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Quanto è chic l’estate sobria: guida all’ultima tendenza E IL QUIRINALE FINÌ INTERCETTATO p. 29 | IL DALAI LAMA: NON TEMO NULLA, SOLTANTO GLI SQUALI p. 124 www.panorama.it Nelle mani * di Mario *e anche nei piedi Panorama 27 giugno 2012 | Anno L - N. 27 (2407) SNACK ARTICLE GRATIS PER TE Mario Balotelli e gli Europei Non ha un piano, ma vuole vincere lo stesso Mario Draghi e l’euro Ha un piano segreto per salvare i nostri risparmi

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Quanto è chic l’estate sobria: guida all’ultima tendenzaE IL QUIRINALE FINÌ INTERCETTATO p. 29 | IL DALAI LAMA: NON TEMO NULLA, SOLTANTO GLI SQUALI p. 124

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Nella vita ho una sola

paura: essere mangiato

da uno squalo

miti religiosiLui, pacifista da Nobel, l’infanzia l’ha passata

a giocare con soldatini ed elicotteri da guerra. E, a proposito di giochi, vorrebbe sfidare

a ping pong i vertici cinesi come fece nel 1954, ai tempi di Mao. Il Dalai Lama, che sarà in Italia

il 27 e 28 giugno, qui racconta di sé, dei suoi limiti, delle sue sfuriate e di alcune fobie mai superate.

di Dean Nelson

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Tenzin Gyatso, 76 anni, quattordicesimo Dalai Lama dal 1937.

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miti religiosi

el più assoluto silenzio del tempio buddhista di Dharamsala una piccola folla è in attesa d’incontrare il «Dio vivente». I devoti sono in fila: ci sono alcuni insegnanti indiani che aspettano di essere benedetti; un oc-cidentale con i capelli bianchi e dall’aria facoltosa, avvolto in una veste nera tibetana; una bella ragazza australiana che indossa un cheongsam, il tipico abito colorato e attillato, e un paio di alte zeppe.

Poi una porta si apre e davanti al quattor-dicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, molti sono sopraffatti dall’emozione. Una giovane donna scoppia in lacrime, gli prende la mano e se la porta alla guancia. In fondo alla fila il Dalai Lama si abbassa per incontrare lo sguardo di un vecchio: sta su una sedia a rotelle ed è malato terminale di cancro. Lo guarda intensamente negli occhi. Lungo le guance rugose del vecchio scendono grosse lacrime: sa che questa sarà l’ultima benedi-zione prima della morte e cerca conforto, brandelli di speranza. Ma al povero vecchio

l’uomo considerato dai tibetani come in-carnazione vivente del «Buddha della com-passione» non offre alcun appiglio: anzi, gli avvolge le spalle nella tradizionale sciarpa bianca e lo esorta ad accettare il suo destino. La scena è insieme commovente e severa: «Non c’è niente che io gli possa dare» dice, allontanandosi, il Dalai Lama. «Gli ho detto di pregare. Tutti dobbiamo morire».

Il prossimo 6 luglio Tenzin Gyatso avrà 77 anni: negli ultimi 53, al contrario di quel che ha appena fatto con il vecchio malato, il Dalai Lama ai tibetani è riuscito a offrire soprattutto speranze. In esilio dal 1959 a Dharamsala, nel nord dell’India, ha guardato inerme la Cina imporre un duro regime tota-litario al Tibet. Oggi il paese è lontanissimo dalla libertà, ma senza la sua guida il popolo tibetano sarebbe stato dimenticato da tutti, ridotto a un gruppo di esiliati aggrappati a una cultura fuori dal mondo.

Nonostante gli enormi sforzi fatti da Pe-chino per screditarlo, il Dalai Lama è diven-tato uno dei leader più rispettati del globo, apprezzato per l’approccio non violento con cui ha sempre guidato il suo popolo. E oggi registra seguiti degni di una rockstar: i biglietti per la serie di conferenze che il 22 e 23 giugno tiene in Scozia, per esempio, sono andati esauriti nel giro di poche ore. Altret-tanto è accaduto per le tre lezioni organizzate il 27 e 28 giugno a Milano, al Mediolanum Forum di Assago.

È difficile non provare soggezione di fron-te a un uomo che viene presentato come una divinità in carne e ossa, e del resto il suo carisma è innegabile. Visto da vicino, però, Gyatso è un leader molto più umano del previsto, e apparentemente meno divino: una persona che parla di ciò che è riuscita a ottenere nella vita e dei suoi rimpianti, dei suoi punti di forza, delle debolezze. E anche della sua morte, che solleverà il problema di un successore.

In effetti il periodo è cruciale, per il Tibet. L’anno scorso Gyatso ha ceduto la leader-ship politica a un primo ministro eletto e ha conservato per sé il solo ruolo di capo spirituale. Ma la successione comunque non sarà facile, come nel 1995 dimostrò l’elezione di un’altra importante figura religiosa del Tibet, il Panchen Lama, il «grande erudito»: 17 anni fa il candidato scelto dal Dalai La-ma venne bocciato dalla Cina e scomparve misteriosamente. Al suo posto ancora oggi siede un personaggio nominato dal governo cinese e i seguaci del Dalai Lama rifiutano di riconoscerne l’autorità. Lo stesso potreb-be accadere alla prossima reincarnazione

del Dalai Lama. Gyatso ne è consapevole e sa che, se la Cina cercherà d’imporre un successore, il suo popolo potrebbe rifiutar-lo. L’eventualità non lo preoccupa affatto. Dice: «Se alla mia morte, o anche prima, la maggioranza del popolo ritenesse superflua l’istituzione del Dalai Lama, questa verrebbe automaticamente soppressa».

Nella sua voce non c’è segno di prosopo-pea. Come se la predestinazione, il suo ruolo, la sua stessa figura non avessero alcun peso. Eppure Gyatso fu scelto come «rinascita» del tredicesimo Dalai Lama all’età di 2 anni da una squadra di monaci in cerca della nuova incarnazione. E la storia racconta che la scelta avvenne per una serie di strani segni. La testa imbalsamata del tredicesimo Dalai Lama, inizialmente rivolta a sud-est, all’improvviso si era voltata a nord-est, indi-cando la giusta direzione ai religiosi. Quando finalmente i monaci trovarono Thondup, gli mostrarono una serie di oggetti, alcuni dei quali erano appartenuti al tredicesimo Dalai Lama. Il bambino cominciò a gridare: «È mio! È mio!», e indicò tutti gli oggetti giusti.

Ventiquattro mesi dopo una processione trasportò il piccolo Lhamo fino alla capitale tibetana di Lhasa, e là gli venne attribuito il nuovo nome: Tenzin Gyatso. La sua rigida educazione monastica cominciò al compi-mento dei 6 anni, però gli fu dato ancora un po’ di tempo per gli svaghi. Della sua infanzia Gyatso ricorda la passione per le immagini dei mezzi militari, dei soldati in marcia e della guerra: in particolare gli elicotteri da combattimento della Royal Navy utilizzati nella guerra mondiale. «Mi piacevano molto i libri illustrati del mio predecessore» ricorda. «Le vecchie immagini della marina britanni-ca, le pistole, i cannoni delle corazzate…».

È una confessione inattesa, in un Nobel per la pace. Ma con un gesto della mano il Dalai Lama ne sminuisce l’importanza: «Tutti i bambini amano le uniformi...». Dal suo predecessore Gyatso ha ereditato anche un cineproiettore e una serie di apparecchi meccanici che, dice, hanno acceso la sua infinita passione per la scienza e la logica. Fin da bambino smontava e rimontava quegli oggetti per capirne il funzionamento. Se non avesse fatto il monaco, afferma, avrebbe vo-luto diventare ingegnere. Quando nel 1954, a 19 anni, il Dalai Lama si recò a Pechino per i primi colloqui dopo l’invasione del Tibet da parte della Cina con il presidente Mao Zedong e con il primo ministro Chou En-lai, fu proprio Mao a riconoscergli che «aveva una mente scientifica».

Nonostante la guerra scatenata nel 1950

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Con Giovanni Paolo IInel 1982, in Vaticano: gli incontri ufficiali con Papa Wojtylasono stati cinque.

Il Dalai Lama, a destra nella foto, con Mao Tse-tung: è il 1954 e la Cina ha invaso il Tibet da 4 anni.

Qui sotto, Tenzin Gyatso inizia il tirocinio spirituale, a 6 anni. Sulla sinistra, a 2 anni, appena scelto come nuovo Dalai Lama nel 1937.

Con Indira Gandhi, figlia di Pandit Nehru: nel 1959 iniziò l’esilio in India.

BioIl Dalai Lama è nato il 6 luglio 1935, con il nome di Lhamo Thondup, da una famiglia di allevatori nella regione tibetana dell’Amdo. È stato scelto come quattordicesimo Dalai Lama a 2 anni, nel 1937, assumendo il nome di Tenzin Gyatso. Nel 1950 l’esercito della Repubblica Popolare

Cinese invase il Tibet e nel 1959 Gyatso fu costretto a trasferire la capitale del Tibet in esilio a Dharamsala, nel nord dell’India. Da allora ha governato il suo popolo tra mille difficoltà. Nel 1989 ha ricevuto il premio Nobel per la pace. Il 15 giugno, a Londra, ha preso il Templeton prize, conferito ogni anno a chi stabilisce un punto d’incontro tra scienza e religione, e che ha visto madre Teresa di Calcutta come prima premiata.

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miti religiosi

dall’esercito cinese, in quell’incontro il Dalai Lama riuscì a stabilire un buon contatto per-sonale con i due politici. Mao lo servì con le sue bacchette e Chou lo sfidò a una partita di ping-pong. «Il presidente Mao» ricorda Gyatso con una delle sue tipiche risatine «mi servì il cibo nel modo tradizionale cinese. Ero onorato, ma anche spaventato. Mao era un fu-matore accanito, tossiva in continuazione, e temevo potesse trasmettermi qualche virus».

Nel colloqui Mao parlò del Buddha co-me di un «dio rivoluzionario», ma poi tagliò corto sostenendo che «la religione è un ve-leno». Cinque anni più tardi il Dalai Lama fu costretto a guidare il governo tibetano in esilio nell’India di Pandit Jawaharlal Nehru. Da anni non ha avuto modo di discutere di religione o di fare una partita a ping-pong con i leader cinesi. E i rapporti, se possibile, sono peggiorati. Nel 2008 una manifestazione di monaci che protestavano nel Tibet occupato fu brutalmente repressa dalla polizia, e tra le 160 persone che si stima rimasero uccise negli scontri si contarono anche bambini. In quell’occasione la Cina sostenne che fosse stato il Dalai Lama ad avere organizzato la «sommossa» e, da quattro anni, lo accusa d’incoraggiare i suicidi dimostrativi di mo-naci e monache (finora sono stati più di 30) come forma di protesta.

Il Dalai Lama ha contestato l’accusa sulla sommossa, però non si è mai espresso sui suicidi dei suoi monaci: non li ha mai appog-giati e non li ha nemmeno condannati. «Se dico qualcosa di negativo, le loro famiglie ne soffriranno enormemente» spiega. «Per ovvie ragioni, però, non posso nemmeno parlarne positivamente. Quindi resto in si-lenzio. Posso solo pregare e condividere la loro determinazione, la loro forza di volontà. Di norma nessuno sacrifica la propria vita senza un valido motivo. Sono preoccupati per le sorti della cultura tibetana e per la fede dei buddhisti». La speranza di Gyatso è che la Cina cambi approccio nei confronti del Tibet e dia avvio a riforme democratiche prima che lui passi a miglior vita. «Questo si-gnifica che se rimarrò ancora per altri 10 o 20 anni vedremo accadere qualcosa. Se invece dovessi morire il prossimo anno, non so».

Oggi il Dalai Lama spera che la primavera araba possa avere un impatto sulla Cina e che la logica buddhista possa offrire ai leader di Pechino una via d’uscita dal totalitarismo. «Se affrontano la realtà» sostiene «capiranno che non c’è ragione di avere paura o diffida-re», sentimenti che ritiene siano il risultato negativo del regime totalitario cinese. «La poca trasparenza» aggiunge «porta all’assen-

za di fiducia e a un senso di insicurezza».Potranno sembrare pensieri un tantino

naïf, ma non va però dimenticato che l’in-contro fra il presidente Barack Obama e il Dalai Lama, nel luglio 2011, ha scatenato energiche proteste da parte della Cina. E lo scorso ottobre a Gyatso è stato negato il visto per il Sud Africa, dove doveva recarsi in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’arcivescovo Desmond Tutu, suo grande amico personale, solo per le pressioni di Pechino. Di recente si è parlato perfino di un complotto per assassinare il Dalai Lama. L’anno scorso venne informato che i servizi segreti cinesi avevano addestrato alcune don-ne tibetane che avrebbero dovuto ucciderlo utilizzando sciarpe avvelenate. «Dovevano fingere di essere malate per ricevere una benedizione da me, così la mia mano le avrebbe toccate».

Il Dalai Lama sorride anche quando parla di queste minacce. E ritiene di essere popolare in tutto il mondo proprio perché si concentra su due desideri che accomunano

tutti gli uomini: la serenità e l’appagamen-to. «Noi esseri umani siamo tutti uguali, dal punto di vista fisico ed emozionale. Sopra tutto vogliamo tutti una vita serena. Abbiamo bisogno del denaro, che è utile, ma riporre in esso ogni nostra speranza è sbagliato. Dobbiamo guardare ai nostri valori profondi, è questo l’aspetto principale che può donarci la forza, la sicurezza e la pace interiori. La fonte di felicità assoluta è in noi».

A sorpresa, però, Gyatso riconosce di non avere mai imparato a controllarsi del tutto. Ammette anzi di alterarsi «piuttosto spesso» con consulenti, segretari e con al-tre persone del suo seguito: «A volte fanno qualche piccolissimo errore e io esplodo. Proprio così: mi arrabbio, urlo. E dovreste sentire che parole mi escono dalla bocca… Ma dura solo pochi istanti. Poi è tutto finito».

A 76 anni suonati, il Dalai Lama si sveglia ogni mattina alle 3.30, poi medita per quattro ore, quindi macina qualche chilometro sul tapis roulant e usa gli esercizi buddisti per rilassarsi. Non guarda la televisione da due anni, non legge romanzi né poesie, però si tiene aggiornato con i settimanali americani Newsweek e Time e adora le trasmissioni radiofoniche della Bbc. Smette di lavorare poco dopo le 3 del pomeriggio e alle 7 di sera è già sotto le coperte.

Ha anche qualche rimpianto la guida spi-rituale dei tibetani. Vorrebbe avere studiato di più e giocato di meno, da ragazzo. E sospi-ra ammettendo di non avere mai imparato a nuotare. Le sue paure più grandi, però, sono il volo e gli squali: «In passato avevo davvero paura dei voli lunghi» racconta sor-ridendo «poi con il tempo mi sono abituato. Quello che temo ora è che, non avendo mai imparato a nuotare, se l’aereo cadesse in mare affogherei e diventerei così la cena per qualche squalo. Questo sì che mi fa paura».

E la gerarchia dei valori? «L’unica cosa davvero importante nella vita è l’intelligen-za» risponde. «È l’intelligenza che ci permette di sviluppare un infinito sentimento d’amore e di compassione». È proprio questo stimolo che lo spinge a dedicarsi al prossimo, e che ispira la sua preghiera preferita, scritta da un maestro buddhista dell’VIII secolo. Gyatso la recita ad alta voce: «Finché esisterà lo spazio e finché vi saranno esseri viventi, fino ad allora possa io rimanere in vita per cacciare la sofferenza dal mondo». E con-clude: «Questa preghiera riesce davvero a darmi la forza interiore». n

© 2012 «The Sunday Telegraph» & «The Interview People».

(traduzione Studio Brindani)

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Dharamsala

A Dhramsala, nel nord dell’India, si è trasferito nel 1959 il governo tibetano obbligato all’esilio: nove anni prima l’esercito della Repubblica Popolare Cinese aveva iniziato l’occupazione del Tibet.

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Chi salverà

il Papa

traditoLa vera storia della guerra

tra cardinali italiani che sta sconvolgendo la Chiesa

Panorama 6 giugno 2012 | Anno L - N.24 (2404)

Perché il terremoto si sposta sempre più a NordI 1.414 FIGLI RUBATI p. 127 | ECCO IL GURU DEGLI ANARCHICI p. 137 | BOLT: «SONO NATO PIGRO» p. 146

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