 151n, 254n, 266n, 273n, 280, 280n, 281n, 283, 286n, 287, 291n, 292n, 295n, 296, 305n, 306, 306n, 309n, 317, 405, 460. PORTOGALLO: 275, 335. POTOCKI (Famiglia): 187. POZZO DI BORGO (Famiglia): 43n, 418n, 419. POZZO DI BORGO C.A.: 318n, 415, 419n, 421n, 426, 431-435, 436n, 449. PROCACCI G.: 14 n, 49n. PROPRIANO: 39. PROVENZA: 63n, 165, 323. PRUNETE: 130. PRUSSIA: 136. PUNTA TEGGE: 423n. PUYSÉGUR A.: 322n, 324n, 333n. QUASQUARA: 150n. QUASTANA A.M.: 32n. QUENZA (Famiglia): 43n, 266n, 295n, 309n. QUENZA (Feudo): 277n, 283. QUENZA G.: 418, 419n. RADZIWILL (Famiglia): 187. RAFFAELLI M.: 90, 94. RAFFALLI C.: 375. RAMBAUD P.: 263n. RAMOLINO L.: 298n. RASTADT: 78, 99, 100n. RAVENNA L.: 16n.

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RAVIS-GIORDANI G.: 15n, 351n, 363n, 364, 365. RAYMOND M.: 170n, 188n. REBBIA: 276n, 281. REGNY A. (Console): 137n. RENAULT (Generale): 323n. RENO (Fiume): 421, 439. RENUCCI F.O.: 439n, 442, 443n, 447. RÉVÉREND A.: 443n. REYNAL G. (Abate): 413n. RICOTTI C. R.: 12n, 427n. RIDOLFI R.: 16n. RIGO (Famiglia): 303, 332n. RIPERDA J.G. (Ministro): 97n. RISCAMENE: 147n. RIVAROLA (Commissario): 377. RIVAROLA G.D.: 96, 105, 105n, 106, 111, 133n, 176n. RIVIÈRE C. (Marchese): 448. ROBERT P.: 30n. ROBESPIERRE M.: 415, 458, 459. ROCCA (Feudo): 43n, 50, 51n, 106n, 117n, 126, 126n, 267n, 295, 317. ROCCA SERRA (Famiglia): 295n, 306, 318n. ROCCA SERRA P.M.: 146n, 285, 432. ROCCATAGLIATA A.: 12n. RODANO (Fiume): 415. ROGLIANO: 39n, 46, 260, 266, 323n. ROGNA: 146, 280, 282n, 283, 286, 288, 291. ROLLIN C.: 61, 114. ROMA (ROME): 8, 9, 44 n, 47, 47n, 48, 58, 67, 69, 71, 72, 73, 75, 79. 92, 92n, 130, 132, 169, 178, 183, 236, 386n, 399. ROSSI A.: 12n, 111n, 116n, 126n, 133n, 143n, 145, 157, 224, 230-232, 236, 240, 240n, 243, 249n, 250, 371, 371n, 372, 409n. ROSSI H.: 38n, 421n, 424n. ROSSIGLIONE: 63n. ROSTINI C. (Abate): 89n, 131, 218n. ROSTINO (Pieve): 114, 147n, 151n, 277n, 284n, 324, 341, 376, 378. ROTA E.: 16n. ROTA M.P.: 13n. ROUSSEAU J.-J.: 5, 10n,11n, 15n, 82, 82n, 161-164, 166-173, 175, 177-221, 223, 225, 395, 458. ROUX G.: 49n. ROVERE A.: 10n, 15n, 43n, 274n, 427n. RUSSIA (Impero): 136, 188, 188n, 439. SAGONA: 23, 399. SAINT GERMAIN (Madame de): 220n, 221. SAINT PANCRAS: 435n. SAINT PIERRE (Isola): 162. SAINT-BLANCAT C.: 16n. SALICETI A.L.: 147n, 410, 412, 413, 416n, 419n, 421, 421n, 424-427, 437. SALICETO: 147n. SALVETI G.: 382n. SALVINI G.: 11n, 58, 59, 60, 61, 62, 66, 66n, 67, 68, 76-83, 103n, 130, 131, 155, 172n, 173, 456. SAMBUCUCCIO D’ALANDO: 32.

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SAMPIERO DI BASTELICA: 10n, 19, 41, 45, 48, 58n, 389, 458. SAN COLOMBANO: 269. SAN CRISTOFORO (Isola): 78. SAN FIORENZO: 37, 80, 90, 105, 114, 137, 138, 140, 308n, 403, 426, 429, 434, 446. SAN NICOLA (SANTU NICOLAJU): 380. SAN PANCRAZIO DI FURIANI: 90, 91. SAN PELLEGRINO (SAN PELLEGRINU): 377, 380. SAN PIETRO D’ALATA: 362. SAN TOMMASO: 61, 131. SANGUINARIE (Isole): 295n. SANGUINETTI A.: 15n. SANT’ANDREA (Forte): 423n. SANT’ANTONIO DELLA CASABIANCA: 109, 115, 116, 125, 151n, 438. SANT’ELENA: 445, 448, 448n. SANTA GIULIA: 150n. SANTA LUCIA: 277n. SANTA MARIA D’ORNANO: 246. SANTA MARIA DI LOTA: 314n. SANTA MARIA SICCHE: 267n. SANTA SEDE (VATICANO): 60n, 117, 123n, 399. SANTELLI A.F.: 86. SANTO PIETRO: 285n. SANTO STEFANO (Isola): 423. SANTONI C.: 130n, 390n. SAOLI (Famiglia): 150n. SARDEGNA (SARDAIGNE): 10n, 49, 49n, 59, 59n, 63, 100n, 103-105, 111, 128n, 136n, 178, 229, 307, 421, 422, 422n, 424, 439, 455. SARI: 266n, 328n, 448. SARKOZY N.: 459. SARROLA (Famiglia): 43n. SARROLA-CARCOPINO (Feudo): 328n. SARTENA (SARTÈNE): 20, 39, 43n, 54, 87, 117n, 127, 127n, 146n, 245, 246, 257, 266, 266n, 267n, 284, 284n, 286, 295n, 304, 306, 308n, 309n, 314n, 315n, 320n, 323n, 329n, 406n, 439n. SASSARI: 47. SAULI (Famiglia): 295n. SAULI A. (Monsignore): 46n. SAVELLI (Famiglia): 246. SAVOIA: 421. SEMONVILLE C.L.: 422n. SERENI E.: 13n, 259n, 275n, 298n. SERPENTINI A.: 38n. SERRA (famiglia): 43n, 306. SERVAL (Giudice): 416n. SIA: 306n. SICILIA: 63, 78, 92, 102n. SIDNEY A.: 173. SILLA: 175. SILVANI P: 36n. SIMI P.: 39n, 256n, 406n. SMITH A.: 84. SOBOUL A.: 13n, 15n, 275n, 301n, 412n, 416n, 419n.

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SOLLACARO: 134. SOLONE: 134, 220n. SORBA (Famiglia): 400. SORBA A. (Ministro): 136n, 139, 139n. SORBIER P.: 368n, 387n. SORBO (SORBU): 348n. SOTGIU D.: 59n. SOUIRIS (Subdelegato): 323n, 325. SPADONI D.: 16n. SPAGNA: 48, 49, 92, 95, 96, 97n, 98, 100n, 101, 105, 139, 230, 335. SPANNO: 269n. SPARTA: 178, 183, 202n, 236. SPINOLA (Famiglia): 295n. SPINOLA C.: 141n. SPINOLA D.M. (Governatore): 52n. SPINOLA P. (Monsignore): 45. SPINONI A.: 90n. SPINOSI F.: 14 n, 401n. STAGNARA V.: 90n. STEWART J.: 176. STINTINO DI CAPO D’ORSO: 423n. STRETTA DI MOROSAGLIA: 114. SUAREZ F.: 64, 65, 72, 84. SUSINI G.A.: 127n, 246. SUTTER M.: 112. SVANSTROM M.: 239n. SVEZIA: 239. SVIZZERA: 178, 204, 205n, 212n, 220, 251, 449. SYMONDS J.: 58, 64n. TALAVO: 126n, 146n, 150n, 246, 267n, 270n, 291, 295n. TALCINI: 146. TALLANO: 39n, 309n, 397. TANDORI M.: 118n. TANUCCI B.: 12n, 57n, 133n, TARAVO: 54, 374, 453. TARQUINI (Re): 178. TASSO T.: 114. TAVAGNA: 277n, 376, 377. TAVERA (Famiglia): 43 n. TEODORO DI NEUHOFF (Re): 81, 93n, 94, 96-99, 101, 105n, 106n, 109, 111, 127, 128, 132, 133n, 232, 374, 428. TERRA DEI SIGNORI: 39, 40. TERRA DI COMUNE: 10n, 31, 32, 39, 42, 371. THIERS J.: 390n. THRASHER A.: 114n. THRASHER A.: 432n. TIVOLI: 69. TIZZANO: 39. TOLOMEO: 363n. TOLONE (TOULON): 323, 415, 424, 425n, 427, 429, 431n, 433n. TOMI P.: 426n.

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TOMINO: 120n, 276n, 277, 278, 280-282, 286-290, 296. TOMMASEO N.: 62n, 428n. TOMMASI C.: 10n, 12n. TORINO: 59,79, 106, 194. TORREGIANI L. (Cardinale): 72. TORTAROLI (Famiglia): 295n. TOSCANA (Granducato): 65n, 74, 77, 92, 100n, 129n, 136n, 161, 177, 337, 397, 414. TOZZE: 266n. TRASTEVERE: 49. TRENTO: 47. TRUGUET M.: 422n. TULLIANO C.: 61n, 66n, 73. UTRECHT: 78, 99, 100n. VALENCE: 409n. VALENTINI D.: 114. VALINCO (Golfo): 39. VALLERUSTIA: 109, 146, 309. VALMY: 421. VALSECCHI F.: 13n, 80n. VARENNES: 419. VAUBAN S.: 207, 207n. VAUX N. (Conte): 126, 142, 142n, 158, 396, 398. VELLAS F.: 14 n. VENACO: 39n, 146, 382n. VENEROSO G. (Commissario generale): 90, 91. VENEZIA: 48, 48n, 49, 81, 96n, 190. VENTIMIGLIA: 57. VENTURI F.: 7, 10n, 12n, 15n, 17n, 67, 67n, 68n, 77n, 100n, 250, 452. VENTURINI P.: 151n, 152n. VENZOLASCA: 47, 106n, 328n, 348, 358. VERARD R.: 11n. VERGÉ-FRANCESCHI M.: 10n, 11n, 15n, 48n, 114n, 130n, 427n. VERGENNES C.G.: 140. VERRI P.: 133, 133n, 458. VERSAILLES (VERSAGLIA): 126n, 138-141, 150, 158, 222, 311n, 333, 396, 398, 400, 410. VERSINI X.: 87n, 388n, 392n. VESCOVATO: 39, 39n, 62n, 90, 93, 145, 163, 165, 172, 174, 181n, 348, 358, 438. VIALE S. (Giudice): 386n. VICINATO: 147n. VICO: 20, 39, 91, 276n, 281, 284, 286, 289-291, 293, 294, 295n, 306, 322, 333. VIENNA (WIEN): 436n. VIGGIANO: 309n, 320. VIGNOLI G.: 16n. VILLAMARINA (Cala): 423n. VILLANI P.: 259n, 275n. VILLAT L.: 395n, 398n, 401n, 402, 407, 413. VINCENTELLI M.: 10n, 11n, 90n. VINCIGUERRA F.: 91. VIVARIO: 39n, 246. VOGT I.: 300. VOLPE G.: 16n, 451.

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VOLTAIRE F.: 96n, 132n, 133, 133n, 140, 141n, 142n, 218n, 223, 395. VON GIERKE O.: 65n. VOVELLE M.: 13n, 15n, 411n. VRYDAGHS F.: 43n, 106n, 117n. VUILLER G., 10n. WACHTENDONCK H. (Barone): 92, 93. WAGRET P.: 14 n. WALPOLE H.: 133. WARENS L. (Madame de): 194. WATERLOO: 444n. WESTMINSTER: 435n, 436n. WIELHORSKI M.: 187. WILKES J.: 176n. WILLOT A. (Conte): 448. WORMS: 104. WURTEMBERG F.L. (Principe): 93, 177. YVIA-CROCE H.: 11n. ZERUBIA: 246, 308n. ZEVACO: 150n. ZICAVO: 39n, 54, 146n, 246. ZONZA C.: 423n. ZONZA: 39n.

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