Smool 36 2009

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immagini e parole da “Un treno per Auschwitz” (2005-2014) Seguono tre numeri di Smoll, il giornale telematico creato nel portale delle scuole superiori modenesi: tre nu- meri monografici (2007-2009) che la vivace e creativa redazione di studenti ha dedicato alle voci dei coetanei rientrati dal viaggio ad Auschwitz. Sono testi diversi per modalità espressive e sguardi, ma tutti si aprono su un universo giovanile che vuole – e sa- misurarsi con esperienze complesse e fuori dall’ordinario, che deve farci riflettere sugli stereotipi con cui sbrigativamente vengono identificati. Infine gli esiti dei laboratori di scrittura creativa, condotti negli anni 2012-14 da Carlo Lucarelli e Paolo Nori, confluiti in tre quaderni; un esercizio di scrittura cui gli studenti hanno lavorato con passione per imparare prima di tutto ad affinare lo sguardo, poi per rendere efficace e personale la loro capacità di dire. Nell’insieme queste scritture documentano e fermano un’esperienza, ma definirli documenti sarebbe riduttivo. E’ un patrimonio che contribuisce a dare qualità al progetto “Un treno per Auschwitz”, una sorta di itinerario privilegiato nell’ universo di emozioni, riflessioni, dubbi, domande ma anche nell’immaginazione che quasi due generazioni di giovani ci consegnano. Parole cui, a dispetto di banali luoghi comuni, i ragazzi, ma possiamo dire le persone, ricorrono fiduciosi quan- do ne vedono il senso e la necessità. “Un viaggio non inizia nel mo- mento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati.” Ryszard Kapuscinski, In viaggio con Erodoto E poi ci sono le parole. Alle impressioni scritte a caldo dai ragazzi, postate sui social network della Fondazione Fossoli nei giorni del viaggio in Polonia nel 2013, abbiamo affidato il compito di aprire la raccolta di scritti che gli studenti ci hanno restituito in questi dieci anni di viaggio. Flash lanciati da una esperienza che si rivela forte, per la quale i ragazzi stessi chiedono tempo perché sedimenti e possa reagire alla riflessione, così da rendere le emozioni porte alla comprensione.

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immagini e parole da “Un treno per Auschwitz” (2005­2014)

Seguono tre numeri di Smoll, il giornale telematico creato nel portale delle scuole superiori modenesi: tre nu­meri monografici (2007-2009) che la vivace e creativa redazione di studenti ha dedicato alle voci dei coetanei rientrati dal viaggio ad Auschwitz. Sono testi diversi per modalità espressive e sguardi, ma tutti si aprono su un universo giovanile che vuole – e sa- misurarsi con esperienze complesse e fuori dall’ordinario, che deve farci riflettere sugli stereotipi con cui sbrigativamente vengono identificati.

Infine gli esiti dei laboratori di scrittura creativa, condotti negli anni 2012-14 da Carlo Lucarelli e Paolo Nori, confluiti in tre quaderni; un esercizio di scrittura cui gli studenti hanno lavorato con passione per imparare prima di tutto ad affinare lo sguardo, poi per rendere efficace e personale la loro capacità di dire.

Nell’insieme queste scritture documentano e fermano un’esperienza, ma definirli documenti sarebbe riduttivo. E’ un patrimonio che contribuisce a dare qualità al progetto “Un treno per Auschwitz”, una sorta di itinerario privilegiato nell’ universo di emozioni, riflessioni, dubbi, domande ma anche nell’immaginazione che quasi due generazioni di giovani ci consegnano.

Parole cui, a dispetto di banali luoghi comuni, i ragazzi, ma possiamo dire le persone, ricorrono fiduciosi quan­do ne vedono il senso e la necessità.

“Un viaggio non inizia nel mo-mento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati.”Ryszard Kapuscinski, In viaggio con Erodoto

E poi ci sono le parole.

Alle impressioni scritte a caldo dai ragazzi, postate sui social network della Fondazione Fossoli nei giorni del viaggio in Polonia nel 2013, abbiamo affidato il compito di aprire la raccolta di scritti che gli studenti ci hanno restituito in questi dieci anni di viaggio. Flash lanciati da una esperienza che si rivela forte, per la quale i ragazzi stessi chiedono tempo perché sedimenti e possa reagire alla riflessione, così da rendere le emozioni porte alla comprensione.

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...treni di vita...

“Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza” Dante, Inferno, XXVI, (vv. 112!120)

Provincia di Modena - Progetto TED N° 36 - Aprile 2009

www.ted.scuole.provincia.modena.it/smool Provincia di Modena - Progetto TED - Rif.PA 2003-0004/Mo - D.G. 127/2003

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Un altro treno, un altro SMOOL

Mario Agati

Anche quest’anno, come vedete, SMOOL dedica un intero numero al Treno per Auschwitz. Perché è un’esperienza unica, autentica, indimenticabile. Un’esperienza democratica che coinvolge – in un esercizio quotidiano di condivisione e apprendimento reciproco – figure istituzionali, intellettuali, artisti, scrittori, docenti e, soprattutto, centinaia e centinaia di ragazzi. Donne e uomini che assieme temprano la ragione, vivono un’emozione e costruiscono ulteriore memoria come antidoto alla debolezza

umana. Ancora una volta, dunque, SMOOL si offre come cassa di risonanza dei pensieri e delle parole dei nostri ragazzi che hanno vissuto questo viaggio nella storia e nella vita. Ma anche dei pensieri e delle parole di quegli adulti che hanno condiviso con loro ansie e sorrisi di questo indelebile tratto di vita. Questo numero, infatti, oltre alle decine di testi dei nostri studenti, ospita i contributi di alcuni adulti: l’accorato saluto dell’Assessore Silvia Facchini, il lucido redazionale del Presidente dell’Istituto Storico Giuliano Albarani, le intriganti alchimie verbali dello scrittore Paolo Nori e l’intensa riflessione autobiografica della Professoressa Silvia Nerini. Da segnalare, inoltre, il brillante resoconto fatto dalla nostra redattrice Elena Ferrari sul Forum di Discussione sul Treno per Auschwitz tenutosi Giovedì 26 Febbraio 2009 presso la Sala Giunta della Provincia di Modena. Buona lettura, dunque. E che il viaggio sia con voi!

In questo numero

Ai ragazzi di Auschwitz, Silvia Facchini (p. 3) Pieni di Memoria, Giuliano Albarani (p. 4) Normali e poco normali, Paolo Nori ( p. 5) Ho deciso: quest'anno vado ad Auschwitz, Silvia Nerini (p. 7) Non sono mai scesa da quel treno, Elena Ferrari (p. 8) Una tavola rotonda sul treno, a cura di Elena Ferrari (p. 9) e c’era un piccolo paio di scarpe, Susanna Lavacchielli (p. 14) Il treno di Dan, Elisa Tocci (p. 16) Se questo è un uomo, Andrea Riccò, Alessia Zanni (p. 17) Sull'orizzonte di Birkenau, Andrea Roncaglia e Massimiliano Ferrarini (p. 18) …entrando si vede una lunga strada, Andrea Cavani, Debora Leo, Simona Marulli, Nico Salvatori, Mattia Govoni, Alessandro Gonelli (p. 19) E infine accendiamo le fiaccole, Ludovica Bellomaria (p. 21) Serate, Ludovica Bellomaria (p. 22) Ora tocca a noi, Francesca Ghiselli (p. 23) Sulla via del ritorno, Anna, Elisa T., Valentina, Giulia, Anna Maria, Elisa G., Greta, Clelia, Valeria, Alice, Chiara (p. 25) Quando si apre il cancello di casa, Chiara Sgarbi (p. 27)

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Ai ragazzi di Auschwitz: voci della memoria

Silvia Facchini

Ancora una volta ragazzi sono rientrata da Auschwitz dicendovi grazie, un grazie immenso e profondo che diffonde in me un senso di grande speranza. È stato un rientro difficile quest’anno, pieno di assonanze ma anche di preoccupanti dissonanze. Per molto tempo il silenzio profondo che abita quei luoghi mi ha accompagnato: il silenzio di chi poteva raccontare l’abisso ma non ha né nome né voce. Un silenzio profondo che credo abbia a che fare con una mia dissonanza di oggi, con la mia difficoltà a riconoscermi in un quadro politico, culturale e sociale che sembra scivolare sempre più che verso l’imbarbarimento di un linguaggio adulto che a tratti diventa anche volgare, impietoso, incontrollato e ingiusto, e in una società che limita gli spazi e luoghi in cui quei 600 ragazzi di quest’anno, ma più di 2000 in cinque anni, possano discutere, confrontarsi, dire che ci sono e hanno tanto da dire. Ragazzi del “Treno per Auschwitz” che hanno saputo attraversare quei luoghi, quello spazio e quel tempo con una dignità, un pudore e una “pietas universale ” fatta di rispetto dei sentimenti, di sobrietà di linguaggio e di gesti che mi hanno fatto pensare che si siano invertiti i ruoli e loro siano diventati un esempio per noi adulti. Ma questo mi fa anche essere ottimista perché queste ragionevoli speranze, che giorno dopo giorno abbiamo costruito, sembrano dare ragione a quanto sosteneva Freud che, anche quando l’intelletto umano sembra debole “c’è qualcosa di particolare in questa debolezza: la voce dell’intelletto è bassa ma non tace finché non ha trovato ascolto”. E per questo oggi cerco i nomi e le voci di chi può raccontare e cerco anche i luoghi che possono dare loro ascolto e voce. Qui, su questo treno, ci sono anche i comuni e la provincia: gli spazi e i territori in cui questi ragazzi costruiscono ogni giorno la loro storia e per questo il futuro sta ancora di più nella condivisione. È lì, che va radicata la condivisione perché è nei loro luoghi che può costruirsi, modificarsi e umanizzarsi la quotidianità. Oggi sembra che in quei luoghi ci sia solo la scuola come luogo istituzionalmente e costituzionalmente deputato a farli crescere tutti, davvero tutti, insieme: una scuola però che rischia sempre più di essere un anello molto debole del sistema Su quel treno c’è soprattutto tanta passione ed energia: c’è storia, sapere, intelligenza. È stato anche l’anno in cui i “linguaggi” hanno raggiunta la massima espressione: ci siamo davvero raccontati e ascoltati con parole, letteratura, musica, lirica: linguaggi che hanno raggiunto il massimo di sinergia al monumento con le note dell’orchestra di Dan Rapaport, la poesia di Quasimodo, le parole dei ragazzi di Smool lette da altri ragazzi. Come dire: ragazzi proviamoci! …se ci sono ancora parole, poesia e musica, ci sono ragionevoli speranze.

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Pieni di Memoria

Giuliano Albarani

Anche quest'anno, nella nostra provincia, le iniziative pubbliche collegate al 27 gennaio, Giorno della memoria, hanno riscosso l'attenzione dei media e guadagnato partecipazione e consenso di un pubblico ampio ed eterogeneo. E su tutto si è stagliata, per originalità e capacità di coinvolgimento, l'ormai quinquennale esperienza del Treno per Auschwitz, evento di matrice carpigiana da tempo assurto a un rilievo nazionale. Siamo ancora troppo interni e compresi in quella esplosione memoriale che ha

contraddistinto, negli ultimi anni, l'agenda pubblica dei paesi dell'Europa occidentale, per leggerne e comprenderne dinamiche e meccanismi. Tuttavia appaiono già individuabili i motivi per cui, lungi dal risultare un fenomeno transitorio o circoscritto, l'insieme delle pratiche di memoria, anzi della Memoria con la maiuscola (dalle celebrazioni ufficiali delle date!simbolo al ponderoso lavoro che viene fatto con le scuole), costituiranno, negli anni a venire, un elemento caratterizzante della nostra vita pubblica. Sarebbe ovvio e superficiale osservare che ogni società umana, in quanto basata su miti e narrazioni della fondazione e tenuta assieme dal rapporto fra le generazioni, ha bisogno, per vivere consapevolmente il proprio presente e poter progettare un futuro, di memoria. Perché a partire da questo dato, e riconoscendolo appieno, bisogna comunque spiegare per quale motivo, a cicli ricorrenti, e con un'impressionante e per certi aspetti inquietante accentuazione negli ultimi anni, il riferimento al passato può assumere i connotati dell'imperativo morale e della liturgia collettiva. In verità la memoria, il ricordare, come atti intenzionali, ci dicono più cose degli attori che ne fanno esercizio ! noi contemporanei ! che non degli oggetti cui si riferiscono. E, nel caso della moltiplicazione e della sovraesposizione dei momenti commemorativi che, sanciti dalla legge, hanno contraddistinto soprattutto nel nostro paese l'esordio del nuovo secolo (dopo, e insieme, al Giorno della memoria, vanno citati il Giorno del ricordo, fissato il 10 febbraio, la giornata in onore delle vittime del terrorismo, il 9 maggio, e la ricorrenza della caduta del Muro di Berlino), ci dicono in particolare di una società alla disperata ricerca di criteri di orientamento in molte delle sue articolazioni. La Memoria, intesa come insieme dei riferimenti storici e testimoniali che vanno popolando il calendario civile, appare innanzitutto in grado di ridare significato ! significato collettivo, comunitario ! a uno scorrere del tempo altrimenti impersonale e ridotto a semplice quantità. Le date celebrative, infatti, con le ritualità più o meno retoriche che ad esse sono collegate, non solo consentono di fondare un raccordo con un passato che altrimenti ! fra accelerazioni della globalizzazione ed entropie dei mondi virtuali ! rischia di apparire irrimediabilmente tale, ma anche di costruire un senso, di prospettare una direzione di marcia, all'interno di una scansione dei mesi e delle stagioni sempre meno puntellata dagli appuntamenti di un calendario sacro profondamente secolarizzato (non a caso si parla della Memoria come possibile, nuova, religione civile). Ma l'ambito nel quale la Memoria, con la sua ricchezza di ancoraggi e suggestioni, si presenta come salvifica appare quello delle politiche culturali ed educative: di fronte all'estenuazione delle visioni del mondo e delle pedagogie novecentesche, al cospetto dell'equipollenza dei valori e dei riferimenti successiva all'implosione delle grandi narrazioni ideologiche, il patrimonio esperienziale e conoscitivo e l'impegno etico che derivano dalla rievocazione ed assunzione nel presente delle grandi fratture e delle tragedie del ventesimo secolo offrono una prospettiva, una risposta ! o meglio, una serie di risposte ! al classico interrogativo "Che fare?". Tanto che anche un'istituzione in cerca d'autore come la Scuola trae senso e dignità soprattutto nel momento in cui si presenta come il contesto, il luogo, all'interno del quale le nuove generazioni possono incontrare le testimonianze, le storie, le narrazioni sulle atrocità commesse nella civile Europa del Novecento, affinché, come si usa dire ripetitivamente, quanto avvenuto non accada mai più.

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Resta tuttavia da capire se e per quanto tempo questa overdose di pratiche e retoriche memoriali possa avere una funzione propositiva e, per usare una terminologia un po' desueta, progressiva. Incombe infatti sulle generazioni emergenti il rischio di una tirannide del passato e la minaccia dell'insostenibile peso morale ed intellettuale con cui le sofferenze dei padri gravano sulle spalle dei figli (ovvero dei nipoti e pronipoti). In un bellissimo libro pubblicato in Italia qualche anno fa, La città divisa, Nicole Loraux ci ha insegnato l'importanza delle politiche dell'oblio, insieme e non in opposizione a quelle della memoria, nelle polis greche, capaci di rifondarsi e rigenerarsi, dopo le periodiche lotte tra fazioni, proprio grazie al buon uso della rimozione e dell'amnistia. Forse ! sottolineo, forse ! quell'Europa unita cui (quasi) tutti aneliamo non nascerà, come ci si aspetta, da una profonda ed esauriente riconsiderazione, da parte delle sue genti, del passato del continente, con tutte le sue ferite non cicatrizzabili, bensì da una salutare amnesia delle insopportabili ingiustizie ed offese che ne hanno costellato il percorso in quel calvario chiamato Storia.

Normali e poco normali

Paolo Nori

Se due anni fa mi avessero detto Vuoi venire ad Auschwitz? io avrei risposto, probabilmente, Non ci penso nemmeno. E quando l’anno scorso Silvia Mantovani, della fondazione Fossoli, mi ha proposto di fare il viaggio con loro, di partire in treno da Carpi e arrivar fino ad Auschwitz, in occasione del giorno della memoria, insieme a seicento o settecento tra studenti e professori e politici e scrittori e cantanti, ripercorrendo la strada che avevano fatto settant’anni prima cinquemila italiani, che dal campo di concentramento di Fossoli erano stati tradotti, come si dice, in quei due campi là, Auschwitz e Auschwitz due (così chiamavano Birkenau), io le ho detto Guarda, Silvia, non lo so, io a queste cose come il giorno della memoria sono un po’ contrario. E mi aspettavo che lei mi dicesse Ah, va bene, grazie, scusa, e mettesse giù. Invece, mi ricordo, mi ha detto Ma sai che anch’io, sono un po’ contraria a queste cose come il giorno della memoria? Ne possiamo parlare sul treno. Allora sono andato. Anche se, l’anno scorso, io ho preteso, in un certo senso, di ripartire poi subito, fare il viaggio con loro, fermarmi una notte a Cracovia e poi prendere un aereo e tornare indietro. Questo per diversi motivi. Dovevo finire un lavoro, lo dovevo consegnare nei giorni immediatamente successivi, e questo era il motivo principale e la scusa, principale, che queste scadenze, queste date di consegna, per i lavori che faccio io non sono quasi mai rigide, se avessi chiesto di consegnare due o tre giorni dopo mi avrebbero probabilmente detto che andava bene lo stesso. Valeva forse di più il fatto che, tornando il mattino del terzo giorno, non sarei dovuto andare, fisicamente, né ad Auschwitz né a Birkenau, e quindi è vero, avrei fatto il cosiddetto viaggio della memoria, ma non mi sarei trovato di fronte a quella roba lì, ai campi di concentramento che son diventati musei che era una cosa sulla cui opportunità avevo dei dubbi, e in parte li ho ancora. I due giorni di visita ai campi, che volevo schivare, rischiavano di essere, nella mia immaginazione, un estratto di retorica che avrei fatto fatica a sopportare. Poi c’era anche, devo dir la verità, la paura. Un po’ mi faceva paura, quella roba lì, che è una roba rispetto alla quale ti viene l’istinto di voltare le spalle. Ma soprattutto, credo, c’era il fatto che io, quelli della fondazione Fossoli, non li conoscevo bene. Non sapevo che atmosfera avrei trovato, in quel viaggio, e avendo provato, qualche volta, andando in giro per l’Italia a presentare dei libri, l’impressione di essere ostaggio di quelli che mi avevano invitato, solo, in una città sconosciuta, a sostenere, e subire, lunghissime conversazioni sulla crisi del mercato editoriale, o sul fatto che in Italia la gente non legge, o su come siano importanti i libri, la prospettiva di trovarmi in una condizione del genere, per cinque giorni, e non Italia, in Polonia, tra Cracovia, Auschwitz e Birkenau, e non a parlare della crisi dell’editoria, ma dell’olocausto e del male assoluto e dell’importanza della memoria e del piantare un seme che crescerà un albero, era una prospettiva che, con tutto che Silvia Mantovani mi era simpatica, farmi tutti e cinque i giorni devo dire che mi sembrava rischioso. Invece poi l’anno scorso, nei due giorni in cui son rimasto, mi son trovato così bene che a quelli di Fossoli ho detto Se mi

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invitate anche l’anno prossimo vengo anche l’anno prossimo. E loro mi hanno invitato. E questa volta sono stato via cinque giorni, son partito in treno, son tornato in treno, e ho partecipato a tutte le serate e a tutte le visite, son stato ad Auschwitz e a Birkenau e è stato un viaggio talmente strano, son tornato contento, mi vien perfino da dire che mi son divertito, ma cerco di non dirlo, che se dicessi così la gente chissà cosa penserebbero, Sei stato ad Auschwitz e ti sei divertito? Non lo dico, anzi, ero ancora in treno che mi hanno cercato sul cellulare per una cosa e io ho risposto Sto tornando dalla Polonia, mandami una mail per cortesia, che ti rispondo stasera, e nel dire così mi son ricordato che già prima di partire, io andavo ad Auschwitz, e dicevo a tutti Vado in Polonia, e adesso, che stavo tornando, tornavo da Auschwitz e dicevo a tutti Norm dalla Polonia. Che Auschwitz è un nome che si fa fatica a farci dei ragionamenti intorno, a raccontare le cose come le si è viste, perché una cosa che succede ad Auschwitz uno ha l’impressione che debba sempre e comunque essere una cosa che ha, in sé, un qualche orrore, la faccia automaticamente si atteggia al dispiacere, come se Auschwitz non fosse anche, prima di tutto, mi vien da dire, un posto, dove vive della gente come noi, normale, o meglio, come noi, sia normale che poco normale. Come se uno che, per esempio, nasce, ad Auschwitz, dovesse portare per sempre, con la sua carta d’identità, quel marchio lì: te sei nato lì, e quindi devi portare con te sempre un po’ di orrore. Per via del viaggio di quest’anno, è vero, ci sono stati dei momenti, in questo viaggio, che mi veniva da voltare le spalle, come quando, alla fine della visita a Birkenau, con una guida che senza nessuna enfasi ti racconta com’era organizzato il campo, e ti dice che quelli che vedi, quella distesa di camini, è quel che è rimasto delle baracche, e ogni baracca ne aveva due, e non funzionavano quasi mai, perché non c’era niente con cui accenderli, e sembra che li abbiano fatti per dimostrare che i detenuti venivano trattati bene, che stavano al caldo, e non lo sai se è vero, ma se fosse vero sarebbe stranissimo il fatto che quel che è rimasto, quel che è durato più a lungo, la testimonianza, per così dire, è la cosa che non serviva, la cosa finta, mentre la cosa vera, il legno delle baracche, il legno dei letti a castello, per la maggior parte è marcita. Alla fine di questa visita, stavo dicendo, dopo che ti hanno spiegato come era organizzato il campo, e da dove arrivavano i deportati, dove si fermavano, e le strade che prendevano, la maggior parte verso le camere a gas, gli altri verso le baracche, dopo che hai visto le foto dei deportati in divisa, quella famosissima, a strisce, con i triangoli di colori diversi a seconda delle categorie, dopo che hai visto i forni crematori, che erano gli strumenti per lo smaltimento dei rifiuti, in un certo senso, dopo che hai in testa tutta questa metafisica dell’orrore, in un certo senso, tu ti trovi davanti a un muro con le fotografie dei deportati, quelle che si erano portati loro da casa, fotografie della vita di prima, e ti accorgi che quella gente lì era della gente che fumavan la pipa, e andavano al mare, e stavano sopra le sdraio con degli accappatoi bianchi, e guardavano in macchina, trattenendo un sorriso, e si vestivano bene per andar dal fotografo, e guardavano in macchina come se fossero sicuri, come per dire Fotografami, che mi son preparata. Ecco io, lì, ancora, mi è venuto l’impulso di voltare le spalle, e una volta uscito ho guardato lontano, fuori dai confini del campo, e ho visto una casa, che sembrava recente, costruita al massimo negli anni sessanta, e ho pensato Ma questa gente qua come fa, a vivere qui? E dopo, uscito dal campo, è passato un autobus, polacco, pieno di polacchi, com’è naturale, che abitavano lì, e che usavan quell’autobus per andare a casa, o per andare in città, e mi guardavano, e io li guardavo e mi sembrava stranissima, la loro tranquillità. Solo che il giorno dopo, quando siamo tornati a Birkenau dopo essere stati ad Auschwitz, ad Auschwitz uno, che è tutto diverso, un museo, e dove mi era successo ancora di voltare le spalle dopo che la nostra guida polacca ci aveva indicato una specie di baldacchino di legno e ci aveva detto, in ottimo italiano, e con un tono deciso che tradiva una certa soddisfazione, che l’ex direttore nazista del campo, Rudolf Franz Höss, dopo essere stato arrestato in Germania, dove si era nascosto sotto falso nome, era stato trasferito in Polonia e lì processato e condannato all’impiccagione e la sentenza era stata eseguita ad Auschwitz ed era stata costruita appositamente una forca Che è quella lì, ci aveva detto la nostra guida indicando il baldacchino, quel pomeriggio, quando siamo tornati poi a Birkenau, io mi sono trovato a entrare nel campo di Birkenau parlando con un mio amico e senza far caso per niente al posto in cui eravamo, l’avevo visto il giorno prima e era già un paesaggio abituale, e io mi meravigliavo dei polacchi. È vero, dicevo, ci son stati quei momenti lì, che ti veniva da voltare le spalle, ma ce ne son stati degli altri uguali e contrari, quando per esempio, durante la cerimonia ufficiale, i primi che si sono avvicinati al monumento che c’è alla fine del viale di Birkenau, per deporre le loro corone di fiori, era un gruppetto di dieci–dodici ex deportati, dei vecchietti, e delle vecchiette, con i fazzoletti bianco–azzurri al collo, e uno camminava con le stampelle, e facevan fatica, e uno ha fatto cadere il lumino che aveva, e a me è venuto da pensare che bisognava far delle fotografie a quelle facce lì e metterle in tutte le case e negli uffici pubblici. E quando poi, tra tutte le altre delegazioni ufficiali degli stati che si son succedute, rappresentanti dei paesi che hanno avuto delle vittime ad Auschwitz, armeni, croati, ungheresi, francesi, slovacchi, maltesi, cechi, serbi, svedesi, tedeschi, sloveni e altri ancora (l’Italia non era rappresentata), si sono avvicinati due signori, rappresentanti del popolo rom, che avevan due cappelli a tesa larga, come si dice, un po’ da cow boy, e uno dei due aveva il pizzetto e il codino, e un’aria un po’ da puttaniere, e uno si

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immaginava una Mercedes un po’ impolverata che l’aspettava fuori, e vedere la proprietà con la quale quei due stavan lì dentro, era una cosa che riempiva gli occhi, e non ti stancavi mai di guardarli. E, per esempio, mi viene in mente adesso, c’era un ragazzo partito con noi che aveva una spilla con una croce celtica sullo zaino. E prima di entrare a Birkenau gli han fatto notare che forse non era il caso. E lui ci ha pensato poi ha detto Va bene, la tolgo.

Ho deciso:

quest'anno vado ad Auschwitz

Silvia Nerini

Ho deciso: quest'anno vado ad Auschwitz. Insegno storia da anni e le vicende le conosco; sento però il bisogno di recuperare memorie, testimonianze di chi è tornato, e allora riprendo giovanili letture e riguardo documentari e immagini. Seguo le lezioni e gli approfondimenti con i miei studenti ma anche quelli destinati a noi docenti e rimetto insieme tante tessere che si uniscono in una visione d'insieme che dà vita nella mia testa al quadro completo di ciò che vedrò tra pochi mesi. Sono pronta.

25 gennaio 2009: partenza per Auschwitz. Alla stazione c'è l'atmosfera eccitata, gioiosa, quella festosa di prima di ogni viaggio. Il saluto delle autorità ci avverte, è un viaggio lungo, doloroso, di scavo nella memoria e nel cuore. Ma noi abbiamo letto, siamo attrezzati, pensiamo... Il fischio del treno, si parte: nel nostro entusiasmo però ci accorgiamo che non è lo stesso fischio spensierato di una gita, è più pesante, più profondo. Passano le ore e la lentezza si fa sentire, la noia avanza dentro di noi: ma quando si arriva? E il pensiero comincia ad andare verso tutti coloro che non ci hanno messo ventidue ore ma giorni e giorni, non potevano stendersi su una cuccetta ma soltanto stare in piedi, non avevano le cibarie preparate con amore dalle mamme ma fame e sete; è la prima di una lunga serie di frecce che ci trafiggeranno i cuori. Ma ecco, nei vagoni passa voce: la stazione, siamo arrivati! E l'atmosfera torna serena, anche perché dopo poco entriamo nelle nostre camere in albergo: grandi, calde, comode, una bella doccia calda. Ci sembra di rinascere. Dopo cena, con lo scrittore Paolo Nori, ci addentriamo nello spirito del viaggio e cominciamo a pensare davvero a quello che ci aspetta un centinaio di chilometri più in là. È mattina, silenzio di sonno nel pullman che ci porta a Birkenau, ma silenzio anche alla discesa dal pullman; siamo arrivati e il campo è davanti a noi: nessun libro, video o lezione poteva prepararci a questo. Desolazione, ampiezza, grandi spazi vuoti senza vita, neanche un uccello in volo sopra di noi, non c'è neanche la neve ad ammorbidire i confini attenuare le distanze ingentilire le costruzioni, nulla, niente di niente... solo il silenzio e la sottile presenza ombra di coloro che ancora "abitano" lì e ci sono a fianco per tutto il tempo della visita tenendoci per mano. La morte, il dolore, la cancellazione ci sono intorno a fianco dentro e quasi vediamo i volti di chi è stato spiarci da dietro i vetri delle baracche, dalle rovine dei crematori, grati perché sanno che un'altra generazione non li dimenticherà, continuerà a farli vivere nella loro memoria e li consegnerà a chi verrà dopo e sanno che forse non moriranno una seconda volta nell'oblio. Basterebbe questo a stenderci, come pugili messi all'angolo, ma nel pomeriggio al dolore si mescola la delusione. Partecipiamo alle celebrazioni internazionali, tutti i paesi che hanno visto propri cittadini morire in questi luoghi sono qui, ma i rappresentanti italiani dove sono? Bhè, ci diciamo forse erano al Campo I, ad Auschwitz, stasera li vedremo al Telegiornale. Sorpresa!: non li vediamo neanche lì, no non vediamo proprio neanche i campi, la notizia è un trafiletto di secondo piano, senza immagini...

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Ci sentiamo investiti di una responsabilità ancora più grande, noi c'eravamo e il ricordare diventa veramente un dovere per noi. È il secondo giorno e ci spostiamo al Campo I, Auschwitz. Arriviamo e c'è la fila come in qualunque museo, forse la visita di oggi sarà più storica, più "asettica"... Finalmente entriamo e dopo poco ci rendiamo conto che no, anche qui i pugni allo stomaco saranno tanti e continui. Qui foto, ma soprattutto oggetti, tanti, quotidiani e per noi banali (pentole, rasoi, spazzole, bambole, scarpe) trasformano le ombre in corpi, i nomi in persone in carne ed ossa; oggetti che vediamo, ma in minime percentuali sulla totalità delle persone che ci circondano (protesi, bastoni, occhiali), sono accatastati in mucchi enormi, in vetrine mostruosamente grandi. E ci chiediamo: gli uomini che hanno una gamba di legno di solito sono pochissimi, ma qui le gambe di legno non si riescono neanche a contare da quante sono, ma allora tutti gli altri quanti erano? E siamo circondati: è come se tutti gli abitanti di Roma ci fossero intorno e un attimo dopo fossero spariti. Come si fa anche solo ad immaginare una cosa così? Ci sembra di annegare, ci manca il respiro. E blocco dopo blocco scendiamo nell'inferno della crudeltà umana, nella perfetta logicità dell'assurdo. Paradossalmente, quello che fa meno impressione nell'escalation della violenza di ciò che ci viene mostrato e raccontato è proprio il luogo simbolo del campo: la camera a gas. Non perché è stata parzialmente ricostruita e quindi in parte la si può percepire come "finta", ma proprio perché ci siamo ormai resi conto che in questo posto la condanna non è il morire, è il vivere. E' ormai l'ultima sera, pensieri e impressioni si affollano nella testa; per fortuna ci sono con noi anche i ragazzi del gruppo Après la classe e Cisco, che suonano che cantano che ci obbligano a cantare a saltare; è una sorta di "rinascita", di ritorno alla vita. Domani la visita alla città di Cracovia, gli ultimi scorci e angoli, le ultime immagini, la neve che ci accompagnerà con il suo candore (sarà casuale la sua discesa l'ultimo giorno, il giorno del ritorno?) e i suoni ovattati che ne sono la poesia. Poi a casa, dove termina il viaggio ma ne inizia uno più lungo, lungo tutta una vita, di impegno e di consapevolezza, di memoria e di trasmissione.

Non sono mai scesa da quel treno

Elena Ferrari

Salire su quel treno è stato come prendere un biglietto di sola andata per un viaggio nella storia. Si dice che la storia cambi a seconda di chi la racconta… ebbene le baracche di Birkenau sono certamente i testimoni più fedeli di quegli anni bui: soltanto stando di fronte al silenzio delle loro mura cupe, diroccate, anonime, si può avvertire l’urlo assordante che la storia lancia da quella terra maledetta racchiusa dal filo spinato. Questa voce grida che la dittatura nazista ha fatto sì che l’umanità non fosse più tale, trasformandola in una barbarie fatta di carnefici assetati di potere e di uomini ridotti a bestie da soma. Questa voce ci ricorda che tali disumane aberranze avvengono tuttora in molte parti del pianeta e che da qualche parte c’è sempre un bambino con le mani alzate che chiede pietà dalle sue lacrime innocenti. Così, dopo l’esperienza di “Un treno per Auschwitz”, la giornata della memoria diventa un profondo spunto di riflessione sulla realtà, ma anche di introspezione personale… perché dopo che si attraversano quei cancelli, niente può più lasciarti insensibile, non si può più voltare le spalle alla sofferenza degli altri solo perché sono tali: il mondo grida di dolore, e almeno il 27 Gennaio di ogni anno, siamo chiamati ad ascoltarlo. In fondo credo che una parte di me non sia mai scesa da quel treno.

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Una tavola rotonda sul treno

a cura di Elena Ferrari

In continuità con quanto avvenuto negli anni precedenti, SMOOL – il magazine online degli studenti delle scuole superiori modenesi – aveva intenzione di dedicare un numero speciale all’iniziativa “Un Treno per Auschwitz” ed. 2009. Per la realizzazione del numero di quest’anno, la redazione ha promosso anche un tavolo di discussione (forum) tra studenti, docenti, operatori… che hanno preso parte all’esperienza del viaggio. L’iniziativa si è svolta Giovedì 26 Febbraio 2009, dalle ore 15.00 alle ore 18.00, presso la Sala Giunta della Provincia di Modena. Erano presenti Silvia Facchini (Assessore all'Istruzione e alla Formazione della Provincia di Modena), Silvia Mantovani (responsabile del progetto “Un treno per Auschwitz”, Fondazione Fossoli), Giuliano Albarani (docente e Presidente dell’Istituto Storico), Anna Soresina e Mario Agati (docenti), Erika Corghi (Redazione TED) e quattro studenti: Clelia Monari, Elena Ferrari, Elisa Tocci ed Emanuele Fancinelli,. Elena si è occupata di trascrivere la documentazione delle riflessioni emerse dal forum, e ne ha fatto una rapida sintesi che qui riportiamo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! …cosa ci fanno quattro studentelli – Clelia, Elena, Elisa, Emanuele ! un po' straniti dentro un fastoso salotto adornato di arredamenti antichi, dipinti preziosi e tappezzerie pregiate? Certo, per noi della "generazione McDonald's" non è usuale trovarci in un luogo come la Sala Giunta della Provincia, seduti su poltroncine di pelle e attorniati da personalità. Ma oggi, 26 febbraio, siamo qui per uno scopo importante, e non siamo soli: con noi ci sono: Silvia Facchini (Assessore all'Istruzione e alla Formazione della Provincia di Modena), Silvia Mantovani (responsabile del progetto “Un treno per Auschwitz”, Fondazione Fossoli), Giuliano Albarani (docente e Presidente dell’Istituto Storico), Anna Soresina e Mario Agati (docenti), Erika Corghi (Redazione TED). Siamo qui per riflettere e confrontarci sull'indimenticabile esperienza di visita ai campi di concentramento, per cercare di coglierne insieme le peculiarità, i fini, i significati... Può tutto ciò essere risolto in un breve pomeriggio di discussione? No, ovviamente. Infatti non ci proponiamo di trovare risposte ai mille quesiti che sorgono da quei cinque intensissimi giorni di viaggio, ma solo di dare il nostro piccolo contributo alla riflessione e, diffondendolo, contiamo di stimolare in voi la meditazione su temi spesso stereotipati, banalizzati, o talvolta addirittura dimenticati. Il forum è coordinato dal Prof. Giuliano Albarani che, fra le altre cose, ci rammenta ! con una incantevole loquela ed una sequenza leggera di sorrisi incoraggianti ! che questo forum è stato programmato a distanza di settimane dall’esperienza per consentirci una conversazione molto rilassata frutto di una riflessione maturata con i tempi giusti, dopo un congruo periodo di decompressione psicologica e senza l’urgenza della battuta ad effetto come quando sul treno o appena scesi arriva il giornalista di turno che vuole sapere le nostre reazioni a caldo. Dopo altre fasi interlocutorie, il Prof. Albarani esordisce con una domanda da un milione di euro:

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! Come definireste l'esperienza "Un treno per Auschwitz"? ... eh, eh... è proprio questo il punto: perché le parole che spesso pronunciano i ragazzi scesi dal treno sono: ! È difficile spiegare questo viaggio a chi non c'è stato. Tale affermazione ci fa subito comprendere come quei giorni risultino essere un cocktail di emozioni forti, nuove, contrastanti... e anche indefinibili. Ma superata l'iniziale ansia da definizione, ci abbandoniamo alla più libera espressioni di considerazioni istintive e personalissime. Emanuele – con un vibrante intervento – ci conferma che non sente di essere andato in gita, ma di aver vissuto un'esperienza comunitaria irripetibile. Più dell’idea di essere andato lì, proprio lì, in quei luoghi pregni di dolore e di storia, il sentimento che lo pervade con maggior calore è la pienezza che prova al pensiero di esserci andato con una grande comunità di persone. Certo: anche lui ha vissuto intensi momenti di solitudine, di presa di coscienza individuale. “Ma poi la possibilità di confrontarti con gli altri, di mettere in comune le tue sensazioni, le tue emozioni, le tue riflessioni… in un crescendo di conoscenza, di consapevolezza, e quindi di crescita umana e culturale… è stata la sorpresa più bella. Sì: il senso comunità e di apertura verso gli altri, è stata la cosa che mi è rimasta di più di questa esperienza”. E anche la prof Soresina parla di forte sentimento di coesione, di scopi comuni, cresciuti lentamente nel periodo di formazione pre!viaggio, in cui non si parla solo di date e numeri del nazismo, ma soprattutto delle idee e delle aspettative generate dall'attesa. Chi invece accompagna gli studenti tutti gli anni, Silvia Mantovani, ci rivela che in realtà ogni viaggio è a sé, diverso da tutti gli altri; che si trovano ogni volta stimoli nuovi per continuare l'iniziativa, tra l'altro sempre più seguita e ricca di riscontri. “Cresci, cresci di continuo. Ogni volta ti porti a casa un pezzettino che credo vada mantenuto e conservato”. Elena pensa ad una dimensione più intima. Pensa che questo viaggio sia stato per lei un gradino verso la maturazione. Perché vedere Auschwitz significa vedere il mondo da un occhio diverso: significa abbandonare la superficialità e gli stereotipi. L'assessore Facchini ammira l'energia positiva che straripa dai ragazzi nell'arco dei quei cinque giorni. Un’energia coinvolgente, e quasi sorprendente che porta i ragazzi, tutti i ragazzi, a dare il meglio di loro. È stimolante sentirla

pronunciare come un mantra ! mentre le brillano gli occhi per l’entusiasmo – il numero dei giovani partecipanti: “Ragazzi… seicento ragazzi…” “…e ho percepito un’energia che emergeva da quel gruppo, un’energia bella, positiva – non solo fisica, ma anche etica, morale, mi verrebbe quasi da dire politica nel senso più alto del termine: cioè la voglia di migliorare il mondo, la società, i rapporti umani…” Purtroppo, però ! aggiunge con una nota di sottile rammarico ! molti ragazzi non riescono a conservare questa forza una volta tornati a casa, una volta tornati nelle scuole, nelle classi: forse perché non trovano qualcuno disposti ascoltarli seriamente.Del resto – continua pensierosa – quando torni dal viaggio, da questo bagno di energia positiva, e ti rituffi nei fatti di cronaca quotidiana, e ascolti i telegiornali e rimani colpita dall’assurdità di tante chiacchiere spesso vuote, inutili. Quando non addirittura ciniche e violente. Come molte delle chiacchiere che si sono spese attorno al pietoso caso di Eluana Englaro. Mi ha sconvolto la violenza del linguaggio usato in questa circostanza. Un linguaggio di una violenza così impietosa, così ingiusta nei confronti delle persone che stavano vivendo un dolore che non ho potuto fare a meno di rimpiangere il silenzio di Auschwitz. L’accorato silenzio dei ragazzi che

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camminavano per la vastità dei campi. E non ho potuto fare a meno di pensare con nostalgia alla pietas che ha attraversato tutto il viaggio. E alla capacità di questi ragazzi di dare un esempio di come ci si rapporta alla sofferenza. Di come, usando il silenzio, attraverso un comportamento sommesso, si possa affrontare un tema così complesso come la sofferenza. Nel confronto del mondo politico che si sta imbarbarendo, che si abbandona troppo spesso al linguaggio dell’arroganza, della violenza, dell’intolleranza… guardando questi ragazzi, mi sono portata a casa qualche briciola di speranza”. Quando si pensa ad Auschwitz si pensa sempre alla morte, alla sofferenza. Già il suono di questa parola – Auschwitz – è così ostile, così difficile da pronunciare. Eppure ! confessa Elisa ! nonostante tutte quelle aspettative di angoscia e di dolore, quando ti ritrovi nel mezzo dello sterminato Birkenau, non puoi far altro che volgere gli occhi al cielo e regalare un sospiro al vento freddo: in quel momento ci si sente liberi e ci si stupisce di come un luogo dal passato così buio può regalare tanti luminosi propositi per il futuro: ora sono testimone, ora è mio compito insegnare ad altri ciò che ho imparato qui, ora non posso più voltare le spalle a chi ha bisogno… Perché il campo è un paradosso: prima ti sconvolge paralizzandoti la mente e il cuore, poi ti apre verso il mondo e verso l'infinito. Facendoti percepire qualcosa di così immensamente grande che non puoi contenere tutto in una sola anima. Ecco da cosa deriva la voglia di vivere, di fare, di conoscere, che straripa da tutti i pori una volta ritornato a casa. Oggi quegli stessi binari e quegli stessi luoghi non sono più un tramite di morte e distruzione. Oggi il treno per Auschwitz è un treno per la vita. Ricordo, memoria, commemorazione... parole comuni eppure straniere. Parole valigia. Ma come si può definire la memoria? Alcuni pensano a qualcosa di astratto, di avulso, un rifugio intellettualistico, una comoda esistenza parallela... No, non credo che questa sia la definizione adatta. Poiché… Per quale motivo l'essere umano è dotato di memoria, se non in funzione dell'agire nella vita presente e futura? ... oh! ma che grande scoperta: il ricordo non ha niente a che fare col passato: non serve proprio a niente un ricordo confinato negli abissi più profondi della storia! Allora, il significato comincia a chiarirsi: commemorare significa guardare indietro per andare avanti, per formarsi un chiave di lettura del mondo. Per capire che non basta conoscere la storia, ma che bisogna imparare dalla storia. Perché solo imparando si possono cambiare le cose.

... poi ad un certo punto la professoressa Soresina tira fuori un concetto che inizialmente mi pare strano: ! Il “Treno per Auschwitz” è un'esperienza democratica! ...demos, politica, potere... cosa c'entra tutto questo? E la professoressa spiega come è stato forte il senso di unione grazie anche alle difficili condizioni che hanno caratterizzato il viaggio. Tutti ! ci dice ! abbiamo patito freddo, tutti abbiamo dormito nelle scomode cuccette del treno. Anche i politici. Anche gli scrittori famosi. E persino i cantanti! Tutti abbiamo sostenuto un pomeriggio di faticoso cammino per le vie di Birkenau e tutti i nostri cuori sono stati messi alla prova. Ora capisco cosa si intende per democrazia: quando gli oltre seicento membri di un viaggio sono messi tutti nelle medesime condizioni, allora si può dire che l'esperienza è stata affrontata da ciascuno in modo diretto, limpido e senza sconti. Non come succede nella vita di tutti i giorni, in cui dobbiamo sempre far fronte a scale sociali, caste, atteggiamenti mafiosi... che schifo! E allora penso al futuro della società: c'è da essere piuttosto inquieti: quella che si profila è una società priva di spessore etico, poco disposta alla riflessione e al ragionamento, priva di prospettive, di lungimiranza, di

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senso della responsabilità individuale e collettiva. Povera di spirito critico e dimentica della cultura. E disinteressata al vostro e al nostro futuro di cittadini consapevoli. Ad una società il cui motto pare essere "non mi pongo il problema”, il progetto del Treno per Auschwitz risponde con il motto: “Impara a riflettere". Il prof. Albarani continua a stimolare il dibattito, e ad un certo punto ci chiede cosa sono state per noi le 22 ore di treno. Elisa, ripete con aria assorta le domande: ! Che significato possono avere? Perché la scelta di un lungo, lento, quasi obsoleto treno? E poi sottopone inconsciamente il treno ad un processo di personificazione comincia a parlare di “lui”… …perché Lui è uno degli ingredienti principali di questa esperienza. Perché Lui è uno dei protagonisti più importanti di questi cinque giorni: la sua lentezza, il suo perpetuo dondolio, i suoi rumori cadenzati che scandiscono le ventidue ore di viaggio sono in netto contrasto con la vita di tutti i giorni che ci costringe ad inseguire il tempo con ritmi sfrenati, in mezzo ad un chiasso assordante che ci opprime... Come insettini in un operoso – ma spesso inconsapevole ! formicaio. Per una volta invece non abbiamo fretta. E ciò permette al pensiero di fluire rispettoso. E alle parole, di trovare una voce meno precaria. Nell'attesa di crescere ora dopo ora. Siamo abituati ad avere tutto e subito, ma qui la decompressione fra i tempi di desiderio e consumo ci tiene lontani dalla meta ancora un po'. E le ore che avanzano sono ore solo per noi. Auschwitz non è immediatamente consumabile. Auschwitz è come un abbondante pranzo di natale: ci vuole poco a usufruirne ma tanto a digerirlo. E in questa fase tutto il corpo e tutte le energie sono volte a sintetizzare e rielaborare quei nutrienti che ci sosterranno per lungo, lungo tempo. Elisa, a questo punto, si abbandona alla narrazione… … così la domanda di tutti noi, appena seduti sul seggiolini, dopo aver salutato i genitori e sistemato le valigie, è stata: ! Bene, e ora cosa facciamo? E dopo qualche ora è cominciata la litania dei "siamo arrivati?”, “Ma quanto manca?". Eravamo ansiosi di giungere a destinazione. Paradossalmente e impazientemente desideravamo scendere da quel treno, e vedere ciò per cui eravamo partiti. Volevamo vedere subito tutto quello che i ragazzi degli altri anni avevano raccontato, e fotografato e filmato. Volevamo essere subito anche noi testimoni e portavoci di quell'esperienza. Ma le venti e oltre ore del treno hanno, seppur contro le nostre resistenze, tenuto a freno i nostri desideri, permettendoci di non bruciarli subito. E così per ventidue ore abbiamo parlato delle nostre aspettative, le abbiamo arricchite,

ascoltandoci tra noi, e leggendo altre testimonianze. Le abbiamo interpretate nel vagone ristorante con gli scrittori ! Bajiani e Luccarelli ! che ci hanno accompagnato, condividendo le attese che ci portavamo sotto la beretta e i giacconi da neve. E già attrezzati con gli scarponi indosso e la macchina fotografica a portata di mano. Quasi temendo di trovarci improvvisamente di fronte ai campi impreparati, abbiamo atteso l'ultima decisiva fermata. Cracovia. L'attesa cresceva minuto dopo minuto e persino la prima notte ci è risultata fastidiosa, nell'elegante e accogliente camera dell'albergo. Finalmente la sveglia, ore 6 e 30. La colazione veloce, gli zaini pesanti, la sciarpa, i guanti, i moonboot, i giacconi a vento, la telecamera, gli insegnati, le guide, i pullman,

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noi ragazzi, assessori, musicisti, scrittori, il gelo… tutto ciò impregnato nell'attesa. Quest'attesa che una volta sfamata, lascia quasi l'amaro in bocca. Ciò che abbiamo provato davanti all'ingresso di Birkenau, è stato così potente quanto la speranza di viverlo. Se non avessimo desiderato così tanto l'arrivo, forse non ci saremmo emozionati fino a questo punto... È proprio vero che quanto più aspetti una cosa, tanto più sai apprezzarla. La nostra società, dovrebbe tornare alla lentezza tipiche del treno. Per aiutare i giovani a riflettere sul propri desideri, donandogli il tempo per aspettarli e infine gustarli poco alla volta. ... Il nostro desiderio di arrivare, non si è ancora esaurito del tutto. Birkenau è stata la prima tappa verso un altro lento viaggio, quello di una storia in cui noi siamo i protagonisti del riscatto dall'odio e dalla violenza della guerra. Il desiderio che ardentemente ci consumava nel vedere i risultati del male di Auschwitz, era il desiderio di comprendere e spaventarci per i limiti della storia, e da lì, dal rifiuto di tali orrori, proporre dei nuovi orizzonti di umanità e rispetto alla vita e all'uomo. E anche in questo nuovo viaggio, bisogna essere pazienti e aspettare con umiltà, perché i desideri più veri e alti, si realizzano con tanto tempo e cura. A noi continuare a passare il testimone, senza fretta ma con decisione, e rinnovata fiducia nell'uomo… A questo punto il Prof. Albarani ci sollecita ad un ultimo scambio di battute, fra le quali ci piace annotare soprattutto i vibranti ricordi di Silvia Mantovani che ci racconta di come Paolo Nori, di solito così timido ed introverso, nel viaggio di ritorno abbia parlato per 15 ore di fila: “aveva un sacco di cose da dire, aveva voglia di vita, aveva l’urgenza di fare, di condividere…” E di come anche Bajani e Lucarelli le abbiano più volte confessato che da questo viaggio fatto in qualche modo per commemorare e ricordare la morte, si torni pieni di vita e di rinnovata voglia di progettare e creare. Le stesse sensazioni, vibrazioni, emozioni provate da Dan Rapoport. Lui che non aveva mai trovato il coraggio per andare in Polonia dove aveva perso un pezzo della sua famiglia, lui, di consueto così schivo e riservato e freddo, si è inebriato del calore di questo viaggio, di questi ragazzi. Ed è tornato carico di un sacco di vita, di voglia di fare progetti… “Voglio tornare con voi anche il prossimo anno” ha detto “E poi ha aggiunto: voi, questo treno, dovreste chiamarlo un treno per la vita.” Ed è con questa felice immagine che ci piace concludere questa parziale trascrizione, che forse non vi ha raccontato tutto quello che volevate sapere, ma che speriamo abbia suscitato in voi interesse, coinvolgimento e chissà, magari anche un po’ di commozione… È con la testimonianza di un passato riportato alla luce attraverso cui crediamo di poter affermare che l’esperienza sia tale da rischiarare non solo i luoghi della storia, ma anche quelli dell’anima. Infine vorremmo porgere (non di rito, ma di cuore!) i nostri più autentici ringraziamenti a tutti coloro che permettono ogni anno a centinaia di ragazzi di avere l’opportunità di cambiare, almeno in parte, la loro vita. ……Arrivederci, alla prossima partenza!

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…e c’era un piccolo paio di scarpe

Susanna Lavacchielli

Da due anni desideravo di intraprendere questa importante esperienza di “Un treno per Auschwitz”, ma senza sapere a cosa sarei andata incontro. Mia zia e mia cugina hanno intrapreso questo viaggio prima di me. Dai loro racconti capivo che le loro parole non erano in grado di esprimere ciò che davvero avevano vissuto. Ho cominciato a sentire, sempre più profondamente, il dovere di partire; per conoscere e capire come l’uomo sia stato spinto a diventare un così meschino fautore di morte, come così ingegnosamente abbia potuto ingannare migliaia di uomini oltre se stesso. Così è arrivato il mio momento. Solo quando mi sono seduta sul treno insieme a tutti gli altri, salutando dal finestrino i genitori in attesa sulla banchina mentre il treno partiva lento, mi sono resa conto che stavo andando incontro a un’esperienza più forte di me. Per l’intero viaggio, tra il continuo movimento di ragazzi da un vagone all’altro, la notte in bianco, le risate, la musica, le partite a carte, i confronti, si sono strette molte amicizie e l’atmosfera era davvero come non me l’aspettavo. Un’atmosfera solidale, di unione, di comprensione e di completa apertura reciproca… tra tutti. Ero sempre tra la gente, con la mia fotocamera in mano a immortalare i visi di ragazzi fantastici che, come me, erano spinti da qualcosa di importante. Sentivo racconti di ragazzi che non erano stati in grado di sopportare le testimonianze, la vista dei campi, le foto, i racconti… penso fosse la mia più grande paura prima di partire, quella di non reggere il confronto con una realtà così cruda, essendo io una persona altamente emotiva e sensibile. Insomma, da quello che percepivo,conoscendomi, queste visite avrebbero dovuto avere su di me un enorme impatto emotivo di pianti e disperazione. Durante la visita, ho visto foto di bambini scheletrici, donne deturpate e private della loro femminilità. Ogni singolo uomo umiliato, logorato, distrutto, mangiato dalla violenza, dalla fame, dalla morte minacciosa che ogni giorno incombeva. Mentre camminavo sul campo di Birkenau ho avuto l’impressione di vedere delle persone uscire dalle baracche, trascinandosi sofferenti e senza speranza, camminando su un terreno freddo e senza vita. In ogni viso immortalato e appeso alle pareti, circondato da fredde cornici scure, ciò che mi ha subito colpito è stata la trasparenza di quegli sguardi, così vuoti, così assenti, di persone che ancora non si capacitavano del proprio destino. Calpestavamo il terreno sul quale avevano camminato migliaia di persone innocenti e sconvolte. Un terreno macchiato del sangue di bambini inconsapevoli e donne spaventate, strappati violentemente dalla propria vita e dalla propria identità, trasformati in numeri e poi in carne da macello o bestie da sfruttare. Per ogni ciocca di capelli sotto le teche di Auschwitz vedevo l’immagine di una povera donna rasata a forza, terrorizzata.

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C’era un piccolo paio di scarpe in mezzo a tante, così piccole e così impressionanti seppure in mezzo a quell’immenso cumulo. Erano le piccole scarpe di una bambina i cui piedi non calzeranno più nulla e non cresceranno più per indossare altre scarpe. Un paio di scarpette seminuove, che nessuno calzerà mai più e che tutti dovranno vedere. Sono rimasta sconvolta da tutto questo, come mai mi è successo prima, ma non ho versato neanche una lacrima. Neanche una lacrima nonostante i milioni di sentimenti che mi hanno travolta. Questa reazione mi ha fatto impressione, mi sono sentita in colpa, ma soprattutto mi ha dato modo di riflettere; riflettere su tutto e su me stessa in modo particolare. Forse le lacrime non possono colmare le sensazioni che si provano davanti a tutto questo. Sono inutili e forse ipocrite davanti al dolore incommensurabile che hanno provato i prigionieri assassinati dei campi. Non ho versato una lacrima, forse inconsciamente, per rispetto di quelle versate da ogni singolo uomo rinchiuso in quell’inferno di mondo. Ora custodisco gelosamente ogni momento di quel viaggio. Ogni persona, ogni parola, ogni sorriso, ogni sguardo sarà per sempre un ricordo indimenticabile e prezioso per me. Ricordi che forse non sarò mai in grado di esprimere come meritano, ma che sicuramente hanno segnato la mia vita e quella di molti.

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Il treno di Dan

Elisa Tocci

Dan Rapoport è magro, elegante, riservato. Ha lunghe mani e nervose, mani da musicista. Ed è anche un direttore d'orchestra dal curriculum prestigioso e di raffinata cultura. Dan Rapoport è nato in Israele da genitori ebrei di origine polacca. Buona parte della sua famiglia è morta ad Auschwitz, il lager. Dan Rapoport non è mai stato in Polonia. E aveva deciso di non andarci mai. Poi, è stato stregato dalla nostra storia del treno. E ha chiesto di venirci, in Polonia. Con noi. Per suonare sul prato dove sono morti i suoi nonni. Dan, partito con il timore di non riuscire a vivere l'esperienza con serenità, al ritorno

ha confessato a Silvia Mantovani di essere tornato da un "viaggio di vita". Come può il ricordo di un viaggio verso la morte di più di due milioni di uomini, divenire un viaggio di vita? Può. Semplicemente può. Per molti di noi è stato così. Molti che come Dan erano partiti con l'angoscia addosso, per tutto quello che avevano letto. Per tutto quello che avevano sentito raccontare. Su Auschwitz e su Birkenau. Molti che sentivano il dovere, una volta trovatisi nei campi, di piangere, e di sentirsi in colpa se non riuscivano a manifestare le proprie emozioni con le lacrime. Quasi fossero solo le lacrime e urla le uniche risposte possibili alla rievocazione di quel genocidio. Quasi che per approcciarsi a quel periodo storico, per toccare, penetrare la perfezione di quel campi di sterminio, l'unico modo possibile fosse quello di divenire altrettanto funebri dell’'aria che si andava a respirare. Come se l'unica compagna della morte fosse la morte stessa. Dan Rapoport, invece, ha avuto il coraggio di riscattarsi da tutto ciò. Ha avuto il coraggio di attraversare con la vita quei sentieri di morte. Ha avuto, come noi, il bisogno di evadere da quel filo spinato e dare una speranza a quel cielo opaco che sempre libera l'uomo dal suoi tormenti. E la vita – non la morte – soffiava nelle sue note che volavano nelle nostre anime. Sulla pacata energia che noi ragazzi, vestiti di gelo, gli trasmettevamo con un sorriso. Con un pensiero condiviso. Assieme a noi, l'artista israeliano ha ritrovato nella rivisitazione della morte, la bellezza della vita. Una bellezza di luce che ogni mattina rende degne di stupore anche le cose più piccole e banali. Una bellezza così autentica e reale capace di farci di nuovo assaporare il tutto come se fosse la prima volta. E di accrescere la voglia di fare senza risparmiarsi. Una bellezza come risurrezione dal dolore nella gioia. Tornati da questa esperienza totalizzante, infatti, si vive come un bambino al suoi primi anni di vita, quando le cose appaiono sublimi ed incontaminate. Come un bambino ancora pieno di domande. Come un bambino sicuro di trovare ancora qualche segreto profondo. Ed è questo che mi ha insegnato Dan Rapport. E che ha insegnato a tutti noi. Che una volta che hai valicato quei cancelli, non puoi che cambiare il proprio modo di pensare e agire. Una volta tornati, gli occhi hanno la responsabilità di osservare il mondo con più attenzione, e i cuori la responsabilità di amare la vita e di guardare con più rispetto ogni essere vivente. Dan Rapoport non era mai stato in Polonia. E aveva deciso di non andarci mai. Poi, è stato stregato dalla nostra storia del treno. E ci è venuto con noi, in Polonia. Per commemorare i suoi morti. Tutti i morti. Ed è tornato, pieno di vita.

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Se questo è un uomo

Andrea Riccò, Alessia Zanni

Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case;

Voi che trovate tornando la sera Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango Che non conosce la pace

Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì e per un no

Considerate se questa è una donna

Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d'inverno:

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole: Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi; Ripetetele ai vostri figli:

O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca,

I vostri cari torcano il viso da voi. Questa celebre poesia di Primo Levi è conservata in una teca di vetro all'interno della baracca degli italiani ad Auschwitz, il più famoso dei campi di sterminio. La potenza di queste parole crediamo sia molto facile da comprendere, ma soprattutto pensiamo sia importante sottolineare che quello che ha scritto Primo Levi è veramente accaduto e non si tratta di brutti sogni ma soltanto di storia, di qualcosa che non si può negare. Entrando ad Auschwitz abbiamo provato a pensare a quante persone prima di noi avevano varcato quel cancello, a quante avevano visto la scritta "Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi, e soprattutto a quanto poche, rispetto a quelle entrate, erano riuscite a uscire da quel cancello. Abbiamo guardato le foto di tutti i detenuti: i loro occhi erano tutti uguali, in ognuno di loro si riusciva a percepire quella rassegnazione di chi ormai sa qual è il suo destino, ma non può fare niente per cambiarlo. Quello che ci ha impressionato maggiormente non è, come si immagina, la grande vetrata dei capelli, ma piuttosto la grandezza infinita di Birkenau, che rende ulteriormente chiaro come fosse impossibile anche solo pensare di sfuggire a tutto questo, di sfuggire ai nazisti e alle camere a gas. Il momento peggiore è quando inizi a ragionare, perché cominci a pensare a quante persone c'erano in un letto, a quante scendevano dal treno, a quante venivano uccise; quando cominci a pensare ti rendi conto di quanto i nazisti fossero organizzati in ogni minimo dettaglio e di quanto fino alla fine mentissero per evitare problemi. Per esempio quando ordinavano ai detenuti di andare a fare la doccia, mentre sapevano benissimo che non era cosi, quando dicevano di mettere i loro vestiti nel posto giusto, così dopo li avrebbero ritrovati... ecco, questo è quello che capisci. Purtroppo, però, dopo questa consapevolezza pensi: ma come potevano questi uomini fare quello che hanno fatto? Come potevano sparare ai bambini? Come possono queste persone essere considerate uomini e non mostri? Questo è il punto: i responsabili dei campo erano uomini come noi, eppure sono stati capaci di compiere atti atroci, non sono stati capaci di ribellarsi, ma erano comunque uomini; questo deve farci riflettere, perché questa storia ormai è passata, ma non è detto che non possa comunque ritornare.

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Sull'orizzonte di Birkenau

Andrea e Massimiliano Il testo che segue è formato da citazioni estrapolate – a cura della redazione – dai testi inviati a SMOOL dai ragazzi dell’ITIS Fermi (Modena). Tornato dal treno per Auschwitz, sono sconcertato. Non sorpreso, ma sconcertato. È difficile esprimere a parole cosa balla per la testa in quei momenti che si vivono in quei luoghi grigi. Questo l’ho provato particolarmente nel momento in cui mi ritrovavo a scattare foto: cercavo dei soggetti validi, qualcosa che mi affascinasse

e rubasse l’attenzione. Impresa quasi impossibile. L’unica cosa che mi colpiva veramente rea la desolazione. Non c’è rimasto praticamente nulla. A parte qualche mattone, qualche solitario caminetto e quei colonnini adunchi di cemento armato che reggevano il perimetro elettrificato. Assolutamente nulla. Un po’ di dinamite e poco più di mezzo secolo di polvere sono riusciti a rendere il cimitero più grande del mondo un prato, che se non fosse minimamente salvaguardato e quantomeno conosciuto, magari non ci si poserebbe nemmeno l’occhio. Questo è l’effetto che fa Birkenau: lo splendore, l’apice della finemente progettata idea architettonica ed esecutiva nazista trasfigurato in un grande, silenzioso, inconsapevole prato. (Andrea Roncaglia) Auschwitz. Il semplice echeggiare di questo nome provoca sgomento, un solenne sgomento che afferra l'animo, disorienta, stordisce. Auschwitz: una parola che non si dimentica. La storia racconta e l'orrore di Auschwitz. Ma è solo il calpestare di quella terra, il vedere i relitti dell'atrocità che può lasciare un indelebile tratto nella coscienza di ognuno. Difficilmente scorderò l'attimo in cui lo sguardo si è proiettato per la prima volta sull'orizzonte di Birkenau, immergendomi nella sua macabra desolazione per un infinito istante. Non ho provato rancore, disprezzo, odio verso coloro che compirono l'ingiustizia, ma un’immensa compassione. Ed il pensiero confortante che anche nel fulcro della malvagità umana, non è stato possibile rendere estraneo l'uomo all'amore ed alla sua dignità. Perché la vera essenza, la dignità umana più pura, consiste nella capacità di amare “L’odio non è una forza creativa; solo l’amore crea… Queste sofferenze non ci spezzeranno, ma ci aiuteranno a diventare sempre più forti. Sono necessarie, insieme ai sacrifici degli altri, perché chi verrà dopo di noi possa essere felice…”. (M. Kolbe) L'esperienza di Auschwitz è tanto dura quanto gratificante, un viaggio della memoria che cia ha regalato l'impellente responsabilità di ricordarcene, ma soprattutto di parlare degli uomini, donne e bambini che ci hanno raccontato le loro storie di vita nei blocchi, nei prati, nei forni… (Ferrarini Massimiliano).

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…entrando si vede una lunga strada

Andrea, Debora, Simona, Nico, Mattia, Alessandro

Il testo che segue è formato dall’insieme di brevi citazioni estrapolate – a cura della redazione – dai numerosi testi inviati a SMOOL dai ragazzi dell’IPSIA Corni (Modena). !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Da quando ho saputo dell’esistenza del progetto: ”Un treno per Auschwitz”, ho sempre desiderato parteciparvi. E quando l’occasione mi si è presentata, non me la sono fatta scappare. Ho sempre voluto vedere coi miei occhi le testimonianze lasciate dalla mente malata dagli uomini. Ascoltare racconti, vedere documentari o leggere delle storie hanno sempre degli effetti dentro di noi, ma quando ti trovi là davanti e vedi coi tuoi occhi una scalinata che hanno percorso milioni di persone prima di morire, qualcosa dentro di te scatta, la testa si riempie di domande, ti senti vuoto, preso soltanto dallo sconforto. E ti rendi conto di come, in fondo, sia facile sterminare un popolo e far sparire migliaia di famiglie nel nulla. È impossibile sentirsi distanti da questo fatto perché quando vedi tutte le valige con sopra tutti i dati per ritrovarle in caso di smarrimento, oppure quando vedi tutte le foto di famiglie felici ti rendi conto che come è successo a loro poteva benissimo succedere a noi. Non sono in grado di esprimere quello che Auschwitz mi ha lasciato dentro, ma sono più che certo che ogni persona che ha visitato quei luoghi torna cambiato. Quei 5 giorni sono stati un’esperienza piena di vita. (Andrea Cavani) Arrivati a destinazione la nostra prima visita si è tenuta a Birkenau: oltre 175 ettari di terreno recintati da fili spinato. Passando all’interno dei Block, abbiamo potuto verificare con i nostri occhi come le persone vivevano, i bagni erano lastre di cemento con dei buchi grezzi, i letti erano tavolacci di legno. E poi: due tonnellate di capelli, scarpe, barattoli di Zyklon B, valigie con ancora i nomi scritti sopra, occhiali, protesi, pentole… Ogni cosa ad Auschwitz, ogni piccola cosa faceva pensare, pensare a come viveva quella povera gente, al freddo e al gelo senza nulla con cui coprirsi. Tutti con lo stesso sguardo, persi, come se fossero da un’altra parte con la testa, come se non avessero più niente da perdere… Singhiozzi e lacrime. E’ un viaggio indimenticabile, unico, capace di commuoverti e di farti crescere, capace di farti pensare… (Leo Debora) …entrando si vede una lunga strada dove uomini, donne e bambini camminavano al freddo… Alla destra si notavano i binari dove arrivava il treno maledetto, alla sinistra c’erano delle “baracche”… Mi sono rimaste impresse un mucchio di cose: due tonnellate di capelli umani, le camere a gas e le fotografie di tutte le persone con la data di entrata e la data di morte. La prima foto che ho visto era quello di un uomo che era entrato il 10 Gennaio 1942 ed è stato ucciso il 10 Novembre 1942, mi sono scese le lacrime proprio il giorno del mio compleanno come fosse stato un destino non so come spiegare: è come se quella persona mi chiamasse e mi dicesse attraverso lo sguardo: “Guarda come mi hanno ridotto, mi hanno ridotto come uno straccio, come se fossi il nulla”. (Marulli Simona) All’interno dei luoghi di sterminio che abbiamo visitato, in qualunque punto si posasse il mio sguardo, restava dentro di me un profondo senso di sgomento. Questo mi ha portato a riflettere su varie cose come chi siamo, cosa facciamo e soprattutto il perché compiamo determinate azioni. Non è per niente un ragionamento facile da elaborare né un argomento facile da approfondire. Naturalmente emerge subito quanto la mente umana sia in grado, se non è guidata da qualcosa di logico, di diventare feroce, istintiva ed arrivare a superare la soglia della follia pura.

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L’esempio più eclatante è appunto quello del Regime Nazista che, come altri regimi, partiva dall’educazione dei ragazzi e li cresceva con ideali di superiorità verso gli altri e con un odio profondo verso tutti coloro che non appartenevano alla cosiddetta razza ariana. E’ in questo frangente che ci si accorge di quanto la mente sia parte nel sostenere un’ideale, ma anche troppo facile da manipolare e piegare a certi scopi invece che ad altri. Noi oggi viviamo in un paese in cui la multiculturalità è ancora tema di grande discussione. Io penso che il rispetto fra persone di diverse culture sia indispensabile, ma purtroppo vedo che ci sono ancora molte persone che sono state cresciute con mentalità molto chiuse e abituate a vedere in modo ostile chi è di differente religione, provenienza e colore di pelle. (Salvatori Nico) …siamo entrati nella baracca dove si lavavano con la poca acqua che c’era, e la baracca dei gabinetti, che era costituita da due file di buchi su una lastra di cemento lunga circa 20 metri. Ogni buco era distante dall’altro circa 40 centimetri. La guida ci ha raccontato che molto spesso gli ebrei o le persone detenute nel campo non facevano in tempo a sedersi che il capò gli dava un calcio e gli diceva di alzarsi e di andar via... Abbiamo visto dei laghetti che erano i luoghi dove buttavano le ceneri delle persone cremate e dove ancora oggi, quando piove molto, risalgono a galla ossa umane… Si dice che quando i forni crematori erano in funzione l’odore che ci spandeva nell’aria era “dolciastro”… …personalmente mi ha toccato profondamente vedere il block dove ci sono le foto di bambini pelle e ossa: guardandole sentivo come se mi mancasse il fiato e mi si torcesse lo stomaco. In particolare sono stato catturato dalla foto di un bambino di 2 anni, rannicchiato che sembra un neonato, da tanto era denutrito… Penso che questa sia un’esperienza da fare non solo per 10 studenti in ogni scuola ma molti di più, anche perché sono pienamente convinto che alcuni ragazzi, se venissero qui, la smetterebbero di abusare dei più deboli… (Mattia Govoni) Il primo giorno siamo andati a Birkenau. Appena dentro, quasi non riuscivo a scorgerne la fine. Nemmeno il pensiero riusciva a cogliere quanta gente potesse contenere perché mi sembrava veramente infinito. Le recinzioni facevano rabbrividire e rendevano l’idea di inquietudine, un’inquietudine da cui non si poteva fuggire… E che faceva crescere dentro di me la paura. La paura che tutto ciò possa riaccadere. (Golinelli Alessandro)

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E infine accendiamo le fiaccole

Ludovica Bellomaria

Ogni anno i partecipanti al progetto “Un treno per Auschwitz” organizzano una fiaccolata nel campo, e quest’anno tocca a noi. Ci siamo solo noi nel campo e, anche se siamo in più di 600, sembra davvero vuoto. Giungiamo ai piedi del monumento, le fiaccole e le candele ancora spente. L’orchestra Ensemble Quadrivium, diretta dall’israeliano Dan Rapoport, apre la cerimonia con due bellissimi brani. Il secondo è una preghiera, cantata da un bravissimo tenore dalla voce potente ma carezzevole. “Ora suoneremo una preghiera israeliana. Chissà quante volte questo luogo l’avrà sentita sussurrare da chi andava a morire”: così viene presentata dal direttore. Avete mai assistito ad un concerto di musica classica all’aperto, di un’orchestra per lo più composta da archi e fiati? Io non avevo mai avuto l’occasione, forse per questo rimango così colpita. Sono a pochi passi dall’orchestra, eppure il suono è soffuso e si disperde nell’aria. Questo lo rende ancora più triste e lontano, sembra un canto d’altri tempi. Un canto antico. Forse inconsapevolmente, sono riusciti a far rivivere quella preghiera sulle labbra di chi, in quel luogo, la recitò, con il dolore che lacerava il cuore. Le parole di questa preghiera hanno scosso oggi questo luogo, come lo scuoterono allora. Il campo le ha riconosciute, “Sì, sono ancora loro!”, ed ha taciuto, perché giungessero in ogni suo remoto angolo, in ogni baracca, su ogni pietra ed ogni filo d’erba, sul filo spinato, per alzarsi, infine, al cielo, trasportate dal vento. È come se il campo avesse trattenuto il respiro: non un rumore copre questo malinconico canto, e, improvvisamente il vuoto intorno a noi si manifesta. Purtroppo, almeno per me, è una sensazione davvero impossibile da descrivere e far percepire. Siamo qua, parte integrante di un passato che non se ne vuole andare, che, ingombrante, si è fatto spazio tra di noi attraverso questa preghiera ed è corso lungo tutto il campo, toccando ogni sua parte, calpestandolo con la sua immortale, profondissima e funesta tristezza. Il campo ascolta insieme a noi le parole dei ragazzi che leggono al microfono: toccanti riflessioni e testimonianze di studenti che, negli anni passati, hanno preso parte al viaggio e hanno voluto riportare, anche quest’anno, una parte di loro qui, ad Auschwitz. Chissà perché, ma è come se quelle frasi le avessi scritte io: parlano di sgomento, silenzio, consapevolezza e memoria, quello che anche io ho trovato in questo luogo. Un passo di Primo Levi, poi un altro di Salvatore Quasimodo. Infine accendiamo le fiaccole e alcuni si avviano già lungo i binari. Io rimango un po’ indietro e mi avvicino alla base del monumento, dove si trovano lapidi commemorative in numerose lingue. Cerco quella in italiano, che si trova più o meno al centro: lo so, perché qui ci sono stata anche ieri, ma voglio rileggere questa frase, indelebile in questo posto di morte, ed ora anche nel mio cuore. Vi sta scritto:

Grido di disperazione ed ammonimento all’umanità sia per sempre questo luogo

dove i nazisti uccisero circa un milione e mezzo di uomini, donne e bambini,

principalmente ebrei, da vari paesi d’Europa.

In silenzio, pensando a queste parole, cammino sui binari verso l’uscita del campo. Penso a quante persone li hanno percorsi, nel senso opposto, diretti verso ciò che mi sto lasciando alle spalle.

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Serate

Ludovica Bellomaria

Il programma del viaggio, oltre a visite interessanti e ben organizzate, prevede anche serate di intrattenimento per noi ragazzi, per rilassarci un po’ dopo il ritmo frenetico della giornata. La prima serata prevede un incontro presso il cinema di Cracovia, che offre una grandissima sala conferenze dalle poltroncine molto confortevoli. Presupposto molto importante per assistere alla lettura del “Discorso sulla razza” dello scrittore Paolo Nori, uno degli ospiti del viaggio. Non posso negare che, anche se l’ho seguita con molta attenzione, poteva risultare un po’ ostica, soprattutto dopo un viaggio di 24 ore! Tuttavia, Nori ha saputo magistralmente affrontare un argomento di cui non si sente parlare molto spesso: l’eugenetica, lo scellerato tentativo di purificare la razza umana eliminando le “appendici cancerose” ed opponendosi alla libera propagazione delle loro imperfezioni genetiche. Ha continuato parlando della spaventosa somiglianza che alcuni hanno notato tra i gregari nazisti e le persone comuni come noi: questo significa che tutti siamo potenzialmente assassini se sottoposti all’autorità, e siamo “vanghe nelle mani della storia”, suoi inconsapevoli strumenti. Durante la seconda serata, presso il circolo culturale Rotunda di Cracovia, Lucarelli ci ha intrattenuto, con il suo bellissimo discorso “I virus della memoria”, intervallato dall’esibizione dell’orchestra Ensemble Quadrivium diretta da Dan Rapoport. Il famoso scrittore è partito dalla considerazione che, con il tempo, la memoria dei fatti finisce per ridursi ad una dimensione puramente numerica, perdendo invece la sua vera essenza, quella della distruzione di un individuo e della sua storia. Questi “virus” che ci ha elencato e spiegato in modo esauriente con esempi e storie contribuiscono a distogliere la nostra attenzione da ciò che è veramente importante notare: non l’insieme, la moltitudine, le migliaia e migliaia di persone morte, ma il singolo, la storia individuale, i sogni e le speranze di ognuno. Ha parlato del “punto di rottura”, così lo ha chiamato, che ognuno di noi trova ad Auschwitz: chi in una foto, chi in una

frase, chi in una riflessione, chi in uno scorcio. Il “punto di rottura” è qualcosa che ti blocca le gambe e il respiro, qualcosa che è talmente fastidioso e insopportabile che devi cacciarlo immediatamente dalla tua mente. Lui, ci racconta, l’ ha trovato nel pensiero che una mamma avesse potuto cantare una ninna nanna al suo bimbo per placarne il pianto, mentre si trovava sulla soglia della camera a gas. Questo canto troppo dolce, troppo pieno d’amore in mezzo a questo odio, stride, gli è talmente insopportabile da torturarlo ogni volta che ci pensa. Per Lucarelli, il vero rischio è che questi virus ci “abituino all’orrore”, per questo ci narra specifiche storie, di vittime e di carnefici, e i volti di Auschwitz prendono vita e assumono connotazioni più precise nella nostra mente. Solo capendo che loro, gli oppressi e gli oppressori, erano uguali a noi, uomini comuni come noi, possiamo capire l’orrore dell’Olocausto, e il bisogno, il dovere di ricordarli degnamente. L’ultima sera il gruppo musicale pugliese Après la classe e Cisco, cantante dei Modena City Ramblers, hanno tenuto un concerto; è stato molto piacevole chiudere tutti insieme questa breve ma intensa esperienza.

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Ora tocca a noi!

Francesca Ghiselli (a cura di) Lunedì 20 e martedì 21 aprile presso l’Auditorium del Castello di Mirandola i ragazzi degli Istituti Superiori G. Galilei e G. Luosi di Mirandola che hanno partecipato al Progetto UN TRENO PER AUSCHWITZ, hanno presentato ai loro compagni la loro esperienza proiettando un Diario di Viaggio fotografico accompagnato dalle loro riflessioni. Durante il dibattito che è seguito tante sono state le domande loro rivolte. Enrico Luppi, Giacomo Bettini, Ludovica Bellomaria e Klajdi Tagani a nome del gruppo così hanno risposto:

Perché avete deciso di

partecipare a questo “viaggio”? Qualcuno di noi era fin dall’inizio estremamente convinto della validità dell’iniziativa e voleva vedere “sul campo” quanto per tanto tempo era stato letto solo sui libri. Qualcuno è stato spinto dalla propria personale sensibilità verso il tema della Shoà, ma ! è inutile nasconderselo ! qualcuno ha inizialmente aderito attratto soprattutto dalla prospettiva di perdere ben 6 giorni di scuola… Certo è che proprio questi ultimi sono stati maggiormente “toccati” da questa esperienza e le motivazioni iniziali si sono radicalmente trasformate.

Secondo voi qual è lo scopo del progetto “Un treno per Auschwitz”? Lo scopo è di aiutare noi ragazzi a comprendere quali dinamiche hanno condotto alla realizzazione del progetto dello sterminio al fine di evitare comportamenti pericolosi che potrebbero riproporsi. Viaggiare su questo treno ci ha permesso di conoscere la Storia e di rivivere ciò che hanno vissuto in passato i deportati. Solo se si hanno queste conoscenze! e viaggiare è un modo per conoscere! è possibile guardarsi intorno oggi e non rassegnarsi a ciò che ci accade intorno. Dal momento, poi, che i sopravvissuti,ormai anziani, potrebbero non esserci più tra qualche anno, tocca a noi tenere viva la memoria per evitare che il 27 gennaio non diventi solo una semplice data da studiare sui libri di scuola.

Ritenete, quindi, che visitare Auschwitz sia più educativo di mille letture?

Certamente la lettura, lo studio e la visione di film e documentari offrono un importante base culturale per immergersi nelle dinamiche di quel periodo storico, ma l’esperienza diretta della visita ai luoghi suscita emozioni veramente uniche, sicuramente diverse da quelle che si ricavano dalla lettura di testi o dalla visione di film.

Dalle vostre parole emerge l’idea che questa sia un’esperienza emotivamente ”forte”. La consigliereste anche a una persona molto sensibile?

Certamente. Sono emozioni uniche che chiunque dovrebbe provare. Lo sforzo deve però essere quello di saper “andare oltre” l’emozione del momento per conoscere e tentare di comprendere. Lasciarsi coinvolgere completamente rende l’esperienza indimenticabile.

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Abbiamo visto poco fa l’anteprima del vostro Video “Übermensch” che andrà a concludere il progetto del Video!Dizionario della Shoà. Perché avete scelto proprio il termine Superuomo?

Inizialmente eravamo indirizzati sul termine Umiliazione, poi però abbiamo pensato che Superuomo si abbinasse meglio alla sceneggiatura che stavamo creando. Con questo termine abbiamo voluto evidenziare come nell’immaginario nazista la giustizia dovesse essere esercitata da superuomini, uomini forti, belli, perfetti, capaci solo di umiliare gli altri popoli. In realtà chi esercita la violenza e vuole umiliare l’Altro, finisce per umiliare e abbruttire solo se stesso.

Al termine di questo percorso vi siete fatti un’idea del perché migliaia di tedeschi si lasciarono coinvolgere nelle SS, nonostante non fossero pazzi o sadici di professione e seguirono Hitler diventando Nazisti?

Dal punto di vista storico vi sono stati, di certo, innumerevoli fattori che hanno determinato l’adesione al Nazismo di tanti Tedeschi: la crisi economica e la speranza di un cambiamento, il desiderio di ordine politico e di riscatto rispetto alle umiliazioni patite al termine della Grande Guerra,il timore di essere vittima della repressione in caso di dissenso,… ma, crediamo, l’indifferenza e l’egoismo siano stati fondamentali. Ciascuno pensava a se stesso e alla sua famiglia, lasciando che gli altri andassero incontro al loro destino.

Per fortuna, dalla visione del DVD ”Gli eroi nascosti”, proiettato a conclusione della mattinata, una ricerca

inedita realizzata dalla dott. Maria Peri, è emerso che non tutti in quell’epoca furono “indifferenti”…

Sì, la ricerca ha messo in luce come nel Mirandolese tra gli anni 1943!1945 siano stati salvati da comuni cittadini circa 100 Ebrei che vivevano nella zona. Questo ci riconferma nell’idea che ciascuno di noi ha una propria responsabilità personale: l’uomo può essere generoso, altruista e disinteressato, così come violento e spietato. Tocca sempre e solo a noi decidere quale uomo vogliamo essere!

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Sulla via del ritorno

Anna, Elisa T., Valentina, Giulia, Anna Maria, Elisa G., Greta, Clelia, Valeria, Alice,

Chiara Il testo che segue è formato dall’insieme di brevi citazioni che la prof. e le ragazze del Liceo Sigonio hanno scritto sul treno, a poche ore dall’arrivo, il 30 Gennaio 2009 Uno squillo di tromba nel silenzio di Birkenau. Le lacrime di Dan Rapoport tra le mille foto dei deportati ad Auschwitz e i turisti incolonnati. Lunghe chiacchiere tra colleghe e risate con le alunne belle e splendenti. Tra consonanze e dissonanze speriamo di trovare il nostro posto. (Anna) Luoghi, foto, ricordi, persone, parole e tanto altro sto portando a casa… Ho il cuore pieno! Quasi mi scoppia, tante cose sono successe in me… Sto tornando a casa, stanca ma felice… con gli occhi che conservano ancora l’altra metà del cielo. (Elisa T.) Un'altra cosa chiedo al mio Signore: che non mi faccia mai, mai dimenticare ciò che ho provato… per una volta sono uscita dal mio piccolo mondo… a chi non ricorda la storia o fa finta che non sia mai esistita: che la riviva, passandoci attraverso… in un cammino di vuoto immenso… Grazie Signore per tutto questo. (Valentina) Questo treno ci ha portate lontano, per vivere più da vicino un genocidio avvenuto solamente qualche decennio fa. È stato un viaggio di risate, pianti, amicizie, ma soprattutto di sentimenti. Ho vissuto come un privilegio partecipare a questa esperienza, ho realizzato un mio desiderio da tempo dentro al cassetto. (Giulia) Una piccola scarpetta bianca… Una bambina privata delle corse in mezzo ad un prato, un saltello che non ci sarà… la vita che non tornerà. (Anna Maria) Gli occhi di bambini a cui è stata tolta la propria infanzia; uomini e donne ai quali è stato tolto il rispetto, trattati come bestie, fotografati come criminali. Il silenzio di Birkenau è un silenzio che urla il dolore di migliaia di persone uccise da “folli” ideologie, nate con lo scopo di infangare essere umani la cui colpa era non appartenere alla religione cristiana. Auschwitz ci insegna quanto l’uomo sia spietatamente crudele, e a che punto l’odio possa spingersi. Ma è solo ricordando e studiando ciò che è stato che forse potremo evitare orrori simili a ciò che ho visto in Polonia. (Elisa G.) Ciò di cui sono certa è che questo viaggio mi ha profondamente colpito e toccato. Anche se ero preparata a ciò che andavo a vedere davanti a quei luoghi e a quelle testimonianze non ho potuto fare altro che rimanere senza parole. Entrambe le visite ai due campi sono state molto significative; in uno perché ho avuto modo di vedere il luogo reale e tangibile di tutto l’orrore e nell’altro perché mi ha fornito prove concrete di quanto è accaduto. Forse però ciò che più mi ha aiutato a capire e a riflettere su questo viaggio, sono stati i due momenti serali con gli scrittori Nori e Lucarelli, le loro riflessioni hanno completato in modo chiaro e perfetto il significato profondo di questa esperienza. (Greta)

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Lo sguardo di un ex deportato, sofferente, spento, freddo che fissa insistentemente il monumento di fronte a lui, architettato in onore di tutti i deportati del campo di concentramento. Il suo corpo smilzo che sicuramente porta ancora i segni di quella terribile violenza. Il suo cappellino a righe bianche e blu ormai scolorito mi scatena un pianto di rabbia perché comprendo che ciò che leggiamo passivamente sui libri di storia è accaduto veramente. La melodia squillante della tromba che rompe il silenzio quasi inquietante attorno a me. Una brillante e profonda lacrima scende dalla rugosa guancia di quel vecchio signore che avrei voluto tanto abbracciare. (Clelia)

Sono fatta di ricordi, emozioni, sensazioni che mi invadono! Chiudo gli occhi: foto, distese di baracche, persone sono parte di me. Un pezzo di storia che poteva essere dimenticato, ma grazie a questo lungo ed interminabile viaggio è rinato. Molti tendono a dimenticare o perché troppo presi da cose futili o perché non si interessano del passato considerato morto. Un passato coperto da quella neve bianca che cerca di cancellare le tracce di quel massacro, invece sotto quel soffice manto molte vite sono state distrutte, spezzate, uomini e donne trattate come animali che oggi vivono grazie al nostro ricordo. Spero e mi auguro che quelle vite possano volare lontano in cielo dove la libertà non è negata, ma mi auguro soprattutto che questi massacri non si verifichino più. Quando penso che bambini, adulti e anziani hanno sofferto così tanto mi viene la pelle d’oca. Sono una ragazza di 18 anni, ho tante cose da imparare spero di vivere ancora per molti anni, ma quelle giovani ragazze uccise con l’inganno quella speranza non l’hanno potuta avere. (Valeria) Orrore! Ecco cosa ho provato! Orrore nel pensare fino a dove si può spingere la stupidità umana! Birkneanu ha stimolato la mia immaginazione, era come se si intravedessero ancora le facce tristi degli uomini nelle baracche… Nel museo quella moltitudine di oggetti, capelli, scarpe mi ha chiuso lo stomaco. Ma quanto lontano si può spingere la stupidità umana? (Alice) Patate, patate, patate… davanti all’ennesimo buffet di patate, ieri sera erano tutti nauseati! Io no… Stavo pensando ad altro… alla fiaccolata del pomeriggio. A Birkenau tutti intorno a me scherzano, ridono, giocano con le candele, io no! Sto guardando l’orizzonte per cercare di trovare la fine del campo. Non esiste… il mio occhio limitato non la vede. Riesco a scrutare il filo spinato. Ma percepisco che il male presente qui non ha confini e riesce a oltrepassare il filo spargendosi nel mondo. (Chiara )

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Quando si apre il cancello di casa

Chiara Sgarbi

Durante il viaggio la frenesia fatta da orari dettati dalla nostra guida, pasti al ristorante, spettacoli, visite e spostamenti in pullman limita un po’ la riflessione. Quando però si apre il cancelletto di casa, il tuo cane arriva scodinzolando con la lingua fuori, tua madre ti aiuta con la valigia chiedendoti come stai ed entri in camera tua appoggiando lo zaino, ti rendi conto della fortuna che hai. Con calma ti guardi intorno e apprezzi ciò che ti circonda, guardandolo con occhi diversi, più attenti. Non sono tanti i momenti in cui si riflette sulla quantità di cose positive che affollano la nostra vita. Ci si ferma mai a pensare al fatto che la nostra famiglia, la nostra casa, gli amici, la scuola ci sono e ci saranno anche domani, e non dobbiamo preoccuparci del futuro più prossimo? Questa sicurezza ha un valore che spesso passa inosservato. È infatti altamente improbabile che domani qualcuno bussi alla nostra porta, caricandoci su un furgone, sconvolgendo per sempre la nostra vita. Però non ci si pensa mai, dando per scontate le certezze che abbiamo. Arrivando a casa dopo questo viaggio si è spinti a osservare gli eventi con occhi diversi. L’importanza delle persone e delle occasioni assume un peso differente e chi ha potuto partecipare a questo viaggio ha avuto l’occasione di trovare lo stimolo per evitare l’indifferenza che impedisce di dare il giusto valore alla stabilità che accomuna la maggior parte di noi. Visitare Auschwitz è utile sia per impedire che ciò che è accaduto avvenga nuovamente (anche se, attualmente, nel mondo, si verificano situazioni simili), ma anche per ricordarla. Tutto ciò che noi abbiamo, ma soprattutto la sicurezza, non ci sono dovuti e non per tutti costituiscono la normalità. Considerazioni dopo un viaggio significativo che non restano sterili, ma si riflettono sulla quotidianità, rendendola meno scontata, ed evitano lamentele spesso immature.

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Redazione SMOOL: Mario Agati, Ama3ena, Francesca Bekiaris,

Debora Capuozzo, Gabriele Casagrande, Babita Costarella, Giulia Desliens, Emanuele Fancinelli, Elena Ferrari, Milena Lazzaretti, Ludovica Lugli, Giacomo Luppi, Linda Petracca, Sara Raimondi, Denise Renzi,

Silvia Rosi, Beatrice Senese, Eleonora Senese

Le immagini di questo numero sono di: Mario Agati, Erika Corghi, Silvia Facchini, Elisa Galli, Anna Soresina, Elisa Tocci