Società civile e movimenti sociali: la democrazia radicale · sessione del Corso di Scienza della...

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Società civile e movimenti sociali: la democrazia radicale Una meta-introduzione. Prevenire possibili malintesi. Nel ringraziare, in particolare, Guido (ma anche tutti voi) per avermi invitato come relatore di cui sento tutto l’onere e l’onore – alla prima sessione del Corso di Scienza della Politica 2013-14, organizzato dalla Libera Università Popolare di Reggio Emilia, su questa tematica così importante per la vita di tutti noi (la democrazia e la sua possibile trasformazione), ma allo stesso tempo così complessa, devo subito confessarvi una cosa, che forse non vi farà del tutto piacere, ma lo faccio per onestà intellettuale e per non oltrepassare, oltre un certo limite, la soglia del ridicolo. Ve lo dico subito e la metto così, brutalmente: il titolo di questa sessione è Società civile e movimenti sociali: la democrazia radicale. Ebbene, alla fine di questa lezione, non ci sarà nessuno di voi che andrà via con un pacchetto preconfezionato e già pronto di nozioni, concezioni e, finanche, architetture istituzionali su ciò che nel titolo della sessione di oggi è stata chiamato anche provocatoriamente democrazia radicale. Sarebbe ridicolo venire qui e pensare di fare tutto ciò, in primo luogo, proprio per i tempi di crisi che corriamo. Ma come? avrà pensato sicuramente qualcuno di voi abbiamo difficoltà anche arrivare a fine mese, c’è un livello di disoccupazione generale che ha oltrepassato anche le fasi più acute della crisi economica degli anni Settanta, da almeno due anni non abbiamo un governo che sia legittimato elettoralmente, ed anche in caso di governo legittimato elettoralmente, tanto avrebbe fatto la stessa cosa, vale a dire, subire la volontà politica della c.d. Troika (BCE, FMI, UE) o di qualsiasi altro potente organismo sovranazionale, e questo giovanestudioso ci viene qui a parlare delle “magnifiche sorti e progressive” dell’istituzione democratica? Avreste perfettamente ragione a pensare tutto ciò. Ma, infatti, io non sono venuto qua a parlavi delle “magnifiche sorti e progressive” della democrazia liberale. No. Non parlerò di cose che non esistono. Di cose impossibili. Ma allora di che cosa sono venuto a parlare fin qua? Ve lo dico subito. Più che di come costruire l’istituzione della democrazia radicale, sono venuto a parlare di come attraverso la letteratura scientifica sia di discipline empiriche come la sociologia e la scienza politica sia di discipline teoriche come la teoria e la filosofia politica sia possibile decostruire il concetto/istituzione di democrazia liberale, così come lo abbiamo imparato e conosciuto nel linguaggio comune e nella vita di tutti i giorni e su cui poi, soprattutto, fondiamo la nostra condotta politica di cittadini democratici. Ecco, io credo appunto che su questo concetto-istituzione, la democrazia liberale, ci sia ancora molto da dire, ci sia ancora molto da criticare, per poi ripartire su nuovi basi democratiche più genuinamente condivise da noi cittadini. E’ per questo motivo che ritengo che le coordinate che mi sono state date per parlare di come decostruire il concetto-istituzione di democrazia liberale e, soprattutto, il senso comune che si è creato su di esso, e cioè le coordinate della “società civile, movimenti sociale e democrazia radicale,siano quelle più adatte per adempiere a questo compito. E nel corso della mia presentazione spero che capirete il perché.

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Società civile e movimenti sociali: la democrazia radicale

Una meta-introduzione. Prevenire possibili malintesi. Nel ringraziare, in particolare, Guido (ma

anche tutti voi) per avermi invitato come relatore – di cui sento tutto l’onere e l’onore – alla prima

sessione del Corso di Scienza della Politica 2013-14, organizzato dalla Libera Università Popolare di Reggio

Emilia, su questa tematica così importante per la vita di tutti noi (la democrazia e la sua possibile

trasformazione), ma allo stesso tempo così complessa, devo subito confessarvi una cosa, che forse non vi

farà del tutto piacere, ma lo faccio per onestà intellettuale e per non oltrepassare, oltre un certo limite, la

soglia del ridicolo. Ve lo dico subito e la metto così, brutalmente: il titolo di questa sessione è Società civile

e movimenti sociali: la democrazia radicale. Ebbene, alla fine di questa lezione, non ci sarà nessuno di voi

che andrà via con un pacchetto preconfezionato e già pronto di nozioni, concezioni e, finanche, architetture

istituzionali su ciò che nel titolo della sessione di oggi è stata chiamato anche provocatoriamente

democrazia radicale. Sarebbe ridicolo venire qui e pensare di fare tutto ciò, in primo luogo, proprio per i

tempi di crisi che corriamo. Ma come? – avrà pensato sicuramente qualcuno di voi – abbiamo difficoltà

anche arrivare a fine mese, c’è un livello di disoccupazione generale che ha oltrepassato anche le fasi più

acute della crisi economica degli anni Settanta, da almeno due anni non abbiamo un governo che sia

legittimato elettoralmente, ed anche in caso di governo legittimato elettoralmente, tanto avrebbe fatto la

stessa cosa, vale a dire, subire la volontà politica della c.d. Troika (BCE, FMI, UE) o di qualsiasi altro potente

organismo sovranazionale, e questo “giovane” studioso ci viene qui a parlare delle “magnifiche sorti e

progressive” dell’istituzione democratica? Avreste perfettamente ragione a pensare tutto ciò. Ma, infatti, io

non sono venuto qua a parlavi delle “magnifiche sorti e progressive” della democrazia liberale. No. Non

parlerò di cose che non esistono. Di cose impossibili. Ma allora di che cosa sono venuto a parlare fin qua?

Ve lo dico subito. Più che di come costruire l’istituzione della democrazia radicale, sono venuto a parlare di

come – attraverso la letteratura scientifica sia di discipline empiriche come la sociologia e la scienza politica

sia di discipline teoriche come la teoria e la filosofia politica – sia possibile decostruire il

concetto/istituzione di democrazia liberale, così come lo abbiamo imparato e conosciuto nel linguaggio

comune e nella vita di tutti i giorni e su cui poi, soprattutto, fondiamo la nostra condotta politica di cittadini

democratici. Ecco, io credo appunto che su questo concetto-istituzione, la democrazia liberale, ci sia ancora

molto da dire, ci sia ancora molto da criticare, per poi ripartire su nuovi basi democratiche più

genuinamente condivise da noi cittadini. E’ per questo motivo che ritengo che le coordinate che mi sono

state date per parlare di come decostruire il concetto-istituzione di democrazia liberale e, soprattutto, il

senso comune che si è creato su di esso, e cioè le coordinate della “società civile, movimenti sociale e

democrazia radicale,” siano quelle più adatte per adempiere a questo compito. E nel corso della mia

presentazione spero che capirete il perché.

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Di cosa parlerò e di cosa non parlerò. Ma adesso entriamo un po’ più da vicino – dopo questa mia

introduzione in cui forse ho messo fin troppo le mani avanti – nei contenuti della sessione di oggi. Guido,

nell’invitarmi a parlare, mi ha detto di focalizzarmi su tre aspetti specifici: a) il concetto di post-democrazia

nel contesto della crisi delle democrazia liberali; b) un excursus storico-teorico sul concetto di società civile;

ed infine, c) concezioni e pratiche della democrazia radicale. Devo subito ammettere anche qui un’altra mia

colpa. Non obbedirò totalmente a tutte le richieste di Guido, o almeno lo farò in un modo meno lineare di

quanto si aspetti. Dei 3 punti appena menzionati, tratterò in modo estremamente breve del secondo, vale a

dire, l’excursus storico-teorico sul concetto di società civile, per due buoni motivi. Il primo è più personale,

diciamo così. Lo dico brutalmente. La ricostruzione storico-teorica del concetto di società civile così come

l’ho presentata nel libro Società civile e democrazia radicale, non la condivido più totalmente. Non la

considero adeguata per interpretare questi tempi di crisi politica ed economica vissuti dalle nostre

democrazie. Non la considero, in altre parole, più un concetto “all’altezza dei nostri tempi,” come direbbe

un pensatore conservatore spagnolo dell’inizio del Novecento. E allora ho deciso che non avrebbe avuto

senso parlarne diffusamente qui oggi, quando poi non ero più nemmeno così sicuro della valenza euristica

del concetto da me costruito. Ma voglio rassicurare Guido sul fatto che, comunque, parlerò più

diffusamente di società civile, introducendo la mia seconda buona ragione. In realtà, non c’è bisogno che vi

faccia una ricostruzione metodica del concetto di società civile, perché tanto ne andremo a parlare, ed

anche diffusamente, quando discuterò il terzo punto della mia relazione, cioè il tema delle concezioni e

pratiche della democrazia radicale. Spero, insomma, che Guido mi perdoni se mi sono preso queste libertà

espositive, ma l’ho fatto e lo faccio, soprattutto, per rendere la mia lezione più concreta ed attuale in modo

tale da facilitare ed incentivare ciò che di più bello c’è in ogni lezione, il momento della discussione. Spero,

infatti, che nell’ora successiva siano tante le cose da discutere con voi a partire dalle cose che vi dirò in

questi minuti. Ma adesso basta con le introduzioni delle introduzioni ed i caveat ed addentriamoci nella

rozza materia della nostra lezione.

1. Il concetto di postdemocrazia nel contesto della crisi delle democrazia liberali

Democrazia liberale-rappresentativa. Che cosa è? Prima, però, di presentare il concetto di

postdemocrazia, è bene dare qualche breve coordinata di cosa si intende nella scienza politica (e nel

linguaggio comune) per democrazia liberale-rappresentativa. Sarà sufficiente riportare alla vostra

conoscenza qualche definizione dei grandi classici. Con grandi classici intendo quegli autori che hanno

fondato la disciplina della scienza politica. I primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Schumpeter,

Dahl e Sartori. In particolare, qui parto dalle definizioni di Schumpeter e Sartori, che mi sembrano le più

chiare, nette e sintetiche. Quindi, le più facili da utilizzare per partire poi con le critiche del modello

liberale-rappresentativo. Schumpeter definisce la democrazia come quel tipo di governo caratterizzato

dalla “presenza di più élites in concorrenza tra loro per la conquista del voto popolare.” Similmente, Sartori

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ci dice che la democrazia è quel regime politico in cui “l’influenza della maggioranza è basata sul potere di

minoranze, in competizione tra loro, scelte attraverso elezioni.” Come si potrà facilmente intuire, questi

autori individuano nel meccanismo della rappresentanza l’aspetto caratterizzante della democrazia liberale.

Per loro, democrazia è, prima di tutto, un metodo. Un metodo di scelta dei governanti, cioè dell’elite

politica che dovrà poi governare una comunità in nome della maggioranza dei suoi cittadini. Va da sé che il

principale meccanismo pratico di traduzione del principio della rappresentanza non potrà che essere

identificato con il meccanismo elettorale. Elezioni che dovranno essere — ci dice sempre Sartori — libere,

competitive e periodiche. Rappresentanza politica attraverso elezioni libere, competitive e periodiche.

Questa è la “formula magica” (gli ingredienti fondamentali) della c.d. democrazia liberale-rappresentativa.

Ossia, della nostra democrazia. Specifichiamo e chiariamo meglio questo punto riguardante la definizione

corrente della democrazia liberale e rappresentativa. La democrazia è, infatti, stata ed è tutt’ora – per

queste interpretazioni “scientifiche” dominanti – considerata semplicemente un metodo per la scelta dei

governanti. Nulla di più, nulla di meno. E vi assicuro che non sto esagerando per difetto. Casomai per

eccesso. In altre parole, per tutti i grandi classici del pensiero democratico (come Sartori), della democrazia

non possiamo che darne una definizione proceduralista, formalista e minimalista. Cioè, una democrazia

ridotta ai minimi termini.

La divisione del lavoro politico nella democrazia liberale Il più grande corollario politico e pratico

della definizione minimalista era, ed è, l’accettazione/legittimazione di una divisione del lavoro della

politica. Diciamo meglio. Tutte queste definizioni minimaliste (dette anche “realiste”) della democrazia

sottintendevano una radicale (e non sfidabile) comprensione del lavoro della politica come attività

esclusivamente pertinente alla classe dei politici. Parafrasando Weber, si potrebbe dire che la politica era,

ed è, roba per coloro che vivono della politica (e non necessariamente per la politica). Detto brutalmente,

la politica era ed è affare dei professionisti. E soltanto i professionisti della politica (solitamente i ceti

dirigenti dei partiti politici) avevano il diritto/dovere di essere selezionati come governanti, mirare a

incarichi pubblici ed istituzionali a vari livelli, e così via. Non c’era, quindi, altro spazio per nessun’altra

comprensione dell’attività politica democratica e, tantomeno, per nessun altro attore che non fosse il

politico professionista stesso, da intendersi in senso weberiano. Ed i cittadini comuni? I cittadini avevano

soltanto il diritto-dovere di andare a votare e poi zitti fino alle elezioni successive. Vi leggo qui, cosa ebbe a

scrivere in merito Schumpeter in Capitalismo, socialismo, democrazia (il suo testo più conosciuto, 1947):

“gli elettori devono rispettare la divisione del lavoro fra sé e gli uomini politici che eleggono. Non devono ritirare

troppo facilmente la propria fiducia nell’intervallo fra una elezione e l’altra e devono capire che, dal momento in cui

hanno eletto qualcuno, l’azione politica spetta a lui e non a loro.”

L’odierno paradosso della democrazia liberale. Ecco. Precisamente questa concezione e pratica

della democrazia oggi sembra vivere il suo più grande paradosso. Oggi, in piena fase di crisi e di critica della

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democrazia liberale, stiamo vivendo una situazione paradossale. E questo ce lo dicono anche i pensatori e

gli scienziati politici più conosciuti negli ultimi decenni per aver trattato nelle loro ricerche scientifiche i

temi della democrazia liberale e della sua crisi. Mi sto riferendo, in particolare, ai vari della Porta, Held,

Crouch, Bobbio, Tronti. Ma che paradosso starebbe investendo, secondo loro, la nostra democrazia? In

termini sintetici, si potrebbe formulare in questo modo: siamo davanti ad un’estensione/espansione

quantitativa della forma democratica, ma allo stesso tempo osserviamo una crisi del suo funzionamento

nelle democrazie consolidate. Da un lato, cioè cresce il numero di paesi democratici nel mondo (da 147 nel

1988 a 191 nel 1999); dall’altro, si riduce la soddisfazione dei cittadini per le realizzazioni effettive delle

democrazie realmente esistenti. Siamo allora effettivamente in presenza di una situazione paradossale. Nel

momento in cui la democrazia sembrava aver definitivamente trionfato (c’è chi aveva addirittura parlato di

“fine della Storia:” Fukuyama), ci accorgiamo che la sua effettiva realizzazione è tutt’altro dall’essere

soddisfacente per i suoi stessi cittadini. In che senso, quindi, – se accettiamo la validità euristica di questo

paradosso, e noi lo facciamo – l’istituzione democratica sta vivendo una fase di crisi irreversibile,

soprattutto e precisamente, nelle c.d. “società liberali avanzate?” Io credo che su questo punto possa

esserci di aiuto uno dei più importanti sociologi contemporanei, un inglese, Colin Crouch, che sulla crisi

della democrazia liberale ha pubblicato recentemente un interessante lavoro, Postdemocrazia (2002,

Laterza).

Su Crouch. Il ritorno alla “sostanza” della democrazia. Democrazia è welfare state. Colin Crouch, a

differenza degli autori realisti e minimalisti della democrazia, collega esplicitamente il destino della

democrazia a quello del capitalismo. I due fenomeni – sembra dirci in Postdemocrazia – non possono

essere indagati separatamente. È già questo aspetto rappresenta un punto di estremo interesse e di

innovazione rispetto alla letteratura politologica sulla democrazia affermatasi e sviluppatasi fino ad adesso.

La democrazia liberale – secondo Crouch – non è nient’altro che un adattamento della definizione ideale di

democrazia all’esistente (della società americana). Vale a dire – nella sua interpretazione - partecipazione

elettorale + libero mercato. Questo è, almeno, come hanno inteso la democrazia gli scienziati politici ed i

governanti del mondo occidentale negli ultimi trent’anni. Ma era effettivamente questo il destino e la

sostanza della democrazia? Crouch non sembra aver paura di prendere parte nella discussione, scientifica e

politica, di che cosa una società democratica sia, partendo da un approccio sostanziale ed/o sostanzialista.

E con questo voglio dire che, in netto contrasto con gli autori trattati in precedenza (i grandi classici del

pensiero democratico), Crouch non si tira indietro nel valutare il livello di democrazia di una società, non

tanto guardando alla correttezza del suo processo (“elezioni libere, competitive e periodiche”), ma

piuttosto agli esiti sostanziali – appunto – dello stesso. Una buona democrazia è, per Crouch, quella che

garantisce una equa redistribuzione sociale della ricchezza prodotta dal capitalismo ed un generale, ma

reale, livello di pari opportunità politiche per tutti i cittadini. in altre parole, Colin Crouch lega il destino

della democrazia ad una fase storica particolare dello stato democratico, quella del welfare state. Non

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sarebbe fuorviante interpretare il suo testo come un tentativo di presentare la fase storica del

compromesso fordista-keynesiano tra capitale e lavoro come l’età dell’oro della democrazia. In quella fase,

e solo in quella ci pare suggerirci amaramente nel libro, il capitalismo è parso essere compatibile con la

democrazia, la classe operaia con il capitale. Ed infatti è stata una fase di intensa crescita economica

accompagnata dall’acquisizione di diritti sociali e da un generalizzato benessere sociale.

Verso una società post-democratica. Gli interessi del capitale sopra tutto (e tutti). Ma come tutte

le belle favole, anche questa realtà doveva finire. O più precisamente, non tutte le parti coinvolte in questo

patto sociale avevano interessi a farlo durare. E questo fatto può meglio essere compreso se si guarda alla

realtà sociale come ad un campo di forze sociali contrapposte. Se una parte, sia per sopraggiunta debolezza

politica sia per trasformazioni strutturali del “contesto di gioco”, viene a mancare, è chiaro che l’altra può

facilmente e convenientemente prendere il sopravvento. Con questa prospettiva “di rapporti di forza,”

Crouch ci spinge a guardare alla società democratica ed alla sua più recente evoluzione che lui chiama post-

democratica. Più precisamente, Colin Crouch vede nel sopraggiunto strapotere (che ha delle cause politiche

ben precise e concatenate, quali la fine degli accordi di Bretton Woods, la deregulation dei mercati

finanziari, la politica moneratista delle più importanti banche centrali, la svolta neoliberalista dei governi

occidentali) di una nuova elite economico-finanziaria globale la causa della fine (e/o degenerazione) della

fase politica democratica delle società occidentali. Crouch chiama questa nuova fase politica “post-

democratica” e l’identifica con il modo in cui il governo americano si è manifestato ed ha agito dagli anni

della presidenza Reagan ai nostri giorni. Ossia, agendo come un governo politicamente limitato entro

un’economia capitalista senza restrizioni, con la riduzione della componente democratica alle mere elezioni

(p. 16). Questo ha generato, secondo Crouch, lo stravolgimento dei principi ideali su cui si era fondata la

democrazia liberale. Postdemocrazia si ha, in altre parole, quando gli interessi di una minoranza potente

diventano ben più attivi della massa comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi. E questo è il caso di

tutte le democrazia consolidate. Qui, il potere delle elites economico-finanziarie è riuscito a

stravolgere/corrompere i fini ultimi della democrazia liberale. Siamo di fronte ad un processo di corruzione

istituzionale delle nostre democrazie senza precedenti. Un processo di corruzione istituzionale si manifesta

quando si ha una situazione di deviazione sistematica dei fini per i quali un’istituzione pubblica è concepita

e costruita. Diciamo meglio. Se l’interesse, per esempio, che l’istituzione parlamentare deve

costituzionalmente servire è quello pubblico, cioè l’interesse generale dei cittadini, allora la sistematica

distorsione di quell’interesse a beneficio di interessi privati può essere definita come un processo di

corruzione istituzionale, cioè un processo di corruzione dell’istituzione parlamentare stessa. Nel suo

complesso (si veda per un’attenta definizione del fenomeno, Lawrence Lessig 2013 EUI working paper).

2. Concezioni e pratiche della democrazia radicale

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In fondo al tunnel postdemocratico, una luce chiamata speranza. Ma può, allora, la nostra

democrazia essere salvata? Per parafrasare il titolo di un recente lavoro sociologico in lingua inglese sul

destino delle nostre democrazie (della Porta 2012). Non spetta a me, ed a noi, dirlo. Soprattutto, non si può

prevedere quali siano gli esiti delle trasformazioni dello stato democratico cui accennavo poc’anzi. E per

argomentare questa impossibilità oggettiva dello studioso a prevedere il destino della democrazia, mi

rifaccio esplicitamente a Max Weber che, nel rispondere alle domande dei suoi studenti che gli chiedevano

quale sarebbe stato il destino della Germania, ebbe prontamente a rispondere che “la cattedra non è per i

demagoghi né per i profeti.” Ecco, decisamente io mi sento di condividere in pieno l’umiltà ed il realismo di

questa proposizione. Detto questo, è giunto il momento di introdurre la seconda parte della mia relazione.

Esposta la prima parte – la c.d. pars destruens – del mio intervento, è bene adesso entrare più

frontalmente sulle questioni principali su cui Guido mi ha chiamato ad intervenire: “concezioni e pratiche

della democrazia radicale.” Per dare e ridarci anche qualche speranza. C’è sempre una luce in fondo a

qualsiasi tunnel, anche a quello lungo ed fosco della postdemocrazia. O almeno ci spero, appunto.

Il messaggio politicamente subliminale della democrazia “realista.” Io credo questo. La storia, o

meglio, le storie del concetto – delle sue crisi e delle sue critiche – di democrazia che vi ho appena

raccontato, rappresentano soltanto una parte della verità. Solo una faccia, quella più brutta ed opprimente,

della democrazia. Ma nella storia e nella realtà della vita democratica c’è stato e c’è tutt’ora dell’altro. Ed è

su quest’altro che focalizzerò l’ultima parte, spero più breve, del mio intervento. Per poi dare spazio alla

discussione con voi. Innanzitutto, va chiarito meglio un aspetto che forse ho tralasciato nella prima parte.

Non esiste definizione di democrazia che non comprenda una dimensione ideale e normativa. In altre

parole, ogni definizione di democrazia porta con sé una specifica visione del mondo, una “forma di vita”

direbbe Wittgestein. E questo è il caso anche delle c.d. definizioni “minimaliste” di democrazia menzionate

poc’anzi, utilizzate in primis dalla scienza politica americana e poi diffusesi negli anni in tutta la comunità

scientifica occidentale. E non è un caso che per dissipare questa intrinseca presenza di “normatività” gli

scienziati politici americani si siano affrettati ad etichettare le loro definizioni di democrazia come

“realiste.” Implicando con questo realismo l’oggettività e la scientificità delle loro formulazioni sulla

democrazia. In realtà, ci dice della Porta (2011) non c’è stato niente di meno scientifico ed ideologicamente

fazioso di questo realismo. Il realismo delle concezioni proceduraliste della democrazia ha, infatti,

legittimato quella sottesa concezione normativa della democrazia che de facto riproduceva le concrete

caratteristiche dei sistemi politici occidentali. Detto ancora una volta brutalmente. La c.d. definizioni

proceduraliste della democrazia erano di fatto le condizioni reali del sistema politico americano. Ecco

scoperchiata finalmente la grande copertura ideologica che ha messo a tacere per anni questo dibattito

sulla democrazia liberale e le sue molteplici definizioni.

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L’emersione di un’altra democrazia. Perché effettivamente un nuovo dibattito nelle scienze sociali

e storiche di come debba essere reinterpretata e ricompresa la democrazia moderna si è finalmente aperto

negli ultimi anni. La democrazia moderna è, infatti, una roba molto più complessa e variegata di ciò che

siamo stati portati a credere. Non è riducibile al dispositivo elettorale-rappresentativo. La storia e realtà,

complessa e variegata al tempo stesso, dell’istituzione democratica moderna va riletta sotto una nuova

luce. A partire proprio da una nuova comprensione ed importanza data, in sede politica e scientifica, ai

concetti di società civile e di movimenti sociali; vale a dire, precisamente a quei concetti su cui Guido mi

aveva oggi diffusamente invitato a parlare. Ma cerchiamo di dare un ordine a questa ultima parte del mio

intervento. Dicevo. Esiste un’altra storia ed un’altra realtà della democrazia che paradossalmente (visto

quanto detto finora) soltanto negli ultimi anni ha avuto un riconoscimento accademico e, direi quasi,

politico. Che cosa è questa contro-storia e contro-realtà della democrazia moderna? È la storia e la realtà

dei contropoteri informali diffusi a livello sociale, è la storia della sfiducia permanente nei confronti delle

istituzioni politiche organizzata e diffusa nel sociale, che ha accompagnato fin dalla nascita la storia e la

realtà ufficiale dei poteri formali della democrazia liberale. È una sorta di storia e realtà politica negata della

nostra democrazia. Soffocata dalla visione dominante e ufficiale della democrazia moderna, quella tutta

schiacciata sul binomio rappresentanza politica e procedura elettorale. Ed è precisamente l’emergenza di

questa contro-storia della democrazia, una sorta di altra democrazia, ciò che potrebbe, tutt’ora,

effettivamente fornire un contro-bilanciamento politico al processo degenerativo dell’ordine sociale post-

democratico, offrendoci qualche speranza per il futuro.

Un breve excursus storico-teorico sul concetto di società civile. E qui veniamo al secondo punto

del mio intervento, l’affermarsi della società civile, tema che tratterò più brevemente rispetto agli altri per

poi parlare più ampiamente delle concezioni e delle pratiche della democrazia radicale (che sono,

comunque, assolutamente legate alla formazione del concetto di società civile). Ma dicevo: società civile. 1)

Quando e come nasce? 2) Che cosa è? 3) Come si è manifestato e come oggi si manifesta? Ecco. La terza

domanda, come si manifesta oggi la società civile, vi anticipo, è il tema del terzo punto della mia relazione,

quello sulle pratiche e concezioni della democrazia radicale. Questo lo dico ora, già per chiarire con voi un

aspetto molto importante della mia interpretazione: società civile contemporanea e democrazia radicale

sono, per me, due concetti quasi identici. Sono quasi sinonimi. Ma torniamo alla formazione e sviluppo del

concetto di società civile. Tema che tratto ampiamente nel libro Società civile e democrazia radicale, che

non vi consiglio di comprare ma di scaricare liberamente da Internet, visto che è sotto la licenza creative

commons. Ma iniziamo adesso dalla prima domanda: come nasce la società civile? L’idea o, per meglio dire,

lo spazio sociale della società civile nasce con la politica e lo stato moderno. Quello assolutista francese e

quello più liberale inglese. Quindi si colloca, anche storicamente a cavallo tra Sei e Settecento, cioè a

cavallo tra la Rivoluzione Inglese e quella Francese. L’affermazione della società civile segue, quindi, da

vicino la nascita e l’affermazione della democrazia moderna. In realtà, si potrebbe quasi dire che la

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formazione dello spazio sociale della società civile è stata una delle condizioni strutturali e, allo stesso

tempo, culturali più importanti per l’affermarsi della nostra democrazia. Le prime manifestazioni della

società civile sono i caffè letterari della società illuminista parigina del Settecento. Le riviste letterarie, i

salotti buoni della discussione illuminata dell’alta società francese e la carta stampata libera sono, in altre

parole, le prime espressioni della formazione di una spazio sociale e culturale autonomo. Autonomo, cioè,

dal controllo e dal comando del potere sovrano. Del potere politico. La società civile si afferma, quindi, fin

da subito come quello spazio formalmente indipendente dal potere politico, ma anche in questa fase

iniziale dal potere economico – dato che coloro che ne fanno parte sono la minoranza dei possidenti, l’alta

borghesia illuminata e progressista delle prime società in via di sviluppo capitalista, come la Francia e

l’Inghilterra. Ed è precisamente in questo periodo che si forma una minoranza di informati e di critici nei

confronti del potere statuale e dei governanti. L’affermarsi di questa società civile è, quindi, l’affermarsi

dell’opinione pubblica, cioè di quelle riviste, giornali e documenti di varia natura che puntavano a mettere

alla berlina le malefatte del potere politico. A denunciarlo. Società civile e opinione pubblica sono concetti

indissolubilmente legati. Habermas ha scritto un bellissimo libro sulla storia di questi concetti Storia e

critica dell’opinione pubblica (1962). Ma è tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che il concetto

di società civile entra più prepotentemente nel nostro linguaggio politico. Vale a dire, con l’ingresso delle

masse operaie nello spazio pubblico democratico. È a partire da qui, cioè con l’entrata della masse

proletarie nella storia della nostra democrazia e della nostra politiche che il concetto di società civile si

amplia e si complessifica. La società civile, cioè ripetiamolo, quello spazio socialmente autonomo dal potere

sovrano, subisce all’inizio del Novecento le sue trasformazioni più importanti ed è così che è giunta fino a

noi. La società civile ora non è più lo spazio di discussione tra (pochi) cittadini liberi ed uguale, espressione

della borghesia liberale, ma si massifica, grazie all’emersione di nuove soggettività sociali, tra cui quelle

operaie (ma non solo), che chiedono un posto alla luce del sole. Chiedono diritti politici e sociali. Ma

facciamo un altro salto cronologico ed arriviamo fino agli anni ’60. E qui che si mobilitano altre soggettività

sociali, prendendo pubblicamente la parola, come gli studenti, i neri, le donne e così via. E su questa idea,

più complessa e ampia, di società civile – vale a dire, l’idea di società civile come il luogo di queste sempre

nuove soggettività sociali che si pongono in termini critici ed antagonistici con il potere politico – che

partirà adesso il mio discorso, cui accennavo prima, sull’affermazione di un’altra, più sotterranea ed

invisibile (ma non per questo meno esistente), democrazia.

Controdemocrazia e/o democrazia radicale. Entriamo, quindi, pienamente nella parte conclusiva e,

spero, più propositiva del mio intervento. Nel dibattito storico e sociologico degli ultimi anni, diverse sono

state le interpretazioni analitiche (ma anche militanti) su questo fenomeno. Uno dei più influenti storici

francesi contemporanei, Pierre Rosanvallon, ha proposto di chiamare la storia e la realtà di questa

democrazia non-rappresentativa e non-elettorale come “controdemocrazia” (2006). Altri studiosi, alla cui

prospettiva normativa anche il mio libro deve molto, hanno proposto di chiamarla “democrazia radicale.”

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Non importa, in questa sede, approfondire le differenze, politiche e filosofiche, tra le due categorie. In

realtà, le due categorie, per il livello di astrazione che ci interessa, possono essere tranquillamente

associate. Quindi, d’ora in avanti, utilizzerò i concetti di democrazia radicale e di contro democrazia

interscambiabilmente. Cosa si intende, allora, con l’emersione del fenomeno controdemocratico? Che cosa

è, in altre parole, questa realtà della controdemocrazia che oggi più che mai – secondo Rosanvallon –

sembrerebbe contrapporsi in maniera radicale alle istituzioni rappresentative della democrazia liberale?

Qui seguo più pedissequamente il testo del pensatore francese, poi allargo il quadro. Rosanvallon – ci dice

nell’introduzione del suo lavoro del 2006, chiamato appunto Controdemocrazia – definisce

controdemocrazia (p. 14) “la democrazia dei poteri indiretti disseminati nel corpo sociale, la democrazia

della sfiducia organizzata di fronte alla democrazia della legittimità elettorale.” Cioè, detta in termini più

intellegibili dal linguaggio comune, la contro-democrazia o democrazia radicale è la democrazia della

società civile, dei suoi contropoteri diffusi, che emerge e si contrappone alla società politica, vale a dire, allo

Stato.

I 3 poteri della controdemocrazia: sovranità critica, sovranità negativa, sovranità giudicante.

Rosanvallon distingue in modo specifico 3 poteri, o meglio contropoteri, che sono appartenuti storicamente

alla società civile nel suo rapporto politicamente antagonistico con lo Stato: 1) il potere di sorveglianza, 2) il

potere di interdizione/opposizione; 3) il potere di giudizio. 1) Sorveglianza. Ossia la vigilanza del popolo-

controllore, costantemente attivo per occuparsi delle disfunzioni istituzionali della democrazia. Pensiamo

alle attività di vigilanza, denuncia e verifica che storicamente l’opinione pubblica ha sempre esercitato sul

potere politico: dal monarca alla democrazia dei partiti. E, anzi, non sarebbe fuorviante sostenere che

l’effettiva modalità di esercizio della sovranità popolare sia stata realizzata più attraverso questo agire della

società civile (stampa, associazioni della società civile, sindacati, movimenti sociali) che attraverso quello

degli elettoralmente legittimati rappresenti politici. Quindi, storicamente e politicamente, la sovranità

politica si è espressa nelle forme di un popolo-controllore, una sorta di sovranità critica. 2) Opposizione. Ma

c’è anche una seconda dimensione della sovranità popolare, affermatasi storicamente nella democrazia

moderna ed oggi, ai nostri giorni, più presente che mai. È il potere di opposizione. Il potere di opposizione

della società civile nei confronti della classe politica, dei governanti e delle loro decisioni. In questa seconda

dimensione, il popolo democratico si afferma come una sorta di sovranità sociale negativa. In altre parole,

la sovranità del popolo-veto si manifesta effettivamente sempre più come una potenza di rifiuto,

nell’opposizione permanente alle decisioni dei governanti. Il potere del popolo-veto è, quindi,

l’affermazione della sovranità negativa del popolo che si associa a quella critica e che, insieme, si

contrappone a quella elettorale. 3) Giudizio. Ma esiste, infine, anche una terza ed ultima forma di sovranità

non-elettorale e non-rappresentativa. È la sovranità del popolo-giudice. Nel duplice senso, sia

dell’accresciuto potere dei giudici nella vita politica democratica che nell’accresciuta funzione giudicante

dei cittadini nei confronti dei propri politici e governanti, che sempre più vengono “processati” alla luce

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delle loro responsabilità morali, politiche e personali (oltre che penali). Una postilla sulla c.d.

“giuridiziarizzazione del politico” nella democrazia contemporanea. “(Rosanvallon 2006: p. 160) la crescita

del potere dei giudici nel campo politico è accelerata dall’incapacità del sistema politico a regolamentarsi

da sé e a rispondere alle aspettative della società.” Il potere giudiziario – e pensiamo all’Italia – è riuscito in

questi anni a sopperire al declino della “reattività dei governi di fronte alle richieste dei cittadini.” I giudici si

sono dimostrati più reattivi dei governanti, agendo più genuinamente in “nome del popolo,” a rispondere

alle trasformazioni sociali della cittadinanza. Alle richieste di cambiamento e trasformazione provenienti

dalla società civile. La sovranità giudicante è, in altri termini, l’accresciuta importanza data al giudizio

penale e morale, rispettivamente associato ai giudici ed ai cittadini, nei confronti della classe dei propri

governanti.

Oltre la democrazia rappresentativa. Lo sviluppo dei poteri di sorveglianza, di opposizione e di

giudizio ha segnato profondamente il funzionamento dei regimi politici moderni. Per questo motivo, è

ormai impossibile intendere questi ultimi solo in base ai loro dispositivi costituzionali e formali. L’attività

democratica, in altre parole, oltrepassa ampiamente il quadro delle sole istituzioni elettorali-

rappresentative. Una più piena comprensione del concetto di sovranità popolare e democratica, allora,

deve associare (se non contrapporre) alla sovranità elettorale, le 3 sovranità più informali e diffuse a livello

sociale, che ho chiamato, rispettivamente, sovranità critica (sovranità del popolo-controllore, sovranità

negativa (sovranità del popolo-veto) e sovranità giudicante (sovranità del popolo-giudice). È così che

dobbiamo intendere ed estendere la concezione della sovranità popolare nella società post-democratica

contemporanea. Oggi, in altri termini, siamo in presenza di una contro-politica fondata sul controllo,

l’opposizione, il giudizio di quei poteri che non si ha più la voglia di farne oggetto prioritario di conquista. I

cittadini non puntano più a prendere direttamente il potere politico, ma a controllarlo ed influenzarlo

dall’esterno. Ecco perché se questa proposizione è vera (vale dire, la proposizione che la cittadinanza

democratica non punta più a prendere direttamente il potere politico, ma piuttosto ad influenzarlo

dall’esterno), – e gli ultimi 50 anni di storia delle nostre democrazie sono lì a dimostrarcelo – allora la nostra

stessa comprensione della democrazia rappresentativa e liberale dovrebbe cambiare. Le forme della

politica e della cittadinanza attraverso cui il popolo oggigiorno esprime ed esercita più efficacemente il suo

potere democratico non possono essere più ridotte e/o ricondotte alla politica rappresentativa,

rappresentata – e non mi scuso per il gioco di parole assolutamente voluto e cercato – dai partiti e, più in

generale, dai c.d. professionisti della politica. La dico brutalmente. Se i cittadini non votano più o votano

meno, avendo una maggiore diffidenza (o soltanto disillusione) verso la politica elettorale ed i suoi

rappresentanti, questo non significa che i cittadini siano diventati apatici, passivi ed abbiano ormai

intrapreso un processo di fuga dalla politica. Se è vero che gli ultimi 30 anni hanno evidenziato un declino

inesorabile ed irreversibile della partecipazione elettorale, ed allo stesso tempo,è vero che i partiti hanno

subito un’ancora più imponente processo di esodo e di fuga degli iscritti e militanti dalle proprie

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organizzazioni, questo non ci deve indurre in errore. Non siamo in presenza di una fine della democrazia e

della politica. Forse, anzi sicuramente, stiamo certificando la fine delle democrazia rappresentativa fondata

sui partiti politici. Almeno così come l’avevamo conosciuta e capita nel Novecento. Ma questo non ci deve

scoraggiare e far dimenticare, nella scia delle lezione di Rosanvallon e di tanti altri pensatori democratici

contemporanei, che oggigiorno la nostra democrazia è anche, e soprattutto, altro.

Verso una democrazia dei movimenti sociali? “Questo altro” è, d’altra parte, una delle più recenti

scoperte scientifiche e politiche di alcuni filoni di ricerca della scienza e della sociologia politica

contemporanea. Come ci ha suggerito un recente studio (2002) della sociologa americana Pippa Norris,

negli ultimi 30 anni la partecipazione politica dei cittadini non si è ridotta, anzi è decisamente aumentata,

ma ha subito una profonda trasformazione. Ad un calo della partecipazione elettorale e dell’appartenenza

partitica ha fatto da contraltare un vertiginoso aumento delle attività della c.d. politica non-convenzionale.

Invece di iscriversi ai partiti ed andare a votare, molti cittadini hanno preferito attivarsi direttamente

nell’organizzazione di comitati, collettivi, associazioni della società civile e, più in generale, nell’universo dei

c.d. movimenti sociali. È questa la grande novità della politica democratica del nuovo secolo. I cittadini

preferiscono mobilitarsi al di fuori dei canali tradizionali e convenzionali della vita politica, partecipando

nelle attività di protesta, ma anche di costruzione di alternative politiche e sociali, così come espressa dai

movimenti sociali. E, d’altra parte, lo stesso Rosanvallon concorda nel legittimare questo nuovo orizzonte

della politica democratica. In Controdemocrazia, infatti, il pensatore francese ci dice esplicitamente che i

movimenti sociali “costituiscono il vettore più visibile e strutturato” dei poteri contro-democratici, perché

meglio di qualsiasi altra soggettività sociale e politica contemporanea esprimono e si organizzano per

definizione attorno ai 3 contro-poteri democratici: sorveglianza, opposizione e giudizio. Questo fatto,

queste novità sociali e politiche della società post-democratica, ci dovrebbero, quindi, portare – e mi avvio

alle conclusioni del mio intervento – a rivedere le nozioni fondamentali della tradizione democratica e gli

strumenti scientifici utilizzati per misurarne la qualità. I concetti di sovranità popolare, di qualità

democratica ed, infine, il concetto stesso di democrazia dovrebbero essere riformulati. Questa è la sfida

che ci attende e dobbiamo efficacemente affrontare, sia da studiosi che da cittadini genuinamente

democratici, nel presente e nei prossimi anni.

Sovranità popolare, democrazia e qualità democratica. Inizio dal concetto di sovranità popolare.

Ho tentato di dimostrare, tramite il mio intervento, che l’idea che la sovranità democratica sia

principalmente, se non esclusivamente, riconducibile al dispositivo rappresentativo-elettorale sia falsa

storicamente e sbagliata politicamente. La democrazia moderna, fin dalle sue origini, si è nutrita ed è stata

positivamente trasformata dai contropoteri diffusi della società civile. Senza la pressione dei poteri di

sorveglianza, di opposizione e di giudizio promananti dal corpo sociale, la sovranità elettorale e le istituzioni

rappresentative sarebbero uscite fortemente impoverite. Questo ci porta a dover ridefinire la stessa

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nozione di sovranità popolare. Più che schiacciarla nella dimensione della rappresentanza e nella formula

elettorale, si dovrebbe ridefinire la sovranità popolare nella società post-democratica a partire dalla

dialettica tra governanti e governati, tra rappresentati e rappresentati. È l’interazione tra potere politico dei

rappresentanti e contropoteri democratici diffusi a livello sociale che va ricostruendo il concetto di

sovranità popolare. Un concetto di sovranità, se vogliamo, post-rappresentativa perché basato sui poteri di

controllo, di opposizione di giudizio del corpo sociale. Io la chiamerei sovranità sociale post-

rappresentativa. La ridefinizione del concetto di sovranità ci porta direttamente a ridefinire il concetto

stesso di democrazia. Dobbiamo anche qui riuscire a liberarci dal pregiudizio elettorale-rappresentativo. Se

come ho tentato di dimostrare con il mio intervento, la realtà della democrazia moderna e attuale non può

essere ridotta alla competizione elettorale della rappresentanza politica, ma si compone anche

dell’universo sociale della contro-democrazia, allora quest’ultima non può venire trascurata, se non

addirittura negata, nella costruzione di una nuova teoria realista della democrazia. Anzi, il contrario. Una

teoria democratica effettivamente all’altezza dei nostri tempi dovrà, infatti, elaborare ed includere una

visione rinnovata delle forme politiche proprio a partire dall’osservazione minuziosa dell’universo contro-

democratico. La democrazia odierna – mi si passi il bisticcio di parole – è anche e soprattutto

controdemocrazia. Ed, infine, come misurare la qualità democratica di una buona democrazia? L’adozione

della definizione elettoralistica di democrazia ha contribuito alla delimitazione esclusiva degli interessi di

ricerca degli studiosi sulle istituzioni rappresentative, trascurando purtroppo altri campi possibili di ricerca

e, così facendo, producendo un’investigazione parziale del funzionamento reale delle democrazie esistenti.

Una buona democrazia – ci dice, invece, una miriade di nuovi studi degli ultimi anni – non si misura

esclusivamente dalla qualità delle sue procedure elettorali e da quella delle sue istituzioni rappresentative.

Ci sono innumerevoli altri aspetti, dimensioni e fattori che devono essere tenuti in conto per “misurare” la

qualità democratica di un ordine politico. Uno di questi, e forse il più importante, è l’esistenza di una sfera

pubblica oppositiva e contestativa nei confronti delle istituzioni formali. Uno spazio reale di contestazione

permanente delle decisioni pubbliche. Uno spazio controdemocratico, appunto. Questa dovrà, quindi,

essere la sfida di ricerca per il nuovo secolo. Una buona definizione della democrazia non potrà che tenere

conto di tutti quelli aspetti meno istituzionali e formali che abitano un ordine politico e sociale, che per

questo motivo sono più difficili da misurare in termini quantitativi, ma tuttavia non meno importanti da

esaminare. Concludo. Per salvare la nostra democrazia – e qui parlo sia da studioso che da militante politico

– c’è bisogno con più forza dell’affermazione dei poteri della controdemocrazia. Senza democrazia radicale

non si può, infatti, pensare di salvare la società post-democratica dal suo – al momento ci pare inesorabile -

declino.