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Editoriale Placido Cherchi ARTE Igino Panzino Ignazio Delogu FILOSOFIA Placido Cherchi poesia Giovanni Dettori Elisabetta Rombi Mimmo Bua Racconti Luciana Floris Bruno Pittau RECENSIONI Elisabetta Rombi RIVISTA DI ARTI, CINEMA, POESIA, FILOSOFIA E LETTERATURA 8 Anno IV – N° 8 marzo 2011 S O LiANA Edita a cura dell'associazione manuelfurru & co e di Broken Art

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EditorialePlacido Cherchi

ARTEIgino PanzinoIgnazio Delogu

FILOSOFIAPlacido Cherchi

poesiaGiovanni DettoriElisabetta Rombi

Mimmo Bua

RaccontiLuciana FlorisBruno Pittau

RECENSIONIElisabetta Rombi

RIVISTA DI ARTI, CINEMA, POESIA, FILOSOFIA E LETTERATURA

8Anno IV – N° 8

marzo 2011

SOLiANA

Edita a curadell'associazionemanuelfurru & coe di Broken Art

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En attendant... – Placido Cherchi

ArteIgino PanzinoIgino Panzino – Ignazio Delogu

FilosofiaIl sacco della scuola: un’«odissea del rancore» – Placido Cherchi

PoesiaArte di governo – Giovanni DettoriDamasio (radici cristiane d’Europa) – Giovanni DettoriEssere una sfinge – Elisabetta RombiCosa significa poetare (II parte) –Mimmo Bua

RaccontiMondanità – Luciana FlorisLa vita è come un film – Bruno Pittau

RecensioniShylock, Il Mercante di Venezia in prova – Elisabetta Rombi

SOLiANARivista di Arti • Poesia •Filosofia • Letteratura •FONDATA E DIRETTADAMIMMO BUA

Sommario

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www.soliana.net

Direttore editoriale:Placido Cherchi

Direttore responsabile:Anna Brotzu

Comitato di redazione:Placido CherchiGraziella EliaBruno Pittau

Elisabetta Rombi

Progetto graficoe impaginazione:Bruno Pittau

www.brokenart.org

AUTORIZZAZIONEDEL TRIBUNALE DI CAGLIARIn° 23/07 del 9.08.2007

Anno IV

n. 8marzo 2011

Le opinioni espresse negliarticoli firmati impegnanoesclusivamente i loro autori.

Il Copyright © dei testi edelle immagini (saggi, poe-sie, racconti; disegni, foto-grafie, riproduzioni d’arte) èdei rispettivi autori.Tale materiale è liberamen-te utilizzabile per citazioni erecensioni, a condizione dicitare la fonte con il relativourl:www.soliana.net

Immagine di copertina:Bruno Pittau, Supremazia della matita, 1990, tecnica mista su carta, cm 50 x 70

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En attendant...Placido Cherchi

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Èprobabile che, con questonumero, Soliana cominci avirare in altre direzioni. E checominci a impostare su altriregistri i retaggi derivanti dal

suo esser nata sulla scia di Thèlema. Da untipo di fedeltà ancora molto legata agliobblighi di questa origine, essa sembravoler passare a un tipo di fedeltà volta ariprendere su piani meno speculari l’ani-mus critico della sua matrice e non è almomento prevedibile su quali approdipotrebbero andare a svilupparsigli orizzonti di senso inge-nerati dalla scepsi maz-zarelliana. Natural-mente, questo biso-gno di emancipar-si dall’alveo dellecontinuità sceltedal fondatore diSoliana non èun bisogno irre-lato e non è unandare che proce-da a tentoni, ma èun andare che anco-ra dibatte con se stessoi termini entro cui foca-lizzare la “linea” delle prossi-me stagioni della rivista. L’assuntopiù fermo, per il momento, è quelloriguardante la necessità di non disperdereil valore degli agganci a Thèlema e il taglioinizialmente pensato da Mimmo Bua nel

suo volere Soliana come filiazione diThèlema. Ma è un assunto che non con-fligge col bisogno di sfaccettare di più, emagari in modo diverso, il quadro degliinteressi tematici inseguiti fin qui.

Questo numero 8 risulta già inclinatosui versanti degli allargamenti attualmentein discussione e in qualche modo cerca diuscire dagli argini ideologico-teorici osser-vati nei precedenti numeri. Anche se sitratta per il momento solo di segnali, è

visibile, nel complesso, il “versodove” della progettualità

che corteggia con insi-stenza crescente imembri della reda-zione. Si capisce,almeno, che perla maggior partedi essi la discus-sione sulla se-mantica avviatada Luigi Maz-zarelli non può inalcun modo esserecontenuta entro i

limiti della culturafigurativa intesa stricto

sensu, ma deve necessariamen-te obbedire all’obbligo di oltrepassare

quei limiti per poter essere riconosciutacome una discussione a tutto campo sulsenso. In fondo – sebbene riferita in modoprivilegiato al mondo dell’immagine –

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l’accezione mazzarelliana di semanticaaveva il suo fulcro nel mondo dell’“ulte-riorità”, ovvero nel mondo delle quote distoria che l’immagine figurativa si portadentro, nel suo mai dismesso interrogarsisul problema del senso. Non per nulla, sulpiano della scrittura e del fare pittorico, laforte caratura etico-politica delle scelteoperative di Luigi. Così come non a casola forte impennata “ulteriorizzante” im-pressa da Mimmo Bua alle sue riprese diThèlema con le messe in causa orientalisti-che dell’“Einstellung culturale dell’Occi-dente”. Va quasi da sé, allora, che – sulfilo delle aderenze promesse ai luoghi d’o-rigine – il nostro “verso dove” si configuriprevalentemente come una insistenza rein-terprativa di quell’ulteriorità, tale da nonescludere la possibilità di un’ulterioritàdiversa rispetto a quella privilegiata daMimmo.

Accanto alla non rimovibile centralitàdelle monografie figurative, le piste chepossono dischiudersi sono molte. Lagamma dei “possibili” è, a questo proposi-to, illimitata. Ma si sa che l’area dell’“ulte-riorità”, non meno di quella riguardantela “semantica”, è un’area paurosamentepoliversa, e che l’accamparvisi senza ade-guate precauzioni è cosa fortemente se-gnata dal rischio di poter andare a finiretra le maglie di un disinvolto giornalismo.Che vorrebbe dire – come minimo –accodamento all’esistente e perdita dellediscriminanti critiche poste a fondamentodi Soliana, come già di Thèlema. S’inten-de, allora che, per noi, l’ulteriorità daprendere in considerazione non avrà da

essere in nessun modo quella che si offreda sé e che si veste perlopiù di apparenza:al contrario, avrà da essere semmai solol’ulteriorità che soggiace a quest’ultima eche non ama mostrarsi all’osservazionedistratta. È l’ulteriorità entro cui si rifug-gia, di solito, il senso, quando la solarità sifa accecante ed è di impedimento al vede-re corretto.

Abiteremo volentieri le sue penombreospitali, intrattenendoci col “senso” ediscorrendo con lui di semantica-allargata,in attesa che la nostra “linea” si chiarisca oche diventi perspicuo il verso del nostroandare. Non escludo, però, che questa fasedi attesa possa piacerci più di quanto sialecito e che, con le sue articolate suadenze,questo numero 8 possa funzionare a lungocome paradigma di qualche stagione futu-ra, elevando a modello reiterabile proprioquello che qui viene ancora pensato comemomento di transizione-ricerca.

Naturalmente, questa eventualità nonci preoccupa. L’otium è il nostro compa-gno più assiduo e sappiamo che dalla suaparte, molto di più che dalla parte di Ut,si incontrano le cose più belle su “senso” e“metasenso”, su “semantica” e “ulterio-rità”, nonché sulle idee di come potrebbeessere pensata una rivista che volesseragionare senza schemi intorno alla possi-bilità di essere se stessi senza “essere-l’al-tro”. La differenza a cui teniamo non èmai un dato gratuito: solo il lusso dell’o-tium può consentirci di coltivarla con ade-guata passione.

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84. I prigionieri

Una mattina i prigionieri entrarono nel cortile di lavoro: il guardiano non c’era. Alcunidi loro andarono subito al lavoro, com’era loro abitudine, altri se ne stavano oziosi eguardavano caparbiamente intorno. Allora si fece avanti uno e disse ad alta voce:«Lavorate quanto volete o non fate niente: non importa. I vostri complotti segreti sonovenuti alla luce, il guardiano della prigione vi ha di recente spiati e nei prossimi giornipronuncerà su di voi un terribile giudizio. Lo conoscete, egli è duro e di animovendicativo. Ora però fate attenzione: voi mi avete finora conosciuto male: io nonsono quel che sembro, ma molto di più: io sono il figlio del guardiano e posso tuttopresso di lui. Io posso salvarvi, io voglio salvarvi; ma, beninteso, solo quelli di voiche credono che io sono il figlio del guardiano; che gli altri raccolgano i frutti dellaloro incredulità». «Ebbene,» disse dopo un breve silenzio un prigioniero piuttostoanziano, «che cosa può importarti se ti crediamo o se non ti crediamo? Se seiveramente il figlio e puoi ciò che dici, metti una buona parola per noi tutti:sarebbe realmente assai buono da parte tua. Ma lascia stare il discorso delcredere e del non credere!». – «E,» intervenne a dire un uomo più giovane«del resto io non gli credo: egli si è solo messo qualcosa in testa. Scommettoche fra otto giorni ci troveremo ancora esattamente così qui come oggi, eche il guardiano non sa nulla». – «E se ha saputo qualcosa, non lo sa più»disse l’ultimo dei prigionieri, che scendeva solo ora nel cortile «ilguardiano è or ora morto improvvisamente». – «Olà!» gridaronoparecchi tutti insieme «olà! Signor figlio, signor figlio, come lamettiamo con l’eredità? Siamo forse ora tuoi prigionieri?». – «Vel’ho detto,» replicò dolcemente l’interrogato «libererò tuttiquelli che credono in me, così certamente come è certo chemio padre vive ancora». – I prigionieri non risero, ma sistrinsero nelle spalle e lo lasciarono.

F. Nietzsche – Umano, troppo umano

Aforismi

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MOSTRE PERSONALI2006 • Cagliari, Castello di SanMichele;2004 • Toulon, La Seyne sur mer, “LESCHANTIERS DE LA LUNE”, a cura diJacqueline Herrero;2003 • Tortolì, Museo di artecontemporanea Su logu de s’iscultura, acura di Edoardo Manzoni;1997 • Sassari, Palazzo ducale, “ARTEA PALAZZO DUCALE”, a cura di GiulianaAltea e Marco Magnani;1987 • Roma, Galleria Artivisive, a curadi Sylvia Franchi;1983 • Vigevano, Galleria Il Nome eSartirana Castello, a cura di GiorgioForni;1981 • Genova, Centro del Portello;1980 • Pavia, Collegio Cairoli;

1978 • Roma, Galleria Contini, a cura diErmanno Leinardi;1978 • Cagliari, Galleria Duchamp, acura di Angela Grilletti Migliavacca;

MOSTRE COLLETTIVE2006 • Alghero, Villa Costantino, “ILRIFLESSO, IL DUBBIO, LA MINACCIA”, acura di Anne Alessandri, Giuliana Altea eCristophe Domino;1998 • Palermo, Orto BotanicoUniversità, “PALME D’AUTORE”,collezione permanente a cura di CarmineSiniscalco e Domenico Guzzi;1994 • Milano, Palazzo dellaRinascente, “IMAGINARIA 94”;1988 • Basilea, Galleria Artivisive,“FIERA INTERNAZIONALE D’ARTE”;

1987 • Parigi, Grand Palais des ChampsElysèes, “GRANDS ET JEUNESD’AUJOURDHUI”;1983 • Nuoro, Biblioteca Satta,“VENTICINQUE ANNI DI RICERCAARTISTICA IN SARDEGNA”, a cura diSalvatore Naitza;1982 • Parigi, Espace Da et Du,“L’AUTRE FACE DE L’ART ENSARDAIGNE”, a cura di Anna Maria Janin;1975 • Cagliari, Galleria Comunaled’arte, “LA COLLEZIONE D’ARTECONTEMPORANEA DELLA GALLERIACOMUNALE DI CAGLIARI”, a cura di UgoUgo ed Antonello Negri;1973 • Roma, Galleria Artivisive,“GEOGRAFIA/4” a cura di SylviaFranchi.

PREMI E RICONOSCIMENTI2006 • Carbonia, Torre civica, vincitore exaequo del “CONCORSO PER LA REALIZZA-ZIONE DI UN OPERA D’ARTE PER LA SALACONSILIARE DEL COMUNE DI CARBONIA”;2003 • Tortolì, Su logu de s’iscultura,vincitore ex aequo del “CONCORSO DISCULTURA SA DIE DE SA SARDIGNA”,bandito dalla Regione Sardegna;2001 • Gal Anglona-Monteacuto,vincitore della gara per il progetto“SULLE ORME DEL TEMPO”;1999 • Birori, Tratalias, Tresnuraghes,vincitore del “Concorso nazionale legge717/49” per la realizzazione di tresculture per le caserme dei Carabinieri;1994 • Milano, Palazzo della Rinascente,segnalato al Concorso di grafica e pitturaitaliana “Imaginaria 94”.

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Igino Panzino

Igino Panzino – Nasce a Sassari il 18 giugno del 1950. Compie gli studi presso l’istituto Sstatale d’arte sotto la dire-zione di Mauro Manca.

Ha insegnato presso il liceo artistico di Cagliari e in seguito negli istituti d’arte di Sassari, Alghero, Valenza Po eRoma; è vincitore di concorso per le cattedre di decorazione nelle accademie di belle arti.

Inizia la sua attività nei primi anni ’70 muovendo dall’idea di un’opera d’arte intesa come prodotto di un linguag-gio peculiare e autonomo, dotato di infinite possibilità espressive, con la realizzazione di strutture tridimensionali diimpianto geometrico neocostruttivista; negli anni ’80 si dedica alla pittura trasferendo la stessa impostazione proget-tuale in una ricerca di genere analitico.

A partire dal 1996 realizza una serie di lavori pubblici: ad Alghero, piazza Duomo “Via Crucis”, scultura; a Nuoro,piazza Veneto, “Scultura in ricordo di Antonietta Chironi”; a Berchidda scultura per la collezione “Time in jazz”; per ilGAL Anglona-Monteacuto una serie di nove sculture segnaletiche distribuite negli itinerari del progetto “Sulle orme deltempo”; a Tortolì per il museo Su logu de s’iscultura, come vincitore del concorso regionale “Sa die de sa Sardigna”, rea-lizza una grande scultura in metallo; a Carbonia, vincitore del concorso bandito dal Comune, installa un suo lavoronella Torre Civica.

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Igino Panzino,Installazione nella

Biblioteca Comunale diSassari, 2008

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«Nonostante si presenti come una concatenazione di limpide certezze, lineariprocedure, sicuri raggiungimenti, tutto il percorso creativo di Panzinonasce dalla crisi, dal confronto col silenzio. Quando il pittore esordisce,

giovanissimo, nei primi anni Settanta, ha dalla sua un talento naturale di inequivocabileevidenza, una scioltezza operativa non comune, un gusto senza cedimenti. Potrebbemetterli in gioco tranquillamente e invece sente questa sua facilità di fare come una sortadi ostacolo, se non come qualcosa che assomiglia vagamente a una colpa. La sua ricercas’è quasi fatalmente indirizzata verso il filone percettivo-costruttivo della sperimentazio-

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Igino Panzino,Installazione in tubicorrugati e contenitoriin plexiglas,composizione e misurevariabili, 2008

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Igino Panzino,albero, 2010, cartoncinotipo pass pour tout,cm 20 x 31

ne contemporanea: da una parte è lo sbocco naturale di una sensibilità costituzional-mente orientata verso il rigore e la pulizia formale, dall’altra è il modo per assoggettarequella sensibilità ad un controllo razionale che elimini i rischi di un paventato compiaci-mento edonistico.Perché allora problema essenziale per Panzino è l’individuazione di un ruolo nel sociale

alla propria opera e al proprio essere artista e la definizione delle responsabilità che ne deri-vano».

Marco Magnani

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Igino Panzino, Installazione realizzata per la Facoltà di Lettere e Filosofia di Sassari per la mostra “Zebra Crossing”, 2008, misure m 4 x 1,80 circa

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Igino Panzino,installazione realizzata

per la Manifestazione diArte ContemporaneaPublic, Sassari, 2010

Nell’altra pagina:Igino Panzino, opera

realizzata per il Museo“Su logu de s’iscultura”di Tortolì nel 2008 con

progetto del 2005,misure: m 5 x 2,50

SCHEDA LAVORO PIAZZA CASTELLO (SASSARI)

Il lavoro intitolato splendido splendente, situato negli scavi di Piazza Cavallino de Honestis, consistenella trasformazione della preesistente costruzione cantieristica, ormai appartenente al panorama citta-dino, in opera d’“arte pubblica”, ho inteso così interagire con la struttura provvisoria realizzata in tavo-

le e longheroni di legno e non ho avuto, come si potrebbe pensare, alcuna intenzione di confrontarmi conl’aspetto archeologico di questo sito.

Dipingendo con colori visibili questo impianto, che ovviamente non nasce con finalità estetiche ma sol-tanto con la funzione tecnica di contenere lo smottamento del marciapiede circostante, ho voluto metterein evidenza l’inconsapevole e spontanea qualità plastico-formale che gli appartiene e che è comune a moltesoluzioni cantieristiche che non vengono da progetti dettagliati ma dalla semplice esperienza pratica.

Mi è piaciuto così rendere omaggio alla cultura materiale del fare, e sottolineare le sapienze manualidel mestiere, ed a maggior sostegno di questo proposito ho scelto di applicare un’interpretazione “popola-re” del decoro urbano (splendido splendente) ed ho perciò deciso dei colori simili a quelli utilizzati (peresempio) nella decorazione dei Candelieri: antichi e popolarissimi emblemi dei Gremi dei lavoratori.

Voglio proporre in questo modo un esempio site specific d’“arte pubblica” non invasivo, che si limitasemplicemente a dare visibilità ad un luogo particolare del contesto urbano, come se avessi usato un gigan-tesco pennarello evidenziatore per segnare un punto di una mappa psicologica della città in scala reale, unintervento effimero destinato a scomparire con la realizzazione di un assetto definitivo del luogo in oggetto.

Igino Panzino

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Igino Panzino,senza titolo, 2010

rilievo in cartoncino daacquerello

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Igino PanzinoIgnazio Delogu

Fra i privilegi di cui godono i Sardi e, fradi essi in misura maggiore perché piùconsapevoli, gli artisti – ci sono l’insu-

larità, che impone loro di osservare il mondoa 360°; la presenza e il confronto costantecon la preistoria, che rende attivi e operantinell’inconscio individuale e collettivo gliarchetipi e i miti che governano i nostricomportamenti; una condizione di diglossiao, come mi sembra più appropriato, di bilin-guismo o anche, in determinate enclave (Al-ghero, Carloforte, Sassari e Gallura) di pluri-linguismo; una capacità di supplenza dellastoriografia da parte della narrativa, dellapoesia e delle arti visive (mi riferisco a G.Deledda, a S. Satta a Bachisio Zizi, a G.Dessì e fra gli artisti, a Francesco Ciusa, Sal-vatore Fancellu, Costantino Nivola, MariaLai, Giovanni Canu, Pinuccio Sciola, percitare i maggiori) che costituisce una neces-sità, ma esprime anche una capacità di auto-critica ironica e, a volte, iperbolica, che sem-bra appartenere al DNA dei Sardi.Di questi privilegi gode anche Igino

Panzino, pittore ma non solo, o megliodotato di una “deriva plastica” che lo col-loca sempre più vicino a quella che siamosoliti chiamare scultura, definizione cheper lui appare sempre insufficiente quan-do non deviante. Panzino è artista di gran-de formazione culturale, di frequentazioninon solo peninsulari ma europee, dotatodi una capacità di riflessione che nasce dauna legittima insoddisfazione e inquietu-dine che lo spingono a una riflessione chedura ormai da più di un trentennio.Senza dimenticare che Igino è “figlio

d’arte”, non solo perché sua madre, LilianaCanu, è un’esimia e instancabile pittrice,ma anche perché suo padre, l’indimentica-

bile amico Domenico, fu per anni comeintellettuale e giornalista uno dei piùimpegnati e brillanti protagonisti di quellavivacissima e creativa Sassari dell’immedia-to dopoguerra e del ritorno alla democra-zia, che ebbe come attori scrittori come G.Dessì, artisti come Figari, Pietro AntonioManca, Eugenio Tavolara, Mauro Manca,L. Meledina e architetti della statura diAntonio Simon Mossa anch’essi di fre-quentazioni vastissime e di severi confron-ti, e di pensatori come Antonio Pigliaru,che fu capace di superare un’ideologianazionalista e autoritaria per approdare aposizioni di autonomismo e di socialismo.Strumenti dell’elaborazione di quelle

tematiche nuove e inusuali in una cittàresa più provinciale e autarchica dall’au-tarchia culturale, oltre che economica,imposta dalla dittatura mussoliniana,furono la rinata Nuova Sardegna e Il solco,periodico del Partito Sardo d’Azione, ilnuovissimo settimanale Riscossa e Libertà,organo della Curia Arcivescovile e succes-sivamente una rivista come Ichnusa, fon-

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data e diretta da Antonio Pigliaru, attornoalla quale si raccolsero numerosi giovaniintellettuali e artisti di Sassari e non solo.Igino Panzino va collocato in questo con-testo, o “circostanza” meglio, che chiame-rei socio-antropologica oltre che culturalee artistica, aperta alle esperienze e ai con-fronti sul piano italiano e europeo. Siamodi fronte a un artista capace di confrontar-si con le novità del panorama artisticointernazionale, nell’era della globalizzazio-ne economica, culturale e artistica, framoderno e post-moderno, con tutte leproblematiche e le contraddizioni cheinterpellano la coscienza dei maggioripolitici, filosofi, artisti e religiosi di ogniparte del pianeta.Questa è la sfida di fronte alla quale si

pone Panzino, con la dovuta e necessariaumiltà, che non è rinuncia ma consapevo-lezza dei propri mezzi. Sarà capace di vin-cere la sfida? La domanda più che legitti-ma è opportuna e necessaria. La risposta,per essere credibile, ha bisogno di riper-correre a ritroso la carriera dell’uomo edell’artista, dal prima ai traguardi raggiun-ti ancorché parziali e provvisori, al dopoancora da venire. Io vedo crescere inPanzino una sempre maggiore consapevo-lezza della propria identità e appartenen-za, che è alla Sardegna, alla sua civiltà, allasua cultura sulla quale gravitano gli arche-

tipi e i miti fondanti della nostra identitàcollettiva.È tempo di liberarsi, come hanno fatto

e fanno i migliori poeti, scrittori, artisti,storici e archeologi che intendono “insula-rità” non come un limite ma come un’op-portunità. Insularità non è isolamento.Non lo è mai stata. L’Isola è sempre stata ilpunto di approdo dei grandi popoli chehanno fatto la storia e la civiltà delMediterraneo. Che vuol dire non solo deipaesi rivieraschi, ma anche di quelli dell’en-troterra occidentale e balcanico, che hannonel Mediterraneo il loro naturale bacino diriferimento, come ha giustamente osservatoil grande storico francese de Les Annales,Fernand Braudel. Nei secoli durante i qualisi è ridotta la nostra dipendenza dalle gran-di potenze come Roma e Bisanzio, i Sardifurono capaci di elaborare istituzioni eforme di governo originali – i quattroGiudicati o Regni – che hanno prodotto laprima Costituzione scritta dell’Occidente,la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, cheha retto la società isolana dai primi anni del1400, fino allo Statuto Albertino del 1848.E una lingua che vanta a buon diritto ilprimato fra le lingue scritte dell’interaRomania, non soltanto di validità filologi-co-linguistica, ma letteraria e narrativa,attestata dal Condaghe di San Pietro di Silkie dagli altri suoi contemporanei.

Igino Panzino,progetto di

riqualificazione di unospazio urbano, 2007

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Siamo l’unica regione della Repubblicache non conosce la criminalità organizza-ta, sia essa mafia, camorra o ’ndranghetache dominano intere regioni dellaPenisola. Sul piano dell’arte parlano lostraordinario patrimonio del romanico ela fioritura artistica e letteraria dei secoliXV e XVI che allinea pittori come ilMaestro di Castelsardo e il Maestro diOzieri, la Scuola di Stampace e poeti escrittori come Araolla e Delitala e, soprat-tutto, el sardo militar de l’Alguer, Antonide lo Frasso autore dei Diez libros de For-tuna d’Amor, l’unica Novela de pastores,edita a Barcellona nel 1571, che tanto piac-que a Miguel de Cervantes, scrittori inlimba, in latino, in spagnolo e in italiano,geografi come lo sfortunato SigismondoArquer e la sua Sardiniae brevis historia etdescriptio edita a Basilea dal Weismüllernella sua Chorographia Universalis fra il1580 e il 1590, il Fara del De rebus Sardois,per non parlare dei moderni e contempo-ranei, studiosi di varie discipline, molti dirilievo nazionale e internazionale.(Ho voluto fare questo lungo richiamo

perché mi pare sia venuta l’ora di usciredefinitivamente da quello stato di mino-rità nel quale troppo a lungo ci ha costret-to l’ignoranza o la malafede di una cultura“continentale” che sarebbe troppo pocodefinire “distratta”).

Un artista come Igino Panzino nonpuò non misurarsi con questa eredità, coni problemi che ne derivano e con gli inter-rogativi che essi suscitano. L’opera sta aconfermare il suo impegno. Non è semprefacile individuare e scandire le tappe delsuo lavoro. L’Autore di queste note non neha la pretesa. Può provare a tracciarne unprofilo, allo scopo primario di cogliere neirisultati del passato le premesse, i semi deitraguardi futuri.Il lungo elenco delle “personali”, delle

partecipazioni a mostre collettive e labibliografia che le accompagna, costitui-scono il filo conduttore di questa ricerca.Manca la partecipazione ai grandi eventinazionali e internazionali, il che dipendein larga misura dalla marginalità dell’Isolarispetto ai centri decisionali del mercato edel riconoscimento dei valori che, disloca-ti nelle sedi peninsulari, ignorano gli arti-sti della pretesa “periferia” e dovute anchealla collocazione “indipendente” da scuolee correnti non sempre legate ad autenticivalori, ma al mercato più o meno manipo-lato. Alcune, tuttavia, sono significative.A partire dalla partecipazione a una

Mostra collettiva a Roma, alla GalleriaArti visive del 1973 e dalla prima persona-le al Cancello di Sassari, Panzino organiz-za o partecipa a oltre un centinaio diMostre, oltre che in Sardegna, in Gallerie

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Igino Panzino,progetto diriqualificazione di unospazio urbano, 2007

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titività, è certamente positivo e testimoniadi un’inesausta e inesauribile creatività e“narratività”, caratteristica non esclusivadi Igino, ma sicuramente assai rilevante econ caratteri di accentuata specificità,nella quale si chiarisce il significato del-l’apposizione qualitativa “referenziale” delsuo astrattismo.Che è più vicino, ma non dipendente

dal singolare astrattismo di Klee, piuttostoche di Mondrian, per quella sottolineatu-ra, o meglio “definizione” del colore cheassume un ruolo da protagonista alla paricon gli elementi figurali e astratti della

prestigiose, ma anche in numerosi villag-gi, a testimoniare una concezione dell’ar-tista e dell’arte niente affatto referenzialeed elitaria, a Roma, Pavia, Torino, Mila-no, Brescia, Gubbio, Napoli, Spoleto eLocarno, in Belgio a Wielsbeke e Gent, inFrancia a Parigi, Tolone, in Svizzera aBasilea, alle quali sono da aggiungere le“opere pubbliche”, ossia bassorilievi, scul-ture una delle quali in acciaio (Tortolì,Protome taurina, 2003).Il bilancio di questa più che cospicua

attività creativa, nella quale non è dato dicogliere momenti di stanchezza o di ripe-

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Igino Panzino,senza titolo, 2010

rilievo in cartoncino daacquerello

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Quanto al segno, esso è sotteso alla formache assume la sua verità in un polimateri-smo nel quale il colore, appunto, gioca unruolo primario, consono alla materia usata– tela, cartone, legno, metallo – ma anchequella derivante da una tavolozza che vadal grigio al rosso al nero al bianco alcobalto al nero di certe opere di piccoledimensioni ma di notevolissima densità eintensità, nelle quali la cornice torna agiocare un ruolo non di limen, di termendi separazione, ma di segnalazione diun’unità spazio-temporale non diversa diquelle proprie della narrativa, in funzione

composizione, liberata dai residui di uncerto “naturalismo” ancora presenti inMondrian, nonostante la “nudizione” deldato originario di partenza, che ne garanti-sce l’astrazione, in misura però non totale.

Ne risulta un quadro di valori che nonsi declinano in vernacoli o in balbettii cor-porativi più che di scuola, ma in un lin-guaggio che rivela valenze universali. C’èun legame con la materia intesa non nellasua immediata realtà fisica, da res extensa,ma come realtà materica in movimento,come volumi, colori, ascolti e silenzi.

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Igino Panzino,senza titolo, 2010rilievo in cartoncino daacquerello

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non separante ma libertaria. Tale, comun-que, da non limitare la libertà dell’espres-sione figurale rispetto ad altre forme arti-stiche quali la poesia, la narrativa, la musi-ca. Ed è proprio all’argomento dell’operaal quale bisogna prestare attenzione, dalmomento che esso rivela la natura di “rac-conto drammatico” nel quale affiorano gliarchetipi e i miti di cui si diceva. Non stu-pisce pertanto la presenza di qualcosa dipiù di un epitome taurina o di altre figu-razioni primarie, archetipe, evidenziate ecome “estratte” dal colore.E qui il discorso si ricollega a quello

iniziale dei “privilegi” di cui gode l’artistasardo, presenti in tutta la nostra tradizionepoetica, narrativa e figurale, da quella pla-nare dei tappeti e degli arazzi, a quella tri-dimensionale e volumetrica delle masche-re apotropaiche, delle “crete istoriate” edella pittura e della scultura tout court,come nell’oranese Gantine Nivola, neldorgalese Salvatore Fancello, nel mamoia-dino Giovanni Canu, nel campidanesePinuccio Sciola, per citare non gli unicima i più significativi nella singolarità eunicità di ciascuno.Panzino emerge in tutta la sua evidenza

che ne fa un petit maitre dell’arte contem-poranea isolana, ma non solo. “Astrattismo

referenziale” (altrimenti chiamato “astra-zione costruttiva”, Gianni Murtas, L’astra-zione costruttiva tra fede e disincanto, 2006),è la autodefinizione che egli dà della suascelta. Astrazione vuol dire rifiuto delladescrizione e della classificazione del reale,la sua presa d’atto, per astrarne e realizzar-ne le infinite potenzialità. Astrarre vuoleanche dire liberare il reale osservabile econstatabile dalla gabbia in cui lo rinchiu-de la pur straordinaria varietà delle specie,liberare l’arte contemporanea “dall’assediodella realtà”, come lucidamente denunciatoda Giuliana Altea (cfr. Igino Panzino: unlucido visionario, 2006), procedere alla sua“nudizione”, a quella essenzialità che anzi-ché impoverirlo, lo arricchisce.Una pittura astratta solo parzialmente

aniconica, tentata dalla iconicità, com’eraai suoi albori la scultura, o meglio, loerano i betili, i menhir, che pur essendoaniconici mimavano una sorta di minima-le antropomorfismo. Contrariamente allapittura o ai graffiti visibili nelle grottepaleolitiche del Sahara, in quelle di Alta-mira (Spagna) che si avvalgono anche delcolore, e in talune sepolture o domus dejanas della Sardegna.L’operazione si propone nelle forme

più diverse, a seconda della “circostanza”,

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Igino Panzino,alberi, 2006

copertura passeggiata

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nel corso dell’intera storia dell’arte, daDuccio di Boninsegna a Giotto, al Signo-relli del Buongoverno, ai senesi, a PaoloUccello, al Pinturicchio e al Caravaggio.Ma è a Mondrian che occorre far risalirela nascita della moderna astrazione. E aKlee, che codifica l’astrazione in formesolo apparentemente euclidee.In quella geometria il colore ha un

ruolo primario. Se ne coglie una nonsecondaria presenza nell’ultima produzio-ne di Igino, di piccole dimensioni ma digrande impatto formale. È a questo puntoche si avverte l’influenza di forme archeti-pe riconducibili agli archetipi più frequen-ti della “circostanza” sarda. Mi riferiscoalla metope taurina, ma anche ad altri“miti” e “tipi” dell’autoctona civiltà isola-na sedimentata nei millenni. (cfr. SoniaBorsato, Dialoghi con il silenzio: le formeancestrali di Igino Panzino, 2003).Quanto all’apposizione “referenziale” al

sostantivo “astrattismo” mi pare che possasignificare più che il riferimento, la parte-cipazione alla società civile e alla difesadelle sue istituzioni politiche e sociali. Loha evidenziato con la consueta precisioneGiuliana Altea (Geometria e casualità...,1988) Il contrario della “turris eburnea”nella quale altre forme di astrattismo

costringono l’artista. Ma anche il rifiutodel poeta, dell’artista nelle sue diversedeclinazioni, come Torre de Dios, o anchePequeño Dios, secondo la poetica “crea-zionista” di Vicente Huidobro il grandepoeta cileno promotore delle avanguardieeuropee, dall’“Ultraismo” spagnolo al“Surrealismo” della rivista “Nord-Sud” diReverdì e Huidobro, appunto, e del sur-realista basco Juan Larrea, compagno d’av-venture di Pablo Neruda e del peruvianoCesar Vallejo nella rivista “FavorablesParis Poemes” (Paris 1939), che pervade leavanguardie storiche e contemporanee.Un “Umanesimo” dunque, e sottolineo

volentieri la forte valenza di quell’apposi-zione, aperto alla sperimentazione e all’u-so delle tecnologie più avanzate, e peròcompatibili e contrarie al processo di“disumanizzazione” utilitaristica, consu-mistica e sfrenatamente individualisticaindotta dalla globalizzazione socio-econo-mica, politica e dei linguaggi artistici,conseguenza della diffusione a livello pla-netario del modo capitalistico di produ-zione e di scambio con tutte le sue con-traddizioni e deficienze, dalle quali dipen-de la evidente frammentazione e spessoincoerenza delle manifestazioni artistichee delle loro poetiche.

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Igino Panzino,alberi, 2006copertura passeggiata

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riduttive definizioni di genere. Non diver-samente da quanto accade nella narrativa,questa produzione figurale esercita unasua funzione di supplenza, “narra” a suomodo e con i suoi strumenti la storia piùintima e segreta che è la storia di unaciviltà e di una cultura.

Sarebbe errato ricondurre meccanica-mente questo risultato alla sua contestua-lizzazione o, altrimenti, storicizzazione.Nel qual caso resterebbe in ombra, fino ascomparire, quella libertà e autonomia del“vero” e del “reale” artistico che non coin-cide col “vero” e col “reale” della storia,per esempio.Ciò che regola il poien, il fare artistico,

non è un codice esterno, ma interno, chenon ubbidisce agli imperativi del con-testo e del pre-testo, ma opera per dirittoproprio. È su questo terreno che si giocala sfida, che non può essere affidata a tec-nicismi e a manualità sia pure sperimenta-ti in una pratica di decenni. Il terrenodella sfida è quello della continua speri-mentazione, per la quale Igino è partico-larmente attrezzato e alla quale non vuolee non può sottrarsi.C’è, inoltre, una parte della produzio-

ne artistica di Panzino che si colloca fra lapittura e la scultura (ma si tratta di unacollocazione provvisoria e non esaustiva),della quale danno ampiamente conto i

Umanesimo che non mette in discus-sione la totale autonomia delle arti plasti-che e figurali da ogni altra forma d’arte,come la poesia, la narrativa, la musica, ilcinema. Autonomia riconquistata già nelMedio Evo, potenziata nel Rinascimento,in opposizione alla presunta supremaziadella scrittura sul segno, dimenticandoche anche il “segno” è “scrittura”, nono-stante l’abbandono della scrittura gerogli-fica e pittografica e la sua semplificazionealfabetica introdotta dai Fenici. In conclu-sione, nell’arte di Panzino si osserva unasempre più intensa e consapevole defini-zione di forme e di contenuti fortemente,anche se non sempre senza mediazioni,riferentisi agli archetipi e ai miti che gravi-tano sul suo lavoro.Osservando le opere più recenti, è

d’obbligo andare oltre la constatazione.per cogliere lo svolgersi, il dipanarsi di undiscorso che tende a ricomporne i fram-menti in un unicum in cui i contenuti,anziché dissolversi nella forma, ne costi-tuiscono il fermento interiore, indispensa-bile alla loro piena realizzazione.La funzione del colore non è seconda-

ria. Senza prevaricare la linea e i volumi necostituisce più che il complemento ilcemento di una sintesi che, se da un latoconferma le qualità di “colorista” e quelledi pittore tout court di Igino, dall’altroobbliga a collocarlo oltre le comode e

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Igino Panzino,alberi, 2006

struttura per pannellifotovoltaici

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è la loro diretta immersione nella natura.Siamo oltre ogni polimaterismo di manie-ra, in quanto i vari segmenti mantengonola loro individualità materica e funzionale.

Lavorarte (2008) e Fuori luogo (2007),penetrante e persuasiva l’inquisizione diMariolina Cosseddu e di Sonia Borsato,che supera agevolmente il limite della “cri-tica” per farsi “creatività” letteraria), con-fermano la pressione degli archetipi, evi-dente nella Installazione luminosa pressouliveto d’ingresso. A che altro può fare rife-rimento altrimenti, se non agli allinea-menti circolari di betili o menhir o dol-men provenienti dalla preistoria, così fre-quenti e poco noti in Sardegna, dove purela preistoria si offre fin quasi alla soglia dicasa, superandola in qualche caso, ma par-ticolarmente famosi altrove, come quellodi Stonehenge in Irlanda.Le “installazioni”, per via della loro

multidimensionalità, sono forse da rap-portare più alla scultura che alla pittura,anche se non va sottovalutato sia il valorecoloristico dei materiali adoperati, sia diquelli offerti dalla natura nella quale sonoprevalentemente collocate. Non so se le“installazioni” possono essere interpretatecome il trait d’union fra pittura e scultura,ma mi pare evidente che esse partecipanodell’una e dell’altra. In maniera non mec-canica, ovviamente, ma secondo quellapratica dell’associazione, opposta allo

cataloghi dei diversi interventi dislocatiprevalentemente in esterno e in minormisura in ambienti interni. Si tratta delle“installazioni” delle quali da conto, in par-ticolare, il catalogo Lavorarte, a cura di LiaTurtas, maggio 2008.Il titolo collega esplicitamente il “lavo-

ro”, come generalmente inteso e cioècome manualità, all’“arte” che lo assimilaa sé, in quanto sintesi di “manualità” e di“idealità”, ma conferma anche la dichiara-ta estraneità della poetica di Panzino aqualunque concezione “aristocratica” del-l’operare artistico. Anche in queste “instal-lazioni” è tuttavia evidente, oltre l’utilizzodi materiali rottamati o abbandonati,secondo una pratica introdotta, forse perla prima volta, dalla cosiddetta Scuola diVallecas, a Madrid, dal panettiere diToledo Alberto Sanchez, lo scultore piùamato da Pablo Picasso – l’unico artista,insieme a Ruault, che accettasse comemaestri, come mi confermò egli stessonello studio di Valloris (1970) in occasionedi un incontro propiziato dal poeta spa-gnolo Rafael Alberti, ripreso e praticato indiversi momenti della storia delle avan-guardie del XX e del XXI secolo.In quelle “installazioni” la “forma” si

frantuma, per essere successivamente, manon in termini esclusivamente temporali,ricondotta all’unità dei segmenti che lacompongono. Ma non meno significativa

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Igino Panzino,alberi, 2006struttura per pannellifotovoltaici

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“strappo”, (G. Altea, cit., con esplicito ri-ferimento a Liechtenstein), cara all’artistae più volte manifestata nell’esercizio dellaprima e della seconda.La scultura come creazione autonoma

costituisce parte fondamentale e fondantedell’opera di Igino. Essa s’interseca con lapittura e con le “installazioni”, per spin-gersi ben oltre i “rilievi”, e assumere la sor-prendente e a volte visionaria corporeitànella serie Metope taurina, Sole, Conchi-glia, e dei Totem definiti complessivamen-te “segnaletici”, quasi a suggerirne una

fruizione pratica, funzionale, attestate dalcatalogo Igino Panzino, testo di M. Cos-seddu, 2001).L’esame o lo “scrutinio” dell’opera di

Igino Panzino potrebbe continuare alungo, in un giuoco alternante di analisi edi sintesi, senza ovviamente concludere,perché quella di fronte alla quale ci trovia-mo è un’opera aperta, della quale è impos-sibile anticipare sviluppi e improbabiliconclusioni. Ciò che è certo è che Iginonon si sottrarrà alle sfide che lo attendono.

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Igino Panzino,senza titolo, 2010

rilievo in cartoncino daacquerello, cm 18 x 24

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Il sacco della scuola:un’«odissea del rancore»

Placido Cherchi

Terribilmente penetrante l’osserva-zione dell’anonimo, ma vagamen-te in linea anch’essa col «calunnio-

so discredito» coltivato per anni da unesercito di detrattori. Il giudizio, nelle suevalenze profetiche, si attaglia bene alleforme della devastazione in corso, maappare ingeneroso nei confronti di unampio versante, recente e meno recente,che la Pubblica Istruzione della «secondarepubblica» ha deciso di cancellare persempre.Se non accetto di collocare l’insieme

sotto il segno generalizzante di questo giu-dizio, è perché mi sembra necessario pren-dere le distanze dall’irrelato atteggiamentonegativo che politici e sacerdoti dell’attua-lità hanno preso l’abitudine di assumereverso la scuola. Distanze, in questo caso,più che motivate, dal momento che si trat-ta di un atteggiamento in larga misurainterpretabile come reazione genealogica o,se si preferisce, come resa dei conti daparte di chi con la scuola ha spesso avutoconti aperti, esperienze non idilliache ecomplessi di inferiorità. Dalle mie parti,fino a ieri sera, gli homines autorevoli dellacomunità, a genitori afflitti per l’inconclu-denza di qualche figlio poco versato neglistudi, erano soliti suggerire come soluzione

ottimale l’orientamento del ragazzo versola carriera politica o verso il giornalismo.Si trattava, a loro avviso, della cosa piùsemplice e meno faticosa. Di fatto, è assaiprobabile che il tardo dopoguerra nostranoabbia registrato fenomeni di intensa entro-pia tra le forme della mortalità scolasticaprecoce e il crescente infittirsi della micro-fauna politica. Ed è parte di questa micro-fauna anche l’orda di coloro che, scatar-rando impunemente contro la più vitupe-rata delle istituzioni, non hanno mai per-duto occasione per vomitare, dalla stampa,vecchi rancori e vecchi nodi irrisolti. Nonho mai escluso che dietro ogni sassata allascuola ci fosse una bocciatura ripetuta o ilricordo di qualche pesante rampogna daparte dell’anziano e autorevole professore.Mi guarderò bene, allora, dal condividerecon tutti questi carradores le forme di giu-dizio sottrattivo suggerite da astio o dainfantile spirito di rivalsa. Di piccinerie diquesto tipo, in effetti, la scuola va datempo morendo.Anche se oggi ce la ritroviamo tra le

mani come un’istituzione confusa e boc-cheggiante, non c’è dubbio che la nostrascuola fosse fino agli anni Sessanta unadelle scuole più interessanti del mondo.Eravamo eredi di un progetto educativo

Un istinto di morte incontrollabile si è impadronito da tempo della scuola italianae imperversa con sinistra disinvoltura sulle sue ultime spoglie. Letteralmentesommersa dal calunnioso discredito che mondo politico e mass-media le hannogettato addosso, il suo stato è ormai terminale e sono assai deboli le speranze dipoterla in qualche modo rianimare.

(Editoriale anonimo, «Emergenza», 3 1965).

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che aveva tutti i titoli per poter aspirarealla «lunga durata», e ci siamo disfatti conimperdonabile leggerezza dei suoi trattipiù qualificanti. Sapevamo meglio dichiunque altro che cosa volesse dire «for-mazione di base», e ci siamo ridotti a nonsapere più nulla. Difficile pensare a un’o-perazione dilapidatoria altrettanto spintao a un dominio dell’insipienza altrettantoinquietante. Nel tentativo di trovare unametafora che restituisca adeguatamentel’incomprensibilità logica di tutto questo,l’indignazione ha difficoltà a scegliere trail furor fondamentalista dell’iconoclastia el’insana stultitia dello scempio gratuito.Ma, meno agitato dell’indignazione, ilpensiero sa bene che, al di là di ogni possi-bile distinguo, solo una stultitia carica difuror può aver prodotto interventi rifor-matori così devastanti.Il piano Gentile, che è stato posto al

centro della maggior parte delle strategiecontestative e riformatrici, non era affattoquel prodotto ideologico di marca fascistadi cui si è sempre parlato, ma si configura-va – sul piano didattico – come la risul-tante dei grandi dibattiti teorico-pedago-gici dell’età giolittiana e aveva alle spallel’idea di scuola che Gaetano Salvemini,Rodolfo Mondolfo e altri autorevoli per-sonaggi della cultura italiana dell’epocaerano venuti formulando. Aveva alle spal-le, cioè, una stagione di progettualità edu-cativa e di messe a punto programmaticheche possono essere considerate tra le piùraffinate dell’Occidente e tra le più matu-re di tutta la storia del pensiero filosofico-pedagogico. Non a caso, in riferimento aquella stagione, Piero Calamandrei, ricor-dando gli anni della sua formazione licea-le, avrebbe più tardi parlato della fortunadi essere cresciuto all’interno della scuolapiù bella che si potesse pensare. Di quellaesperienza, Gentile, accanto ai personaggicitati, era stato protagonista di primopiano e sostenitore convinto. Se non lo siinclude nella rosa dei padri fondatori, èsolo perché l’abitudine a legare il suonome alla fase immediatamente successivaha preso il sopravvento sull’obbligo di rin-tracciare un po’ più a monte l’origine del-l’operazione che lo avrebbe consegnatoalla storia come riformatore scolastico.

In realtà, ben lontano dall’essere debito-re della rozza ideologia statalista circolanteal tempo del suo varo, il piano da lui pro-gettato era una sostanziale ripresa di quelmodo di pensare l’istruzione pubblica epotevano tutt’al più essergli rimproveratele misure di prudenza semplificatoria che,in omaggio all’esigenza di una scolarizza-zione ancora più larga, il filosofo sicilianosi era sforzato di farvi valere. I soli trattisicuramente fascisti della formalizzazioneorganizzativa da esso imposta erano quelliriguardanti la struttura gerarchico-burocra-tica dell’apparato istituzionale e la fortecentralizzazione statalistica dell’insieme:ma è curioso notare che, nello smantella-mento sistematico della sua impostazione,siano stati proprio questi, e solo questi, itratti lasciati sopravvivere. In nome di unesorcismo ideologico che volevamo solen-ne e inflessibile, ci siamo stolidamenteliberati delle cose migliori, senza accorgerciche proprio le cose da esorcizzare ci resta-vano in casa. Con l’aggravante che, in as-senza delle condizioni che erano state ingrado di temperarli, gli aspetti non esorciz-zati sarebbero diventati, in seguito, uncatalizzatore potente delle ideologie del-l’Ut predicate dal capitale e perentoria-mente imposte dalle nuove strette concor-renziali del plusvalore relativo.Al confronto, il grande sogno umanisti-

co di Gentile e dei suoi predecessori laici siconfigurava come l’esatto contrario dell’Ut:era la teorizzazione della conoscenza comevirtus e come presupposto di civiltà: nonbandiva quell’otium del pensiero che tutti iriformatori successivi avrebbero considera-to pernicioso, ma lo promuoveva comecondizione ineliminabile della ricerca, esal-tando il carattere «disinteressato» di unapaideia essenzialmente finalizzata allacostruzione del cives e alla valorizzazionedella sua humanitas. Malgrado l’ampiezzadel rilievo accordato ai paradigmi classici-stici, colpisce ancora oggi l’armoniosaorganicità dell’insieme e l’equilibrato giocodi temperamenti con cui il piano metteva afuoco la sua idea di società civile. A partireda un acutissimo senso della storia, onni-presente nell’articolazione delle varie disci-pline, tutto sembrava essere pensato infunzione di un uomo radiale, o di un’idea

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della persona che doveva poter esistereprima di ogni determinazione segmentariafunzionale. E tutto convergeva verso quellasoglia formativa preliminare che agli anti-gentiliani degli anni più oscuri sembreràun inutile Umweg, pericolosamente passa-tista e costellato di masturbatorie perdite ditempo. Perdite, s’intende, tanto più ma-sturbatorie e intimistiche quanto più sem-bravano potersi presentare come perditeriferibili a un tempo ben altrimenti utiliz-zabile nella sfera della produzione imme-diata o tra le pieghe del valore in processo.Ma, felicemente indifferente a tutte le

ragioni dell’oggettività, il piano insistevaproprio sul bisogno di decondizionare ilsapere dalla perentorietà dell’immediatezzae dal ricatto quotidiano delle richiesteavanzate come urgenza vitale dalle nicchieplurititolate del «sociale-medio-necessa-rio». Puntava cioè sulla costruzione di unamente più adatta a respirare nello spaziodel concetto che non a muoversi sul filodelle procedure operative del fare tecnico.Alle pieghe formative riguardanti lo svilup-po di questo filo si sarebbe opportuna-

mente provveduto nelle fasi successive,quando lo stesso addestramento «profes-sionale» avrebbe potuto utilmente avvan-taggiarsi delle aperture e delle capacitàlogico-razionali messe in campo dalla pale-stra razioginnica della fase preliminare.È vero che il taglio prevalentemente

filologico-letterario del piano lasciavasopravvivere alcuni vuoti cronici, o chel’enfasi del classicismo e dell’italianisticamortificavano altre discipline, aprendovuoti di nuovo tipo. In entrambi i sensi, lamarginalità sofferta, per esempio, dallelingue straniere o da discipline come lamusica erano segno di un sacrificio cheperpetuava certe tradizionali esclusionidella nostra cultura, senza trovare com-penso in alternative che non portasseroulteriore acqua al mulino delle dominanzein campo. Tuttavia è innegabile nel com-plesso l’efficacia della formula educativache il piano si sforzava di far valere e laqualità dei risultati che ne conseguivano.Se la cultura italiana del secondo dopo-

guerra è stata una cultura di grande respi-ro, non lo si deve solo al singolare incon-

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Bruno Pittau,studio, 2010,matita su carta,cm 35 x 25

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misurare l’efficacia del progetto e la suacapacità di plasmazione. Malgrado lanatura assai impropria delle traduzioniportate avanti dalla coorte degli addetti ailavori che presumevano di aver capito ildisegno intenzionale dell’insieme, gliinput messi in movimento da questo insie-me hanno avuto il potere di innescareprocessi profondi e transcrescenze espo-nenziali. Segno che, a dispetto delle bana-lità messe in circolo dalle sue applicazioniimmediate, l’impostazione di quel proget-to educativo riusciva a essere sovradeter-minante e autonomamente operativa.Anche a un basso regime di funzionamen-to, cioè, riusciva a produrre effetti diincalcolabile portata.Ma è inevitabile pensare che il piano

non avesse diretta responsabilità nelladefinizione qualitativa degli strumentidestinati a renderlo operante. Anche se ilfronte antigentiliano ha in gran parte teo-rizzato il proprio antagonismo assumendoa termine polemico la debole manualisticache ha imperversato nelle scuole, riescedifficile far derivare quest’ultima dallestrategie pedagogiche consegnate al piano.Anzi, si ha l’impressione che, nella suaessenza profonda e nelle sue potenzialitàpiù importanti, il piano sia rimasto incon-sumato.Come vedremo un po’ più avanti però,

proprio nel corso della bufera destinata atravolgerla, l’impostazione gentiliana,incontrando le sintonie che le erano venu-te meno, avrebbe trovato l’opportunità didare il meglio di se stessa e di produrresaggi esemplari della sua efficienza forma-tiva. Chi ha avuto esperienza di quella fasene avrebbe parlato in seguito come di unparadigma e avrebbe ripetuto sul suoconto le osservazioni piene di rimpiantoche Calamandrei aveva fatto molto tempoprima riferendosi alla scuola statale da luifrequentata in età giolittiana. Si sarebbetrattato, purtroppo, di un’esperienza limi-tata a una stagione molto breve e giàsegnata sul nascere dalla provvisorietà checaratterizza tutte le situazioni avvertitecome transitorie. La forza inerziale delmovimento riformatore già avviato, ciavrebbe lasciato solo il tempo di capire,con molto rammarico, di quale strumento

tro che storicismo crociano, marxismo efenomenologia esistenzialistica realizzava-no nel clima della passione civile ingene-rata dalla prospettiva della «ricostruzione»,ma lo si deve in gran parte anche a ciò cheha funzionato come condizione a priori diquesto incontro. In fondo, la formazioneche gli intellettuali del momento avevanoalle spalle era quella della scuola gentilia-na, così come di origine gentiliana era lastraordinaria capacità di cui essi davanoprova, leggendo e pensando il mondo sulregistro delle categorie.Eppure, l’analisi dei mezzi didattici

attraverso cui quella generazione si è for-mata è ricca di sorprese a doppio taglio.Stupisce molto, per esempio, l’incredibilemodestia dei testi scolastici che non ap-partenessero al versante strettamente filo-logico e che avessero a che fare con i mo-menti della formazione storica, storica insenso lato e scientifica. Chiunque prendatra le mani un manuale di storia o di filo-sofia circolante a quell’epoca e lo confron-ti con qualche sintassi latina più o menoaccreditata, si accorgerà subito della diffe-renza. Magri, superficialissimi e oscena-mente divulgativi, i primi; attenti, circo-stanziati e senza ombre, i secondi. Il desti-no dei primi segna in maniera particolare,poi, i manuali scientifici delle due o trediscipline di quel versante. Andate a vede-re, per esempio, un testo liceale di fisica odi chimica e confrontatelo con una gram-matica greca. Anche in questo caso il rap-porto è così sconcertante da rendere legit-timo il sospetto che il compilatore delmanuale scientifico non si rivolga alla stes-sa fascia scolare a cui si sta rivolgendo ilgrecista. E non parliamo, naturalmente,della miseria dei profili di storia letteraria.A parte qualche classico che ancora ciseduce, tutto il resto è crocianesimo papil-lare e di bassissima lega. Lo stesso Crocene avrebbe provato estremo disgusto.Ora, che cosa potrebbe voler dire che,

nonostante la modestia dei suoi sussidididattici, la scuola gentiliana abbia pro-dotto una intellettualità di alto livello?Come spiegare la qualità di questi esiti,partendo da strumenti così discutibili? Perstrano che possa sembrare, proprio questolimite interno ci mette nelle condizioni di

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educativo e di quale patrimonio il furorreformandi della Pubblica Istruzione siandava disfacendo.Ma torniamo sui nostri passi, cercando

di fermare lo sguardo sul paesaggio dellereazioni antigentiliane a cui si riferisce l’ar-ticolo di «Emergenza» del ’65. Ciò cherisultava profetico rispetto a un futuroancora poco visibile, traeva argomento, nel-l’immediato, dal malumore che cominciavaa montare nei confronti dell’istituzione.

Naturalmente, per quanto in anticiposui tempi (sui tempi ben altrimenti caldidi qualche anno dopo), l’istinto di mortedi cui parla l’anonimo editorialista nonera fantomatico. E neppure improvviso. Amonte, era l’istinto di morte che si eravenuto ingenerando nella sazietà devalo-rizzante del «miracolo economico» e nel-l’incapacità di percepire il senso di questadevalorizzazione; a valle, era l’istinto dimorte che spingeva la società a disfarsidelle resistenze che avrebbero potutoancora proteggerla dalla forza dell’appa-renza immediata. Nell’uno e nell’altrocaso, la scuola scontava il privilegio dipoter essere considerata come la «cattivacoscienza» che sbarrava il passo al domi-nio incondizionato dell’assoluto presenteo che aveva comunque il potere di creareostacoli alle ideologie imbonitorie del dioUt. Essa poteva essere tollerata solo seavesse accettato di partire dagli imperatividell’esistenzialità di base individuati comei soli che veramente contassero, e se avesserinunciato almeno in parte alle coerenzestatutarie della propria vocazione di vesta-le della memoria collettiva. Di fatto, èsotto la pulsione di questo istinto cheavrebbe cominciato a nascere quell’inter-ventismo riformatore destinato a nonlasciare più in pace l’istituzione e a darluogo alle sindromi variamente titolatedella patologia iatroindotta che dovrebbecostituire il vero oggetto di tutti i discorsiin negativo sulla scuola.A farne le spese, già da subito, furono

gli aspetti considerati più «in-utili» (sipensi alla graduale ma progressiva abolizio-ne del latino nella scuola media della primafascia), nonché le connotazioni tipologiche

più esplicite quando si trattava di scuole aforte caratterizzazione classico-umanistica(e si pensi al drastico accorciamento delledistanze che riuscivano a far essere decisa-mente «classico» il liceo classico e decisa-mente «scientifico» il liceo scientifico). Èsignificativo, in tal senso, che gli spazi oraridedicati alla formazione culturale di orien-tamento storico, storico-filosofico e stori-co-letterario abbiano cominciato a esseresensibilmente ridotti a vantaggio dellediscipline scientifiche o a vantaggio dellelingue straniere. Naturalmente, non cisarebbe stato nulla da eccepire, se, accantoalla sua evidente opportunità, la cosa nonavesse avuto anche la valenza sintomaticadi un primo segno e non fosse apparsaavvisaglia di ciò che da lì a poco si sarebbemanifestato come patologia conclamata.

Tutto questo, però, è ancora preistoria.È solo la piccola fronda di un drappello dipedagogisti invaghiti dei modelli america-ni. Ed è nulla rispetto all’impennata espo-nenziale che la velocità del processo dege-nerativo avrebbe da lì a poco registrato.Nell’esplosione vera e propria di questapatologia, molto di più del serpeggianteistinto di morte messo in circolo dalle per-dite di senso, avrebbe contato il frontedelle chiamate in causa dirette che la rivol-ta studentesca della fine degli anni Sessantastava per fare. Per tutti i detrattori annidatinei pori del potere, sarebbe stata l’occasio-ne attesa. Per le masse studentesche chehanno avuto l’utopistica ingenuità di iden-tificarsi nel movimento, si sarebbe rivelata,alla lunga, un’occasione mancata.Comunque la si voglia leggere, la diffe-

renza tra le due fasi è a tal punto alta chenon è una forzatura prospettica affermareche, nelle sue forme più significative tuttoo quasi tutto, della patologia in questione,abbia avuto inizio trent’anni fa. Quandola generazione che oggi comincia a chiu-dere i conti era ancora tra i banchi dell’u-niversità e andava prendendo coscienzadella marginalità a cui era destinata. Oche per lo meno sia cominciato allora ilprincipio della fine. La curva di accelera-zione della caduta verticale che ci ha por-tati all’attuale exitus.

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In effetti, non si potrebbe parlare dellostato comatoso in cui versa oggi la scuola,senza risalire alla «rivoluzione culturale»del ’68 e agli effetti disastrosi che il suoaccanimento terapeutico ha determinato.Dopo trent’anni di gioco al massacro, ilsenso di certe dinamiche è diventato piùleggibile e si offre con maggior trasparenzaalla curiosità stuporosa di chi cerchi dicapire le ragioni di tanto scelus.Il ’68 aveva molte anime, ma ha vinto

la peggiore. Era situazionista, francoforte-se, marcusiano, ma ha finito col dareascolto ai progetti positivisticamente piùpromettenti. Sognava l’impossibile, ma siè consegnato alla storia con l’anima chegli osservatori meno coinvolti giudicavanola più aderente alle logiche oggettive diquella fase. Aveva molta fantasia, ma hafinito col far piombare nel deserto dell’i-dentico la maggior parte delle differenzein campo. Aveva grande passione rivolu-zionaria, ma ha fatto scadere l’ulteriorità aun livello di eteronomia molto più spintodi quello che si era proposto di combatte-re. Voleva libertà, e si è infeudato nelmodo più vergognoso alle forme neocapi-talistiche del dominio. Voleva una scuoladiversa, e ha prodotto la peggiore dellescuole possibili...È doloroso ammetterlo, ma la scuola

che ci troviamo sotto gli occhi è la creaturapiù diretta di tutti quei «ma». E delle dis-sacrazioni che gli aspetti sessantotteschisistematicamente traditi da questi «ma»erano riusciti a compiere sugli aspetti piùmummificati del suo passato. Sradicata daisuoi entroterra profondi e data in balìa aun esercito di riformatori improvvisati, erapiù o meno scontato che dovesse diventareuna cosa radicalmente altra da ciò che erastata e da quello che avevano sognato glistessi contestatori. Era scontato che doves-se diventare, cioè, questo incredibilepasticcio che non piace a nessuno.Anche se occorrerebbe qualche media-

zione per rendere sufficientemente esplicitii rapporti che riconducono il suo drammaalle dinamiche destrutturanti innescate dal’68, è di per sé evidente che la libido refor-mandi di tutta la pubblica istruzioneposteriore a quella data abbia sempre tenu-to presenti le istanze demagogicamente più

ambigue prodotte dal regime assemblearedel movimento. Come cominciarono adimostrare da subito i famigerati «decretidelegati», che trasformavano in una formadi controllo sociale il desiderio di autoge-stione e di rivolta antiautoritaria dellemasse studentesche. In sostanza, la sommadei tradimenti che il ’68 ha consumato suse stesso si ritrova senza scarti nella sommadelle caratteristiche negative di cui la scuo-la si è venuta caricando lungo i decennisuccessivi. Anzi, l’equivalenza tra le duesomme è così forte da far apparire oggicome errore imperdonabile persino leistanze, peraltro legittime, che i contestato-ri della prima ora erano andati opponendoa un’istituzione tradizionalmente classista everticalmente selettiva.Su questo nodo, però, il discorso deve

almeno considerare lo scarto che passa trala progettualità eversiva delle anime «alte»del movimento e la Realpolitik della suaanima peggiore. In assenza di tale distin-zione, infatti, non si capirebbero abbastan-za le ragioni per le quali a trionfare dap-pertutto, e in modo particolare nella scuo-la, sia stata proprio la parte più opportuni-stica, la parte meno disposta a sintonizzarsicon le tesi del «maggio francese» o adaccordare spazio all’«immaginazione». Manon si capirebbe neppure che, al di là delcrinale segnato dalle differenze di naturateorica, lo scarto ha avuto un suo impor-tante punto d’origine nelle astuzie tradut-torie con cui l’ordine dell’esistente è riusci-to a modificare il senso fondamentale delmovimento. Dai caporali della pubblicaistruzione ai riformatori più zelanti, tuttihanno cercato di non perdere di vista iproclami di eversione lanciati allora, neltentativo – sapientemente calcolato – didelegittimare le anime più incandescenti edi farne apparire poco rappresentative leistanze. La tattica del potere, anche in que-sto caso, è stata ovviamente quella di sem-pre: cavalcare la rivolta in atto per convo-gliarla verso sponde interlocutorie e spazidi controllo che consentissero la gradualetrasformazione del conflitto nel climax deipossibilismi dilemmatici, dei patteggia-menti sub condicione, degli accordi. Senzaprecludere l’ipotesi di qualche strategicafuga in avanti.

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Né appare eccessivo ritenere che unadeguato corteggiamento delle leadership,in quella congiuntura, abbia contribuito afruttare complicità più o meno esplicite ecompromessi duraturi. Che cosa potrebbemai voler dire il fatto che i «rivoluzionari»di allora siano diventati i «baroni» di oggie che i mali di cui soffriamo ci venganoperlopiù inferti dalla «ragione cinica» diquanti, tra le maglie della res publica,hanno saputo tradurre le incertezze di

quel momento in una salda identificazio-ne con l’esistente?In tutti i casi, non c’è dubbio che, nei

suoi esiti oggettivi, quella «rivoluzione» sisia a poco a poco trasformata nel suo con-trario e abbia finito col dare man forte aiprocessi di destrutturazione della scuolavoluti dal capitale. In questo senso, il dra-stico giudizio di Pasolini sul ’68 era piùfondato di quanto la sua forma non con-sentisse di ammettere.

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Ma veniamo all’aspetto del discorsoche ci preme di più. Scegliendo, per bre-vità, di intrattenerci soltanto su alcunipunti nevralgici e cominciando col chie-derci da quale punto di vista abbianopesato negativamente sulle sorti dellascuola i «ma» dell’infausta cerniera che hareso altre da sé le istanze originarie delmovimento.Un dato estremamente rivelatore della

qualità aggressiva e desublimante dellarivolta era, come si sa, quello relativo allarichiesta di una formazione che mettessein causa il carattere astratto-elitario delvecchio umanesimo e accordasse ampispazi al bisogno di «conoscenza reale».Formula non meno pregnante di quellache parlava di «immaginazione al potere»(anche se di segno apparentemente con-trario), la «conoscenza reale», come tesiottativa, era un nodo che si prestava moltoa essere interpretato in maniera diversa esecondo accezioni di senso nettamentedivergenti. Per i realisti più realisti del re,rendere «reale» la «conoscenza» voleva direquasi esclusivamente agganciarla alla sferadei bisogni pratico-materiali della vitaproduttiva e finalizzarla in termini opera-tivi alle dinamiche economiche dei pro-cessi di valorizzazione. Per i contestatoriche leggevano Debord e Marcuse, invece,il bisogno di nutrire la conoscenza di con-tenuti più «reali» andava in una direzionedecisamente oltrepassante rispetto agliorizzonti della società organizzata (laGemeinschaft di weberiana memoria) edoveva cercare le sue risposte più vere nelterreno di una sistematica demistificazionedelle forme di falsa coscienza mediatedalle istituzioni dell’istruzione pubblica.Detto in altre parole, per i primi la que-stione capitale era quella relativa allanecessità di rendere funzionali le strategiedella formazione mediante il sistematicorigetto delle oziosità veicolate dalla pai-deia tradizionale; per i secondi, al contra-rio, la questione di fondo era quella dicreare più conoscenza passando per oriz-zonti del sapere che non risultassero con-dizionati dall’angustia ideologica delsociocentrismo dominante. L’ovvio corol-lario, in termini differenziali, era che, dauna parte, la conoscenza avrebbe voluto e

dovuto trasformarsi in uno strumento diintegrazione consapevolmente teso non arovesciare l’esistente ma a padroneggiarnecon adeguata efficienza i linguaggi; dall’al-tra, avrebbe voluto e dovuto farsi promo-trice di autocoscienza sociale, con l’impli-cito incremento dei potenziali antagonisti-ci coassiali a una soggettività storica datempo emarginata. È evidente che, se nelprimo caso il problema diventava soprat-tutto quello di riuscire a dare risposte ade-guate al bisogno di saltare sul treno dellaproduzione al momento giusto e di averetutte le carte in regola per non esserecostretti alla «vergogna prometeica» di cuiaveva parlato qualche pensatore, nelsecondo caso il problema più importanteera quello di cercare alternative che con-sentissero il superamento del modello diesistenza instaurato dalla colonizzazionecapitalistica della vita e che restituissero aun progetto umano le possibilità di svi-luppo accumulate dall’Occidente. Nonper nulla, da parte di questa componente,la sistematica messa in causa del nostroeurocentrismo e l’insistente relazionarsipolitico-teorico con i movimenti di eman-cipazione operanti su altre latitudini.Ad andarne di mezzo, come è facile

vedere, era l’idea tradizionale di cultura.In entrambi i casi, venivano messi in crisii suoi fondamenti archeoclassisti (vale adire le connotazioni elitario-aristocraticheche la stessa borghesia riteneva ormaiintollerabili), e, in entrambi i casi, se necontestava senza mezzi termini l’angustia.Ma era poi vistosa la differenza di segnorelativa alla qualità delle alternative che levenivano rispettivamente contrapposte.Si consideri, per esempio, la ridefini-

zione dell’idea di cultura postulata dalleanime vincenti del movimento. Mosse daidiosincrasia profonda per tutti gli aspettidel sapere che non avessero una sicura eimmediata ricaduta nella sfera della quoti-dianità pratico-esistenziale, queste compo-nenti hanno portato agli estremi la dissa-crazione delle valenze culturali menoorganizzabili con le accezioni correnti delvalore d’uso. Il loro obbiettivo di fondoera quello di ricondurre il sapere ai livellidel «lavoro-medio-sociale-necessario», alfine di farlo fruttificare secondo le più

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aggiornate esigenze degli uffici di colloca-mento e le forme di domanda-offertadominanti nel terreno delle produzioneimmediata.Di ben altro orientamento, invece, era

l’idea di cultura messa a punto dai primi.A guardar bene, la forte tematizzazionedel momento-qualità portata avanti daquesta componente del movimento nonstravolgeva radicitus l’accezione di culturacontro cui si rivoltava. Anzi, nel momentostesso in cui aggrediva come inaccettabilela modestia dei suoi saperi (soprattutto diquelli che erano intristiti nella pratica scle-rotizzante della routine scolastica), essa siguardava bene dall’immiserirne ulterior-mente (e in senso borghese) le vocazioni.Il trattamento prescritto era sicuramentemolto energico, ma non di tipo marziale.Allo sterile culto di un umanesimo ancorapensato in termini esclusivamente retori-co-filologici si proponeva di sostituire unumanesimo dialetticamente rivitalizzatodall’apporto delle discipline che più aveva-no contribuito a modificare l’orizzonteepistemico delle scienze umane. Econo-mia (e qui Marx non era ancora andato insoffitta), antropologia, sociologia si pre-sentavano come le discipline-guida, glistrumenti-base per ampi e più fecondiriattraversamenti dello stesso passato e perun’attenta problematizzazione del presen-te. Ma altre discipline, come la psicoanali-si, la linguistica generale e le sue numerosediramazioni nel campo delle varie formedi comunicazione, e in particolare verso laforma considerata più insidiosa (quella,per esempio, dei linguaggi massmediatici),entravano nel novero degli arricchimentidi cui stiamo parlando. Ed entravanonaturalmente come saperi destinati aintrodurre chiavi critiche e soglie di auto-coscienza più profonde, anziché comesaperi puramente addizionali e destinatisolo ad accrescere il cumulo delle nozioni.In sostanza, alla crisi di un certo modellodi cultura si cercava di rispondere con undi più di cultura. E se le nuove discipline,per la loro genesi storica, non avesserocomportato la messa in causa frontaledelle tradizionali egemonie, nulla avrebbeimpedito di pensare che le anime più«alte» del ’68 avessero molte cose in

comune col modello di cultura che conte-stavano, a cominciare dalla condivisionedi un’idea del sapere come valore non pat-teggiato con le istanze dell’«utile». A benvedere, si spiega soprattutto con questaconvergenza quel balzo in avanti qualitati-vo incontrato dalla scuola e dai suoi pro-grammi nel corso di una fase transitoriache resterà memorabile, malgrado le com-plicazioni provocate dal demagogismosfrenato dei suoi riformatori.

Purtroppo, come si diceva, la realtàqualitativa di questo balzo in avanti haavuto una storia breve e progressivamentefunestata dallo stato marasmatico dell’isti-tuzione. A confonderne i contorni hannocontribuito, a livelli diversi, il regime con-fusionario di tutte le forme di interventoministeriale, la coscienza repressiva eserci-tata sulle masse studentesche dagli sloganvincenti a livello assembleare, l’opinionepubblica pilotata dai mass-media, le ton-nellate di «calunnioso discredito» rovescia-to sulla scuola da tutti gli osservatori diturno. Per non parlare degli effetti regres-sivi provocati tra gli studenti dalla cre-scente disaffezione nei confronti del valo-re-cultura e nei confronti di una docenzasempre più mortificata e depressa. Perchémeravigliarsi del fatto che, nella risaccadelle dialettiche in campo, la nicchia dellecose preziose possa essere diventata invisi-bile o apparire inessenziale? O che nessu-no si sia accorto della resistenza che uncerto nucleo di situazioni veniva oppo-nendo a questo tragico divenire? Nellatumultuosa apparenza del disordine, delcaos dilagante, della devalorizzazione cata-strofica del tutto, proprio l’aspetto cheavrebbe potuto ancora parlare di possibi-lità feconde passava per essere, a fortiori,momento perdente e privo di futuro. Eraperciò scontato che in questa stessa risaccafinisse con l’essere consumato, passo die-tro passo, il sacrificio dell’anima utopisticadel movimento e che, a vantaggio dellaprogressiva affermazione dell’animaopportunistica, si cancellassero le tracce diquella congiuntura, ricordata in seguitosolo come una fase di insostenibile transi-zione.

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E il discorso non resta circoscritto soloai testi che erano in auge, allora, tra lediscipline del versante umanistico. Se siprendono in considerazione i manuali dichimica o di fisica, lascia senza fiato la ric-chezza della trattazione e l’articolatodispiegarsi della materia. Laddove lenozioni di chimica fornite allo studenteliceale della mia generazione si erano limi-tate a essere una banale esposizione deifondamenti più elementari, le conoscenzeproposte dai nuovi manuali si spingevanocosì avanti da consentire al discente diavventurarsi senza imbarazzo tra le pieghedei calcoli più sofisticati e di ricavarsi, peresempio, la formula di struttura del primofarmaco che gli fosse capitato tra lemani...L’aggiornamento dei programmi curri-

colari sulla base degli ultimi sviluppi dellaricerca si imponeva come un obbligo chenessun compilatore avrebbe potuto per-mettersi il lusso di non osservare, e, se siescludono le situazioni del privato confes-sionale ancora attaccate alla produzionedelle editrici vaticane più conservatrici,nessun docente avrebbe consideratodegno di attenzione un testo che nonrisultasse in sintonia con gli orientamentipiù recenti.Sotto la spinta di esigenze non più

ritrattabili, l’eredità di questo forte incre-mento qualitativo si è perpetuata anchenei tempi successivi, dando luogo a quellariorganizzazione interdisciplinare dei sape-ri che ha esercitato molto peso sull’edito-ria scolastica arrivata fino a noi. Si trattaforse della sola traccia sopravvissuta allostravolgimento di senso che ha cancellatol’impostazione formativa abbozzata daquella ventata rigeneratrice. Non è molto,ma è quanto basta per capire che naturaavesse la risultante dell’incontro tra la vec-chia struttura gentiliana e l’anima «alta»del movimento che la contestava. Percapire, cioè, fino a che punto, col portarea compimento l’inconsumata intenziona-lità del piano gentiliano e col compensar-ne le insufficienze, questa risultante potes-se rappresentare la via d’uscita desiderata euna possibile ripresa-rilancio delle coseche non ci eravamo ancora stancati diapprezzare.

Per capire, a distanza di qualche decen-nio, quale fosse la scuola di quel momentoe che cosa avrebbe potuto essere una scuo-la che si fosse preoccupata di perpetuarnel’esperienza, torna molto vantaggioso nontrascurare il valore testimoniale di unodegli aspetti più eloquenti dell’apparato-istruzione. Anche in questo caso – comenel caso della scuola gentiliana –, l’edito-ria scolastica è un indizio importante del-l’idea che i vertici istituzionali si facevanointorno al tipo di domanda culturale pro-veniente dalla base. Con la differenza,però, che, rispetto alla natura verticistica(ma adulterante e maldestramente media-trice) dell’editoria gentiliana, il caratteredell’editoria in questione si presentavacome il risultato di una spinta dal basso.Come una sorta di inevitabile accettazionedelle istanze formulate dalla parte più pre-parata e più consapevole del movimento.La forte domanda di un di più di cul-

tura si coniugava, in quel momento, conle persistenze strutturali della scuola gen-tiliana e produceva effetti che si presenta-no oggi come una felice rettifica delleinsufficienze che avevano costituito unlimite vistoso di quel modello. Nascevanoproposte manualistiche di impareggiabilevalore e addirittura si annullavano, daquesto punto di vista, le distanze tra scuo-la media superiore e università. Chiunquesia passato, negli ultimi anni, attraverso icurricula di qualche facoltà umanistica, sabene fino a che punto i manuali della faseliceale abbiano continuato a essere il rife-rimento di base di numerose discipline.Dalla storia alla letteratura italiana, dallafilosofia alla letteratura greca, dalla storiadell’arte alla letteratura latina, una lineadi continuità senza soluzione accompa-gnava lo studente lungo il passaggio dallamedia superiore alla facoltà di approdo,facendolo navigare su orizzonti del tuttofamiliari e privi di incognite (salvo quelledegli arricchimenti monografici dei singo-li corsi). Ma persino discipline non pre-senti al liceo (come l’antropologia e la psi-cologia) trovavano sostanziali anticipazio-ni in alcune antologie di «cultura genera-le», che venivano pensate e utilizzatecome complemento dialettizzante dellevarie discipline.

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campo dai detrattori che insistono sulbasso livello della nostra didattica. Da uncollega francese a cui avevo regalato iprimi due volumi del corso di storia diBontempelli e Bruni (Il senso della storiaantica, della Trevisini) – si trattava diJacques Camatte, direttore di Invariance,una delle più prestigiose riviste della sta-gione sessantottesca –, mi sentii chiederese fosse quello il miglior trattato di storiaantica circolante nelle nostre università, ericordo ancora il suo êtonnement quando

Certo, le riserve di chi parla, a questoproposito, del rischio pedagogico di uneccesso non mancano di legittimità e sonoriserve che andrebbero considerate in rela-zione al possibile sfasamento del rapportodomanda-offerta o in relazione alla noncalibrata qualità delle risposte che sarebbestato necessario calcolare di volta in voltain rapporto alla specifica età scolare deidestinatari. Ma si tratta in tutti i casi diriserve che la dicono lunga sulla sostanzia-le infondatezza degli argomenti messi in

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masse studentesche. So che, per una serieincalcolabile di ragioni, il libro è diventatoinessenziale nella storia della maggiorparte dei discenti e che il suo prestigio,accanto a quello del docente, ha smesso datempo di funzionare come riferimento.Ma, in ultima analisi, proprio di que-

sto, o comunque anche di questo, si trat-ta. Perché la prima conseguenza dello sfa-scio ingenerato dalle rimanipolazioniprofonde dell’apparato-scuola è stato loscollamento che si è venuto a creare tra lefinalità formative dell’istituzione e le stra-tegie pubbliche del suo uso reale. Non c’èdubbio, infatti, che l’aspetto patologica-mente più rilevante dell’insieme sia laparalisi provocata dalla sistematica erosio-ne degli spazi didattici e la crescente diffi-coltà, per il docente, di far valere in modoadeguato la qualità dell’offerta culturaleveicolata da quei libri.

gli risposi che si trattava solo di un ma-nuale destinato ai ragazzi del ginnasio. Asuo parere, nella scuola francese non esi-steva nulla che potesse reggere il confron-to con libri di questo livello. Ma è legitti-mo pensare che in nessun’altra scuola delmondo, e tanto meno in quelle assunte amodello dai nostri riformatori, esistessequalcosa di equivalente ai libri-guida chedestinavamo ai nostri studenti.

Che dire, a questo punto? So bene cheparlare di testi, e solo di testi, non basta. Eche la realtà della scuola oltrepassa dimolto la manciata di libri che lo studentepuò essersi trovato tra le mani. So chequei libri sono rimasti spesso intonsi e chenon c’è un reale rapporto tra il dover-esse-re delle loro ipotesi e l’essere effettualedella vita scolastica sperimentata dalle

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scono come salute dell’istituzione le sueevidenze patologiche e che contribuisconoa rendere ancora più gravi le già difficilicondizioni del lavoro didattico. In sostan-za, sotto il peso di una ridda di misurecontraddittorie e prive di senso, la fisiono-mia della scuola è andata progressivamen-te perdendo le caratteristiche che la rende-vano particolarmente interessante e cheavrebbero potuto farla diventare l’esattocontrario di quella brutta cosa su cui si èaccanito il «calunnioso discredito» degliosservatori.

Ma buttare con l’acqua sporca anche ilbambino, come sottolinea WiesengrundAdorno, non è solo segno di cecità avan-zata. È anche segno di colpevole insipien-za. Se non, addirittura, di criminosamalafede. Nel nostro caso, non esiterei aparlare, senza troppe distinzioni, di cecitàavanzata, di colpevole insipienza e di cri-minosa malafede. Da una parte il bambi-no è tout-court l’acqua sporca che loavvolge, dall’altra l’acqua sporca è tout-court l’insieme che va buttato. La neces-sità della seconda fase non ha più bisognodi interrogarsi sulla liceità della prima, efunziona come presupposto liberatoriorispetto alle inquietudini che potrebberonascere dall’exitus assai sgradevole dell’in-tera manovra.Di fatto, la cosa che suscita molta indi-

gnazione, in questo trionfo della miopiainsipiente e criminosa, è il trattare comepatrimonio genetico della scuola l’immanecaos provocato dagli annaspamenti irrela-tivi e scoordinati dei suoi riformatori. O ilnon accorgersi che il male cronico dell’i-stituzione è il risultato delle misure tera-peutiche a cui è stata sottoposta. Se poi sipensa che si tratta di misure sostanzial-mente derivate dai modelli della scuolaamericana, l’indignazione viene meno ecede il passo a un senso di pena infinito. Ilsenso di pena che si avverte quando ci sirende conto della distanza che passa tral’urlo che ci soffoca e la sordità contro cuivorremmo scagliarlo.

Dimenticata nei testi, ma onnipresentetra le pieghe quotidiane della vita scolasti-ca e nell’orizzonte di attesa dell’«utenza»,l’anima funzionalistica del movimento halavorato ai fianchi il corpo dell’istituzione,esercitando la sua deprimente regìa sulpaesaggio visibile della praxis. Dalle paroled’ordine assembleari alle concessioni gra-duali del riformatore, tutto ha cominciatoa obbedire alle logiche di uno sviluppotrasformatore che intendeva ridurre alminimo gli spazi della cultura e che esalta-va per contrasto i momenti pseudodidatti-ci dell’esercizio critico sul nulla. E tutto,convergendo su queste logiche, ha finitocol far apparire inattuali e passatisti i pro-positi caldeggiati dall’altra anima.A questo punto, naturalmente, non

può sorprendere che persino il discorsoriguardante quei meravigliosi libri comin-ci a esigere tempi coniugati al passato eche gli insegnanti si trovino costretti aspremere i distributori per poter continua-re a lavorare sulle edizioni originarie deitesti a cui erano affezionati. Dal «progettoBroca» in giù, anche i testi migliori hannodovuto sottoporsi alle forbici della chirur-gia funzionalistica e spogliarsi propriodelle cose che rendevano affascinante eprofondo il loro taglio.Per avere un’idea di come la mitologia

democraticistica della lectio facilior siadiventata il criterio decisivo di ogni inter-vento riformatore, si pensi alla primariforma degli esami di maturità, alle irru-zioni della famiglia nella vita dell’istituzio-ne, al potere ricattatorio derivante dallapossibilità, da parte dello studente, diricorrere ai cosìddetti organismi rappre-sentativi; ma si pensi soprattutto alla for-malizzazione giuridica di una prassi facili-tante adottata da tempo a vari livelli esostenuta per anni dalle autorità scolasti-che periferiche. È il caso, per esempio,delle norme che hanno portato gradual-mente all’abolizione degli esami di ripara-zione o di quelle che hanno finito col san-cire come legge dello Stato la «carta deidiritti dello studente», sintesi assai confusadelle istanze protestatarie messe in ondadalle frange meno consapevoli del ’68 eriprese senza contesto dalle generazionisuccessive: si tratta di norme che ridefini-

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Bruno Pittau, I got the Blues, 1982, matita su carta, cm 35 x 50

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Arte di governoGiovanni Dettori

... racconta Erodoto nel libro delle storieche divenuto tiranno dei CorinziCipselomolti perseguitò e rese nudidelle loro ricchezze molti più della vitaregnando a lungo fino a quando chiusefelicemente la sua opera e i giornigli succedette il figlio – come videl’oracolo di Delfi – un figlio mite ancorapoco esperto dell’arte di governonella sua orfaniacercò un maestro che nei segreti del poteresuperasse il re suo padremessaggeri e domandetrovarono a Miletoil giusto tiranno che cercavanoa lungo tacque Trasibulodentro di sé sorridendo dell’ingenuo

domandaresi limitò a condurrefuori le mura l’araldo di Corintosussurrava al vento orientaleil grano maturo di un campo

e ogni volta che vedevauna spiga più lungauna spiga più pienala recideva il tiranno e la buttavafino a quandonessuna spiga svettò più sull’altrae la parte più alta della messevenne rasa

licenziò l’araldosenza aggiungere parolané altro consigliare su come al megliogovernare la cittàquale mai saggezza – di ritornosi stupiva l’araldo –poteva essere quella di distruggerela ricchezza di un campoquale sensato consiglio potevavenire da uno stoltoma a Corintoal figlio di Cipselo fu chiaro come luceil messaggio.

Beato quell’uomo che scende nella mia casa,Cipselo, figlio di Eezione, re della illustre Corintolui e i suoi figli, ma non i figli dei figli.

(Oracolo di Delfi)

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Damasio(radici cristiane d’Europa)

Giovanni Dettori

quando era ormai vecchio Damasio di Damascoe ancora viveva insegnandocon gli ultimi neoplatonici ad Atenenell’anno cinquecento ventinove dopo Cristo

il cristiano imperatore di BisanzioGiustinianodando corpo all’opera di dottorie padri nel silenziochiuse a sempre l’Accademiaultima scuola dei gentilie come a cani infettia quegli ultimi savi di una lungacatena d’oroaprì le porte all’esilio

restò forse degno di notamarginale sapere cheli accolse un eccentrico curioso di filosofiCosroe il persianoultimo sovrano dei Sassanidiluinon cristiano

non lasciarono discepolichiusero la vita su una linea di confinein pace e oscurità

... Ho percepito delle voci e le ho dettea quelli che non potevano più sentire.Ho colto dei visi e li ho mostratia quelli che non potevano più vedere.Karl Kraus – Die Fackel, 10 luglio 1914

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in quel crepuscolo inoltratoquasi dentro la nottedei gentiliun barbaro salvava quel poco che di loroancora a stento duravada massacri e fuoco

si può anche immaginare cheprima di quel barbaroscrivendo storie contro i paganiil presbitero Orosiotradisse forse compassionea pena un tremitoun rossore

quando racconta che al suo tempovide egli stessolibri e scaffali fatti a pezzida uomini come luinelle nicchievide coi suoi occhipapiri e codicibruciare

oscura lucedi Agostino e Ambrogiosopra la terra in sonnomemoria abrasa sopra spazio e tempodella cenere di Ipazia

per esili e diasporeancora continuava la parolaostinata a spirarenon più dove voleva ma doveinermenascosta al mondo poteva.

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Essere un

a sfinge

Custodire

il segreto

e renderlo

inaccessib

ile.

Indisturb

ata osserv

are gli um

ani destin

i,

il vano cer

care,le fal

se piste.

Concede

re una risp

ostasolo

ai perseve

ranti.

A chi, no

n inganna

to dall’app

arenza

sostaal cro

cicchio

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do l’inuti

le agitarsi

.

Essere un

a sfinge

e non co

ncedersi s

e non a

Chicono

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e nelprese

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a invisibil

e

del già ac

caduto

e l’altrett

antosotti

le trama

dell’ancor

a a venire

.

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Essere una sfingeElisabetta Rombi

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6.

«Poetare è un misurare».Heidegger corregge subito que-sta definizione riscrivendola in

questo modo: «Poetare è misurare»; dovedapprima è da lui stesso sottolineato ilsecondo verbo e, subito dopo, il primo:«Poetare è misurare».È chiaro che qui non si tratta di un

gioco di sottolineature (come peraltroamano giocare molti poeti moderni che silimitano a far versi spostando material-mente i significati e continuando a girareintorno al nulla). Il significato dell’ultimasottolineatura equivale infatti a questafrase:

«Il poetare è probabilmente un modoeminente del misurare».

Se controllate sul dizionario il signifi-cato dell’aggettivo “eminente” trovate cheesso deriva dal participio presente di unverbo latino, eminere, che significa, mate-rialmente, “sporgere fuori” e, idealmente,“elevarsi”; da quest’ultimo senso deriva ilsignificato figurato di “eminente”, “cheeccelle sugli altri”, “che si distingue perdignità, onore o pregi”; quindi “degno digrande stima e considerazione”.Nella frase di Heidegger “eminente”

significa quindi “più elevato”, o se si vuole“eccellente”. Egli vuol dirci dunque che ilpoetare è il modo “più elevato” del misu-rare, il “misurare per eccellenza”, ovvero il“misurare” nel suo significato essenziale.Infatti subito dopo Heidegger dice che

«Nel poetare accade ciò che ogni misurare,nel fondamento della sua essenza, è».

Perciò, egli dice, è molto importantefare attenzione “all’atto fondamentale” delmisurare. E questo atto fondamentale delmisurare non è altro che il “prendere lamisura, in base alla quale, di volta involta, si misurerà”. Tradotto in un lin-guaggio più usuale il concetto vuol direche per misurare occorre scegliere una“misura” e che l’uso di questa misura è, indefinitiva, l’atto proprio del misurare. E inquesto linguaggio più usuale vi sarà faciletrovare molti esempi che confermano l’e-sattezza, o verità, della proposizione.

«Nel poetare – continua il filosofo –accade la presa-di-misura». E subitoaggiunge: «Il poetare è il prender-misureinteso nel senso rigoroso del termine, nelquale anzitutto l’uomo riceve la misuraper l’estensione della sua essenza».

Semplificando un po’ possiamo direche, mediante il poetare, l’uomo impara amisurare la sua essenza; in particolare l’e-stensione (o la durata) della sua essenza.Come spiega Heidegger “uomo” è sino-

nimo di “mortale”. Così l’uomo si è chia-mato, e ancora non può fare a meno dichiamarsi, per la semplice ragione che“può morire”. Vi prego di prestare atten-zione al fatto che qui non si dice “deve”,ma “può” morire: avremo comunquemodo di ritornarci. Così Heidegger spiegail “poter–morire” dell’uomo: esso significa«esser capaci della morte in quantomorte». «Solo l’uomo muore [nel sensoche si rende conto di non potersi sottrarrealla morte, anche l’animale muore ma, sesi rende conto di morire, ciò avviene soloed esclusivamente nel momento stesso in

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Cosa significa poetare, IIMimmo Bua

II parte del saggiodidattico di MimmoBua; la I parte è statapubblicata sul n. 7 diSoliana (settembre2010).

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cui ciò accade; l’uomo invece “sa” di “potermorire” anche quando tale momento sem-bra lontano o resta comunque imprevedi-bile]; e ciò continuamente, fino a chedimora su questa terra, fino a che la abita».

Heidegger non lo dice ma il “morire incontinuazione”, per molti pensatori, non èaltro che il continuo modificarsi dell’io,dell’ego individuale, del quale già il filo-sofo Eraclito, uno dei più antichi filosofigreci, diceva che è «come il fiume chesempre scorre», dove è impossibile immer-gersi per la seconda volta nelle stesseacque. E questa stessa caratteristica Eracli-to la attribuiva anche a tutto ciò che all’e-go individuale, alla “mente”, appare come“realtà”, con la sue caratteristiche di “can-giante molteplicità” di cose che accadono,nascono, si sviluppano e muoiono in con-tinuazione. Il fatto che l’uomo “può mori-re” si riferisce, allora, proprio al fatto chel’uomo rischia di “perdersi” in questarealtà sempre cangiante: soprattutto senon è capace, o perde la capacità, di com-piere la “misurazione-disposizione” dellasua stessa essenza umana.

Nei versi che seguono alla domanda:«Dio è sconosciuto?», Hölderlin si interro-ga appunto su quale sia la “misura” chel’uomo deve usare per conoscere la suaessenza, vale a dire nel misurarsi con ladivinità; che equivale a dire: per conosceree misurare la sua essenza divina. Alladomanda su Dio il poeta risponde che evi-dentemente Dio non può essere sconosciu-to: come potrebbe, se lo fosse, essere lamisura? E tuttavia qui Hölderlin, comeprecisa anche Heidegger, affronta poetica-mente il problema, davvero arduo, del“mistero” della divinità. Scrive Heidegger:«Dio, nell’essere che egli è, è per Hölderlinsconosciuto, e proprio in quanto in questosuo essere è sconosciuto, egli è la misuraper il poeta. Perciò il poeta è turbato dallasua stessa sconcertante domanda: comepuò, ciò che rimane nella sua essenza sco-nosciuto, diventare la misura [della essenzastessa dell’uomo]? Ciò con cui l’uomo simisura, infatti, deve pur parteciparsi,[mostrarsi], apparire. Ma se appare, alloraè conosciuto. Eppure il Dio è sconosciuto

ed è, tuttavia, la misura. Non solo: il Dioche rimane sconosciuto deve apparirecome quello che rimane sconosciuto, inquanto si mostra come colui che Egli è».Rinunciamo a un commento analitico

di questo difficile passo di Heidegger;accontentandoci di comprenderne il sensoessenziale e cioè che di Dio in quantoEssere si può dire solo che «Egli è»; chesarebbe inutile tentare quella che noi chia-miamo una “dimostrazione razionale” diquesta semplice proposizione e che, dun-que, il mistero della divinità non può esse-re svelato “razionalmente”. La veritàdell’Essere – come è d’altra parte notoanche a voi – si può soltanto “intuire”.Poiché anche Hölderlin lo intuisce è

allora all’altro “mistero” che rivolge la suaattenzione poetica: il mistero da svelarenon è Dio, non è l’Essere, ma la manife-stazione di Dio e dell’Essere. Ecco perchéil poeta si pone subito dopo la domanda:

È egli manifesto e aperto come il cielo?

alla quale subito risponde con un’altraasserzione:

Questo, piuttosto io credo. Questa è lamisura dell’uomo.

Quale è, dunque, la misura per il misu-rare umano?Spiega a questo punto Heidegger: non è

Dio; non è il cielo e neppure è la manife-stazione del cielo. «La misura consiste nelmodo in cui il Dio che rimane nascostoproprio come tale [cioè come e in quanto‘nascosto’] è manifesto mediante il cielo».Questo “apparire di Dio attraverso il

cielo” Heidegger lo chiama “un disvela-mento”: qualcosa che toglie il velo chericopre ciò che il velo nasconde e lo lasciavedere, ma non per strappare «ciò che ènascosto al suo nascondimento, bensì soloin quanto custodisce il nascosto nel suonascondersi».Per capire questo difficile passaggio

logico possiamo tentare una analogiamediante un esempio: proviamo adimmaginare qualcuno che sia il Custodedi un tesoro; cerchiamo di conoscere sia lapersona che l’entità del tesoro; raggiungia-

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mo infine il luogo dove il tesoro è statonascosto; il Custode ce lo mostra e noisiamo come abbagliati dallo splendore deltesoro; al punto che non vediamo neppurela mano del Custode nascosto che ce lo hamostrato. Potremmo allora ben dire diaver semplicemente “intuito” la presenzadi colui che “custodisce il nascosto (nelnostro esempio, il tesoro) nel suo nascon-dersi”. Così come nel nostro esempio ilCustode ci è apparso come lo “sconosciu-to” che ci ha manifestato (mostrato) iltesoro, Heidegger dice, sempre a proposi-to dei versi di Hölderlin, che «il Dio sco-nosciuto appare in quanto sconosciutonella manifesta apertura del cielo».

E questo è quanto «poeticamente abi-tando il mondo» l’uomo-poeta riesce adire: «Questo apparire – aggiunge il filo-sofo – è la misura sulla quale si misura».Non soltanto nel senso del “rischio” chel’uomo accetta, ma proprio in quello della“misura”, che per certi versi appare “miste-riosa” sulla quale l’uomo può misurarsi,cioè conoscersi.

7.

Anche Heidegger considera una tale“misura”, strana, apparentemente sconcer-tante, almeno «per il modo abituale dipensare dei mortali»; e soprattutto «sco-moda per la sbrigatività superficiale delsapere di tutti i giorni che pretende divalere come base di ogni pensiero e diogni riflessione»: in questa sbrigativitàsuperficiale di cui parla il filosofo tedescopossiamo includere anche il tono e la qua-lità dell’“insegnamento” mediamente esolitamente impartito nella scuola e la rea-zione di quegli alunni che pensano chetutto ciò che “è difficile da capire” vadasemplicemente scartato e messo da parte,cioè semplicemente ignorato. Heideggeraggiunge, infatti, che essa non è soltanto«strana per il modo di pensare corrente,ma anche, in particolare, per ogni mododi pensare soltanto scientifico». Anche ilmodo di pensare “soltanto scientifico”vuole “prendere” la misura, vuole cioèappropriarsene, impossessarsene, facendosì che ogni residuo di “mistero” si dilegui:

è questo, per la maggioranza degli “scien-ziati” il sapere “positivo” fondato sulle“armi” di una ragione soltanto “discorsiva”o “analitica”. La misura di cui parla ilpoeta diventa “semplice da maneggiare”solo se le nostre mani rinunciano ad«afferrarla» e «si lasciano guidare da gestiche corrispondono alla misura», senza«tirarla a sé», ma apprendendola «in quelpercepire raccolto che rimane un udire».

Noi siamo abituati a concepire l’inse-gnamento come se si trattasse di un“impartire nozioni” che poi sta all’alunno“apprendere”, nel senso di memorizzare eriferire, o per lo meno “ripetere”:Heidegger in questo passo accenna a unaltra forma di insegnamento-apprendi-mento, che è quella, per noi estremamentedifficile, che vorremmo anche qui “speri-mentare”: dichiarandoci pienamente sod-disfatti se i concetti che andiamo esplo-rando fossero “percepiti” in modo raccol-to, cioè attento, con una propensioneall’ascoltare meditando, che è il modomigliore di tradurre il termine usato dalfilosofo, il verbo tedesco Hören.

Anche se non tutto ciò che si dice verràcapito, l’importante è che ognuno si sforzidi com-prendere e di ap-prendere ciò chepuò, facendone poi oggetto delle sue per-sonali meditazioni. Non ci sarà, in segui-to, bisogno di “riferire” ciò che si è detto,ascoltato, letto e commentato; sarà piùche sufficiente che ognuno riesca ad“esprimersi” almeno su qualcosa di quantoè stato studiato. E possa dire a se stesso diaver fatto un passo avanti nella reale com-prensione di quel che significa, oltre che“poetare”, studiare, nel senso dello “sforzodi conoscere e di capire”.Chiarito nella misura del possibile que-

sto difficile passaggio proseguiamo nellosforzo di comprendere il senso delle ultimedomande che il filosofo Heidegger si ponenel suo magistrale commento alla poesia diHölderlin, che è a sua volta di estremointeresse ed importanza per aiutarci a capi-re il tema di queste lezioni, «che cosa signi-fica poetare?»; che ha evidentemente a chefare con l’altra domanda da cui siamo par-titi «che cosa è la poesia?».

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La prima domanda che il filosofo, arri-vato a questo punto del suo commento, sipone è la seguente:«Ma perché questa misura, così estra-

nea a noi uomini d’oggi, deve essereannunciata all’uomo ed essergli partecipa-ta attraverso quel prender-misura che è ilpoetare?»Possiamo accettare la risposta senza

commentarla:«Perché solo questa misura attinge,

misurandola, tutta l’essenza dell’uomo»A noi basta aver capito, dalla rilettura

commentata di questo saggio di Heideg-ger, che per il poeta, poetare significa«scorgere questa misura, misurarla in tuttala sua ampiezza, [che è quella che delineal’intera distanza, o intervallo, fra la terra eil cielo, fra l’uomo e la divinità] e assu-merla come misura». Ci basta essere venu-ti a conoscenza del fatto che «Il poetare èquesto prender-misure» e che esso è stret-tamente connesso all’abitare dell’uomo suquesta terra. Basta a noi anche se nondovesse bastare a molti altri.

Piuttosto dobbiamo anche noi chieder-ci, come subito dopo fa Heidegger, se orasappiamo cosa fosse per Hölderlin il “poe-tico”. Saremmo semplicemente dei pre-suntuosi se, avendo seguito il ragionamen-to del filosofo, pretendessimo di sapernepiù di lui. La sua risposta infatti resta, percosì dire, un po’ ambigua: Sì e no. «Sì, inquanto abbiamo un’indicazione della pro-spettiva in cui il poetare va pensato (com-preso), cioè come una forma eminente delmisurare. No, in quanto il poetare, intesocome il misurare che attinge quella cosìsingolare misura, diventa sempre piùmisterioso. E misterioso deve restare, seperaltro noi siamo disposti a rimanere,mantenendoci aperti, nell’ambito dell’es-senza della poesia».È come se anche noi, per riprendere

l’esempio fatto prima, ci fossimo avventu-rati nella ricerca di un tesoro misterioso(che cosa è la poesia?) e avessimo avuto sìla certezza che il tesoro c’è, poiché neabbiamo intravisto il bagliore, ma deverestare misterioso. E tale deve restare sevogliamo in qualche modo evitare di per-dere il contatto con esso: nel caso del teso-

ro di cui qui si parla, la poesia, la suaessenza rimane misteriosa proprio nellamisura in cui non vogliamo perderla, nonvogliamo escludercene.

Accontentiamoci dunque di capiremeglio cosa sia questa “misura” cheHölderlin considera insita nel far poesia.Sappiamo già qual è la sua risposta al checos’è la misura per il poetare? È la divi-nità, cioè Dio: E la domanda chi è Dio?sembra, sia ad Heidegger che a noi, «trop-po difficile per l’uomo». Per cui anche noici accontentiamo di conoscere ciò che nonfa parte intrinsecamente di Dio, quegliaspetti del cielo, cioè, che possono essere odiventare familiari all’uomo. E per quantoattiene alla descrizione di questi aspetti delcielo ci limitiamo a riascoltare quella, dav-vero bella e suggestiva, che ce ne fa lo stes-so Heidegger; la sola variante che tentia-mo è quella di “metterla in versi”, anzichériprodurla nel modo in cui l’ha scritta:

Tutto ciò che,nel cielo e sotto il cielo e sulla terra,splende e fiorisce,risuona e olezza,sale e si avvicina,ma anche ciò che si allontana e cade,che si lamenta e tace,che impallidisce e si oscura.In tutto questoche all’uomo è familiarema estraneo al Dio,si trasmette lo sconosciuto,per rimanere quivi custoditoe albergatocome lo sconosciuto.Il poeta, tuttavia,chiama al canto della sua parolatutta la chiarità del cielo,tutti i suoni dei suoi movimentie dei suoi venti,e porta così ciò che chiamaa splendere e a risuonare.Ma il poeta, se è poeta,non descrive il puroe semplice appariredel cielo e della terra.Il poeta, negli aspetti del cielo,chiama quello cheproprio nello svelarsi

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fa apparireciò che si nasconde,in quanto èciò che si nasconde.Nelle apparenze che sono familiari,il poeta chiama l’estraneocome ciò in cui l’invisibilesi trasmetteper rimanere ciò che è:sconosciuto.

Questo piccolo esperimento, consisten-te nel disporre in forma di “versi” ciò cheoriginariamente è stato scritto come “pro-sa” ci sembra che possa costituire ancheuna piccolissima dimostrazione di quantoabbiamo detto in un’altra lezione, in cui cichiedevamo se ci fossero, e quali fossero, itratti distintivi fra linguaggio poetico e lin-guaggio prosastico. Fra le altre cose vi hodetto anche che, spesso, la differenza non èsostanziale, ma semplicemente formale. Emi sembra che nel caso appena proposto, ilfilosofo Heidegger, che di solito scrive inprosa, si dimostra anche capace di parlarepoeticamente, rispondendo con un altrostile di scrittura i concetti in precedenzaesposti in stile prettamente filosofico, oprosastico. Basta scandire diversamente lefrasi e le parole perché questo caratterepoetico profondo che è insito nei concettie nelle immagini venga messo in luce conpiù evidenza di quanto già non accada se loleggiamo nella forma originaria. Ma ciòdimostra anche un’altra cosa, più impor-tante; e cioè che solo compenetrandosinella lingua del poeta è possibile non solocomprendere a fondo la poesia ma ancheimitarla o rifarne il verso, che è il primopasso per apprendere a scrivere concreta-mente in “modo poetico”. Ed è buona cosase questo verrà da voi considerato come unutile esercizio in questa direzione.

8.

Ma consideriamo più attentamente cosa cidice il filosofo che, dopo aver “ascoltato”attentamente il poeta, dopo essersi sforza-to di penetrare e di con-penetrarsi nel suolinguaggio, cerca di riferirci cosa fa il veropoeta. Ci dice esattamente che egli non silimita ad “imitare”, non tanto ad imitare

gli altri poeti, ma neppure ad imitare laNatura, o l’Universo: «il poeta, se è poeta,non descrive il puro e semplice apparire delcielo e della terra». Negli ultimi “difficili”passaggi della parte che noi abbiamomesso in versi ci dice cosa fa veramente ilpoeta vero: egli «chiama quello che, pro-prio nello svelarsi, fa apparire ciò che sinasconde». Se riportate alla mente le cosedette in precedenza a proposito di Dio edel Custode del tesoro nell’esempio concui abbiamo cercato di rendere più acces-sibile il “mistero” dell’Essere “nascosto”del Dio di cui parla Hölderlin, capiretesubito che colui che il poeta chiama, ocerca di evocare, non è altri che Dio. Manon lo chiama, per così dire, “per nome”;bensì lo evoca, «nelle apparenze che cisono familiari», consapevole del fatto cheColui che sta evocando resterà avvolto nelsegreto che circonda “l’estraneo”. Le“apparenze familiari”, allora, diventano,per il poeta, «ciò in cui si trasmette l’invi-sibile»; pur rimanendo, l’invisibile, ciò cheè: lo “sconosciuto” che rimane, appunto,avvolto nel suo mistero, ovvero «Colui chesvela ogni cosa senza svelarsi».Quand’è, allora, che si può dire vera-

mente che un poeta “fa poesia”?Parafrasando i versi di Hölderlin Heideg-ger risponde: «solo quando prende lamisura». Cioè quando si rivela capace didire «gli aspetti del cielo adattandosi allesue apparenze», e quindi adattandosi al“mistero”, ovvero «all’estraneo in cui ilDio sconosciuto si ‘trasmette’», si manife-sta all’uomo e a tutti gli esseri.

Questa ridefinizione della “misura poe-tica” permette ad Heidegger di definireanche cosa sono le “immagini” poetiche.“Immagine” è, anzitutto, la parola

usuale per indicare l’aspetto e l’apparenzadi qualcosa. «L’essenza dell’immagine è nel‘far vedere’ qualcosa».Le immagini poetiche sono tuttavia

«immaginazioni in senso eminente» [che èlo stesso senso usato a proposito del “poe-tare” come modo “eminente” del misura-re]. Le immagini poetiche, cioè, non sono“semplici fantasie e illusioni”: Heideggerle chiama «immaginazioni come incorpo-razioni».

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‘In-corporazione’ deriva, evidentemen-te, da in-corporare, qui nel senso di “rap-presentare in forma di ‘corpo’ ciò checorpo non è, e non può essere”. Che cosadunque incorporano le immagini poeti-che? Quello che già abbiamo riproposto ecommentato in versi e in prosa, cioè “l’e-straneo”: che le immagini poetiche incor-porano «nell’aspetto di ciò che è familia-re». Possiamo considerare questa definizio-ne come una delle diverse definizioni del“simbolo”: il simbolo è ciò che rappresen-ta analogicamente una “realtà” che non sipotrebbe diversamente rappresentare. leimmagini poetiche, in quanto simboli,dunque, rappresentano in modo “familia-re”, cioè accessibile alla nostra compren-sione, ciò che altrimenti rimarrebbe, pernoi, soltanto “estraneo”; perché non c’èaltro modo per poterlo rappresentare.

Possiamo apprendere di più sulla natu-ra del simbolo, che corrisponde all’imma-ginazione poetica “vera”, rileggendo i versiche seguono, nella poesia di Hölderlin,quelli da cui ha preso le mosse la nostraesplorazione. Subito dopo aver letto che“poeticamente l’uomo abita su questaterra”, leggiamo:

...Ma l’ombraDella notte con le stelle non è,Se così posso osar parlare, più puraDell’uomo, che si chiama immagine delladivinità.

Seguiamo ancora il commento diHeidegger a questi versi:«...‘l’ombra della notte’ – la notte stessa

è l’ombra»; ma è un’ombra che non puòdiventare «pura e semplice tenebra»; l’om-bra è infatti proiettata dalla luce e quindi,in quanto ombra, ha pur sempre a chefare con la luce. La luce, nei versi delpoeta, è rappresentata dalle stelle; e la pre-senza delle stelle nella notte fa sì che l’om-bra non sia, se così si può dire, “più pura”dell’uomo. Così come nel cielo si alterna-no, e convivono, l’ombra e la luce, lo stes-so è per l’uomo; il quale, pur chiamando-si, ed essendo, “immagine della divinità”vive la sua esistenza in una dimensioneche potremmo definire di chiaro-scuro,

dove cioè convivono e si alternano, pro-prio come nel cielo, ombra e luce.

A questo punto il poeta si chiede:

C’è sulla terra una misura?

E non può che rispondere:

Non ce n’è alcuna.

La misura l’uomo può trovarla solo«tra la terra e il cielo», se guarda verso ilcielo, se si ricollega al “raggio divino”. Sel’uomo trascura o dimentica di far questonon trova più la giusta misura. Quindinon può più abitare la terra, perché eglipuò abitarla solo “poeticamente”. nel suosignificato essenziale, come abbiamo visto,l’abitare accade solo «quando il poetareavviene e dispiega il suo essere».Come Heidegger precisa: «È il poetare

che anzitutto fa accedere l’abitare dell’uo-mo nella sua essenza. Il poetare è l’origina-rio far-abitare».

«L’uomo non abita in quanto si limita aorganizzare il proprio soggiorno sulla terrasotto il cielo, prendendosi cura, come con-tadino, di ciò che cresce, e insieme [comeoperaio], erigendo edifici... L’autenticocoltivare-costruire accade in quanto cisono dei poeti, uomini che prendono lamisura per l’architettonica, per la disposi-zione strutturata dell’abitare».In una lettera del 12 marzo 1804, citata

da Heidegger, Hölderlin spiegava a un suoamico cosa intendesse esattamente per“architettonica”, e più precisamente per“architettonica del cielo”: nient’altro che“la favola”, definita appunto, «visione poe-tica della storia e architettonica del cielo».E ciò era quello di cui Hölderlin dicevaall’amico di «occuparsi principalmente»,proprio nel momento in cui gli scriveva.

9.

Che senso ha oggi parlare di “architettoni-ca del cielo”, quando per la stragrandemaggioranza degli uomini non solo nonesiste altro che l’architettonica fatiscentedelle baracche attorno alle metropoli dove

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sono costretti a sopravvivere in condizionisubumane oppure quella non meno squal-lida degli alveari di tipo “popolare” delleperiferie, anche se resta, per una esiguaminoranza, quella “avveniristica” dei grat-tacieli e dei grandi palazzi di vetro affumi-cato dietro cui ama celarsi il potere nellevarie forme in cui si esercita sul resto degliuomini? E possiamo osare di “confondere”il poeta con l’architetto? Sembrerebbeproprio di no; dal momento che, il primo,è dai più considerato una persona “deltutto inutile”, di cui la società non sa chefarsi, a meno che non si presti a far daclown nei salotti dei ricchi “acculturati”, oda ronzino nelle corse “a premio”, se pro-prio non può fare a meno di qualche pla-tonico “riconoscimento”; oppure deveadattarsi a guadagnarsi da sopravvivere inaltro modo, non certo con la sua “ridico-la” attività poetica. E il secondo, l’architet-to, è tale solo se riceve laute committenzeda parte di ricchi finanzieri o enti pubbliciche in tal modo ne sanciscono il prestigio,al di là del fatto che l’edificio da luicostruito possa o no crollare di lì a qual-che tempo o sia di una bruttezza indescri-vibile, però “d’avanguardia”.

Eppure abbiamo appreso, propriodalle parole di un filosofo che gode dimolto prestigio nel mondo della cultura“ufficiale”, anche se, come è inevitabileche accada in questo “mondo”, si è attira-to molte invidie, critiche, ire accademichee tentativi di confinarlo per sempre nel-l’oblio dei “trapassati e sorpassati”, magariper certe sue convinzioni politiche gradi-tissime ad alcuni e sgradite ad altri “con-correnti”, che «Il poetare edifica l’assenzadell’abitare. Non solo poetare e abitarenon si escludono reciprocamente. Essisono anzi in una connessione inscindibi-le, si richiedono reciprocamente». Poiché,come diceva Hölderlin, «poeticamenteabita l’uomo».E già nel concludere la sua conferenza,

per la quale era stato pensato lo scritto cheabbiamo ripercorso quasi integralmente,lo stesso autore si chiedeva, in un ormailontano ottobre del 1951: «Ma noi, abitia-mo ancora poeticamente?».

Non potendo far altro che rispondersi,già allora: «Probabilmente, noi abitiamoin un mondo completamente impoetico».Rispetto a quarant’anni fa c’è solo da

sostituire l’avverbio “probabilmente” conun “certamente”, o meglio, con un “senzaombra di dubbio, ormai...”. La conclusio-ne è la stessa.Ma, si chiedeva ancora il filosofo, e

ancora oggi noi ci chiediamo:«Questo vuol dire forse che la parola

del poeta viene smentita e diventa nonvera?». Sappiamo che molti nostri con-temporanei o non si pongono affatto ladomanda o, qualora accada loro di porse-la, si rispondono che «certo, è così». Chivi propone queste considerazioni, invece,è convinto, e vorrebbe che anche voi lofoste, che avesse ragione Heidegger quan-do rispondeva alla sua stessa domanda:«No. La verità del poeta non solo non èmeno vera, ma è, anzi, confermata nelmodo più inquietante» proprio dal modo“completamente impoetico” in cui l’uma-nità è oggi costretta ad abitare il mondo.

Heidegger così commentava, filosofica-mente, la sua risposta:«Giacché un abitare può essere impoe-

tico solo perché l’abitare, nella sua essen-za, è poetico. Per essere cieco, un uomodeve rimanere qualcuno che secondo lasua essenza (la sua natura), normalmente,ci vede. Un pezzo di legno non può maidiventare cieco».Sicuramente il modo impoetico di abi-

tare l’attuale “mondo” ha reso molti uomi-ni più insensibili di un pezzo di legno epiù ciechi di chi non ha avuto fin dallanascita il dono della vista.Ma il fatto stesso che una parte degli

uomini, anche se si trattasse di un’esiguaminoranza (e non è detto che sia propriocosì) si rende conto che il loro modo divivere e di pensare è “insensibile” o è“cieco” presuppone l’idea, se non il princi-pio, di un modo diverso del “vivere” e del“pensare”, cioè di un altro modo di “abita-re” il mondo. Si possono fare tanti esempi:dalla percezione dei pericoli che ci minac-ciano al rifiuto di certi “modelli” di pro-duzione e sviluppo che promettono benes-sere e generano solo miseria, inquinamen-

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cia direttamente all’argomento affrontatonella sezione precedente:

«Il fatto che abitiamo [il mondo] inmodo impoetico, e fino a che punto, lopossiamo esperire (capire) in ogni casosolo se sappiamo il poetico»: era appuntoquanto ci siamo proposti fin dall’inizio diqueste lezioni, arrivare a sapere almenoqualcosa sul “poetico”, e possibilmentequalcosa che tutti possiamo considerarecome “essenziale” e non come “marginale”o “ininfluente”. A questo proposito moltedelle ultime antologie considerate “allamoda” (a scuola si dice “molto moderne”o “molto attuali”, spesso neppure senzarendersi esattamente conto di ciò che sidice) parlano del linguaggio poetico comese fosse quasi interamente riconducibilealle “tecniche” usate dai poeti; come seagli alunni interessassero più le tecnichedella poesia e come se uno imparasse,mettiamo, a diventare poeta cominciandodalle, se non addirittura limitandosi alletecniche: è esattamente ciò a cui pensoquando parlo di qualcosa che, pur essendoimportante nel concreto “far poesia”,diventa ininfluente e marginale al fine dicomprendere a fondo cosa sia la poesia, ilpoetico e il poetare. Ed è la stessa ragioneper cui abbiamo scelto di affrontare le dif-ficoltà talora davvero ardue del testo di unfilosofo considerato “difficile” che parla diun poeta che non si può certo considerare“semplice”. Nonostante le difficoltàincontrate e il fatto che non tutti gli alun-ni che hanno seguito le lezioni possanodire di averle superate allo stesso modo(ma questo è anch’esso abbastanza secon-dario e “ininfluente”) resto convinto che sipossa trarre più profitto (spirituale, ovvia-mente) da una lettura difficile ma impor-tante che da una lettura più facile (o appa-rentemente tale) ma, in definitiva, in-significante, o non abbastanza significan-te, almeno per quanto riguarda gli assuntidi partenza.Certo nel momento in cui ci rendiamo

conto di abitare impoeticamente su unaterra che invece potremmo, anzi dovrem-mo, abitare poeticamente, se vogliamotener fede all’essenza dell’uomo, è inevita-bile chiederci, anche noi, se sia possibile,

to, sottosviluppo. Tuttavia io credo cheancora più importante della percezione edel rifiuto sia comprendere fino in fondociò che Heidegger, nella sua conferenzaormai famosa anche tra voi (visto che sene parla da almeno otto lezioni), diceva aproposito dell’uomo che “diventa cieco”.«Quando l’uomo diventa cieco, c’è

sempre ancora il problema di stabilire se lacecità viene da una mancanza e da unaperdita, oppure se si fonda su una sovrab-bondanza e su un eccesso». Meditando sualcuni versi della stessa poesia presa cosìprofondamente in esame il filosofo ricaval’impressione che «il nostro abitare impoe-tico, la sua incapacità di prendere la misu-ra, derivi da uno strano eccesso di furiamisurante e calcolante».

Molti esempi di tale furia e di taleeccesso sono, purtroppo davanti ai vostriocchi e feriscono la vostra sensibilitàdando anche un rapido sguardo ai quoti-diani o ascoltando distrattamente i tele-giornali. Un po’ più difficile è riuscire astabilire quanto la furia e l’eccesso siano“calcolati” e “misurati” proprio per rende-re invivibile il pianeta e triste la esistenzaper la maggioranza degli uomini che loabitano come se fossero condannati a vi-vere in un “inferno”, ma con la speranzache sia ancora possibile “abitarlo poetica-mente”.Ma questo, come alcuni amano dire, «è

un altro problema».

10.

Noi preferiamo, in queste ultime conside-razioni, attenerci ad altre conclusioni: chetengano conto, cioè, dell’obiettivo cheabbiamo cercato di perseguire fin dall’ini-zio di queste “lezioni”, che si basava sulladomanda “che cosa è il poetico?”, variantepuramente formale della domanda “checosa è la poesia” e cosa significa “poetare”.Per rispondere alla nostra domanda inmaniera “conclusiva”, anche se nessunaconclusione può essere intesa nel senso,un po’ stolto, di “una volta per tutte”, ciserve ancora qualche citazione tratta dalleultime due pagine del saggio di Heideggersu Hölderlin. La prima di queste si riallac-

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D. L’uomo è sempre capace di poetare?R. No. Solo nella misura in cui egli si

rende capace di «adoperare e salvaguardarela sua essenza». L’autenticità o l’inautenti-cità della poesia dipende proprio da que-sta “misura”.

D. Fino a quando può esserci un “poe-tare autentico”?La risposta del poeta a questa domanda

già la conosciamo:

...Fino a che l’amicizia,L’amicizia schietta ancora dura nel cuoreNon fa male l’uomo a misurarsiCon la divinità...

Conclusioni

Abbiamo già detto cosa possiamo intende-re per “amicizia”, nel senso in cuiHölderlin usa la parola: Heidegger sottoli-nea il fatto che il poeta usi questa “parolainnocua” mettendo al maiuscolo l’aggetti-vo “schietta” (Reine) e ritiene che egliintenda proporre con “amicizia Schietta”la traduzione, da lui stesso data, di unaparola che usa il commediografo atenieseSofocle nell’Aiace, la parola kàris:Hölderlin traduceva questa parola con“grazia”. Il senso che Heidegger proponedi dare al verso perciò è il seguente: «Finoa che dura questo venire della grazia èbene che l’uomo si misuri con la divinità».E conclude: «Se questo misurarsi acca-

de, allora l’uomo fa poesia a partire dal-l’essenza del poetico. E se accade il poeti-co, allora l’uomo abita poeticamente suquesta terra».

Fin qui le risposte ai nostri quesiti sucosa significhi poetare, quindi abitare emisurare il mondo.Ma la vera conclusione dei nostri sfor-

zi, il segno che non sono stati inutili, saràun nuovo modo, più consapevole e piùattento, se volete anche soltanto “piùrispettoso”, di accostarci alla poesia.Cominciando proprio dai versi diHölderlin che concludono non solo il sag-gio di Heidegger ma pare siano stati gliultimi che il poeta ha scritto dando loro,come titolo, La veduta:

un giorno o l’altro, un “rovesciamento” diquesto abitare impoetico. E per quantosiano in molti ad avanzare le loro propostein tal senso, ben pochi sono quelli che,alla luce delle considerazioni fatte sinora,ci possono convincere dell’autenticitàdelle promesse di cambiamento insite neiloro appelli e nei loro programmi: a menoche non accettiamo anche noi di scambia-re le cose per i loro contrari, e cioè la paceper la guerra, la felicità di tutti con il pro-fitto di pochi, l’eguaglianza per il suo esat-to contrario, la giustizia per il massimoimmaginabile di ingiustizia, e via di que-sto passo.

Che cosa ci ha detto, in proposito, ilfilosofo di cui abbiamo seguito e cercatodi capire il commento poetico? Che talerovesciamento «se e quando accadrà, pos-siamo sperarlo solo se manteniamo l’at-tenzione rivolta al poetico». «Come e finoa che punto il nostro fare e non fare possaaver parte in questo rovesciamento possia-mo provarlo solo noi stessi, se prenderemosul serio il poetico».Se mi è permesso, giunti quasi alla fine

del “percorso” che abbiamo scelto insieme,dare un suggerimento, dico che, per quan-to “vaghe” o non abbastanza “concrete”possano apparire queste indicazioni diHeidegger, vale la pena di seguirle: pren-dendo sul serio il poetico si può anchearrivare a capire tutto il resto che c’è dacapire; ma se si continua a ignorare il poe-tico, quando non addirittura a disprezzar-lo, allora niente di buono potrà mai acca-dere nel mondo. Per questo vi invito a cre-dere, non fideisticamente, ma come sicrede a una verità incontrovertibile, a ciòche ancora una volta il filosofo ribadisce almomento di concludere il suo scritto: «Ilpoetare è la capacità fondamentale dell’a-bitare umano».Detto e assimilato questo occorre tener

conto di alcune “precauzioni” che possia-mo esporre con un rapido elenco didomande e risposte, sul cui significato eapprofondimento avremo certo modo diritornare in un altro ciclo di lezioni. Talidomande e risposte sono anch’esse ricava-bili dall’ultima pagina del saggio diHeidegger:

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Se, oltre a trovare belli questi versi,come spero, sentirete “nel cuore” che essilasciano una traccia più profonda di quan-to ne abbiano lasciato altri versi che fino adora vi è capitato di leggere (o di dover leg-gere a scuola), allora la pazienza che aveteavuto fin qui, nell’ascoltare e meditare sullelezioni proposte, non è stata inutile. Hadato il suo primo frutto e anche voi potretedire, non senza un sentimento di fierezza,che anche voi, la Poesia (come si scrivevaun tempo, fosse solo per un vezzo retorico)«come alberi in fiore vi incorona».

Quando il vivere abitando dell’uomo se neva lontano

Là dove, nella lontananza, si stendesplendendo il tempo delle vigne,

Anche là ci sono i campi vuoti dell’estate,Il bosco appare con le sue scure immagini.Che la natura compia il quadro delle

stagioni,Che essa permanga, e quelle passino rapide,Questo è perfezione, l’altezza del cielo

splendeAllora per gli uomini, come alberi in fiore li

incorona.

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NOTE

6.

Poetare = modo eminente del misurare

Ciò che l’uomo misura mediante il poetare (quel chel’uomo misura nella poesia) è, come dice Heidegger, l’e-stensione della sua essenza. Subito dopo il filosofo ci ricor-da la natura “mortale” dell’uomo, precisando che l’uo-mo, a differenza dell’animale che non sa di dover morire,sa di poter morire. La domanda che sorge spontanea,rileggendo questo brano, è: «l’uomo muore completa-mente?» oppure «la sua essenza è immortale»? Sappiamoqual è la risposta di tutte le religioni e delle dottrine tra-dizionali a questo drammatico quesito: esse consideranoimmortale la parte più nobile dell’uomo, che alcunechiamano “anima” altre “spirito”, altre “Sé”. E sappiamoanche che proprio questa convinzione è contestata come“credenza superstiziosa” da parte di certe correnti mate-rialistiche e ateistiche del pensiero moderno, le qualisostengono che in mancanza di “prove” sensibili o razio-nali una verità non può essere ammessa come tale mapuò essere solo accettata per fede. Il pensiero tradizionaleribatte semplicemente a una obiezione di questo tipo che«ciò che non appartiene al sensibile o al razionale non habisogno di dimostrazioni di tipo sensibile o razionale»: lametafisica, che è la forma dottrinaria del pensiero tradi-zionale basa le verità considerate in quanto princìpi suuna conoscenza intuitiva o intellettualmente pura che staal di sopra della ragione e, ovviamente, al di sopra dellaconoscenza sensibile, che non viene considerata, a rigore,una vera conoscenza, in quanto si attiene soltanto allaapparenza delle cose (così come le cose “appaiono” aisensi). È chiaro che non ci può essere mediazione néaccordo fra due punti di vista che sono esattamenteopposti. C’è da aggiungere, tuttavia, che il pensiero tradi-zionale e la metafisica non negano le capacità e le qualitàproprie del pensiero razionale; solo considerano quest’ul-timo come subordinato alla conoscenza intuitiva, o intel-lettuale (quella esercitata dall’Intelletto puro), per cui lasua reale capacità conoscitiva è tale solo se in accordo coni princìpi della metafisica.

Quando Heidegger scrive che dal poetare l’uomo«riceve la misura per l’estensione della sua essenza» sem-bra evidente che questa frase vada ricollegata al passoprecedente in cui si diceva che la misura espressa dalpoetare è un «misurarsi col cielo»: da ciò si può dedurreche Heidegger, interpretando Hölderlin, vuol dire chel’essenza dell’uomo non è mortale; poco più avanti diceinfatti che la mortalità dell’uomo «dura finché (egli)dimora su questa terra». Ma se l’uomo possiede quel

sentimento puro che fa sì che egli voglia e possa misu-rarsi col cielo, allora egli intuisce che la sua essenza siestende ben oltre la mortalità che caratterizza il suodimorare sulla terra.

E in questa intuizione la poesia ha un ruolo decisi-vo.

La misura dell’uomo

L’uomo in quanto mortale è un essere “finito”; ma egli ècapace di misurarsi (di intuire) l’infinito.

In questo misurarsi con l’infinito l’uomo è pur sem-pre costretto ad usare la “misura” del finito; cioè a intui-re l’infinito per come si manifesta nel finito. Forse unbrano tratto dalle Upanishad vediche, i più antichi testidel pensiero tradizionale indù, può aiutare a capiremeglio questo concetto:

«L’infinito si ha dove non si discerne nessun’altracosa, nessun’altra si ode, nessun’altra si conosce. Dove siscorge qualche altra cosa, si ode qualche altra cosa, siconosce qualche altra cosa, allora si ha il finito.L’infinito è immortale, mentre ciò che è finito è morta-le». «Su che cosa è fondato l’infinito?», chiede a questopunto l’allievo al maestro. E il maestro risponde: «Sullasua propria grandezza, oppure, se chiedi la più altaverità, non è fondato su nessuna grandezza».

Nell’infinito nessuna cosa può essere individualizza-ta; allorché le cose diventano individuate e individuabilisiamo nel dominio del finito. Ma per il pensiero tradi-zionale l’infinito non è una semplice categoria negativa(il contrario del finito); e non c’è separatezza inconcilia-bile tra il finito e l’infinito.

Anzi il finito è la manifestazione dell’infinito, ilmodo in cui l’infinito si manifesta agli esseri restandoesso stesso “nascosto”. E su questo mistero che la poesiachiama l’uomo a misurarsi. «Questa – dice Hölderlin – èla (vera) misura dell’uomo».

7.

Questa settima sezione (o capitolo) della lezione è già diper sé abbastanza estesa e densa di concetti per appesan-tirla con un commento, Ci limiteremo perciò ad alcuneconsiderazioni collaterali che possono sollecitare alcuneespressioni ricorrenti nel testo:

Sapere di tutti i giorni

Che cosa è esattamente quello che chiamiamo “sapere ditutti i giorni”? Per molti è soltanto il banale chiacchiera-

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re di cose senza importanza, su argomenti che non affa-ticano la mente ma la “rilassano”; per altri è il “buonsenso” della vita quotidiana o “ordinaria”; per altri anco-ra è un sapere di tipo “pratico”, che consiste, grossomodo, nel trovare la soluzione più adatta ai piccoli e aigrandi problemi della vita, nel senso di trarre il massimovantaggio possibile o la minima perdita; o il massimopiacere, o la minima sofferenza.

Sarebbe bene che ognuno interrogasse se stesso sucosa intende lui, in particolare, per «sapere di tutti igiorni» e magari scoprire che nessuno sa esattamentecosa si intende con questa espressione.

Anche l’insegnamento si rifà spesso a questo tipo disapere, senza sapere a cosa serve e cosa permette di cono-scere realmente.

Può essere utile, in proposito, riprendere qui alcuneconsiderazioni di uno studioso contemporaneo dellereligioni e delle dottrine tradizionali, Frithiof Schuon, ilquale scrive:

«Si dice che una parte considerevole della gioventùattuale non vuol più sentir parlare né di religione né difilosofia, né di una qualunque dottrina; che sente cometutto ciò sia esaurito e compromesso, e che è sensibilesolo al “concreto” e al “vissuto”, e anche al “nuovo”».

Se davvero fosse così, secondo Schuon si tratta diuna vera e propria “deformazione mentale”. Alla qualeegli dà queste semplici risposte:

Se il “concreto” ha valore (anche se molti ne parlanocome se la spuma fosse “concreta” e l’acqua “astratta”)non può ritenersi appagato da un atteggiamento falsocome quello che consiste nel rifiuto di ogni dottrina; enon può neppure essere totalmente nuovo. Infatti vi sonosempre state religioni e dottrine, e ciò dimostra che essefanno parte della natura dell’uomo. Egli ci ricorda inoltreche «da millenni gli uomini migliori, che non possiamodisprezzare senza renderci spregevoli, hanno affermato ediffuso delle dottrine e hanno vissuto in conformità diesse, o sono morti per esse». Non si può perciò attribuireil “male” o l’errore all’ipotetica vanità di tutte le dottrine,ma al fatto che troppi uomini, o non hanno seguito – onon seguono – dottrine vere; oppure hanno seguito – oseguono – dottrine false. Vale a dire che il male non è dacercare nell’assenza della verità ma nell’incomprensionedella verità. O dal fatto, come aggiunge Schuon, che «icervelli sono stati esasperati e i cuori delusi da troppe teo-rie inconsistenti e fallaci; che un errore multiforme, ciar-liero e pernicioso ha gettato il discredito sulla verità (finoad arrivare a dichiararla “inesistente”); la verità è semprepresente si enuncia necessariamente per mezzo di parole,ma nessuno volge ad essa lo sguardo».

Il “sapere di tutti i giorni” sembra, al giorno d’oggi,più costruito sull’inganno e sulla menzogna (la “mistifi-cazione”) che non sulla ricerca della verità autenticadelle cose: anche i così detti mezzi di comunicazione dimassa badano più a “creare la notizia” che non a “sco-prire la verità” dei “fatti” su cui dicono di credere al disopra di ogni altro “valore”.

«Troppe persone – scrive ancora Schuon – nonsanno nemmeno più cosa sia un’idea, quale il suo valoreo la sua funzione; e sono completamente lontani dalsospettare che sono sempre esistite teorie perfette e defi-nitive, quindi pienamente adeguate ed efficaci, e chenon vi è nulla da aggiungere agli antichi saggi, se non ilnostro sforzo di comprenderli».

Citiamo un’ultima frase, che può arricchire le consi-derazioni già svolte nel testo:

«Se siamo esseri umani, non possiamo astenerci dalpensare; e se pensiamo, scegliamo una dottrina»: questovale anche per chi si ostina a negare di fare riferimento auna qualche dottrina e pretende di essere “neutrale” o aldi sopra di qualsiasi dottrina. Infine, «il tedio (la noia),la mancanza di immaginazione e la presunzione infantiledi una giovinezza disillusa e attaccata solo ai beni mate-riali non potranno cambiare nulla di tutto questo».

Naturalmente noi partiamo dalla speranza che nontutta la gioventù attuale sia così: altrimenti neppurequesta lezione avrebbe senso.

8.

In questa sezione della dispensa abbiamo incontratodiversi concetti che richiedono qualche ulteriore spiega-zione. Vediamo dunque di analizzarli separatamente,uno alla volta, per poi vedere come si ricollegano tutti alfilo conduttore del nostro studio sulla poesia e sull’ope-rare poetico.

Imitazione

Una delle più antiche definizioni dell’arte, e della poesiain particolare, come “imitazione” (mimèsis) è quella cherisale a Platone, filosofo greco vissuto fra il V e il IV sec.a.C.; in uno dei suoi Dialoghi più importanti, laRepubblica, Platone afferma che la poesia è «espressionee imitazione di stati d’animo» che, per simpatia, riesce asuscitare negli altri stati d’animo simili a quelli che ilpoeta esprime; e proprio in questo consiste il suo valore“educativo”. Ma anche per Platone la poesia è validasolo se trova la giusta “misura”: essa deve esprimere lostato d’animo dell’uomo “giusto”, e può essere “forma-trice” solo se sa essere la misura di una civiltà. Se la poe-sia si limitasse ad esprimere gli stati d’animo confusi,caotici, dispersi e contraddittori di quella che egli defini-sce la “massa non filosofa” (cioè priva di vera conoscen-za) essa non solo perde il suo carattere formatore madiventa qualcosa da condannare, in quanto diseducatri-ce. In questo senso Platone condannava l’arte puramen-te “imitatrice”, quella che affidandosi a semplici artificitecnici, spaccia per vero ciò che non lo è e quindi allon-tana e distoglie dal vero. la poesia riacquista il suo enor-me valore solo quando torna ad essere espressione diuno stato d’animo “bello”; quando cioè si ispira a una“bellezza” che è strettamente legata al “bene” e al “vero”e a una “legge” che è a sua volta espressione della “luce”dell’Universo. La vera poesia, come la vera arte, dunque,non può essere imitazione delle apparenze ma deve esse-re imitazione delle “essenze”; il vero artista è colui cheimita il “demiurgo”, cioè l’artefice divino.

Apparenza

Le osservazioni a proposito dell’imitazione si ricolleganodunque al problema dell’apparenza. L’artista non develimitarsi a rappresentare ciò che appare ma deve sforzarsidi esprimere ciò che sta “dietro” o “al di là” dell’appa-renza: è vero artista (o vero poeta) colui che riesce acogliere l’essenza delle cose, il significato “profondo”delle cose che a volte è “nascosto” (cioè non è immedia-tamente visibile a tutti) e perciò va cercato e “svelato”.Questo significato si può esprimere solo simbolicamen-te, cioè mediante l’uso di “analogie” che riescano ad evi-denziare, a rendere “visibile” o comprensibile il “miste-ro” che sta dietro alle apparenze.

Mistero

La parola “mistero” deriva da una radice mu che rappre-sentava la bocca chiusa e perciò il silenzio: da questa radi-ce derivano sia il termine latino ‘mutus’ (muto) che il ter-mine greco muthos (mito); da essa derivano anche il verbogreco mueô, che significa ‘iniziare (ai misteri)’, ‘istruire’ e‘consacrare’. L’idea originaria di “silenzio”, da cui sonoderivati tutti questi termini, va riferita a tutte le cose chesono per loro natura “inesprimibili”, almeno direttamentee mediante un linguaggio “ordinario”. Ed erano proprio

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queste conoscenze “segrete” che anticamente facevanoparte dei “misteri” custoditi nei più importanti santuarigreci, come quello di Delfi e quello di Eleusi. Tali cono-scenze potevano essere in parte divulgate solo mediante i“miti”, cioè dei racconti simbolici nei quali “ciò che sidice (profondamente) è diverso da ciò che viene detto (inapparenza, nel significato soltanto ‘letterale’). Le analogiee le altre forme di metafora di cui il linguaggio poetico hacontinuato a fare largo uso derivano quindi proprio dalmito, che è una delle più antiche “forme” di espressionepoetica e a cui non a caso Platone fa continuamente ricor-so nei suoi Dialoghi filosofici. “Mito” e “mistero”, comeabbiamo visto derivano dalla stessa radice: da essa derivaanche il termine greco mustês, che originariamente signifi-cava “iniziato ai misteri” (cioè colui che possiede la cono-scenza dei misteri) e da cui poi è derivato il significato di“mistico”; anche quest’ultimo termine in origine significa-va tutto ciò che è connesso ai “misteri”, quindi all’oggettoe alla dottrina, alla sapienza che ha a che fare con essi.

Il dicibile e l’ineffabile

Le osservazioni precedenti confermano il carattere emi-nentemente “simbolico” del linguaggio poetico e lacaratteristica essenziale di questo linguaggio che è quelladi tentare di esprimere e rappresentare l’indicibile oineffabile. Ciò che il linguaggio simbolico tenta di diresembra in apparenza essere proprio “ciò che non si puòdire” e che, per sua stessa definizione, è destinato a per-manere come “mistero”, cioè come inconoscibile, e per-ciò indicibile. In realtà ciò vuol dire che del “mistero” sipossono dare immagini, rappresentazioni e concetti chepermettono di intuire la verità che esso contiene e“nasconde”, ma senza poter mai esaurire, consumare ocogliere fino in fondo tale verità. Questa difficoltà dellaconoscenza umana, che può intuire ad esempio l’infinitoma non può conoscerlo fino in fondo, è sintetizzata nel“principio” secondo cui “ciò che simboleggia non è maiil simboleggiato”. E ciò significa che il simboleggiatoresta “al di là”, oltre le possibilità indefinite e innumere-voli di simboleggiarlo, cioè di raffigurarlo. Di qui derivaanche l’inesauribilità delle forme e dei significati simbo-lici: questi hanno a che fare col “finito”, che può rappre-sentarsi l’infinito, ma non può con-prenderlo, cioè nonpuò esaurirne la profondità concettuale.

Immagine poetica e simbolo

L’immagine poetica, in qualsiasi forma sia espressa(metafora, allegoria, metonimia ecc.) è dunque sempreun simbolo, anche quando il poeta non si riconosce inuna determinata scuola poetica che si dica esplicitamen-te “simbolica”. A questo proposito può essere utile alme-no un accenno a una delle più importanti scuole poeti-che del nostro secolo, quella appunto detta del “simboli-smo poetico”: ad essa facevano riferimento poeti moltoimportanti come i francesi Verlaine, Baudelaire eRimbaud, l’irlandese Yeats, e altri poeti altrettantofamosi e citati in tutte le antologie scolastiche (v. ancheil testo adottato). Allorché leggeremo e commenteremodelle poesie di questi autori avremo modo di sottolinea-re come il loro linguaggio abbia a che fare con un “sim-bolismo che cerca”, piuttosto che con il “simbolismoche sa”, e preciseremo meglio questi due concetti. Qui èsufficiente sottolineare come il linguaggio poetico nonpossa fare a meno dei simboli, anche quando non si rife-risca espressamente a una tendenza detta “simbolica”.

Ombra e luce

Nei versi di Hölderlin commentati in questa sezione si faun uso simbolico dei concetti di “ombra” e di “luce”.

“Ombra” ha a che fare con “notte”, ed è quindi sinoni-mo di “oscurità”; ancora oggi noi diciamo “oscuro” qual-cosa che non si comprende e talvolta ciò che chiamiamooscuro ha a che fare con un mistero indecifrabile.Hölderlin tuttavia ci suggerisce l’immagine di un’om-bra–notte che non è tenebra se è rischiarata dalla lucedelle stelle: più scura è la notte e più limpidamente visi-bili (se il cielo non è coperto da nubi) appaiono le stelle.

Anche se Hölderlin non lo dice esplicitamente vieneda pensare al carattere “divino” che gli antichi attribui-vano alle stelle e a tutti i segni astrali, naturalmente inmodo simbolico e non letterale: di qui deriva anche l’a-bitudine linguistica a considerare il “cielo” sinonimo del“divino”, anche in un’epoca come la nostra in cui la fisi-ca moderna ha dimostrato che il cielo è l’atmosfera, cheal di là dell’atmosfera c’è lo spazio e che distanze incol-mabili ci separano dai “corpi” celesti disseminati nelcosmo. Ma se consideriamo il significato simbolico degliastri nessuna scienza potrà mai riuscire a dimostrare che,per l’uomo, essi debbano essere soltanto “corpi” mate-riali: dal punto di vista simbolico essi restano e resteran-no sempre “immagini” di qualcos’altro; basta pensare acome i poeti di tutti i tempi hanno “cantato” e conti-nuano a cantare il “corpo” celeste più vicino alla terra(tanto che è a portata dell’uomo che vi è “allunato”);neppure questa che potremmo chiamare “violazionesimbolica” della luna può impedire ai poeti di continua-re a considerare la luna come simbolo e non come aridasuperficie su cui effettuare degli “esperimenti” che amolti sembrano inutili.

Così è per l’ombra e per la luce: anche dopo che lascienza moderna li ha “ridotti” a puri concetti di ordinefisico o materiale, la poesia continua a considerarli sim-boli di qualcosa che ha eminentemente a che fare con lanatura dell’uomo: la conoscenza e la non conoscenza, lavita consapevole e l’esistenza che trascorre nelle “tene-bre” dell’ignoranza, l’umanità e la disumanità, o – comedice Hölderlin – l’abitare poetico e il non-abitare del-l’uomo, quando esso ha smarrito la “misura” che loricollega al cielo, cioè al divino, poiché tale misura nonpuò essere trovata se si considera solo la terra e la si cercasoltanto sulla terra.

Architettonica del cielo

Nel commento di Heidegger ai versi di Hölderlin abbia-mo letto che quando l’uomo si limita ad “organizzare” ilsuo abitare in senso solamente “pratico” o “materiale”,in realtà egli non abita: ovvero abita la terra in un modoche è esattamente il contrario del significato autenticodell’abitare. Questo, come abbiamo visto, ha a che farecon l’opera formatrice ed elevante della poesia in quantopòiesis, formazione, creazione, vale a dire dell’operare nelsenso completo ed eminente, che ha sempre a che farecon la conoscenza, e non soltanto con il puro “istinto”animale di sopravvivenza. Possiamo intendere questopasso importante nel senso che chiunque si limita aseguire esclusivamente il puro istinto di sopravvivenza“passa” nel mondo senza realmente “abitarlo”, senzacioè comprendere il senso profondo della vita umana edella sua condizione “centrale”, in vista di qualcosa cheva oltre l’esistenza terrena del singolo essere umano.Possiamo anche dire che la vita serve all’uomo soprattut-to per meditare sul “mistero” di questo “qualcosa” cheva oltre la sua semplice esistenza terrena e che soltantomeditando in questo senso l’uomo ritrova la giusta“misura” per elevarsi verso il cielo, e di potersi chiamare– come dice Hölderlin – “immagine della divinità”.

In questo senso l’architettonica del cielo corrispondealla “verticalità”, alla misura dell’asse che unisce cielo eterra: ed è da intendere non solo come “misura” o puntodi vista, ma anche come “via” per elevarsi alla conoscen-za della verità. I veri poeti sono allora quelli che percor-

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rono in qualche modo questa via, e percorrendola aiuta-no anche gli altri a scoprirla. È questo il significato daattribuire all’espressione di Hölderlin quando affermache il poeta cerca la misura “per la disposizione struttu-rata dell’abitare”: disposizione “strutturata” rimanda aun atteggiamento di coscienza e di consapevolezzariguardo al “senso” da dare all’esistenza; quindi si oppo-ne a tutto ciò che richiama il disordine, la disarmonia,l’insensatezza, la superficialità, la banalità e l’inutilitàdell’esistenza quando essa non è “rischiarata” dalla“luce” di una giusta “misura” dell’abitare.

La “favola” come “visione poetica” della storia

L’architettonica del cielo viene definita anche come“visione poetica della storia”. È abbastanza evidente chequesta visione della storia si oppone a quella “pratica” opuramente “cronachistica” che spesso ci propongono itesti scolastici: un accumulo di eventi, di fatti e di perso-naggi legati tutt’al più da un rapporto di causa–effetto,che non sempre è possibile verificare con sicurezza; poi-ché i “fatti” storici a volte sembrano accadere per unasorta di cieca casualità e senza che gli uomini abbianoun ruolo decisivo nei loro accadimenti. Hölderlin, nellasua lettera del 12 marzo 1804, dice che la sua “visionepoetica della storia” non è nient’altro che quella che disolito caratterizza la “favola”.

La storia assume nella favola un valore “esemplare”;tale valore è collocato al di fuori e al di sopra del tempo,in una dimensione cronologicamente indefinibile che èespressa nel ricorrente “c’era una volta” con cui inizianole favole. Ma come abbiamo visto l’anno scorso, affron-tando l’argomento della favola e del suo profondo lega-me con il mito, il significato della favola va spesso al dilà del significato letterale: la favola, come il mito, tra-smette a chi l’ascolta o la legge un significato simbolico.Ci sembra perciò corretto attribuire alla definizione diHölderlin una equivalenza di significato dell’aggettivo“poetico” – riferito alla storia – con l’aggettivo “simboli-co”, e affermare che il poeta dichiara di propendere peruna visione simbolica della storia.

Sicuramente ci è già capitato di leggere o di accen-nare, sia nel corso di queste lezioni sul significato dellapoesia che durante le ore dedicate allo studio della sto-ria, alla ferma convinzione espressa dai filosofi antichi(Platone e Aristotele in particolare) circa l’incapacitàdegli uomini di affezionarsi a qualsiasi “sapere” o cono-scenza, se da quest’ultima viene tolto il “meraviglioso”: ècome se essi affermassero che la riduzione di un qualsiasicampo della “conoscenza” a un arido elenco di dati e dinotizie finisce per allontanare dalla voglia di conoscere edi “intendere” (comprendere). Questa convinzione degliantichi filosofi sembra pienamente confermata dal modo“annoiato” o disinteressato con cui molti giovani di oggiaffrontano lo studio delle varie “materie” o “discipline”,soprattutto quando hanno la sensazione che esse nonveicolino un sapere “vivo” ma siano soltanto un insieme(o una “massa”) di nozioni morte, da accumulare nellamemoria solo in vista di una momentanea “verifica”finalizzata a una “classificazione” espressa mediante unnumero chiamato “voto”. Avremo sicuramente ancoraoccasione di riparlarne: ciò di cui possiamo essere certi èche raramente i “saperi” moderni (quelli che la scuolacerca soprattutto di trasmettere, a volta senza approfon-dire la distinzione essenziale che bisogna fare fra essi e i“saperi” antichi, ma anzi dando per scontato che il pen-siero “moderno” sia “migliore” o più “saggio” o più“intelligente” rispetto a quello degli antichi) ci appassio-nano e ci attraggono allo stesso modo in cui ci appassio-nava, da bambini, il racconto delle favole, proprio perquel tanto di “meraviglioso” che in esse avvertivamo,anche quando non eravamo in grado di capirne a fondoi più profondi significati simbolici.

Hölderlin, che è un poeta “moderno” ancora pro-fondamente legato al pensiero e alla profonda saggezzadegli antichi, ci ricorda che per abitare “adeguatamente”il mondo l’uomo non può fare a meno del “meraviglio-so”. E che anzi, la perdita del meraviglioso rischia didiventare perdita del senso della storia, oltre che delsenso più autentico della poesia.

9.

Il commento a questa nona sezione è dedicato a duepassaggi fondamentali del testo di Heidegger: dalla lorocomprensione infatti dipende la capacità di “attualizzar-lo”, di renderlo cioè adeguato a una più attenta consa-pevolezza di alcuni tratti essenziali che caratterizzano ilnostro tempo che, non dimentichiamolo, trae una par-ticolare valenza simbolica dal fatto che ci troviamo allafine di un millennio e, conseguentemente, alle soglie diun nuovo “ciclo” del tempo. Nel corso delle lezionidedicate allo studio della storia abbiamo accennato adue diverse e contrastanti concezioni del tempo “stori-co”: quella “lineare” a cui si rifanno le compilazionidegli storici “moderni” e quella appunto “ciclica” a cuisi ispiravano gli antichi e alla quale fanno ancora riferi-mento coloro che si richiamano a un sapere “tradizio-nale”. Nell’ambito della cultura occidentale questosecondo modo di considerare la storia appare decisa-mente minoritario: esso viene liquidato come “nonscientifico” da tutti quegli storici “accademici” che siritengono in qualche modo i soli depositari di una pre-sunta “scienza storica” i cui “fondamenti” variano aseconda dei presupposti soggettivi, oppure riferiti a unadeterminata “scuola” o “corrente”, che magari li assumecome “oggettivi”. Le riflessioni più attendibili sulla“storiografia” moderna non mancano di evidenziare ilricorso a categorie tipicamente “moderne” nei tentatividi spiegare fatti o processi storici di un passato più omeno lontano e talvolta arrivano a mettere in discussio-ne la loro validità “ermeneutica” (la loro capacità dispiegare veramente i fatti della storia): e su questo“sospetto” basano i dubbi e le riserve circa la “scientifi-cità” dei criteri generalmente adottati dalla storiografiamoderna.

Si continua a sostenere che la comprensione del pre-sente e la relativa possibilità di intravedere qualcosa deifuturi sviluppi – quando non ci si rassegna ad attribuire i“fatti” alla casualità degli eventi e alle congetture del cal-colo delle probabilità – dipende dalla comprensione delpassato: ma non si riflette abbastanza sul fatto che il pas-sato sfugge quasi completamente ai tentativi di “spiegar-lo” in base a categorie, modi di pensare e veri e propripregiudizi che appartengono esclusivamente alla cosid-detta mentalità moderna; e che quindi sono completa-mente estranei alla mentalità “tradizionale”, cioè propriadi civiltà che ancora oggi vi fanno in qualche modo rife-rimento così come accadeva anche per l’Occidente finoal Medio Evo. Talvolta si ha l’impressione che gli storicimoderni ricostruiscano fatti e processi relativi al passatocome se volessero insegnare agli antichi il giusto modo diintendere la storia e diano per scontato che essi non lacapivano. Laddove si tratta, invece, di un modo comple-tamente diverso, e per certi versi opposto, di concepire einterpretare i fatti storici: per gli antichi valeva soprattut-to la “qualità” simbolica dei fatti; i moderni invece attri-buiscono una importanza quasi sempre esclusiva a unapretesa natura “nuda e cruda” del fatto che di per sé nonsi può decidere senza tener conto dei presupposti sogget-tivi a cui abbiamo accennato.

Non potendo approfondire oltre l’argomento inquesta sede ci limitiamo a tenere presente questa diffi-coltà di comprensione circa il modo giusto di stabilire larelazione fra passato e presente e, in particolare, framentalità antica (o tradizionale) e mentalità moderna; il

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riferimento a tale difficoltà può servire a comprenderemeglio i passaggi del testo che vogliamo qui analizzare:

Un pezzo di legno non può mai diventare cieco

L’uomo, come sostiene Heidegger, può diventare“cieco” (in senso metaforico) solo se prima non lo era;oppure si può considerare “cieco” chi, rispetto ad altriche vedono normalmente, non vede abbastanza o non civede affatto. Rispetto al senso in cui viene usata qui lametafora, un abitare “ciecamente” il mondo si può indi-viduare solo rispetto a un abitare che si ritiene “corret-to”: e questo corretto abitare si identifica nell’abitarepoetico. Quest’ultimo modo dell’abitare viene perciò acoincidere con l’abitare “vedendo”: e il vedere si ricon-nette al simbolismo già considerato della “luce”, che èsinonimo di “conoscenza” e di consapevolezza. Possiamoperciò anche dire che l’abitare “vedendo” coincide con ilvivere nella consapevolezza di ciò che significa vivere.

Il significato del vivere non può essere soltanto frut-to di una libera scelta individuale poiché questa è spessofortemente condizionata dalle idee dominanti di unadeterminata epoca: c’è in ogni epoca un “conformismo”che coinvolge in misura maggiore o minore la “massa”degli individui che in questa epoca vivono, così come cisono fenomeni di “anti-conformismo” che caratterizza-no un numero più o meno grande di individui che sioppongono, o credono di opporsi, alle “idee dominanti”di una data epoca o di una data società. Risulta da ciòinevitabile che, per rendersi conto delle caratteristichepiù significative di una determinata epoca, occorre cer-care di individuare le idee o tendenze dominanti o pre-valenti e, a partire da queste, definire gli atteggiamentiche vi si conformano o che appaiono in qualche misura“trasgressivi” rispetto alle “norme” stabilite.

“Aprire gli occhi”, in senso metaforico, ha sicura-mente a che fare con questo tipo di consapevolezza ocoscienza; al contrario, non rendersi conto di un deter-minato modo di vivere e dei valori o principi (veri ofalsi) ai quali questo modo di vivere si rifà, può essereconsiderato un modo “cieco” di esistere; nel senso,appunto di “inconsapevole”. È proprio questo tipo di“cecità” che sta alla base dell’abitare impoetico di cui siparla nel testo. Nel quale assume particolare rilievo l’esi-genza di definire anche, o soprattutto, la “verità” o la“falsità” dei criteri dominanti (princìpi, valori, norme eregole di comportamento) a cui si conforma una deter-minata epoca o “civiltà”. La “verità” dei principi riguar-da ovviamente la loro adeguatezza a quella norma fon-damentale del vivere umano che qui viene definita comel’abitare poetico dell’uomo sulla terra.

L’impoeticità dell’abitare come esito di un eccesso

Abbiamo visto che Heidegger fa risalire le cause dell’abi-tare impoetico, più che a una “mancanza” a un “ecces-so”.

Quel “sapere comune” di cui abbiamo cercato inprecedenza di comprendere i tratti più tipici propendead attribuire la ragione di un vivere insoddisfacente alla“caduta” o all’assenza di valori. Heidegger ci pone difronte a un paradosso: cioè a un modo di considerare lecose che suona esattamente il contrario di quanto comu-nemente si ritiene. Ci dice infatti che l’impoeticità delnostro vivere dipende da un eccesso e non da una man-canza. E tale eccesso riguarda una “furia misurante e cal-colante” che sembra caratterizzare soprattutto l’epoca incui viviamo.

Altri studiosi (in particolare quelli che si rifanno auna tradizione di pensiero talvolta definita comeFilosofia Perenne) hanno suggerito, per inquadrare l’e-poca moderna, la definizione di “regno della quantità”,evidentemente contrapposto a quello che dovrebbe esse-re il vero “regno” dell’uomo, cioè quello della qualità.L’eccesso di misura e di calcolo di cui parla il filosofo vasenz’altro riferito a questo eccesso di “quantità” chesembra caratterizzare la nostra epoca, di cui abbiamo giàfornito qualche esempio: si tratta di un senso del vivereriferito più all’avere che non all’essere, più al possedere chenon al dare e quindi fondato più sull’attrazione esercita-ta dai così detti “beni materiali” che non dall’intenzionedi “misurare” la propria vita in base a valori spirituali.Da più parti infatti si lamenta la “caduta” dei valori spi-rituali a cui fa riscontro un’ascesa (fino a poco tempo fapercepita come “crescita indefinita”) dei “livelli” mate-riali dell’esistenza.

In tutti i principali fenomeni che caratterizzano laconsapevolezza della “crisi” o delle “arretratezze” delnostro tempo possiamo scorgere questo eccesso di furiacalcolante di cui parla Heidegger: il calcolo del profittomateriale che si può trarre da una determinata intrapresasovrasta sempre il calcolo delle perdite umane che essacomporta: così è non solo per la guerra, per gli inquina-menti e i disboscamenti sconsiderati ma anche per la“normale” produzione di merci e in generale per unsuper- sfruttamento delle risorse naturali che sembrafinalizzato più ad alimentare le macchine che non gliuomini, dal momento che la stragrande maggioranzadegli uomini patisce la fame e la malattia molto più diquanto non avvenisse in passato. La sproporzione stessadello incremento demografico che caratterizza gli ultimidue secoli, quelli della “modernità dispiegata”, ci apparecome un fenomeno in cui la quantità prevarica la qualitàe impedisce l’accoglimento di un criterio spontaneo diregolazione che invano si tenta di imporre soprattutto aquella maggioranza di umanità esclusa di fatto dal con-sumismo ma che sembra irresistibilmente attratta daquesto abnorme “sistema” di vita.

Il fatto che tutto ciò sia stato definito nel testo “unaltro problema” non significa quindi che non sia il pro-blema con cui dobbiamo fare i conti, anche volendoparlare esclusivamente dell’operare poetico che l’uomosembra aver smarrito.

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MondanitàLuciana Floris

riesco a sbarazzarmi dei suoi libri, a libe-rarmi di questa voce implacabile che lipercorre. È una voce che richiama la miavoce, le dà il la. Ho l’abitudine di scrivere,a matita, sulle pagine bianche che si trova-no in fondo ai libri e che purtroppodiventano sempre più rare – perciò sonograta ai libri che serbano diverse paginecandide. Vede, alla fine, i suoi libri sonotutti scritti». E concludevi: «Se un giornocapitasse nella mia città, mi farebbe piace-re fare una chiacchierata-intervista».Sapevi che sarebbe capitato, presto.

Infatti, passata l’estate, hai letto l’annun-cio della conferenza. L’hai annotata sull’a-genda, e ti sei presentata puntuale all’oraindicata.Ora lo segui mentre attraversa la sala,

insieme all’organizzatrice di Parole inBiblioteca, con la sua sacca sulle spalle.L’ha posata in un angolo, sul pavimento,ha spostato il vassoio con la bottiglia d’ac-qua e i bicchieri prima di prendere posto.Dunque è proprio lui, hai pensato.La moderatrice ha fatto le presentazio-

ni di rito. Una giovane professoressa haricordato le prime opere dello scrittore,ripercorso il suo excursus letterario, evi-denziato i motivi della sua poetica. Efinalmente gli hanno dato la parola.Si è avvicinato titubante al microfono,

si è schiarito un paio di volte la voce, hafatto delle prove cercando una comunica-zione con le facce che gli stavano davanti.Io... sono molto impressionato da ciò che èstato detto. Francamente non ricordavo nep-pure di aver scritto così tanto... Esita, abbas-sa lo sguardo, avvicina il microfono,riprende. Cercherò di parlarvi apertamente,poiché ho deciso di fare della rivelazione un

Dice: la scrittura per me ha un’uti-lità pratica, è come una bicicletta,come un microfono. Con le parole

faccio delle cose, sono atti linguistici.Abbassa lo sguardo, fissa un punto precisodel tavolo, lo indica col dito. Forse è unnodo, o una venatura del legno. Qualcosadi infinitamente piccolo, come le scheggedi vetro o le nervature delle foglie. È que-sto che gli interessa raccontare. Poi rialza ilviso, guarda verso il pubblico, riprende:tento di conservare la memoria, di trattenereciò che passa.Sei arrivata puntuale, all’ora indicata.

All’ingresso della sala ti è sembrato diriconoscerlo, intento a parlare con alcunepersone. E tuttavia non sei sicura, haivisto soltanto qualche foto sui giornali,hai paura di fare una gaffe. Così hai cerca-to un posto fra il pubblico che è giànumeroso. Ti sei seduta in terza fila, trauna signora dai capelli bianchi che sospiramentre guarda l’orologio, e un signore chelegge attento il giornale e da lì, ogni tanto,ti volti, perché la conferenza tarda acominciare, lo cerchi con lo sguardo epensi, sì, deve essere lui. Pensi anche che,comunque, è meglio avvicinarsi dopo, l’e-sperienza ti dice che è sempre megliodopo, quando tutto è finito, la tensione siè sciolta, la sala si è svuotata.Nella borsa hai messo i suoi libri, e la

recensione uscita qualche mese fa.Gliel’hai mandata, accompagnata da unbiglietto che diceva press’a poco così: «Ingenere, scrivere una recensione serveanche a chiudere con una lettura, a mette-re il libro nello scaffale e dimenticarlo,archiviandone il contenuto in qualcherecesso della memoria. Ma, vede, io non

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metodo. Non mi interessa costruire la tramache avvince, produrre la bella pagina. Nonmi interessa inventare, non ne sono capace.Mi interessa raccontare storie vissute o cono-sciute, far esistere la lingua, farla funzionarebene, darne un’esecuzione autentica. Iovoglio bene alla mia lingua così come vogliobene al mio corpo...In sala c’è un silenzio teso. La signora

coi capelli bianchi prende appunti condiligenza. Il signore che leggeva il giornalelo ha piegato in quattro e ora lo tiene sulleginocchia, mentre ascolta con attenzione.Certo ci vogliono tempi lunghi, continua loscrittore, perché possa riconoscermi nellapagina: un racconto può avere anche unagestazione di quattro o cinque anni. Seviene velocemente c’è da diffidare. La scrit-tura è l’esatto opposto della conversazione, lapagina deve essere meditata. Come dicevaMaria Zambrano, si scrive perché si sta inuna solitudine comunicabile. È qui, in que-sto abbinamento inconsueto fra solitudine ecomunicazione, che si gioca la scommessadella mia scrittura.Durante la presentazione hai cercato di

non applaudire; ora lo fai piano, di nasco-sto, dietro le spalle dei vicini, vergognan-doti un po’. Ricordi le parole di un rac-conto: non battete le mani, stupidi, come sibattono le mani al circo. Non ho dato unospettacolo di bravura. Ho esposto un senti-mento, una parte di me. Mi sono messo arischio. Non voglio una risposta inarticolata,un applauso. Esigo un silenzio, una memo-ria, una digestione.Ecco, volevi digerirle quelle parole,

non applaudire, ma andare via fra lagente, uscire dalla sala e poi camminareper le strade. Camminare e digerire leparole, rimuginarle, assimilarle. Invece,aspetti, al tuo posto, che la sala si svuoti.Devi vincere la tentazione di andare via,di guadagnare l’uscita, di sparire nel buio.Alcune persone fanno la coda per avere unautografo. Ti avvicini al tavolo, e intantosegui la mano che traccia in bella grafiauna dedica sulle pagine iniziali: non arrivia leggere, questo no, vedi solo il disegnodelle parole, il loro disporsi armonico sulbianco. Dopo l’ultima stretta di mano, iltuo sguardo incontra per una frazione disecondo quello dello scrittore. Forse capi-

sce che non chiedi un autografo, perché sipreoccupa subito di restituire la penna chegli hanno prestato. Quando riporta losguardo su di te, gli porgi la mano e tipresenti, chiedi se ha ricevuto la recensio-ne al libro.Lui fa qualche passo, esce da dietro il

tavolo che vi separa. Sì, mi ricordo, eramolto accurata; purtroppo ho perso la bustacon l’indirizzo e non ho potuto neanche rin-graziare. Tu dici subito, oh, non importa,sentendo chiaramente di mentire. E poiaggiungi: mi piacerebbe farti qualche do-manda per il mio giornale, se non sei troppostanco; non vorrei abusare della tua pazien-za. Lui guarda la sala ormai deserta, le filedi sedie vuote. Andiamo via di qui, dice,andiamo fuori. Così superate l’ultimo ca-pannello di persone che si attardano all’u-scita: di passaggio lui comunica all’orga-nizzatrice mi prendo dieci minuti di libertà,e scivolate fuori.Tu dici, in uno slancio di complicità,

ho cercato di applaudire il meno possibile.Lui sorride: ho scritto quelle pagine primadi iniziare a pubblicare, avevo già immagi-nato tutto. Ora camminate lungo la viache a quest’ora è buia e trafficata, entratenel primo bar. Tu avresti voluto un caffèpiù tranquillo dove poter parlare, lì nonc’è neppure un tavolino per sedersi. Malui dice, con l’aria di un animale bracca-to, purtroppo non ho molto tempo, loro miaspettano, mi stanno alle costole. Tu perònon rinunci, e mentre davanti al banconedel bar sorseggiate due aperitivi, azzardiqualche domanda. Non puoi usare il regi-stratore e allora ti affidi alla macchinadella memoria, speri nel suo buon funzio-namento. Così, mentre la cassa tintinna eil barista lava le tazze, cominci: nel tuomanifesto letterario hai parlato di un sognodi dominio della lingua. Non credi inveceche sia la lingua a dominarci? Lui ascoltaattento, ti fissa con occhi curiosi. Poi di-ce, in tono ironico: io ci provo. So benissi-mo che questa lingua viene da fuori, è unalingua altra rispetto a me. So che c’è unacontraddizione, ma voglio mantenerla per-ché può essere produttiva. Intorno c’è unvocio confuso, un viavai di persone. Equali sono i tuoi autori? Chiedi ancora. Ipoeti, prima di tutto. Se qualcuno la legges-

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Ora cammina davanti a voi, ritmando ipassi spediti con l’ombrello che picchiettasull’asfalto a segnare il percorso. Tu dicipiano, no, io non vengo. Prevedi la seratamondana, le chiacchiere inutili. Comun-que sarò qui anche domani, dice lo scrittore.La mattina devo andare a Roma, ho dimen-ticato orologio e agenda alla casa editrice;l’orologio non ha importanza, l’ho trovatonel fustino del Dixan, ma dell’agenda hobisogno. Forse domani pomeriggio avrò unpo’ di tempo. Ha tirato fuori dalla saccauna rubrica e ha scritto il tuo numero.

Prima andiamo a casa mia a prenderel’auto – dice intanto il signore in doppiopetto blu voltandosi – io non vengo maicon l’auto in centro, preferisco camminare,abito di là dal fiume. Tu pensi, io viaccompagno soltanto per un tratto, oppurenon pensi niente e ti lasci andare al piace-re di attraversare la città. Così lo seguite,

se scriverei poesia. Invece, fra i prosatori cheoggi hanno la mia età, trovo che ci sia unaterrificante mancanza di riflessione. Nonfanno che discutere di questioni editoriali,di soldi, e le domande fondamentali sonoeluse. Nessuno si pone la domanda piùimportante, nessuno chiede mai perché siscrive.Siete usciti dal bar per tornare verso la

biblioteca. E il tuo diavolo, insisti nel fra-stuono del traffico, sei riuscito ad allonta-narlo? Lui sorride, dice forse, ma i diavoliritornano sempre. Ci sono soltanto liberazio-ni momentanee.Davanti alla biblioteca c’è un signore

dall’aria distinta, capelli grigi e abito adoppiopetto blu. Hanno chiuso tutto, nonc’è più nessuno. Ora ci aspettano a cena. Erivolto a te: venga con noi. Tu esiti, e luiripete, con gentilezza imperativa: vengacon noi, è la benvenuta.

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Bruno Pittau,How, 1985,tecnica mista,cm 70 x 50

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Brizzi che sto leggendo anche se mi fa solovenir sonno e un telefono cellulare che nonso ancora far funzionare e che possiedo dadue giorni insieme a mio fratello, col risul-tato che io ricevo chiamate per installaretubi e lui inviti per tenere conferenze. Eccocosa succede quando non si riesce a viverepiù nella propria casa. Ecco cosa succedequando si entra con leggerezza nella casadegli altri. Poi conclude, in tono giocoso:organizzeremo un tentativo di fuga.Complice di future evasioni, tu rispondi:sarà necessario.E mentre tutti intorno chiacchierano

animatamente, muove qualche passo sultappeto immenso e persiano, incerto sulladirezione da prendere, fa un gesto con lebraccia come qualcuno che annaspi nell’a-ria, e con uno sguardo carico di sgomento,dice sottovoce, ho bisogno di dieci minutidi solitudine, ed esce dal salone.Poco dopo qualcuno nota la sua assen-

za. Lo scrittore non si sente bene? ti chiedecon aria preoccupata. No, aveva solo biso-gno di prendere una boccata d’aria, dici intono rassicurante, per proteggere la suasolitudine, per salvarla. E intanto senti icommenti: com’è carino, lo scrittore, conquell’aria disorientata, con quello sguardosmarrito e la sua sacca da vagabondo...Forse è una sacca magica, dice una voce.Ricorda proprio Raymond Chandler, fa ecoun’altra. Ma tu sei stata alla presentazionedel libro? No, ma pare che lui sia propriobravo, ho sentito che è stata un’iniziativacosì carina... Lei c’è stata? Ti chiede qualcu-no. Anche lei viene da Trieste? È Arianna,la persona cui è dedicato il libro? Sorridi,dici no, non sono Arianna.

Forse ci voleva una serata diversa, perlui, fa eco l’organizzatrice di Parole inBiblioteca, una cena con pochi intimi, gio-vani, persone della sua età... Ma eccolo cheritorna... facciamogli posto lì, sul divano,teniamolo fra noi.Lo scrittore attraversa il salone e l’or-

ganizzatrice gli fa un cenno con la mano.Lui obbedisce, si siede nel posto indicato.Ti senti bene? ti capisco, devi essere un po’stanco, avevi certo bisogno di una giornatapiù rilassante, e invece... ora ti presentol’assessore alla cultura, poi ti lascerò tran-quillo, te lo prometto. Assessore e moglie

docili, a una certa distanza, e cercate diparlare nel frastuono del traffico. In questacittà non si può parlare, stai dicendo ora. Èuna questione di volumi, i rumori rimbom-bano nelle vie strette, fra i palazzi medioe-vali... Lo scrittore annuisce. Anch’io vivoin una città impossibile. Ma forse proprioper questo, per la sua invivibilità, la città èpresente nella mia scrittura.Attraversate il fiume, e il signore in

doppiopetto blu vi guida ancora per certestradine, fino a quando si ferma dicendo,ecco questa è la mia auto. Ora è troppotardi per tornare indietro, allora dici,magari vengo con voi... Lo scrittore ti pren-de sottobraccio e ti spinge a sederti davan-ti; lui si rannicchia sul sedile posteriore esta lì, assorto, mentre l’auto scivola attra-verso la campagna. Percorre una stradasterrata che sale sulle colline, tutt’intornosi vedono sagome scure di alberi e le lucidella città sempre più lontane. Questa èuna zona di ulivi, qui si fa l’olio buono,dice il signore in doppiopetto blu, qui sipuò andare direttamente al frantoio a pren-derlo e altre amenità sulla campagna.Finché arriva davanti a un casolare e par-cheggia in uno spiazzo illuminato.C’è una signora sorridente che vi atten-

de all’ingresso, dev’essere la padrona dicasa; vi stringe la mano per darvi il benve-nuto e vi introduce in un grande salone.Alcune persone si aggirano tra i divani,altre chiacchierano sedute fra i cuscini,mentre camerieri in livrea passano a servi-re un aperitivo. Alle pareti ci sono quadrienormi, scene di vita campestre di stileottocentesco. Lo scrittore posa la sacca inun angolo, si fa avanti verso il centro dellastanza, stringe delle mani mormorandoqualche parola, poi ti rivolge uno sguardosmarrito. Più che smarrito: incredulo, stu-pefatto. Sembra un museo, dice. Com’è pos-sibile che questo ambiente esista ancora, cre-devo che fosse scomparso, che l’ottocento fossedefinitivamente concluso e invece all’im-provviso eccomi dentro, in questa società chepensavo non esistesse più. Com’è possibile chemi trovi fra signore in tailleur, signori insmoking e camerieri in livrea, io con la miamaglietta, le scarpe da barca e la mia saccada viaggiatore dove ci sono soltanto due paiadi calzini e di mutande, l’ultimo libro di

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Tu sei seduta su un divano più in là enon riesci a seguire la loro conversazione.Intanto parli: con un architetto chelamenta il peso della tradizione sulla città,con una professoressa di lettere che inse-gna in un Istituto Tecnico, con un’opera-trice sociale che lavora in un centro perportatori di handicap ed è molto stressatadal suo lavoro.Per caso, lasci il tuo posto nel momento

in cui si alza anche l’assessore alla culturaed ora, mentre vi avviate insieme al buffet,chiede, lei scrive per il manifesto? Tu annui-sci. Allora c’è da aver paura... sono tutti così,i giornalisti del manifesto, molto carini edolci in apparenza, poi quando scrivono c’èda aver paura! Dice così e scivola via, versoi vassoi dei dolci: sformato di marroni,tiramisù, flan, torta al cioccolato...Mentre torni nel salone incroci lo

sguardo dello scrittore: si è staccato dalgruppo col pretesto di servirsi il dolce, eora ti viene incontro. Ti prende sottobrac-cio come se cercasse la tua complicità perfuggire. Vieni un attimo di là... Nonimmaginavo niente del genere... tutti si sen-tono in dovere di farmi i complimenti,eppure non c’è quasi nessuno che abbia lettoil libro, ma datevi una calmata, dico io... Epoi c’è una tale inflazione di carino... anzi,carinissimo! Possibile che sia così la vita cul-turale di questa città?Finalmente uno spazio in cui parlare,

pensi tu. In quell’angolo del buffet dove visiete rintanati, dici, Questa è una città cheha un’apparenza di falso cosmopolitismo, cisono molti stranieri, ma in realtà non fannoche passare, gli abitanti formano delle cer-chie chiuse dove la cultura è museificata,imbalsamata. Per fortuna esistono anche deigruppi al di fuori degli spazi istituzionali...Ma ecco l’organizzatrice di Parole in

Biblioteca. Seguita da alcune persone:entra nella stanza con occhi che cercano equando vi vede si avvicina, fa il gesto diabbracciarvi. Come sono carini, questi mieinuovi amici! Esclama. Ecco, volevo presen-tare allo scrittore il professore e sua moglie...Un signore dai capelli grigi si avvicina,seguito dalla consorte. Molto lieto di cono-scerla, non ho ancora letto il suo libro, ma loleggerò di certo, intanto volevo farle i com-plimenti, lei è così giovane...

si avvicinano, stringono la mano delloscrittore, si complimentano con lui.Congratulazioni, così giovane... L’assessoreè un uomo sobrio, di poche parole, glibasta qualche minuto di conversazione.Sua moglie, invece, è più curiosa. Si siedesul banchetto accanto allo scrittore, sisporge verso di lui. Mi chiedevo se... vede,io lavoro in un centro per portatori di han-dicap, e c’è un racconto nel suo libro chemi ha particolarmente colpito, quandoscrive che... La moglie dell’assessore siavvicina al viso dello scrittore, gli soffiaparole in faccia, il tono si fa più sommes-so e quasi intimo, e tu non riesci più asentire quel che dice.Intorno, le persone, per lo più disposte

a coppie, parlano animatamente fra loro.Gli uomini hanno un bicchiere in mano euna sigaretta nell’altra, le donne ostentanomani e polsi ingioiellati. Tutte le signoreportano la gonna, e si vede che la portanocon piacere; perché quando affondano neidivani e accavallano le gambe – tutte lesignore hanno le gambe accavallate – lagonna sale scoprendo le cosce, lunghecosce inguainate nelle calze nere, setose, oin quelle chiare a rete. Sembra che si com-piacciano di quella carne esposta, e nessu-na afferra un lembo della gonna per cerca-re di coprirsi, nessuna ha un gesto dipudore.Anche la padrona di casa porta una

gonna corta e mostra le gambe nude, vela-te di nero. Ora viene ad annunciare che lacena è pronta: È la stessa che vi ha accol-to: ha capelli di un biondo finto e vesterigorosamente di nero, con un decolletéche mostra l’abbronzatura da lampade eun grosso collier d’oro.Lo scrittore si è liberato della moglie

dell’assessore, si è servito un piatto di can-nelloni al ragù – ma i camerieri consiglia-no di gustare l’olio novo, sui fagioli o sulfarro in insalata – ed è tornato a sedersinel salone. In un attimo tutti gli sonointorno, seduti vicino. Lui cerca di man-giare, riesce appena a deglutire qualcheboccone tra una domanda e l’altra. Glialtri ormai hanno i piatti vuoti ma non simuovono, forse non vogliono perdere ilposto, è davvero un posto privilegiato persentire quel che dice lo scrittore.

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Ritorni nel salone. Qualcuno chiede:ma dov’è lo scrittore? Non sono ancora riu-scita a parlarci... Qualcun altro, rassegna-to, va a sedersi davanti al televisore chetrasmette uno spettacolo di varietà. C’èanche il signore in doppiopetto blu, siste-mato proprio davanti allo schermo, legambe allungate su uno sgabello.È passata la mezzanotte, ma lo scrittore

è ancora circondato da un gruppo di per-sone. Ogni tanto si alza, cerca le sigarettenella sacca, ritorna a sedersi più in là, suun divano vuoto, ma lentamente è dinuovo accerchiato, sembra che ci sia unastrana legge per cui i posti vuoti accanto alui tendono subito a riempirsi. La padronadi casa sta dicendo, certo è davvero insolitoche uno scrittore metta il suo indirizzo pri-vato proprio all’inizio del libro. Ha ricevutomolte lettere? E di che genere? Lui cheormai ha rinunciato ad ogni tentativo difuga, comincia ad elencare, paziente: lacartolina di una ragazza che trascorrevauna vacanza in montagna, sola sulle Dolo-miti e mi proponeva di trascorrere un week-end con lei. Un contratto in carta bollata,spedito per raccomandata, dove mi si offrivamateriale per costruire una storia. C’eraanche una ricevuta di ritorno, che io ho fir-mato, ma dopo due giorni è tornata a me:da ciò ho dedotto che era meglio non presta-re troppa attenzione alla faccenda...

Lei legge molto? Chiede ancora la figliadella padrona di casa, che si è sedutaaccanto allo scrittore. Ho sempre lettomolto. Quand’ero piccolo, la domenica mat-tina, i miei genitori compravano all’edicolai fumetti per mio fratello, e le avventure diSalgari o Verne per me. Ho sempre spesouna fortuna in libri, davvero una fortuna,sottolinea lo scrittore, solo ora che scrivoqualche recensione ogni tanto ricevo un libroin omaggio. Ma insomma la mia casa èpiena di libri.

E come ordina la sua biblioteca? chiedeil fidanzato della figlia della padrona dicasa. Io non possiedo una biblioteca, i librisi accumulano sul pavimento, lungo le pare-

ti, formano delle pile sempre più alte... io ilibri non li ordino, li presto... Ma i libriprestati non tornano mai indietro! osservacon indignazione la figlia della padrona dicasa. Appunto, dice lo scrittore, prestare ilibri è il modo migliore per disfarsene, setornassero indietro non saprei più dove met-terli...Con un gesto di insofferenza la scritto-

re si è alzato pin piedi e dà segni di stan-chezza. Ora ti riportiamo in albergo, dicel’organizzatrice di Parole in Biblioteca,ringraziamo questa magnifica padrona dicasa che ci ha consentito di passare una sera-ta indimenticabile...Avete stretto molte mani, siete saliti su

una BMW parcheggiata davanti al casale.In quattro sul sedile posteriore state unpo’ pigiati; lo scrittore l’hanno fatto sederedavanti, deve essere comodo. L’auto per-corre veloce le stradine sterrate, scivola frale colline e raggiunge i viali periferici dellacittà. Ma perché organizzare serate così lon-tano, in piena campagna, poi è così scomodorientrare, sta dicendo l’organizzatrice. Èvero, la padrona di casa è gentile, ma losformato non era nemmeno buono. La pros-sima volta si va tutti a casa mia, è unambiente piccolo, ci si toglie le scarpe e si statutti insieme. Per il tuo prossimo libro, dicerivolta allo scrittore, ti si invita di nuovo esi va tutti a casa mia! E poi come sono con-tenta di questa mia nuova amica! esclamarivolta a te, ti manderò gli inviti, intanto tiaspetto al prossimo incontro, mi raccoman-do, ci tengo davvero, dice stringendoti lamano. Tu sei arrivata e stringi altre mani,anche lui porge la sua attraverso l’abitaco-lo dell’auto, ma tu dici aspetta, ti salutofuori. Esci e fai il giro dell’auto, anche luiscende, ti bacia lievemente sulle guance,dice ciao, e il tuo nome. Poi senti il rumo-re della portiera che si richiude, e l’autoche riparte subito.Il giorno dopo, passi il pomeriggio con

l’orecchio teso, anche se sai che il telefononon suonerà. Lo sai.Infatti non suona.

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I.

«No... neanche a pensarci... – sischernì Tonio – per carità... ioil cinema... ma figuriamoci...

non se ne parla».«Qualunque cifra, anche una follia»

incalzò Pierre.«Non è questo il punto...» disse Tonio

arrossendo.«Sei tu il protagonista... l’ho capito

appena ti ho visto... tu sei Jack Duluozche investe O’Hara col suo camion... unastrada di notte illuminata dai fari... Maryha un cappellino velato e una valigia...capisci? la stazione, la fuga... una luce blu,soffusa... come nei film di Wenders... c’ènebbia... Jack Duluoz viene illuminato dalbasso e proietta il suo profilo inquietantesulla scalinata di Alvarez...».«Sulla scalinata di Alvarez?» chiese

Tonio.«Alvarez ha in pugno la situazione e

dalla finestra abbraccia Pedrita e sorseggiatequila con luci del tramonto e Messicoanni ’50, questo l’ha capito bene JackDuluoz che nella sua stanza d’albergoindossa un vestito bianco e scrive una let-tera davanti ad uno specchio...».«A uno specchio... – ripeté Tonio – e

cosa sto scrivendo?».

«È proprio questo il punto! – rispondePierre – Jack Duluoz l’ha capito benissi-mo... è una lettera d’amore? un ricatto? unaddio? una soffiata? una lista della spesa?una lista di assassinî? un memoriale? unaconfessione? Niente di tutto questo...come ha ben capito Alvarez...».«Ancora lui! Insomma chi è Alvarez?»

cercò invano di ricapitolare Tonio.«Alvarez compare dietro allo specchio...

una lama di luce e borotalco rosso su tuttala scena e Mary... Lilì Marlene... la suaragazza lo ha lasciato con una valigia disogni nel cassetto e un mare di guai sullaporta di casa... con una nebbia blu... comenei film di Wenders...».«Ma insomma – sbottò Tonio – io non

ci capisco niente... dove si svolge? l’epoca?ed i costumi? c’è il truccatore? qual è latrama? ma c’è una trama? c’è un copione?c’è Hollywood? Io devo lavorare... sonosolo un camionista... io faccio il camioni-sta... più di guidare il camion io non sofare...».«Firma qua che poi facciamo il contrat-

to vero e avrai l’Enpals e tutto quantodesideri ma non è questo il punto... la tuavita cambierà e sarai Jack Duluoz nel miofilm» replicò implacabile Pierre.

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La vita è come un filmBruno Pittau

Prologo

Tonio non aveva mai pensato di fare del cinema, mai si era immedesimato inun attore dello schermo e mai era stato un estimatore dell’arte cinematografica.Ma Pierre prendeva gli attori “dalla strada” ed era risoluto a farlo recitare,

subito, immediatamente e senza tante storie, in un film grandioso e monumentaledove lui, Tonio, era il protagonista assoluto!

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Duluoz, l’immaginario eroe saraceno-mon-serratino che sfidava la legge di Alvarez.

Per capire come possano avvenire fattidel genere bisogna studiare LA PRIMALEGGE DELLA NAPOLETANITÀ, tra-mite la quale si fa un contenitore e poiuno ci mette quel che gli pare.

In questo modo il film si fece. Dopoun preallarme isterico di sedici mesi ini-ziarono le riprese in un freddo novembremonserratino.Il copione diceva che le riprese doveva-

no farsi a Tolosa, poi a Tobruk, a Barcel-lona, a Strasburgo, a Berlino... Si feceroinfine a Monserrato, nella desolata perife-ria di Cagliari.

Jack Duluoz alias Tonio non sapevaancora di preciso cosa doveva fare e quan-to lo pagavano. Attorno a lui si muovevala troupe mastodontica di una miriade dispecialisti che ignoravano cosa dovevanoassemblare, ma, finché qualcuno pagava...si muovevano dunque frenetici indaffara-tissimi e sconclusionati... ogni tanto ri-spondevano alle ispirazioni del regista e neassecondavano le umorali direttive.In una pausa-caffè Tonio riuscì ad avvi-

cinare il regista e finalmente ebbe raggua-gli sulla sua parte: «Capisci? La AmanitaMuscaria è solo un simbolo, un pretestoper arrivare a Jack Duluoz, l’eroe dall’o-scuro passato che non riesce a dimentica-re...».«Sì, va bene – disse Tonio – ma di pre-

ciso cosa devo fare? E poi, non per sem-brare pedante... ma, i miei mille dollari...QUANDO arrivano?».«A Jack Duluoz del denaro gliene

importa fino a un certo punto... lui non sicontenta delle briciole... – rispose freddoil regista – Jack punta molto in alto... Haun appuntamento d’affari con Alvarez...Jack attualmente gestisce un tabacchino aMonserrato, e anche questo è solo un pre-testo, un comodo osservatorio per leriflessioni di Jack Duluoz...».«Ah! Un tabacchino?» osservò perplesso

Tonio.«Sì, ma non pensarlo come tabacchi-

no... Ti ho detto che è solo un simbolo,

«L’Enpals? E la paga? Quant’è? Èbuona? Però come si fa? E il camion?».«La paga la vedrai col commercialista...

però posso assicurarti fin d’ora che supe-rerà largamente una cifra tale che ti ri-compenserà lautamente di tutto... il ca-mion trasporterà le scenografie... ma tuttoquesto non ha veramente importanza...quel che conta... il punto... è JackDuluoz... ricordatelo sempre, Jack».«Sì, ma io... dovrò parlarne con mia

moglie...» farfugliò Tonio.«Jack Duluoz è quel tipo d’uomo che

se ne frega della sua donna e la tratta malequanto gli pare...».«Sì, ma io... veramente...» belò Tonio.«Questo è il biglietto d’aereo, Jack... si

parte all’alba... firma il contratto e preparala tua valigia... taglia la corda Jack, nonvoltarti a salutare la tua vita trascorsa...inizia la tua storia, Jack Duluoz!».«Va bene, accetto! – esclamò infine

Tonio – però voglio un acconto! In con-tanti e subito! Dollari... tanti... cinquecen-to... mi... mille dollari!».Pausa di silenzio carica di tensione.«Okay – disse infine con voce più dura

il regista – Andiamo a prenderli».«Sì, ma qui? adesso... io?» balbettò

Tonio.«Prendi la macchina e andiamo, non

voltarti indietro Jack, c’è una valigia aldeposito della stazione, la chiave e la com-binazione ce l’ha Alvarez... Lì ci sono idollari, avrai la tua parte, il tuo acconto...e sarai Jack, Jack Duluoz nel mio film!»disse frenetico Pierre.«Mi... Mille dollari! Si era detto!» disse

Tonio.«Okay per mille dollari, Jack» disse il

regista.E così, stretto il fatale accordo, Tonio e

Pierre sparirono improvvisamente nellanotte per andare a fare il film di JackDuluoz.

II.

Non si sa come ma l’Istituto Saraceno-Monserratino di Interscambio

Culturale aveva deciso di finanziare un docu-mentario sulla Amanita Muscaria, che peròera solo un simbolo, una sottile allusionedel male... incarnato dalla figura di Jack

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si staglia sulle scalinate di freddo marmosporco, una vampata di borotalco rosso sispande leggera al suo passaggio, Jack eAlvarez la guardano mentre scende le scalee si dirige misteriosa imprendibile verso diloro... Alvarez è sconvolto, con gli occhisbarrati implora che non sia vero... e non èun sogno, come Jack Duluoz ha capitobenissimo, non è Mary, è Pedrita...».

un’allegoria, un’immagine... – esplicòPierre – Eccolo... Cataste di avana sparsisul pavimento, sacchi di tabacco illuminatida una grata con tramonto messicano,donne in costume tropicale confezionanosigarette sul retro... Jack Duluoz discutemisteriosi affari con Alvarez mentre i venti-latori ronzano sul soffitto... Di colpo com-pare Mary, una silhouette azzurra e diafana

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Bruno Pittau,La Maga, 1990,tecnica mista,cm 35 x 50

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fregato nel colpo a Jericho e hai tagliato lacorda a Marrakech... Eccoti inondato dauna gelida luce blu... e dallo specchioappannato il tuo riflesso in primo piano sidissolve nella figura spettrale di O’Hara...Ora hai una pistola fumante ma non c’èun vero cadavere... Abelardo Delgado èmorto quando ha bruciato dietro di sé iversi del destino e si è fatto mercante d’ar-mi...».«Sì, ma perché io? Io voglio essere

Jack... Delgado lo faccia qualcun altro...»tentò di replicare Tonio.Pierre gli mostrò con una rivista pati-

nata, con grandi foto a tutta pagina dicasbah argentina e silhouette azzurre disicari messicani sotto cieli notturni. Poiancora pazientemente gli spiegò:«Delgado è forse una spia di Alvarez? Eperché si è vestito da ussaro se non perintrodursi nella villa di Gomez? C’è unballo... l’orchestra suona uno struggentefandango con luci blu soffuse come neifilm di Wenders... A questo punto lasituazione ce l’ha in pugno Pedrita...».«Sì, va bene – acconsentì Tonio – allo-

ra io sono Abelardo Delgado... AbelardoDelgado... sì, inizia a piacermi...».«Tu sei Delgado – puntualizzò Pierre

con spietato delirio – ma solo fino a uncerto punto...».«In che senso?» chiese Tonio sconcerta-

to e rassegnato a tutto.«Delgado è proprio quel che sembra?

Oppure dietro il suo aspetto insignificantenasconde un disegno criminale? Non è unasemplice spia che fa il doppio gioco.Gomez ha fatto bene a sospettare di lui edire a Mary di non ritirare la lettera da quelpolveroso albergo cubano sulla 5a strada aDallas... Capisci bene che a quel puntoDelgado è già diventato un altro... adessolui è Fitzgerald, stanco e ferito si aggirainquietante e sinistro nei vicoli sordidi diHellhound Street... lo accompagna e sor-regge Eva, una tedesca fragile e graziosa,amante di Gomez e spia dei polacchi...».«Un momento... – protestò Tonio

disperato – Ma io cosa devo fare? Nondovevo investire O’Hara? E perché adessosono Abelardo Delgado e perché Pedritanon c’è più? ... e dove cazzo è finito JackDuluoz?».

«Pedrita? Io mi perdo... da dovesbuca?».«Pedrita è la messicana che ha cono-

sciuto Jack nel ’52 a Panama, tra la pampaselvaggia e i campi di cotone, con Pedro ilmeticcio misterioso e impassibile eO’Hara che verrà investito dal camion diJack! Pedrita indossa uno scialle rosso e unlungo poncho a quadretti... Alvarez hafatto bene a non parlarle di Gomez...».«Ah! Gomez? – fece Tonio – nuova-

mente Gomez...».«Ah! – esclamò Pierre – Non chiedermi

di Gomez... Seduto nella veranda inonda-ta di luce soffusa blu come nei film diWenders sorseggia tequila mentre alle suespalle l’orchestra suona lento e struggentefandango con immagini di nostalgichepompe di benzina e arido deserto di cac-tus... Gomez è un uomo della C.I.A.? Oforse è il misterioso boliviano che Jack haconosciuto a Tucson nel ’61 e rivisto aMarsiglia nel ’66? Questo è il mistero chevuol scoprire Alvarez...».«Alvarez eh?! Lo supponevo!» concluse

Tonio.«Vedo che inizi a capire... – disse sod-

disfatto Pierre – adesso andiamo svelto,prima che esci dalla parte... andiamo agirare...».«Bene, allora, io sono Jack Duluoz che

viene da Denver per incontrare Alvarez eincontra Pedrita nel tabacchino diGomez...» disse Tonio indossando la divi-sa da ussaro canadese.

Ma Pierre adesso osservò Tonio comefosse per la prima volta... e divenne cupo epensieroso.D’un tratto disse con tono freddo e

distaccato: «Sì, ecco, però... Adesso che cipenso meglio, tu non sei Jack Duluoz, tusei Abelardo Delgado, un bracciante amal-fitano che commercia in avorio e armi aMarrakech...».«Abelardo Delgado? – disse Tonio con-

fuso – No, non mi piace! Io voglio essereJack Duluoz! Voglio mille dollari e sonoJack Duluoz!».«Tu sei Abelardo Delgado, mi è stato

chiaro fin dal primo momento... – conti-nuò frenetico Pierre – sei tu che hai tradi-to Gomez! Gli hai rubato Rosalita e l’hai

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«Arrestatelo! – disse Belisario alle guar-die – Lo riconosco benissimo! È uno diloro! Che sfacciati! Ventimila euro mi devo-no! Anzi, mi hanno devastato il locale!!!Qui i danni sono di centomila euro!!!».«No! – replicava Tonio sconvolto – Io

sono Delgado... adesso mi ricordo... e tudevi essere il padre di Pedrita... tu seiArsenio Lupin che si staglia furtivo e acro-batico sulle sponde del Brasile ammantatodi spie afgane e verande cubane... ti rico-nosco benissimo, venuto per arrestarmicol pretesto di vendermi a Gomez...».Alle ultime parole di Tonio fu chiaro

per tutti cosa bisognava fare. I vigili urba-ni di Monserrato lo legarono ad una barel-la e via di corsa al reparto “pazzi furiosi”dell’ospedale psichiatrico.Tonio non si rassegnava e continuava a

sbraitare furibondo che era tutto un truc-co di Gomez... «Maledetti bastardi!Liberatemi subito! Pedrita, Pedrita... vienia liberarmi... Alvarez, Alvarez, perché mihai tradito?».

Epilogo

Ecosì, mentre Tonio rimarrà per anni adubitare se essere Jack Duluoz o

Diego Alvaro e di se stesso non ricorderàpiù nulla, l’altro personaggio, il registapazzo di questa storia, l’ineffabile Pierre, èancora infaticabile per le strade del mondoa girare un altro film uguale a questo.

«L’ho capito immediatamente che tusei Hank Williams, il bandolero giamaica-no che si staglia imperturbabile minaccio-so sotto cieli andalusi e porta una valigianera che si spande nel blu... un blu soffu-so come nei film di Wenders...».«No guarda – si scherniva Marcello –

per carità... io so fare al massimo Totò...non se ne parla neppure...».«Qualunque cifra, anche una follia»

replicava Pierre.«Non è questo il punto...» diceva

Marcello arrossendo.■

«Silenzio! Basta così, le suggestionisono finite...» replicò implacabile e autori-tario Pierre, poi, rivolgendosi alla troupe:«Mi raccomando le luci blu... e ci voglio,come in lontananza, ma pervasiva e inva-dente, miscelata e intermittente all’infu-riare del vento, musica di carillon di gio-stra e lenta orchestrina di struggente fan-dango...».«Ma Delgado... – chiese Tonio dispera-

to – cosa fa?».«Si gira!» urlò imperioso Pierre e da

quel momento si disinteressò di lui.«Avanti tutta! A dritta con le macchine!

Si gira la prima!».«Ciack!» fece qualcuno.

E così, nella confusione e nell’incertez-za più completa e assoluta di tutto, si ini-ziò a girare che nessuno sapeva cosa dove-va fare. L’unica certezza erano i trentamilafari BLU da 50mila W costantementeaccesi e puntati su tutto.Tonio trascorse un giorno intero cer-

cando di capire se stava parlando con unattore che interpretava un barista oppurecon il barista che aveva velleità d’attore... ese quell’altro era un tecnico o era uncurioso che non c’entrava niente con laproduzione. Ma al secondo giorno, quan-do già iniziava a farsi un’idea di qual era lascena e quale la realtà, venne rinchiuso inbagno da un attore di Forlì che voleva lasua parte e di Tonio si dimenticaronocompletamente tutti.Solo al quinto giorno venne liberato

dai vigili urbani di Monserrato e dovettesubire le legittime furenti rimostranze delproprietario del tabacchino.

III.

«Ma insomma! – urlava inferocitoBelisario Puddu, proprietario del

tabacchino – mi dovete pagare i ventimilaeuro pattuiti!».«No guardi... – farfugliava Tonio – io

non c’entro... io sono Jack Duluoz evoglio la luce blu...».

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Shylock, Il Mercante diVenezia in prova

di Moni Ovadia e Roberto AndòElisabetta Rombi

ossessionata dai reality che esplode in furi-bonde diatribe in spagnolo contro il mae-stro. E infine un gigantesco, imponenteShylock, impersonato dal celebre autorerock degli anni sessanta Shel Shapiro, chepur debole e malato di non si sa qualemisteriosa malattia (forse solo l’estenuante

lavorio dei secoli sulruolo dell’ebreo) con lasua figura contrasta eoscura un Antonio eun Bassanio piccoli erotondi. Una scelta vi-siva rompe così lo ste-reotipo, scontato e se-dimentato nel pregiu-dizio, dell’ebreo picco-lo e curvo. Certamentesiamo nel visionario, lavisionarietà intreccia ecombina i vari livelli dicui l’opera è composta

e guida la scelta dei brani musicali in unacommistione accattivante.L’interscambiabilità di ruoli: l’infermie-

ra diventa Nerissa, il finanziere impersonaAntonio, il maestro sostituisce Shylock(non facciamolo stancare) è un gioco delleparti molto frequente nei territori onirici.In questo clima surreale è l’imprevisto.Cresce la curiosità e il desiderio di saperecome verrà commentato, interpretato, tra-sformato il testo di Shakespeare. C’è infat-ti nell’opera un livello meta teatrale moltointeressante suggerito dalle osservazionipuntuali e provocatorie del maestro.La più importante sottolineatura è il

monologo di Shylock. Moni Ovadia ciricorda che Shakespeare non ha maiincontrato un ebreo in vita sua, giacché gli

Shylock, Il teatro è un luogo di sogni edi verità, afferma Moni Ovadia. Cosìlo scenario del suo ultimo spettacolo

Shylock, Il Mercante di Venezia in prova,realizzato dall’artista insieme a RobertoAndò, è un ambiente con evidenti trattionirici e surreali. Certamente ha del sognoe dell’incubo la vicen-da che vede un registaebreo, ormai ritiratosidalla professione eafflitto da una inspie-gabile malinconia, alleprese con un finanzieredalle oscure fortuneper contrattare la mes-sa in scena del Mer-cante di Venezia diShakespeare. Il mae-stro, impersonato daMoni Ovadia, e il fi-nanziere, Ruggero Ca-ra, hanno ognuno per parte sua motivi diprediligere quell’opera. Scarna ed efficacela scenografia di un improbabile teatro:un luogo a metà tra un ospedale e unmacello. In un muro macchiato di sanguepende uno specchio che, ad un certopunto della rappresentazione, svela unorgano simile a quelli innumerevoli espo-sti in teche alle pareti laterali. Un’allusionealla ricchezza che il finanziere, modernomercante, ricava da un commercio illegalee criminoso. (Si raccontano di lei cose rac-capriccianti) Improbabile anche la compa-gnia teatrale che il finanziere porta con sé.Un prelato, un finto cardinale, un killer,un’attrice che ha venduto la sua anima e ilsuo corpo per avere il ruolo di Porzia,un’infermiera “isterica teledipendente”

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ebrei erano stati espulsi dall’Inghilterra nel1290 per essere riammessi solo conCromwell nel 1665. Al tempo in cui ildramma è stato scritto gli ebrei venivanoconsiderati la quintessenza della malvagitàe della avidità e solo il genio shakespearia-no poteva mettere in bocca ad uno stereo-tipo un discorso simile:«He hath disgraced me and hindered

me half a million, laughed at my losses,mocked at my gains, scorned my nation,thwarted my bargains, cooled my friends,headed my enemies, and what’s the reason?I am a Jew. Hath not a Jew eyes? Hath nota Jew hands, organs, dimensions, senses,affection, passions? Fed with the samefood, hurt with the same weapons, subjectto the same diseases, healed by the samemeans, warmed and cooled by the samewinter and summer as a Christian is? Ifyou prick us, do not we bleed? If you tick-le us, do not we laugh? If you poison us,do we not die? And if you wrong us, shallwe not revenge? If you are like you in therest, we will resemble you in that. If a Jewwrong a Christian, what is his humility?Revenge. If a Christian wrong a Jew whathis sufferance be by Christian example?Why, revenge! The villany you teach me Iwill execute, and it shall go hard but I willbetter the instruction».

(Mi ha sempre danneggiato, m’ha impe-dito di guadagnare mezzo milione, ha risodelle mie perdite, deriso i miei guadagni,offeso la mia nazione, ostacolato i miei affa-ri, raffreddato i miei amici, infiammato imiei nemici; e per quale ragione? Sono unebreo. Non ha occhi un ebreo? Non ha ma-ni, organi, dimensioni, sensi, affetti, passio-ni? Non è nutrito dallo stesso cibo, feritodalle stesse armi, soggetto alle stesse malattie,curato dagli stessi rimedi, riscaldato o raf-freddato dallo stesso inverno e dalla stessaestate, come lo è un cristiano? Se ci pungetenon sanguiniamo? Se ci fate il solletico nonridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? Ese ci fate torto non dovremo vendicarci? Sesiamo come voi per il resto vogliamo assomi-gliarvi anche in questo. Se un ebreo fa untorto ad un ebreo, che cosa fa il mite ebreo?Vendetta. Se un cristiano fa torto ad unebreo che cosa farà secondo l’esempio cristia-no? È chiaro, vendetta! La malvagità che mi

insegnate io la metterò all’opera, e sarà dif-ficile che non superi i miei maestri.)Non appena Shylock pronuncia queste

frasi il regista interviene e spiega animatoche ciò non deve offrire una trappola sen-timentale. «Qui è in gioco il significatoultimo della creazione dell’essere umano».Scuote la scena il suo grido accorato

nel rivolgersi al pubblico: «Non illudetevinon ci sarà un altro diluvio. Non ci saràperché il Padre Eterno ha drammatica-mente constatato l’assoluta inutilità delprimo».Dopo quattro secoli questo monologo

definito «luciferino e sublime precipital’uomo in un unico destino biologico,ontologico, antropologico in cui ogniessere è concatenato inesorabilmente alsuo simile. O ci si redime o ci si dannatutti quanti insieme».Questa profonda verità squarcia l’in-

ganno di chi spera in una salvezza perso-nale.Una verità difficile, preceduta efficace-

mente dalla osservazione sul diluvio uni-versale «L’umorismo ebraico non ha fun-zione di puro divertimento – affermaOvadia – ma di pensiero».Il dramma riprende il monologo, lo fa

pronunciare a diversi personaggi eviden-ziandolo e restituendogli la sua potenza.In un «Basta ipocriti!» appare infine lo zin-garo (moderno ebreo) a rivendicare conquelle parole il suo statuto di uguaglianza.Sentiamo ancora Moni Ovadia: «La

genialità di Shakespeare ribalta in Shy-lock, che carica su di sé tutte le menzognee l’ipocrisia della società occidentale, tuttoquello di cui i cristiani lo incolpano dimo-strando che coloro che lo accusano sonomolto peggio di lui».Volutamente ambigui sono i cristiani

Antonio e Bassanio. La generosità delprimo è inquinata dalla sua passione omo-sessuale. L’interesse di Bassanio per la ric-chezza di Porzia rivela la natura di un con-tratto commerciale. È col denaro non conl’amore che riuscirà a conquistarla.«Nel monologo di Shylock, un capola-

voro assoluto della letteratura mondiale, siracconta che gli esseri umani sono tuttiuguali. C’è un’altra osservazione da fare».Continua Ovadia «Se Shakespeare mette

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in bocca al malvagio un simile eloquiosignifica che noi per capire l’uguaglianzadegli uomini dobbiamo partire dal malva-gio. Nel nostro spettacolo lo abbiamofatto pronunciare a Hitler. «Non ha occhiun nazista?...» possiamo negarlo? L’im-mensa e terribile lezione del monologo èquesta: tu puoi giudicare il malvagio manon puoi negargli la sua umanità, nonpuoi: lui è un essere umano come te. Senon lo fosse, se fosse un mostro, nonpotresti giudicarlo, ciò che fa sarebbe nellasua natura». Questo è il fuoco centrale dacui si dipanano altri interessanti percorsi.Shylock, Il Mercante di Venezia in

prova gioca col testo shakespeariano sotto-lineandone l’attualità. Il monologo diBassanio è di una contemporaneità pernoi sconcertante:«Il mondo si fa sempre ingannare dagli

ornamenti. Nella legge quale arringa perquanto corrotta e guasta, insaporita dauna voce aggraziata, non nasconde la suaapparenza di male? Nella religione qualedannato errore non può una fronte auste-ra benedire e comprovare con una citazio-ne?...

Non esiste vizio così manifesto che nonassuma un segno di virtù nel suo aspettoesteriore».Viviamo in un mondo che sostituisce,

o almeno ci tenta e spesso con successo, ilvirtuale al reale, che contrabbanda la fal-sità col vero e violenta il linguaggio scam-biando il senso profondo delle parole colloro esatto contrario, al modo di un incu-bo orwelliano, o semplicemente col nulla.Un linguaggio violato e compromessoche, in una lucida apparenza, cela la fero-cia di chi, divorato dall’avidità a sua volta,tenta di fagocitare ciò che lo circonda,ammantando ogni sua azione di insulsaretorica. «La retorica – si dice durante lospettacolo – è dei peggior attori e dei politi-ci». La mela marcia è il mondo dove ci sidimentica che i sepolcri imbiancati belliesteriormente sono pieni di ossa e putri-dume all’interno.Il surreale e il visionario giocano con la

verità, la svelano permettendoci di nonimpietrire davanti alla vista della Medusaperché protetti dal filtro della finzione. LaMedusa è qui l’orrore del nostro mondo

dove l’unico vero dio è il danaro. La pro-fezia di Marx è operante: il capitale haspogliato l’uomo della sua umanità.L’uomo è diventato merce tra le merci,tutti lo sono persino chi si illude di gover-nare il denaro ne è invece dominato.Disumano è il finanziere nel suo narcisi-smo, nel suo collezionare vittime, ma ilsuo desiderio di comprare l’anima dell’ar-tista è destinato al fallimento. Così il suodilemma «dove finisce l’arte e comincia lavita» rimarrà insoluto. Non si estorce l’a-nima di chi ha sempre cercato la veritàcon passione; non cede alle lusinghe dellamateria chi conosce e vive per qualcosa diqualitativamente altro. Un artista così sipuò solo uccidere. Ma ciò sancisce, delpotere, un fallimento. In questo sogno, oincubo?, c’è tutto, veramente tutto l’orro-re del nostro mondo, l’arroganza del pote-re, del denaro, della criminalità, lo sfrutta-mento della povertà, l’abuso della donna,la violenza e la sopraffazione, l’uso illegit-timo della giustizia al servizio del potente,l’indifferenza, l’ignoranza, il cinismo. C’ètutto il male che deriva dall’aver cedutol’anima al dio denaro.È possibile non rimanere schiacciati da

tale consapevolezza grazie alla mediazioneartistica ma soprattutto grazie ad un’artenutrita fin nelle sue più intime radici dauna tensione di verità. Né poteva esserealtrimenti in un autore come Moni Ovadiache a quella verità, indistricabilmente vin-colata alla giustizia, dedica la ricerca ali-mentandola alla luce di una sapienza mille-naria, con la passione di chi crede nell’esse-re umano pur scorgendone la corruzione.Il suo percorso comincia da molto lontanoda quattromila anni, con l’uscita dall’Egit-to per opera di un profeta balbuziente,Mosè. Un processo verso la liberazione daogni schiavitù, con passi indietro, certo,ma che continua a procedere.Nell’ultima parte della rappresentazio-

ne c’è un pezzo di un assoluto lirismo sot-tolineato al termine da una canzone diMoni Ovadia in Yiddish, parole e musicadi una struggente nostalgia.È lo smarrimento di Shylock quando

ripete tra sé «Io non parlo più la linguadei miei genitori» e ancora «la mia appar-tenenza è legata ad un silenzio, ad un’as-

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primo aveva precedentemente confessato«io colleziono vittime. Anch’io come lei miinteresso di vittime ma non per ragioniumanitarie».L’uno cerca di completare la sua colle-

zione col cuore, ossia l’anima, del regista;l’altro vuole infine restituire la libbra dicarne, sottrattagli per secoli, a Shylock.Il finale a sorpresa rivela l’altra partita

in gioco: la sopravvivenza del teatro in unmondo di falsità che lo assedia e vuoleridurlo al silenzio.«Il teatro non può tollerare truffe»

esclama il regista.La sua è una rivendicazione di libertà

in un universo, il nostro, dove molto limi-tati sono i suoi spazi. Ma uno di questi è ilteatro.«Il teatro è un formidabile strumento di

conoscenza, è anche l’ultimo sacrario di unrituale laico aperto a tutti senza distinzioni.L’unico luogo dove si può dire la verità»dichiara Moni Ovadia.Shylock, Il Mercante di Venezia in

prova è una scrittura originale, un omag-gio a Shakespeare che, secondo l’artista,non merita la claustrofobia di un museo.La bravura dei musicisti e dei cantantioffre allo spettatore un’opera di altissimaqualità.Lo “spleen” che apre l’opera di Shake-

speare nelle parole di Antonio è qui pro-nunciato dal regista nelle sue prime battu-te. Il maestro interrogato da una vocefuori campo è affetto probabilmente dallamelanconia di cui parla Calvino, colpiscegli artisti che coltivano in sé una sconten-tezza per il mondo così come è.Non si rimane delusi da una rappresen-

tazione che è il risultato di un incontrofelice tra uno dei nostri maggiori artisticontemporanei e un genio del passato.Shakespeare condivide con Ovadia l’espe-rienza teatrale, è attore prima di esseredrammaturgo, e quindi conoscitore degliintimi recessi dell’animo umano, ma necondivide anche la frequentazione delleSacre Scritture. Se la Bibbia non parla diDio ci parla invece dell’idea che Dio hadell’uomo, allora si capisce da dove il«luciferino e sublime» monologo diShylock attinga la sua forza.

senza. ... l’inquietudine forse o una certez-za inquieta. ...Essere stranieri a se stessi,unico puntello vecchie foto ingiallite,documenti irrisori... eredità segno indele-bile nella mia voce, mi unisce ancora aloro... farlo per dar voce a loro, io ombratra le loro ombre».Un semplice ciondolare, delle frasi

monche illuminano impietose in pochitratti rapidi l’immensità di un vuoto, diun nulla che attrae a sé per la sua vastità,non se ne vedono i confini. Si può lonta-namente paragonare al sentimento cheprova ogni essere umano quando la mortegli sottrae un genitore rivelandogli così lasua stessa precarietà. Amplificando queldolore e quella consapevolezza all’infinitosi può forse, dico forse, avvicinarsi a com-prendere cosa è stato l’abisso indicibiledella Shoah.In quello smarrimento, in quelle frasi

passa allo spettatore attraverso l’emozione,le viscere, il cervello lo sgomento dell’in-sensatezza del vivere. Si arriva tanto vicinial nulla da sfiorarlo, da sentirne la vertigi-ne attrarre nel vuoto. Quale baratro si spa-lanca davanti ad un essere umano sradica-to violentemente dal suo passato, dalla suastoria, da tutti i suoi legami di sangue,non possiamo saperlo ma in quei pochigesti, in quelle frasi spezzate, in quel cantoe in quella voce si può intuire.Con quello strappo, da Moni Ovadia

definito di carne e di sangue all’internodel corpo Europa, si è realizzata una lace-razione violenta nelle sue stesse membra.L’ebreo è forse il prototipo dell’autenticoeuropeo, multilingue e cosmopolita.L’artista fonda la sua carriera nell’impe-

gno di dar vita e voce, in modo appassio-nato, a quella cultura tragicamente sradi-cata, un’eredità che porta nel sangue epure a noi, come europei ed esseri umani,appartiene.Molto è alluso, non detto, indefinito,

lasciato all’interpretazione dello spettato-re, come in ogni opera aperta.Nell’atto finale del processo Shylock

rifiuta di pronunciare l’ultima battuta deltesto shakespeariano «Non mi è mai pia-ciuta!»Qui si svelano infine le intenzioni del

mercante opposte a quelle del regista. Il

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Rivista diArti

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BrunoPittau,P

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482correct,

1988

-200

4,tecnicamistarielaborataindigitale