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SOLENNITA’ DEL NATALE DEL SIGNORE La celebrazione del tempo del Natale del Signore Il Tempo di Natale, che inizia con la Messa vespertina della vigilia e/o con i primi Vespri di quel giorno e termina con la domenica che cade dopo il 6 gennaio, continua la tematica dell’Avvento ed è diviso in due parti: la prima comprende il periodo di tempo che si estende tra il Natale del Signore e la solennità dell’Epifania, mentre la seconda parte inizia con l’Epifania e termina con la festa del Battesimo del Signore. All’interno della prima parte del Tempo di Natale sono poste l’ottava, che culmina nella solennità di Maria Santissima Madre di Dio, la celebrazione del corteo del Signore, la festa della Santa Famiglia e la solennità dell’Epifania. Il tempo natalizio è il prologo della grande festa di Pasqua, ma allo stesso tempo diventa una preparazione verso la celebrazione più completa del Mistero Pasquale. Uno degli argomenti che caratterizzano il Natale è il tema dell’ammirevole scambio divino tra l’uomo e Cristo. Da un lato vi è il richiamo all’Eucaristia, dove il pane e il vino diventano il Corpo e il Sangue di Cristo. Per altro verso, invece, il riferimento è allo scambio, tradotto come mistero, che si riferisce a Gesù Cristo, il quale nell’incarnazione prende la nostra carne mortale e quindi diventa vero uomo portandoci la sua divinità, perché per mezzo di essa noi troviamo l’espressione della nostra. Cristo, prendendo la nostra natura umana, ci innalza verso la sua divinità. L’eucologia di questo tempo mette particolarmente in risalto questo doppio aspetto di divina grandezza e di umile umanità che costituisce l’essenza stessa del mistero del Natale. La divinità e l’umanità del Figlio di Dio sono la tematica centrale del tempo di Natale. Le tre Messe del giorno del Natale Le tre messe del giorno di Natale, quella della notte ( in nocte), quella dell’alba (in aurora) e quella del giorno (in die), sono di origine romana. Dal secolo IV al secolo VIII la Messa della notte veniva celebrata dal Papa nella Basilica di Santa Maria. Nel pomeriggio della vigilia il Pontefice lasciava la sua residenza in Laterano per dirigersi alla Basilica di Santa Maria con tutto il corteo papale e i fedeli e veniva celebrata la Messa in nocte. Terminata la Messa della notte il corteo papale partiva nuovamente dalla Basilica di Santa Maria per dirigersi verso il Vaticano ove, all’interno della Basilica di San Pietro, il Papa celebrava la Messa in die. Lungo il tragitto il Pontefice sostava presso il Palatino dove, presso la chiesa stazionale di Santa Anastasia, celebrava la Messa in aurora. Terminata la Messa in aurora il Papa si dirigeva presso San Pietro ove celebrava la Messa in die. La tradizione di queste tre messe è stata successivamente acquisita nei sacramentari e, attraverso la Liturgia di Rito Romano, si è diffusa in tutto l’Occidente. Da questa tradizione deriva la possibilità per tutti i sacerdoti di poter celebrare o concelebrare nel giorno di Natale tre Messe, purché distanziate secondo l’orario corrispondente ai tre formulari: nella notte, di primo mattino, durante il giorno.

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SOLENNITA’

DEL NATALE DEL SIGNORE

La celebrazione del tempo del Natale del Signore

Il Tempo di Natale, che inizia con la Messa vespertina

della vigilia e/o con i primi Vespri di quel giorno e

termina con la domenica che cade dopo il 6 gennaio,

continua la tematica dell’Avvento ed è diviso in due

parti: la prima comprende il periodo di tempo che si

estende tra il Natale del Signore e la solennità

dell’Epifania, mentre la seconda parte inizia con

l’Epifania e termina con la festa del Battesimo del

Signore. All’interno della prima parte del Tempo di

Natale sono poste l’ottava, che culmina nella solennità

di Maria Santissima Madre di Dio, la celebrazione del

corteo del Signore, la festa della Santa Famiglia e la

solennità dell’Epifania.

Il tempo natalizio è il prologo della grande festa di

Pasqua, ma allo stesso tempo diventa una preparazione verso la celebrazione più completa del

Mistero Pasquale.

Uno degli argomenti che caratterizzano il Natale è il tema dell’ammirevole scambio divino tra l’uomo

e Cristo. Da un lato vi è il richiamo all’Eucaristia, dove il pane e il vino diventano il Corpo e il Sangue

di Cristo. Per altro verso, invece, il riferimento è allo scambio, tradotto come mistero, che si riferisce

a Gesù Cristo, il quale nell’incarnazione prende la nostra carne mortale e quindi diventa vero uomo

portandoci la sua divinità, perché per mezzo di essa noi troviamo l’espressione della nostra. Cristo,

prendendo la nostra natura umana, ci innalza verso la sua divinità. L’eucologia di questo tempo mette

particolarmente in risalto questo doppio aspetto di divina grandezza e di umile umanità che

costituisce l’essenza stessa del mistero del Natale. La divinità e l’umanità del Figlio di Dio sono la

tematica centrale del tempo di Natale.

Le tre Messe del giorno del Natale

Le tre messe del giorno di Natale, quella della notte (in nocte), quella dell’alba (in aurora) e quella

del giorno (in die), sono di origine romana.

Dal secolo IV al secolo VIII la Messa della notte veniva celebrata dal Papa nella Basilica di Santa Maria.

Nel pomeriggio della vigilia il Pontefice lasciava la sua residenza in Laterano per dirigersi alla Basilica

di Santa Maria con tutto il corteo papale e i fedeli e veniva celebrata la Messa in nocte. Terminata la

Messa della notte il corteo papale partiva nuovamente dalla Basilica di Santa Maria per dirigersi verso

il Vaticano ove, all’interno della Basilica di San Pietro, il Papa celebrava la Messa in die. Lungo il

tragitto il Pontefice sostava presso il Palatino dove, presso la chiesa stazionale di Santa Anastasia,

celebrava la Messa in aurora. Terminata la Messa in aurora il Papa si dirigeva presso San Pietro ove

celebrava la Messa in die. La tradizione di queste tre messe è stata successivamente acquisita nei

sacramentari e, attraverso la Liturgia di Rito Romano, si è diffusa in tutto l’Occidente. Da questa

tradizione deriva la possibilità per tutti i sacerdoti di poter celebrare o concelebrare nel giorno di

Natale tre Messe, purché distanziate secondo l’orario corrispondente ai tre formulari: nella notte, di

primo mattino, durante il giorno.

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MESSA DEL GIORNO (in die) Gv 1,1-18; Is 52, 7-10; Sal 97; Eb 1, 1-6

Antifona

È nato per noi un bambino, un figlio ci è stato donato: egli avrà sulle spalle il dominio,

consigliere ammirabile sarà il suo nome. (Cfr Is 9,5)

Colletta O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine,

e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti, fa' che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana.

Egli è Dio, e vive e regna con te...

Risuonano ancora una volta per noi in questo giorno del Natale del Signore le antiche parole del profeta

Isaia (I lettura). Come sono belle sui monti di questa nostra terra, spesso ancora devastata da lotte e

violenze, da guerre e devastazioni, le impronte di chi anche oggi porta la pace, quella vera, anche in

questo Natale 2014. Chi la porta nelle famiglie e nelle case, nei luoghi di sofferenza e di fatica, di violenza

e di guerra. Veramente, come si dice popolarmente, dovremmo baciare quelle orme, quei posti dove si

posano i piedi di chi continua a recare e trasmettere il dono grande e atteso del Natale.

Gesù è colui che è venuto a portarci pace; non quella del mondo, spesso fragile e povera, ma quella di

Dio. Ne sentiamo più che mai l’esigenza anche in questi giorni. Pace: non solo come assenza di guerra, ma

molto di più come costruzione di un mondo migliore. Per realizzare qualcosa di bello e di grande,

insieme, nelle nostre case e nelle comunità, nella società e nel mondo intero. Il Natale ci dice che la

speranza non può andare perduta perché il mondo è ormai e per sempre segnato dall’impronta di

Dio, di un Dio che ha piantato la sua tenda tra di noi, che si è fatto uomo, che si è fatto luce per tutta

l’umanità (Vangelo). Da quella Notte di Natale non solo è risuonato l’annuncio degli angeli «Gloria a Dio

nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà», ma la pace è giunta all’umanità

concretamente e di fatto nella persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo.

Quel Figlio di Dio che, come afferma la Lettera agli Ebrei (II lettura) è appunto «irradiazione della sua gloria

e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente» è venuto nel mondo e nella storia

per segnarla per sempre e indelebilmente con la dimensione trinitaria che è quella della comunione. Il

mondo, espressione della gloria di Dio, perché creato da lui, viene ora ancor più immerso nella verità

salvifica di Dio. La persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, con l’evento dell’incarnazione

riceve ancor più fortemente l’impronta della sostanza stessa di quel Dio che è amore.

Tocca ora a noi continuare quella missione di Cristo Signore; tocca a noi far sperimentare al mondo che i

tempi messianici si sono compiuti nonostante il male, la morte sembrino soffocare e impedire ancora

questa novità di vita.

Il Natale annuncia che il mondo può riconoscere questa presenza e può accoglierla. Il Signore è presente

in mezzo a noi. Siamo anche noi oggi il segno di questa presenza che continua la sua opera di salvezza

sulle vie dell’umanità del nostro tempo, perché, come amava affermare san Giovanni Paolo II: «l’uomo è la

via della Chiesa».

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PRIMA LETTURA

Dal libro del profeta Isaìa (52,7-10)

Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio

Come sono belli sui monti

i piedi del messaggero che annuncia la pace,

del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,

che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».

Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce,

insieme esultano,

poiché vedono con gli occhi

il ritorno del Signore a Sion.

Prorompete insieme in canti di gioia,

rovine di Gerusalemme,

perché il Signore ha consolato il suo popolo,

ha riscattato Gerusalemme.

Il Signore ha snudato il suo santo braccio

davanti a tutte le nazioni;

tutti i confini della terra vedranno

la salvezza del nostro Dio.

Parola di Dio.

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Is 52,7-10

La regalità di Dio

Il brano riportato nella liturgia si trova verso la fine del Deuteroisaia (Is 40-55), cioè nella seconda

parte del libro attribuito a Isaia, dove si preannuncia il ritorno a Gerusalemme dei giudei esuli in

Babilonia. In esso questo evento viene preannunciato, come all’inizio della raccolta, con l’immagine

di ignoti messaggeri che annunciano un lieto messaggio a Gerusalemme (cfr. Is 40,2-3.9).

Il brano si apre con l’immagine di un messaggero che, correndo sui monti, porta a Gerusalemme il

lieto messaggio del ritorno degli esuli (v. 7). La bellezza di questo messaggio viene proiettata sui

piedi stessi del messaggero, che gli permettono di raggiungere velocemente la città santa. Il

messaggio che egli porta ha come oggetto la salvezza, che si attua mediante un nuovo esodo non

più dall’Egitto ma da Babilonia. Questa salvezza coincide con la pace, intesa qui come simbolo di

prosperità e di gioia. Infine questa salvezza viene attribuita al fatto che JHWH regna. La regalità di

Dio appare in modo pieno nella sua capacità di riaggregare un popolo disperso in una terra straniera,

unendolo nuovamente a sé e riconducendolo nella sua terra.

Nel versetto successivo viene ripreso il tema del messaggero. Questa volta non si tratta però di un

messaggero che giunge correndo, ma delle sentinelle, poste a custodia della città, che prorompono

di gioia e lanciano forti grida perché vedono l’arrivo degli esuli. Il profeta però non parla direttamente

delle carovane che giungono a Gerusalemme, ma del ritorno di JHWH in Sion. Secondo Ez 10,18-22

prima della caduta di Gerusalemme egli aveva lasciato il tempio e la città e si era diretto verso il

luogo in cui si trovavano gli esiliati; ora è lui che ritorna portando con sé coloro che ritornano

dall’esilio.

Alla gioia delle sentinelle fa eco quella della città santa, di cui sono rimaste solo delle rovine (v. 9). Il

profeta immagina che queste rovine cantino di gioia perché JHWH ha consolato il suo popolo, cioè

gli ha fatto mettere da parte l’afflizione determinata dall’esilio; così facendo ha riscattato

Gerusalemme, cioè le ha dato nuovamente il privilegio di essere il luogo in cui Dio abita in mezzo al

suo popolo. Il verbo «riscattare» è ricavato dal sostantivo go'el, che indica il parente prossimo che

interviene quando uno si trova in qualsiasi necessità. Liberando gli esuli JHWH ha dimostrato di

essere veramente il go'el del suo popolo. In questa svolta epocale JHWH viene immaginato come un

prode guerriero che ha snudato non la sua spada, ma il suo braccio, cioè ha teso il suo braccio,

sconfiggendo i suoi nemici e portando la salvezza al suo popolo. Con questa immagine guerresca

viene proclamata la superiorità di JHWH nei confronti di ogni altra potenza.

L’intervento salvifico di JHWH in favore di Israele viene descritto su uno sfondo internazionale: fino

ai più estremi confini della terra, tutti vedranno la sua opera. Chiaramente si tratta di un’immagine

mediante la quale si vuole mettere in luce la portata internazionale di un evento che di per sé riguarda

soltanto Israele. Salvando gli israeliti Dio dimostra la sua regalità universale.

L’idea centrale di questo brano è la regalità di JHWH. Questa si manifesta non tanto nel fatto di aver

reso possibile il ritorno dei giudei in Palestina, quanto piuttosto nell’aver riaggregato un popolo

ormai disperso, incapace di ritrovare la sua identità. La sua forza, rappresentata nel braccio snudato

che si alza contro i nemici, non si riferisce come altrove a eventi di guerra, ma riguarda

essenzialmente la rinascita religiosa e civile del popolo. In questo senso l’hanno intesa Gesù e i primi

cristiani i quali hanno visto nella venuta del regno di Dio un evento che si gioca soprattutto nel cuore

dei destinatari dell’annuncio.

In questo brano è importante anche il riferimento all’annuncio di una «lieta notizia». Il verbo ebraco

lebasser, tradotto in greco euangelizomai, dà origine al termine «vangelo», utilizzato dai primi

cristiani, che era facilmente comprensibile anche nel mondo greco, dove indicava il lieto annuncio

della venuta di un sovrano.

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SALMO RESPONSORIALE (Sal 97,1-6) (98)

Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio.

Cantate al Signore un canto nuovo,

perché ha compiuto meraviglie.

Gli ha dato vittoria la sua destra

e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,

agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.

Egli si è ricordato del suo amore,

della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto

la vittoria del nostro Dio.

Acclami il Signore tutta la terra,

gridate, esultate, cantate inni!

Cantate inni al Signore con la cetra,

con la cetra e al suono di strumenti a corde;

con le trombe e al suono del corno

acclamate davanti al re, il Signore.

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Salmo 97 (98)

Esultanza davanti al Signore che viene

Questo salmo ha il potere di indirizzare la coscienza cristiana alla visione dell’avvenire, colmandola

della viva attesa che la creazione sia liberata della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei

figli di Dio (cfr. Rm 8,21).

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo

invito a un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi

di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.

E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele:

“Gli ha dato vittoria la sua destra”.

Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà

tutti i popoli.

“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della

terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente

a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia.

Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della

salvezza del Signore.

La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di

Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al

Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo

dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.

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SECONDA LETTURA

Dalla lettera agli Ebrei (1,1-6)

Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio

Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri

per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo

del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto

anche il mondo.

Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto

sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei

peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto

superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.

Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho

generato»? E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando

invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di

Dio».

Parola di Dio.

CANTO AL VANGELO

Alleluia, alleluia.

Un giorno santo è spuntato per noi:

venite tutti ad adorare il Signore;

oggi una splendida luce è discesa sulla terra.

Alleluia.

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Eb 1,1-6

Dio parla per mezzo del Figlio

Il brano riportato dalla liturgia contiene l’esordio dello scritto agli Ebrei (1,1-4) e il primo versetto

della prima parte, nella quale si delinea il ruolo di Cristo nel piano di Dio. Lo scritto è un’ampia omelia

cristiana, in cui la persona di Cristo viene delineata alla luce delle categorie giudaiche del sacerdozio

e del sacrificio. Gesù è presentato non solo come il Messia predetto dai profeti ma anche, proprio in

quanto tale, come il sommo sacerdote della nuova alleanza. Nell’esordio l’autore mette in luce

l’origine trascendente di Gesù, servendosi a questo scopo delle categorie sapienziali riguardanti la

sapienza di Dio, identificata con la parola (cfr. Gv 1,1-14). Il brano liturgico si divide in tre parti: il

Figlio, come parola di Dio (vv. 1-2a), la sua dignità trascendente (v. 2b-3a), la sua glorificazione (vv.

3b-6).

Il brano inizia in modo brusco chiamando in causa, senza troppe premesse, il Dio di Israele il quale

ha parlato molte volte e in modi diversi ai padri per mezzo dei profeti (v. 1). Il profeta è per eccellenza

l’uomo della parola, cioè l’uomo sulla cui bocca Dio ha messo la sua parola affinché la rivolga al suo

popolo. I due avverbi «molte volte» e «in diversi modi» indicano in modo sintetico la varietà e la

pluralità delle voci profetiche che si sono avvicendate in Israele.

Dopo essersi servito dei profeti, Dio ha deciso di parlare per mezzo del Figlio suo (v. 2a). Ciò è

avvenuto negli «ultimi tempi». Con questa espressione si indicano i tempi finali della salvezza

promessa dei profeti. Questo Figlio, per mezzo del quale Dio ha parlato, non è ancora identificato,

ma il lettore sa che si tratta di Gesù di Nazaret, il quale ha annunciato e inaugurato il regno di Dio.

L’evento di cui si parla è situato alla fine, per significare che in esso trova adempimento il progetto

salvifico di Dio.

L’autore passa poi a descrivere la dignità del Figlio (vv. 2b-3a). Egli è stato posto come «erede» di

tutte le cose. Di per sé il figlio è di diritto l’erede delle proprietà paterne. Per Israele la terra promessa

è un eredità che gli compete in quanto figlio di Dio. Anche per Gesù l’eredità è un privilegio che, in

quanto figlio, gli spetta di diritto. Ma essa gli viene conferita in un certo momento, ossia ne entra in

possesso in forza della sua risurrezione dai morti. L’eredità non si limita più alla terra di Israele, ma

abbraccia ormai tutte le cose. Tutte le cose infatti gli appartengono perché per mezzo suo Dio ha

fatto il «mondo». Questo termine indica non solo l’universo, ma anche ciascuna delle due entità

temporali, quella presente e quella futura, in cui si divide la storia dell’umanità: questa distinzione

qui non è esplicitata ma si può cogliere sullo sfondo. Il concetto di una creazione fatta da Dio per

mezzo del Figlio richiama l’idea sapienziale in forza della quale Dio ha creato il mondo per mezzo

della Sapienza. Proprio quella sapienza, con cui veniva indicata la presenza e l’azione di Dio in questo

mondo, ora prende forma umana nella figura del Figlio e giustifica il fatto che egli sia l’erede di tutte

le cose.

Il rapporto con la Sapienza prosegue anche nel versetto successivo, dove il Figlio viene definito come

«irradiazione della sua gloria», «impronta della sua sostanza» e «colui che tutto sostiene con la sua

parola potente» (v. 3a). Anche queste tre espressioni si rifanno alla concezione sapienziale giudaica.

La Sapienza infatti veniva considerata come «esalazione della potenza di Dio» e «effluvio della gloria»

dell’Onnipotente, «irradiazione della luce eterna», «specchio» tersissimo della sua potenza e

«immagine» della sua bontà (cfr. Sap 7,25-26). In Ebrei queste caratteristiche della Sapienza vengono

proiettate sul Figlio in modo tale da giustificare il suo ruolo nella creazione e nella salvezza

dell’umanità. Inoltre si aggiunge che egli «tutto sostiene con la sua parola». È proprio in quanto

portatore della parola definitiva di Dio che il Figlio diventa quel principio di ordine e di coesione di

tutto l’universo che, nel conteso culturale giudaico, era attribuito alla Sapienza. In forza di queste

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categorie sapienziali il Figlio viene visto come il principio in forza del quale il mondo è stato creato

e sussiste.

Dopo aver delineato le caratteristiche del Figlio, l’autore passa a descriverne il ruolo, anticipando così

quello che sarà il tema di tutto lo scritto. Anzitutto egli accenna al tema della purificazione dei peccati

da lui compiuta, in forza della quale egli si è seduto alla destra della maestà nell’alto dei cieli. Si fa

riferimento qui a un’immagine diffusa nelle comunità primitive, in forza della quale Gesù si è seduto

alla destra di Dio. Questa immagine indica la glorificazione del Figlio, che avviene non tanto di diritto

ma perché ha portato a termine, con la sua morte e risurrezione, l’opera che Dio gli aveva assegnato.

Questa consiste appunto nella purificazione dei peccati, che sarà un tema centrale dello scritto. Infine

il Figlio, proprio per queste sue caratteristiche superiori, viene dichiarato superiore agli angeli. Per

dimostrarlo senza timore di smentita, l’autore porta un piccolo florilegio di testi biblici. Da essi risulta

che egli, a differenza degli angeli, è stato generato da Dio (cfr. Sal 2,7), è suo Figlio (cfr. 2Sam 7,14)

ed è adorato dagli angeli (Sal 97,7). Naturalmente si tratta di testi che sono considerati come

messianici e in quanto tali sono applicati a Gesù in forza della sua messianicità.

Nel prologo della lettera agli Ebrei viene riportata una rilettura sapienziale della persona di Gesù,

analoga a quella che si trova nel prologo giovanneo (Gv 1,1-14) o nell’inno cristologico della lettera

ai Colossesi (Col 1,15-20). In essa il rapporto che Gesù ha con Dio viene visto alla luce di quello che

ha con lui la Sapienza, la quale è una degli intermediari di Dio nell’opera della creazione e della

redenzione dell’umanità. Nel giudaismo la sapienza era una figura di Dio stesso in quanto opera nel

mondo, quindi espressione di un ruolo cosmico analogo a quello dello Spirito o della Parola. La

qualifica di Sapienza di Dio, attribuita a Gesù, si pone dunque sulla linea degli altri che, sullo sfondo

della sua morte e risurrezione, gli sono stati riconosciuti, come profeta, Messia, Figlio di Dio. Ma

diversamente dagli altri, questo attributo pone automaticamente la persona di Gesù sullo stesso

piano di Dio e apre la strada alla sua presentazione come una realtà divina.

Questo passo compiuto dall’autore della lettera agli Ebrei non ha però come scopo diretto

l’esaltazione del Cristo, ma la giustificazione del suo ruolo salvifico: egli è la Sapienza in quanto è

stato capace di attuare la purificazione di coloro che credono in lui. Era questo probabilmente il

problema che angustiava i destinatari dello scritto, che non trovavano nella comunità cristiana quegli

strumenti di purificazione che erano usuali nel mondo giudaico. In questo contesto Gesù viene

presentato come la Sapienza di Dio in senso funzionale, in quanto ha svolto un ruolo analogo a

quello che era attribuito alla sapienza. Tutta la lettera avrà quindi lo scopo di far vedere come in

Cristo, considerato come sommo sacerdote della nuova alleanza, si sia attuata in modo pieno quella

purificazione a cui tendevano, senza raggiungerla, i riti giudaici.

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VANGELO

Dal Vangelo secondo Giovanni (1,1-18)

Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi

In principio era il Verbo,

e il Verbo era presso Dio

e il Verbo era Dio.

Egli era, in principio, presso Dio:

tutto è stato fatto per mezzo di lui

e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.

In lui era la vita

e la vita era la luce degli uomini;

la luce splende nelle tenebre

e le tenebre non l’hanno vinta.

[Venne un uomo mandato da Dio:

il suo nome era Giovanni.

Egli venne come testimone

per dare testimonianza alla luce,

perché tutti credessero per mezzo di lui.

Non era lui la luce,

ma doveva dare testimonianza alla luce.]

Veniva nel mondo la luce vera,

quella che illumina ogni uomo.

Era nel mondo

e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;

eppure il mondo non lo ha riconosciuto.

Venne fra i suoi,

e i suoi non lo hanno accolto.

A quanti però lo hanno accolto

ha dato potere di diventare figli di Dio:

a quelli che credono nel suo nome,

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i quali, non da sangue

né da volere di carne

né da volere di uomo,

ma da Dio sono stati generati.

E il Verbo si fece carne

e venne ad abitare in mezzo a noi;

e noi abbiamo contemplato la sua gloria,

gloria come del Figlio unigenito

che viene dal Padre,

pieno di grazia e di verità.

[Giovanni gli dà testimonianza e proclama:

«Era di lui che io dissi:

Colui che viene dopo di me

è avanti a me,

perché era prima di me».

Dalla sua pienezza

noi tutti abbiamo ricevuto:

grazia su grazia.

Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,

la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

Dio, nessuno lo ha mai visto:

il Figlio unigenito, che è Dio

ed è nel seno del Padre,

è lui che lo ha rivelato.]

Parola del Signore.

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Gv 1,1-18

Il prologo del vangelo

Nel prologo di Giovanni sono già presenti molti temi che verranno approfonditi in seguito. Esso però

si distacca dal corpo del vangelo non solo per la sua prosa ritmata, ma soprattutto perché sviluppa

il concetto di «Verbo» (parola) di Dio, che non apparirà più in seguito. Per spiegare queste anomalie

si è pensato che il prologo fosse originariamente un inno a sé stante, il quale solo in un secondo

tempo sarebbe stato inserito nel vangelo con la semplice aggiunta di due brani in prosa (vv. 6-8 e

15). Le analogie con il seguito del vangelo fanno però supporre che non si tratti di un brano del tutto

autonomo, ma di un inno sorto nell’ambito della “scuola giovannea”.

Un problema che complica lo studio del prologo è quello di sapere in che punto preciso termini il

discorso sul Verbo eterno e inizi quello sul Verbo incarnato.

Questa incertezza fa pensare che il problema non sia stato posto in modo corretto: l’autore infatti

fin dall’inizio ha in mente non un’entità trascendente, ma una persona concreta, Gesù di Nazareth, la

cui vicenda storica viene riletta alla luce del concetto di sapienza/parola. In questa prospettiva il

prologo può essere diviso in due parti simmetriche, nelle quali sono delineate rispettivamente la

discesa del Verbo (vv. 1-11) e la sua mediazione salvifica (vv. 12-18).

La discesa del Verbo (v. 1-11)

Il prologo si apre con tre brevi frasi parallele seguite da una conclusione (vv. 1-2), nelle quali è

descritta la condizione originaria del Verbo. L’autore si riporta al «principio», cioè al momento in cui

Dio ha creato tutte le cose (Gen 1,1) e afferma che allora il Verbo «esisteva»: chiaramente egli pensa

alla sapienza/parola di Dio, generata all’inizio dalla bocca di Dio, la cui esistenza si prolunga

indefinitamente nel passato. Viene poi specificato che il verbo era «presso Dio», cioè era in un

rapporto vivo e dinamico con lui. Infine si dice che «il Verbo era Dio», cioè era pienamente partecipe

della realtà divina. Al termine delle tre frasi l’autore riassume quanto ha detto affermando che «egli

(il Verbo) era in principio presso Dio».

Il discorso procede con la descrizione del ruolo svolto dal Verbo nella creazione: «Tutto è stato fatto

per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (v. 3). In queste due frasi, poste in

parallelismo antitetico, all’esistenza senza limiti di tempo del Verbo si contrappone il divenire delle

cose, che trovano in lui il loro artefice. Emerge qui il tema della sapienza/parola che collabora con

Dio nella creazione.

Nel passo successivo vengono indicati i due beni, la vita e la luce, che il Verbo possiede e offre

all’umanità (vv. 4-5). Ambedue designano nell’AT la salvezza che Dio conferisce al suo popolo e sono

spesso presentati come doni della sapienza di Dio. Per la prima volta appare qui il tema della

resistenza opposta alla luce da parte delle tenebre; l’evangelista afferma che queste, come i sapienti

di questo mondo, non l’hanno «accolta» (compresa). Il tema dello scontro tra luce e tenebre ha le

sue radici nell’AT.

L’evangelista prosegue introducendo la figura di Giovanni Battista: di lui si dice che è stato mandato

da Dio per rendere testimonianza alla luce, affinché per mezzo suo tutti potessero credere, sebbene

in realtà egli non fosse la luce (vv. 6-8). Giovanni deve condurre gli uomini alla fede, che consiste in

un atteggiamento di totale fedeltà al Dio dell’alleanza. Se originariamente il prologo era un inno a

sé stante, i vv. 6-8 sono stati aggiunti al momento del suo inserimento nel vangelo.

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Nel passo successivo l’autore osserva che «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni

uomo» (v. 9). In contrapposizione a Giovanni, che non era la luce, solo il Verbo è la luce vera, cioè

autentica, che porta a tutti gli uomini la pienezza dei beni salvifici.

Il v. 9 può essere tradotto anche in altri due modi: 1) «Egli era la luce vera che illumina ogni uomo

che viene nel mondo»; 2) «Egli era la luce vera che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo». Tutte

e tre le traduzioni hanno buoni motivi in proprio favore.

Nell’ultimo passo è sottolineata, come già nel v. 5, l’opposizione che il Verbo incontra venendo nel

mondo (vv. 10). Egli era nel «mondo», inteso come l’umanità in genere, ma il «mondo», che è ora

l’umanità ribelle, non lo ha conosciuto, cioè non lo ha ri-conosciuto e accettato. Nel v. 11 coloro che

lo rifiutano vengono identificati con «i suoi», che possono essere tutti gli uomini, in quanto creati da

lui, o i membri del popolo eletto.

Termina così la prima parte dell’inno, in cui è stata descritta l’origine del Verbo, la sua opera nella

creazione e il suo ruolo di portatore della luce, la testimonianza del Battista, e infine la sua venuta

nel mondo per portare agli uomini una luce che essi non vogliono accettare.

L’opera salvifica del Verbo (vv. 12-18)

Nella seconda parte del prologo l’autore riprende in ordine inverso le stesse idee della prima,

illustrando così i frutti della presenza del Verbo in questo mondo. Egli sottolinea anzitutto che al

rifiuto dei molti corrisponde l’accettazione di alcuni (vv. 12-13). Si tratta di coloro che hanno creduto

nel suo nome (cfr. v. 7), i quali ricevono da lui la possibilità di diventare figli di Dio, cioè di essere

nuovamente generati non in forza delle leggi biologiche, ma per una decisione divina.

L’autore riprende poi il tema della presenza del Verbo nel mondo (v. 14). Colui che «era» ora è

«divenuto», si è fatto carne. Questo termine indica la creatura nella sua debolezza e fragilità, spesso

opposta alla potenza divina. Il Verbo è apparso dunque nella debolezza di una creatura mortale. Egli

ha abitato in mezzo a noi: con questa espressione si allude alla dimora di Dio (Es 40,35) e soprattutto

a quella della sapienza in Israele (Sir 24,8): mediante il Verbo si attua dunque la presenza dinamica e

salvifica di Dio in mezzo al suo popolo. Questo fatto viene confermato dall’autore con la sua

testimonianza, unita a quella dei primi discepoli, i quali hanno visto la sua gloria, cioè la

manifestazione in lui di Dio stesso, che lo unisce a sé con un vincolo specialissimo, simile a quello

che un figlio unico ha con suo padre. Perciò egli, come JHWH nell’AT, è pieno di grazia e di verità.

Viene poi presentata di nuovo la testimonianza di Giovanni Battista il quale riconosce nel Verbo fatto

carne l’uomo del quale aveva detto: «colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di

me» (v. 15). L’immagine è quella di uno che cammina dietro un altro (non è esclusa l’idea di discepolo)

e a un certo punto lo sorpassa. Se originariamente il prologo era un inno autonomo, anche questo

versetto potrebbe essere stato aggiunto in un secondo tempo.

Nel passo successivo l’autore riprende il tema dei beni portati dal Verbo: dalla sua pienezza, analoga

a quella della sapienza, noi tutti, cioè i credenti, abbiamo ricevuto grazia su grazia (v. 16): ciò che egli

è in forza del suo rapporto con Dio viene così comunicato agli uomini. L’espressione «grazia su

grazia» può significare una grazia (il vangelo) in sostituzione di un’altra (la legge), oppure una grazia

dopo l’altra, o infine una grazia che corrisponde a quella del Verbo (pieno di grazia e di verità).

In corrispondenza alla sua opera nella creazione viene presentata ora la mediazione del Verbo nella

salvezza: la legge data da Mosè lascia il posto alla grazia e verità donateci per mezzo di Gesù Cristo

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(v. 17). Per la prima volta il Verbo viene qui identificato con la persona storica di Gesù di Nazareth:

in contrasto con la riflessione sapienziale, la sapienza non si identifica dunque con la legge di Mosè,

ma con una persona concreta, nella quale si rendono visibili la grazia e la verità divine.

Al termine del prologo l’autore ritorna al tema della vita eterna del Verbo presso il Padre: a differenza

di ogni altro essere umano, al quale è preclusa la visione di Dio, egli «ha rivelato» Dio perché è il

figlio unigenito che è nel suo seno (v. 18). Quest’ultima espressione indica, come quella del v. 1, un

rapporto dinamico con Dio, che favorisce la comunicazione di segreti e di confidenze.

Il prologo di Giovanni, letto sullo sfondo della storia della salvezza e della riflessione sapienziale,

appare come un tentativo di esprimere in sintesi chi è Gesù di Nazaret così come lo ha compreso

una comunità cristiana al termine di una lunga esperienza di fede. In questa prima parte del vangelo

la persona di Gesù, ripensata alla luce del concetto di parola/sapienza, appare come il luogo per

eccellenza della presenza di Dio in mezzo all’umanità: egli rappresenta il compimento dell’alleanza

che Dio aveva concluso con Israele, diventando così la ‘parola’ che si sostituisce alle tante parole

della legge, e il nuovo tempio che sostituisce l’antico santuario ormai profanato. In lui si realizzano

dunque le attese messianiche del suo popolo; ma ciò viene compreso perché un giorno egli sarà

innalzato sulla croce mostrando, attraverso il suo ritorno al Padre, di essere stato inviato da lui per

manifestare il suo infinito amore per l’umanità.

Nella prospettiva sapienziale Gesù appare così come un essere che esisteva originariamente in Dio

e, dopo aver collaborato alla creazione di tutte le cose, scende in questo mondo per coinvolgere

l’umanità nel progetto salvifico di Dio. Il testo però non contiene una speculazione sulla preesistenza

di un essere divino che a un certo punto della storia prende una carne (“natura”) umana, ma piuttosto

un ardito tentativo di definire il ruolo della persona di Gesù nel piano salvifico di Dio. Mediante l’uso

delle categorie sapienziali l’autore vuole semplicemente dire che egli è il mediatore finale della

salvezza promessa da Dio per mezzo dei profeti e di riflesso il centro di tutto l’universo.

Questa centralità però non deve essere intesa come possesso esclusivo da parte sua della verità di

Dio, come se Dio si fosse rivelato solo in lui e per mezzo di lui. Al contrario egli è presentato come

espressione di una pienezza che raccoglie e valorizza tutte le manifestazioni del divino che si trovano

in questo mondo e nel cuore delle persone. I cristiani giovannei hanno voluto esprimere in questo

prologo la loro fede non tanto nella “divinità” di Cristo, quanto piuttosto nella manifestazione

dinamica del divino in un essere umano in cui essi avevano trovato il riferimento ultimo di tutta la

loro vita e il significato profondo di tutto il cosmo.