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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE Corso di laurea specialistica in Scienze sociali e cooperazione allo sviluppo Sistemi di cooperazione a confronto Italia e Spagna negli aiuti allo sviluppo nel Nord Africa Relatore Tesi di laurea di: Prof. Gianfranco Bottazzi Manuela Lai ANNO ACCADEMICO 2006/2007

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

Corso di laurea specialistica in

Scienze sociali e cooperazione allo sviluppo

Sistemi di cooperazione a confronto

Italia e Spagna negli aiuti allo sviluppo

nel Nord Africa

Relatore Tesi di laurea di: Prof. Gianfranco Bottazzi Manuela Lai

ANNO ACCADEMICO 2006/2007

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Terzo Mondo

Scrutando nello strano mondo delle ossessioni da un po' di tempo va di moda quella sui confini

da controllare per dare un nome alle nazioni e sapere di che posto si è cittadini

Troppo tempo perso ad aggiornare i loro atlanti

per studiare i nuovi stati indipendenti catalogare nuove razze in vecchi continenti

e spartirsi di nascosto un mucchio di contanti

ma il terzo mondo è sempre quello per noi rimane anche il più bello

e sottosviluppo è una parola da padroni che serve a sostenere nuove colonizzazioni

ma il terzo mondo è sempre quello per noi rimane anche il più bello

il mito del progresso lo butto via chiedendo un terzo mondo anche per me

non si sente altro che parlare dell'Europa unita

e decantarla come un gruppo mega organizzato d'Africa e dell'Asia non se ne parla più

che fine ha fatto il mio orizzonte preferito

ti ricordi quando si parlava di Burkina Faso Sudan nord Corea Ruanda Congo ed Eritrea come l'Honduras la Birmania e il Suriname

gli altri centotrenta muoiono di fame

Punkreas gruppo punk-rock italiano

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Indice Introduzione

…………………………………………………………………………….……………….

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PARTE A

LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE ALLO SVILUPPO …………………..

13

1. Quando il sottosviluppo diventa un “problema”………………………………………. 15

1.1 Ricchi e poveri………………………………………………………………………... 16

1.2 Prime forme di cooperazione…………………………………………………………. 17

2. L’evoluzione in materia di cooperazione allo sviluppo……………………………….. 19

2.1 Gli anni Cinquanta e Sessanta: “la decade dello sviluppo”………………………….. 19

2.2 Gli anni Settanta: bisogni essenziali e crisi economica………………………………. 20

2.3 Gli anni Ottanta: crisi del debito, aggiustamento strutturale e sostenibilità………….. 22

2.3.1 Il Rapporto Brandt………………………………………………………….…………… 23

2.3.2 La crisi dello sviluppo………………………………………………………………….. 23

2.4 Il dopo-guerra fredda…………………………………………………………………. 24

2.4.1 Rischi e opportunità dell’integrazione economica………………………………………. 24

2.4.2 Riflessione……………………………………………………………………………….. 26

3. I flussi internazionali…………………………………………………………………….. 27

3.1 Altri tipi di aiuto………………………………………………………………………. 28

3.2 Canali di erogazione………………………………………………………………….. 28

3.2.1 Bilaterale o multilaterale?…………………………………………………………. 29

3.3 Un po’ di numeri……………………………………………………………………… 30

3.4 Chi riceve e chi dona di più………………………………………………………….. 35

3.5 Gli Obiettivi del Millennio e la Conferenza di Monterrey…………………………… 38

4. Panoramica sulla situazione attuale dell’aiuto allo sviluppo…………………………. 41

4.1 Gli strumenti………………………………………………………………………….. 46

4.2 Nuovi strumenti per aiuti più efficaci………………………………………………… 46

5. Le Organizzazioni Non Governative…………………………………………………… 49

5.1 Definizione giuridica…………………………………………………………………. 50

5.2 Caratteristiche delle ONG nella cooperazione allo sviluppo…………………………. 53

5.3 Risorse alle ONG……………………………………………………………………………... 54

6. L’efficacia della cooperazione allo sviluppo…………………………………………… 55

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7. Conclusione……………………………………………………………………………… 57

PARTE B

L’ITALIA E LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO ……………………………..

59

1. Italia tra cooperazione e terzomondismo negli anni ‘60 e ‘70………………………... 61

1.2 Il ruolo della chiesa…………………………………………………………………… 61

2. Evoluzione legislativa della politica di cooperazione allo sviluppo………………….. 55

2.1 Le Unità Tecniche Locali…………………………………………………………….. 64

2.2 Canali di erogazione degli aiuti pubblici italiani……………………………………... 65

2.3 Le priorità geografiche e settoriali……………………………………………………. 65

2.4 Priorità della cooperazione italiana…………………………………………………… 68

2.5 La collaborazione con gli organismi internazionali…………………………………... 69

3. Aiuto Pubblico allo sviluppo italiano…………………………………………………... 71

4. Le ONG in Italia………………………………………………………………………… 73

4.1 L’Ufficio VII della DGCS……………………………………………………………. 73

4.2 Gli organismi di coordinamento delle ONG italiane…………………………………. 74

5. Critiche…………………………………………………………………………………… 75

5.1 L’inefficienza dei fondi………………………………………………………………. 75

5.2 Un decennio per approvare un progetto di sviluppo …………………………………. 76

6. Conclusioni………………………………………………………………………………. 77

LA SPAGNA E LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO ………………………….

81

1. La cooperazione allo sviluppo in Spagna………………………………………………. 83

1.1 Evoluzione legislativa in materia di cooperazione allo sviluppo……………………... 83

1.2 La Legge 23 del 7 Luglio 1998……………………………………………………….. 87

2. Stato attuale della politica di cooperazione spagnola…………………………………. 89

3. La Spagna e l’Ayuda Oficial al Desarollo……………………………………………… 91

3.1Distribuzione settoriale dell’APS spagnolo…………………………………………... 94

3.2 Distribuzione geografica degli aiuti…………………………………………………... 96

4. Gli attori della cooperazione spagnola…………………………………………………. 99

4.1 Il contributo dei ministeri…………………………………………………………….. 99

4.2 Cooperazione decentrata: il contributo delle Comunità Autonome…………………... 99

4.3 L’Agenzia Spagnola di Cooperazione Internazionale, AECI………………………... 101

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4.3.1 L’ambito di lavoro dell’Agenzia…………………………………………………. 103

4.4 Il Coordinamento delle ONG spagnole……………………………………………… 103

5. Confronto politiche di cooperazione allo sviluppo……………………………………. 105

PARTE C

LA COOPERAZIONE DELL’ITALIA E DELLA SPAGNA NEL NORD AFRICA

113

1. Definizione di Terzo Mondo……………………………………………………………. 115

2. Africa o Afriche?………………………………………………………………………… 117

3. Panoramica delle Organizzazioni Non Governative in Africa ……………………….. 121

4. La situazione del Nord Africa…………………………………………………………... 125

4.1 Italia e Spagna in Nord Africa…………………….…………………………………... 125

5. Il Partenariato Euromediterraneo……………………………………………………... 129

5.1 L'Unione Europea e il Mediterraneo………………………………………….………. 129

5.2 La Conferenza di Barcellona 1995…………………………………………………… 130

5.2.1 Partenariato politico e di sicurezza……………………………………………………….. 130

5.2.2 Partenariato economico e finanziario……………………………………………………. 130

5.2.3 Partenariato nei settori sociale, culturale e umano………………………………………. 133

5.3 Organismi e programmi………………………………………………………………. 134

5.3.1 Il programma MEDA……………………………………………………………………. 134

5.3.2 Programmi Regionali………………………………………………………………….. 135

5.3.3 Programma Heritage…………………………………………………………………... 135

5.3.4 Fondazione Euromediterranea "Anna Lindh"…………………………………………… 136

5.3.5 Euromesco………………………………………………………………………………. 137

5.3.6 Femise………………………………………………………………………………….. 137

5.3.7 Assemblea Parlamentare Euromediterranea (APEM)………………………………….. 138

5.4 Le conferenze seguenti……………………………………………………………….. 138

6. I paesi del Nord Africa………………………………………………………………….. 141

6.1 Algeria……………………………………………….……………………………….. 141

6.1.1 Cooperazione euro-mediterranea………………………………………………..…….. 143

6.1.2 La cooperazione italiana…………………………………………………………..……. 146

6.1.3 La cooperazione spagnola……………………………………………………….…….. 146

7.1 Egitto…………………………………………………………………………….……. 149

7.1.1 La cooperazione euro-mediterranea…………………………………………………..…. 149

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7.1.2 La cooperazione italiana………………………………………………………………... 151

7.1.3 La cooperazione spagnola………………………………………………………………. 153

8.1 Libia……………………………………………………………………………….…. 155

8.1.1 La cooperazione euro-mediterranea……………………………………………………... 155

8.1.2 La cooperazione italiana……………………………………………………………….. 156

9.1 Marocco……………………………………………………………………………… 159

9.1.1 La cooperazione euro-mediterranea……………………………………………………. 160

9.1.2 La cooperazione italiana……………………………………………………………… 161

9.1.3 La cooperazione spagnola…………………………………………………………….. 162

10.1 Tunisia……………………………………………………………………………….. 167

10.1.1 La cooperazione euro-mediterranea………………………………………… 168

10.1.2 La cooperazione italiana……………………………………………………… 168

10.1.3 La cooperazione spagnola……………………………………………………. 169

11. Conclusioni………………………………………………………………………………. 173

PARTE D NODI PROBLEMATICI ……………………………………………………

175

1. Il commercio internazionale…………………………………………………………….. 177

2. Il debito dei Paesi in Via di Sviluppo………………………………………………….. 181

2.1 La cancellazione del debito, un lungo cammino…………………………………….. 181

3. Crescita demografica, causa/effetto del sottosviluppo……………………………….. 183

4. Democrazia, corruzione e diritti dell’uomo…………………………………………… 187

4.1 Ruolo della democrazia………………………………………………………………. 187

4.2 La corruzione…………………………………………………………………………. 188

4.3 Fuori dal coro: Thomas Sankara e il “Paese degli uomini integri”…………………... 189

5. E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?……………………………………………………. 191

5.1 Una questione d’onore………………………………………………………………... 192

6. Conclusione………………………………………………………………………………. 195

Bibliografia ……………………………………………………………………………….

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Introduzione Cooperazione e sviluppo. Sono queste le parole chiave che mi hanno fatto decidere di seguire questo corso di laurea, ecco perché è quasi superfluo spiegare perché ho deciso di affrontare questo argomento alla conclusione del mio percorso di studi. Dopo cinque anni di studio, due esperienze all’estero, più o meno riguardanti il tema, mi piacerebbe fare il punto sulla situazione attuale, anche se mi rendo conto che è un argomento molto vasto quindi sarà necessario impormi dei paletti e seguire una strada precisa. Il termine cooperazione è sulla bocca di tutti, tutti ne parlano, molti pensano di sapere tutto, cosa è meglio cosa è peggio, ma pochi sanno effettivamente. Eh si, perché la cooperazione rimanda a tanti argomenti, dalla cooperazione tecnica, a quella economica, da quella sociale alla cooperazione commerciale, e infine la cooperazione internazionale allo sviluppo, ciò di cui mi vorrei occupare io. Questo elaborato finale come si può capire dal titolo ha un duplice fine, innanzitutto quello di confrontare, in uno scenario più ampio di assistenza allo sviluppo, due sistemi nazionali di cooperazione, quello italiano e quello spagnolo. Perché? Perché è una materia che mi piacerebbe continuare a studiare e un ambito in cui vorrei lavorare, quindi il minimo che posso fare è informarmi su tutto la scibile in materia (o quasi!). La scelta della Spagna non è casuale. E’ la nazione in cui andrei a vivere, per studiare o lavorare, quindi mi è sembrato opportuno confrontare il mio maggiore interesse tra il paese in cui vivo e quello in cui vorrei vivere. A questo riguardo l’Ersu che mi ha dato la possibilità di svolgere ricerca tesi in loco, grazie ad una borsa di studio per coloro che trattano temi riguardanti la cooperazione internazionale. Quando ho letto il bando non mi sembrava vero! Grazie a questo contributo ho avuto la possibilità di andare a Roma e a Madrid, conoscere vari esponenti della cooperazione, sia a livello governativo che non. In questo senso ho avuto la possibilità di parlare con vari collaboratori dei coordinamenti di ONG italiane e spagnole, che mi hanno sommerso di materiale sul quale lavorare, ho conosciuto alcuni degli impiegati dalla Direzione Generale per Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri, che mi hanno fornito informazioni importantissime. Mi sono rimaste particolarmente impresse le parole di Laura Bottà, Dirigente del IX Ufficio della DGCS, che si occupa di formazione, che tra i tanti impegni ha trovato un po’ di tempo da dedicarmi. Mi ha fornito materiale ma soprattutto alcune perle di saggezza. Alcune mi hanno un po’ demoralizzato, altre mi hanno sorpreso. Mi ha sorpreso sentire alcuni concetti che poi ho ritrovato nelle parole di Guido Barbera, cofondatore del CIPSI (Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale). Il consiglio che mi è stato dato è di non pensare che solo l’Africa o i PVS abbiano bisogno di aiuto, anche da noi ci sono situazioni di estrema povertà e bisogna iniziare dalle nostre realtà, dal nostro piccolo prima di proiettarci in situazioni più grandi di noi. Non è una questione geografica, la ricchezza e la povertà sono presenti trasversalmente in tutti i paesi e in tutti i popoli. Non è un concetto così innovativo o particolare, ma mi ha sorpreso sentirlo da due esponenti della cooperazione che, anche se combattono la stessa battaglia, sono storicamente su diversi fronti, le istituzioni e la società civile organizzata. Il secondo fine della tesi è quello di relazionare gli aiuti allo sviluppo in un contesto vicino a noi, considerando quindi i paesi della riva sud del Mediterraneo, inserendo queste relazioni nell’ambito del partenariato euro-mediterraneo. Ho scelto questi paesi, Algeria,

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Egitto, Libia, Marocco e Tunisia, perché in un contesto di aiuti internazionali sono quelli più prossimi alla nostra realtà, italiana e spagnola. Questi paesi non sono i principali recettori di aiuti internazionali. Il loro livello di sviluppo non è paragonabile a quello dei paesi subsahariani, sia per lo loro posizione geografica, che li rende più partecipi al commercio internazionale, sia per il clima non così avverso come in altri paesi limitrofi. La cosa da chiarire è che il ruolo del partenariato euro-mediterraneo, non rientra in un ottica di aiuti allo sviluppo ma si tratta di relazionarsi con questi paesi fornendo strumenti perché il confronto sia più equo. Questo significa che nel partenariato non ci si limita a donare e trasferire denaro, infatti la realtà ci insegna che il semplice trasferimento di ricchezza non cambia la realtà, magari migliora un periodo della vita di qualche persona, ma non sradica la povertà nel mondo. Questa povertà infatti non deriva dalla mancanza di aiuti dai paesi del Nord, ma dalle decisioni prese dai governi di questi stessi paesi ricchi e dalle istituzioni finanziarie internazionali. Ciò che è necessario fare è rendere a questi paesi la consapevolezza che con adeguati strumenti ci si può confrontare ad armi pari. Qualche cifra I soldi non fanno la felicità per chi li ha. Immaginiamo chi non li ha! Il denaro è diventato il cuore di un sistema retto da pochissime persone che governano il mondo.

o Tre “famiglie”, le più ricche del mondo, possiedono l’equivalente finanziario del prodotto interno lordo annuo di 48 stati africani che rappresentano 600 milioni di persone.

o La BM afferma che il 20% della popolazione mondiale, poco meno di un miliardo di persone, consuma, da solo l’83% delle risorse disponibili.

o Tra gli altri 5 miliardi di persone, il miliardo più povero ha a disposizione l’1,4% delle risorse di questo mondo: vivono con meno di un dollaro al giorno.

o Ci dice ancora che altri 2 miliardi d persone vivono con meno di 2 dollari al giorno. Quindi 3 miliardi di persone, metà della popolazione mondiale, vive con meno di 32 dollari al giorno.

o Il Rapporto della FAO riporta che circa un miliardo di persone sono in condizioni di sottoalimentazione; dai 40 ai 60 milioni di persone muoiono per fame ogni anno.

o L’ UNICEF, nelle ultime statistiche, parla di 2 miliardi e 400 milioni di bambini, di cui un miliardo vive sotto la soglia della povertà. Lo scorso anno 130 milioni di bambini non sono riusciti a frequentare la prima elementare.

o L’ ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) riporta che 1 miliardo e 400 milioni di lavoratori guadagnano meno di 2 dollari al giorno.

o L’indebitamento dei paesi più poveri è aggravato continuamente dal carico di interessi: i poveri hanno 2500 miliardi di dollari di debito. Nel 2004 i poveri del mondo hanno dato alla finanza internazionale 230 miliardi di dollari di interessi su questo debito.

o Sempre la BM afferma che con 40 miliardi di dollari si avrebbe la possibilità di risolvere il problema della fame e delle sanità per un anno intero. Intanto gli USA hanno speso 700 miliardi di dollari in armamenti in un solo anno.

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o Secondo il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2004, 460 milioni di persone povere del mondo, tutte insieme guadagnano meno dei 500 uomini più ricchi del pianeta.

o Secondo lo stesso Rapporto del 2005 il 20% più ricco della popolazione mondiale detiene oltre il 75% del reddito globale, mentre il restante 80% è costretto a spartirsi, in maniere iniqua, il restante 25%. Il 20% più povero dispone soltanto dell’1,5% del reddito globale

Forse non tutti sanno che…

Per la politica pubblica di cooperazione allo sviluppo “a dono”, l’Italia spende meno di quanto abbia speso per:

o l’acquisizione di tre cacciabombardieri eurofighter o la costruzione dei CPT ( Centri di Permanenza Temporanea) dal 2001 ad oggi o un anno di missione in Iraq o le sovvenzioni annuali a scuole private o coprire ogni anno i mancati introiti della tasse di successione per le classi di reddito

più alte o i sostegni all’export alle imprese italiane, tramite la SACE o i rimborsi alle imprese italiane che hanno perso i propri investimenti nell’Iraq di

Saddam Hussain o l’aumento nel 2006 delle spese militari del Bilancio della Difesa o i rimborsi elettorali per i partiti rappresentati in Parlamento o gli incentivi fiscali (finanziarie 2005-06) agli autotrasporti per il caro-gasolio o due anni di contributi di legge finanziaria per la realizzazione della legge obiettivo

per le infrastrutture strategiche

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PARTE A

LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE ALLO SVILUPPO

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1. Quando il sottosviluppo diventa un “problema”

La mancanza di sviluppo o “sottosviluppo” inizia a diventare un problema dopo la seconda guerra mondiale. L’attenzione si focalizza sulle ineguaglianze nella distribuzione del reddito su scala mondiale, determinando stupore e scandalo nella società civile, la richiesta di interventi, stimola riflessioni profonde e porta alla ricerca di soluzioni. Ma perché proprio in questo momento? E’ stata la cosiddetta Guerra Fredda a rendere i paesi del Terzo Mondo delle “pedine” nel grande gioco a livello planetario che vedeva schierati da una parte Stati Uniti e dall’altra la Russia.1 Il 20 Gennaio 1949 al Congresso di Washington, il presidente Truman tenne un discorso fondamentale che, secondo molti studiosi, segna l’inizio dell’era della cooperazione allo sviluppo. La seconda guerra mondiale si era appena conclusa e Truman disegnò l’orizzonte della nuova frontiera dell’Occidente, e degli USA in particolare. Dopo aver definito sottosviluppati un enorme quantità di paesi, Truman affidò ai paesi sviluppati il compito di “operare per lo sviluppo”, definendone chiaramente i binari: “Una maggiore produzione è la chiave del benessere e della pace”. Secondo Truman “Le nazioni si dividono in fuoriclasse e ritardatari, sono gli Stati Uniti a emergere sulle altre nazioni per tecnica industriale e ricerca scientifica” e mascherando l’interesse con la magnanimità, non esitò ad annunciare un programma di aiuto tecnico che avrebbe dovuto “eliminare le sofferenze di questi popoli con attività industriali, e un più alto standard di vita”. Il Piano Marshall, che avrebbe portato allo sviluppo delle economie europee rappresenta forse la più grande realizzazione in questo ambito. Alla nascente cooperazione internazionale gli USA attribuirono quindi un ruolo di “carota”, in contrapposizione ai metodi sovietici che usavano invece il “bastone”2. Sarà questo l’atteggiamento che accompagnerà il periodo della decolonizzazione africana, quando le vecchie forze coloniali, concedendo l’indipendenza (spesso senza lasciare una classe dirigente capace), rientreranno negli stessi paesi coloniali attraverso la via della cooperazione. La cooperazione internazionale nasce quindi con un peccato originale, quello di essere l’altra faccia della medaglia della decolonizzazione. Figlia della Guerra Fredda e della decolonizzazione, non trova più spazio quando il mondo si globalizza e comincia a definirsi come un unico mercato mondiale. Finita la seconda guerra mondiale, con l’avvento dei paesi africani nel contesto internazionale, appare sempre più chiara la divisione del mondo tra paesi ricchi e poveri. E di fronte a ciò sarebbe politicamente negativo chiudere gli occhi, l’Occidente non può permettersi di non tenerne conto, non fosse altro che per gestire meglio la propria egemonia. L’ URSS, essendo stata estranea all’esperienza coloniale, di fatto esce dal dibattito e porterà avanti una politica tutta sua, soprattutto cercando di egemonizzare le rivendicazioni dei non allineati. Non possiamo però trascurare, oltre queste considerazioni di ordine politico-strategico un crescente sentimento umanitario dell’opinione pubblica occidentale che ha sicuramente contribuito alla presa di coscienza del problema, esercitando pressioni sui governi per impegnarsi attivamente in questa via.

1 G. Bottazzi, Sviluppo e sottosviluppo, Aisara Universitas 2007, p.12 e ss. 2 E.Melandri, La cooperazione dai bisogni ai diritti, EMI pp24-25

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Ciò avvenne grazie a testi di denuncia e reportage giornalistici che richiamarono l’attenzione sul problema con l’uso delle immagini, notoriamente più forte delle parole. Fu proprio in questo caso che si manifestò nella sua grandezza il potere dei mezzi di comunicazione. Secondo alcuni esisterebbe inoltre un obbligo morale per i paesi ricchi di aiutare quelli poveri, obbligazione nata da considerazioni solidaristiche che viene definita shared humanity, o dalla necessità di conseguire un ordine mondiale più equo, una giustizia globale. Questo sentimento era naturalmente esaltato dallo stesso governo americano che cercava una giustificazione che non fosse solo politica per l’intervento in queste aree, e per lo stanziamento di ingenti risorse pubbliche. Secondo David Lumsdaine, la creazione dei programmi di cooperazione allo sviluppo sarebbe la naturale proiezione verso l’esterno del meccanismo di redistribuzione del reddito (stato sociale) esistente nei paesi sviluppati. D’altra parte c’è chi sostiene invece che non esiste nessun obbligo morale per elargire l’ APS, anzi sarebbe moralmente sbagliato perché favorirebbe una cultura di dipendenza nel paese recettore. Per altri la giustificazione dell’APS starebbe nella volontà del paese donatore di promuovere i propri interessi nazionali, siano questi ideologici, di politica estera o commerciali. Un altro sentimento entrava a far parte dello scenario, quello di colpa per la scoperta, da parte della società civile, di tutti gli orrori commessi dai colonizzatori, per i genocidi e per lo sfruttamento, facendo nascere una sorta di obbligo a riparare ai propri errori, un sentimento di pietà cristiana che spinge a fare qualcosa di concreto per i popoli meno sviluppati. Questo sentimento ha dei precedenti nell’età coloniale, il cosiddetto “fardello dell’uomo bianco” che giustificava l’intervento come una “missione di civiltà” per aiutare questi popoli a civilizzarsi e modernizzarsi. Sarà questo insieme di passioni e sentimenti a costituire negli anni Sessanta e Settanta il cosiddetto “mito del terzomondismo”. Più o meno contemporaneamente del costituirsi del sottosviluppo come problema, dopo la seconda guerra mondiale, la cooperazione e l’aiuto allo sviluppo diventano due obiettivi fondamentali. Come già descritto, gli USA furono i primi a muoversi in questa direzione privilegiando aiuti militari piuttosto che economici. In ogni caso, in seguito altri paesi europei seguirono la stessa via e soprattutto prese rapidamente importanza in seno all’ONU con la costituzione delle agenzie specializzate, dalla FAO ( Food and Agricolture Organization), alla IDA (International Developement Association), dall’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Developement) all’UNDP (United Developement Program). 1.1 Ricchi e poveri Il dibattito in atto per capire quali siano i motivi del divario esistente tra paesi sviluppati e non è molto attuale nonostante affondi le sue radici in tempi lontani. In tanti si sono cimentati nella ricerca dei perché e possiamo dire sia emergente la posizione di Bairoch che pone al centro di tutto la rivoluzione industriale, fattore determinante nei processi di disuguaglianza globale: “La storia universale, tra rivoluzione neolitica e

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rivoluzione industriale, è stata costellata da numerose fratture importanti che hanno sconvolto la lenta marcia del tempo. Tuttavia, nessuna di queste fratture ha avuto conseguenze altrettanto profonde e generalizzate come quelle della rivoluzione industriale3”. Altri storici alle spalle di questo spartiacque decisivo, collocano processi culturali e storici di lungo periodo. Wallestein ad esempi, sostiene che fin dal XVI secolo si stabiliscono i confini di una economia-mondo che configurano un sistema organizzato sulla base di una divisione internazionale del lavoro, retta da un centro localizzato in Europa (contraddistinto da lavoro salariato e stati forti), che egemonizza una periferia (caratterizzata da lavoro coatto e stati deboli). A questo punto i motivi che spiegano il divario tra centro e periferia si sprecano e si moltiplicano, tutte spiegazioni che portano a quella che David Landes chiama “vittoria occidentale”. Al fondo di queste teorie si trova un idea fondamentale: lo sviluppo occidentale europeo è il paradigma unico da seguire. Occorre che gli altri paesi, anche facendo sforzi enormi si adeguino ad esso. E tutto quello che si farà in questa direzione sarà sicuramente portatore di sviluppo e di crescita economica. Chi non segue questo percorso sarà un paese sottosviluppato.

1.2 Prime forme di cooperazione Lo spirito di cooperazione non è così recente come potremo pensare. Già nel Medioevo in Europa erano attivi i Monti frumentari (avevano lo scopo di anticipare ai contadini le sementi a modico interesse). Nati per combattere l'usura, se in qualche modo in un primo tempo svolsero questa funzione, aiutando la popolazione a liberare le terre dall' infeudamento, a riscattarsi dall'asservimento a cui il regime feudale l'aveva costretta, caddero ben presto in mano ai "galantuomini", che introdussero nelle amministrazioni sistemi vessatori, servendosene per accrescere il proprio potere sui contadini. I Monti di pietà, nati verso la fine del XV secolo su iniziativa dei Francescani per erogare prestiti di limitata entità in cambio di un pegno, avevano la funzione di finanziare persone in difficoltà. A tal fine per il loro funzionamento i beneficiari fornivano in garanzia del prestito, beni di valore che si vedevano restituito quando ripianavano il debito. Per questa loro caratteristica si rivolgevano alle popolazioni urbanizzate dove tanti vivevano in condizioni di pura sussistenza. I contadini, infatti, di norma non avevano nulla da impegnare se non semenze ed utensili da lavoro.Alla loro istituzione fu molto acceso il dibattito sull'imposizione di un tasso di interesse. Alcuni, infatti, lo consideravano inammissibile, perché vietato4 dal Vangelo di Luca (6,34s). Alla fine, comunque, nei Monti furono ammessi tassi oscillanti tra il 6 ed il 10% in quanto considerati una forma protezione

3 G.Bottazzi, op.cit. 4 Per questo gli ebrei, ai quali erano state vietate tutte le attività professionali che facevano capo alle corporazioni, svilupparono l'attività finanziaria prima dei cristiani, dai quali furono ricambiati con gli aggettivi di avidi e strozzini

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contro le insolvenze così da consentire la sopravvivenza del monte ed un autofinanziamento utile per ampliarne le possibilità di soccorso. In Africa, nelle culture tradizionali invece operavano le cosiddette tontine che sono una sorta di associazioni mutualistiche di credito. Forme analoghe erano presenti in America Latina e in Asia. Ovunque con l’allentamento dei legami familiari e di vicinato indotto da quanto si è prodotto in termini di sviluppo, queste forme tradizionali di credito sono scomparse o fortemente ridimensionate, lasciando emergere un’espansione enorme dell’usura (Perna 1998). Nell’attualità la forma di aiuto che sta dando più successo è il microcredito, diventato famoso grazie a Muhammad Yunus e la cosiddetta Banca dei poveri. Stanchi del principio che le banche prestano soldi solo a chi già ne ha, la banca dei poveri è stata una grande rivoluzione che ha portato a trasformazioni importanti. Nata dalla mente di un economista poi “banchiere” e Premio Nobel per la pace nel 2006, Yunus appunto, in un contesto di estrema povertà come il Bangladesh. La sua esperienza di insegnante lo portò a conoscere le varie teorie economiche che secondo lui “potevano spiegare tutti i fenomeni economici” ma in seguito iniziò a chiedersi “a cosa servissero tutte queste teorie se poi la gente moriva di fame sotto i portici e lungo i marciapiedi, dove era la teoria la teoria economica che rispecchiava la loro vita reale? Mi premeva capire la realtà che circondava i poveri, scoprire l’economia di un villaggio nel suo svolgersi quotidiano” (Yunus, 2000). Yunus con alcuni suoi studenti iniziò a frequentare i villaggi vicini al campus universitario, inizialmente nel villaggio di Jobra. Dopo una settimana di osservazione e dialogo con gli abitanti compilò un elenco di tutte le persone che in questo villaggio ricorrevano a prestiti dei commercianti, vedendosi così privati dei frutti del loro lavoro. Si arrivò a 42 persone, per un prestito totale di 856 taka, ossia meno di 27 dollari. 27 dollari! Non è assurdo, una cifra che noi spendiamo quotidianamente per soddisfare i nostri vizi possono far uscire 42 persone dallo stato di povertà estrema. Questi 27 dollari li diede di propria tasca Yunus, da restituire, senza interessi, quando avrebbero potuto. La Banca Grameen , nata due anni dopo nel 1976, partiva grazie a quel primo prestito. Questa storia, quasi da romanzo si sviluppò da villaggio a villaggio con microprestiti e concludendosi con una banca presente in 36 mila villaggi del Bangladesh, con 1086 filiali e 12 mila persone che ci lavorano e che hanno potenzialmente 2 milioni di clienti con un credito complessivo di 35 milioni di dollari mensili, che vede tra i beneficiari il 90% donne, proprio in un paese che non presta denaro alle donne, perché come scrive Yunus “passando per le mani delle donne, il credito portava cambiamenti più rapidi di quando era gestito da uomini”, e che infine vede una percentuale esigua di insolvenza, visto che il 99% dei prestiti viene regolarmente rimborsato. Con grande stupore la Banca Mondiale si è dimostrata molto interessata a questo strumento e l’ONU ha proclamato il 2005 Anno Internazionale del Microcredito, forse un po’ in ritardo, dato che questa azione nasce negli anni Settanta.

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2. L’evoluzione in materia di cooperazione allo sviluppo Il sistema degli aiuti pubblici allo sviluppo nasce alla fine degli anni Quaranta, con la necessità di ricostruire le potenze europee del dopo guerra e con la necessità di sostenere gli stati di nuova indipendenza della decolonizzazione. Possiamo distinguere diverse fasi nella storia della cooperazione allo sviluppo. 2.1 Gli anni Cinquanta e Sessanta: “la decade dello sviluppo” Negli anni Cinquanta e Sessanta l’obiettivo di sviluppo coincide con la crescita del reddito. Il modello prevalente, elaborato dagli economisti Harrod e Domar prevede che la crescita del reddito sia proporzionale all’investimento e come conseguenza al risparmio. La strategia seguita è la promozione dell’industrializzazione, con la conseguenza meccanica e lineare che porterebbe, secondo fasi o “stadi di sviluppo”5 al decollo e l’autosostenimento del paese. Servirebbe solo una spinta, big push, un trasferimento di risorse che permetta, nell’arco di 10-15 anni di recuperare il ritardo di sviluppo e di non dover più dipendere dagli aiuti. Lo Stato non deve fare altro che elaborare dei piani, allocare le risorse e aiutare un mercato se non è in grado di competere con la altre potenze economiche. Negli anni Sessanta si assiste a una parziale rivalutazione della strategia di sviluppo fin’ora seguita. Si passa infatti ad un modello di sviluppo in cui si riconosce l’importanza dei legami intersettoriali e dell’accesso ai mercati internazionali, oltre che all’importanza dell’industria. Infatti la crescita potrebbe essere ostacolata dal mancato accesso ai mercati, ai beni e alle tecnologie che non sono disponibili internamente. Viene rivalutato il settore agricolo, necessario per creare un surplus che finanzi il settore urbano-industriale e sostenga lo sviluppo. Assistiamo al rafforzamento dei programmi di aiuto bilaterali delle potenze occidentali che sostituiscono i precedenti rapporti di sfruttamento con programmi di assistenza verso le ex colonie.

5 Secondo questa teoria, i processi di sviluppo economico e modernizzazione di una società si verificano in ogni Paese attraverso diversi stadi di sviluppo. Questi stadi partono dalla cosiddetta società tradizionale, cioè una società nella quale la stragrande maggioranza della popolazione opera nel settore primario in un economia di sussistenza e autoconsumo basata su rapporti di reciprocità e ridistribuzione, imperniata da una cultura dominata dal fatalismo e dal familismo amorale. In seguito a questo primo stadio si passa al secondo che è caratterizzato dalla crescita massiccia dell’industrializzazione, la quale in seguito viene a sua volta soppiantata dalle attività terziarie in un contesto dominato da un’economia integrata basata su legami di interdipendenza.Le critiche a questa teoria si riferiscono soprattutto al fatto che Rostow ha preso come modello solamente le esperienze accadute nelle regioni più avanzate dei paesi occidentali, e non ha preso in considerazione le altre tipologie di sviluppo che invece si sono verificate senza rispettare queste sequenza di tappe. In alcuni casi infatti lo sviluppo economico si è verificato "saltando" quasi completamente la seconda fase, quella dell'industrializzazione, per cui in questi casi si è passati direttamente da una società agricola ad una terziaria.

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Nel 1961 si ha la nascita del DAC, Developement Assistance Commitee, organo dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD nel suo acronimo inglese) che raggruppa i 22 principali paesi donatori e la Commissione Europea, per coordinare e monitorare i donatori bilaterali, accompagnando gli aiuti bilaterali con quelli multilaterali. Gli anni Sessanta vengono definiti dall’ONU “ Decade dello sviluppo” che richiama i paesi industrializzati a fare di più per aumentare le risorse verso l’aiuto pubblico per lo sviluppo. Si fissa l’obiettivo all’1% del reddito combinato dei paesi avanzati. Nel 1960 nasce l’IDA International Developement Association, affiliata alla Banca Mondiale, con lo scopo di finanziare, attraverso prestiti a lungo termine a condizioni vantaggiose, lo sviluppo dei paesi arretrati. Nello stesso periodo vengono create le Banche regionali di sviluppo in Africa, America Latina e Asia. L’intento politico-strategico non è da sottovalutare. Infatti in questo periodo gli USA rappresentano da soli circa i due terzi del totale degli aiuti, spesso e volentieri militari e alimentari, ed è chiaro che siano strumenti per contenere il diffondere del comunismo durante tutta la durata della Guerra Fredda. Anche l’URSS non si tirerà indietro nell’erogazione degli aiuti , spesso prescindendo dall’effettivo stato del bisogno del paese e dall’uso che si sarebbe fatto di queste risorse, anzi come ho già detto li useranno per “riscattare” i non allineati.

2.2. Gli anni Settanta: bisogni essenziali e crisi economica Nei programmi di sviluppo e nei finanziamenti fin’ora attuati si era trascurata la dimensione umana, perché si pensava che sarebbe automaticamente migliorata attraverso la crescita del reddito nazionale, il cosiddetto effetto di percolazione o trascinamento (trickle down effect)6. Arrivati a questo punto ci si inizia interrogare sui risultati conseguiti dopo vent’anni di cooperazione. L’esperienza del Brasile porta ad una riflessione profonda e necessaria, infatti la crescita del reddito non ha prodotto una riduzione della povertà a causa della persistente ineguaglianza nella distribuzione del reddito, con una disoccupazione sempre crescente. Assistiamo così all’affermarsi di un nuovo paradigma che pone come obiettivo principale della Politica di Cooperazione allo Sviluppo (PCS) il miglioramento delle condizioni di vita nei PVS e la riduzione della povertà. Questo nuovo approccio nasce da riflessioni profonde, alimentate dal Rapporto Pearson commissionato dalla Banca Mondiale e da una serie di studi preparati dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) su lavoro, reddito, ed eguaglianza che pongono come obiettivi un aumento degli aiuti a coprire almeno lo 0,7% del PIL del paese donatore. Viene inoltre messo in risalto l’obiettivo dell’aumento dell’occupazione nei PVS come punto focale della strategia di sviluppo.

6 F.Bonaglia, V.De Luca, La cooperazione internazionale allo sviluppo, Il Mulino 2006, pag.17

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Significativo è l’intervento di Dudley Seers, direttore dell’Institute for developement Studies, della University of Sussex, che in un articolo pubblicato nel 1969 col titolo di The Meaning of developement, chiarisce ed esaurisce il significato di questo nuovo approccio. “Cosa è successo alla povertà? Cosa è successo alla disoccupazione? Cosa è successo alle disuguaglianze? Se tutte e tre sono diminuite, allora al di là di ogni dubbio questo è stato un periodo di sviluppo per il paese interessato. Se uno o due di questi problemi centrali sono andati peggio, soprattutto se tutti e tre lo hanno fatto, sarebbe strano chiamare “sviluppo” il risultato ottenuto, anche se il reddito pro capite fosse aumentato (…). Al di sotto di certi livelli di malnutrizione, un uomo non solo perde solamente l’energia fisica e la buona salute, ma anche interesse in molte cose che non siano il cibo. Esso non può andare significativamente oltre una esistenza animale. Se qualcuno ha qualche dubbio sul primato del cibo, deve riflettere sulle implicazioni di ricerche recenti che mostrano che se i bambini non sono appropriatamente nutriti il risultato può essere non solo il danneggiamento del corpo, ma anche della mente. Siccome gli alimenti hanno un prezzo, in ogni paese il criterio può essere espresso in termini di livello di reddito”. (Seers, 1979)7

Portavoce di questa nuova impostazione diventa la Banca Mondiale, che si “propone di provvedere alle opportunità per il pieno sviluppo fisico, mentale e sociale della personalità umana” cerca di assicurare l’accesso a particolari risorse per gruppi particolari che mancano di queste. “L’approccio dei bisogni essenziali si concentra sui bisogni come la salute piuttosto che sul reddito in se stesso. Non rimpiazza concetti più aggregati e astratti come produttività, produzione e crescita, che sono i mezzi per raggiungere dei fini, ma serve il cambiamento nella composizione del prodotto, del tasso di crescita dei suoi diversi componenti, la distribuzione del potere d’acquisto, la struttura dei servizi sociali e del sistema fiscale e il sistema di distribuzione all’interno delle famiglie”. (Streetenn, 1981)8 Insomma, è la stessa idea di “crescita aggregata come obiettivo sociale” ad essere criticata, perché, come sosteneva Hollis Chenery, l’attenzione concentrata esclusivamente sull’aumento della produzione aggregata portava a trascurare le specificità dei singoli paesi e la loro articolazione interna tra un settore moderno e un settore tradizionale9. Chenery mette in evidenza il sistema dualistico nelle società in via di sviluppo in cui la crescita si realizzava soprattutto nel settore moderno, relativamente piccolo, che assorbiva un’alta quota di investimenti e aveva alti tassi di crescita della produttività con numerosi ostacoli che limitavano la crescita della quota ricevuta dai poveri. La rapida crescita della popolazione negli ultimi 15/20 anni aveva infatti prodotto un eccesso di offerta di lavoro non qualificato, in molti PVS, proprio nel settore moderno dell’economia. Questa massa di poveri non riusciva ad essere assorbita nel lavoro salariato moderno, la loro situazione era aggravata dal mancato accesso alla terra, al capitale ed altri servizi pubblici, spesso per discriminazioni. I poveri dunque, secondo Chenery, non potevano approfittare di un eventuale crescita anche sostenuta del reddito proprio per la mancanza di quel capitale fisico e umano. Erano necessarie quindi politiche per rimuovere questi ostacoli. Viene 7 G.Bottazzi,op.cit. p.329 8 G.Bottazzi, op.cit. p.338 9 Sia Chenery che Streeten mettono in evidenza le differenze tra i diversi paesi in via di sviluppo, richiamano l’attenzione sul settore tradizionale, poco studiato e quindi a tutti quei settori ad esso connessi. Richiamano l’improponibilità delle categorie utilizzate dall’analisi economica indifferentemente per ogni paesi del terzo Mondo, come occupazione, disoccupazione, reddito monetario, mercato etc.

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affermata inoltre la necessità di una maggiore equità. Questa equità veniva sostenuta non sulla base di principi etici e morali, ma su ragionamenti economici e su modelli scientifici, in quanto si pensava che la concentrazione della ricchezza rallentasse la crescita stessa. Infatti l’idea che i ricchi avessero più propensione al risparmio veniva contestata, affermando che essi avrebbero sprecato questa ricchezza in maniera vistosa nell’acquisto di beni di lusso10. Dall’altro lato Streeten critica la necessità della redistribuzione, così come critica l’idea che le politiche per il soddisfacimento dei bisogni essenziali siano analoghe alle politiche per debellare la povertà. Secondo questa impostazione gli aiuti devono quindi indirizzarsi su azioni e risultati concreti di cui beneficiano direttamente i poveri, come vaccinazioni, accesso all’acqua, costruzione di scuole, case e infrastrutture rurali. In questo stesso periodo nuovi attori si affacciano sullo scenario internazionale, rappresentanti della società civile mobilitata nella cooperazione internazionale, tradizionalmente impegnate in caso di emergenze umanitarie, si organizzano stabilmente e assumono la responsabilità dell’attuazione di programmi di sviluppo, come in seguito spiegherò. Il decennio 1970-80, chiamato Seconda decade per lo sviluppo per le Nazioni Unite è però caratterizzato da un peggioramento delle condizioni economiche di molti PVS. La crisi del petrolio inizia ad essere un fardello non trascurabile per i paesi importatori, l’aumento dei prezzi delle materie prime, le siccità e le crisi alimentari legate al clima portano ad un massiccio indebitamento che sarà alla base delle crisi del debito pubblico dei primi anni Ottanta. 2.3 Gli anni Ottanta: crisi del debito, aggiustamento strutturale e sostenibilità Il persistente divario tra Nord e Sud del mondo, la disillusione sull’efficacia degli aiuti, l’arrivo al governo di forze conservatrici e l’avvicendamento al vertice della BM e FMI di una generazione di economisti liberisti portano al cosiddetto “aggiustamento strutturale”, una misura forte e decisa. Si riafferma la centralità del mercato come regolatore dell’economia, evitando l’intervento pubblico e la pianificazione. A questo proposito vengono esposti in due rapporti, il Rapporto Beng (sulle politiche i industrializzazione) e il Rapporto Bates (sulle politiche agrarie), gli effetti perversi del sistema di vendita dei prodotti agricoli, istituito in molti paesi per stabilizzare i redditi dei contadini contro le fluttuazioni dei prezzi mondiali. Questi organismi infatti fissavano i prezzi di acquisto dei beni al di sotto dei prezzi a cui questi venivano poi venduti sul mercato internazionale, sottraendo quindi reddito alla popolazione rurale per sussidiare le elites urbane. In concomitanza vi è lo scoppio della crisi del debito, con la dichiarazione del Messico il 20 Agosto 1982 sull’impossibilità di pagare gli interessi sul debito contratto. Ciò porta i paesi

10 Il primo rilevante prodotto di questa nuova politica fu la pubblicazione, nell’agosto del 1974, di un volume coordinato dal vicepresidente e capo economista della Banca Hollis B. Chenery, frutto di un lavoro di ricerca condotto dal Development Research Center della Banca Mondiale e dall’Institute of Development Studies dell’Università del Sussex, e che fin dal titolo, quasi uno slogan, esibiva la propria natura programmatica: Redistribution with Growth.

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creditori a proporre un piano per la ristrutturazione del debito, accompagnato da maggiori aiuti, dietro l’adesione del paese interessato a un programma di aggiustamento strutturale per favorire la stabilizzazione economica. Questo insieme di condizioni che il paese deve accettare viene definito il “Consenso di Washington” . 2.3.1 Il rapporto Brandt Nel 1982 viene pubblicato il Rapporto Brandt, il suo stesso titolo : “Nord e Sud, un programma per la sopravvivenza” esprime le linee fondamentali di questo rapporto. Per la prima volta infatti non si parla più di Primo , Secondo e Terzo Mondo, ma di Nord-Sud e di interdipendenza. Secondo Brandt, “dalla grande crisi, o si esce tutti insieme, paesi industrializzati e PVS, o la crisi si farà insostenibile per tutti”. Il riconoscimento dei reciproci interessi è il primo passo che il Rapporto invoca proponendone la traduzione in iniziative concrete. Commercio: aumento dei profitti derivanti dalla vendita dei prodotti di base (caffè, the, gomma…).I prezzi di tali prodotti vanno stabilizzati per renderli meno vulnerabili alle fluttuazioni di mercato. Eliminazione del protezionismo. Imprese multinazionali: è indispensabile un codice di condotta internazionale che regoli l’attività di tali imprese (norme nel lavoro, restrizioni, informazione, diritti). Sistema monetario internazionale: è necessaria una riforma del sistema monetario chiedendo la creazione di una moneta internazionale da usare come riserva al posto del dollaro.Il Fondo Monetario Internazionale deve evitare sia interventi normativi inadatti o restrittivi per le economie in via di sviluppo, sia politiche inflazionistiche. Servono maggiori esponenti dei PVS nello staff del FMI. Aiuti allo sviluppo: serve un incremento sostanziale degli aiuti allo sviluppo che devono arrivare allo 0,7% del PIL entro il 1985 e all’1% entro il 2000. Energia: occorre incentivare la ricerca e l’uso di fonti rinnovabili di energia. Disarmo: è necessario concepire la sicurezza in modo più ampio, includendo non solo gli aspetti militari ma anche quelli sociali. Va aumentata la ricerca sulla conversione delle fabbriche d’armi. Fame e cibo: va aumentata la capacità dei singolo paese di produrre per soddisfare i bisogni delle proprie popolazioni. Serve la liberalizzazione del commercio per stabilizzare il prezzo delle materie prime. Popolazione: serve una seria politica demografica. 2.3.2 La crisi dello sviluppo Il primo Rapporto sullo Sviluppo Umano, pubblicato dall’Agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) nel 1990 definisce le modalità di misura e di definizione dell’ISU (Indicatore di Sviluppo Umano). La novità di questo approccio è data appunto dal calcolo di questo nuovo indicatore, partendo dalla consapevolezza che l’indice di sviluppo usato finora, il PIL, è troppo parziale perché identifica lo sviluppo con la crescita economica e riduce il benessere a fatto puramente economico. Vengono quindi stabiliti alcuni nuovi indicatori: 1) longevità, misurata dalla speranza di vita alla nascita; 2) risultati scolastici, misurati combinando insieme l’alfabetizzazione degli adulti e il rapporto di iscrizioni

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congiunto a livello primario, secondario e terziario; 3) lo standard di vita, misurato con il PIL reale pro capite in dollari. Questo nuovo approccio che mette in discussione le definizioni precedenti è ben manifestato dal premio Nobel Amartya Sen che punta a finalizzare gli aiuti per lo sradicamento della povertà, intesa in una accezione non prettamente economica ma che comprenda anche concetti come istruzione, diritti umani, ambiente, uso delle risorse e capacità degli individui di vivere una vita dignitosa. “ I mezzi e i fini dello sviluppo esigono che la prospettiva della libertà sia messa al centro della riflessione. E che le persone siano considerate come attori a parte intera, che approfittano delle opportunità a loro disposizione e padroneggiano il loro destino, e non come destinatari passivi dei frutti di uno sviluppo programmato da alcuni esperti. E’ indispensabile che lo Stato e la società svolgano il ruolo per rinforzare e garantire le capacità umane, un ruolo di sostegno e non di fornitori di prodotti finiti. La prospettiva centrata sulla libertà, concentrando i fini e i mezzi dello sviluppo, merita così la nostra attenzione”.(Sen, 1999)11 2.4 Il dopo-guerra fredda Con la fine della guerra fredda e con l’emergere di una nuova attenzione ai problemi della globalizzazione e dello sviluppo, si inizia ad affermare una nuova visione, nel dibattito internazionale, del rapporto che dovrebbe esserci tra paesi donatori, istituzioni multilaterali e PVS. Si assiste a un clima più rilassato dovuto alla caduta del Muro di Berlino, che diminuisce le pressioni nella gestione degli aiuti orientati ad ostacolare la minaccia del comunismo e contemporaneamente i donatori e la comunità internazionale attuano politiche di sviluppo, che privilegiano l’aggiustamento strutturale e l’introduzione di meccanismi di mercato nelle economie dei PVS. Gran parte dei paesi poveri hanno dovuto mettere in atto pratiche molto simili a quelle dei paesi ricchi, movendosi verso la democratizzazione e l’apertura delle frontiere commerciali per il libero scambio, abbracciando così il liberismo economico. Il tutto sotto l’egida del World Trade Organization (WTO). Ciò ha spinto i paesi poveri ad entrare in un mercato sempre più integrato senza i mezzi necessari per competere , sotto l’erogazione sempre crescente di aiuti umanitari e di emergenza. E’ però inutile negare che dopo la caduta del Muro è entrata in crisi la forza trainante che aveva accompagnato fino ad allora la cooperazione internazionale. Ne consegue un periodo di crisi globale che ha portato qualcuno a dire che la cooperazione fosse morta. 2.4.1 Rischi e opportunità dell’integrazione economica In questo periodo, si avvia anche una riflessione sui rischi e le opportunità che la globalizzazione dell’economia crea per i paesi poveri. Davanti al rischio di

11 G.Bottazzi, op.cit.p.394

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marginalizzazione, la comunità internazionale si interroga sulle condizioni necessarie affinché la globalizzazione sia “inclusiva” , permetta cioè a questi paesi di parteciparvi attivamente e trarne i maggiori benefici possibili. In seno alle Nazioni Unite, si avvia un nuovo dibattito sulle prospettive economiche e sociali del pianeta attraverso numerosi eventi internazionali, dalla Conferenza di Pechino sulla condizione delle donne, a quella di Copenaghen sullo sviluppo sociale, svoltesi nel 1995, fino alla Dichiarazione del Millennio approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2000. Si assiste ad una riduzione delle barriere commerciali, alla firma di accordi multilaterali e all’affermarsi maggiormente di imprese multinazionali. Tutto ciò non senza equivoci e contraddizioni. Da un lato assistiamo ad una maggiore mobilità di beni, servizi, capitali e lavoratori, oltre alla maggiore facilità di accesso ai mezzi di informazione che aprono enormi opportunità di sviluppo per i PVS, dall’altra questi paesi possono utilizzare queste potenzialità solo se dotati delle risorse e delle capacità necessarie, di istituzioni adeguate e solo se i paesi industrializzati contribuiscono alla creazione di un quadro internazionale favorevole. La globalizzazione pone pertanto i donatori dinnanzi alla necessità di ripensare la politica di cooperazione allo sviluppo nel quadro di un sistema interconnesso, in cui tenere presenti le politiche migratorie, commerciali, tecnologiche e valutarne il loro effetto combinato sullo sviluppo sostenibile dei paesi partner. I benefici della globalizzazione non si estendono ancora a tutti i paesi e a tutti gli strati sociali. In alcune parti del mondo, in particolare nell’Africa subsahariana e nei paesi poveri dell’America Latina e dell’Asia, cresce il divario economico con i paesi industrializzati e si accresce il livello di povertà. Nonostante ciò il bilancio complessivo dello sviluppo negli ultimi decenni indica progressi notevoli in alcuni grandi paesi, ma anche una disparità di risultati economici e sociali in paesi che negli anni Settanta si trovavano all’incirca nella stessa situazione. Proprio la diversità degli esiti delle politiche di sviluppo attuate negli anni precedenti apre la strada a un ripensamento sulle strategie per lo sviluppo. Si mette in discussione il paradigma degli anni Ottanta, il cosiddetto Washington Consensus, basato sulla visione neoliberale dello sviluppo, che individuava le cause dell’arretratezza non in caratteristiche proprie delle economie sottosviluppate, bensì nell’eccessivo intervento statale nell’economia e nell’adozione di politiche economiche non rigorose. Questo intervento ostacolerebbe il corretto funzionamento dei mercati e l’allocazione del reddito. Da qui l’enfasi posta sull’aggiustamento strutturale come condizione decisiva per la crescita e lo sviluppo. Le politiche più utilizzate influivano sulla disciplina fiscale, riduzione della spesa pubblica, libera determinazione da parte del mercato dei prezzi, dei tassi di interesse e di cambio, liberalizzazione commerciale e apertura agli investimenti diretti esteri, privatizzazioni e promozione della concorrenza e dei diritti di proprietà. Queste politiche erano motivate anche dall’esigenza di stabilizzare le economie che negli anni Settanta, in seguito agli shock petroliferi, all’aumento della mobilità di flussi di capitali e a causa della volatilità del prezzo delle materie prime, si erano indebitate verso grandi banche occidentali, trovandosi sull’orlo del collasso12. 12 I produttori dell’oro nero,riuniti in un organizzazione internazionale che operava come un cartello, l’OPEC, riuscirono a far lievitare il prezzo del petrolio in modo straordinario nell’arco di pochi anni. Ciò scatenò una serie di eventi a catena : nel mondo industrializzato, grande consumatore di petrolio e di materie prime, ma anche nel Terzo Mondo che non possedeva riserve di petrolio. Mentre in Occidente la crisi petrolifera accelerò una serie di ristrutturazioni e riorganizzazioni produttive che segnarono un cambiamento importante degli assetti industriali e portò a un aumento della disoccupazione, i paesi produttori di petrolio si trovarono,

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2.4.2 Riflessione Con la globalizzazione, il mondo diviene un enorme mercato in cui ognuno gioca la parte che è capace di giocare, in una competizione senza fine. Le conseguenze di questa nuova configurazione vengono ben sintetizzate da un testo di Aluisi Topolini: Aumento delle disuguaglianze in termini di reddito, aumento del numero di persone considerate “inutili”. Il rapporto della BM (1990) dedicato alla povertà, indica in un miliardo le persone per le quali non è pensabile alcuno sviluppo. Si tratta di persone per lo più del Sud del mondo. La tendenza evidenziata da Daherendorf riguarda invece tutto il mondo: “Certe persone semplicemente non servono: l’economia può crescere anche senza il loro contributo; da qualunque lato lo si consideri, per il resto della società esse sono non un beneficio, ma un costo, provocano aumento dell’instabilità e dell’insicurezza”. Lo sradicamento delle persone diventa una condizione dell’efficienza e della competitività, smantellamento del welfare state, fine della solidarietà tra esclusi. Anche quando molte persone soffrono per lo stesso destino, non c’è nessuna spiegazione unificata e unificante della loro sofferenza, nessun nemico suscettibile di essere combattuto e costretto ad arrendersi. Ma, la cosa più importante, e anche più grave, è che le persone realmente svantaggiate e quelle che temono di scivolare nella loro condizione non rappresentano una nuova forza produttiva, nemmeno una forza con cui oggi si debbano fare i conti. I ricchi possono diventare più ricchi senza di loro, i governi possono essere rieletti senza i loro voti e il prodotto nazionale lordo può aumentare indefinitivamente. Il fine ultimo del liberismo, come scrive Susan Gorge, è quello di “eliminare Stato e società civile, cosicché il sistema economico si trovi sempre a rapportarsi con il singolo individuo, in competizione con tutti gli altri singoli individui: è la realizzazione del darwinismo sociale e della logica precontrattuale di Hobbes, homo homini lupus”.

grazie al prezzo sostenuto , con un eccedenza di risorse finanziarie (petrodollari) che, depositate in larga misura nelle grandi banche occidentali, sarebbero andate ad alimentare l’indebitamento di molti paesi del Terzo Mondo senza o con scarse risorse. Infatti questi paesi fecero ricorso al credito ottenuto in quegli anni a condizioni favorevoli, ritrovandosi, pochi anni più tardi, con un debito smisurato che rappresenterà una delle caratteristiche peculiari del sottosviluppo negli anni Ottanta e Novanta.

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3. I flussi internazionali I trasferimenti di risorse da un paese ad un altro vengono catalogati in base a vari parametri: la loro fonte, pubblica o privata che sia, la finalità che vanno a perseguire, il livello di sviluppo del paese ricevente e le condizioni di rimborso. Inoltre la cooperazione può essere finanziaria, attuata con doni e crediti; materiale tramite l’invio di beni; tecnica con il trasferimento di capacità operative grazie ad esperti ed attrezzature. Per capire come avviene questo trasferimento si può distinguere la fase in cui il paese donatore sottoscrive un impegno (commitments) di una certa copertura finanziaria con il paese destinatario che viene registrato nelle statistiche ufficiali degli aiuti, e la fase dell’esborso (disbursements), che rappresenta invece la somme effettivamente trasferite dal donatore al beneficiario. Tra la registrazione dell’impegno e l’effettivo esborso dei fondi può passare un periodo di tempo molto lungo e spesso le somme sborsate sono inferiori a quelle impegnate. Per capire quanto effettivamente è stato donato bisogna guardare agli esborsi netti, quando sono scontati i rimborsi dovuti al paese donatore dal beneficiario. La prima suddivisione come ho detto è quella tra il settore pubblico e privato. Il DAC definisce Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) “tutti quei flussi ai PVS e alle istituzioni multilaterali forniti da organi pubblici, inclusi i governi statali e locali, o i loro organi esecutivi, ciascuna transizione dei quali soddisfa le seguenti condizioni: è amministrata con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo economico e il benessere dei PVS; è a condizioni agevolate e contiene un elemento dono pari almeno al 25%” L’elemento del dono li differenzia dai finanziamenti a carattere commerciale. Questo dono può verificarsi in diversi modi, dal tasso d’interesse praticato rispetto a quello di mercato, dalla maturità del prestito e dal cosiddetto periodo di grazia (periodo tra erogazione e rimborso). Insieme ai flussi finanziari l’APS include anche a fornitura di cooperazione tecnica con lo scopo di rafforzare le capacità umane e istituzionali dei PVS e include tutti i doni ai cittadini dei PVS in modo che ricevano istruzione e formazione, fino al pagamento di consulenti ed esperti. La cooperazione tecnica rappresenta oltre un terzo del totale degli aiuti erogati ogni anno. Il DAC definisce invece “assistenza tecnica” gli aiuti accessori che servono per la progettazione o realizzazione di un investimento fisico, che non sono conteggiati nell’APS. Il DAC stabilisce le condizioni per cui un trasferimento di denaro possa essere considerato aiuto pubblico allo sviluppo e divide in quattro macro gruppi:

o la cooperazione finanziaria o la cooperazione tecnica o gli aiuti umanitari13 o gli aiuti alimentari

13 Gli aiuti d’emergenza offrono una risposta rapida e immediate all’esigenze dovute al verificarsi di calamità naturali, o a crisi umanitarie attribuibili all’uomo, come conflitti e guerre. La strategia mira a ripristinare, per quanto possibile, il sistema dei servizi sociali e delle infrastrutture esistente prima del verificarsi della crisi, realizzando progetti capaci di far fronte ai bisogni più urgenti e drammatici, senza però tralasciare la preparazione della successiva fase di sviluppo.

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Anche se la cooperazione tecnica e gli aiuti umanitari sono aumentati notevolmente rispetto alle altre voci, la cooperazione finanziaria continua ad essere il capitolo più importante occupando i ¾ del totale. Le modalità con cui gli aiuti pubblici vengono erogati servono principalmente a finanziare altri agenti. Tradizionalmente le ONG sono i principali recettori però ultimamente gli aiuti hanno incluso anche altri attori e organizzazioni che hanno stimolato meccanismi come la cooperazione tra imprese e cooperazione universitaria 3.1 Altri tipi di aiuto L’aiuto pubblico che rispetta tutti i criteri sopra descritti, che non è indirizzato ai PVS ma a paesi in transizione o comunque non classificati in via di sviluppo vengono classificati come Official assistance e non fanno parte del computo delle risorse che devono raggiungere l’obiettivo dello 0,7% del PIL. La lista dei paesi che possono beneficiare di APS o AP viene aggiornata periodicamente dal DAC. Nel 2005 la nuova lista viene compilata secondo la misura del reddito pro-capite, e include quali PVS che possono ricevere l’APS anche i PMA, Paesi Meno Avanzati, i paesi a basso reddito (reddito pro-capite di 825 dollari nel 2004), medio (reddito pro-capite inferiore a 10.065 dollari) con l’eccezione dei neo entrati nella Comunità Europea (Romania e Bulgaria). Come conseguenza altri paesi che prima erano beneficiari dell’AP ora sono inclusi nella lista dei paesi che devono ricevere APS (Bielorussia, Ucraina e Libia). Gli aiuti che non perseguono la promozione dello sviluppo e il loro elemento di dono è inferiore al 25% sono classificati come Other Official Flows (OOF), e consistono in crediti all’esportazione, investimenti e operazioni di rinegoziazione del debito. 3.2 Canali di erogazione

Possiamo distinguere tra cooperazione bilaterale, in cui il finanziamento dal paese donatore va direttamente al paese beneficiario, multilaterale, dal paese donatore a un organismo multilaterale che utilizza le risorse secondo i progetti precedentemente elaborati e li destina ai paesi beneficiari, e multibilaterale, quando il finanziamento deriva da due paesi ma l’esecuzione è affidata ad un agenzia specializzata. Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito a una lieve riduzione del peso della cooperazione bilaterale e favore di quella multilaterale, che rappresenta circa un terzo del totale degli aiuti dei paesi DAC. L’Italia arriva ad erogare quasi tre quarti dei propri aiuti attraverso il canale multilaterale, cifra che si è assestata al 60% negli ultimi anni. Questo è dovuto alla fiducia data alle istituzioni internazionali per la loro competenza nella realizzazione dei programmi come ad esempio verso la Banca Mondiale. Un’altra distinzione importante è tra “aiuto progetto” e “aiuto programma”. Il primo è finalizzato alla realizzazione di un determinato intervento (costruzione scuole, ospedali

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etc.) e comporta il dettaglio delle fasi del progetto. L’aiuto a programma invece comporta il trasferimento di risorse finanziarie per sostenere il funzionamento delle attività di governo e non per specifiche attività. Tra gli aiuti programma vi sono:

o Programmi a sostegno alla bilancia dei pagamenti che implica il trasferimento di risorse perché il paese beneficiario possa importare beni e servizi o per far fronte al debito estero. Spesso ciò avviene nell’ambito di riforme strutturali che il paese beneficiario deve attuare, e l’esborso del denaro è condizionato al soddisfacimento di certe richieste.

o Programmi a sostegno del bilancio, che servono a finanziare il bilancio pubblico. In genere anche in questo caso bisogna soddisfare certe richieste per poterne godere

o Il sostegno settoriale serve a finanziare specifici programmi e settori come l’educazione, la sanità etc.

o Programmi di cancellazione del debito, che non comportano il debito commerciale dovuto alle banche o altre istituzioni private. Non implica il trasferimento di risorse ma libera risorse che servirebbero a ripagare il capitale e gli interessi. Il paese beneficiario deve impegnarsi a utilizzare le risorse liberate per azioni di riduzione della povertà.

Le aree di intervento vanno dal sostegno alle attività produttive e del settore privato, agli aiuti alimentari e a quelli per le emergenze e catastrofi, dagli aiuti per la promozione della democrazia ai diritti umanitari e per le pari opportunità. L’aiuto privato sta assumendo sempre più importanza negli ultimi anni. Queste risorse non sono contabilizzate come aiuti, in quanto non erogate dal settore pubblico. 3.2.1 Bilaterale o multilaterale? Una critica frequente ai donatori bilaterali riguarda la proliferazione di programmi di cooperazione e la molteplicità degli obiettivi perseguiti per mezzo della PCS, obiettivi spesso incoerenti tra loro o incoerenti rispetto ad altre politiche. In molti casi l’allocazione delle risorse è fatta in base a stime dell’anno precedente e in paesi dove sono presenti altri operatori. La frammentazione degli aiuti e la moltiplicazione dei programmi implica gravi costi di gestione anche sulle risorse umane del paese recettore. Ad esempio nel 2002 in Vietnam operavano 25 donatori bilaterali, 19 donatori multilaterali e circa 350 ONG internazionali, per un totale di oltre 8.000 progetti, uno ogni 9.000 abitanti. La BM ha registrato che in un determinato periodo i donatori finanziavano in Mozambico 405 progetti facenti capo al solo Ministero della Sanità. La proliferazione dei donatori e dei progetti impone ai funzionari dei paesi recettori di passare gran parte del loro tempo in riunioni con i vari donatori che spesso non si coordinano fra loro e adoperano procedure diverse.

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Il governo della Tanzania riceve in un anno oltre mille delegazioni di donatori con tutti i costi che ne conseguono. Questa mancanza di coordinazione riduce grandemente l’efficacia degli aiuti bilaterali14. Allora qual è il metodo migliore per direzionare i finanziamenti? Le istituzioni multilaterali hanno numerosi vantaggi: la distribuzione degli aiuti è meno vincolata da ragioni di ordine politico-strategico. Inoltre grazie alla gestione di risorse consistenti e alla possibilità di coordinare fondi provenienti da molteplici fonti, possono conseguire economie di scala, ottenere sinergie e accumulare conoscenze preziose per un migliore processo di sviluppo. E’ accertato che i donatori multilaterali prestano maggiore attenzione ai reali bisogni dei recettori piuttosto che a considerazioni di altro tipo. Nonostante i vantaggi, le critiche sono comunque frequenti perché restano espressione dei governi più ricchi. Infatti i PVS sono poco influenti nel sistema di governo delle Istituzioni di Bretton Woods15, dove ciascun paese ha un peso proporzionale al capitale apportato. Inoltre, anche i donatori multilaterali spesso tendono a funzionare come grandi burocrazie e a prolungare i tempi di attuazione dei progetti16. 3.3. Un po’ di numeri

Il volume degli aiuti per ogni paese viene elaborato dal DAC dell’OCSE. Gli ultimi dati resi noti dal DAC nell’Aprile 2006 indicano che l’APS si è innalzato a 106,5 miliardi di dollari nel 2005, il 31% in più rispetto al 2004 in termini reali. Questo straordinario aumento è dovuto principalmente alle azioni di cancellazione del debito in Iraq e Nigeria e agli aiuti umanitari per i paesi post-tsunami nel 2004. Nel 2004 i paesi membri del DAC hanno erogato complessivamente 79,5 miliardi di dollari di APS, un aumento del 6% in termini reali rispetto al 2003. Inoltre vi si aggiungono gli 8,8 miliardi di dollari in aiuti ufficiali ai paesi in transizione. Rispetto al PIL combinato fra i vari paesi DAC, l’APS rappresenta lo 0,26% per i paesi donatori e l’1% dei paesi beneficiari. La percentuale è bassa se pensiamo che nel periodo 1980-92 questo rapporto raggiungeva lo 0,33%.

14 Bonaglia, De Luca,op.citp.37

15 Il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale sono stati fondati da 45 Nazioni nel mese di luglio del 1944 a Bretton Woods (New Hampshire, USA) nell'ambito della "Conferenza monetaria e finanziaria internazionale". Attualmente FMI e Banca mondiale annoverano 185 Paesi. Le due organizzazioni sorelle vengono spesso chiamate "Istituzioni di Bretton Woods". I loro mandati sono però consapevolmente diversi. Il FMI è responsabile della garanzia e della promozione della stabilità finanziaria internazionale mentre il compito centrale della Banca mondiale è la promozione dello sviluppo economico e sociale e la lotta contro la povertà.

16 William Easterly ha coniato il proposito il termine di “cartello delle buone intenzioni” per designare il consenso dei donatori.

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La tendenza che si è avuta è particolare, tra il 1980-92 il volume degli aiuti è cresciuto significativamente, dal ‘92 questa tendenza si è invertita. Gli aiuti hanno ripreso a crescere nel 1998 fino ad arrivare ai livelli del 2003. Però se si guarda al rapporto APS/PIL la curva segna una diminuzione costante per tutti gli anni Ottanta e Novanta, con piccole eccezioni dovute a contingenze economiche. Queste variazioni sono dovute innanzitutto alla fine della guerra fredda e quindi del ruolo strategico degli aiuti, non si sente la necessità di supportare i paesi in transizione, emergono difficoltà di bilancio dei paesi donatori ed inoltre si avverte un velo di scetticismo sull’efficacia degli aiuti. A partire dal Rapporto Pearson del 1969, la comunità dei paesi sviluppati fu chiamata a destinare lo 0,7% della propria ricchezza all’aiuto pubblico allo sviluppo. Come segnalato dalle Nazioni Unite17, se i paesi industrializzati avessero mantenuto questo impegno, si sarebbero resi disponibili 100 miliardi di dollari, triplicando di fatto livelli correnti dell’aiuto. Le statistiche ufficiali invece parlano di un decennio di declino interrotto solo negli ultimi due anni, nei quali però hanno pesato le operazioni di cancellazione del debito e gli interventi in zone di guerra. Nel 2003 secondo il DAC i paesi sviluppati hanno destinato solo lo 0,25% della loro ricchezza, ovvero 68 miliardi di dollari: una piccola parte di quando viene destinato al settore della difesa e ai sussidi all’agricoltura. Ma non si può considerare tutto in negativo. Di estrema importanza è la Dichiarazione del Millennio del 2000, adottata da 189 Capi di Stato e di Governo al termine dell’Assemblea del Millennio delle Nazioni Unite che ha portato alla definizione degli Obiettivi del Millennio per lo sviluppo, di per se non molto innovativi ma legati a precise scadenze temporali, sono un potente strumento di verifica degli impegni presi.

17 Dato reso noto nel 2001

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La Conferenza di Monterrey delle Nazioni Unite del 2002 sulla finanza e lo sviluppo, cerca soluzioni per il raggiungimento di questi Obiettivi. Si è addirittura parlato del Monterrey Consensus, un alternativa rispetto agli aggiustamenti di tipo macroeconomico del Washington Consensus. In particolare i paesi membri dell’Unione Europea si sono impegnati in occasione del Consiglio generale di Barcellona a raggiungere tutti almeno lo 0,33% del PIL.

Aiuto pubblico allo sviluppo dei paesi DAC nel 2005 Fonte OCSE

APS, milioni di $ APS/PIL % Australia 1.666 0.25

Austria 1.552 0.52

Belgio 1.975 0.53

Canada 3.731 0.34

Danimarca 2.107 0.81

Finlandia 897 0.47

Francia 10.059 0.47

Germania 9.915 0.35

Giappone 13.101 0.28

Grecia 535 0.24

Irlanda 692 0.41

Italia 5.091 0.29

Lussemburgo 264 0.87

Norvegia 2.775 0.93

Nuova Zelanda 274 0.27

Olanda 5.131 0.82

Portogallo 367 0.21

Regno Unito 10.754 0.48

Spagna 3.018 0.27

Stati Uniti 27.457 0.22

Svezia 3.280 0.92

Svizzera 1.771 0.44

Totale paesi DAC 106.479 0.33 Media paesi DAC 0.47

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Nel 2002 la tendenza cambia e si ha una crescita degli aiuti dovuta soprattuto agli impegni presi durante la Conferenza di Monterrey e in seguito agli attentati terroristici dell’11 Settembre e quindi con la necessità di fermare il terrorismo. Inoltre da non sottovalutare è il contributo che ha dato la campagna di cancellazione del debito che ha rappresentato solo nel 2003 il 13,6% dell’APS totale dei paesi DAC e per alcuni paesi ha raggiunto cifre enormi, il 40% per Francia e Belgio. Se dovessero essere rispettati gli impegni presi a Monterrey si stima che gli aiuti dei paesi DAC arriveranno a raggiungere i 140 miliardi nel 2010 facendo crescere il rapporto APS/PIL fino allo 0,30%. In termini relativi al PIL la media DAC si è abbassata sostanzialmente dallo 0,31 allo 0,24% con poche eccezioni a questa tendenza. Nel 2002-03 ciascun cittadino dei paesi DAC ha contribuito in media con 69 dollari di APS, 3 in meno di dieci anni prima. L’APS, in termini quantitativi, non è la fonte principale di finanziamento dello sviluppo. Apporti più consistenti derivano dalla mobilitazione delle risorse interne dei PVS – qualora si crei un ambiente favorevole agli investimenti, che scoraggi le fughe di capitali -, dagli investimenti esteri alla partecipazione al commercio internazionale. L’APS, peraltro, svolge un ruolo essenziale, in particolare nei paesi meno avanzati, di sostegno agli sforzi fatti localmente per adeguare le istituzioni e i mercati, affinché sappiano cogliere le opportunità di sviluppo che i processi di globalizzazione schiudono, e al tempo stesso proteggere le fasce più deboli della popolazione. Un dato significativo è che il volume dell’APS è sceso nettamente rispetto agli aiuti privati. Negli anni Sessanta gli aiuti pubblici ai PVS erano tre volte superiori ai flussi privati, negli anni Novanta invece il rapporto è cambiato e i flussi privati ai PVS hanno raggiunto in alcuni anni anche livelli due volte superiori all’APS. Ciò testimonia la crescente fiducia degli investitori, però bisogna precisare che questi investimenti sono molto volatili rispetto ad altri flussi (rimesse degli emigrati e APS). L’andamento degli aiuti privati ha subìto un crollo in seguito alla crisi del debito nel 1982 per riaumentare durante gli anni Novanta grazie agli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e attraversare un nuovo crollo a causa delle crisi asiatiche e dell’America Latina alla fine degli anni Novanta. Quindi durante la diminuzione dell’APS nel ‘92 gli aiuti privati vi hanno sopperito in parte ma non in maniera uguale in tutti i paesi. In Africa l’APS rappresenta ancora la fonte principale di finanziamento (il 90% negli anni Novanta) e non ha registrato un grande aumento dei flussi privati, nonostante ce ne siano stati, rispetto ad altri paesi. A causa del loro accesso limitato ai mercati internazionali e ai capitali, questi paesi rimarranno ancora fortemente dipendenti dall’APS. Nel 2003 l’APS rappresentava il 6% del reddito nazionale complessivo dell’Africa subsahariana, il 42% per l’Eritrea e il 39% per il Burundi.

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Aiuti Pubblico allo Sviluppo dei paesi DAC nel 2005

Fonte OCSE

27,62

13,15

10,77

10,08

10,03

5,11

5,09

3,76

3,36

3,02

2,79

2,11

1,96

1,77

1,68

1,57

0,9

0,72

0,38

0,38

0,27

0,29

Stati Uniti

Giappone

Gran Bretagna

Germania

Francia

Paesi Bassi

Italia

Canada

Svezia

Spagna

Norvegia

Danimarca

Belgio

Svizzera

Australia

Austria

Finlandia

Irlanda

Grecia

Portogallo

Nuova Zelanda

Lussemburgo

USD billion

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Evoluzione APS dei paesi DAC, 1950-2006Fonte OCSE

-

20 000

40 000

60 000

80 000

100 000

120 000

195

0-55

1958

1961

1964

1967

1970

1973

1976

1979

1982

1985

1988

1991

1994

1997

2000

2003

2006

3.4. Chi riceve e chi dona di più?

E’ sicuramente l’Africa il paese che riceve più aiuti per lo sviluppo. Nel 2004 ha ricevuto circa 30 miliardi di dollari, pari al 46% del totale degli aiuti, seguita dall’Asia. Naturalmente questa distribuzione di aiuti varia in base alle condizioni geopolitiche. L’importanza dell’Africa è cresciuta tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, passando da poco più di un quarto a quasi la metà degli aiuti totali. Questa crescita è avvenuta a scapito dell’Asia. Questa tendenza si è poi invertita nella seconda metà degli anni Novanta, in cui gli aiuti destinati all’Africa sono diminuiti fino al 40% a causa delle crisi finanziarie che hanno modificato la distribuzione degli aiuti e anche per i conflitti interni a queste aree che ha reso difficile l’erogazione degli aiuti. Nel 2001 il G8 di Genova ha lanciato il Piano d’Azione per l’Africa, in seguito in Canada si è deciso di dirigere verso l’Africa più della metà di tutti gli aumenti degli aiuti allo sviluppo negli anni seguenti. Con il vertice di Gleneagles in Scozia nel 2005 è stato ribadito l’impegno preso accompagnandolo alla cancellazione del debito multilaterale per 18 paesi poveri altamente indebitati, 15 dei quali sono in Africa. Ad occhio inesperto potrebbe sembrare che la maggior parte degli aiuti vada ai paesi più poveri, ma dalle analisi fatte questo non è necessariamente vero, non sono i paesi più bisognosi a ricevere di più. Perché?

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Innanzitutto i paesi donatori sembrano preferire paesi più piccoli che ricevono quindi proporzionalmente di più rispetto ad grandi paesi come Cina o India. Un altro motivo è il ruolo strategico degli aiuti usati spesso e volentieri come strumenti di politica estera che non vanno incontro per forza a situazioni di maggiore necessità18. Un altro aspetto importante è che i donatori non sempre ricompensano con maggiori aiuti i governi con la migliore performance economica o con la minore corruzione. Ultimamente però si nota una maggiore propensione a premiare quei paesi che rispettano dei criteri di buon governo incorporati in vari programmi come il Millennium Challenge Account19. Il DAC ha stabilito un sistema di classificazione degli aiuti per settore di attività, detto Creditor reporting system (Crs). Nel corso degli anni, anche a riflettere il cambiamento del paradigma della politica di cooperazione allo sviluppo e delle relative priorità, il settore dei servizi sociali20 e quello dei servizi economici sono diventati le maggiori aree d’intervento, a scapito del sostegno diretto ai settori produttivi e alle infrastrutture. Altre aree la cui importanza è aumentata sensibilmente, sono quelle degli aiuti umanitari e degli interventi di condono del debito.

Distribuzione degli aiuti per area geografica (media 2003-04 milioni di dollari)

Fonte OCSE

46%

5%6%

15%

9%

6%

13% AfricasubsaharianaAsia Meridionalee centraleResto dell'Asia edell'OceaniaVicino Oriente eNord AfricaAmerica Latina eCarairbiEuropa

Non allocabile

18 Bonaglia, DeLuca, op.cit.p.55 19 Il Millennium Challenge Account si basa sulla constatazione che gli aiuti stranieri funzionano meglio in paesi che si siano già dotati di politiche per la riduzione delle povertà e la crescita economica: buon governo, investimenti nella sanità e nell’istruzione, creazione di un ambiente favorevole all’impresa. Già oggi questo programma paga. Nel luglio scorso, 70 paesi si sono candidati a un programma di assistenza e 16 hanno già presentato le loro proposte. In dicembre la Corporation ha reso nota al Congresso la propria intenzione di negoziare Compacts con quattro potenziali partner: Georgia, Honduras, Madagascar e Nicaragua. Va notato che dall’annuncio degli indicatori di performance nel 2003, il numero medio dei giorni necessari per avviare un’impresa è passato nei paesi candidati al programma da 61 a 46. Inoltre, molti paesi hanno affrontato la piaga della corruzione, uno dei principali indicatori di performance e stanno compiendo degli sforzi per risolvere il problema della corruzione a livello governativo. Di recente, il ministro delle finanze del Bangladesh ha proposto un serio programma di lotta alla corruzione citando l’esclusione dal Millennium Challenge Account come esempio specifico dell’alto prezzo pagato dal paese per il fatto di essere noto come corrotto. 20 L’accresciuta importanza degli interventi nei settori sociali e della governance ha anche comportato un aumento considerevole del ricorso all’assistenza tecnica.

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Si può fare inoltre una classifica dei paesi più generosi nel destinare risorse per lo sviluppo. Questa considerazione deve essere compiuta non considerando solo la quantità degli aiuti erogati da ciascun paese, ma deve essere proporzionata al reddito del paese donatore, e alla qualità di questi aiuti (rapporto tra doni e credito, grado di concessionalità dei crediti, il grado di slegamento degli aiuti e la loro concentrazione nei paesi meno avanzati). In termini assoluti i Grandi della Terra sono ovviamente i principali donatori. Al primo posto si collocano gli Stati Uniti (24% del totale degli aiuti erogati dai paesi DAC), seguiti da Giappone (12%), Francia, Germania, Regno Unito (9-10%). L’Italia, con circa 3,3% degli aiuti, si colloca all’ottavo posto. Nel corso degli ultimi venti anni l’APS si è considerabilmente ridistribuito tra i paesi donatori, con una riduzione del peso degli USA e l’emergere del Giappone e dei paesi europei. In base al reddito nazionale la situazione cambia considerevolmente. I paesi nordici (Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) hanno tutti superato sin dal 1980 l’obiettivo fissato dall’ONU di APS pari allo 0,7% del PIL. Il Lussemburgo ha raggiunto questo obiettivo nel 2000, l’Irlanda dovrebbe raggiungerlo nel 2007, la Germania entro il 2015. I paesi dell’UE si sono impegnati a raggiungere lo 0,33% nel 2006, chi più chi meno l’ha raggiunto21. In termini di qualità degli aiuti, l’insieme dei donatori, seguendo le raccomandazioni del DAC, ha progressivamente ridotto l’ammontare di aiuto legato, concesso cioè dietro l’impegno del beneficiario ad usare le risorse per acquistare beni e servizi dal donatore. Si stima che lo slegamento degli aiuti, permettendo al paese beneficiario di mettere in competizione fornitori di beni e servizi diversi, consentirebbe una riduzione dei costi di acquisto ( e quindi un aumento degli aiuti realmente trasferiti) compresa tra il 15% e il 30%. Per l’insieme del paesi DAC, la percentuale di aiuti slegati è passata da 44% del 1980 al 90% nel 2004. Alcuni paesi, ad esempio Giappone, Irlanda e Svizzera hanno slegato oltre il 90% dei loro aiuti, non si può dire lo stesso degli altri. Il grado di concessionalità degli aiuti nel 2004 per l’insieme dei paesi DAC è stato del 90,5% dell’APS. A partire dalla fine degli anni Ottanta alcuni donatori hanno scelto di ridurre il peso dei prestiti ed erogare esclusivamente doni, temendo che il ripagamento degli interessi potesse ulteriormente aggravare la situazione già critica di molti paesi. La tendenza alla riduzione del peso dei crediti di aiuto si è rafforzata e generalizzata verso la fine degli anni Novanta. Nel 2004 ben 15 dei 22 donatori DAC erogavano almeno il 99% del loro aiuto sotto forma di doni. Solo il Giappone continua ad utilizzare questo strumento in maniera importante, distribuendo quasi il 50% dei suoi aiuti sotto forma di prestiti.

21 L’Italia e la Spagna non hanno raggiunto l’obiettivo dello 0,33%

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3.5 Gli Obiettivi del Millennio e la Conferenza di Monterrey

Il dibattito sullo sviluppo, tenutosi sia all’interno della comunità dei donatori che tra i PVS, conduce nel settembre 2000 all’adozione da parte dell’Assemblea Generale della Nazioni Unite della Dichiarazione del Millennio, in cui vengono recepiti i risultati delle varie conferenze degli anni Novanta e indicati come obiettivi prioritari oltre alla pace, alla sicurezza e al disarmo, proprio lo sviluppo, la riduzione della povertà, la salvaguardia dell’ambiente, la promozione dei diritti umani e della democrazia in tutto il mondo. Per la prima volta al raggiungimento di determinati obiettivi viene data una scadenza temporale, il 2015. Nel 2001 è stato poi presentato il “Piano d’azione per l’applicazione della dichiarazione del Millennio” in cui viene sottoscritto dai massimi responsabili dell’ONU, Fondo Monetario Internazionale, BM e dell’OCSE, un documento che contiene gli 8 Obiettivi di sviluppo (Millennium developement Goals, MDGd). Il documento contiene anche 18 traguardi (targets) e 48 indicatori, per monitorare i progressi di ciascun paese verso il conseguimento di questo obiettivi. Le Nazioni Unite e la Banca Mondiale producono ogni anno dei rapporti sull’andamento dei vari paesi rispetto ai 48 indicatori. Come definire e mobilitare le risorse necessarie per finanziare i programmi di sviluppo, finalizzati a creare le condizioni migliori per conseguire gli Obiettivi? La Conferenza delle Nazioni Unite sul finanziamento allo sviluppo si è svolta a Monterrey, Messico, nel marzo 2002, con la partecipazione di capi di Stato e di governo dei paesi membri cercando di trovare una risposta comune22. La conferenza ha adottato il cosiddetto "documento di Monterrey", consistente in un elenco di misure da adottare sul piano nazionale e internazionale per garantire condizioni di vita più accettabili alle popolazioni dei paesi poveri. I capi di Stato o di governo hanno esortato a stringere un nuovo partenariato fra paesi ricchi e paesi poveri, in base al quale i primi daranno un maggior apporto finanziario allo sviluppo, adottando tra l'altro misure di apertura dei propri mercati ai paesi poveri i quali, a loro volta, dovranno adottare a livello nazionale provvedimenti per l'attuazione di riforme strutturali, fiscali e amministrative, onde accrescere la propria capacità di gestione a livello microeconomico e macroeconomico, di promuovere il risparmio interno e di richiamare i capitali esteri necessari per lo sviluppo sociale ed economico. Ai paesi poveri si chiede di mettere ordine e regolare le proprie finanze pubbliche, adottando iniziative per combattere la corruzione e favorire la trasparenza nella gestione politica, amministrativa, fiscale ed economica. Viene sottolineato inoltre lo sforzo che questi paesi dovranno compiere in molti campi, in particolare per mobilitare le risorse nazionali, adottare a livello nazionale politiche macroeconomiche razionali, che tengano conto della necessità di garantire la sostenibilità delle politiche di bilancio attraverso l'equità fiscale e amministrativa ed infine riorganizzare la spesa pubblica senza sostituire gli investimenti produttivi privati.

22 F.Bonaglia, V.De Luca, op.cit.p.91

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Obiettivi

Sotto-obiettivi

Indicatori

1. Eliminare la povertà estrema e la fame

Dimezzare tra il 1990 e il 2015 il

numero di persone che vivono con meno di in dollaro al giorno Dimezzare tra il 1990 e il 2015 il numero di persone che soffrono

la fame

% popolazione con

reddito inferiore a un dollaro al giorno

% popolazione sotto la soglia di nutrizione

2. Assicurare l’istruzione elementare universale

Garantire entro il 2015 che le bambine e i bambini di tutto il mondo abbiano accesso alle

scuole elementari

Tasso netto di

immatricolazione alla scuola primaria

% di bambini senza l’accesso all’educazione

primaria per sesso

3. promuovere l’uguaglianza delle donne e la loro posizione sociale

Eliminare le disuguaglianze tra sessi nell’accesso all’istruzione

elementare e media entro il 2005 e per tutti i livelli di istruzione

entro il 2015

% donne impiegate nel

settore non agricolo % posti occupati dalle donne nel Parlamento

nazionale

4.Ridurre la mortalità infantile

Ridurre di 2/3 tra il 1990 e il 2015 il tasso di mortalità dei bambini al di sotto dei 5 anni

Tasso di mortalità dei bambini minori di 5 anni % di bambini vaccinati

contro il morbillo

5. Migliorare la salute

materna

Ridurre di ¾ tra il 1990 e il 2015

il tasso di mortalità materna

% dei parti con

assistenza di personale specializzato

6. Combattere l’HIV/AIDS e le altre malattie

maggiori

Fermare e invertire entro il 2015

la diffusione del virus HIV Fermare e invertire entro il 2015

la diffusione di altre malattie diffuse come tubercolosi e

malaria

% di casi di tubercolosi (per 100.000 abitanti)

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7. Assicurare la sostenibilità ambientale

Integrare i principi di sviluppo

sostenibile nei programmi e nelle politiche di ciascuno stato

Dimezzare per il 2015 la quota di persone che non ha accesso

all’acqua potabile Raggiungere entro il 2020 un

miglioramento significativo delle condizioni di vita degli abitanti

dei quartieri poveri

% popolazione con

accesso all’uso sostenibile

dell’ambiente Uso di energia per

1,000 $ del PIL % superficie delle terre

coperte da boschi

8. Sviluppare un’alleanza globale per lo sviluppo

Sviluppare un sistema commerciale e finanziario al servizio dello sviluppo e non

discriminatorio Affrontare i problemi dei paesi

meno sviluppati Affrontare i problemi speciali nei PVS il cui territorio non ha

accesso al mare o è costituito da un’isola

Rendere il debito nei PVS sostenibile

Sviluppare strategie per l’occupazione giovanile, in collaborazione con i PVS Assicurare l’accesso ai

medicinali essenziali nel PVS, in collaborazione con le industrie

farmaceutiche Fare in modo che i benefici delle

nuove tecnologie siano disponibili a tutti, in

collaborazione con il settore privato

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4. Panoramica sulla situazione attuale dell’aiuto allo sviluppo

A metà del percorso per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio il panorama internazionale è molto distante dalle aspettative. La Relazione delle Nazioni Unite sullo Sviluppo del 2005 riguardo i progressi e le tendenze a cinque anni dallo stabilimento degli Obiettivi mostra il progresso in alcune regioni e riguardo alcuni indicatori e invia un chiaro messaggio di allerta all’insieme dei paesi, sull’alta probabilità di non raggiungere gli obiettivi fissati se si fosse continuato con lo stesso andamento fino ad allora registrato, così come è accaduto nel 2005 all’obiettivo mancato di “eliminare la differenze di genere nell’educazione primaria e secondaria23”. La revisione dello stato di salute nell’insieme dei PVS segnala che sia l’obiettivo di sradicare la povertà estrema e la fame (obiettivo 1) sia la riduzione della mortalità infantile (obiettivo 4) richiede un trattamento più efficace e un percorso continuo della sua evoluzione per ottenere i risultati fissati per il 2015. Secondo le proiezioni attuali, nonostante la percentuale di popolazione che vive sotto la soglia di povertà è diminuita, se tutto rimarrà uguale, nel 2015, il numero di persone che vivrà con meno di un dollaro al giorno supererà di 380 milioni di persone la meta fissata dagli Obiettivi (420 milioni). L’Africa subsahariana è la regione che mostra minori sintomi di recupero. Nonostante la percentuale di abitanti che vivono in estrema povertà sia diminuita, il numero assoluto è cresciuto di 140 milioni di persone. Il tasso di iscrizione alla scuola primaria migliora nell’insieme però in paesi come Mali, Etiopia, Dijibouti o Eritrea si mantiene inferiore al 50% e solo il 46% delle donne ha ricevuto assistenza al parto. Nonostante l’insufficienza dei progressi verso gli Obiettivi e l’inesistenza di un piano d’azione collettivo avvallato dall’ONU, il 2005 è stato un anno di notizie positive riguardo l’aumento generale delle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo, al rinnovo dei compromessi stabiliti a Monterrey di integrare maggiori e migliori aiuti, e la maggiore presenza della politica di sviluppo nell’agenda politica internazionale. In accordo con i dati del DAC dell’OCSE e come già detto, l’aiuto pubblico allo sviluppo raggiunse nel 2005 un totale di 106.367 milioni di dollari. Con questa cifra, lo sforzo finanziario dei paesi donatori non arrivò allo 0,33% del PIL mondiale, livello raggiunto solo all’inizio degli anni Novanta. Anche l’aiuto pubblico pro capite sperimentò un aumento significativo e passò da 90,88 a 167,9 $.

23 La parità tra maschi e femmine nello sviluppo della scuola primaria dal 2005 è stata pressoché raggiunta nella maggior parte delle regioni. Fanno eccezione l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale e occidentale che devono mettersi in pari con indirizzi corretti e programmi. In queste stesse regioni progressi anche minori sono stati fatti nell’istruzione secondaria con meno di 80 ragazze iscritte su 100 ragazzi. Per quanto riguarda l’università le iscrizioni favoriscono le ragazze nelle regioni sviluppate, nei paesi europei del Commonwealth, in sud America, nei Carabi e nel sud-est asiatico.

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Dal totale degli aiuti si distacca il contributo dei paesi dell’Unione Europea, il cui volume di aiuto pubblico aumentò del 27,9% rispetto al 2004 arrivando a 55.592 milioni di dollari, lo 0,44% del PIL. In questo modo l’UE superò con un anno di anticipo il compromesso accordato a Barcellona nel 2002 di arrivare in maniera congiunta allo 0,33% di aiuto pubblico allo sviluppo entro il 2006.

Creditori del debito nell'iniziativa HIPC, 2004Fonte OCSE

0

5

10

15

20

Multilateral Bilaterale (delClub di Parigi)

Bilaterale (non delClub di Parigi)

CommercialeAm

mon

tare

del

deb

ito

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di $

)

I paesi che raggiunsero questo obiettivo furono la Norvegia, Svezia, Lussemburgo, Olanda e Danimarca che superarono la meta dello 0,7% del PIL. Altri sette paesi (Francia, Austria, Belgio, Irlanda, Finlandia, Germania e Gran Bretagna) superarono lo 0,33%, meta stabilita dall’UE. Intermini assoluti l’UE fu il maggiore donatore rispetto alla media dei paesi membri DAC. Il sostantivo incremento degli aiuti si basa soprattutto sul programma di cancellazione del debito (4.000 milioni di dollari), i programmi di ricostruzione di Iraq e Afghanistan (3.500 e 1,500 milioni di dollari rispettivamente), e quelli destinati all’Africa subsahariana (4.100 milioni di dollari). Insieme agli altri principali paesi del DAC bisogna fare attenzione e valorizzare la partecipazione crescente dei paesi non membri, che iniziarono a informare riguardo il loro aiuto pubblico allo sviluppo. Polonia (0,09% APS/PIL) e Slovacchia (0,12%) raddoppiarono il loro volume di aiuti e l’APS della Corea del Sud (0,09%) ebbe una crescita del 57% rispetto all’anno precedente. Senza dubbio la spettacolarità delle cifre raggiunte è dovuta alla cancellazione del debito dovuto ai compromessi raggiunti nel Club di Parigi24, dagli 8

24 Il Club di Parigi è stato fondato nel 1956, per far fronte ad una crisi finanziario-debitoria dell'Argentina. Dal 1956 il Club ha effettuato circa 393 ristrutturazioni debitorie a favore di circa 80 Paesi. Dal 1983 ad oggi il Club ha ristrutturato debiti per oltre USD 471 miliardi. I Paesi membri sono 19: Austria, Australia, Belgio, Canada, Danimarca, Federazione Russa, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Giappone, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Svezia, Svizzera ed USA. Sono stati invitati in passato a partecipare a singole ristrutturazioni, in qualità di creditori, Abu Dhabi, Argentina, Brasile, Corea, Israele, Kuwait, Marocco, Messico, Nuova Zelanda, Portogallo, Sud Africa, Trinidad e Tobago e Turchia. Al Club di Parigi i membri coordinano le loro azioni di cancellazione, recupero e riprogrammazione dei crediti nei confronti dei Governi dei Paesi debitori. I lavori del Club si basano sui principî del consensus; condizionalità (il debitore deve avere in atto un Programma con il FMI che dimostri la necessità di ottenere sia dalle Istituzioni

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grandi della terra e grazie all’iniziativa per i paesi altamente indebitati (HIPC), la cancellazione del debito arrivò nel 2005 a cifre storiche. Nell’insieme dei donatori del DAC, le operazioni di debito rappresentarono il 21,6% dell’APS totale e in casi come Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Austria superò più del 30%. Nel dettaglio, nel 2005, la cancellazione del debito verso l’Iraq e la Nigeria arrivò a 19.000 milioni di dollari del totale degli aiuti dei paesi DAC25. Però se eliminiamo la cancellazione del debito, il volume totale delle risorse è aumentato di appena 4.000 milioni di dollari e l’incremento dell’APS in questo stesso anno si è ridotto del 31,4% arrivando all’8,7%, una cifra che dista di molto dal raggiungimento degli Obiettivi del Millennio. Paesi come Germania, Francia e Gran Bretagna hanno di fatto diminuito il volume dei loro aiuti in termini reali. Prima di constatare che l’aumento dell’APS fosse dovuto quasi esclusivamente alla cancellazione del debito, la Commissione Europea nel Marzo 2006 ricordò ai paesi membri l’impegno preso a Monterrey, nel quale sottolinea la necessità che le risorse provenienti dalla cancellazione del debito non dovessero essere inserite nel computo degli aiuti previsti per i PVS. Se i paesi desiderano mantenere il livello raggiunto e compiere i compromessi per il prossimo anno devono incrementare significativamente lo sforzo in altri ambiti al di fuori della cancellazione del debito. Fin’ora la Norvegia è l’unico paese che ha deciso che la cancellazione del debito deve essere addizionale e non sostitutiva all’APS promesso. Le risorse che i PVS destinano al pagamento del debito sono senza dubbio molto importanti e assorbono i fondi che servirebbero per le necessità di base delle popolazioni. Il dibattito per sapere se la cancellazione del debito deve essere inserita nell’APS si inserisce in una discussione molto ampia che sta prendendo forza negli ultimi anni. In questo contesto, esiste un alto rischio che i paesi donatori cerchino di influire sul DAC per flessibilizzare ciò che è definito come aiuto allo sviluppo26. Nell’anno del rinnovo delle promesse, l’UE stabilì traguardi ambiziosi riguardo al volume delle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo. Nel maggio 2005 i 15 paesi membri si ripromisero di raggiungere nel 2010 un minimo individuale dello 0,51% del PIL come passo verso lo 0,7% da raggiungere nel 2015. Allo stesso modo i dieci nuovi paesi membri accordarono di arrivare allo 0,17% al massimo nel 2010. Il raggiungimento di entrambe le mete significherebbe che l’UE duplicasse ogni

Finanziarie Internazionali che dai creditori bilaterali un "debt relief"); solidarietà (tutti i membri creditori applicheranno in modo uniforme a livello bilaterale il contenuto delle Intese firmate al Club); e comparabilità di trattamento (il debitore non può concedere ad alcun creditore non membro del Club un trattamento meno favorevole rispetto al consensus raggiunto al Club di Parigi).

25 Su 106.367 milioni di dollari totali 26 A questo proposito si legge nella Relazione revisionale e programmatica sulle attività di cooperazione allo sviluppo 2007, “ Il rilancio della cooperazione, oltre a collocarsi nel quadro delle linee della collaborazione internazionale dovrà anche dare seguito all’indicazione data dalla Conferenza di Monterrey sulla addizionalità della cancellazione del debito dei Paesi impoveriti rispetto ai finanziamenti destinati alla cooperazione allo sviluppo.

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anno il suo volume di aiuti e destinasse nel 2010 più di 66.000 milioni di euro, lo 0,56% del PIL. L’ UE ha determinato inoltre che le risorse aggiuntive provenienti da questo incremento di APS dovessero dirigersi in Africa, e avvalla lo studio di nuove possibilità per la cancellazione del debito e nuove risorse da destinare. Quattro mesi più tardi, nel G8 di Gleneagles, in Scozia i paesi partecipanti decisero di cancellare al 100% il debito verso FMI e BM per quei paesi altamente indebitati che avessero raggiunto il punto di culminazione, inoltre si promisero di duplicare gli aiuti per l’Africa subsahariana entro il 2010 rispetto al livello del 2004, lottare per un accordo di commercio orientato allo sviluppo e cancellare 30.000 milioni di dollari di debito alla Nigeria in cambio che il governo nigeriano investa annualmente mille milioni in spesa per la riduzione della povertà. Secondo il DAC, se le promesse del 2005 vengono mantenute, l’aiuto pubblico allo sviluppo aumenterà dai 79.000 milioni di dollari del 2004 fino approssimativamente a 130.000 milioni nel 2010, la metà dei quali diretti in Africa. In questo scenario i donatori destineranno solo una media dello 0,36% del PIL, la metà dell’obiettivo dello 0,7% accordato 35 anni prima.27 Nella relazione sullo sviluppo umano dell’ONU del 2005 si rivela che mentre la ricchezza pro capite è aumentata di 6.070 dollari dal 1990, l’aiuto pro capite è diminuito di un dollaro e si segnala che l’incremento nella spesa militare dall’anno 2000 sarebbe stato sufficiente da solo per raggiungere l’obiettivo dello 0,7%. Allo stesso modo vengono avvertite Germania e Italia se vogliono raggiungere l’obiettivo dell’UE di destinare lo 0,51% del PIL prima del 2010.Due anni dopo la riunione di Gleneagles il raggiungimento dei traguardi è vario. Per la prima volta grazie all’iniziativa per la cancellazione del debito multilaterale (MDRI) venne condonato ai principali debitori il 100% del debito. Senza dubbio il raggiungimento sia nel numero di paesi sia delle istituzioni implicate continua ad essere insufficiente e il ritmo troppo lento. Solo i paesi che arrivano al decision point dell’iniziativa HIPC potranno beneficiare della cancellazione del debito, il che implica che coprirà un massimo di 44 paesi28. La chiamata globale per la lotta contro la povertà, formata da più di mille organizzazioni in settanta paesi del mondo afferma che almeno 62 paesi necessitano di una cancellazione al 100% del debito multilaterale e bilaterale per poter raggiungere gli Obiettivi del Millennio. Nell’insieme dei 44 paesi che usufruiscono di questa cancellazione, nel primo anno solo 21 ricevettero il condono dalle istituzioni internazionali. Tenendo conto del tempo medio impiegato dai paesi HIPC per arrivare al completion point si prevede un lungo periodo di attesa perché possa effettivamente realizzarsi la cancellazione nei paesi investiti da questa iniziativa. Mentre gli incrementi degli aiuti verso l’Africa subsahariana si compiono parzialmente (nel Giugno 2006 si contavano 1.600 milioni di dollari in più), l’avanzamento in materia commerciale è stato nullo. Nella conferenza mondiale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio realizzata ad Hong Kong nel mese di dicembre 2006, gli otto grandi della terra insieme ai paesi sviluppati priorizzarono i propri interessi commerciali e posticiparono decisioni fondamentali per i PVS, il che frenò qualsiasi cambio sostanziale in materia commerciale.

27 Risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 1970 28 Ai 42 paesi inclusi nel primo accordo si aggiungono Cambogia e Tazikistan, due paesi non HIPC, che riceveranno la cancellazione del debito solo da parte del Fmi

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Oltre alla quantità, nel 2005 numerosi esempi tornarono a mostrare la grandezza delle sfide pendenti in relazione alla qualità degli aiuti: l’aiuto pubblico allo sviluppo continua ad essere condizionato da interessi strategici e politici e vincolato all’acquisto di beni e servizi ai donatori, inoltre gli aiuti effettivamente concessi è significativamente minore di quelli promessi e si mantiene la reticenza rispetto all’utilizzo di sistemi nazionali e il non coordinamento tra i donatori:

o Due dei principali recettori di aiuti della Francia (Polinesia Francese e Nuova Guinea) e uno dell’UE (Israele) sono paesi ad alto reddito.

o Danimarca, Giappone e Australia hanno incluso tra gli obiettivi dei propri programmi ufficiali l’aiuto per combattere il terrorismo.

o Solo sei paesi tra i 22 principali donatori hanno slegato l’aiuto quasi completamente (Belgio, Finlandia, Irlanda, Norvegia, Svezia e Gran Bretagna). Quasi il 30% degli aiuti sono legati.29

Le continue denunce dei differenti collettivi (ONG, mondo accademico, paesi in via di sviluppo) su queste pratiche e il lento avanzamento nel migliorare i risultati nella lotta contro la povertà portarono i governi dei paesi donatori a stabilire un insieme di mezzi concreti per migliorare la qualità degli aiuti. Il 2 Marzo 2005, nel secondo Foro di Alto livello sopra l’efficacia degli aiuti allo sviluppo, 90 paesi donatori e recettori e 27 istituzioni firmarono la Dichiarazione di Parigi sull’Efficacia degli Aiuti allo Sviluppo. In essa si riuniscono 50 compromessi e 12 indicatori e mete per il 2010 nell’ambito dell’allineamento, armonizzazione e gestione orientata a risultati concreti. Fin’ora il volume degli aiuti era il parametro principale di misurazione del comportamento dei paesi donatori, il quale risultava chiaramente insufficiente. L’unico meccanismo esistente fino a questa data è un questionario che devono compilare i governi che hanno firmato la Dichiarazione che ha come obiettivo lo stabilire le linee base rispetto a 8 indicatori. Per questo è fondamentale che tutti i paesi assicurino una corretta misurazione degli indicatori, la pubblicazione e la diffusione trasparente dei risultati ottenuti e l’integrazione nel raggiungimento delle mete tra le priorità delle proprie agende politiche. Le mete definite, includono una buona parte dei problemi identificati in relazione alla qualità, anche se non è stata introdotta una meta concreta in relazione all’aiuto legato, la cui inefficienza è stata ampliamente dimostrata.. Alla fine del Maggio 2005 l’UE attraverso il Consiglio degli Affari generali e Relazioni Internazionali (CAGRE) e il Consiglio Europeo di Lussemburgo integrò la Dichiarazione di Parigi con meccanismi di aiuto più precisi, con un appoggio preventivo, la cancellazione del debito, il finanziamento dei beni pubblici, mitigazione degli stock in eccesso, riduzione dell’aiuto legato e la riforma delle istituzioni finanziarie internazionali.

29 Secondo la Relazione sullo sviluppo umano del 2005, il costo degli aiuti vincolati all’acquisto di beni e servizi dai paesi donatori raggiunge tra i 5.000 e 7.000 milioni di dollari all’anno. Da parte sua l’Ocse segnala che la pratica di legare l’aiuto incrementa i costi tra il 15% e il 40%, distorce la priorità locali e nega agli imprenditori locali l’opportunità di impiegare il denaro per fomentare l’occupazione e sviluppare le proprie capacità e abilità.

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4.1 Gli strumenti Gli strumenti utilizzati per la cooperazione allo sviluppo sono: Dono inteso come aiuto fornito senza l’obbligo di restituzione o pagamento di interessi. Può avvenire in valuta o sotto forma di beni di consumo o investimenti, o come servizi (prestazioni di personale tecnico, studi e progettazioni). Gli aiuti umanitari e d’emergenza sono sempre a titolo di dono. Crediti d’aiuto che designano la concessione di prestiti a condizioni agevolate per finanziare uno specifico progetto d’aiuto, in genere relativo a grandi lavori civili o a infrastrutture produttive. I crediti misti impiegano congiuntamente finanziamenti di APS (doni e/o crediti d’aiuto) con finanziamenti di carattere commerciale (come possono essere i crediti all’esportazione). Conversione del debito è un meccanismo che prevede la cancellazione di parte del debito dovuto al paese donatore. A fronte della conversione i paesi debitori devono mettere a disposizione risorse in valuta locale per la realizzazione di progetti concordati tra i governi. Tali progetti devono essere finalizzati allo sviluppo socio-economico, alla protezione ambientale, alla riduzione della povertà. Sono eleggibili a operazioni di conversione i paesi per i quali sia previamente intervenuta un’intesa del Club di Parigi. Cancellazione del debito. E’ un programma sorto nel corso del vertice G7 di Lione del 1997, dove è stata lanciata l’iniziativa HIPC (Heavily Indebted Poor Countries). Con esso si intende fornire un’assistenza straordinaria a livello sostenibile per la riduzione del debito dei PVS più poveri e maggiormente indebitati con governi esteri30. Trust Funds. Consistono in un trasferimento di risorse finanziarie da un donatore a un organizzazione multilaterale, da usare per un obiettivo, area, paese o settore nel quale il donatore desidera operare avvalendosi dell’expertise dell’organizzazione scelta. I fondi fiduciari possono essere sia single donor in cui il finanziamento proviene da un unico donatore; sia multi donor, in cui più donatori apportano contributi finanziari. 4.2 Nuovi strumenti per aiuti più efficaci Nel 2005 i paesi donatori mantennero aperto il dibattito e la ricerca su possibili formule che permettessero di aumentare le risorse senza incidere troppo sul bilancio pubblico. L’Assemblea Generale ONU sollecitò un analisi dettagliata su vantaggi e svantaggi delle proposte di nuovi meccanismi finanziari, presentati da un gruppo tecnico promosso nel 2004 da Brasile, Francia e Spagna in riferimento all’alleanza contro la povertà.

30 L’Italia ha recepito tale raccomandazione con la legge 209/2000.

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Il risultato di questo lavoro espone una delle sfide che dovrà essere affrontata dalla comunità internazionale nei prossimi anni: come articolare la sovranità nazionale rispetto ai meccanismi di riscossione con le necessità comuni a tutte le persone e nazioni. Inoltre il dibattito sulla mancanza di un accordo in seno all’ONU e al DAC ha portato i paesi ad agire in maniera individuale. L’ UE diede il proprio appoggio nel 2005 a due proposte particolari: l’International Finance Facility for Immunisation (IFFIm), e la tassa aerea. L’International Finance Facility for Immunisation nacque con il contributo di cinque paesi, Francia, Italia, Spagna, Svezia e Gran Bretagna. Si tratta di un nuovo programma di finanziamento che mediante l’emissione di titoli obbligazionari attua una raccolta di fondi per l’acquisto di farmaci e vaccini da parte del Global Alliance for Vaccines and Immunisation (GAVI). Si prevede di raccogliere 4.000 milioni di dollari nel largo di 10 anni e destinarli a finanziare progetti di vaccinazione nei paesi che hanno un reddito inferiore a 1.000 dollari attraverso il programma amministrato dall’Alleanza globale per la vaccinazione e l’Immunizzazione31. Nel 2006 anche Brasile, Norvegia, Sudafrica e Irlanda si unirono all’iniziativa. D’altra parte, il governo francese inaugurò la tassa sui biglietti aerei. Con un imposta tra 1 e 40 euro su ogni biglietto, si cerca di accumulare intorno ai 210 milioni di euro in più annualmente, che vengono destinati all’acquisto di medicamenti per soddisfare la popolazione dei paesi del Sud. Il lancio di questa prima iniziativa di contributo internazionale è senza dubbio un precedente nel disegno di nuovi meccanismi di finanziamento che possono contribuire in forma significativa al conseguimento degli Obiettivi del Millennio. Un'altra delle iniziative poste in atto per incrementare il volume delle risorse sono i fondi e alleanze globali, tra i quali si evidenzia il Fondo Mondiale per la Lotta all’AIDS, Tubercolosi e Malaria, il Fondo per le vaccinazioni e l’immunizzazione il Fondo Mondiale per l’Ambiente. Il vantaggio più evidente dei programmi globali è la capacità che hanno di raggiungere gli obiettivi prefissati che singolarmente non potrebbero raggiungere, riducono il rischio di azioni non coerenti tra loro e raccolgono più velocemente le risorse necessarie per la lotta contro la povertà. Davanti al crescente peso della Dichiarazione di Parigi, alcuni paesi, tra cui la Spagna, realizzarono una valutazione indipendente dell’applicazione di questo strumento in sette paesi; Burkina Faso, Malawi, Mozambico, Nicaragua, Rwanda, Uganda e Vietnam. Tra i principali vantaggi segnalati dalla valutazione si nota il contributo a migliorare le spese a favore dei più bisognosi, in particolare incrementando la quantità di aiuti diretti ai servizi sociali; a diminuire i costi di transazione tra i governi donatori e recettori; migliorare la gestione delle risorse pubbliche e la coerenza nella politica e nell’esecuzione. Tra i rischi invece si nota la maggiore intromissione e influenza dei donatori negli affari interni nazionali e il rischio della corruzione. Un’altra innovazione in materia di sviluppo è stata quella del meccanismo di sviluppo pulito (Clean Development Mechanism o CDM in inglese). E’uno dei meccanismi flessibili

31 L’Alleanza GAVI riunisce i governi dei paesi industrializzati e sottosviluppati, produttori di vaccini, ONG, istituti di ricerca, UNICEF, OMS, Fondazione Bill e Melinda Gates e BM. (www.gavialliance.org).

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previsti dal Protocollo di Kyoto (art. 12)32 che permette alle imprese dei paesi industrializzati con vincoli di emissione di realizzare progetti che mirano alla riduzione delle emissioni di gas serra nei paesi in via di sviluppo senza vincoli di emissione. Lo scopo di questo meccanismo è duplice: da una parte permette ai paesi in via di sviluppo di disporre di tecnologie più pulite ed orientarsi sulla via dello sviluppo sostenibile; dall'altra permette l'abbattimento delle emissioni lì dove è economicamente più conveniente e quindi la riduzione del costo complessivo d'adempimento degli obblighi derivanti dal Protocollo di Kyoto33. Nella riunione del DAC del Dicembre 2003 i paesi membri evidenziarono le proprie divergenze di criteri rispetto alla contabilizzazione del progetto di sviluppo pulito come aiuto pubblico allo sviluppo. Mentre alcuni paesi dissero che i fondi destinati a questo progetto non dovessero essere calcolati come APS perché la riduzione di emissioni beneficerebbero il donatore, un altro gruppo difese la contabilizzazione di questo progetto nel computo APS appellandosi al fatto che il progetto mirava allo sviluppo sostenibile, uno degli obiettivi del millennio. Finalmente nel 2004 il DAC firmò un compromesso con l’accordo di Marrakech nel quale su affermò che i fondi utilizzati per il progetto di sviluppo pulito non dovessero essere contabilizzati come aiuti pubblici allo sviluppo34. D’altra parte, a causa delle pressioni di alcuni paesi donatori il Comitato d’aiuto allo sviluppo nel rivedere le sue posizioni riguardo gli aiuti per la sicurezza dei PVS decise se questi ultimi dovessero o no essere considerati aiuti pubblici allo sviluppo. Nel Marzo il DAC approvò che potessero essere inseriti come aiuti pubblici anche le spese per la cooperazione tecnica e l’appoggio civile su sei temi: risorse per la sicurezza, promozione del ruolo della società civile, appoggio alla legislazione per la prevenzione del reclutamento dei bambini soldato, riforma del sistema di sicurezza, attività civile per la ricostruzione della pace, prevenzione e risoluzione dei conflitti e per ultimo il controllo, la prevenzione e riduzione della proliferazione delle armi leggere. Nel contesto attuale, una delle possibilità da non sottovalutare è che sotto l’ombrello che racchiude l’aiuto pubblico allo sviluppo si inseriscano anche mezzi e risorse per la lotta al terrorismo e utilizzati per l’immigrazione, come la vigilanza alle frontiere. Il DAC deve stare attento ed esaminare questo tipo di aiuto e selezionare solo quelle risorse destinate genuinamente alla promozione dello sviluppo dei paesi beneficiari.

32 Art. 12. È istituito un meccanismo per lo sviluppo pulito. 2. Il fine del meccanismo per lo sviluppo pulito è di aiutare le Parti (…). Le riduzioni di emissioni certificate ottenute tra l’anno 2000 e l’inizio del primo periodo di adempimento possono utilizzarsi per contribuire all’adempimento degli impegni previsti per il primo periodo di adempimento”.

33 Le emissioni evitate dalla realizzazione dei progetti generano crediti di emissioni o CERs (Certified Emission Reductions) che potranno essere utilizzati per l'osservanza degli impegni di riduzione assegnati.Il funzionamento di un progetto CDM è il seguente: Un'azienda privata od un soggetto pubblico realizza un progetto in un paese in via di sviluppo mirato alla limitazione delle emissioni di gas serra . La differenza fra la quantità di gas serra emessa realmente e quella che sarebbe stata emessa senza la realizzazione del progetto (scenario di riferimento o baseline), è considerata emissione evitata ed accreditata sotto forma di CERs (1 CERs = 1 tCO2eq). I crediti CERs possono poi essere venduti sul mercato e/o accumulati.

34 “Accordamos que el valor de cualquer certificado de reduccion e emisiones (Cre) que se reciba vinculado con un proyecto financiado con la Aod deberia conllevar una deduccion inmediata en la Aod por el valor equivalente, mas allà de si donante vende o retiene los Cre”

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5. Le Organizzazioni Non Governative Originariamente i protagonisti della cooperazione allo sviluppo erano due: gli Stati e le organizzazioni internazionali. Attualmente le organizzazioni non governative stanno assumendo, invece, un ruolo sempre più importante accanto agli organismi di aiuto bilaterale e multilaterale con i quali, attraverso i loro interventi, coesistono o cooperano direttamente, con varie modalità. Gli stessi organismi pubblici ricorrono, infatti, con frequenza crescente alle ONG per realizzare i propri progetti. Grazie al lavoro di queste organizzazioni si è costituito, accanto al sistema delle relazioni interstatali, un sottosistema di relazioni transnazionali Nord-Sud che si distingue sempre più dal sistema della cooperazione intergovernativa con cui non di meno si intreccia. Una crescente percentuale dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo è incanalata tramite le ONG ed un’ampia gamma di servizi che prima erano forniti dalle istituzioni pubbliche è attualmente di competenza delle organizzazioni della società civile. Nuovi protagonisti della cooperazione internazionale allo sviluppo vuol dire, inoltre, nuove concezioni di cooperazione e nuove modalità di realizzazione dei progetti. Le ONG sono diventate un elemento dinamico dello sviluppo. La locuzione Organizzazione Non Governativa di Sviluppo/ Desarrollo (ONGs o ONGd) viene utilizzata internazionalmente per indicare gli organismi che, pur avendo natura giuridica, ispirazione ideale e ambito di intervento molto differente, si caratterizzano per essere espressioni organizzate della società civile impegnate a perseguire finalità di utilità pubblica, senza fini di lucro e vincoli di dipendenza o di collegamento con enti pubblici o istituzionale. Nel campo della cooperazione internazionale le prime ONG sorgono in Europa dopo il secondo conflitto mondiale, come risultato dell’impegno civile e dello spirito di solidarietà di molti singoli e associazioni. L’attuale movimento europeo delle ONG di cooperazione è estremamente ampio35 ed eterogeneo. Il ruolo delle ONG, inizialmente critico e alternativo all’azione ed alla progettualità promossa dagli Stati e dalle Organizzazioni Internazionali è stato riconosciuto da questi ultimi soggetti, che ora ne sono divenuti partner ammettendoli nel Forum o Comitati o affidando loro, in alcuni casi, la realizzazione di specifici programmi di cooperazione governativa. L’attività delle ONG si esplica attraverso la promozione di relazioni più eque tra Nord e Sud del mondo, principalmente attraverso la realizzazione di programmi di cooperazione e di campagne di sensibilizzazione e di educazione sul territorio e di recente anche nella gestione degli aiuti umanitari e d’emergenza. Negli ultimi anni, anche grazie al sostegno delle ONG del Nord, che si sono impegnate in processi di rafforzamento sul piano istituzionale, si sono moltiplicate in seno alle società dei paesi del Sud, soprattutto in ambito rurale le Associazioni locali o le Organizzazioni di sviluppo, spesso composte da aggregazioni omogenee di soggetti (contadini,donne pescatori, ragazzi di strada etc.) che si organizzano per la gestione diretta dei propri problemi di sviluppo e delle risorse destinate dalla cooperazione internazionale.

35 Sono oltre 800 le ONG rappresentate presso la Commissione sviluppo dell’UE dal “Comitato di collegamento”

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Il ruolo svolto dalle ONG del Sud sta assumendo una rilevanza crescente in molte situazioni nelle quali le istituzioni locali sono inadempienti, quando vi è un “debito di democrazia36”, ma anche, come sempre più spesso accade, come modalità partecipata di organizzazione dal basso, protesa a rivendicare una soggettività diretta nell’ambito delle relazioni di cooperazione fra Nord e Sud e quindi a sostituire la gestione dei progetti finora affidati ai volontari o all’assistenza dei tecnici delle Agenzie del Nord o di quelle internazionali. 5.1 Definizione giuridica

Organizzazione Non Governativa indica una qualsiasi organizzazione o gruppo locale, nazionale o internazionale di cittadini che non sia stato creato da un Governo, cioè che non faccia parte di strutture governative, e che sia impegnata, senza alcuno scopo di lucro, nel settore della solidarietà sociale e della cooperazione allo sviluppo. Le ONG si differenziano notevolmente per campo di attività, per struttura, per composizione e per funzionamento. Inoltre, da un punto di vista giuridico, esse sono soggetti del diritto interno dello Stato in cui sono nate e come tali riflettono nel loro status giuridico le peculiarità dei singoli ordinamenti nazionali, nel senso che le condizioni giuridiche e le procedure di costituzione di una ONG variano da uno Stato all’altro. Questa “plasticità” istituzionale, funzionale e territoriale rende difficile una definizione positiva sintetica. Per alcuni autori la caratteristica principale delle ONG consiste proprio nella loro eterogeneità. Le dimensioni delle ONG possono variare considerevolmente, in quanto esistono ONG composte da poche persone, così come ONG con una membership estremamente vasta, nell’ordine di migliaia di individui. Ciò peraltro corrisponde alla natura delle ONG le quali sono espressione della capacità di auto-organizzazione della società civile, manifestazione tra le più effettive di democrazia partecipativa. In quanto tali, queste organizzazioni si caratterizzano per il fatto di essere indipendenti dai governi e svincolate dal controllo delle autorità pubbliche. L’indipendenza e l’autonomia dai governi sono da più parti considerate fra le cause principali della loro crescente importanza sulla scena internazionale e dell’efficacia delle loro iniziative. Del resto le stesse ONG ne sono gelose custodi, ritenendole le discriminanti della loro identità e lo strumento per raggiungere in modo più diretto ed efficace i loro obiettivi. Altra caratteristica fondamentale è l’assenza di scopo lucrativo nelle attività svolte dalle ONG. Ciò non significa che i loro membri debbano essere tutti volontari o che le loro attività non debbano produrre alcun profitto, bensì che tali attività devono essere volte non a beneficio economico o comunque materiale, dei membri dell’associazione, bensì a vantaggio di terzi e che devono avere carattere volontario e gratuito. Se un profitto esiste, esso non viene, quindi, ridistribuito tra i membri, bensì viene destinato esclusivamente al perseguimento degli scopi statutari, consistenti nell’erogazione di servizi a favore di terzi, al fine di accrescere le capacità di intervento dell’associazione. Questa caratteristica fa rientrare le ONG nel più vasto insieme del cosiddetto “terzo settore”, anche detto settore del No Profit o del Volontariato.

36Rosario Lembo, Come diventare “operatore” della solidarietà internazionale, Cipsi, 1998, pag.91

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Nonostante ciò le ONG costituiscono una realtà molto diversa dal volontariato comunemente inteso perché la loro struttura operativa è professionalmente finalizzata allo svolgimento delle attività di cooperazione e composta da cooperanti integrati professionalmente nell’organizzazione di cui fanno parte. Per quanto concerne il finanziamento, le ONG possono ricorrere a varie fonti quali donazioni, sovvenzioni, cofinanziamenti, collette, vendita di beni e di servizi. Esse sono, dunque, in parte dipendenti dai donatori pubblici (Stati e organizzazioni internazionali) e privati, ma proprio la diversità delle fonti di finanziamento è condizione indispensabile per preservare l’identità propria della ONG e garantirne l’indipendenza finanziaria, presupposto per l’indipendenza effettiva. Come già evidenziato, è importante, nonché espressamente richiesto dalle norme internazionali che le riguardano, che le ONG ricevano solo limitati e dichiarati aiuti pubblici. I legami tra ONG e poteri pubblici non si limitano del resto al finanziamento, bensì si estendono all’ambito propriamente operativo. Spesso le ONG lavorano in partenariato con il governo nazionale dello Stato in cui hanno la sede o in cui svolgono la propria attività. Tale relazione può assumere varie forme giuridiche e può essere più o meno formale, ma è un fenomeno sempre più diffuso. Anche fra le ONG e le organizzazioni intergovernative ci sono legami intensi. Numerose ONG godono di status consultivo presso le organizzazioni internazionali più importanti, quali le Nazioni Unite e le loro Agenzie specializzate, il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea, e collaborano con loro per il perseguimento delle proprie finalità e per la realizzazione delle proprie attività. A livello internazionale sono stati compiuti numerosi tentativi di elaborare dei testi al fine di riconoscere alle ONG uno status giuridico omogeneo, una sorta di statuto di diritto internazionale pubblico, o almeno un trattamento uniforme negli ordinamenti interni dei vari Stati contraenti, cosa che sarebbe coerente con il carattere materialmente transnazionale delle loro attività. Vanno ricordati soprattutto i progetti di Convenzione elaborati dall’Istituto di Diritto Internazionale, che sono tuttora punti di riferimento importanti a livello di dottrina per tentare di definire le ONG, ma che non hanno avuto successo. Tutt’oggi non esiste una convenzione universale che accordi alle ONG internazionali la personalità e la capacità giuridica in tutti i paesi in cui esse hanno delle sedi o esercitano le loro attività. Solamente a livello europeo si è riusciti a adottare la Convenzione europea sul riconoscimento della personalità giuridica delle organizzazioni non governative, approvata dal Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa il 24 aprile 1986 ed entrata in vigore nel gennaio 1991. Questa Convenzione stabilisce (art. 2.1)37 la regola del riconoscimento di pieno diritto in tutti gli Stati contraenti della personalità e della capacità giuridica ottenute in uno Stato contraente. Altri atti di diritto positivo rilevanti per lo status giuridico di tali organizzazioni, e quindi utili per darne una definizione, sono gli atti delle organizzazioni intergovernative relativi

37 “ Se sono dettate da un interesse pubblico essenziale, le restrizioni, limitazioni o procedure speciali per l’esercizio dei diritti derivanti dalla capacità giuridica previste dalla legislazione della Parte nella quale il riconoscimento è effettuato sono applicabili alle ONG stabilite in un’altra Parte”.

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alle ONG, riguardanti il riconoscimento dello status consultivo o l’instaurazione di altre forme di collaborazione. In particolare, si usa far riferimento alla Risoluzione 1296 del 1968 ed alla successiva Risoluzione 31 del 1996 del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite contenenti le “disposizioni relative alle consultazioni con le organizzazioni non governative”. Spesso sono state le stesse ONG a redigere delle “Carte” in cui definiscono le caratteristiche in base alle quali un’associazione può essere definita Organizzazione Non Governativa. In ambito europeo si può ricordare, per esempio, la Carta delle ONG di sviluppo, redatta dal Comité de Liaison delle ONG presso l’Unione Europea. Queste dichiarazioni sono prive di valore giuridico, ma possono costituire un utile strumento per giungere alla definizione degli enti in questione. Si tratta di associazioni, dunque di soggetti costituiti da più persone (fisiche e/o giuridiche), dotati di personalità giuridica e di un apparato istituzionale stabile e permanente. Stabilità e permanenza sono elementi necessari del concetto di organizzazione, dato che, senza, “verrebbe meno la possibilità di identificare un ente a sé stante, distinto dalle persone che ne fanno parte e centro autonomo di imputazione giuridica38”. Nella Risoluzione dell’ECOSOC si richiede, oltre, appunto, alla presenza di una sede permanente e di una struttura burocratica, anche che lo statuto sia adottato secondo criteri democratici e che la politica dell’organizzazione sia stabilita da un organo rappresentativo nei confronti del quale è responsabile un organo esecutivo. Nella struttura tipica delle ONG non sono, dunque, presenti elementi gerarchici. In genere i poteri direttivi spettano all’organo plenario, il quale determina lo statuto e la politica dell’associazione. Ad esso si aggiunge normalmente un organo esecutivo permanente, un organo burocratico ed eventuali organi ausiliari. Possiamo notare dunque una somiglianza strutturale tra le ONG e le organizzazioni intergovernative, ma bisogna precisare che la struttura complessa sopra descritta non è un requisito necessario e di fatto molte ONG hanno un apparato burocratico molto più limitato. Del resto la snellezza burocratica è una delle caratteristiche principali delle ONG ed una delle cause dell’efficacia della loro azione. A livello europeo le ONG italiane sono rappresentate nel “Comitato di collegamento delle ONG di sviluppo” (CLONGS) che costituisce l’organo di rappresentanza presso la Commissione dell’Unione Europea, da un Delegato nazionale eletto nell’ambito della rappresentanza e da un gruppo di esperti che partecipano ai gruppi tematici. Tutte le altre 800 ONG di sviluppo operative nei restanti paesi dell’UE sono rappresentate dalle loro rispettive Delegazioni nazionale mentre l’Assemblea europea costituisce il momento formale di confronto e di programmazione delle piattaforme nazionale delle ONG. Uno strumento di coordinamento progettuale ma anche operativo che ha trovato di recente un certo sviluppo è costituito dai consorzi, spesso temporanei per la realizzazione di campagne di sensibilizzazione a livello europeo. Negli ultimi anni si stanno sviluppando anche i primi consorzi stabili di ONG allo scopo di superare i limiti posti dalle ridotte dimensioni delle singole realtà associate. Le funzioni sono quelle di ampliare le relazioni con le istituzioni internazionali, aumentare l’efficacia dell’attività promozionale, gestire iniziative di valorizzazione della qualità degli interventi

38 R. Lembo op.cit.

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5.2 Caratteristiche delle ONG nella cooperazione allo sviluppo Le ONG di sviluppo svolgono una politica di cooperazione che si caratterizza per:

o Mettere direttamente in relazione la popolazione del Nord e del Sud del mondo. Concepiscono la cooperazione come un rapporto di collaborazione tra comunità del Nord e del Sud del mondo. In questa logica si inquadrano le attività di conoscenza reciproca, di valorizzazione delle diverse culture ed esperienze, che facilitano l’attivazione verso l’intervento di cooperazione di un vero e proprio rapporto di partenariato alla pari fra i due attori.

o Essere indipendente dalle politiche governative. In funzione di questa loro autonomia le ONG possono intervenire in situazioni non riconosciute come prioritarie dalla politica estera del proprio Stato, ma anche ove è opportuno intervenire al di fuori di accordi bilaterali per la scarsa democraticità delle rappresentanza politiche del paese partner.

o Essere attente alle proposte e alle iniziative che nascono in seno alla società civile dei paesi del Sud del Mondo. Non si pongono l’obiettivo di imporre un modello di sviluppo occidentale ed economico ai ritardatari, agiscono consapevoli che esistono diverse vie per raggiungere migliori livelli di benessere umano che possono essere scelti dai diretti interessati.

o Porsi come obiettivo uno sviluppo basato sulla valorizzazione delle capacità umane, sulla cultura e sulle risorse locali per aumentare le opportunità di scelta delle persone e dei popoli.

o Porre l’attenzione sui problemi sociali, organizzativi e tecnici. L’obiettivo è far capire che l’intervento in sé non è la mera realizzazione di opere o la risoluzione temporanea di un problema, ma il consolidamento della capacità delle comunità di dare risposta ai propri problemi.

Per questi motivi le ONG stimolano nel proprio paese nuovi atteggiamenti sia da parte dei Governi, sia da parte della società civile attraverso:

o campagne di sensibilizzazione e di coinvolgimento sui temi dello sviluppo per diffondere la consapevolezza che la nostra vita è necessariamente legata al futuro dei paesi del Sud;

o azioni che favoriscano un impegno dei governi dei paesi del Nord verso relazioni Nord-Sud eque. Operano affinché le politiche commerciali e ambientali siano coerenti con gli impegni sottoscritti dagli Stati per un riequilibrio tra Nord e Sud;

o lobby per la riforma delle istituzioni internazionali e il miglioramento delle loro strategie operative. Molte ONG sono attive nelle campagne internazionali per la riforma delle organizzazioni internazionali, volte a ristabilire gli obiettivi per le quali sono state costituite e renderle più democratiche.

Nel Sud del mondo le ONG operano invece:

o attraverso partnership con soggetti pubblici e privati realmente rappresentativi della comunità locale o direttamente con partner ed ONG locali espressioni della società civile;

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o con programmi e progetti che favoriscano il rafforzamento di soggetti e movimenti organizzati impegnati nella difesa di diritti violati, di equità sociale, di promozione di riforme sociali o espressioni rivendicative dei diritti di minoranze etniche o di valorizzazione culturale.

5.3 Risorse alle ONG Come prima ho scritto, sia i canali bilaterali che quelli multilaterali sono soggetti a molte critiche. Possiamo allora considerare le ONG il miglior canale per attuare la politica di cooperazione allo sviluppo? I vantaggi delle ONG che siano del Nord o del Sud stanno nella loro conoscenza del terreno, flessibilità, neutralità e indipendenza. Le ONG possono anche essere uno strumento importante per favorire il rafforzamento della società civile e della democrazia nei PVS. Negli anni Novanta molti donatori hanno accolto questo nuovo approccio alla cooperazione, basato sulla partnership tra donatore, ONG del Nord e attori locali del PVS, il cosiddetto approccio partecipativo (community-driven). I questo modo l’ONG diventa lo strumento per la realizzazione dei progetti di cooperazione garantendo il coinvolgimento della società civile e degli attori locali. Però nel tempo un numero crescente di osservatori ha cominciato a denunciarne i limiti e i rischi. Da un lato le ONG del Nord rischiano di essere vittime del loro stesso successo. Il loro crescente coinvolgimento in progetti finanziati dai governi ha portato ad un ripensamento del loro ruolo e della loro credibilità data dal contatto sempre più frequente con i donatori governativi che mette a rischio la loro indipendenza e neutralità. Infatti le ONG devono sempre più spesso accettare condizioni imposte dal donatore. Il problema della politicizzazione degli aiuti umanitari è divenuto un argomento diffuso e attuale soprattutto durante l’intervento in soccorso delle popolazioni dell’Afghanistan e dell’Iraq. Membri civili disarmati di ONG umanitarie sono stati dichiarati “bersagli legittimi” da parte dei terroristi ,che li hanno attaccati e uccisi in quanto “collaboratori delle forze di invasione”. Quarantaquattro volontari sono stati uccisi in Afghanistan tra il 2003 e il 2004. Cinque di questi erano affiliati a “Medici Senza Frontiere” che, per la prima volta nella sua storia, ha deciso di abbandonare il paese nell’Agosto 2004. Le dichiarazioni rese nell’ottobre 2001 dall’allora segretario di Stato Colin Powell, secondo il quale le ONG americane operanti sono una “parte del nostro combat team”, non hanno certo contribuito a dissipare l’equivoco39.

39 F. Bonaglia, V.De Luca, op.cit.p.63

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6. L’efficacia della cooperazione allo sviluppo Il dibattito sull’efficacia dell’APS ha costellato i cinquant’anni dell’esistenza degli stessi. Già nel 1958 l’economista Milton Friedman affermava che l’aiuto allo sviluppo era inefficace a perseguire il suo obiettivo fondamentale. Tante analisi sono seguite su questo tema. Una prima constatazione da fare è che la politica di cooperazione allo sviluppo non ha come unico obiettivo la promozione dello sviluppo, ma ne ha molteplici e spesso incoerenti tra loro, per questo motivo quando si valuta l’efficacia degli aiuti bisogna specificare a quale obiettivo mira. In passato l’aiuto mirava a contenere la minaccia del comunismo e nel suo obiettivo è riuscito, ma se guardiamo alla promozione dello sviluppo non sempre possiamo dire lo stesso. La prima domanda che qui ci si deve porre è in che maniera contribuisce allo sviluppo del paese ricevente. Naturalmente l’effetto positivo è innegabile, anche se qualcuno obbietta a causa degli effetti negativi indiretti che possono controbilanciare quelli positivi e addirittura peggiorare la situazione. Un esempio è l’effetto di sostituzione, gli aiuti anziché sommarsi alle risorse nazionali per finanziare lo sviluppo, le libererebbero e non produrrebbero ricchezza e benessere marginale40. Vi possono poi essere effetti indesiderati sul tasso di cambio della valuta del paese, perché gli aiuti indurrebbero un apprezzamento del cambio, deteriorando quindi la competitività nelle esportazioni. Inoltre l’APS creerebbe dipendenza, riducendo l’incentivo a migliorarsi, anzi portando a peggiorare la prestazioni economiche del paese che riceve, visto che una migliore performance indurrebbe a diminuire la consistenza dell’aiuto esterno. Infine, le modalità con cui gli aiuti sono erogati ( spesso vincolati all’acquisto di beni o servizi dal paese donatore), ostacolerebbero il processo di sviluppo, sovraccaricando la fragile burocrazia locale, creando opportunità di corruzione. Bisogna anche dire che è molto difficile valutare gli effetti concreti degli aiuti, in quanto è quasi impossibile controllare tutti i fattori che concorrono a determinare il risultato, tante forme di sviluppo non si possono evidentemente valutare concretamente. La Banca Mondiale attua una valutazione dell’efficacia dei progetti attuati, tra questi elenca la lotta alla oncocerciasi (cecità del fiume), in Africa Occidentale, i programmi di alfabetizzazione femminile in Banghladesh, la ricostruzione della Bosnia Erzegovina e di Timor Est, o la lotta contro l’Aids in Uganda41.Naturalmente questi rapporti non descrivono gli insuccessi e i fallimenti, per questo spesso le valutazioni sono affidate ad agenzie indipendenti che cercano di determinarne l’efficacia, l’efficienza, l’impatto e la sostenibilità del progetto realizzato.E’ innegabile che la capacità dell’aiuto di generare risposte positive dipende dalle condizioni in cui è inserito e dalle ragioni che lo motivano. Come affermano Paul Collier e David Dollar, l’aiuto funziona a promuovere la crescita dove il governo locale mette in atto politiche macroeconomiche virtuose42. Ecco perché i donatori dovrebbero concentrare gli aiuti verso quei paesi che adottano buone politiche. Ma se andiamo a vedere le statistiche, questo non è stato il criterio principale che ha guidato questi flussi di denaro, soprattutto durante la guerra fredda, quando considerazioni politico-strategiche avevano un importanza maggiore. Un passo positivo in questo senso però è stato fatto con il Millennium Challenge Account nel 2004, che mette a disposizione ingenti aiuti allo sviluppo a quei paesi che mostrano

40 F.Bonaglia, V.De Luca, op.cit.,p.31 41 F.Bonaglia, V.De Luca, op.cit.,p.33 42 P.Collier, D. Dollar, Globalizzazione, crescita economica e povertà, Il Mulino

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concreti progressi in materia di lotta alla corruzione e miglioramento della governance, con misure qualitative e quantitative. Ma l’efficacia degli aiuti non dipende solo dalle politiche economiche, ma anche da fattori quali vulnerabilità ai conflitti o alle calamità naturali. Ovviamente l’efficacia è maggiore nei paesi più vulnerabili, a prescindere dalle politiche economiche. Per riassumere possiamo dire che l’aiuto nel breve periodo stimola la crescita del reddito e che lo stimolo è tanto più forte quanto migliori sono le caratteristiche politico-istituzionali del paese recettore. Che l’efficacia degli aiuti debba e possa essere aumentata è chiaro. Le misure per farlo sono varie. Già dal 1992, il DAC nel documento “ Principi per la valutazione degli aiuti allo sviluppo” aveva definito linee guida per assicurare una maggiore efficacia degli aiuti. L’assistenza allo sviluppo è qui definita come un esercizio di partenariato tra donatori e riceventi, gli aiuti devono sostenere attività per le quali la responsabilità finale è del paese che riceve, e il successo dei progetti dipende da entrambe le parti, ecco perché servono procedure trasparenti e aperte che dovrebbero coinvolgere donatore e beneficiario. Il donatore dovrebbe privilegiare nuove forme di cooperazione, quali l’aiuto-programma o il sostegno al bilancio dei paesi partner, che a loro volta dovrebbero rafforzare il ruolo della programmazione e la gestione da parte del governo locale, così come la partecipazione coordinata di più donatori a questi programmi.Un aspetto essenziale per garantire l’efficacia degli aiuti è il perseguimento degli aiuti alle priorità nazionali identificate dal governo stesso, invece di disperdere gli aiuti per obiettivi diversi. E’ necessaria in questo senso la riduzione dei progetti singoli delimitati e non coordinati, inoltre bisogna delegare gli interventi a quel donatore che ha più competenza nel paese in questione (cooperazione delegata). Nonostante queste misure fortemente raccomandate, molti donatori continuano per la loro strada, offrendo aiuti legati, frammentando gli interventi, perseguendo fini diversi dal bene del paese ricevente. Ovviamente le limitate capacità delle burocrazie del paese ricevente e l’esistenza di corruzione rendono gli effetti ancora più contrastanti. Il DAC nel 2000, consapevole dell’importanza di definire pratiche efficaci di aiuto, ha istituito un gruppo di lavoro che alla conclusione dei lavori, nel 2003 è riuscito a definire gli impegni presi dai donatori per l’armonizzazione degli aiuti, e gli indicatori appropriati per misurarne i progressi. Questo impegno è inserito nella Dichiarazione di Roma. Tre sono le componenti chiave suggerite:

o appropriazione delle politiche di sviluppo da parte del paese partner; o allineamento delle azioni dei donatori a queste priorità; o armonizzazione e semplificazione delle procedure dei donatori.

Per ogni paese i donatori devono avere un unico quadro strategico, in modo da agire nella stessa direzione, definito insieme al governo locale con la partecipazione della società civile. In questo quadro i donatori devono uniformare i loro interventi, semplificare le procedure burocratiche, definire un metodo standard di controllo e impegnarsi a rendere più autonomi gli attori locali in modo che possano poi continuare nella strada iniziata. Le esperienze attuate sono poi state discusse in occasione del Secondo Forum ad alto livello per l’armonizzazione e l’efficacia degli aiuti, nel 2005. L’incontro si è concluso con una dichiarazione, sottoscritta dai ministri dei paesi membri del DAC e di oltre 60 PVS, nella quale sono stati definiti gli indicatori e gli obiettivi, da conseguire entro il 201043.

43 F.Bonaglia, V.De Luca, op.cit.,p.109

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7. Conclusione Al termine di questo percorso possiamo dire che la cooperazione continuerà ad essere un tema centrale nella politica internazionale. Però una cosa mi ha lasciato perplessa. Un articolo che ho letto da poco, intitolato “Conti truccati sulla cooperazione internazionale” apparso il 24 Aprile 2004 su Il Manifesto, e penso sia importante commentarlo. Secondo i dati ufficiali nel 2005 i paesi europei avrebbero versato 41 miliardi di dollari per aiutare i paesi in via di sviluppo, arrivando quasi a rispettare l'impegno assunto nel 2002. Questo prevedeva che entro il 2006 ogni paese avrebbe versato lo 0,33% del proprio PIL in aiuti ai paesi poveri. In questa classifica l'Italia risultava al quartultimo posto fra i 15, con solamente lo 0,29% del PIL versato. Ma purtroppo i conti presentati dall'OCSE non hanno convinto CONCORD, una confederazione internazionale di ONG che ne comprende circa 1600, la quale è andata a spulciare nei presunti esborsi nazionali e ha scoperto che questi erano "truccati". Nel rapporto intitolato Aiuto europeo: leadership genuina o bilanci ingannevoli? è emerso che almeno 13,5 miliardi, circa un terzo del totale dell'esborso del 2005, non aveva in realtà prodotto nessun vero aiuto ai paesi in via di sviluppo. Si trattava infatti di cifre conteggiate sui debiti cancellati - 9 miliardi solo per Iraq e Nigeria - sul denaro speso "in casa" per i rifugiati - 840 milioni - e per gli studenti che facevano formazione in Europa - 910 milioni. Non si può, dicono le ONG europee, far figurare come aiuto verso l'esterno soldi spesi nei propri confini o semplicemente cancellati. Considerando quindi il "trucco" ben pochi paesi risultano avere raggiunto l'obiettivo stabilito per il 2006 - 0,39% - e tanto meno il ben più lontano 0,51% fissato per il 2010. L'Austria, apparentemente oltre lo 0,51% arriva a un misero 0,20 al pari col Portogallo, Francia e Gran Bretagna, che sulla carta avrebbero destinato all'aiuto per lo sviluppo rispettivamente lo 0,37 e lo 0,48%, in realtà, nel 2005 si sono impegnate solo per lo 0,28 e lo 0,31. Con l'esclusione del Lussemburgo, il donatore di gran lunga più generoso con lo 0,87 del suo PIL, la Grecia e l'Irlanda, tutti hanno truccato i propri conti. L'Italia, in base a questi conteggi, arriverebbe a uno 0,19% del PIL che la porrebbe all'ultimo posto tra i 15 membri storici dell'UE e poco sopra al livello di Malta, 0,18%.………………………... ………………………………………………… A questo punto CONCORD si è chiesta chi effettivamente sarà in grado di rispettare gli impegni presi per il futuro. Secondo il rapporto solo Belgio, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Svezia, Lussemburgo e Olanda ce la faranno mentre un no deciso riguarda Austria, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna e tutti i paesi di nuovo ingresso, dalla Polonia alla Lituania. Nella categoria "forse" rientrano invece Francia e Gran Bretagna.………………………... La Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, sottoscritta da 186 paesi tra cui Italia e Spagna, evidenzia che l’attuale è la prima generazione che possiede i mezzi e gli strumenti per debellare la povertà dal nostro pianeta, eppure non vengono destinate risorse adeguate per farlo. Esiste un evidente controsenso insito nel fatto che secondo i dati forniti della Banca Mondiale è in atto un Piano Marshall rovesciato44 che vede i paesi impoveriti destinare più risorse per il pagamento dei crediti rappresentati dagli interessi sul debito estero contratto

44 Dalla Relazione revisionale e programmatica sulle attività di cooperazione allo sviluppo nell’anno 2007, Mae

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con i paesi cosiddetti creditori rispetto alle risorse che questi ultimi riservano annualmente agli aiuti allo sviluppo.

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PARTE B

L’ITALIA E LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

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1. Italia tra cooperazione e terzomondismo negli anni ‘60 e ‘70

Possiamo ora chiederci quali siano state le spinte culturali che in Italia hanno condotto alla cooperazione, come campo di confluenza di forze di diverso orientamento e all’elaborazione di una cultura della cooperazione in connessione con le strategie politiche. La cooperazione italiana prese forma negli anni Sessanta sulla spinta di nuovi orientamenti culturali maturati nel contesto nazionale e internazionale. L’Italia viene a contato col problema del sottosviluppo per via delle sue colonie in Africa, l’ultimo suo residuo coloniale risale al 1960 con la concessione dell’amministrazione fiduciaria in Somalia, inoltre molte spinte in questo senso vennero dalla classe dirigente cattolica. Il “neoatlantismo” portato avanti dalla metà degli anni Cinquanta da Giorgio la Pira, Enrico Mattei, Giovanni Gronchi, Amintore Fanfani, furono intese a sviluppare rapporti più stretti con i paesi mediterranei, ma anche asiatici e africani. Pur rimovendo le molte ambiguità e responsabilità del proprio passato coloniale, la posizione italiana fu favorevole all’indipendenza dei paesi coloniali. Dalla fine degli anni Sessanta, Aldo Moro avviò alla Farnesina, un’intelligente politica di rapporti con il continente africano, a sostenerlo in questo impegno fu il sottosegretario Mario Pedini, convinto terzomondista, che si avvalse della sua esperienza di deputato parlamentare europeo per la realizzazione dell’associazione tra stati africani indipendenti e Comunità Europea45. Pedini era convinto che la stabilità della pace nel mondo non fosse solo un problema di equilibrio militare, quanto piuttosto di equilibrio sociale ed economico tra nazioni, zone e continenti. In occasione della “Giornata dell’Africa”, il 25 Maggio 1972, Moro insisteva sulla necessità del dialogo euro-africano:

L’Europa di oggi, sotto la spinta di nuove forze, ha guardato al di là della grande civiltà nata sulle rive del Mediterraneo e ha colto altre civiltà, comprendendone il significato in

una più ampia prospettiva storica, apprezzandone le tradizioni (…) Dal graduale avvicinamento tra la cultura europea e quella africana sono scaturiti un

arricchimento reciproco e un maggiore avvicinamento in ogni campo con benefici riflessi sul dialogo politico46.

1.2 Il ruolo della Chiesa Questi orientamenti terzomondisti maturavano anche sotto la spinta del rinnovamento conciliare, molto attivo in questo periodo. In coincidenza con la fase acuta della

45 L’idea dell’associazione euro-africana era stata codificata dai Trattati i Roma del 1957, il cui titolo IV prevedeva l’associazione tra Comunità Europea e alcuni stati africani 46 Ministero Affari Esteri, Servizio Storico e Documentazione (Mae-Ssd), Testi e documenti della politica estera italiana, Roma, 1972

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decolonizzazione del mondo, Giovanni XXIII attraverso le due encicliche Mater et Magistra (1961) e Pacem in terris (1963), poneva in connessione gli squilibri regionali e internazionali con l’ingiusta distribuzione delle ricchezze. La dottrina sociale della Chiesa emergeva rinnovata ed estesa alle relazioni internazionali: il cattolicesimo doveva rappresentare la terza forza in grado di non appiattirsi sul capitalismo da una parte e il socialismo dall’altra. Sulla scorta di questi orientamenti, Paolo VI fece dei viaggi nel Terzo Mondo, tra questi la visita in India nel 1964, in cui denunciò il problema delle fame , in uno dei più noti paesi ex-coloniali, nel 1969 fu in Uganda poi nel Burundi e nello Zambia. Nel solco della sensibilità conciliare, il mondo missionario parve sbilanciato in un rinnovato impegno nel continente africano. I missionari comboniani ad esempio, seguirono gli sviluppi delle indipendenze africane con una forte preoccupazione per le sorti dell’inculturazione del cristianesimo e per l’emergere di una teologia “nera”. Ma anche numerosi gruppi cattolici laici diedero luogo a progetti e a iniziative per sostenere lo sviluppo in queste aree, dal centro sociale di Kiringye, in Zaire, specializzato nella produzione di olio di arachidi, riso e farine, che organizzò una scuola di alfabetizzazione cercando di contrastare la tendenza dei giovani a lasciare i campi per trasferirsi in città, alle microrealizzazioni effettuate dal movimento “Mani Tese” in Burkina Faso, dove creò centri per l’apprendimento di nuove tecniche agricole47. Vi furono tentativi di tradurre la sensibilità terzomondista in una precisa strategia cooperativa, tesa a far crescere negli africani il senso di responsabilità verso il proprio lavoro e la coscienza di poter contribuire direttamente al circuito economico e allo sviluppo sociale del proprio paese attraverso un’esperienza di solidarietà. Nel 1967 Papa Paolo VI emanò l’enciclica Populorum Progressio (Lo sviluppo dei popoli). Il "progressio", lo sviluppo di cui parla l'enciclica, è qualcosa di diverso dalla mera crescita economica, parla della liberazione dall'ignoranza, dalla discriminazione e dalla povertà. L'enciclica sullo sviluppo dei popoli affermava che "il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti né nella sola ricerca del profitto e del predominio economico; non basta promuovere la tecnica perché la Terra diventi più umana da abitare; economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all'uomo che esse devono servire". Il messaggio della Populorum Progressio, come apparve dal vivace dibattito seguito alla sua pubblicazione, metteva in discussione lo stesso diritto umano al "possesso" dei campi, dei minerali, dell'acqua, degli alberi, degli animali, etc., che non sono di una singola persona o di un singolo paese, ma "di Dio". Tutto il contrario di quello che prescrive la saggezza economica. Non a caso l'invito della "Populorum progressio" è stato accantonato e le celebrazioni successive, come l'enciclica "Sulla cura per le cose sociali", pubblicata nel 1987, venti anni dopo, non hanno avuto adeguato ascolto o seguito.

47 S. Bottiglione, Mani Tese in Burkina Faso. Una valutazione delle microrealizzazioni 1968-1987, Milano, Angeli, 1989

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2. Evoluzione legislativa della Politica di Cooperazione allo Sviluppo

La tradizione nell’ambito della cooperazione in Italia è molto lunga e affonda le sue radici già nel 1933 con la creazione dell’Unione medico-missionaria italiana, primo organismo di volontariato internazionale italiano, seguito poi altre numerose organizzazioni di volontariato. L’aiuto pubblico allo sviluppo è invece un fenomeno abbastanza recente che matura solo negli anni Ottanta. Inizialmente l’interesse è limitato e sporadico quindi non si attua una vera e propria politica di cooperazione allo sviluppo, con la mancanza di leggi, norme e risorse a riguardo, anche se la società civile manifestava in varie forme il proprio spirito solidaristico. Dobbiamo aspettare però gli anni Ottanta per assistere all’aumento dell’APS, un aumento del 165% tra il 1980 e il 1990, coprendo l’8% degli aiuti dei paesi DAC48. Si passa così dalla “non-politica”49 degli anni Cinquanta e Sessanta, ai primi passi negli anni Settanta con l’attribuzione al Ministero Affari Esteri (MAE) della responsabilità della cooperazione allo sviluppo (Legge 1222/71, Cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo). In questi anni l’Italia, spinta dalle pressioni internazionali e dalle associazioni di volontariato che si ramificavano sempre più, orienta la sua azione all’assistenza tecnica, al sostegno del bilancio e dei programmi di cooperazione con alcune università africane. Con la legge 38/1979 si intravede una presa di coscienza della classe politica e dell’opinione pubblica sui problemi dello sviluppo50. Si razionalizzano le strutture operative a livello istituzionale, creando nuovi uffici come il dipartimento per la cooperazione in seno al MAE con la connessione diretta tra politica estera e politica di cooperazione. L’assistenza tecnica diventa una dei tanti tipi di iniziative che intendono favorire il progresso economico, sociale, tecnico e culturale dei PVS. Allo stesso modo il ruolo del volontariato viene riconosciuto e valorizzato.51 Nonostante questi sforzi, il contributo italiano appare ancora inadeguato, così negli anni Ottanta sull’onda dell’emergenza “fame del mondo”, varie proposte di legge vengono dibattute in Parlamento per aumentare gli stanziamenti e raggiungere la media dei paesi DAC dello 0,34% del PIL. Le varie proposte confluiranno nella legge 73/1985 attribuendo poteri straordinari ad un sottosegretario per gli Affari Esteri, cui fa capo il nuovo Fondo Aiuti Italiani (FAI), con l’obiettivo di spendere le proprie risorse in un periodo limitato e verso paesi con emergenza endemica. Nel 1987 viene approvata la Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo (legge 49), l’impianto normativo attuale. La legge ricompatta la gestione della cooperazione attorno al MAE, nella Direzione Generale per la cooperazione allo sviluppo (DGCS) e al Ministero del Tesoro, che si spartiscono i fondi destinati alla cooperazione.

48 F.Bonaglia, V.De Luca, op.cit.p.64 49 Pierangelo Isernia, autore di una dettagliata analisi della Pcs italiana 50 In particolare grazie alle campagne contro lo sterminio per fame nel mondo, promosse in Italia dal Partito Radicale. 51 Legge Quadro sul volontariato, Legge 266 del 11/08/91

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Il Tesoro è titolare del “Fondo rotativo dei crediti di aiuto” mentre la DGCS gestisce con autonomia contabile e amministrativa il “Fondo speciale per la cooperazione allo sviluppo”. Le partecipazioni al capitale di banche e fondi internazionali, e i fondi multilaterali, sono gestiti dal Tesoro, mentre i contributi volontari a organismi internazionali sono di competenza del MAE.52 Come ho già detto la cooperazione allo sviluppo è una componente della politica estera italiana, che si realizza sia sul piano bilaterale che su quello multilaterale. Le finalità perseguite sono di natura politica, per rafforzare la stabilità dei PVS, la cui situazione potrebbe incidere sulla sicurezza dell’Italia, di natura economica, per sostenere le riforme economiche e istituzionali dei PVS, ed umanitaria, a fronte delle grandi emergenze causate dai conflitti civili e da catastrofi naturali. La DGCS controlla solo una parte delle risorse destinate alla cooperazione. Complessivamente il MAE stesso gestisce il 27% delle risorse, il 18% è gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Il resto di distribuisce fra vari altri ministeri ed enti locali.

2.1 Le Unità Tecniche Locali Le Unità Tecniche Locali (UTL) sono uffici istituiti nei PVS con collegamento diretto presso il Governo nel quadro degli accordi di cooperazione. Le Unità tecniche sono costituite da esperti dell’Unità Tecnica Centrale (UTC53) e da esperti tecnico-amministrativi assegnati dalla DGCS nonché da personale esecutivo e ausiliario assumibile in loco. I compiti delle unità tecniche consistono:

• nella predisposizione e nell'invio alla DGCS di relazioni, di dati e di ogni elemento di informazione utile all'individuazione, all’istruttoria e alla valutazione delle iniziative di cooperazione suscettibili di finanziamento;

• nella predisposizione e nell'invio alla DGCS di relazioni, di dati e di elementi di informazione sui piani e programmi di sviluppo del paese di accreditamento e sulla cooperazione allo sviluppo promossa e attuata anche da altri paesi e da organismi internazionali, nel paese in questione;

52 F. Bonaglia,V.De Luca,op.cit.,p. 66 e ss. 53 L’Unità Tecnica Centrale supporta la Direzione Generale per lo svolgimento dei compiti di natura tecnica relativi alle fasi di Individuazione, istruttoria e formulazione dei programmi, delle iniziative e degli interventi di cooperazione, tra cui: raccolta, anche attraverso missioni in loco, degli elementi necessari e contatti con le Autorità locali per la definizione degli obiettivi da perseguire, i risultati attesi, le attività necessarie e i relativi costi; in questo contesto si procede anche all’analisi del documento di fattibilità; ricerche di mercato per le valutazioni di congruità dei costi; definizione degli aspetti tecnici degli accordi intergovernativi per le attività di cooperazione, con la definizione delle rispettive competenze all’interno delle attività previste: comprese le modalità di controllo tecnico-amministrativo, contabile e di valutazione che saranno seguite dalla DGCS; predisposizione della specifica "Valutazione tecnica ed economica" da allegare alla Proposta di Finanziamento delle iniziative di cooperazione (tale valutazione è obbligatoria per le delibere e i pareri del Comitato direzionale

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• nella supervisione e nel controllo tecnico delle iniziative di cooperazione in atto; nello sdoganamento, controllo, custodia e consegna delle attrezzature e dei beni inviati dalla DGCS;

• nell’espletamento di ogni altro compito atto a garantire il buon andamento delle iniziative di cooperazione nel paese.

Ciascuna Unità tecnica é diretta da un esperto dell’Unità tecnica centrale, che risponde, anche per quanto riguarda l'amministrazione dei fondi, al capo della rappresentanza diplomatica competente per territorio. Le Unità tecniche sono dotate dalla DGCS dei fondi e delle attrezzature necessarie per l'espletamento dei compiti ad esse affidati. 2.2 Canali di erogazione degli aiuti pubblici in Italia

I due principali soggetti erogatori dell’APS italiano sono il Ministero degli Affari Esteri ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ad essi si aggiungono per importi minori altri dicasteri (Ambiente, Attività produttive, Salute, Interni) e gli enti della cooperazione decentrata (Regioni, Province, Comuni). Il coordinamento tra MAE e MEF si è consolidato nel tempo per assicurare la piena coerenza degli interventi italiani di cooperazione allo sviluppo; sia che l’erogazione finanziaria venga effettuata dal MAE o dal MEF, la procedura co-responsabilizza entrambi i protagonisti, come nel caso dei crediti d’aiuto, negoziati dal MAE ed erogati dal MEF, per il tramite del MCC (Medio Credito Centrale). La sede principale di tale coordinamento è il Comitato Direzionale per la Cooperazione allo Sviluppo dove siede anche il Ministero delle Attività Produttive (ex Mincomes) Il restante cintributo dell’APS italiano è costituito dai trasferimenti all’Unione Europea. 2.3 Le priorità geografiche e settoriali Sulla base delle priorità di volta in volta definite dal Ministro per gli Affari esteri, che nel medio periodo risultano complessivamente stabili, gli aiuti italiani si ripartiscono geograficamente grosso modo come segue:

• Africa subsahariana 40% • Medio Oriente e Nordafrica (BMVO) 25% • Europa Balcanica 12% • America Latina 15% • Asia 8%

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In particolare

I nuovi impegni per la cooperazione italiana nella pacificazione e ricostruzione

dell’Afghanistan, nell’assistenza e riabilitazione dell’Iraq e nell’aiuto all’Argentina per superare la grave crisi economico-sociale, potrà determinare a medio-breve termine una variazione di questa ripartizione percentuale in favore dell’Asia e dell’America Latina. Circa il 40% degli aiuti italiani viene erogato ai 49 Paesi classificati come Meno Avanzati (Least Developed Countries) dalle Nazioni Unite. In termini di fasce di reddito, il 60% si dirige ai Paesi a basso reddito (con reddito pro capite inferiore a $ 745 all’anno); il 30% a quelli con reddito medio-basso (con reddito pro capite compreso tra $ 746 e $ 2975 all’anno); il 10% a quelli con reddito medio-alto (con reddito pro capite compreso tra $ 2976 e $ 9205 all’anno).

% incidenza APS totale nei dieci principali paesi recettori Fonte OCSE

1984-1985 1994-1995 2004-2005 Somalia 7.4 Egitto 14 Iraq 12.3 Etisia 5.7 Mozambico 6.2 Nigeria 6.6 Sudan 3.4 Etiopia 4.2 Cina 1.3 Tanzania 3.2 Marocco 2.6 Etiopia 1.2 Mozambico 2.8 Nicaragua 2.2 Madagascar 1.2

Egitto 2.3 Argentina 2.1 Nicaragua 1 Turchia 2 Vietnam 2 Tunisia 0.9 RDC 1.8 Cina 1.7 Afghanistan 0.8 Tunisia 1.6 Bosnia Erzegovina 1.3 RCD 0.8

Ciad 1.3 Indonesia 1.2 Costa d’Avorio 0.6

% APS nel Nord Africa 8.1 30.1 6.4

2005 doni % crediti % totale

Totale 267.172.445 100 176.684.178 100 643.856.623

Africa 101.906.516 38 85.290.746 48 187.197.262

A.L 29.066.009 11 23.305.588 13 252.371.597

BMVO 54.450.168 22 50.700.535 29 105.150.703

Europa 20.927.320 8 13.401.614 8 34.328.934

Asia 60.822.433 23 3.985.695 2 64.808.128

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I dati sull’aiuto pubblico allo sviluppo sono contenuti in un Memorandum e vengono pubblicati, insieme con quelli forniti dagli altri paesi membri, in un Rapporto annuale dell’OCSE che costituisce una delle più qualificate fonti sull’argomento a livello internazionale. Anche nel 2005 la cooperazione italiana non si è discostata, dal punto di vista delle priorità geografiche, dalle linee individuate negli anni precedenti.

Si può leggere nella Relazione annuale sulla cooperazione allo sviluppo del 2005 che questo orientamento è giustificato dal fatto che “poiché l’obiettivo centrale della Cooperazione allo Sviluppo è la riduzione della povertà, e la lotta contro la povertà si situa in primo luogo nel continente africano, l’Italia ha posto le esigenze dell’Africa sub-sahariana al centro della sua azione di cooperazione54”.

Per quanto riguarda le priorità settoriali di intervento particolare rilevanza assumono e assumeranno per il futuro quelli di maggiore criticità, quali: l’ambiente e i beni comuni, con particolare attenzione allo sviluppo rurale, all’agricoltura biologica o convenzionale - al fine di far affermare la sovranità alimentare -, le fonti energetiche alternative e rinnovabili, le politiche di genere, in particolare l’empowerment delle donne, accanto ai tradizionali interventi sulla salute e sull’educazione. Particolare importanza rivestirà in questo quadro l’adozione di un approccio globale, anche attraverso il rafforzamento dell’impegno sul Fondo Globale contro le pandemie e, più in generale, con un marcato slegamento degli aiuti della cooperazione. E’ dunque necessario rilanciare una cooperazione le cui risorse negli ultimi anni hanno subìto continui decrementi e tagli, ed è necessario farlo non soltanto per contribuire al miglioramento della qualità della vita nei PVS, ma anche per rispettare gli impegni presi dall’Italia sia in sede ONU, sia nel quadro dell’Unione Europea.

54 Relazione annuale sull’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo, 2005

% distribuzione APS italiano, 2003-2005milioni di $

0

10

20

30

40

50

Africa A.L BMVO Europa Asia

2003

2004

2005

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In tale prospettiva, diviene peraltro particolarmente importante la previsione di una programmazione triennale del lavoro e delle risorse della cooperazione italiana, considerato che solo una pianificazione attenta e di medio periodo può consentire di intraprendere un percorso ragionato verso il raggiungimento degli obiettivi prefissati. 2.4 Priorità della cooperazione italiana Coerentemente con i principi sopra enunciati, la cooperazione italiana segue un approccio ispirato a:

• condivisione dei principi di “good governance” (rispetto dei diritti umani, Stato di diritto e trasparenza amministrativa):

• coerenza tra le varie politiche connesse allo sviluppo: regole commerciali e piena apertura dei mercati a beneficio dei PVS (sulla scia dell’iniziativa adottata dall’UE per i PMA “Everything but Arms”); sostenibilità del debito; flussi pubblici di aiuto; promozione degli investimenti diretti esteri;

• coordinamento tra soggetti donatori nazionali e multilaterali, per evitare scelte contraddittorie nell’allocazione delle risorse;

• complementarietà tra le attività di sostegno sanitario, di educazione e formazione delle risorse umane, di assistenza alimentare, di sviluppo rurale e delle Piccole e Medie Imprese (PMI) e delle infrastrutture, di tutela del patrimonio culturale;

• collaborazione tra sistemi-paese tramite, in particolare, le ONG (cooperazione orizzontale), gli enti locali (cooperazione decentrata), le imprese (multinazionali ma innanzitutto le PMI), le istituzioni universitarie (cooperazione interuniversitaria), per trasferire know-how nei PVS e per portare sul terreno risorse umane preziose ai fini della formazione in loco e della ‘good-governance’.

Le linee programmatiche seguite dalla Cooperazione italiana allo sviluppo per concorrere all’attuazione di questi impegni sono articolate come segue:

1. Riduzione della povertà 2. Piano d’Azione per l’Africa 3. Lo sviluppo sostenibile 4. Fondo Globale per la lotta contro l’AIDS, la malaria e la tubercolosi 5. Educazione 6. Sicurezza alimentare e lotta alla povertà rurale 7. L’e-government per lo sviluppo 8. Azioni a favore dei PVS. 9. L'impegno dell'Italia per i diritti di bambini, adolescenti e giovani

Al di là di quanto previsto dalla Legge Finanziaria 2007 assume particolare rilievo il reperimento dei fondi necessari a saldare il debito con il Fondo Globale per la Lotta all’ AIDS, la Tubercolosi e la Malaria. Il debito ammonta all’intero contributo del 2006, pari a 130 milioni di euro, ai quali devono aggiungersi 20 milioni di residuo del contributo 2005.

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Sarà importante, peraltro, prevedere una via di finanziamento dei 130 milioni previsti per il 2007 ed impegnarsi a garantire la continuità del contributo italiano al Fondo. Proprio a tal fine, è stata presentata alle Camere una proposta di legge denominata “Istituzione del Fondo di finanziamento del Fondo Globale per la Lotta all’AIDS, la Tubercolosi e la Malaria”, che prevede lo stanziamento di 50 milioni di euro per il 2006, 130 per il 2007, e 200 per il 2008. La proposta non si ferma tuttavia al 2008, ma individua le modalità tramite cui stabilire la dotazione del Fondo a partire dal 2009, ed in una prospettiva pluriennale. Soltanto assicurando una puntuale e costante partecipazione finanziaria, infatti, sarà possibile per l’Italia mantenere il seggio unico nazionale che detiene all’interno del Consiglio di Amministrazione del Fondo stesso, unico paese accanto a Stati Uniti e Giappone. La lotta alle pandemie in generale, ed all’AIDS in particolare, dovrà quindi rimanere fra le priorità della politica di cooperazione italiana, anche in considerazione dell’impegno che l’Italia ha da lungo tempo preso in questo settore. Nella Relazione previsionale e programmatica sulle attività di cooperazione allo sviluppo per il 2007 del MAE, si può inoltre leggere che la cooperazione italiana prevede:

• il lancio, probabilmente a Roma nei primi mesi del prossimo anno, di un progetto pilota nell’ambito del programma AMCs (Advanced Market Commitments for Vaccines), di cui l’Italia è promotrice, avente ad oggetto il potenziamento di un vaccino contro lo pneumococco, ed il successivo supporto dei paesi industrializzati all’acquisizione del medesimo da parte dei PVS mediante corresponsione di parte del prezzo d’acquisto. Il successo di tale progetto (l’obiettivo è quello di raggiungere la somma di 1,5 miliardi di dollari) comporterebbe il lancio di un secondo progetto per la realizzazione di un vaccino contro la malaria;

• la partecipazione dell’Italia all’IFFIm (International Financing Facility for

Immunisation). Vale la pena di rilevare che l’Italia è stata uno dei primi paesi a dotarsi di uno strumento legislativo per il finanziamento dell’IFFIm, prevedendo, nella Finanziaria 2006, uno stanziamento totale di 504 milioni di euro fino al 2025. Il lancio dei primi bonds IFFIm è stato effettuato il 6 novembre 2006, a seguito di un road show negli Stati Uniti e presso le principali capitali europee. L’obiettivo è quello di raggiungere un capitale di almeno 1 miliardo di dollari;

2.5 La collaborazione con gli organismi internazionali

La cooperazione italiana persegue una strategia di coerenza con le grandi azioni realizzate dalle Agenzie delle Nazioni Unite, dalla Banca Mondiale e dagli organismi di integrazione regionale in Africa (IGAD, SADC, CILSS) ed in America Latina (CEPAL). Per quanto riguarda l’attuazione delle strategie di sviluppo, in campo internazionale l’accento è rivolto alla necessità di sostituire progressivamente l’aiuto-progetto con il finanziamento di programmi settoriali “Sector-wide approach”(SWAP) e “Sectoral Investment Programs”(SIP), nonché – ove possibile - con l’aiuto diretto al bilancio, che presuppongono

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la programmazione congiunta delle iniziative e dei fondi conferiti da una pluralità di donatori bilaterali e multilaterali. La rete di accordi di partenariato che l’Italia ha sottoscritto con l’UNICEF, la FAO e l’OMS, nonché l’accordo in corso di negoziato con l’ UNDP, consentono all’Italia di meglio focalizzare l’impostazione e monitorare i risultati degli interventi finalizzati finanziati dall’Italia e di esercitare in seno a questi organismi un’influenza superiore al peso specifico dei contributi volontari che essa versa, se rapportato al bilancio ordinario degli organismi stessi. L’Italia comunque persegue l’obiettivo di rientrare nel gruppo dei primi dieci paesi donatori al sistema multilaterale delle Nazioni Unite. L’intensa collaborazione con le tre grandi organizzazioni del polo agricolo romano – FAO (Food and Agricolture Organization), PAM (Programma Alimentare Mondiale), IFAD (International Fund for Agricultural Development) - assicura loro risorse finanziarie ed un respiro strategico che consolidano il ruolo di Roma come sede di organismi multilaterali. Altrettanto essenziale è il sostegno della cooperazione italiana agli altri organismi internazionali operanti in Italia, come il Centro OIL e l’ UNICRI a Torino, gli Uffici UNIDO a Milano e Bologna, il Centro UNICEF a Firenze, l’Ufficio OIM a Roma, lo IAM a Bari, il deposito delle Nazioni Unite di Brindisi per gli interventi umanitari d’emergenza. Linea direttrice della cooperazione italiana è quella dell’intensificazione della collaborazione e delle sinergie con il sistema-Italia, con riferimento a quattro pilastri fondamentali. Essi sono: le imprese, le ONG ed il volontariato, le Università ed i centri di ricerca e formazione, la cooperazione decentrata.

Esborsi netti multilaterali nel 2005 (milioni di dollari)

Fonte OCSE

Italia Totale 2821

World Bank 689

IDA

679

Alle banche regionali 168

Banca Africana 168

Banca Asiatica -

Banca Ibero-americana - ONU 305

IFAD 18

WFP 24

UNDP 24

UNICEF 18

UNHCR 11

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3. Aiuto Pubblico allo Sviluppo italiano

Nel 2002 l’aiuto pubblico allo sviluppo italiano è risultato pari allo 0,20% del PIL (circa € 2,4 miliardi). L’aumento del 31,5% in termini reali rispetto al 2001 riflette un incremento degli aiuti bilaterali, comprese le operazioni di cancellazione del debito, nel contesto dell’iniziativa rivolta ai paesi poveri altamente indebitati (HIPC) e il finanziamento di iniziative a carattere globale, come il Fondo Mondiale per la lotta all’AIDS, la tubercolosi e la malaria. I paesi che hanno assunto gli impegni più onerosi sono i paesi europei più distanti dall’obiettivo dello 0,7%. Per parte sua l’Italia, sottoscrivendo a Barcellona l’obiettivo dello 0,33% entro il 2006, si è impegnata ad incrementare il suo APS, proponendosi di riportarlo in sette anni (2000-2006) ai livelli dei primi anni novanta. Ai fini del graduale perseguimento dell’obiettivo dello 0,33%, il Governo ha inserito nel Documento di programmazione economico finanziaria (DPEF), un calendario di aumento dell’APS, che doveva essere rivisto anno per anno fino al 2006 alla luce dell’andamento dell’economia e dei condizionamenti della finanza pubblica. Ad occhi inesperti la situazione potrebbe sembrare normale ma se proviamo a leggere sotto un altro aspetto questi dati, si potrà notare come l’APS italiano sia crollato notevolmente. L’ APS nel mondo è aumentato nel 2004 fino al livello più alto mai raggiunto (78,6 miliardi di dollari). Prendendo in considerazione l’inflazione e la caduta del dollaro, questo rappresenta un aumento in termini reali del 4,6% tra il 2003 e il 2004, e del 4,3% tra il 2002 e il 2003. La tendenza per quanto riguarda l’Italia è invece del tutto opposta: -15,3% dal 2002 al 2003 e -9,7% tra il 2003 e il 2004. Così, inevitabilmente, l’Italia continua a perdere posizioni nelle classifiche del DAC. Guardando alla spesa complessiva, l’Italia è passata dalla settima alla decima posizione, sorpassata da Svezia, Spagna e Canada. La spesa è pari a meno di un terzo di quella degli altri grandi paesi europei, Germania, Francia e Gran Bretagna con un rapporto APS/PNL nel 2004 che da penultima della lista l’ha fatta scendere ad ultima, stanziando solamente lo 0,15% del PIL. La difficile congiuntura economica internazionale di questi anni, potrebbe essere una giustificazione. Ma altri paesi della Unione Europea in questa stessa situazione hanno significativamente incrementato le risorse per la cooperazione internazionale. La Spagna li ha raddoppiati; la Francia è arrivata allo 0,34%; la Gran Bretagna si è data l’obiettivo dello 0,47% entro il 2007; i paesi del Centro e Nord Europa (Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia e Lussemburgo) hanno confermato quote superiori allo 0,7%, già raggiunto da alcuni anni. Diversi paesi europei hanno anche assunto l’impegno di arrivare allo 0,7% del PIL in un lasso di tempo relativamente breve. Nel corso del 2004 il governo inglese si è impegnato a raggiungere lo 0,7% entro il 2013, Francia e Spagna hanno dichiarato di voler raggiungere l’obiettivo entro il 2012 e l’Irlanda si è impegnata a raggiungerlo entro il 200755. In Italia sono state fatte tante promesse, è stata mai creata una road map da seguire per il raggiungimento degli obiettivi, ma niente di tutto ciò è stato rispettato. Il governo italiano in linea di principio sostiene gli impegni maturati in occasione dell’Assemblea del Millennio, del Consiglio di Barcellona e della Conferenza di Monterrey. 55 Sintesi dal rapporto sullo stato della cooperazione allo sviluppo in Italia, Forum alternativo di Sbilanciamoci! in occasione dell’apertura ufficiale delle“Giornate italiane per la Cooperazione”, Ottobre 2005

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L’andamento dell’APS totale per i grandi paesi europei (fonte: OCSE)

Nel documento di programmazione economica-finanziaria per gli anni 2003-2006 si legge che: “ il governo si è impegnato a perseguire il traguardo dello 0,33% del PIL nel rispetto dei vincoli posti dal Patto di stabilità e crescita, attraverso due modalità: 1)aumenti graduali delle risorse allocate per l’APS in tutte le sue diverse componenti; 2) cancellazioni del debito bilaterale dei PVS verso cui l’Italia vanta dei crediti sovrani in attuazione della legge 209/2000. Essendo necessario un approccio graduale, il governo delinea il seguente calendario, che dovrà essere rivisto anno per anno fino al 2006 in base agli equilibri di finanza pubblica: nel 2003 lo 0,19-0,20%;nel 2004 lo 0,23-0,24%; nel 2005 lo 0,27-0,28%; nel 2006 lo 0,33%.” A questo impegno però non è seguita una strategia coerente piuttosto una serie di iniziative una tantum, ed infatti l’obiettivo prefissato non è stato raggiunto! I flussi dell’aiuto sono stati gonfiati dalle operazioni di cancellazione del debito e, nel 2003 si è tornati allo 0,17%. La performance dell’Italia in termini di quantità di aiuto pubblico è stata , come già detto la più modesta fra quelle dei paesi OCSE, fatta eccezione per gli USA, che però riesce a mobilitare grandi volumi di risorse in termini assoluti. A dispetto di questo risultato l’Italia però è riuscita negli ultimi anni ad essere protagonista in due aree significative nell’agenda dello sviluppo. Nel caso della cancellazione del debito, l’Italia ha approvato sin dal 2000 uno degli strumento legislativi più avanzati (legge 209) e negli anni successivi ha proceduto alla cancellazione dei crediti verso i paesi più poveri e altamente indebitati. La legge 209 è il risultato di una convergenza degli interessi della società civile, delle forze politiche e del governo. I dati 2005 sono i più recenti in quanto il DGCS non ha ancora pubblicato le consuete relazioni annuali sull’attuazione della politica di sviluppo 2006 e 2007. Nel 2005 l’ammontare dell’APS è stato di 5.091 milioni di dollari con un rapporto APS/PIL dello 0,29%. Alla DGCS sono stati assegnati complessivamente 836.80 milioni di euro.Infine i crediti d’aiuto sono stati 176.68 milioni di euro effettivamente erogati. L’assenza di una strategia si rispecchia anche nella spesa per i servizi sociali di base. Rispetto alla meta da raggiungere, del 20% dell’APS in servizi di base, decisa al World summit for Social Developement, nel 1995 in Danimarca, l’Italia arriva solo al 5%. In se non significa niente, ma confrontata con gli altri paesi DAC è tragica. L’Olanda arriva al 19% e tutti gli altri paesi OCSE sono sotto il 12%. La misera quota italiana rappresenta la somma degli aiuti a sanità di base (0.0%), educazione di base (4.9%), acqua e misure igieniche (0.5%). Anche la percentuale del 20% è forse un obiettivo basso, ma vista la situazione appare certamente ambizioso!!

1 000

2 0003 0004 000

5 0006 000

7 0008 000

1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003

usd

mill

ion France

Germany

United Kingdom

Italy

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4. Le ONG in Italia Le prime ONG di sviluppo nascono in Italia negli anni ’60 come espressione dello spirito di solidarietà verso le popolazioni colpite da calamità e povertà cronica e verso i movimenti di liberazione operanti in vari paesi del mondo soprattutto come già detto accanto alla presenza del mondo missionario. La storia delle ONG inizia prima che l’Italia sia dia una legge sulla cooperazione con i PVS. Questa solidarietà organizzata in forma associativa è andata crescendo fino ad oggi insieme alla capacità di coinvolgimento dell’opinione pubblica e di intervento nei paesi del Sud del mondo. Una parte di questo movimento ha aderito alla possibilità offerta dalla legislazione nazionale (Legge n. 222/71; n.38/79; n.49/87) di ottenere un riconoscimento di idoneità per la gestione di risorse di fonte statale ma soprattutto il riconoscimento della propria operatività sul piano internazionale. Sono circa 170 le ONG riconosciute ai sensi della vigente legge e a questa convenzionalmente si fa riferimento quando si parla di ONG italiane di sviluppo. In base alla Legge 49/87 il riconoscimento di idoneità alle ONG ha finora assicurato i seguenti vantaggi:

o ottenere contributi da parte del MAE fino al 70% della spesa ritenuta ammissibile per la realizzazione di “programmi promossi”, ossia elaborati e proposti dalle ONG, e di poter gestire “programmi affidati”, ossia rientranti in un accordo bilaterale e finanziati interamente dalla DGCS;

o godere di agevolazioni fiscali sul piano della raccolta di finanziamenti. I contributi e le donazioni erogati da persone e giuridiche in favore delle ONG idonee sono deducibili dal reddito imponibile netto nella misura massima del 2% (art. 30 L.49/87);

o garantire al personale volontario espatriato i benefici previsti dalla L.49/87 a livello di salario minimo, di copertura degli oneri assicurativi e previdenziali;

o di poter partecipare, tramite propri rappresentanti, al monitoraggio delle attività di cooperazione nel Comitato Consultivo e Commissione ONG.

L’adozione della Legge attuale 49/87 ha permesso negli anni successivi una crescita notevole dei programmi promossi dalle ONG e delle risorse finanziarie a disposizione, che ha raggiunto il suo apice nel 1988 con lo stanziamento di 134,7 miliardi di lire. Dal 1992, difficoltà di ordine amministrativo-procedurale, imposte dalla burocrazia amministrativa del Tesoro, e il drastico ridimensionamento delle risorse complessive, destinate dalle Leggi finanziarie alle attività di cooperazione, hanno ridotto gli stanziamenti a disposizione, compromettendo le opportunità di sostegno ai programmi promossi dalle ONG. 4.1 L’Ufficio VII della DGCS L’Ufficio VII della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo si occupa dei rapporti con il mondo delle ONG e le sue confederazioni. In particolare concede il riconoscimento di idoneità a quelle associazioni che possiedono i requisiti previsti dalla

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Legge 49/87. L’Ufficio si occupa di verificare l’ammissibilità dei progetti e dei programmi promossi ONG in favore dei paesi in via di sviluppo. In caso di giudizio positivo, l’iniziativa è sottoposta alla valutazione tecnica dell’UTC, e viene poi seguita in tutte le sue fasi: dall’istruttoria del progetto all’approvazione dei rendiconti delle singole annualità, fino all’eventuale fase del monitoraggio. 4.2 Gli organismi di coordinamento delle ONG italiane La maggioranza delle ONG italiane aderisce anche ad organismi di coordinamento, che rispecchiano il ricco e variegato patrimonio culturale che ispira queste organizzazioni. I tre principali organismi di coordinamento sono: -la Federazione degli Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario , FOCSIV, che riunisce una cinquantina di realtà, in grande parte di ispirazione religiosa, tra le quali oltre 56 ONG riconosciute dalla 49/87 che si caratterizzano nell’invio di volontari nei programmi; -il Coordinamento delle Organizzazioni non governative per la Cooperazione Internazionale (COCIS) a cui aderiscono 27 organismi, con una ventina di ONG riconosciute dalla legge che si caratterizzano per la matrice laica, l’impiego prevalente di cooperanti nei progetti e la gestione diretta di programmi affidati MAE o di Agenzie Internazionali; -il Coordinamento di Iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale (CIPSI) che associa 25 ONG ed associazioni, con coinvolge più di 100.000 persone con 200 gruppi locali d’appoggio che operano con un approccio di “partenariato” .

Come si finanziano le Ong del Focsiv Bilancio 2005, 82 milioni di euro

Fonte:Focsiv

13%

5%

51%

13%

3%

7%

8%

M ae

Altre ist ituzioninazionaliM ae

Unione Europea

Conferenza EpiscopaleItalianaEnti locali

Altre ist ituzioni

Come si finanziano le Ong del Cipsi Bilancio 2005, 30 milioni di euro

Fonte: Cipsi

5%

75%

6%

11%

2%

1%

Altri proventi di gestione

Privati (anche fondazioni)

Enti locali

Unione Europea

Altre istituzioni pubbliche

Mae

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5. Critiche

5.1 L’inefficienza dei fondi La finanziaria 2005 prevedeva per la Cooperazione allo Sviluppo 570 milioni di euro per il 2006. Nel giugno 2005 sono stati eliminati 18 milioni, così la DGCS poteva disporre nel bilancio di previsione per il 2006 di 552 milioni di euro, somma che a detta degli esperti di molto insufficiente per le attività di cooperazione. Con questi tagli, ma anche senza essi non si sarebbe riusciti a finanziare diversi impegni presi, come:

o Fondo Globale per la lotta all’Aids la Malaria e la Tubercolosi; o Fondo Speciale FAO per la sicurezza alimentare o Piano d’azione per l’Acqua o Sostegno al processo di pace in Palestina o Assistenza e riabilitazione dell’Iraq o Rilancio dell’economia in Serbia e assistenza in Kosovo o Assistenza e riabilitazione dell’Afghanistan o Piano G8 per l’Africa.

In questo quadro la DGCS chiedeva un ingente aumento delle risorse chiedendo che nella prossima finanziaria fossero stati assegnati ad essa 1,4 miliardi di euro invece di 552,6 milioni. Il Governo rispose negativamente, anzi altri 152 milioni di euro furono tagliati dalle risorse per la cooperazione che quindi passano a 400 milioni, una diminuzione del 27% rispetto al 2005. Inoltre con la manovra di aggiustamento il Ministero dell’Economia ha eliminato dall’ambito della cooperazione internazionale altri 100 milioni di euro per il 2005, di questi 22 milioni riguardano direttamente le ONG e rappresentano tutto il residuo non ancora erogato nel 2005, mettendo così a rischio centinaia di progetti già iniziati e spesso la sopravvivenza stessa de molte organizzazioni. E’ facile in questo modo notare come i fondi destinati alla cooperazione non sono una priorità del Governo Italiano.

Fondi stanziati, in milioni di euro 2003 2004 2005 2006 618 616 588 400

Quali sono le richieste delle ONG al Governo? Non chiedono di usare il tesoretto , perché per fare del bene non servono risorse aggiuntive, bastano quelle che ci sono: è solo una questione di definire le priorità. Ad esempio, le solite spese militari che nel pensiero comune sono troppe e soprattutto vanno a discapito dell’aiuto umanitario. E’ la denuncia che fa la FOCSIV affermando che “l’Italia è dietro anni luce dagli altri paesi nell’ambito della cooperazione, occupa una minuscola parte dello scenario internazionale umanitario, in Europa fanno tutti meglio dell’Italia”, parole dure ma veritiere perché basate su una ricerca sul “Barometro della solidarietà” attuata dalla Doxa in collaborazione con il

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Centro di ricerca dell’Università di Padova sui diritti della persona e dei popoli e con Famiglia Cristiana, che misura la pressione delle isobare del cuore dei cittadini e quindi il malcontento diffuso rispetto al questo tema. Ne risulta che il 64% degli italiani vuole una riduzione delle spese militari e contestualmente l’aumento degli aiuti per la cooperazione allo sviluppo: esattamente il contrario di ciò che ha fatto fin’ora il Governo attuale. Rispetto alle indicazioni del barometro del 1999 entra, in cime alla lista, il terrorismo, ma, dicono gli italiani, senza sollecitudine allo sviluppo non funziona nessuna agenda antiterrorismo. Riguardo il debito estero, per 9 italiani su 10 va cancellato, la metà chiede che sia fatto senza nessuna condizione, l’altra metà vincola la cancellazione a politiche di rigore e contro la corruzione. Anche l’aiuto andrebbe correlato all’impegno per la democrazia e al rispetto per i diritti umani, sotto il coordinamento dell’ONU, UE e delle ONG. Le richieste presentate nel Maggio 2007 in prossimità che venisse approvato il DPEF, sono chiare: di programmare del DPEF 2008-2010 l’aumento delle risorse destinate agli aiuti allo sviluppo, coerentemente agli impegni presi nel contesto internazionale, tenendo conto che si è già a metà del percorso fissato dall’ONU verso la realizzazione degli Obiettivi del Millennio e che prevedono il raggiungimento dello 0,51% del PIL entro il 2010. Ciò consentirebbe come afferma Sergio Marelli, Direttore della FOCSIV, all’Italia di ricollocarsi sullo scenario internazionale con una maggiore credibilità, diversa da quella attuale che la colloca all’ultimo posto nelle graduatoria mondiali per gli aiuti contro la povertà (0,20%) e allo stesso tempo all’ottavo posto negli aiuti militari (29,9 miliardi di dollari) e sesto nell’esportazione mondiale di armi (827 milioni di dollari). 5.2 Un decennio per approvare un progetto Le ONG per vedersi approvare un progetto dal Ministero degli Affari Esteri e ottenere il finanziamento devono vivere un esperienza non semplice. Due anni per farselo approvare, un altro anno circa per poter ottenere la prima parte e poi dopo il primo rendiconto aspettare uno o due anni, sempre che non ci siano imprevisti, emergenze, improvvisi tagli ai finanziamenti. Secondo l’OCSE il percorso dal momento della presentazione del progetto può arrivare a compiere otto anni, in alcuni casi si è superata la soglia dei 12 anni! Naturalmente le ONG, una volta ottenuta l’approvazione del progetto devono attenersi ai termini contrattuali, rispettandone termini e modalità. Naturalmente operare senza la certezza che venga poi approvato il rendiconto mette in seria difficoltà le organizzazioni che spesso porta a non poter portare a termine i progetti iniziati o doverli abbandonare. Il taglio dei fondi al settore della cooperazione fa si che il personale amministrativo sia diminuito progressivamente da 580 unità nel 1993 a 448 nel 2003 fino a 413 nel 2004. Il numero degli esperti non è mai stato adeguato, dal 1994 non è mai stato assunto nessun nuovo esperto, e attualmente sono presenti solo poco più della metà dei 120 esperti previsti dalla legge del 1987: di questo il 98% a un’età superiore ai 45 anni e il 52% superiore al 55 anni. I problemi che conseguono da questa situazione sono un grande spreco di risorse che invece di essere destinate allo sviluppo viene speso per ripagare i costi delle inadempienze contrattuali. In quasi 5 anni (dal 1999 al 2003) si sono spesi oltre 10 milioni di euro per il pagamento di interessi (per i propri ritardi), spese legali, transazioni, rivalutazioni monetarie etc., tutto per ripagare l’inefficienza e i ritardi della burocrazia.

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6. Conclusioni

Dopo tutte queste considerazioni ciò che possiamo affermare è che la politica di cooperazione allo sviluppo dell’Italia ha bisogno di riprendere la sua credibilità, e lo può fare solo seguendo il nuovo contesto internazionale. La cooperazione allo sviluppo italiana è chiamata ad allinearsi a un nuovo consensus che nasce dall’impegno della comunità internazionale per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio. Il Consenso dell’Unione Europea in materia di cooperazione e il Consiglio Affari Generali, individua alcuni elementi di orientamento condivisi da tutti gli Stati membri dell’Unione: • raggiungere lo 0,7% APS/PIL nel 2015 con il 2010; • priorità strategica agli Obiettivi del Millennio; • coerenza tra politiche di sviluppo, migratorie, commerciali; • attenzione ai Paesi meno avanzati; • metà dell’aumento degli stanziamenti verso l’Africa subsahariana; • ridurre i costi di transazione degli interventi; • aumentare il ricorso al sostegno al bilancio; • rendere i flussi d’aiuto più prevedibili e meno volatili; • slegare tutto l’aiuto, anche quello alimentare. Alla luce di questi criteri è necessario definire le proposte per il futuro della cooperazione italiana a partire dalla considerazione del fatto che l’Italia non è attualmente in grado fare la sua parte all’interno della comunità dei donatori e di contribuire efficacemente al raggiungimento degli MDGs. Il futuro della cooperazione italiana dovrà essere disegnato per affrontare sfide cruciali, infatti:

o I volumi sono insufficienti, inchiodando dal 1995 al 2004 il rapporto APS/PIL tra lo 0,11% e lo 0,20%. L’andamento non è costante in ragione di operazioni contingenti, quali i versamenti all’ IDA e sopratutto le cancellazioni del debito. Tra il 2000 e 2004 il 34% dell’APS bilaterale italiano è stato generato dalle queste cancellazioni, con un picco del 53% nel 2002. I volumi di risorse “fresche56” vengono mantenuti al di sopra del miliardo di dollari grazie ai contributi obbligatori al bilancio comunitario e, talvolta, a favore dell’IDA . Complessivamente questi contributi hanno costituito nell’ultimo quinquennio il 44% di tutto l’aiuto italiano, con punte del 50% in anni di bassa cancellazione del debito. Il 2005 non sfugge a questo andamento, anzi è l’anno in cui questi elementi si accentuano e fanno decollare l’APS allo 0,29% . I quattro miliardi di dollari sborsati sono però per il 75% costituiti da cancellazione del debito iracheno, versamenti di quote arretrate a Banche e Fondi e versamenti alla Commissione Europea. Dopo questo exploit, è difficile pensare a una crescita lineare. La Commissione Europea prevede che l’Italia per il 2010 l’Italia sarà ancora inchiodata allo 0,29%.

56 Senza la cancellazione del debito

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o Le risorse disponibili per l’aiuto sono poco trasparenti , suddivise tra 23 capitoli del Bilancio dello Stato. Solo 14 capitoli sono legati alla legge 49/87 e rappresentano circa il 40% dei finanziamenti disponibili all’inizio dell’anno per l’aiuto pubblico italiano. Il restante 60% si trova nel bilancio del Ministero dell’Economia e non dipende da un unico atto legislativo ma dagli impegni internazionali ratificati dal Parlamento italiano per partecipare a Banche e Fondi di sviluppo.

o L’orientamento strategico non è collegato agli MDGs. Secondo il DAC, le linee

guida di riduzione della povertà del 2000 non selezionano alcun settore o alcun obiettivo quale area d’intervento su cui l’Italia si concentra. Le Relazioni revisionali dovrebbero indicare le aree geografiche e i settori di maggiore attenzione per la cooperazione italiana, ma le priorità degli interventi cambiano da un anno all’altro. L’impegno al sostegno della sanità e la lotta alla fame sembrano essere comunque due costanti nelle Relazioni previsionali dell’ultimo quinquennio. In realtà, se si esaminano le allocazioni di risorse, non c’è corrispondenza tra programmazione e finanziamenti. Nel quinquennio 2000-2004, il 10% del bilaterale italiano è andato all’ emergenza e il 13% è assistenza tecnica che assorbe più dell’educazione.

o L’Africa e Paesi meno avanzati (PMA) stanno perdendo d’importanza.Secondo

i dati del MAE, le erogazioni degli aiuti a dono per l’Africa australe sono passate dal 54% del 2000 al 34% del 2004. Nel 2000 l’Africa ha ricevuto, in valore reale57 204 milioni di euro, nel 2004 soltanto 89 milioni. Le risorse sborsate verso i PMA sono passate da 181 a 173 milioni di dollari dal 2000 al 2004; la quantità di aiuto bilaterale verso i PMA, al netto del debito, passa dal 57% al 37% nel quinquennio; anche con la contabilizzazione del debito, la porzione del bilaterale destinata ai PMA si riduce comunque drasticamente passando dal 63% al 40%, nello stesso arco temporale. Infine, l’aumento dei volumi dell’APS bilaterale del 2005 sarà concentrato in Medio Oriente.

o Interventi a dono invariati . Il volume dei crediti d’aiuto italiani erogati attraverso

il Fondo Rotativo si è mantenuto costante, intorno al 18% del bilaterale (al netto della cancellazione del debito). Non c’è stato alcun riorientamento a favore dell’aiuto a dono. Inoltre, l’Italia si è dimostrata particolarmente efficace nel recupero dei crediti: dal 2000 al 2004 per ogni euro prestato ne sono rientrati 1,96. In media, nello stesso arco di tempo, ogni anno il Fondo Rotativo ha aumentato le sue disponibilità di 125 milioni di dollari. Secondo il rendiconto dei conti dello Stato della Corte dei Conti, la disponibilità complessiva del Fondo rotativo alla fine del 2004 era di 2,1 miliardi di euro.

o Si disperde l’aiuto in troppi paesi e progetti. Dal 2000 al 2004, i primi dieci paesi

beneficiari dell’aiuto italiano al netto della cancellazione del debito hanno assorbito circa il 50% delle "risorse fresche" stanziate ogni anno (in media 500 milioni di dollari). Alcuni paesi sono costantemente tra i primi 10 (Albania, Afghanistan, Palestina, Eritrea ed Etiopia). Tuttavia, i restanti 250 milioni di dollari, anziché venire concentrati sono assegnati “a pioggia” tra 90-113 paesi, senza creare una

57 In riferimento al 2003

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“massa-critica58” d’impatto. All’interno dei paesi le risorse vengono ulteriormente frammentate e rese più piccole rispetto alla media dei donatori. Mentre la media delle transazioni dei donatori è di 1,5 milioni, la media dell’Italia è di 500 mila dollari, aumentando costi amministrativi, quelli “nascosti” e le difficoltà per il coordinamento.

o Il bilaterale è legato per il 92%. E’ dal 2001 che l’Italia non riporta al DAC la

percentuale per gli aiuti legati. In quell’anno, caratterizzato da una bassa cancellazione del debito, il bilaterale italiano era legato per il 92%. Per l’aiuto alimentare, quasi tutti i bandi si rivolgono al mercato europeo mentre alcuni sono tarati esclusivamente sui prodotti italiani: riso italiano all’Afghanistan nel 2003 o succo d’arance bionde e parmigiano all’Azerbaijan nel 200559.

La necessità di dovere rinnovare un sistema che appare al collasso è largamente condivisa, ma le proposte sono differenti. Riguardo ai tempi, nel recente dibattito è emersa anche una strategia di riforma in due tempi, che punta inizialmente a “mettere il sistema in ordine” e solo successivamente a “iniettarvi nuove risorse”. Se da un lato é sicuramente opportuno investire per migliorare le capacità d’assorbimento dell’amministrazione, questo può avvenire solo con il contemporaneo aumento modulato e prevedibile dei finanziamenti necessari. Senza allocare una massa-critica di risorse non si potranno mai avere risultati tangibili che giustifichino ulteriori investimenti. Sulle modalità della riforma, è forte l’opinione che la “volontà politica” sia il fattore decisivo: l’elemento necessario e sufficiente per rimettere in marcia il sistema. In realtà, si deve notare che se la volontà politica può innescare il cambiamento, la questione della lotta alla povertà deve avere dignità nel lungo periodo, per restare costante almeno fino al 2015, indipendentemente dai cambiamenti di questa “volontà”. Una soluzione potrebbe essere quella di insistere sulla strada della istituzionalizzazione della cooperazione allo sviluppo, come la legge 49 ha cercato di fare. L’obiettivo è triplice: non solo istituzionalizzare, ma evitare la marginalizzatione dell’esperienza passata e allinearsi con il nuovo consensus internazionale del III Millennio, gli MDGs. Gli Obiettivi del Millennio sanciscono la nascita di un patto di solidarietà globale per la lotta alla povertà, una sorta di welfare globale, con impegni misurabili che sono stati assunti dagli Stati e che hanno scadenze temporali chiare. Dalla Dichiarazione del Millennio, passando per Monterrey e gli impegni a livello europeo, le politiche di sviluppo sono diventate strumentali al raggiungimento globale degli MDGs e sono diventate un elemento delle relazioni esterne di uno Stato che non necessariamente si devono intrecciare con la politica estera. La lotta alla povertà é un’emergenza che deve essere affrontata in tempi rapidi, con strategie di lungo termine, attraverso l’elaborazione di politiche specifiche e la predisposizione di risorse pubbliche dedicate.

58 www.azioneaiuto.it 59 www.actionaid.com

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LA SPAGNA E LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

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1. La cooperazione allo sviluppo in Spagna La politica spagnola di cooperazione allo sviluppo ha origine nella dichiarazione contenuta nel preambolo della Costituzione del 1978, in cui la nazione spagnola proclama la propria volontà di collaborare al rinforzamento delle sue relazioni pacifiche e per l’efficacia della cooperazione tra tutti i popoli della Terra.60 La politica di cooperazione allo sviluppo costituisce un aspetto fondamentale dell’azione degli Stati democratici in relazione a quei paesi che non hanno raggiunto un adeguato livello di sviluppo, basato su una concezione di interdipendenza e solidarietà della comunità internazionale e nelle relazioni che in essa si sviluppano. 1.1 Evoluzione legislativa in materia di cooperazione allo sviluppo A proposito della cooperazione allo sviluppo, è opportuno ricostruirne l'apparato legislativo. La struttura istituzionale della cooperazione allo sviluppo in Spagna è suddivisa in due ministeri: il Ministerio de Asuntos Exteriores y de Cooperaciòn (MAEC) che, tramite l’Agencia Espan�ola para la Cooperaciòn Internacional (AECI) decide sui doni, mentre la Secretarìa de Estrado para la Cooperaciòn (SEC) esercita il potere decisionale sui crediti di aiuto. Nell'agosto del '76 viene istituito il FAD (Fondos de ayuda al desarrollo), uno strumento di tied aid (percentuale di aiuti legata a contratti con le imprese)61. Nel febbraio del '77 è la volta della CIFAD (Comisión interministerial para el FAD), che decide sull'assegnazione dei crediti FAD. Per ciò che riguarda il MAEC, la ristrutturazione inizia verso la metà degli anni '80, quando cioè la Spagna aumenta in modo sostanziale l'entità degli aiuti verso il terzo mondo. Nell'84, il Parlamento istituisce, all'interno della commissione esteri del Senato, una sotto-commissione che fa uno studio sulla cooperazione internazionale spagnola. Nell'agosto dell'85, viene fondata la SECIPI (Secretaría de Estado para la Cooperación Internacional y para Iberoamerica), all'interno del MAEC. Questa è incaricata di elaborare i PACI (Planes anuales de cooperación internacional).

60 « La Nación española, deseando establecer la justicia, la libertad y la seguridad y promover el bien de cuantos la integran, en uso de su soberanía, proclama su voluntad de: Garantizar la convivencia democrática dentro de la Constitución y de las leyes conforme a un orden económico y social justo; Consolidar un Estado de Derecho que asegure el imperio de la ley como expresión de la voluntad popular ; Proteger a todos los españoles y pueblos de España en el ejercicio de los derechos humanos, sus culturas y tradiciones, lenguas e instituciones ; Promover el progreso de la cultura y de la economía para asegurar a todos una digna calidad de vida ; Establecer una sociedad democrática avanzada, y Colaborar en el fortalecimiento de unas relaciones pacíficas y de eficaz cooperación entre todos los pueblos de la Tierra ».

61 Gli imprenditori hanno sempre sostenuto tale strumento. SEBASTIÁN DE ERICE, J.P.: "Cooperación para el desarrollo: la perspectiva empresarial", Sistema,1995, p.181-186.

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Nel febbraio dell'86, viene istituita la CICI (Comisión Interministerial de Cooperación Internacional), che ha il compito di approvare il Paci. Il Consiglio dei Ministri invece ha assunto il compito istituzionale di elaborare le líneas directrices de política española para la cooperación al desarrollo, al fine di rendere compatibili le due fonti di aiuti allo sviluppo: il FAD e i doni. Esse sono state emanate nell'87, poi nel '92 e nel '94, ma sembra che il coordinamento non sia stato molto efficace. Nel novembre dell' 88, viene costituita un'agenzia tecnica, alle strette dipendenze del MAEC: la OPE (Oficina de Planificación y Evaluación). Nel '94, l'AECI è stata poi ristrutturata in due direzioni generali62: una per l'America Latina63, l'altra per paesi arabi, Mediterraneo e PVS64. L'agenzia dispone di una rete all'estero di OTC (Oficinas técnicas de cooperación)65: su 26, 19 in America Latina, 3 nel Maghreb66, poi in Africa e nelle Filippine. Questi uffici lavorano in collaborazione con le ambasciate, che hanno un coordinatore della cooperazione. L'AECI è dunque un ente pubblico, di natura esecutiva che dipende in via gerarchica dalla SECIPI del MAEC, dove la modalità di ingresso è il concorso generalista: la maggioranza dei funzionari è rappresentata da diplomatici67. Nel '91, la Spagna entra nel Dac dell'OCSE, che fungerà da forte stimolo per le riforme. Vi sono infatti due indagini parlamentari sulla cooperazione: la prima del Congresso68, la seconda del Senato69. In seguito ai due rapporti, nel maggio del '95 viene istituito il Consejo de cooperación al desarrollo, un organismo consultivo con rappresentanti della pubblica amministrazione e dei settori sociali interessati. Nel corso degli ultimi anni, hanno abbondato comunque le critiche degli osservatori. La prima riguarda la frammentazione del processo decisionale, attraverso la coabitazione fra le due amministrazioni statali responsabili dello stanziamento dei doni e dei crediti di aiuto: il

62 Veniva così soppressa la Direccion General de cooperación técnica internacional, che era stata istituita nel '70. Dalla SECIPI dipendono, oltre che la OPE, anche due DG: di relaciones económicas internacionales, di relaciones culturales y científicas -la seconda era stata istituita nel '45. 63 Nel '47 fu costituito l'Instituto de cultura hispánica, che poi diventò il Centro iberoamericano de cooperación ('77) e poi l'Instituto de cooperación iberoamericana, che nel '79 venne vincolato alla costituzione. Di fatto, l'istituto si organizzò come una DG, con tre sotto/direzioni: culturale, economica, e tecnico/scientifica. Nell'84 venne lanciato il Plan de cooperación integral con Centro-américa. L'ICI è stato dunque integrato nell'AECI. 64 All'inizio, l'AECI era costituita, oltre che dall'ICI, da: l'ICMA (Instituto de cooperación con el mundo arabe) e l'ICD (Instituto de cooperación para el desarrollo); questi si sono poi fusi nell'Instituto de cooperación con el mundo arabe, Mediterráneo y países en desarrollo. Nell'81, venne creata la Comisión nacional de cooperación con Guinea Ecuatorial 65 Le equivalenti delle Unità Tecniche Locali italiane 66 In Algeria, Marocco e Tunisia 67 La qualificazione nel campo della cooperazione avviene attraverso corsi di formazione; l'ingresso di tecnici a contratto è previsto, ma solo come eccezione e tale strumento viene sempre meno usato; la tendenza per il futuro è quella di rendere funzionari tutti i precari. 68 In tale rapporto veniva sancita anche la proporzione degli aiuti fra le varie regioni: AL 45%, Maghreb 30% GE 15%, altri paesi 10%. Congreso de los Diputados: Informe sobre los objectivos y líneas directrices de la política española de cooperación y ayuda al desarrollo, 26-1-92. 69 I senatori auspicavano l'aumento della cooperazione allo 0.7% del PIL, obiettivo già definito nell'87, ma di fatto non è stato mai raggiunto neanche lo 0.3%. Va anche sottolineato che negli ultimi anni ('93/'96), gli aiuti spagnoli sono calati. Senado: Informe de la ponencia de estudio de la política española de cooperación para el desarrollo, 22-11-94.

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MAEC e la SEC; tale struttura organizzativa infatti renderebbe difficile il coordinamento. Inoltre, vi sarebbero notevoli difficoltà di programmazione, legate soprattutto alle modalità di gestione del PACI: le spese programmate hanno sempre differito da quelle realmente effettuate70. Il terzo punto riguarda la scarsa autonomia dell'AECI, a cui si può rimediare con due misure: da un lato, ricorrere in misura maggiore a personale specializzato, riducendo la rotazione del personale; dall'altro cambiando la struttura giuridica dell'agenzia, rendendola un ente privato. Nessuna forza politica comunque ha mai prospettato l'adozione di quest'ultima misura. Altri due problemi sono stati l'eccessiva dispersione nei paesi destinatari dei doni (84 nel '93) e lo scarso approfondimento del momento della valutazione ex post71. Molti hanno invocato la necessità dell'adozione di una legge sulla cooperazione. Nel '95, il PSOE aveva elaborato un progetto di legge, che però non era stato portato a compimento. Il PP ha presentato una nuova proposta nel '96 e da allora si è sviluppato un intenso dibattito sull'approvazione della legge sulla cooperazione. Nell'aprile del '98 il Congresso ha approvato la nuova legge che è stata ratificata dal Senato nel giugno: il PSOE ha votato a favore, dopo aver introdotto alcuni emendamenti alla prima proposta del PP. Il partito di Aznar aveva affidato al MAEC la competenza della cooperazione, che doveva avvenire "sin perjuicio de las competencias de otros ministerios". Il testo finale definisce più chiaramente che il MAEC è responsabile della politica di cooperazione, che è parte dell'azione estera dello stato spagnolo, e del coordinamento inter-ministeriale. La nuova legge introduce la Comisión Interterritorial, che coordina l'azione dello stato con quello degli enti autonomi e prevede che venga elaborato uno statuto della cooperazione che deve essere approvato dal governo. Si fa poi riferimento alla necessità di una programmazione su 4 anni, accoppiata a quella annuale. È soprattutto il Plan Director che dovrebbe dare un maggior potere di intervento al MAEC, ai danni quindi della SEC. Tale riforma prevede anche il requisito dello sviluppo di strategie per ogni paese (art. 8.2)72, nonché per zone geografiche e settori (tipo quello ambientale). Il primo Plan Director viene elaborato nel '98 da una commissione di esperti e sottoposto all'analisi della SECIPI (attraverso l'OPE) che lo propone al governo (quindi alla SEC e al Ministero di Economia) per l'approvazione attraverso la CICI. Tale documento infine viene dibattuto e votato anche dal Parlamento. In ogni caso, va precisato che in Spagna l'utilizzo dei country programs è stato finora limitato proprio a causa della scissione del processo decisionale in due ministeri.

70 ALONSO, J.A.: "España y la ayuda oficial al desarrollo" in VV.AA.: La cooperación internacional para el desarrollo: ámbito y configuración . Madrid, Cideal, 1994, p. 217-330. 71GRUPO DE ESTUDIOS SOBRE ACCIONES DE DESARROLLO Y COOPERACIÓN: "La gestión en la cooperación española para el desarrollo", Tiempo de Paz 72 “El Plan Director, elemento básico de la planificación de la política española de cooperación internacional para el desarrollo, se formulará cuatrienalmente y contendrá las líneas generales y directrices básicas de la política española de cooperación internacional para el desarrollo, señalando los objetivos y prioridades, así como los recursos presupuestarios indicativos que orientarán la actuación de la cooperación española durante ese período, incorporando los documentos de estrategia relativos a cada sector de la cooperación, zona geográfica y países que sean objeto preferente de la cooperación.”

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Prima della nuova legge, tutt'al più, alcune direttrici per singoli paesi venivano fissate all'interno del CICI (soprattutto) e del CIFAD. Andrà valutato in futuro quanto e come lo strumento del Plan Director sarà utilizzato: la legge comunque chiarisce (art. 19.373) che tali competenze spettano alla SECIPI e non all'AECI. La SEC si è opposta alla proposta del PSOE sulla creazione dei Fondos de Cooperación al Desarrollo (FOCOD), in sostituzione del FAD, e che sarebbero stati gestiti autonomamente dal MAEC In ogni caso, non sembra che il PSOE cercasse la penalizzazione della SEC: mirava solo a separare i crediti alle esportazioni dal settore della "cooperazione"; tale tentativo è però fallito. MAEC e SEC hanno concordato il mantenimento del sistema basato sulla gestione separata dei doni e dei crediti di aiuto. Si creava poi una terza categoria, quella dei crediti di orientación social, destinati a combattere il problema della povertà e da gestire congiuntamente dai due ministeri. In seguito alla discussione in sede di commissione parlamentare, che terminò i suoi lavori nell'aprile del '96, fu apportata un'importante modifica, e cioè che gli strumenti finanziari previsti dall'art. 28 dovessero essere subordinati ai principi, gli obiettivi e priorità fissate nella legge. Attraverso tale passaggio, si intendeva precisare che gli aiuti all'export potevano essere ammessi solo se compatibili alle finalità dello sviluppo dei paesi poveri. La legge poi ha istituzionalizzato la sopravvivenza del CICI, senza chiarire la sorte del CIFAD74. Le critiche avanzate alla nuova legislazione hanno riguardato due questioni: la mancata esplicitazione sulla necessità di una maggiore selettività nella scelta dei PVS e lo scarso peso assegnato al momento della valutazione ex post dei progetti. In sintesi, non è ancora chiaro quale sarà l'esito finale del processo decisionale in materia di cooperazione. In passato vigeva una gestione bicefala, con uno scarso funzionamento del coordinamento. Il FAD era di fatto uno strumento che serviva a colmare le lacune delle imprese locali, così poco propense ad esportare; non deve sorprendere che fosse la SEC a gestirlo. Non va poi dimenticato che la Spagna fino agli anni '70 era soprattutto un paese ricettore di aiuti internazionali. La nuova legge in teoria lascia maggiori margini di intervento al MAEC, ma non è assicurato che l'autonomia della SEC venga ridotta. Molto dipenderà dall'adozione dei successivi regolamenti e soprattutto dall'andamento delle prassi politiche. Anche in tale settore della politica estera, esiste una convergenza fra PP e PSOE nell'assegnare al settore pubblico la gestione degli strumenti tecnici della cooperazione, in ogni caso nessun partito ha proposto mai la privatizzazione dell'AECI. La distribuzione degli aiuti ribadisce le conclusioni riguardo alle preferenze spagnole in campo di sostegno diplomatico ed economico alle esportazioni; inoltre viene confermato il sotto/dimensionamento della "regione" del Mediterraneo.

73“La Secretaría de Estado para la Cooperación Internacional y para Iberoamérica, previo dictamen del Consejo de Cooperación al Desarrollo y de la Comisión Interterritorial de Cooperación, formula la propuesta del Plan Director y del Plan Anual, así como la definición de las prioridades territoriales y sectoriales a que se refiere el articolo 5”. 74 La legge prevede la sua sopravvivenza solo nel breve periodo, in attesa cioè dei nuovi regolamenti.

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Va sottolineato che la gerarchia delle priorità fissate dal parlamento sono state rispettate solo per ciò che riguarda l'America Latina, che si assesta sul 50% circa degli aiuti. Inferiore al previsto è l'esposizione dei paesi arabi (sul 10%), mentre il restante 40% circa si divide tra Africa e Asia, con una prevalenza del primo continente nei doni e del secondo nei crediti FAD75. Le priorità geografiche "regionali" del FAD sono quindi più o meno le stesse dei doni, cambiano semmai i paesi destinatari.

1.2 La Legge n° 23 del 7 Luglio 1998 L’attuale legge sulla cooperazione internazionale allo sviluppo si sviluppa su sei punti fondamentali, che si sviluppano in sei capitoli. Il primo capitolo è dedicato alla politica spagnola di cooperazione allo sviluppo, definisce il suo regime giuridico, gli obiettivi e l’ambito di applicazione, stabilisce i principi, e le priorità. Il secondo capitolo si riferisce alla pianificazione e include gli strumenti e le modalità della cooperazione pubblica spagnola, compresa la cooperazione tecnica, economica e finanziaria e distingue i canali di finanziamento, bilaterali e multilaterali. Il terzo attribuisce le competenze agli organi operativi, descrivendo gli organi reggenti (Camera dei deputati, Governo, Ministro degli esteri, altri Ministeri e la Segreteria di Stato per la cooperazione internazionale e per i paesi latino-americani), gli organi consultivi e di coordinamento (Consiglio di cooperazione allo sviluppo, Commissione interministeriale di cooperazione internazionale e la Commissione interterritoriale di cooperazione, creata dalla stessa legge), gli organi esecutivi come l’Agenzia Spagnola di Cooperazione Internazionale, la cui organizzazione, fini, funzioni e competenze sono regolate da una normativa specifica, e l’Ufficio Tecnico di Cooperazione. Le risorse materiali assegnate all’esecuzione della politica di sviluppo si distinguono tra il canale multilaterale e bilaterale, descritti nel capitolo quarto. E’ previsto che si possano stabilire dei programmi preventivi pluriennali. Il capitolo quinto è dedicato al personale dell’amministrazione dello Stato distinto tra il personale che lavora nel territorio nazionale e chi invece lavora all’estero. Il ruolo della cooperazione non governativa è definito nel capitolo 6, inserendo i termini del sostegno statale a questo tipo di cooperazione, la definizione delle organizzazioni private di cooperazione allo sviluppo, il sistema di aiuti e sovvenzioni, i regolamenti attraverso una normativa specifica e lo stabilimento degli incentivi fiscali. Per quanto riguarda il regime fiscale delle ONG e gli incentivi applicabili. La Legge prevede che si applichi il regime contemplato nel titolo II della Legge 30 del 24 Novembre del 1994, riguardante le Fondazioni e gli Incentivi fiscali e la partecipazione privata alla attività di interesse generale, sempre che dette organizzazioni rispettino la forma giuridica e abbiamo i requisiti necessari richiesti dalla legge.

75 La prima fase della cooperazione spagnola, che arriva più o meno sino all'88, è stata caratterizzata da un andamento incerto, con un forte calo dei fondi nell'83. La seconda, dall'88 al '92, testimonia un'espansione accelerata, con volumi di aiuti che si triplicano rispetto alla fase precedente. Nell'ultimo periodo, si assiste ad un nuovo calo quantitativo dei fondi di cooperazione

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Riguardo ciò vengono introdotte delle esenzioni alle attività di cooperazione per tutti quei soggetti privati, associazioni e organizzazioni che destinano risorse a favore della cooperazione internazionale allo sviluppo.

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2. Stato attuale della politica di cooperazione spagnola

Negli ultimi anni la cooperazione spagnola ha sperimentato uno sviluppo straordinario grazie all’incremento delle risorse destinate ai PVS, dovuto a tutte le Amministrazioni Centrali, Comunità Autonome, Corporazioni locali e società civile, che hanno portato ad abbracciare gli obiettivi fissati dalle Nazioni Unite. Senza dubbio l’aumento dei fondi dedicati alla cooperazione non deve però far dimenticare le gravi disfunzioni che patiscono i vari programmi di aiuti. L’adozione di una Legge sulla Cooperazione (23/‘98) dà l’opportunità di articolare in un unico testo le varie misure e gli strumenti che sono andati a configurarsi nella politica di sviluppo spagnola. Nonostante si sia arrivati a un tale livello di integrazione normativa e di codifica, è necessario ancora rivedere e rendere attuale la cornice oggi esistente al fine di rispondere in maniera adeguata a un realtà in cambiamento. Allo stesso tempo la Legge di Cooperazione non può eludere i problemi che presenta lo scenario attuale: eccessiva rigidità nei procedimenti amministrativi, necessità di una maggiore trasparenza, meccanismi di valutazione oggettivi, etc. Il gran numero di entità e istituzioni che partecipano alla politica di cooperazione ha portato allo sviluppo di un programma di aiuti decentrato proprio in un settore dove è necessario raggiungere un adeguata collaborazione, complementarietà e coordinamento, che assicuri e garantisca una migliore efficacia e coerenza dei programmi di aiuti. La necessità di riunire sotto un unico tetto gli attori della cooperazione fa si che sia imprescindibile che il Parlamento partecipi alla formulazione delle linee essenziali e nella definizione delle priorità strategiche de questa politica. Per questo motivo, l’organo del governo competente a coordinare la politica di cooperazione deve disporre di una sufficiente manovra d’azione, mezzi e competenze per garantire una maggiore sintonia di tutti gli agenti amministrativi in modo che la politica spagnola venga coordinata con i principali organismi internazionali. Nel Dicembre 2006 il Consiglio di Cooperazione, con la partecipazione delle ONG, i sindacati, le università e le organizzazioni di imprenditori, approvò all’unanimità in nuovo Piano Annuale di Cooperazione Internazionale 2007 che implica un aumento fino allo 0,42% del PIL degli aiuti ufficiali allo sviluppo, un livello massimo nella storia della cooperazione spagnola. Il documento sviluppa gli obiettivi strategici e i criteri di intervento del Piano Direttorio di Cooperazione Spagnola 2005-2008, per l’anno corrente e assegna le risorse disponibili ad ognuno degli obiettivi e strumenti precisati. Il testo raccoglie tre punti fondamentali: incrementare l’assegnazione per la copertura dei bisogni sociali e dei servizi sociali di base; fomentare l’armonizzazione tra gli agenti e con gli altri donatori; aumentare la collaborazione della Spagna con gli organismi multilaterali. In relazione al primo obiettivo il PACI 2007 intende favorire l’incremento degli aiuti mirati alla lotta contro la fame, l’educazione di base, la salute di base e riproduttiva e una maggiore attenzione alle fasce più vulnerabili e più suscettibili di esclusione sociale in ogni sua forma. Si rafforzano inoltre gli interventi per l’accesso all’acqua potabile e interventi di bonifica .

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La seconda raccomandazione mira a perseguire l’armonizzazione tra tutti gli attori della cooperazione, donatori e riceventi, nei termini della Dichiarazione di Parigi sull’efficacia degli aiuti. Il terzo obiettivo richiama la collaborazione della Spagna con gli altri organismi internazionali maggiormente impegnati nel perseguimento degli Obiettivi del Millennio. Riguardo ciò, il contributo della Spagna a questi organismi multilaterali è andato aumentando, passando da 93 milioni di euro nel 2005 a più di 481 milioni nel 2006 e supereranno i 600 milioni nel 2007. Inoltre la Spagna con il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite si è messa in marcia per raggiungere più velocemente gli Obiettivi. Questo accordo è stato sottoscritto nel Dicembre 2006 a New York con il Segretario di Stato spagnolo Leire Pajin e l’amministratore del Programma della Nazioni Unite Kemal Dervis. L’apporto spagnolo a questo fondo sarà di 528 milioni di euro. Con questa scommessa la cooperazione spagnola ratifica il suo impegno per i perseguimento degli Obiettivi del Millennio, una cooperazione internazionale più ampia e il multilateralismo.

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3. La Spagna e l’Ayuda Oficial al Desarollo L’aumento degli aiuti pianificati dal Governo per il 2005, 2006 e 2007 (con livelli dello 0,31%, 0,35% e 0,42% -previsto- del PIL) ratificano la volontà del governo di compiere i compromessi quantitativi assunti a livello nazionale e internazionale. Senza dubbio l’analisi della politica spagnola nel 2005 mostra che ancora resta un lungo cammino da percorrere perché la Spagna possa occupare un posto ambìto nella comunità internazionale: da una parte continua ad essere tra i paesi europei che realizza il minore sforzo in relazione agli aiuti, dall’altra l’aumento dell’APS aumenta a causa della cancellazione del debito. Nel primo anno di implementazione del Piano Direttorio della Cooperazione spagnola 2005-2008 l’aiuto pubblico allo sviluppo aumentò in termini assoluti del 22,3% passando da 1.985 milioni a 2.428 milioni di euro nel 2005. Questo aumento costituisce uno dei maggiori incrementi della storia della cooperazione spagnola e pertanto deve essere ben accolto.76 In termini relativi la Spagna destinò lo 0,27% del suo reddito nazionale, tre centesimi in più rispetto al 200477. Nonostante il significativo aumento la Spagna continua ad occupare basse posizioni nelle classifiche degli aiuti con gli altri paesi donatori. Ciò è dovuto al basso livello di partenza e soprattutto dal fatto che anche tutti gli altri attori della cooperazione hanno avuto ingenti incrementi nell’anno 2005. Così in Spagna si mantenne,in quest’anno, il decimo posto nella graduatoria dei donatori in termini assoluti e continua in termini relativi ad essere situata tra i meno generosi, soprattutto se comparata ai paesi dell’UE78, il terzultimo paese prima di Grecia e Portogallo.

76 Questo incremento è paragonabile con quello sperimentato nel 2001 e che fu dovuto all’operazione CELGUSA 77 I dati preliminari pubblicati dal Dac nell’aprile 2006 segnalano che la Spagna destinò lo 0,27% del PIL nell’APS, che la colloca al sedicesimo posto tra i paesi donatori 78 Ci si riferisce all’Europa dei 15

Evoluzione comparata dello sforzo finanziario spagn olo tra i membri DAC e Ue

Fonte: OCSE

0

0,1

0,2

0,3

0,4

0,5

1988-1989

1993-1994

2000 2001 2002 2003 2004 2005

SpagnaUeDAC

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Se si prende come riferimento l’evoluzione del periodo 1988-1989 si osserva che il livello di aiuti spagnolo è aumentato in un contesto in cui gli aiuti DAC e UE diminuivano. Nonostante ciò la percentuale destinata dalla Spagna si è mantenuta più bassa rispetto alla media del DAC e significativamente minore alla media UE In termini pro capite l’aiuto pubblico fu di 68.3 dollari per abitante, 11.89 dollari in più dell’anno prima. Così come nel 2004 questa cifra colloca la Spagna tra le ultime quattro posizioni sempre davanti a Portogallo, Grecia e Nuova Zelanda . Bisogna evidenziare due aspetti rilevanti e tradizionalmente critici della politica di cooperazione spagnola: il grado di concessionalità (la percentuale del dono) e il peso degli aiuti legati. Riguardo il primo aspetto, il risultato della valutazione delle condizioni finanziarie del DAC per i periodo 2003-2004 mostrano che la Spagna è stato il secondo paese con il minor tasso di concessionalità negli aiuti pubblici bilaterali. Includendo gli aiuti multilaterali la percentuale aumenta però la Spagna rimane sempre nello stesso posto. Si distaccano particolarmente le condizioni finanziarie concesse ai pesi meno avanzati. Tra i donatori DAC la Spagna concede ai PMA le peggiori condizioni finanziarie. Sedici donatori DAC su 22 stabiliscono una componente di concessionalità del 100% in questi paesi. Senza dubbio questi dati porteranno il governo spagnolo a reimpostare profondamente le condizioni finanziarie dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Riguardo al peso degli aiuti legati nell’insieme dell’aiuto pubblico bilaterale, secondo gli ultimi dati, del 2004, la Spagna continua ad occupare il quarto posto, tra i paesi che più ricorrono all’aiuto legato, superata solo da Grecia, Austria e Canada. Mentre la media dei paesi DAC si situa intorno all’8,3% degli aiuti bilaterali, la percentuale di aiuti legati spagnola sale al 32,3%79. Nonostante ciò si nota nell’ultimo periodo un evoluzione positiva di questo aspetto. Secondo i dati del PACI 2005 la percentuale di aiuto legato si è ridotta fino al 14,1%. Questi dati mostrano che sia il livello di concessionalità, che l’aiuto legato sono sfide che stanno in cima al tavolo di lavoro della cooperazione spagnola, per arrivare a compiere gli impegni presi con la Dichiarazione di Parigi. L’aumento effettivo che si è avuto nelle risorse per la cooperazione spagnola nel 2005 è data soprattutto dalla cancellazione del debito, che arrivò a 502 milioni di euro dell’APS (un 20,7% del totale e un 33,5% di quello bilaterale). Questo posiziona la Spagna tra i paesi in cui la cancellazione del debito occupa un peso maggiore negli aiuti totali. Se togliamo questa voce gli aiuti spagnoli sono aumentati solo del 5,6% (102,4 milioni di euro) rispetto all’anno prima. Ma è necessario chiarire che l’aumento nel condono del debito non deve far parte del computo degli effettivi aiuti allo sviluppo. Da un lato si sta assolvendo all’impegno preso a Monterrey però si nota che nessuno dei paesi in cui è avvenuta la cancellazione del debito nel 2005 (Irak, Madagascar e Repubblica Democratica del Congo) fa parte delle priorità della cooperazione spagnola. Secondo la relazione annuale del MAEC, gran parte dell’incremento del FAD si deve all’aumento delle devoluzioni dei crediti ricevuti e previsti per l’anno sucessivo. Questi pagamenti, nel momento di devolversi alle casse dello Stato si convertono in contributi a organismi internazionali attraverso assegnazioni al capitolo VIII delle attività

79 Bisogna però chiarire che l’UE, la Finlandia, l’Italia e il Lussemburgo non informano riguardo al carattere legato dei propri aiuti e questo potrebbe modificare la posizione della Spagna.

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finanziarie. Sebbene questo meccanismo può sembrare inizialmente un idea alternativa per raggiungere gli impegni presi, non è nei fatti sostenibile. Infatti la meta importante non è arrivare allo 0,5% dell’APS/PIL a qualunque costo, ma farlo in modo che si garantisca la sostenibilità e la qualità degli obblighi presi dalla Spagna. Per questo l’incremento deve avvenire attraverso la crescita della cooperazione bilaterale non rimborsabile (progetti e programmi dell’AECI, con finanziamenti a ONG e azione umanitaria, così come i contributi alle Nazioni Unite e ai fondi globali senza l’intromissione del FAD). Perché si implementino con esito positivo entrambe le opzioni queste devono avere una maggiore capacità di gestione e visione strategica. Per questo è necessario arrivare a una riforma dell’AECI e della definizione della strategia multilaterale in cui si includano quelle iniziative e quelle agenzie per la cooperazione che agiscono ognuna con la sua coerenza e le sue priorità senza un coordinamento collettivo. La cooperazione spagnola, nel 2005 destinò 454,2 milioni di euro al finanziamento di programmi e progetti, una cifra che supera di 134 milioni di euro la quantità destinata nell’anno precedente. Il peso relativo continuò però ad essere basso rispetto agli altri donatori. E’ allarmante poi sapere che nel PACI 2006 questa somma destinata ai programmi e progetti scende del 15,9% dell’aiuto pubblico. I principali apporti furono diretti all’appoggio di Fondi tematici per la salute durante la gravidanza (2 milioni di euro), al Programma di sicurezza alimentare (PESA) in Centro America (1,9 milioni di euro) e al Programma per lo sradicamento del lavoro minorile nell’America Latina (1,6 milioni di euro). In particolare la cooperazione spagnola utilizza negli ultimi anni nuovi strumenti di cooperazione per approcci settoriali ampli e l’appoggio preventivo a cui destinò 22 milioni di euro nel 2005. Spicca in questo caso il compromesso preso tramite l’Iniziativa Rapida per l’educazione. L’accordo include 5 milioni di euro all’anno, che sono diventati 7 milioni per il 2006. Inoltre il Governo ha contribuito con 10 milioni di euro per l’Honduras nel biennio 2005-2006 e con 2 milioni per il Vietnam nel 2006. Per farsi carico di questi nuovi strumenti nel 2005 venne istituito una nuova unità, il Gabinetto Tecnico nell’AECI per attuare nel modo migliore gli impegni presi dal Governo spagnolo. E’ significativo sapere che attraverso il FAD, la Spagna riceve un totale di 163 milioni di euro da 33 paesi in via di sviluppo e se si presta attenzione 23 di questi stanno pagando al FAD più denaro di quanto ne hanno ricevuto dal fondo stesso, paesi come Burkina Faso, Ciad, Etiopia o Capo Verde. Se poi teniamo conto l’insieme dei fondi, cinque paesi in via di sviluppo (Messico, Venezuela, Algeria, Camerun, e Uganda) si sono convertiti in donatori, trasferendo alla Spagna 32,5 milioni di euro. Inoltre notiamo come la distribuzione geografica delle risorse del Fondo non coincide con le zone prioritarie della cooperazione spagnola. La metà dei paesi beneficiari non sono nella lista dei paesi prioritari secondo il Piano direttorio 200580 e dei cinque principali recettori di aiuti solo il Nicaragua è nella lista dei prioritari. Particolarmente preoccupante è il mantenimento degli aiuti legati con i paesi altamente indebitati (HICP) e con quelli meno avanzati e riguardo la concessione di crediti a paesi colpiti da disastri naturali.

80 I paesi recettori erano: Turchia, Algeria, Cina, Kenya, Filippine, Camerun, Mauritania, Banghladesh e Capo Verde.

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Del totale dei 49 paesi che nel 2005 avevano un vincolo finanziario con la Spagna tramite il FAD, 16 sono tra i paesi più poveri e/o indebitati: 7 paesi sono HICP e PMA, altri 7 sono HICP e 2 sono PMA. D’altra parte non si può dimenticare che le risorse FAD sono state la principale componente degli aiuti destinati dalla Spagna per il disastro tsunami81. A causa dell’inefficace e inefficiente assegnazione di questi 50 milioni del FAD, sembra che il Governo abbia prescisso dalle risorse di questo per le successive crisi umanitarie, come il terremoto in Pakistan e la tormenta tropicale Stan. Questo non ricorso al FAD rappresenta la volontà, secondo molti, di fare un passo avanti verso una migliore qualità degli aiuti umanitari. 3.1 Distribuzione settoriale dell’APS spagnolo Il significativo peso delle operazione di cancellazione del debito nel 2005 hanno condizionato enormemente la distribuzione settoriale degli aiuti spagnoli, che in quest’anno presenta tendenze più simili agli altri paesi UE e DAC. L’aiuto a settori economici e sociali, che nel corso degli anni ha occupato i ¾ del totale degli aiuti, diminuì fino a coprire il 55%, d’altra parte gli aiuti destinati a settori con fini di sviluppo in cui è compresa la voce del debito, sono aumentate fino al 45% del totale. All’interno del settore economico e sociale, la parte delle infrastrutture e servizi sociali concentrò la maggior percentuale delle risorse (30,6%) davanti a quelle destinate a infrastrutture economiche il cui peso è quasi la metà dell’anno precedente. Questo cambiamento sembra avvertire un minor interesse per le attività delle imprese spagnole che investono nei PVS e quindi un orientamento della politica spagnola verso temi più generali come la lotta alla povertà. Nei settori più generali che mirano allo sviluppo, in cui è inserita la cancellazione del debito, si osserva una lieve crescita delle risorse verso la somministrazione di beni e aiuti a programmi. Anche gli aiuti per le emergenze umanitarie riacquistano punti dopo il calo avuto nel 2004. Un attenzione speciale va ai finanziamenti dati per i servizi sociali di base (educazione, salute di base e riproduttiva, accesso all’acqua potabile etc.) per rispondere all’impegno preso al Vertice di Copenhagen sullo sviluppo sociale nel 1995 secondo cui i governi donatori devono destinare il 20% dei loro aiuti per finanziare i servizi di base. Secondo le stime del governo spagnolo, nel 2005 la Spagna avrebbe destinato 194 milioni di euro, il 21,29% dell’APS bilaterale, portandola per la prima volta a raggiungere un obiettivo fissato internazionalmente82. Senza considerare il contributo del FAD, giudicato non adeguato per questo fine la percentuale si attesta intorno al 17%.

81 Il 70% del totale degli aiuti per lo tsunami (70 milioni di euro) provenne dal Fondo (50 milioni), mentre il 17% consistette in donazioni dirette 82 Dal calcolo di questa percentuale, negli anni successivi sono esclusi i crediti del Fad, per due ragioni, il contributo di questa istituzione per lo sradicamento della povertà è sempre stata criticata e non esiste una valutazione completa di questo strumento, inoltre lo spirito creditizio e il carattere legato del Fad fa si che diventi uno strumento inadeguato per finanziare necessità di base.

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Per analizzare il ruolo dei servizi di base nella politica spagnola si può notare il peso che ogni attore ha nel finanziare questo settore. Coloro che mostrano più interesse sono il Ministero della Sanità (39.52%), quello della Difesa (38.97%) seguito da forme di cooperazione decentralizzata come comunità autonome (28.69%), entità autonome (21.62%) e l’AECI (22.52%). Si nota che grande peso ha avuto il Ministero della Difesa, attore non direttamente imputabile per assolvere a questo compito in quest’area di intervento, mentre rimane costante l’azione decentralizzata, grazie al ruolo delle ONG nella gestione delle risorse. La novità è che l’Agenzia spagnola per la cooperazione ha destinato da sola più del 20% dei suoi fondi, raggiungendo l’obiettivo fissato a Copenaghen che prima ho descritto All’interno dei settori sociali di base la maggior parte delle risorse è diretta al rinforzamento della salute di base (39.19%) seguita dall’educazione di base (23.24%) e dalla somministrazione dell’acqua potabile (16.8%). Così come nel 2004 viene confermata la tendenza all’aumento dei fondi per l’educazione a discapito delle risorse per l’acqua potabile.

Aiuti per settore a :

2004 2005 2004 2005

Infrastrutture e servizi sociali 439.514.163 509.491.353 34.92 30.56 Infrastrutture e servizi economici 221.460.456 161.890.327 17.60 9.71

Settori produttivi 96.711.8887 84.394.403 7.68 5.06

Multisettoriale 150.455.772 155.458.530 11.95 9.32 Totale settori economico e sociale 908.142.278 911.234.613 72.16 54.65

Aiuti non settoriali

Beni e aiuti generali a programmi 7.241.610 13.817.463 0.58 0.83

Operazioni di debito 161.164.144 502.073.353 12.81 30.11

Aiuti per le emergenze 68.086.141 108.076.351 5.41 6.48 Costi amministrativi dei donatori 67.401.631 83.051.947 5.36 4.98

Aiuti alle ONG 4.387.302 6.553.706 0.35 0.39 Non classificabili 42.106.329 42.498.320 3.35 2.55

Totale aiuti con fini generici di sviluppo

350.387.157 756.071.140 27.84 45.35

Totale aiuto netto

1.258.529.435

1.667.305.753

100

100

Fonte: Seguimento PACI 2005

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3.2 Distribuzione geografica degli aiuti L’analisi della distribuzione geografica della cooperazione allo sviluppo spagnola del 2005 evidenzia la crescita delle risorse verso l’Africa subsahariana, con 470 milioni di euro che concentrò il 31,6% dell’APS bilaterale. Questa regione duplicò il suo peso rispetto agli anni precedenti (15%) avvicinandosi alla media dei paesi DAC (35%). D’altra parte anche Medio Oriente e Nord Africa hanno aumentato la loro quota rispetto al 2003-2004 (17%) assorbendo il 20% del totale (299 milioni di euro). Al contrario l’America Latina e i Carabi diminuirono la loro portata con 536,8 milioni di euro e il 36% degli aiuti spagnoli. In questo caso però nonostante la diminuzione degli aiuti il suo peso si mantenne superiore alla media dei paesi DAC di questo periodo (12%). Però sappiamo che guardare i soli numeri non è un buon metodo per capire le dinamiche di sviluppo, infatti la situazione cambia notevolmente se analizziamo il peso che ha avuto la cancellazione del debito in molti PVS. Il 2005 è stato infatti un anno molto importante per il condono di parte del debito che si è concentrato soprattutto nei paesi dell’Africa (61%) seguita dal Medio Oriente e Nord Africa (29,6%) e finalmente dall’America Latina (9,4%).

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Eliminando queste operazioni la distribuzione geografica torna alla sua tradizionale composizione. L’Africa subsahariana occupa il 17%, simile alla percentuale del Medio Oriente e Nord Africa mentre l’America Latina torna con un 50%. Pertanto si può dire che nel 2005, senza la distorsione creata dalle operazioni di debito la Spagna mantiene la sua specializzazione verso l’America Latina mostrando una scarsa attenzione al “continente nero”. La distribuzione degli aiuti in base al livelli di reddito dei PVS mostra alcune incoerenze. Includendo le operazione di debito la Spagna destinò nel 2005 il 56% degli aiuti ai paesi con reddito medio-basso, il 24% ai paesi a basso reddito e il 20% ai paesi meno avanzati. Se sommiamo il peso degli aiuti diretto a entrambi i gruppi nel 2003 2004 e 2005, senza contare la cancellazione del debito, si osserva un minore orientamento verso i paesi più bisognosi. Mentre nel 2003-2004 il 30,6% degli aiuti fu diretto ai paesi più poveri, nel 2005 questa percentuale si riduce fino al 27%. Se si guarda questa percentuale in relazione al reddito, i dati del DAC segnalano che nel 2004 la Spagna dedicò al gruppo dei paesi meno avanzati soltanto lo 0,04% del suo PIL, una quarta parte dell’impegno preso a livello internazionale che impone di destinare tra lo 0,15 e lo 0,20%. Questa percentuale posiziona la Spagna tra gli ultimi paesi donatori superando solo la Grecia il Giappone e gli Stati Uniti. Il debito rappresentò il 63% del totale degli aiuti destinato ai dieci paesi che ricevettero il maggior volume di aiuti e nello specifico per i primi tre (Irak, Madagascar e RDC) che occupò più del 95%. Dei dieci principali recettori degli aiuti del 2005, tre appartengono all’Africa subsahariana, due dei quali sono PMA (Madagascar e Senegal) e uno a basso reddito (Repubblica Democratica del Congo). Il resto, eccetto l’Irak, si situano nell’America Latina e appartengono agli strati a reddito medio con eccezione del Nicaragua. Chiama all’attenzione che nessuno dei tre principale recettori di aiuti del 2005 è un paese prioritario della cooperazione spagnola, e nel caso del Madagascar neanche di attenzione speciale.

Aiuto pubblico allo sviluppo 2005 senza cancellazione

del debitoFonte PACI 2005

17%

3%

15%

11%

50%

4%

Africa subsahariana

Centro e sud Asia

Medio Oriente eNord Africa

Asia e Oceania

America Latina eCaraibi

Europa

Aiuto pubblico allo sviluppo 2005

Fonte PACI 2005

30%

2%

19%7%

34%

8%

Africasubsahariana

Centro e sud Asia

Medio Oriente eNord Africa

Asia e Oceania

America Latina eCaraibi

Europa

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Questo è spiegato dal peso che la cancellazione del debito rappresenta, infatti senza considerare questa voce nessuno dei dieci principali paesi recettori appartengono all’Africa subsahariana e nessuno di questi è un paese meno avanzato e solo il Nicaragua è un paese a basso reddito. In definitiva il maggior orientamento della cooperazione spagnola si basa su decisioni adottate nella sfera internazionale e assunte dalla Spagna e non per cambiamenti nella distribuzione degli aiuti pianificato del Governo.

% incidenza APS totale nei dieci principali paesi recettori Fonte OCSE

1984-1985 1994-1995 2004-2005

- - Cina 7.6 Nicaragua 4.9

- - Messico 6.1 Honduras 4.5

- - Argentina 4 Iraq 4.1

- - Indonesia 3.2 Madagascar 3

- - Algeria 3.1 Ecuador 2.2

- - Ecuador 3.1 Perù 2.1

- - Costa d’Avorio 2.1 Bolivia 2

- - Honduras 2 Cina 1.8

- - Uruguay 1.9 Senegal 1.7

- - Marocco 1.9 Ghana 1.4

% APS nel Nord Africa - 9.8 9.3

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4. Gli attori della cooperazione spagnola

4.1 Il contributo dei ministeri L’amministrazione generale dello Stato destinò nel 2005 attraverso 14 ministeri 2.043 milioni di euro alla cooperazione allo sviluppo (84,1% degli aiuti totali) I tre ministeri principali, in ordine di peso nella quota d’aiuti sono stati il Ministero dell’Economia (39,6%) attraverso il quale si attualizzano le operazioni di debito e i contributi a organismi internazionali, il Ministero degli Esteri e della Cooperazione (36,06%) e il Ministero dell’Industria, Turismo(17,6%). Nonostante l’aumento sperimentato dal Ministero degli Esteri che passò dal gestire 337,6 milioni del 2004 al 457,3 milioni nel 2005, il maggior peso continua ad essere degli altri due ministeri che insieme apportano il 56,2 % delle risorse, Gli altri ministeri hanno un peso molto minore nel livello di aiuti, il Ministero della Difesa gestisce il 3% degli aiuti bilaterali e quello del Lavoro e degli Affari sociali solo il 2%.

Evoluzione della quota di partecipazione dei Ministeri negli aiuti bilaterali 2002-2005 (%)

2002 2003 2004 2005 Ministero degli Esteri e della Cooperazione

34.15 33.62 36.36 36.03

Ministero dell’Industria, Turismo e Commercio

35.46 17.6

Ministero dell’Economia 51.86 54.65 20.08 39.6 Ministero della Difesa 6.13 4.5 3.52 2.96 Ministero dell’educazione e della Scienza 2.88 0.69 0.79 0.69 Ministero del Lavoro e degli Affari sociali

2.51 3.07 2.60 2.03

Ministero dell’Interno 1.33 0.91 0.36 0.12 Altri Ministeri Fonte: Seguimento PACI 2005

1.14 2.56 0.83 0.97

4.2 Cooperazione decentrata: il contributo delle Comunità Autonome Tra i principali attori della cooperazione spagnola si incontrano le Comunità Autonome (CCAA), i comuni ed enti pubblici regionali e locali. Tutti questi formano parte di ciò che è chiamata cooperazione decentrata, la quale nel 2005 arrivò a 358,2 milioni di euro (25,7% dell’APS bilaterale), un 23,3 % in più del 2004 (321,4 milioni di euro).

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In termini assoluti la Generalitat Catalana, la Junta de Andalucia, il Gobierno Vasco e la Junta de Comunidades de Castilla-La Mancha in quest’ordine furono i principali donatori a livello di CCAA83. Il volume totale dell’APS sperimentò un aumento soprattutto nella comunità Castilla e Leon che aumento dell’85%. Questo aumento è importante tenendo conto del basso livello di aiuti destinato precedentemente. Si distaccano allo stesso modo gli incrementi dei governi catalano, cantabro e delle Baleari, tutti superiori al 40%. La Comunità di Navarra al contrario ridusse il suo contributi rispetto al 2004.

Cooperazione decentrata delle Comunità Autonome84

APS totale

APS/PNL %

APS pro capite

(euro)

2005 2004

Variazione

%

2005 2004 2005 2004

G.Catalana 44.102.616 31.357.699 +40.6 0.026 0.02 6.30 4.48 J.Andalucia 37.937.899 32.615.275 +16.3 0.030 0.029 4.83 4.15

G.Vasco 31.038.371 26.450.423 +17.3 0.056 0.051 14.61 12.45

Castilla-La Mancha

30.597.848 27.206.542 +12.5 0.1 0.095 16.15 14.36

C.Valenciana 21.641.553 21.492.526 +0.7 0.025 0.026 4.61 4.58 C.Madrid 21.627.261 17.392.384 +24.3 0.013 0.012 3.63 2.92

C.F.Navarra 16.643.187 16.729.644 -0.5 0.108 0.116 28.04 28.19

G.Baleares 11.652.875 8.130.417 +43.3 0.052 0.037 11.85 8.27

J.Castilla e Leon 8.931.840 4.781.873 +86.8 0.018 0.014 3.56 1.9 P.Asturias 8.723.940 6.799.980 +28.3 0.044 0.038 8.10 6.32

X.Galicia 6.597.546 5.627.134 +17.2 0.014 0.014 2.39 2.04

J.Extremadura 6.050.774 4.860.227 +24.5 0.04 0.035 5.58 4.48

G.argon 5.724.384 5.320.316 +7.6 0.02 0.022 4.51 4.19 G.Canarias 4.874.651 4.476.289 +8.9 0.013 0.013 2.48 2.27

G.Cantabria 4.805.103 3.405.067 +41.1 0.042 0.032 8.55 6.06

G.R.Murcia 2.793.299 2.630.131 +6.2 0.012 0.012 2.09 1.97

G.La Rioja 2.436.504 1.992.118 +22.3 0.036 0.031 8.09 6.62

G.Melilla 84.800 n.d n.d 0.007 n.d 1.30 n.d

Di nuovo come nel 2004 i donatori che più si avvicinano all’obiettivo dello 0.7% furono i governi navarro, della Mancha, delle Baleari e del paesi Baschi. Tutti loro superano la percentuale destinata dall’insieme della cooperazione spagnola (0,27%) ancora lontani dallo 0,7% richiesto a livello internazionale. L’unico che ha mostrato una tendenza negativa è stata la Comunità di Navarra anche se questa comunità ha sempre occupato una posizione

83 Dati del Seguimento PACI 2005 84 La Comunità di Ceuta non appare perché non ha destinato nel 2005 fondi per la cooperazione allo sviluppo, secondo i dati DGPOLDE

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da leader nel corso degli anni. Questo comportamento in ribasso caratterizzò anche l’ultimo anno della Comunità Valenziana e della Regione di Murcia. In termini relativi l’incremento più significativo è stato della comunità Cantabria che passa dallo 0,19 allo 0,26%, il resto delle Comunità hanno incrementato lievemente le loro percentuali o hanno mantenuto il livello dell’anno precedente. 4.3 L’Agenzia Spagnola di Cooperazione Internazionale, AECI L’Agenzia Spagnola di Cooperazione Internazionale venne istituita nel Novembre 1988 come organo di gestione della politica spagnola di cooperazione internazionale allo sviluppo. L’Agenzia è un organismo autonomo ascritto al Ministero degli Esteri attraverso la Segreteria di Stato per la Cooperazione Internazionale (SECI). L’Agenzia è responsabile del disegno, l’esecuzione e la gestione dei progetti e programmi di cooperazione allo sviluppo, tramite proprie risorse o mediante la collaborazione con altre entità nazionali e organizzazioni non governative. Per realizzare queste attività l’Agenzia dispone di una struttura esterna molto amplia, formata da 36 Uffici Tecnici di Cooperazione, 12 Centri culturali e 3 Centri di formazione, situati nei paesi dove l’Agenzia opera. La lotta alla povertà è l’obiettivo ultimo della politica spagnola di cooperazione internazionale, per questo l’Agenzia ha come fine accrescere la cooperazione culturale e scientifica con i PVS e assicurare la concertazione delle politiche di sviluppo dei paesi donatori, specialmente nell’ambito dell’Unione Europea. L’Agenzia ha avuto un preventivo di spesa di 406 milioni di euro nel 2005 e gestisce inoltre 100 milioni del Fondo di Concessione del Microcredito. Per l’anno 2006 la risorse accresceranno fino a 574 milioni di euro, che rappresentano un incremento del 41% rispetto al 2005.

Aumento dei preventivi di spesa dell’Agenzia 2001-2007

Anno 2001 2002 2003 2004 2005 200685 200786

Euro 253.640,71 268.415,26 289.451,25 292.800,51 406.995,43 574.829,56 745.349.767

Incremento % rispetto all'anno precedente

7,78%

10,58%

7,75%

1,23%

39,00%

41,23%

29,66%

4.3.1 L’ambito di lavoro dell’Agenzia La Legge di Cooperazione Internazionale allo sviluppo (L.23/1998 del 7 Luglio) stabilisce le priorità di base del lavoro dell’Agenzia, che si sviluppano periodicamente nel Piano Direttorio di Cooperazione e nei Piani Annuali. 85 Da verificare nel Seguimento Paci 2006, non ancora pubblicato. 86 Stima revisionale del Paci 2007

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Il piano Direttorio 2005-2008 stabilisce le seguenti priorità:

o Lotta alla povertà o Difesa dei diritti umani o Uguaglianza di genere o Sostenibilità ambientale o Rispetto della diversità culturale.

La strategia di azione e le priorità settoriali sono:

o L’aumento della capacità sociale e istituzionale (governo democratico, partecipazione cittadina)

o Aumento delle capacità umane ( copertura delle necessità sociale di base) o Aumento della capacità economica (promozione del tessuto economico e

imprenditoriale) o Aumento delle libertà e capacità culturali o Aumento delle capacità e autonomia delle donne o Prevenzione dei conflitti e costruzione della pace.

L’Agenzia lotta contro la povertà tramite la cooperazione multilaterale, con la collaborazione con organismi internazionale o Unione Europea, e la cooperazione bilaterale, direttamente con il paese recettore di aiuti attraverso diversi strumenti: finanziamento e esecuzione diretta di programmi e progetti; sovvenzioni alle ONG, aiuti alimentari e di emergenza; fondi per la concessione di Microcrediti. Secondo il suo Statuto (Art. 4), l’Agenzia deve:

o Contribuire all’accrescimento economico e al progresso sociale, culturale, istituzionale e politico dei PVS;

o Fomentare la cooperazione culturale e scientifica con i PVS; o Assicurare la concertazione delle politiche di sviluppo con i paesi sviluppati e

specialmente riguardo l’Unione Europea

Per il compimento di questi fini, l’Agenzia può esercitare le seguenti funzioni:

o Appoggiare alla Segreteria di Stato per la cooperazione nella definizione e nell’esecuzione della politica di cooperazione;

o Accrescere la cooperazione culturale e la promozione della cultura spagnola con i PVS. Disegna, coordina ed esegue programmi nel campo economico, sociale, culturale, educativo, scientifico e tecnico;

o Assicurare e coordina la presenza istituzionale della Spagna negli organismi internazionali

o Appoggiare e incentiva le iniziative pubbliche o private che contribuiscono al conseguimento dei fini dell’Agenzia

o Realizzare e diffonde studi rilevanti per il progresso dei paesi meno sviluppati o Prestare appoggio e collaborazione agli altri Dipartimenti ministeriali nello sviluppo

di programmi e progetti di cooperazione internazionale.

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4.4 Il Coordinamento delle ONG spagnole Il coordinamento CONGDE, con la non casuale D di Desarollo (sviluppo) fu creata diciannove anni fa per coordinare sette organizzazioni non governative. Allora era l’unico organo di coordinamento che riguardava la cooperazione internazionale allo sviluppo, con progetti di sviluppo nel Terzo Mondo, con campagne di sensibilizzazione ed educazione allo sviluppo in Spagna. Attualmente riunisce 98 ONG e 13 Coordinamenti delle province autonome spagnole87 che unite formano più di 400 organizzazioni dedicate alla solidarietà internazionale, e fa parte della Piattaforma europea di coordinamento delle ONG. Per poter essere federate al CONGDE bisogna avere determinati requisiti, come ad esempio avere come fine la cooperazione con i paesi del Terzo Mondo, accettare pienamente il Codice di Condotta, essere riconosciute dalla legge da più di due anni come ONG e avere un esperienza concreta nell’ambito dello sviluppo Le aree di intervento di queste organizzazioni sono diverse. Senza dubbio l’aspetto più conosciuto è l’azione umanitaria e di emergenza e i progetti nei PVS. Oltre questo sono molte le campagne di sensibilizzazione della pubblica opinione per generare coscienza verso i temi della cooperazione. Altre organizzazioni si dedicano alla ricerca e alla riflessione o lavorano in ambito politico favorendo un dialogo affinché partiti e governi si rendano mediatori per favorire lo sviluppo degli altri popoli e il commercio giusto. Proprio il commercio giusto sta prendendo forma nell’agenda internazionale attuale. Nonostante le diverse attività e specializzazioni tutte le ONG partecipano ad un progetto comune: la solidarietà. E per questo motivo si sono unite sotto un unico coordinamento.. Il CONGDE è per tutte le organizzazione federate un luogo di incontro, di dibattito e riflessione dove affrontare problemi comuni e proporre iniziative. E’ inoltre un luogo per mantenere un dialogo con altri settori della società, come partiti, sindacati, organizzazioni civili e movimenti sociali. Infatti il CONGDE collabora con il Governo, amministrazioni pubbliche, e altre istituzioni europee e internazionali per partecipare attivamente al dibattito sul quadro commerciale, politico e finanziario che tenga conto degli interessi del Sud, in modo che la politica di cooperazione attuata garantisca che gli aiuti siano efficaci e trasparenti e che siano orientati allo sradicamento della povertà. Il massimo organo di governo del CONGDE è l’Assemblea Generale composta da tutte le organizzazioni federate. Si riunisce almeno una volta all’anno per decidere in base ai presupposti e le linee di azione generali. L’Assemblea ogni tre anni elegge una Giunta di Governo che metta in moto un piano di lavoro che deve essere approvato dall’Assemblea Generale. Le ONG formano dei gruppi di lavoro, attualmente esistono i seguenti gruppi:

• Acción Humanitaria • Campaña Pobreza Cero88

87 Restano fuori da questo conteggio i Coordinamenti di due province autonome, la Coordinadora Extremena de Ong e la Confederecion de Ong Canarias. 88 Coordinamento di ONG che lotta contro la fame nel mondo, riunisce più di 400 associazioni

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• Consejo de Cooperación • Comunicación • Educación para el Desarrollo • Financiación para el Desarrollo • Género • Redes para el Cambio • Grupo de Agua • Unión Europea • Voluntariado • Codesarrollo

Questi gruppi si scambiano esperienze e informazioni sulle attività di ogni ONG coordinano le attività congiunte ed elaborano proposte.

Per coordinare i diversi programmi e attività si appoggiano ad una Segreteria tecnica. Come si legge dal sito del CONGDE, le ONG lottano per un altro tipo di sviluppo, uno sviluppo più umano, questo significa un ritorno all’uomo, che possa ottenere per se stesso una vita dignitosa, più lunga, in buona salute e con l’accesso all’educazione89. Si punta ad uno sviluppo che non sia aggressivo che sia accompagnato da una libertà politica e il rispetto dei diritti umani. Uno sviluppo che porti a un dialogo tra diverse personalità, culture e società senza per questo eliminare le differenze.

Un altro obiettivo è lo sradicamento della povertà concepita come privazione degli elementi essenziali con i quali l’uomo possa vivere degnamente, cosi come la lotta per la parità di genere. Infatti le relazioni di genere influiscono in tutte le relazioni sociali definendo ruoli, comportamenti, attitudini e valori che sono interiorizzati da uomini e donne nel processo di socializzazione. L’attuale sistema di genere colloca le donne in una posizione di inferiorità e subordinazione, portando le relazioni di genere a una dimensione di disuguaglianza sociale. Per questo motivo le ONG cercano di creare le condizioni affinché le donne partecipino a tutti gli effetti alla vita della comunità e alle decisioni importanti. Le ONG promuovo inoltre uno sviluppo che sia rispettoso dell’ambiente in modo che le loro azioni non incidano negativamente sull’ambiente e promuova la conservazione dell’habitat naturale e dell’uso sostenibile delle risorse.

89 “Apostamos por otro tipo de desarrollo, por un desarrollo “más humano”. Esto significa un retorno al sujeto, al hombre. No se trata tanto de que las personas aprendan o hagan, como de que las personas piensen y propongan. Que hombres y mujeres puedan obtener, por sí mismos, ingresos para llevar una vida digna, que esta vida sea más larga y saludable, que tengan acceso a la educación. Pero también que ese desarrollo no sea agresivo con el entorno natural que nos acoge y venga acompañado de libertad política y del respeto de los derechos humano”s. http://www.congde.org/quees.htm

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5. Confronto politiche di cooperazione allo sviluppo

Il confronto tra i due paesi non è molto semplice per il fatto che i dati non sempre sono aggiornati e non sempre sono comparabili, perché molte relazioni non forniscono lo stesso tipo di dati, ad esempio l’Italia fa parte di quei paesi che non forniscono le percentuale dell’aiuto legato mentre la Spagna si. Inoltre l’ordine temporale dei dati che vengono pubblicati non sono sempre comparabili, infatti della Spagna abbiamo dati aggiornati fino al 2007 (preventivi) grazie al Plan Anual de Cooperaciòn Internacional (PACI 2007), che saranno poi confermati o smentiti solo con il Seguimento PACI 2007 che naturalmente uscirà il prossimo anno, mentre riguardo l’Italia l’ultima Relazione annuale sull’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo risale al 2005, e non offre tutte le informazioni nei minimi particolari in quanto presenta una relazione già elaborata dagli addetti ai lavori che non fornisce dati numerici contrariamente al Seguimento PACI che invece offre le cifre nette e lorde in modo che si possano elaborare, cercando quello che per cui si sta lavorando, per potersi fare un idea e formularsi delle opinioni. Inoltre un sintomo della “poca trasparenza” riguardo l’Italia, sta nel fatto che, nel 2002, il secondo settore di destinazione con più peso nell’APS dopo la cancellazione del debito fosse la voce “non specificato” che rappresentava il 14% dell’APS, un valore che si è mantenuto anche nel 2003. In Italia questo problema è grave in quanto la società civile non ha i mezzi per verificare la composizione dell’APS, inoltre è difficile proprio per la diversa provenienza dei finanziamenti dai vari enti pubblici. Sono tanti gli attori coinvolti nella produzione di fonti e informazioni, che spesso non si incontrano e non comunicano tra loro. Un altro problema sta nel fatto che l’impianto istitutivo della contabilità di bilancio dello Stato italiano è diversa da quello del DAC e ciò porta difficoltà e confusione nell’elaborazione e comparazione dei dati tra i diversi paesi OCSE. Inoltre i dati sia italiani che spagnoli sono spesso “illeggibili”, forse per mancanza mia, ma penso che comunque siano esposti in maniera confusa e non chiara. In ogni caso, anche con i pochi dati che abbiamo possiamo fare qualche confronto. Il primo confronto che può essere fatto, il più semplice e diretto è quello numerico, non sufficiente ma indispensabile, ma da studiosa di scienze sociali posso dire che non è uno strumento attendibile, è utile per dare una visione di insieme, in termini monetari per capire chi è il più “generoso” tra i due paesi, ma non possiamo capire l’efficacia e la qualità degli aiuti conferiti ai PVS. In ogni caso guardiamo per prima il volume degli aiuti pubblici allo sviluppo, le cifre assolute non ci danno l’idea di chi si è impegnato maggiormente, ma la misura relativa dell’APS rispetto al PIL si. Innanzitutto la tabella qui sotto ci dice che al 2005, dato più recente, Italia e Spagna non si discostano molto nel volume di aiuti relativo, 0.29% per l’Italia e 0.27 % per la Spagna. Però spostandoci poco più a destra possiamo osservare le variazioni che ci sono state negli ultimi due anni (2004-2005). L’Italia ha quasi raddoppiato il volume dei suoi aiuti grazie all’aumento delle risorse destinate multilateralmente, mentre la Spagna ha aumentato solo del 24% circa il suo volume di aiuti, che riflette l’incremento degli aiuti bilaterali90. Ciò non significa elogiare 90 OCSE/DAC

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l’Italia per lo sforzo fatto, possiamo invece dire che ha “fatto il suo dovere” perché nel 2004 aveva un APS/PIL molto basso, solo 0,15%, rispetto a una Spagna che invece ha avuto una performance migliore, e quindi è servito uno sforzo minore per raggiungere la meta attuale.

Un punto in comune è a livello legislativo. In entrambi i paesi si rimprovera l’eccessiva rigidità della legge sulla cooperazione. Una cooperazione che si sviluppa tra ministeri, che quindi si presenta eccessivamente burocratica e farraginosa, e dipende eccessivamente dalle manovre finanziarie statali. Questo dualismo di competenze tra attori pubblici, in alcuni casi ha portato a una paralisi che ha reso i progetti/programmi di sviluppo estremamente lunghi. Spesso nei dibattiti internazionali vengono elogiati quei paesi che affidato la cooperazioni internazionale allo sviluppo ad agenzie “private” che presentano una maggiore competenza e sono più “snelle” dal punto di vista democratico (come il caso inglese). Ad ogni modo il dibattito è sempre aperto. Un altro confronto che possiamo fare è a livello temporale per sottolineare l’evoluzione degli aiuti pubblici negli ultimi cinquant’anni. Per fare questo confronto dobbiamo considerare il contesto storico e le esperienze vissute da entrambi i paesi. Mentre in Italia la volontà di cooperazione, le prime forme associative in questo senso e le seguenti evoluzioni legislative sono iniziate intorno agli anni Cinquanta, adeguandosi al contesto internazionale, in Spagna tutto questo si è avuto più tardi.

Contributo alla cooperazione internazionale allo sviluppo di Italia e Spagna

Fonte OCSE

APS in milioni di euro

% APS/PIL APS pro capite

2004 2005

Variazione %

2004 2005 2004 2005

Italia

2.462 5.091 99.9 0.15 0.29 42.78 86.44

Spagna

2.437 3.018 23.6 0.24 0.27 56.41 68.30

Media DAC

0.42 0.47

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Possiamo affermare che questo è dovuto al regime franchista, è quindi solo alla fine degli anni Settanta è sorto questo il problema della cooperazione, inoltre bisogna ricordare che fino agli anni Settanta la Spagna è stata soprattutto ricettore di aiuti91. E’ proprio dal preambolo della Costituzione spagnola del 1978 che si evince questo nuovo orientamento. Dal grafico qui sopra si può notare tutto questo. Mentre fino agli anni Ottanta anche l’Italia non ha attuato politiche di cooperazione allo sviluppo, anche sono presenti interventi sporadici, in Spagna questo ritardo si è prolungato fino alla fine degli anni Ottanta, periodo in cui sono iniziate vere e proprie politiche di cooperazione. I primi finanziamenti mirati risalgono al 1980 in cui la Spagna destina 162 milioni di dollari. Dal momento in cui l’Italia ha avuto un legge definitiva che disciplinasse questi interventi, nel 1987, il volume degli aiuti si è alzato notevolmente, ma non ha mai seguito un andamento stabile, ha avuto picchi e crolli continui che hanno sicuramente reso difficile il compimento degli impegni presi a livello internazionale e gli interventi iniziati nei paesi di emergenza. Contrario è l’andamento della Spagna che una volta iniziato il percorso continua in maniera abbastanza lineare, con lievi diminuzioni dei finanziamenti ma che sono sopperiti dagli aumenti arrivati negli ultimi 5/6 anni che hanno portato i due paesi considerati in ad uno stesso livello di APS/PIL, quello attuale. Un’altra differenza da considerare sono le aree geografiche di intervento. Le priorità dei due paesi sono evidentemente differenti, a causa dei diversi vissuti coloniali, l’Italia molto più presente in Africa e la Spagna in America Latina. Naturalmente non possiamo considerare le sole statistiche e soprattutto dobbiamo eliminare il peso della cancellazione del debito, che fa variare le priorità geografiche, ma non lo possiamo considerare come aiuto attivo per lo sviluppo di un paese.

91 Si tenga presente che nel 1993 nell’ambito dei Fondi Strutturali Europei, è stato creato un “Fondo di Coesione” per sostenere i paesi i paesi meno prosperi, e la Spagna ne faceva parte insieme alla Grecia, Irlanda e Portogallo. Inoltre nella programmazione dei Fondi Strutturali 2000-2006 la Spagna faceva parte di quei paesi che, non più ammissibili agli obiettivi 1 o 2, ricevevano aiuti transitori decrescenti

Aiuto pubblico allo sviluppo comparato tra Italia e Spagna, dagli anni '60 ad oggi

Fonte OCSE

-

1 000

2 000

3 000

4 000

5 000

6 000

195

0-55

1959

1963

1967

1971

1975

1979

1983

1987

1991

1995

1999

2003

MIli

oni d

i $

Italy

Spain

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La cosa in comune che non deve rendere entusiasti è che nessuno dei due paesi ha raggiunto l’obiettivo dello 0.33% entro il 2006, impegno preso a Barcellona dai membri dell’Unione Europea.

APS al Nord Africa e al Medio Oriente

(milioni di dollari)

Fonte OCSE

Italia Spagna

94-95 99-00 00-05 94-95 99-00 04-05

Multilaterale 32.7 12.2 40.8 12.8 12.8 18.9

92 Le operazioni di cancellazioni del debito non sono conteggiate nell’aiuto pubblico allo sviluppo

Bilaterale

31.9 8.5 25.5 11.5 9.4 17

Componenti aiuto pubblico allo sviluppo in Italia e in Spagna, 2006

(milioni di dollari) Fonte OCSE

Italia Spagna

APS 2006 3672,16 3801,25

Bilaterale

2057,02 2067,66

Multilaterale

1615,13 1733,59

Risorse alle ONG

104,46 8,89

Operazioni di debito92

1604,27 594,98

APS/PIL 0,2% 0,32%

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La diminuzione degli aiuti multilaterali italiani nel 99-2000 nel Nord Africa ha visto un contemporaneo aumento di quelli diretti verso l’Africa subsahariana. Infatti mentre l’aiuto multilaterale del biennio 94-95 scende da 31,9 a 8.5 milioni di $ nei cinque anni seguenti, l’aiuto diretto all’Africa subsahariana aumenta da 34.7 al 47.8 milioni di dollari. Questo lieve aumento degli APS nella regione a sud del Sahara non compensa la diminuzione corrispondente nelle altre arre, questo significa che probabilmente l’Italia ha in seguito privilegiato l’aiuto bilaterale. Ma le ipotesi possono essere varie. Mentre la politica spagnola anche se con oscillazioni è tendenzialmente più stabile, comunque anche in questo caso la diminuzione degli aiuti diretti verso quest’area sono compensati da aumenti nelle zone più a rischio nei momenti cruciali. Un confronto basato sui settori di intervento risulta molto difficile in quanto entrambi i paesi partecipano al finanziamento in tutti i settori, da quello economico e quello sociale, in maniera più o meno simile. Possiamo dire che l’intervento per quanto riguarda i bisogni essenziali è stato stimolato dalle conferenze internazionali che hanno portato Italia e Spagna a perseguire gli impegni presi. Quindi negli ultimi anni, in corrispondenza dell’Obiettivo del Millennio n° 1, che impone di dimezzare il numero di persone che vivono in estrema povertà, i due paesi si sono impegnati su questo fronte attuando politiche che hanno privilegiato interventi in questo senso magari a discapito di interventi economici o infrastrutturali. Naturalmente gli interventi sono studiati a seconda del paese in cui si interviene. Possiamo dire anche che il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio orienta anche la scelta dei paesi cui destinare risorse. Un impulso forte è stato dato dalla Conferenza di Copenaghen che impone di destinare il 20% degli aiuti per i servizi di base. Lo stesso discorso vale nel momento in cui andiamo a valutare l’efficacia degli aiuti allo sviluppo. Se prendiamo in considerazione il ruolo dell’aiuto legato, come maggiore causa dell’inefficacia degli aiuti, possiamo solo dire che la Spagna, eliminando le operazioni di cancellazione del debito dal computo dell’APS, presenta una percentuale di aiuto legato che supera il 30%. E’ sicuramente elevato rispetto a tanti paesi DAC, ma non possiamo confrontarlo con la stima italiana in quanto l’Italia da anni non presenta all’OCSE le percentuali dell’aiuto legato che impone al paese recettore. Un’altra cosa in comune ad esempio è il fatto che spesso non esiste corrispondenza tra gli impegni presi e le erogazione effettive, per un piccolo esempio prenderò in considerazione gli impegni e le erogazioni dell’Italia per i paesi del bacino mediterraneo. In alcuni casi vediamo che le erogazioni sono state maggiori degli impregni presi ma sono rari casi e soprattutto di lieve entità. La maggior parte delle volte i crediti d’aiuto erogati sono di molto inferiori a quelli promessi, ciò porta a numerosi scompensi legati alla progettualità e all’attuazione dei progetti perchè vengono meno risorse che si erano impegnate pensando che si sarebbero in seguito ricevute. Questa è una situazione che si verifica in entrambi i paesi rendendo quindi meno efficiente la politica di cooperazione.

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Se guardiamo alla Spagna confrontando il livello di attuazione con ciò che era stato previsto nel PACI 2005 (2.600 milioni di euro e lo 0,31% di APS/PNL) si osserva un livello di esecuzione relativamente alto in termini assoluti (93,4%), ma una differenza di quattro centesimi in termini relativi al PIL stimato. Ciò si spiega, da un lato per il cambiamento nei metodi di contabilità del reddito nazionale realizzata dall’Istituto nazionale di Statistica, che aumentò la stessa di un 6%. Senza questo cambio la percentuale di APS/PNL sarebbe stata dello 0,29%. D’altra parte dipende dalle variazioni prodotte tra risorse previste e poi effettivamente sborsate (172.000 milioni di euro), tra le quale si distinguono: Aiuti multilaterali . Mentre le risorse destinate alla Commissione Europea superano di 18,5 milioni ciò che era stato previsto nel PACI 2005, i contributi a organismi internazionali sono stati inferiori di 40,3 milioni di euro. Secondo la relazione della Direzione generale della Pianificazione e Valutazione della Politica di Sviluppo (con l’acronimo spagnolo DGPOLDE), questa significativa diminuzione è dovuta al nuovo metodo del DAC di non conteggiare come aiuto pubblico allo sviluppo i contributi finanziari per operazione di mantenimento della pace, se non sono sufficientemente dettagliate da differenziare le spese militari da quelle il cui scopo è promuovere lo sviluppo. Strumenti rimborsabili . Il saldo netto dei crediti del FAD fu inferiore di 157 milioni di euro e del Fondo di Microcredito di 38 milioni rispetto al previsto. Questa differenza ha origine nella mancanza di una stima corretta dei rimborsi, che sono stati di molto superiori alle attese, il che porta ad una evidente diminuzione delle somme sborsate effettivamente. Questi dati spiegano il minor peso degli strumenti rimborsabili (4,1%) rispetto a quelli non rimborsabili (95,9%) rispetto agli anni precedenti. Donazione delle Amministrazioni Generali dello Stato. La differenza totale è stata di 100 milioni di euro in meno del previsto. Tenendo conto del livello di attuazione si osservano variazioni tra ciò che è stato pianificato e ciò che è stato fatto. In particolare si chiama all’attenzione la sovraesecuzione del Ministero delle Amministrazioni Pubbliche (363,4%) e del Ministero della Cultura (191,6%), entrambi attori secondari nella cooperazione spagnola. Al contrario il Ministero degli Esteri e il Ministero dell’Industria,

Discordanze tra doni e crediti italiani nei paesi del Nord Africa, 2000

Doni Crediti Doni+crediti

Impegni Erogazioni Impegni Erogazioni Impegni Erogazioni

Algeria

4272 4323 52500 1449 56772 5792

Egitto

9507 11672 - 10961 9507 22633

Libia

19085 18780 - - 19085 18780

Marocco

7349 6631 30000 1504 37349 8135

Tunisia 8900 8561 116000 26910 124900 35471

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attori principali della politica di cooperazione verificarono un’attuazione dell’82,5% e del 34,2% rispettivamente.

Insomma che dire dopo aver confrontato le politiche di cooperazione di questi due paesi? La difficoltà maggiore è stata il reperimento dello stesso tipo di informazioni, molte di più a livello socio-culturale per l’Italia e molte di più a livello numerico per la Spagna. Forse perché vivo qua sono portata ad essere più critica verso una realtà che conosco meglio, ma mi sembra che il Bel Paese sia in una situazione peggiore. Mi sembra che la nostra politica di cooperazione risenta fortemente di tutte le vicissitudini politiche che stanno attanagliando il nostro paese, le discussioni, i rimpasti e le crisi di governo. Ho la sensazione che siano tutti i settori della politica italiana che stanno andando male e quindi si preferisce mettere in primo piano problemi “di casa nostra” e poi affrontare quelli degli altri. Questo sarebbe giusto se almeno da noi le cose andassero meglio ma non è così, e questo scetticismo che mi accompagna mi fa desiderare sempre più di partire. Come ho detto

Esborsi netti multilaterali nel 2005

(milioni di dollari) Fonte OCSE

Italia Spagna Totale 2821 1155

World Bank 689 150

IDA 679 123

Alle banche regionali 168 135

Banca Africana 168 53

Banca Asiatica - 51

Banca Ibero-americana - 10

ONU 305 48

IFAD 18 -

WFP 24 1

UNDP 24 6

UNICEF 18 2

UNHCR 11 5

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all’inizio è proprio in Spagna che vorrei andare. Ma non voglio correre il rischio di pensare che lì tutto vada nel modo migliore. Probabilmente andando in Spagna mi accorgerei che esistono tanti altri i problemi, troverei persone scontente, attori della cooperazione che come da noi si lamentano dell’inefficienza dei fondi etc. Insomma, credo che non si sia mai contenti di quello che si fa, di dove si sta; si vorrebbe sempre fare di più, ma questo essere perennemente insoddisfatta mi porta a cercare costantemente quel qualcosa in più a quello che faccio. Il confronto sul campo mi ha aiutato, sono stata fortunata ad incontrare persone disponibili ma purtroppo posso solo concludere dicendo che finchè non ci si trova dentro le situazioni non si può giudicare. Sia che ci si trovi dalla parte governativa che nella società civile è davvero difficile giudicare chi fa meglio o peggio. I parametri sono tanti, troppi, si può far bene in un settore/area e male in altro. Sono sicura che anche una persona che parte con le migliori intenzioni poi deve fare i conti con altre situazioni e persone che gli impongono qualcosa di diverso, spesso bisogna scendere a compromessi e modificare l’idea di partenza. La cosa che rimprovero è l’ipocrisia e le contraddizioni che si trovano, stando in Italia, andando in Spagna e nel mondo. Quante ingiustizie condannate proprio da chi le crea. E’ ripugnante vedere lo sfarzo di certi ambienti e di certe persone che sono proprio quelle che predicano di lottare contro la povertà. Chi vuole intendere intenda.

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PARTE C

LA COOPERAZIONE DELL’ITALIA E DELLA SPAGNA NEL NORD AFRICA

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1. Definizione di Terzo Mondo Siamo in piena Guerra Fredda quando nell’Agosto 1952 su L’Observateur esce un articolo firmato Alfred Sauvy, un eminente demografo francese. Nell’articolo per la prima volta si conia il termine Terzo Mondo, un termine che farà il giro del mondo e influenzerà tutta la riflessione e la ricerca nei rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri.93 Sauvy utilizza il termine Terzo Mondo per definire un insieme di paesi con caratteristiche comuni, come quelle di essere state colonie di potenze europee, di aver subito una dominazione economica, di essere produttori di materie prime e alimenti, di avere determinate caratteristiche nell’ambito della crescita della popolazione, del reddito pro capite, della scolarità etc. Questo Terzo Mondo viene assimilato, dall’autore al Terzo Stato dei tempi della rivoluzione francese, ha presente la famosa descrizione dell’abate Sieyes nel 1878: “Cos’è il Terzo Stato? Tutto. Cosa ha significato fino ad oggi nell’ordine politico? Nulla. Cosa chiede? Di diventare qualcosa.” Di fronte a un mondo diviso tra due superpotenze che, come i primi due stati al tempo della rivoluzione francese, pretendono di dominare tutto e tutti, l’autore di questo articolo rivendica la presenza di un Terzo Mondo che, come il Terzo Stato, si accorge di non contare nulla e vuole diventare qualcosa. La rivendicazione portata avanti da questi paesi non chiede soltanto una più equa redistribuzione della ricchezza, bensì la condivisione del potere politico. La definizione viene data in un periodo storico in cui non è ancora iniziata la decolonizzazione e non ci si immaginava ciò che sarebbe avvenuto in seguito. Pochi anni dopo infatti alcuni grandi leader del tempo – Sukarto, Pandhit, Neruh e Chu En Lai fra loro – si riuniscono a Bandung, in Indonesia. Sarà questo il primo incontro che porterà poi, nel 1961, a dar vita al cartello dei Paesi Non Allineati. La risposta mondiale non fu certo generosa, la riunione venne definito “incontro di straccioni” dal Segretario di Stato americano Fuster Dallas che si rifiutò di parteciparvi. Il ruolo svolto dai paesi non-allineati è ben spiegato da Samir Amin in un articolo apparso su Le Monde Diplomatique: “Di vertice in vertice, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, il non allineamento riunì la quasi totalità dei Paesi dell’Asia, dell’Africa, oltre a Cuba, passando progressivamente dal carattere di un fronte di solidarietà politica con le lotte per la liberazione e di rifiuto di patti militari, a quello di un cartello i rivendicazioni economiche nei confronti del Nord. In questo contesto, i non allineati si sarebbero alleati con i popoli, se non proprio con gli stati dell’America Latina, che non hanno mai voluto aderire alla Tricontinentale. Il gruppo dei 77 (l’insieme del Terzo Mondo) traduceva questa nuova larga alleanza del Sud. La battaglia per un Nuovo Ordine Economico Internazionale, NOEI, avviata nel 1975, dopo la Guerra del Kippur, dell’ottobre ’73 e la revisione dei prezzi del petrolio, ha rappresentato al tempo stesso il momento più significativo di questa evoluzione e la sua fine, ufficializzata a Cancun (1981) con il ditkat di Reagan e dei suoi alleati europei94.” Mao Tze Tung qualche anno dopo elaborerà la sua teoria dei Tre Mondi. Il primo formato dalle due superpotenze in conflitto, USA e URSS, il secondo dai paesi industrializzati di alto livello di vita, Europa, Canada, Giappone etc. Per Mao il Terzo Mondo è prima di tutto il

93 Eugenio Melandri, Cenni di storia, da La cooperazione, dai bisogni ai diritti, EMI, p.21 94 La data periodizzante scelta per sancire la fine del dialogo Nord-Sud è normalmente il 1981, con il fallimento dell’incontro di Cancun e le dure dichiarazioni di Reagan contro aiuti non necessari.

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mondo contadino dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che dovrà diventare il protagonista della Rivoluzione Mondiale che capovolgerà l’ordine economico del tempo. E’ importante notare che, paradossalmente il termine Terzo Mondo, nato non per un approccio di aiuto ai paesi poveri, ma per una rivendicazione di una dignità e una soggettività politica di fatto diventerà l’espressione più ricorrente per indicare i paesi poveri.

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2. Africa o Afriche?

Scenario generale. Secondo il contributo di Giulio Albanese, missionario comboniano che ormai dal continente africano è stato adottato, non è del tutto esatto parlare di Africa per un continente grande tre volte l’Europa, con migliaia di lingue e centinaia di etnie e culture, ma sarebbe più opportuno utilizzare l’accezione Afriche per identificare una realtà multietnica difficile da accomunare, anche se l’occidentale spesso e volentieri lo fa, infatti “ l’Africa, al singolare o al plurale che dir si voglia viene sempre e comunque percepita nel nostro Paese, affetto da cronico provincialismo, come realtà a se stante, anni luce distante dal resto del mondo; una terra di conquiste fatta di savane, deserti e foreste pluviali i cui popoli, per misteriose ragioni ancestrali, sarebbero istintivamente avversi alla mente razionale e al pensiero scientifico95”. E’ per questi motivi che noi stereotipiamo, accomuniamo sotto un'unica definizione. Quando sentiamo il termine africano pensiamo all’arretratezza, alla fame, alle guerre e carestie e ne siamo condizionati dalle immagini che ci pervengono dalla tv e dai giornali col il solo scopo di spillare qualche euro da chi si fa impietosire, così da avere la coscienza apposto. Ma non è questo ciò che queste popolazioni vogliono, vogliono giustizia, pari diritti e pari opportunità. Un esempio palese, come il padre comboniano precisa è dato dal peso degli aiuti umanitari destinati alle emergenze africane, che è molto inferiore agli interessi del debito estero che affligge il continente. Allora che senso ha per uno Stato o un istituzione internazionale proporsi come benefattore se poi per alte vie i soldi ritornano sempre indietro e con gli interessi? Ciò che ultimamente si invoca è di smettere col fare la carità ma essere giusti. Il continente africano è stato oggetto di numerosi studi, a partire dalle carte geografiche, che in principio riuscivano a descrivere con precisione le coste del continente ma non, con identica precisione, le regioni e le popolazioni dell’interno. Verso la metà del Novecento con le indipendenze della quasi totalità delle colonie africane si ha la riscoperta del continente e quindi il suo formale inserimento nel mondo moderno. La sfida principale del mondo attuale sembra quella di sottrarre l’Africa alla sua “diversità” perché fortemente legata ai valori tradizionali considerati l’ostacolo principale ai processi di sviluppo. Non che la modernità in Africa non esiste, anzi con le colonie sono state esportate molte forme di modernità in vari settori, soltanto che lo sviluppo è molto diseguale e si concentra maggiormente sull’estrazione delle risorse, di cui l’Africa è piena. La decolonizzazione ha significato, per questo continente, non solo l’accesso alla libertà politica, ma anche la rivendicazione di dignità dei cittadini per popolazioni fino ad allora relegate a subire la condizione di sudditi. Con la presenza delle colonie si è cercato di impiantare in Africa un modello di sviluppo economico e politico basato sui modelli occidentali. Questo processo si è rivelato più complicato del previsto perché questo continente non aveva né le premesse né le strutture di base, e perchè le colonie non avevano fondato la ricostruzione sulla libertà ma sulla sottomissione delle forze politiche ed economiche. La diversità dell’Africa non consiste nella sua resistenza tradizionale alla modernità ma nelle forme subordinate e diseguali con cui la tradizione è stata modellata e strumentalizzata, nelle forme di sfruttamento economico lasciate dal colonialismo,

95 G.Albanese, Hic sunt Leones, Paoline Ed. 2007 p.11

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dall’estrema disparità nell’accesso ai mercati e alle risorse della modernità fra le diverse regioni di uno stesso paese. Il pluralismo culturale . Nel continente africano la presenza di svariate religioni ha creato non pochi problemi. In tutto il continente c’è la presenza dell’Islamismo, del Cristianesimo e di vari culti tradizionali che nonostante siano in minoranza resistono alla diffusione delle maggiori religioni.………………...………………………………………………………... La presenza del cristianesimo in Africa risale ai primi secoli della cristianità, ed ha coinvolto le coste settentrionali dell’Egitto e dell’altopiano etiopico, si diffonde nell’Africa Sub-sahariana, interessando le zone costiere almeno fino al XIX secolo, quando anche le aree più interne furono coinvolte dall’evangelizzazione cristiana. I diversi regimi coloniali hanno in genere teso a favorire le missioni cristiane dei paesi di origine. La comparsa dell’Islam ne ha arrestato la diffusione. Il Cristianesimo ha svolto una duplice funzione, da una parte è stato forza di indipendenza grazie al ruolo svolto nella diffusione dell’istruzione ma nello stesso tempo ha contribuito al rifiuto delle culture locali. La presenza dell’Islam si è invece diffusa al seguito dei rifugiati musulmani provenienti dalla penisola arabica e in seguito delle guerre di conquista lanciate dai seguaci di Maometto. In questa fase, l’Islam si è affermato nel Nord-Africa, portando più in generale all’arabizzazione culturale di quest’area, nonché dell’Africa Orientale. Quindi come si può ben notare oggi in Africa la religione ricopre un ruolo importante quale fattore di cambiamento politico, ma, allo stesso tempo, resta una fonte di tensione. Oltre che al fattore religioso si può far riferimento anche al contesto linguistico come diversità dei popoli di uno stesso continente. Infatti nel territorio africano sono presenti ben 2000 lingue, che per semplificare si possono dividere in tre grandi gruppi: afro-asiatiche, nilo-sahariane, niger-congolesi. Quindi l’analisi culturale permette di capire come molte diversità si celano proprio dietro le divisioni etniche, comprendendo le religioni e le lingue, delle popolazioni africane; per questo molti colonizzatori cercarono di unire etnie diverse senza creare risultati soddisfacenti. Un ulteriore fenomeno è quello dei movimenti di popolazione. Essi sono causati da molteplici motivi: la ricerca di migliori opportunità lavorative, la necessità di raggiungere servizi e infrastrutture, lo svolgimento di attività commerciali, la fuga da catastrofi naturali, da conflitti e dalle ricorrenti crisi politiche96. Colonialismo e stabilizzazione politica. Con la fine della colonizzazione in molti paesi si è cercato di instaurare dei sistemi democratici con forme di governo molto simili, spesso uguali, ai sistemi dei paesi colonizzatori. Questo processo democratico è stato definito come la seconda indipendenza africana. Il tentativo è stato quello di coniugare mercato e democrazia. Ci si chiede se i paesi africani siano in grado di mantenere in vita un sistema democratico; infatti c’è una parte che ritiene che la debolezza strutturale di questo continente non le permette di competere sul libero mercato globalizzato, e un’altra che ritiene che il problema risieda essenzialmente nella sua natura “patrimonialista”97 dei suoi sistemi politici, che impediscono, quindi, la formazione di Stati democratici.Al momento dell’indipendenza gli stati africani hanno ricalcato le orme delle metropoli coloniali: i paesi francofoni, per esempio, optarono per un regime presidenziale. Camerun, Madagascar, Mali e Ciad hanno adottato sistemi parlamentari e successivamente presidenziali e/o militari.

96 Il modello push-pull sembra abbastanza buono per spiegare queste migrazioni: le guerre civili, i rifugiati poltici o ambientali, hanno forti motivi push 97 Ossia di una gestione delle risorse su base personalizzata, mirante a garantire la legittimità di chi è al potere attraverso la ridistribuzione delle risorse ai propri sostenitori

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Mentre le ex colonie inglesi adottarono il sistema parlamentare anglosassone, con l’eccezione di Nigeria ed Uganda, che si costituirono in Stati federali. Ciò che era iniziato, nel giro di pochi anni andò cambiando perchè si incominciò a diffondere il modello del partito unico ritenuto indispensabile per il rafforzamento dell’unità nazionale. In tali sistemi politici si ridusse lo spazio del dibattito democratico e del pluralismo politico. Le tensioni interne soprattutto nei momenti di massima destabilizzazione degli anni Settanta ed Ottanta si risolsero mediante colpi di stato militari per poi consegnare alle autorità civili una nazione distrutta. Tutti questi elementi come la repressione democratica, la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse e della ricchezza, la corruzione dilagante, hanno prodotto forti pressioni interne di natura politica e sindacale. Così all’interno degli stati si è creata quella parte di popolazione che rifiuta le forme del libero mercato considerate da molti indispensabili per la transizione verso sistemi di democrazia liberale. Uno dei grandi problemi del continente oggi è l’elevata conflittualità, alimentata da fattori di diversa natura, e caratterizzata sovente dalla presenza di scontri armati di respiro regionale. Il regionalismo è inteso come creazione di raggruppamenti regionali tra Stati, ed affonda le sue radici proprio nel periodo coloniale appena descritto. L’economia africana. Il continente africano resta un paese fortemente legato al ruolo di produttore di materie prime, agricole e minerarie, di cui però non controlla in nessun modo i mercati. L’industrializzazione è bloccata e le produzioni agricole alimentari hanno subìto le devastazioni di cicli climatici estremamente sfavorevoli. I problemi odierni nel settore agricolo sono noti: carestie, degrado ambientale, difficoltà nella produzione di beni alimentari necessari alla sussistenza, crisi dei settori per l’esportazione. Basta notare che circa 2/3 della popolazione africana è legata alle attività agricole e pastorali o vive in aree rurali. Tra i settori di esportazione riconosciamo importanza anche a quello minerario. Il sottosuolo africano è caratterizzato da una concentrazione di risorse minerarie che lo rendono una delle aree più ricche del mondo. La presenza delle multinazionali è spesso dannosa, in quanto queste tendono a controllare gran parte dei mercati. Questo patrimonio minerario non è servito al continente africano per la ricchezza della propria popolazione a causa di investimenti esterni che producono in un territorio dove la manodopera costa meno e dove c’è la possibilità di sfruttare le zone minerarie senza legislazioni contrarie. Sanità e istruzione. Il caso dei servizi sanitari non è ovviamente da escludere perché in Africa non ci sono servizi sanitari a sufficienza da ricoprire la popolazione dell’intero territorio, e poi i costi per le cure sono spesso troppo alti per essere sostenuti. Quindi si sviluppano e si diffondono malattie, la più diffusa è senz’altro l’AIDS. ……… Un altro fattore importante è l’istruzione. Anche l’istruzione non è molto diffusa benché siano aumentate le percentuali di alfabetizzazione nei vari paesi. C’è molto divario nella scolarizzazione soprattutto nei sessi. Un elemento in grado di influenzare il processo di scolarizzazione è quello dei comportamenti delle famiglie che possono presentare ostacoli socio-culturali quali l’inferiore scolarizzazione delle bambine, il lavoro infantile sia domestico che commerciale. Infrastrutture . La rete di trasporti e comunicazioni dell’Africa è il risultato del processo di penetrazione commerciale e successivamente coloniale. La rete ferroviaria rispondeva alle necessità commerciali dei regimi coloniali, all’affermazione del controllo su una determinata regione, al trasporto di materie prime dalle regioni minerarie, ma rivestì comunque un grande significato per un continente come l’Africa, caratterizzato da una densità di popolazione relativamente bassa e con elevata dispersione delle risorse. La

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mappa delle principali vie di comunicazione, stradali e ferroviarie, riflette in generale la struttura fisica e demografica del paese, dove la penetrazione verso l’interno soffriva della presenza di ostacoli fisici e della bassa densità abitativa, ma soprattutto si legava agli interessi economici coloniali. Si nota ancora oggi la diffusa rete di trasporto che va dai maggiori centri di produzione fino ai porti. La presenza di altri mezzi di comunicazione come giornali, radio e televisione ha invece avuto un impatto importante sulla popolazione. I giornali si diffondono nel XIX secolo, prima tramite le testate delle colonie e poi con riviste locali. Ma comunque il forte limite della stampa era dato dall’alto tasso di analfabetizzazione del continente. Ma questa mancanza è stata in parte colmata dalla diffusione soprattutto della radio, e poi della televisione e di altre tecnologie come i cellulari o internet (anche se raramente presenti). Clima. Il fattore clima è molto determinante in questo continente, perché almeno il 70% della popolazione vive di agricoltura o di pastorizia. In particolare il clima che essendo per la maggior parte dell’anno arido presenta un fattore limitante alle potenzialità delle foreste in Africa: l’aridità e la siccità logora le foreste che una volta distrutte non riescono ad attuare i processi di ri-vegetazione e di ri-forestazione naturale, tramite la sempre più frequente combinazione fuoco-siccità. Inoltre l’erosione superficiale delle terre prive di vegetazione provoca una perdita di suolo che è il maggiore fattore limitante per l’azione di ri-forestazione. Al clima si aggiunge a pressante crescita demografica, infatti la maggior parte delle foreste risentono dell’azione dell’uomo, il quale è costretto a tagliare la legna per costruire i campi per il raccolto, utilizzare il legno per le tecniche agricole o semplicemente per il fuoco.

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3. Panoramica delle Organizzazioni Non Governative in Africa

Da sempre, l’azione delle ONG internazionali si è concentrata prioritariamente sull’Africa. Il continente più povero e più colpito da gravi crisi umanitarie ma, soprattutto, il più bisognoso di rappresentanza e advocacy. Oggi, l’Africa ha più guerre, più fame, più AIDS di qualunque altra area del mondo, e nessun atout politico a sua disposizione. Per questo le ONG hanno tradizionalmente visto nel continente il loro territorio privilegiato d’intervento, dove potevano unire la maestria nel realizzare progetti “poveri” alla capacità di avere un peso sulle decisioni strategiche. Operare in Africa negli anni Ottanta secondo molti dava un maggiore soddisfazione,dava la sensazione che il lavoro svolto fosse veramente importante: non solo si riusciva a migliorare, visibilmente la qualità della vita della gente ma si veniva trattati con una considerazione che, altrove, avrebbe richiesto ben altri meriti e titoli98. Così era, l’Africa della cooperazione, vent’anni fa. Esotica e avventurosa come nessun’altra terra, bisognosa senza se e senza ma, e ancora sufficientemente coloniale da far sentire l’occidentale un piccolo re. Un’Africa multilingue: anglofona, francofona, lusofona, e persino in buona parte italofona (in Etiopia, in Somalia e in Eritrea). Un’Africa dove anche l’Italia faceva la parte del grande donatore, e dove le piccole e giovani ONG potevano farsi le ossa. Un’Africa di missionari e di movimenti politici, di giovani colonnelli progressisti e di processi di decolonizzazione, ma anche di dittatori sanguinari e società segrete. Gigantesco mosaico di religioni, culture politiche e tradizioni. In più di un’occasione, l’Africa ha rappresentato il motore del cambiamento e dell’innovazione per la cooperazione internazionale. In Biafra, negli anni Sessanta, è nato l’umanitarismo moderno con la fondazione di Médecins sans Frontières (ONG). In Etiopia è iniziato il solidarismo mediatico, nel 1985 con Live Aid e in Mozambico si è coniata l’espressione “emergenza complessa”. In Somalia nel 1993 è morto il Peacekeeping99, mentre l’anno dopo, in Ruanda, si è riscritta la definizione di genocidio100. In Algeria il

98 Ernesto Ruffini, coordinatore di Voice, Voluntary Organisation in Cooperation in Emergencies, Network di cui fanno parte oltre 90 ONG europee impegnate in progetti di aiuto umanitario, di emergenza e di riabilitazione. 99 Nell’operazione di peacekeeping “Restore Hope”, sotto bandiera ONU, il 3 ottobre 1993 gli americani lanciarono l’operazione “Black Hawk Down”, un blitz per catturare l’allora presidente somalo Aidid. L’intervento fallì e morirono 18 soldati americani, i cui corpi furono mutilati e trascinati nelle strade di Mogadiscio.

100 Il genocidio in Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo. al 6 aprile alla metà di luglio del 1994, circa 100 giorni, vennero massacrate sistematicamente (a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati) una quantità di persone stimata da 800.000 e 1.071.000.Le vittime furono in massima parte di etnia Tutsi (Watussi); i Tutsi erano una minoranza rispetto agli Hutu, gruppo etnico maggioritario a cui facevano capo i due gruppi paramilitari principalmente responsabili dell'eccidio: Interahamwe e Impuzamugambi. I massacri non risparmiarono una larga parte di Hutu moderati, soprattutto personaggi politici. e divisioni etniche del paese sono state opera principalmente del dominio coloniale europeo, prima tedesco e poi belga, che iniziò a dividere le persone con l'introduzione della carta d'identità etnica e favorire i Tutsi, considerati di diversa origine ma anche più ricchi e compiacenti. In realtà Tutsi e Hutu fanno parte dello stesso ceppo etnico culturale Bantu e parlano la stessa lingua. Il genocidio terminò col rovesciamento del governo Hutu e della presa del potere, nel luglio del 1994, dell'RPF, il Fronte Patriottico Ruandese. www.wikipedia.org

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terrorismo ha conquistato il controllo di intere regioni, ponendo nuove sfide a chi cercava di fare sviluppo e assistenza umanitaria. Il Sudan ha plasmato l’idea di stato canaglia101, mentre nel paese si combattevano più guerre contemporaneamente e si dava ospitalità al quartier generale di Osama Bin Laden. Tra Sierra Leone e Congo abbiamo visto duecentomila bambini trasformati in spietati e allucinati guerrieri, e nell’Africa del sud l’ AIDS ha cambiato completamente il modo di lavorare e la dimensione dei problemi da risolvere. Al tempo stesso, il Sudafrica ha saputo sconfiggere l’apartheid, realizzando l’unica rivoluzione pacifica del ventesimo secolo, e il Mozambico rappresenta una delle rarissime storie di successo nel campo della pacificazione post-bellica102. In tutti questi eventi, il movimento non governativo ha giocato un ruolo importante quando non centrale. Se durante gli anni Ottanta le ONG di sviluppo hanno piantato solide radici in gran parte del continente, negli anni Novanta, il moltiplicarsi delle grandi emergenze ha portato, altre centinaia di organizzazioni ad impegnarsi, ormai a tempo indeterminato, nell’aiuto umanitario. Per quanto i problemi linguistici e le politiche d’aiuto dei donatori abbiano favorito, almeno all’inizio, una maggiore attrazione delle organizzazioni verso le ex colonie dei paesi di provenienza, l’esplosione di crisi umanitarie ha molto rimescolato le carte negli ultimi anni. Oggi le grandi famiglie di ONG internazionali sono presenti in misura abbastanza uniforme nelle diverse aree di crisi. La concentrazione post-coloniale si sente ancora nel settore degli aiuti allo sviluppo, dove una presenza più radicata e prolungata nei diversi paesi si traduce in un ruolo più importante, e tra le piccole ONG che normalmente non si occupano di emergenze e seguono altre affinità: religiose, politiche o sociali. Oggi le grandi zone d’intervento sono cinque: Sudan, West Africa, Corno d’Africa, Grandi Laghi, Africa del Sud. Il Sudan sta forse uscendo da una guerra trentennale nel sud, mentre ne sta alimentando un’altra ad ovest, nel Darfur, e rappresenta da sempre una delle maggiori voci di spesa nei bilanci umanitari internazionali. L’azione pluridecennale del programma Lifeline Sudan ha costruito un imponente sistema di aiuto umanitario articolato sulla collaborazione tra Nazioni Unite e organizzazioni non governative. Una macchina efficiente, benché resa costosa dalla necessità di trasportare per via aerea enormi quantità di aiuti alimentari, e che ora si sta opportunamente riposizionando nella regione occidentale. La parte del leone, da sempre, è giocata dalle grandi famiglie anglo-americane: Save the Children (SCF), Oxfam, Care, lo International Rescue Committee, i Mercy Corps sono presenti da decenni nel paese. Nel sud, assieme a centinaia di progetti di pura assistenza umanitaria, tentano di portare avanti delle attività di sviluppo rurale in aree di conflitto cronico: acqua, agricoltura, educazione, rafforzamento comunitario.

101 Riservata a sette Paesi ben precisi (Corea del Nord, Cuba, Iraq, Iran, Libia, Siria e Sudan), l’espressione rogue State, che si può tradurre come Stato canaglia, Stato fuorilegge o anche Stato paria, designava Paesi che, secondo Washington, sostenevano il terrorismo e, di conseguenza, erano sottoposti unilateralmente a sanzioni. http://www.internetica.it/USA-Chomsky.htm 102 Nel 1992 Frelimo e Renamo firmarono gli accordi di pace di Roma, definendo congiuntamente una nuova costituzione di stampo democratico. Nelle elezioni libere tenute negli anni successivi, il Frelimo si confermò sempre primo partito dal Mozambico. Passata l'epoca della Guerra fredda, tuttavia, il Frelimo ha ridefinito la propria linea politica in senso più moderato; nel 1995, per esempio, il paese ha spontaneamente deciso di entrare nel Commonwealth. Il Mozambico è il primo paese non facente parte dell'Impero Britannico che accede a questa organizzazione.

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Nel tempo, altre ONG si sono affiancate a quelle inglesi e americane: le grandi umanitariste francesi MSF, Médècins du Monde, Action Contre la Faim (ACF), ed il gigante tedesco dell’aiuto alimentare Deutsche Welthungerhilfe (DWHH). La lotta tra cristiani del sud e musulmani del nord ha poi attratto la solidarietà delle ONG religiose, dalla Caritas a Christian Aid, all’avventista ADRA, all’evangelica Worldvision. Mentre altre, come la laburista Norwegian People’s Aid, sono state mosse soprattutto dalla solidarietà politica con i movimenti di liberazione. Anche diverse ONG italiane sono penetrate.Tanto le economie di scala, quanto la progressiva regionalizzazione delle crisi, hanno creato una comunità di ONG che opera ad ampio raggio in quasi tutto il Corno d’Africa. In Etiopia, Eritrea e Somalia, le ONG italiane hanno un ruolo importante, anche perché nella regione si concentrano gli scarsissimi finanziamenti che il Governo italiano riserva al continente. Il ruolo del grande donatore, comunque, è ricoperto dal Regno Unito. Gli italiani sono sempre state riluttanti ad assumere un profilo umanitarista rigoroso, un po’ per limiti tecnici e un po’ per scelta politica, preferendo lavorare in un’area “grigia” a cavallo tra lo sviluppo e l’aiuto umanitario. Approccio molto adatto ad operare in aree di crisi cronica a bassa intensità, come quelle dell’Africa Orientale, e particolarmente sostenuto dalla Commissione Europea. L’Africa Occidentale è l’ennesimo prodotto della disattenzione della comunità internazionale, che ha consentito ad un piccolo focolaio di crisi di estendersi dalla Liberia a tutti i paesi della regione, coinvolgendo ormai perfino la Costa d’Avorio e, in ultima analisi, il Togo. In quest’area, il mosaico linguistico-coloniale ha prodotto finanziamenti (limitati) da parte di quasi tutti i paesi donatori, e la molteplicità di settori d’intervento ha permesso alle ONG di dispiegare le loro diverse specialità: le francesi nell’azione umanitaria, Oxfam con l’acqua, SCF e l’austriaca SOS Kinderdorf con i bambini soldato, DWHH e ACF con l’agricoltura, e via dicendo. Nella regione, le agenzie francesi sono generalmente più numerose, quelle americane sono prevalenti in Liberia e quelle inglesi in Sierra Leone, ma troviamo perfino le ONG spagnole, normalmente poco presenti a sud del Sahara, e quelle portoghesi. Poche le organizzazioni italiane, sparse tra i vari paesi della regione. La regione dei Grandi Laghi rappresenta oggi la più grave area di crisi dell’intero pianeta. Esplosa con la carneficina del Ruanda, nel 1994, la guerra si è dilatata smisuratamente, coinvolgendo l’Uganda ed il Burundi, travolgendo il Congo e contaminando tutti i paesi della regione. Da 1999 ad oggi, nella sola Repubblica democratica del Congo (DRC), il conflitto è costato la vita a 3.800.000 persone. Nel giugno che seguì il genocidio, giunsero in Ruanda oltre 400 organizzazioni, dando vita all’immagine del “circo umanitario”, in un caotico dispendio di energie e risorse, malauguratamente accoppiato alla mancanza di coordinamento e di reale capacità operativa. L’anno successivo, i donatori affidarono ad un team diretto dal grande umanitarista John Borton il compito di realizzare una valutazione dell’intervento internazionale. Il risultato fu umiliante tanto per le ONG, quanto per i donatori e le agenzie delle Nazioni Unite, e diede vita ad un processo di riorganizzazione dell’intero sistema umanitario. Oggi, gran parte di quelle 400 ONG sono ancora presenti nella regione. Si tratta di uno dei più completi cataloghi del movimento non governativo mondiale, anche se le prime ad arrivare nella zona furono le ONG francesi. Ci sono anche molte ONG italiane, che operano con il consueto eclettismo. In Ruanda si curano le ferite della guerra, mentre in Burundi si tenta disperatamente di evitare che ne avvenga una nuova, dispiegando un’ampia tipologia di programmi che uniscono aiuto allo sviluppo a prevenzione dei conflitti. In Uganda si

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opera tra rifugiati e guerriglieri, in tutti i paesi si sostengono le comunità rurali, ormai ridotte in condizioni di spaventosa vulnerabilità. La maggiore concentrazione di agenzie, in questo momento, si verifica in Congo, di gran lunga il paese più colpito, dove si contano oltre mille morti al giorno. Nell’Africa del Sud, se non mancano conflitti ancora aperti, come quello in Angola, tuttavia l’ AIDS sta diventando molto rapidamente il centro di tutti i problemi. Al di là della dimensione tragica della malattia, quello che preoccupa di più ne è l’effetto sulla società, con il crollo del reddito, il dissolversi delle famiglie, l’abbandono delle attività produttive e dei servizi pubblici. L’AIDS ogni anno priva un milione di scolari dei propri insegnanti, provocando un drammatico deficit educativo in tutta la regione. La malattia, particolarmente diffusa tra il personale dei ministeri e degli ospedali, si concentra nella fascia di età produttiva, provocando un drammatico abbassamento del PIL. Le ONG, soprattutto quelle inglesi ed americane, sono decisamente egemoni in questa azione che copre tanto il trattamento dei malati, l’educazione sessuale e la prevenzione, quanto il sostegno a migliaia di comunità ormai composte soltanto da vecchi e bambini, e in cui stanno scomparendo anche le donne, che vengono colpite il doppio degli uomini dalla malattia. Ma il problema sta assumendo dimensioni sempre più inquietanti in paesi come il Botswana, dove il 37% della popolazione è infetto, o lo Zimbabwe (25%). Come ha sottolineato lo Inter-Agency Standing Committee delle Nazioni Unite, il massimo organismo di coordinamento del settore, “l’AIDS sta cambiando radicalmente l’approccio all’assistenza umanitaria e la sua efficacia in Africa. L’incapacità di adeguare l’azione internazionale provocherà la dispersione delle scarse risorse disponibili e costerà milioni di vite. Il continente avrà bisogno di molti decenni per risollevarsi”.”………………….. Le ONG in Africa costituiscono una forza imponente, il cui l’impatto è superiore a quello delle Nazioni Unite e dei grandi donatori, e la cui azione tocca ormai quasi ogni abitante del continente. Metà dei finanziamenti destinati alla risposta alle emergenze, viene dalla raccolta di fondi realizzata dalle ONG, e molto del denaro di origine governativa, non sarebbe lì se non fosse per la costante azione di advocacy che le grandi famiglie non governative esercitano sugli stati e le organizzazioni internazionali, nello sforzo di mantenere il problema-Africa al centro dell’attenzione politica. Anche se Iraq e Afghanistan dominano ormai saldamente la classifica dei paesi più pericolosi per gli aid workers, molti territori africani sono da considerare aree ad alto rischio. Angola e Sudan, Somalia, Sierra Leone e Congo hanno visto la morte di centinaia di cooperanti negli ultimi anni. Se già da molto tempo le ONG americane si sono dovute ritirare da alcuni paesi in cui venivano malviste, la situazione sta diventando difficile anche per gli europei103. In realtà, il carattere prevalentemente occidentale e “bianco” dell’umanitarismo, rappresenta oggi un grave limite, oltrechè il sintomo di un’incoerenza. Quando la solidarietà tende a diventare paternalismo, anziché essere vista come un’opportunità, viene subita come un nuovo colonialismo.

103 11 Aprile 2007 Kabul - Il personale italiano e internazionale di Emergency (40 persone) lascia l'Afghanistan. "Quando il governo del paese in cui lavori si pone come nemico - dice Gino Strada- non ci sono le condizioni di sicurezza per continuare a lavorare". I 30 italiani che lavoravano per i tre ospedali di Emergency in Afghanistan, oltre ad altre dieci di varia nazionalità, sono arrivati a Dubai con un volo ONU. Gli ospedali di Emergency non sono stati tuttavia chiusi: al momento il personale afgano sta continuando a lavorare

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4. La situazione del Nord Africa Definizione. Il termine Nord Africa è una definizione generica e non comprende un numero preciso di paesi universalmente riconosciuto. La sua definizione è relativa al contesto in cui se ne parla. Dal punto di vista geografico comprende oltre le zone costiere dell’Egitto, Libia, Algeria, Marocco, Tunisia e la regione del Sahara Occidentale, anche le regioni più interne della Mauritania, Mali, Niger, Ciad, Etiopia, Eritrea e Gibuti. Secondo un punto di vista istituzionale solo le regioni costiere vengono classificate come tali, delimitate dal deserto e dal Mediterraneo. Io considererò le regioni che si affacciano nel mar Mediterraneo e quindi l’Egitto, la Libia, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco per inserirle nel contesto del partenariato euro-mediterraneo 4.1 Italia e Spagna in Nord Africa Come leggiamo dalla relazione annuale sulla cooperazione allo sviluppo 2005, “l’Italia , in linea con le linee direttrici della propria politica estera attribuisce particolare attenzione al rapporto con le aree geografiche facenti parte del proprio near abroad, ossia il Nord Africa di cui fanno parte il Marocco, l’Algeria, la Tunisia e l’Egitto”. Nelle statistiche ufficiali il Nord Africa è accomunato alle zone del Medio Oriente e alla Penisola Balcanica in cui gli interventi sono volti ad assicurare in primo luogo la stabilità politica. Questi obiettivi vengono perseguiti attraverso iniziative mirate allo sviluppo di settori chiave dell’economia e della società. Ciò affinché i risultati prodotti nelle singole realtà oggetto dei progetti possano estendersi alla regione, allentando le tensioni esistenti all’interno di un paese o fra diversi paesi di un intera area.

Aiuto ricevuto dal Nord Africa dai paesi DAC

Fonte OCSE

2001 2002 2003 2004 2005 % incidenza sul paese recettore

Algeria 224 328 234 314 371 0.38

Egitto 1256 1237 987 1456 926 1.04

Libia - - - - 24 0.06

Marocco 537 486 651 888 793 1.28

Tunisia 377 58 112 112 141 1.38

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APS ai paesi del Nord Africa, 2000-04

0200400600800

1000120014001600

Algeria Egitto Libia Marocco Tunisia

Milioni di $

20002001200220032004

L’aiuto allo sviluppo nei confronti dei paesi nordafricani rappresenta, inoltre, un elemento importante ai fini di un efficace gestione dei flussi migratori che da tali regioni si originano in direzione dell’Europa. Gli interventi si sono concentrati nei settori dello sviluppo della piccola e media impresa, delle infrastrutture, della sanità, dell’agricoltura, dell’energia, della tutela ambientale , con particolare attenzione alla tematica al rafforzamento istituzionale. Con riferimento ai paesi del Mediterraneo, in considerazione degli obiettivi proposti nell’ambito del partenariato euro-mediterraneo, nel 2005 le attività di cooperazione hanno confermato l’impegno teso a favorire la creazione di un area di libero scambio La storia della presenza della Spagna in Africa è particolare, e nonostante tutte le motivazioni possiamo sintetizzare che il vero movente del colonialismo spagnolo in Africa fu l’orgoglio nazionale, la volontà di trovare qualche vittoria a buon mercato, l’emulazione, l’urgenza di avere un retroterra coloniale per partecipare alla grande spartizione internazionale. Torna in mente la politica coloniale dell’Italia. In più l’Italia aveva la grande valvola dell’emigrazione, che non si riuscirà a dirottare dall’Argentina o dall’Australia verso le coste del Mar Rosso ma che i nazionalisti spagnoli non volevano disperdere in contrade lontane, fuori della giurisdizione e della stessa portata dell’Italia. Come l’Italia, anche la Spagna si impadronì soprattutto di territori residuali, con l’aiuto benevolo di questa o quella grande potenza, più per motivi egoistici — impedire il successo di un concorrente più temibile della Spagna — che per sincera solidarietà. L’Italia dovette alla Gran Bretagna molti dei suoi exploits coloniali, salvo pagar cara — dopo la seconda guerra mondiale — l’ostilità del governo inglese per tanta ingratitudine. Nel Nord Africa la Spagna procedette a fissare la sua presenza avendo in mente una specie di gara con la Francia.

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Aiuto pubblico allo sviluppo italiano e spagnolo, 1 970-2004

0

200

400

600

800

1000

1200

1400

1970-79 1980-89 1990-99 2000-04

Mili

oni d

i $

Italia

Spagna

L’interesse della Spagna per l’Africa, anche per l’Africa nera, si accentuò dopo la fondazione nel 1883 della Società spagnola di africanisti e colonialisti. In Africa, peraltro, nessun possedimento ha mai avuto per Madrid la medesima importanza, pratica e affettiva, del Marocco104, tre volte vicino alla Spagna: per la sua collocazione subito al di là dello stretto, come “contenitore” dell’ormai secolare insediamento di Ceuta e Melilla e per il controllo a distanza delle isole Canarie. Come gli arabi e i berberi del Marocco avevano conquistato in passato la Spagna inondandola con la loro cultura, ora toccava alla Spagna portare la civiltà moderna nel declinante impero sceriffiano attraverso il Mediterraneo. Gli ideologi dell’“africanismo” avevano di mira essenzialmente gli obiettivi mercantili e culturali che potevano essere soddisfatti con il Marocco o nel Marocco.

104 Il colonialismo spagnolo nel continente africano era concentrato in due aree principali: il Marocco e il golfo di Guinea. La presenza spagnola in Marocco risale al 1497, quando furono stabilite postazioni militari a Ceuta e a Melilla, sulle coste dell’Africa settentrionale, per proteggere le navi dagli attacchi dei corsari berberi. La penetrazione sistematica nel territorio avvenne in seguito, verso il 1860, quando, dopo un breve conflitto, il Marocco cedette anche Santa Cruz de la Mar Pequeña (odierna Ifni), sulla costa atlantica, di fronte alle isole Canarie.

APS al Nord Africa e al Medio Oriente

Fonte OCSE Milioni di dollari

Italia Spagna

94-95 99-00 04-05 94-95 99-00 04-05

Bilaterale 31.9 8.5 25.5 11.5 9.4 17

Multilaterale 32.7 12.2 40.8 12.8 12.8 18.9

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Ripartizione generale dei progetti italiani per settore nei paesi del bacino mediterraneo

LEGENDA Primario A Agricoltura, Acque, interventi in ambito rurale di protezione dell’ambiente.

Formazione e scuole agricole Secondario APU Attività produttive in ambito urbano, generatrici di occupazione e reddito(

a favore delle PMI) Terziario F Formazione alle professioni urbane a livello di scuole professionali;

programmi di ricerca applicata con università locali S Interventi socio sanitari IS Iniziative a valenza sociale ( appoggio a organizzazioni di basa, come

sindacati) D Donna M Minori H Handicap P Valorizzazione del patrimonio culturale locale

Paese

Progetti

% sul tot

Settori di intervento (numero progetti)

Primario Secondario Terziario A APU F S IS D M H P

Paesi del bacino

mediterraneo Marocco 20 1,2 7 5 1 1 1 1 1 3 Tunisia 12 0,7 5 2 3 1 1 Algeria 9 0,5 3 1 2 1 2 Egitto 9 0,5 1 5 1 1 1

% settore sul

totale

4

1,6

1,8

1,7

1,6

0,8

1,2

0,4

0,3

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5. Il Partenariato euro-mediterraneo 5.1 L'Unione Europea e il Mediterraneo

Il Partenariato euro-mediterraneo è nato con la Dichiarazione di Barcellona, adottata il 28 novembre 1995 dai 15 ministri degli affari esteri dell'Unione Europea e da quelli dei 12 partner mediterranei beneficiari del programma Meda, di cui dirò dopo: Algeria, Cipro, Egitto, Stato di Israele, Giordania, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia, Territori di Gaza e della Cisgiordania. I suoi contenuti sono stati confermati e rafforzati dalla seguenti conferenze ministeriali. Si tratta di un patto politico tra l'Unione Europea e i paesi del Bacino Mediterraneo, chiamato a riequilibrare verso la sponda sud le relazioni che l'Unione ha sviluppato con i paesi dell'est Europa a partire dal 1989.

Il partenariato euro-mediterraneo si basa su tre campi diversi di intervento: politico e di sicurezza, economico e finanziario, sociale e culturale. Esso si articola quindi in una serie di iniziative che coprono i settori più vari. Tra le più importanti: il riavvicinamento delle politiche economiche settoriali, processo particolarmente attivo nei settori dell'industria, delle telecomunicazioni, dell'energia e dell'acqua; le reti di cooperazione euro-mediterranee miranti a facilitare lo scambio di conoscenze (federazioni industriali, istituti economici, camere di commercio, banche, ecc.); la cooperazione in campo statistico; la cooperazione tra la società civile (università, associazioni professionali, organismi non governativi); il patrimonio culturale che ha come obiettivo il riconoscimento delle reciproche tradizioni e lo sviluppo del dialogo culturale; lo sforzo verso una zona di pace e stabilità attraverso l'identificazione di un certo numero di principi da rispettare e di obiettivi ai quali mirare. Il partenariato, per lo svolgimento delle sue azioni, è dotato di mezzi finanziari importanti, fissati dal Consiglio Europeo di Cannes nel giugno 1995. Questi mezzi comprendono gli aiuti a fondo perduto, provenienti dal bilancio comunitario, ed un ammontare analogo in prestiti della Banca Europea per gli Investimenti. Nell'ambito degli aiuti a fondo perduto la parte preponderante è rappresentata dal programma Meda. Tali aiuti sono gestiti dalla Commissione Europea con l'assistenza del comitato MED, composto dai rappresentanti degli stati membri e presieduto da un rappresentante della Commissione. Il programma Meda ha principalmente lo scopo di incoraggiare e sostenere le riforme socioeconomiche dei partner mediterranei, attraverso due canali di intervento: 1) le azioni bilaterali, che assorbono circa il 90% dell'importo totale e che prendono l'avvio dagli accordi di associazione fra l'Unione Europea e ciascun paese beneficiario; 2) le iniziative regionali, ivi compresa la cooperazione decentralizzata in via di parziale rilancio, che coinvolgono più paesi delle due sponde del Mediterraneo. Le azioni bilaterali si basano sui programmi indicativi nazionali, che definiscono in funzione delle linee guida i settori prioritari del sostegno comunitario, identificando nel contempo gli importi previsionali per ogni settore. I settori principali di intervento sono i seguenti: sostegno alla transizione economica, mediante programmi di aggiustamento strutturale e programmi di sviluppo del settore privato; consolidamento degli equilibri socio-economici; sviluppo della società civile.………………..…………………………… Le iniziative regionali si articolano su incontri, conferenze e programmi tematici, che coinvolgono i partner mediterranei come i paesi europei. Emerge che lo sforzo finanziario

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inerente allo svolgimento del Meda è essenzialmente rivolto non al finanziamento diretto di imprese o società, ma alla preparazione di quel terreno e di quelle condizioni che ne permettano il loro sviluppo ed il loro operare. Per quanto riguarda le proposte di possibili progetti, queste devono, in linea generale, al fine di essere prese in considerazione dalla Commissione Europea, essere accettate e fatte proprie dalle autorità dei paesi beneficiari e rientrare nelle linee della programmazione indicativa sopra citata.

………………………………………………………………………………………

5.2 La Conferenza di Barcellona 1995

5.2.1 Partenariato politico e di sicurezza I partecipanti alla conferenza di Barcellona hanno deciso di istituire un dialogo politico globale e regolare, a complemento del dialogo bilaterale previsto dagli accordi di associazione. Inoltre, la dichiarazione definisce alcuni obiettivi comuni in materia di stabilità interna ed esterna. Le parti si impegnano ad agire in conformità della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, come pure di altri obblighi a norma del diritto internazionale, segnatamente quelli risultanti dagli strumenti regionali ed internazionali. Sono più volte ribaditi i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali (comprese la libertà di espressione, la libertà di associazione, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione). La dichiarazione precisa che occorre accogliere favorevolmente, mediante il dialogo tra le parti, gli scambi di informazioni su questioni attinenti ai diritti dell'uomo, alle libertà fondamentali, al razzismo ed alla xenofobia. Viene evidenziato l’impegnano ad introdurre lo Stato di diritto e la democrazia nei loro sistemi politici, riconoscendo in questo quadro il diritto di ciascun partecipante di scegliere e sviluppare liberamente il suo sistema politico, socioculturale, economico e giudiziario. I firmatari si sono inoltre impegnati a rispettare la loro uguaglianza sovrana, l'uguaglianza di diritti dei popoli e il loro diritto all'autodeterminazione, hanno inoltre convenuto che le relazioni tra i loro paesi poggiano sul rispetto dell'integrità territoriale, sul principio di non intervento negli affari interni e sulla composizione pacifica delle controversie. Si ribadisce l’impegno nel combattere il terrorismo, la criminalità organizzata e il problema della droga in tutti i suoi aspetti. Le parti si sono inoltre impegnate a promuovere la sicurezza regionale, adoperandosi, tra l'altro, a favore della non proliferazione chimica, biologica e nucleare mediante l'adesione e l'ottemperanza ai regimi di non proliferazione sia internazionali che regionali, nonché agli accordi sul disarmo e sul controllo degli armamenti. Le parti perseguono l'obiettivo di creare un'area mediorientale priva di armi di distruzione di massa. 5.2.2 Partenariato economico e finanziario La creazione di una zona di prosperità condivisa nel Mediterraneo presuppone necessariamente uno sviluppo socioeconomico sostenibile ed equilibrato nonché il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, l'aumento del livello di occupazione e la promozione della cooperazione e dell'integrazione regionale.

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Per raggiungere tali obiettivi, i partecipanti hanno deciso di stabilire un partenariato economico e finanziario che sia volto a: • instaurare gradualmente una zona di libero scambio; • attuare un'opportuna cooperazione e un'azione concertata a livello economico nei settori pertinenti; • potenziare sostanzialmente l'assistenza finanziaria dell'Unione Europea ai suoi partner. a) Zona di libero scambio (ZLS). La zona di libero scambio sarà instaurata grazie ai nuovi accordi euro-mediterranei e agli accordi di libero scambio stipulati tra gli stessi paesi terzi mediterranei (PTM). Le parti hanno fissato la data del 2010 come meta per la graduale realizzazione di questa zona che coprirà la maggior parte degli scambi, nel rispetto degli obblighi risultanti dall'Organizzazione mondiale per il commercio (OMC). Saranno progressivamente eliminati gli ostacoli tariffari e non tariffari al commercio per quanto riguarda i prodotti manufatti, secondo scadenzari che saranno negoziati tra i partner. Il commercio dei prodotti agricoli e gli scambi in materia di servizi saranno progressivamente liberalizzati, tenendo conto degli accordi raggiunti nel quadro dei negoziati GATT105 . Per facilitare la realizzazione di questa zona di libero scambio euro-mediterranea, l'UE e i PTM hanno definito quattro settori prioritari:

• l'adozione di misure adeguate in materia di norme d'origine, di certificazione, di tutela dei diritti di proprietà intellettuale, industriale e di concorrenza;

• il proseguimento e lo sviluppo di politiche fondate sui principi dell'economia di mercato e dell'integrazione delle loro economie, tenendo conto dei rispettivi bisogni e livelli di sviluppo;

• l'adattamento e l'ammodernamento delle strutture economiche e sociali, accordando priorità alla promozione ed allo sviluppo del settore privato, al miglioramento del settore produttivo e alla creazione di un opportuno quadro istituzionale e regolamentare per

105 Il General Agreement on Tariffs and Trade (Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio, meglio conosciuto come GATT) è un accordo internazionale, firmato il 30 ottobre 1947 a Ginevra (Svizzera) da 23 paesi, per stabilire le basi per un sistema multilaterale di relazioni commerciali con lo scopo di favorire la liberalizzazione del commercio mondiale. In realtà l'iniziativa conclusasi con l'adozione del GATT era stata presa dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite che si proponeva, inizialmente, di realizzare un progetto ben più ambizioso: l'istituzione dell'International Trade Organization (ITO) (Organizzazione Internazionale del Commercio) come organizzazione permanente che regolasse il commercio mondiale, da affiancare a quelle nate dalla Conferenza di Bretton Woods ovvero Banca mondiale e Fondo Monetario Internazionale. L'accordo relativo all'ITO fu effettivamente raggiunto nell'ambito della Conferenza sul Commercio e l'occupazione delle Nazioni Unite, tenutasi a L'Avana (Cuba) tra il 21 novembre 1947 ed il 24 marzo del 1948, con l'adozione dello statuto dell'ITO (noto come Carta dell'Avana), ma fu bloccato dal Senato statunitense (la bocciatura dell'accordo da parte americana fu dovuta, probabilmente, al timore che l'ITO potesse essere utilizzata per "regolare", più che per "liberalizzare", il commercio mondiale). A seguito della mancata istituzione dell'ITO, il GATT iniziò a funzionare, pur privo di istituzioni permanenti, anche come organizzazione: quando ci si riferisce al GATT ci si può riferire, quindi, sia all'accordo in sé e per sé, sia all'organizzazione nata per gestire e sviluppare questo accordo.

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un'economia di mercato. Analogamente, ci si sforzerà di attenuare le conseguenze sociali negative che possono risultare da tale adattamento, incoraggiando programmi a favore delle popolazioni più povere; • la promozione di meccanismi volti a sviluppare i trasferimenti di tecnologia. Il programma di lavoro prevede alcune misure concrete destinate a promuovere il libero scambio, come l'armonizzazione delle norme e delle procedure doganali, l'armonizzazione delle norme e l'eliminazione degli ostacoli tecnici ingiustificati agli scambi di prodotti agricoli. b) L'intensificazione della cooperazione e della concertazione a livello economico tra l'UE e i PTM riguarda in modo prioritario alcuni settori importanti: • gli investimenti e il risparmio privato: i paesi terzi mediterranei dovranno eliminare gli ostacoli agli investimenti esteri diretti e incentivare il risparmio interno al fine di promuovere lo sviluppo economico. Secondo la dichiarazione di Barcellona, l'introduzione di un ambiente favorevole agli investimenti avrà come conseguenza il trasferimento di tecnologie e l'aumento della produzione e delle esportazioni. Il programma di lavoro prevede una riflessione volta ad individuare gli ostacoli agli investimenti così come gli strumenti necessari per favorire tali investimenti, compreso nel settore bancario; • la cooperazione regionale come fattore chiave per favorire la creazione di una zona di libero scambio; • la cooperazione industriale e il sostegno alle piccole e medie imprese (PMI); • il rafforzamento della cooperazione ambientale; • la promozione del ruolo della donna nello sviluppo; • l'introduzione di strumenti comuni in materia di conservazione e di gestione razionale delle risorse ittiche; • l'intensificazione del dialogo e della cooperazione nel settore dell'energia; • lo sviluppo della cooperazione relativa alla gestione delle risorse idriche; • l'ammodernamento e la ristrutturazione dell'agricoltura. Le parti cercano inoltre di elaborare un programma di priorità riguardo ad altri settori, come le infrastrutture di trasporto, lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione e l'ammodernamento delle telecomunicazioni. Si impegnano inoltre a rispettare i principi del diritto marittimo internazionale, ad incoraggiare la cooperazione tra collettività locali e a favore della pianificazione territoriale, nonché a promuovere la cooperazione nel settore statistico e riconoscono inoltre che la scienza e la tecnologia hanno un considerevole influsso sullo sviluppo socioeconomico. c) La realizzazione di una zona di libero scambio e il successo globale del partenariato euro-mediterraneo poggiano su un rafforzamento della cooperazione finanziaria e su un potenziamento sostanziale dell'assistenza finanziaria fornita dall'UE. Il Consiglio europeo

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di Cannes ha convenuto di prevedere per tale assistenza finanziaria stanziamenti per un importo pari a 4.685 miliardi di euro per il periodo 1995-1999 sotto forma di fondi del bilancio comunitario. A ciò si aggiungono l'intervento della Banca europea per gli investimenti (BEI), sotto forma di prestiti di importo simile, e gli aiuti bilaterali degli Stati membri. 5.2.3 Partenariato nei settori sociale, culturale e umano ………… Ai sensi della dichiarazione di Barcellona, le parti hanno deciso di instaurare un partenariato in ambito sociale, culturale ed umano finalizzato al ravvicinamento e alla comprensione tra popoli e ad un migliore riconoscimento reciproco. Il partenariato si fonda da un lato, sul delicato compromesso tra l'esistenza e il rispetto reciproco di tradizioni, di culture e di civiltà diverse su entrambe le sponde del Mediterraneo e dall'altro, sulla valorizzazione delle radici comuni. In tale ottica, la dichiarazione di Barcellona e il suo programma di lavoro pongono l'accento su: • l'importanza del dialogo interculturale e interreligioso; • l'importanza del ruolo dei mezzi di comunicazione di massa ai fini della conoscenza e della comprensione reciproca tra culture; • lo sviluppo delle risorse umane nel settore della cultura: scambi culturali, conoscenza di altre lingue, attuazione di programmi educativi e culturali rispettosi delle identità culturali; • l'importanza del settore sanitario e dello sviluppo sociale e il rispetto dei diritti sociali fondamentali; • la necessità di coinvolgere la società civile nel partenariato euro-mediterraneo e il rafforzamento degli strumenti della cooperazione decentrata per favorire gli scambi tra i diversi settori dello sviluppo; • la cooperazione nel settore dell'immigrazione clandestina e della lotta al terrorismo, al traffico di droga, alla criminalità internazionale e alla corruzione; Seguito della conferenza. Al fine di garantire un controllo della realizzazione degli obiettivi del partenariato, la Dichiarazione prevede riunioni periodiche dei ministri degli Esteri dei partner mediterranei e dell'UE. Le riunioni sono preparate da un "Comitato euromediterraneo per il processo di Barcellona" che si riunisce periodicamente a livello di alti funzionari. Il Comitato è incaricato inoltre di fare il punto della situazione, dare una valutazione del seguito del processo di Barcellona ed aggiornare il programma di lavoro. Le diverse azioni decise nel quadro del partenariato saranno oggetto di verifica attraverso riunioni tematiche ad hoc di ministri, alti funzionari e esperti, scambi di esperienze e di informazioni, contatti tra i partecipanti della società civile o con qualsiasi altro mezzo appropriato. Dopo l'ultimo allargamento, il 1° maggio 2004, due nuovi partner mediterranei (Cipro e Malta) hanno aderito all'Unione europea. Il partenariato euro-mediterraneo riunisce pertanto 35 membri, 25 Stati membri dell'UE e 10 partner mediterranei (Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Autorità palestinese, Siria, Tunisia e Turchia).

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Le azioni della cooperazione spagnola si situano in Nord Africa nell’ambito del rilancio del Processo di Barcellona del 2005, in cui si colloca il Piano di Lavoro che si adotterà per i prossimi cinque anni con le seguenti priorità:

- il conseguimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, specialmente nell’ambito educativo, riguardo l’educazione allo sviluppo e orientatati alla riduzione della metà il numero delle donne e degli uomini analfabeti entro il 2010, di universalizzare l’accesso all’educazione di tutti i livelli entro il 2015 e garantire che tutti i bambini completino almeno l’insegnamento primario;

- la volontà è di istituire una filiale del Banco Europeo de Inversiones specializzato per i paesi del Mediterraneo;

- promuovere una sostenibilità ambientale e implementare la Strategia Mediterranea per lo Sviluppo Sostenibile106;

- aumento della diversità culturale e della conoscenza delle civiltà mediante azioni di sensibilizzazione sociale azioni per conservare l’eredità culturale mediterranea;

- promozione della tecnologie dell’informazione e la comunicazione nel Mediterraneo;

- sostenere le politiche migratorie.

5.3 Organismi e programmi

5.3.1 Il programma MEDA…………………………………………………...

E’ il principale strumento finanziario dell’Unione Europea al servizio del partenariato euro-mediterraneo. Esso prevede delle misure di accompagnamento finanziarie e tecniche per la riforma delle strutture economiche e sociali dei partner mediterranei. Il programma MEDA ha avuto come prima base giuridica il regolamento del 1996 (regolamento (CE) n° 1488/96 del Consiglio) che copriva il periodo dal 1995 al 1999 e lo dotava di un bilancio di 3.435 milioni di euro. Un nuovo regolamento (regolamento (CE) n° 2698/2000), versione migliorata del precedente, che istituiva il programma MEDA II per il periodo 2000-2006, è stato adottato nel novembre 2000.…………………………………... Il nuovo programma ha una dotazione di 5,35 miliardi di euro. I principali obiettivi e settori di intervento si rifanno direttamente a quelli della Dichiarazione di Barcellona del 1995. Il programma MEDA ha una vocazione allo stesso tempo bilaterale e regionale.……………… Al livello bilaterale, il programma MEDA ha le seguenti priorità: - sostegno alla transizione economica: l’obiettivo è di preparare il libero scambio migliorando la competitività nell’ottica di una crescita economica sostenibile grazie, in particolare, allo sviluppo del settore privato,,- potenziamento dell’equilibrio socio-economico, con l’obiettivo di mitigare gli effetti negativi a breve termine della transizione economica con misure sociali adeguate. Per definire le priorità è necessario tener conto del livello di sviluppo della società e dell’economia dei singoli paesi nonché della capacità delle loro istituzioni. Si può quindi decidere di promuovere dei programmi che siano in grado di contribuire allo sviluppo della democrazia e al rispetto dei diritti umani. La cooperazione regionale e multilaterale riflette i progressi realizzati nell’ambito del processo di Barcellona,

106 Tenutasi il 20-22 Giugno 2005 ad Atene

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prevedendo degli interventi a livello multilaterale su questioni di interesse comune, in conformità alla Dichiarazione, e potenziando le attività in favore di una cooperazione decentrata. I programmi regionali coprono i tre pilastri della Dichiarazione di Barcellona. Meda-democrazia è un programma di cooperazione destinato a promuovere i diritti dell'uomo e lo sviluppo della democrazia nei paesi partner mediterranei. Creato su iniziativa del parlamento europeo nel 1996, il programma accorda delle sovvenzioni ad associazioni senza scopo di lucro, università, centri di ricerca e organismi pubblici, per realizzare dei progetti che mirino all'avanzamento della democrazia, della libertà d'espressione, di associazione e a proteggere dei gruppi specifici della società quali le donne, i giovani e le minoranze. il finanziamento comunitario per questo tipo di progetti può arrivare fino all'80% del costo totale…………………………………………………. Lo scopo di Life paesi terzi è attuare misure di assistenza tecnica ed azioni pilota nei paesi terzi (nell'area mediterranea, oltre ai "paesi Meda", Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia) nei settori dell’assistenza tecnica per la messa in opera delle strutture amministrative necessarie nel campo dell'ambiente e per lo sviluppo di politiche ambientali e programmi d'azione; nella conservazione o recupero, dal punto di vista della protezione ambientale, di importanti habitat che ospitino flora e fauna minacciate; azioni pilota di promozione dello sviluppo sostenibile.………………………………………………………………………….. Il programma finanzia, in genere, fino al 50% dei progetti presentati da amministrazioni pubbliche, ONG, persone fisiche o giuridiche stabilite nei paesi eleggibili.

5.3.2 Programmi Regionali…………….………………………………………………

La cooperazione regionale è una pratica innovativa del Processo di Barcellona che costituisce essenzialmente una risposta regionale alle possibilità e alle sfide che risultano dalla vicinanza della regione mediterranea all'Europa.……………………………………. L'impatto strategico della cooperazione regionale è considerevole poiché essa si occupa di problemi comuni a numerosi partner mediterranei ponendo l'accento sulle complementarietà nazionali. L'obiettivo generale di questa forma di cooperazione è quello di incoraggiare una integrazione più stretta dei 27 partner (i 15 Stati membri dell'Unione europea e i 12 partner mediterranei). Più specificatamente, la cooperazione regionale persegue i seguenti obiettivi:

• giocare un ruolo di catalizzatore al fine di rafforzare gli effetti della cooperazione bilaterale;

• intensificare la cooperazione Sud-Sud (anche detta la cooperazione tra i Partner mediterranei);

• affrontare i problemi di dimensioni transnazionali (per esempio uniformare le infrastrutture e le norme).

5.3.3 Programma Heritage L’importanza fondamentale del dialogo fra le culture oggi è sotto gli occhi di tutti. Gli avvenimenti degli ultimi anni, dall’11 settembre, all’attentato dell’11 marzo a Madrid, all’ira suscitata dalle vignette su Maometto pubblicate da giornali danesi e francesi, ci

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hanno reso consapevoli della sua importanza. Ma il dialogo e la comprensione reciproca non sono dei processi astratti, non sono solo il preambolo della Dichiarazione di Barcellona107, in cui l’Europa già nel 1995, si rendeva conto della necessità di ritrovare un dialogo e dichiarava il suo impegno a trasformare il Mediterraneo in un’area di pace, stabilità e prosperità condivisa. E’ per questo che Meda è fondamentale sia nella dimensione bilaterale (UE – Paese Mediterraneo) ma a maggior ragione in quella regionale in quanto facilità l’interazione tra gli stessi Paesi Mediterranei. Il Mediterraneo può diventare una zona privilegiata di dialogo, e può farlo al meglio partendo dalle sue origini, rivalutando e riscoprendo insieme il suo immensamente ricco patrimonio culturale comune. Il programma Euromed Heritage, che ha unito 400 partners dei 25 paesi dell’Unione Europea e i dieci paesi Meda (Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Marocco, Siria, Autorità Palestinese, Tunisia e Turchia), è una rete unica di università, musei, enti pubblici, associazioni culturali, organizzazioni non governative che lavorano insieme, superano gli estremismi e le roccaforti culturali e si scambiano esperienze e informazioni. Sono coinvolte 87 città da Aix en Provence, Albacete, Alessandria d’Egitto, Algeri, Amman, per finire con Valdemossa, la Valletta e Venezia. Il programma mira a rafforzare la capacità dei paesi mediterranei a gestire e sviluppare il proprio patrimonio culturale, è oggi coordinato da Roma presso l’Istituto per il Catalogo e la Documentazione del Ministero dei Beni e le Attività Culturali, che conferma così la sua vocazione euro-mediterranea, attraverso un’Unità di Gestione e di Supporto del Programma (RMSU). Adotta il patrimonio mediterraneo è un’iniziativa innovatrice del programma Euromed Heritage per favorire i contatti tra i promotori culturali del patrimonio mediterraneo a rischio e gli investitori internazionali interessati a finanziarne, per esempio, il restauro, la conservazione o la valorizzazione. Non si tratta dunque di un finanziamento europeo diretto ma di una iniziativa che promuove il partenariato tra il pubblico e il privato, consapevole del contributo strategico che il patrimonio culturale può offrire allo sviluppo economico e sociale di un paese. 5.3.4 Fondazione Euro-mediterranea "Anna Lindh" La Fondazione Anna Lindh per il dialogo fra le culture euro-mediterranee (ALF) è la prima istituzione comune creata e finanziata dai 35 partner euro-mediterranei (25 UE e 10 Paesi Terzi Mediterranei). L’idea di questa Fondazione per il dialogo fra le culture euro-mediterranee è stata lanciata formalmente durante la Conferenza dei ministri degli esteri euro-mediterranei di Napoli, nel dicembre 2003; un anno dopo, la sua istituzione è stata ratificata dalla Conferenza dei Ministri degli Esteri dell’Aja.……………………….. La missione assegnata alla Fondazione è di avvicinare i popoli e gli organismi delle due sponde del Mediterraneo e di avviare una partnership fra l’UE e i PTM nei settori sociale, culturale e umano e in particolare sviluppare le risorse umane, promuovere la comprensione reciproca fra le culture e incoraggiare gli scambi fra componenti della società civile. …

107 “ Considerando che la pace mondiale può essere difesa soltanto con sforzi creatori adeguati ai pericoli che la minacciano; Considerando che il contributo, che un’Europa organizzata e viva può portare alla civiltà, è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche…” Preambolo della Dichiarazione di Barcellona

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Per realizzare tale missione la Fondazione si impegna a promuovere un concetto dinamico di dialogo fra le culture e le civiltà (intendendo il termine cultura nel suo significato più ampio, comprendente tutti gli aspetti della vita) e incoraggia la cooperazione intellettuale e le attività di capacity building in settori multidisciplinari, quali i diritti umani, la cittadinanza democratica, lo sviluppo sostenibile, l’apprendimento, la società dell’informazione e della conoscenza, le politiche di genere e i giovani. La Fondazione, almeno nel suo stadio iniziale, opererà come una rete di reti: ognuno dei 35 Stati partecipanti ha identificato le istituzioni e gli organismi che, a livello nazionale, stanno operando per lo sviluppo del dialogo nel quadro delle società mediterranee e ha quindi creato la propria rete nazionale di tali enti, fra i quali ha selezionato quello che agirà come capo e referente della rete nazionale (nodo nazionale). 5.3.5 Euromesco La Mediterranean Study Commission (MeSCO) è stata formata nel 1994, grazie all'iniziativa dello IAI (Istituto Affari Internazionali). MeSCO è stato un network formale e permanente di istituzioni del Mediterraneo che si occupano di affari internazionali e di sicurezza. Dopo l'incontro inaugurale organizzato dallo IAI a Roma nel 1994, un secondo incontro è stato organizzato dal Centro egiziano al-Ahram di Studi Politici e Strategici (CPSS) ad Alessandria nel 1995. Il terzo incontro, organizzato dall'Istituto portoghese di Studi Strategici ed Internazionali (IEEI), si è tenuto a Sesimbra nel giugno del 1996.108 A Sesimbra, a seguito della costituzione del Partenariato Euro-Mediterraneo nel novembre 1995 in occasione della Conferenza di Barcellona, MeSCO è stata trasformata in EuroMeSCo (Euro-Mediterranean Study Commission) su iniziativa dello IAI e dello IEEI. 5.3.6 Femise ……………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………….. II (Programma MEDA II) - FEMISE è la Rete Euro-Mediterranea di istituti economici dei 27 paesi del Partenariato euro-Mediterraneo. Obiettivo della rete è promuovere il monitoraggio e la valutazione, accademica di altissimo livello, relativa all'aspetto economico del Partenariato ed anche gli effetti degli Accordi euro-mediterranei nei confronti di questi paesi. FEMISE è stata creata per identificare e monitorare il progresso dei paesi partner mediterranei nel processo di transizione e di apertura, specialmente per quanto concerne l'area di libero scambio e la cooperazione Sud – Sud; promuovere la ricerca economica su argomenti prioritari per il Partenariato; -scambiare dati e studi fra istituti membri e migliorare la loro integrazione nella ricerca economica su scala internazionale. Scopo di FEMISE è sia migliorare la comprensione dell'evoluzione della regione euro-mediterranea, nelle sue dimensioni nazionale e regionale tramite ricerche accademiche di altissimo livello; sia suggerire evoluzioni in linea con gli obiettivi del processo di Barcellona. Inoltre obiettivo della rete è anche cogliere l'opportunità offerta dal programma per promuovere le capacità di ricerca sul luogo, specificamente presso i paesi partner mediterranei creando gruppi di lavoro multinazionali. Il cofinanziamento di FEMISE è per il sostegno di studi e ricerche nei seguenti settori: Agricoltura in transizione; Impatto degli Accordi di associazione sul flusso dei capitali, dei beni e dei servizi; Povertà, Informal

108 http://www.iai.it/sections/ricerca/mediterraneo/pol_europeeMedMO.asp

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Sector, salute e mercato del lavoro; Ruolo dello Stato; Educazione, formazione e ruolo delle donne nella società e nell'economia; Integrazione Sud - Sud. 5.3.7 Assemblea Parlamentare Euromediterranea (APEM) L'Assemblea Parlamentare Euro-mediterranea, che ha tenuto la sua riunione di insediamento ad Atene il 22 e 23 marzo 2004, è nata dalla trasformazione e istituzionalizzazione del Forum parlamentare euromediterraneo, istituito su iniziativa del Parlamento Europeo che ha raccolto l'invito, formulato nel Programma di lavoro allegato alla Dichiarazione di Barcellona per favorire "un futuro dialogo parlamentare euromediterraneo, che potrebbe permettere a rappresentanti eletti degli Stati partner uno scambio di opinioni su un'ampia gamma di problemi". La composizione e le finalità dell'Assemblea rispecchiano a pieno la natura del Partenariato euro-mediterraneo, finalizzato alla creazione, entro il 2010, di una zona di libero scambio tra l'Unione Europea e gli Stati del bacino del Mediterraneo da realizzarsi attraverso la negoziazione di accordi di associazione con tutti i Paesi partner mediterranei e l'adozione di uno specifico programma di sostegno economico. L'Assemblea è composta da 240 membri, dei quali 120 designati dai paesi partner mediterranei, 45 dal Parlamento Europeo e 75 dai Parlamenti nazionali degli Stati membri, (tre per Stato membro). È ulteriormente ripartita in tre Commissioni di ottanta membri ciascuna, i cui compiti corrispondono in linea generale ai tre capitoli in cui è suddiviso il partenariato (politico e di sicurezza, economico-finanziario, sociale, culturale e umano). L'Ufficio di Presidenza dell'Assemblea è composto di quattro membri (due dei Paesi Terzi Mediterranei, uno del Parlamento europeo, uno dei Parlamenti nazionali) che assicurano la Presidenza sulla base di una rotazione annuale. In occasione della sua prima riunione ad Atene, l'Assemblea ha approvato il suo regolamento interno e ha raggiunto un accordo sulla composizione del suo Ufficio di Presidenza (dove sono rappresentati Egitto, Tunisia, Grecia e il Parlamento europeo) e degli Uffici di Presidenza delle tre Commissioni, che durano in carica per due anni. L'Italia è stata designata alla presidenza della Commissione cultura.

5.4 Le conferenze seguenti

Dalla conferenza di Barcellona del 1995, si sono tenute altre sette conferenze euro-mediterranee dei ministri degli Esteri: a Malta nell'aprile 1997, a Stoccarda nell'aprile 1999, a Marsiglia nel novembre 2000, a Bruxelles il 5 e 6 novembre 2001, a Valencia, il 22 e 23 aprile 2002, a Napoli, il 2 e 3 dicembre 2003 e a Lussemburgo il 30 e 31 maggio 2005. Inoltre, si sono tenute riunioni informali di ministri degli Esteri a Palermo nel giugno 1998 e a Lisbona nel maggio 2000 (cosiddetti "think tank").Nel corso della conferenza di Stoccarda, la Libia è stata accolta per la prima volta quale invitato speciale della presidenza e, successivamente, ha assistito alle conferenze di Marsiglia, Bruxelles e Valencia. La Libia ha attualmente uno statuto di osservatore. La quinta conferenza euro-mediterranea dei ministri degli Esteri, svoltasi a Valencia il 22 e 23 aprile 2002, è stata considerata estremamente fruttuosa e ha impresso un nuovo slancio al processo di Barcellona. I

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partecipanti alla conferenza di Valencia hanno adottato all'unanimità un piano d'azione da attuare quanto prima, il quale prevede diverse iniziative a breve e medio termine destinate a rafforzare i tre assi del processo di Barcellona. La settima conferenza euro-mediterranea dei ministri degli Affari esteri, riunitisi a Lussemburgo il 30 e 31 maggio 2005 ("Barcellona VII"), ha permesso di valutare i risultati conseguiti e di discutere sugli orientamenti generali per il futuro del partenariato euro-mediterraneo. La riunione ha tra l'altro predisposto la riunione straordinaria ad alto livello che si terrà a Barcellona dal 27 al 29 novembre 2005 per celebrare il 10° anniversario del partenariato e definire una serie di azioni per il futuro. Questi due eventi costituiscono i punti culminanti dell'"Anno del Mediterraneo" 2005.

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6. I paesi del Nord Africa

6.1 Algeria Informazioni generali L’Algeria è una Repubblica presidenziale. Ottiene l’indipendenza dalla Francia il 5 Luglio 1962, dopo 8 anni di sanguinosa guerra con la potenza occupante. Ha conosciuto un breve periodo di democratizzazione, tre il 1989 e il 1991, interrotto dal colpo di stato militare appoggiato dal Fronte Nazionale di Liberazione, che si instaura riformando la costituzione e introducendo il partito unico. La liberalizzazione dei partiti politici nel 1989 vede l’affermazione rapidissima del Fronte Islamico di Salvezza che ottiene un grande consenso alle elezioni del 1991, scatenando una violenta guerra civile conclusasi nel 1999. I diritti civili del popolo algerino sono limitati dallo stato di emergenza nazionale in vigore dal 1992, che restringe il riconoscimento dello status legale a un numero limitato di partiti. Contesto socio-economico L’economia algerina presenta notevoli squilibri, dovuti principalmente alla sua dipendenza dal settore degli idrocarburi, alla produzione agricola sottodimensionata rispetto al fabbisogno, a un tasso di crescita che, seppur positivo, non consente di far progredire l’economia al passo richiesto dal boom demografico che il paese ha sperimentato dopo l’indipendenza. Oggi, infatti, il 70% della popolazione ha un’età inferiore ai 35 anni. I tassi di disoccupazione oscillano attorno al 30% a livello nazionale, ma nelle zone rurali dell’interno toccano punte del 70-80%. In contrapposizione a questo scenario vediamo che ad Algeri vi sono uffici e rappresentanze dei principali donatori mondiali, il sistema delle Nazioni Unite è presente con le principali agenzie (UNDP, UNIDO, FAO), e recentemente ha aperto un suo ufficio anche la Banca Mondiale, che ha avviato i negoziati per definire con le autorità algerine un piano strategico di sviluppo e crescita. L’obiettivo strategico globale per l’Algeria è quello di appoggiare i processi e le riforme istituzionali ed economiche e sociali per migliorare il livello di vita della popolazione attraverso l’aumento dell’occupazione e delle capacità di sviluppo della società civile. Lo sviluppo economico è alimentato in gran parte dalla maggiore spesa pubblica necessaria per fronteggiare l’arretratezza delle infrastrutture pubbliche e la carenza di alloggi. Continuo, grazie alle ingenti entrate della vendita di idrocarburi, il miglioramento delle riserve valutarie, che nel 2005 ha raggiunto i 57,1 miliardi di dollari (33 miliardi nel 2003 e 42,3 nel 2004). Costante è la riduzione del debito estero, attestatosi nel 2005 intorno ai 16,4 miliardi di dollari rispetto ai 21,8 miliardi di dollari del 2004. Il debt-service ratio si é ridotto del 13 % rispetto al 25 % del 2004 attestandosi a 5.2 miliardi di dollari, equivalente al 13% delle esportazioni e al 5% del PIL tornando così a livelli sostenibili ( se così possiamo dire!). A fronte di un quadro macroeconomico sostanzialmente positivo, la situazione socioeconomica complessiva resta caratterizzata dallo squilibrio tra il settore finanziario in continua crescita, grazie alle cospicue entrate in valuta e quello reale (settore industriale

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pubblico) in costante declino. Il tutto in un contesto sociale che, seppure in progressivo miglioramento, come evidenziato dai dati sull’andamento del mercato del lavoro, non può essere ancora considerato pienamente soddisfacente. Il tasso di disoccupazione secondo il FMI è sceso nel 2005 al 15.3% (1.5 milioni di disoccupati), mentre quello dei giovani è rimasto alto (31%). Il 2006 ha ugualmente visto la creazione di 900.000 nuovi posti di lavoro. Diffuse la povertà e l’instabilità sociale. Che le condizioni di vita in Algeria siano peggiori rispetto a quelle “potenziali”, considerate le ricchezze del paese, emerge anche dalla differenza tra l’indice di sviluppo umano ed il PIL (-31 rispetto al -22 del 2000), riportato nel Rapporto sullo sviluppo umano 2003 del UNDP. Da segnalare che l’Algeria ha leggermente migliorato il suo “indice di percezione della corruzione” approntato da Trasparency international passando da 2,7% del 2004 al 2,5% nel 2005 e posizionandosi 97esima su 159 paesi109. Programma Quinquennale per il Consolidamento della Crescita economica. Il programma quinquennale (2005-2009) per il rilancio dell’economia, annunciato all’indomani della rielezione nell’aprile del 2004 del Presidente Bouteflika, prevede un importante stanziamento (circa 60 miliardi dollari) ed offre interessanti opportunità di investimento per le imprese italiane. La spesa sarà destinata ai seguenti campi: insegnamento e formazione, sostegno degli investimenti pubblici e privati, lotta alle frodi, costruzioni, miglioramento delle condizioni di vita e sviluppo di nuove tecnologie di comunicazione. In aggiunta ai 55 miliardi di dollari USA già stanziati nell'ambito del programma quinquennale di rilancio dell'economia, nel corso del 2005 sono stati destinati altri 5 miliardi di dollari per la realizzazione di opere pubbliche per lo sviluppo del Sud del paese, delle aree semi-desertiche e della zona degli altipiani. L'investimento totale in infrastrutture pubbliche sarà pertanto di circa 60 miliardi di dollari, oltre agli stanziamenti per gli esercizi annuali. In particolare, le disposizioni orientate a sostenere Insegnamento e Formazione Professionale assorbiranno la fetta più importante della spesa pubblica (circa il 20 %). Le misure che verranno prese per rendere operativi gli investimenti della Piccola e Media Impresa si tradurranno in esoneri fiscali sui primi 5 anni di attività e concorso dello Stato nell’azzeramento dei debiti aziendali. A tale proposito, con il programma del Presidente Bouteflika per il 2004-2008, dell’8 aprile 2004, è stato previsto il potenziamento delle PMI (obiettivo di un milione di imprese da raggiungere nel 2008). A favore di queste è stato creato un fondo di garanzia, FGAR, gestito dal Ministero competente, per garantire crediti bancari destinati ad investimenti in progetti di trasformazione e produzione, ma non per operazioni commerciali. Nel settore dell’edilizia residenziale si prevede di costruire entro il 2009 un milione di abitazioni la cui realizzazione si prevede creerà 2 milioni posti di lavoro. Al settore delle costruzioni, dei lavori pubblici e delle risorse idriche verranno allocati 3,1 miliardi di euro, circa il 15% della spesa pubblica. E’ nelle attese del Governo l’aumento consistente degli investimenti privati nazionali e stranieri, nonché dei crediti finanziari che saranno mobilizzati per la realizzazione di importanti infrastrutture nei settori dei trasporti e delle ferrovie e per opere di adduzione e del trattamento delle acque. 109 Il CPI (Corruption Perception Index) è un indice che determina la percezione della corruzione nel settore pubblico e nella politica in numerosi Paesi nel mondo, attribuendo a ciascuna Nazione un voto che varia da 0 (massima corruzione) a 10 (assenza di corruzione).Si tratta di un indice composito, ottenuto sulla base di varie interviste/ricerche somministrate ad esperti del mondo degli affari e a prestigiose istituzioni. La metodologia viene modificata ogni anno al fine di riuscire a dare uno spaccato sempre più attendibile delle realtà locali.

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6.1.1 La cooperazione euro-mediterranea L'Algeria è uno dei paesi più grandi nell'ambito dei rapporti euro-mediterranei, nonché uno dei principali fornitori di risorse energetiche per diversi paesi UE. Basta già questo per comprendere l'importanza dei motivi che hanno spinto l'Europa a far si che l'Algeria partecipasse a pieno titolo al Processo di Barcellona, contribuendo anche al superamento della difficile situazione interna, che rischiava di allontanare il paese dalle relazioni con l'area mediterranea. La Delegazione della Commissione Europea in Algeria è stata aperta già nel 1979, in seguito alla firma dell'Accordo di Cooperazione tra la Comunità europea e l'Algeria nel 1976. L'Algeria ha poi concluso i negoziati per l'Accordo di Associazione con l'Unione europea il 19 dicembre 2001; l'Accordo è stato firmato il 22 aprile 2002 nel corso del Summit Euro-Mediterraneo di Valencia ed è entrato in vigore il 1° settembre 2005. Dopo la firma dell’Accordo di Associazione con l’Algeria110 diventa ancora più significativa la realizzazione delle riforme indirizzate a modernizzare l’economia algerina, come previsto per i partner del programma di Partenariato euro-mediterraneo. Gli strumenti più rilevanti per le relazioni anche con l’Algeria sono: 1. La “ Facilité euro-méditerranéenne d’investissement et de partenariat-FEMIP”, creata nel 2002 per incoraggiare gli investimenti nelle economie dei nostri partner mediterranei. Si tratta, quindi di un appoggio al settore privato nei paesi MEDA nei settori: acqua, ambiente, capitale umano, infrastrutture, industria e finanza per un importo 25 milioni di Euro per il 2005. 2. Un “Fonds de soutien à la Facilité euro-méditerranéenne d’investissement et de partenariat-FEMIP-Pays MEDA” è stato creato presso la BEI per finanziare attività di assistenza tecnica. 3. Il progetto “Facilité de capital à risque 2005-2006”, che permette di accrescere le risorse finanziarie disponibili per il finanziamento del settore privato nella regione e di aiutare alla creazione di nuove imprese, soprattutto nei settori delle PMI. Al riguardo, il 15 dicembre 2006 la BEI ha accordato all'Algeria 4 milioni di euro come sovvenzione (fondi di assistenza tecnica dell'Agevolazione euro-mediterranea di investimento e partnership- FEMIP) per il settore autostradale algerino. L'Agenzia Nazionale delle Autostrade Algerine (ANA) beneficerà dell'assistenza tecnica per la realizzazione del tratto autostradale di 26 Km tra Bouria e El Adjiba e per la formazione del personale. Con le stesse condizioni la BEI ha assegnato 2 milioni di euro per due operazioni di assistenza tecnica per il progetto di ricostruzione di infrastrutture pubbliche dopo il sisma del maggio 2003, per il quale la BEI ha già erogato 230 milioni di euro con un prestito trentennale. In campo economico il Programma MEDA per l’Algeria prevede progetti in corso di esecuzione per la modernizzazione del settore finanziario (23,25 milioni di euro), lo sviluppo della PMI (57 milioni di euro), la ristrutturazione industriale (38 milioni di euro), le costruzioni sociali (13,28 milioni), il settore bancario (11 milioni di euro), le telecomunicazioni (17 milioni) e l’ambiente (10,75 milioni).

110 2005/690/CE: Decisione del Consiglio, del 18 luglio 2005, relativa alla conclusione dell’accordo euromediterraneo che istituisce un’associazione tra la Comunità europea e i suoi Stati membri, da una parte, e la Repubblica algerina democratica e popolare, dall’altra

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Quanto alla ripartizione per aree geografiche degli scambi, si conferma al primo posto nel 2005 l’Unione Europea con il 55,21% delle importazioni algerine, pari a 11,067 miliardi di dollari, registrando un aumento del 9,61%. Per le esportazioni algerine l’incremento è stato del 39%; il valore degli acquisti dall’Algeria è passato da 17,396 miliardi di dollari nel 2004 a 24,179 miliardi di dollari nel 2005. L’Unione Europea detiene quest’anno il 54,46% del totale delle esportazioni algerine rispetto al 54,22% nel 2004. Seguono gli altri paesi OCSE che detengono il secondo posto con 3,468 miliardi di dollari d’importazioni registrate nel 2005 contro 3,071 nel 2004, le quote sono rispettivamente del 17,3% e 16,77% del totale delle importazioni algerine. Nel 2005 le esportazioni algerine sono aumentate del 33,78 % per i suddetti paesi, da 11,054 miliardi di dollari nel 2004 a 14,788 nel 2005. Principale cliente dell’Algeria nel 2005 sono gli Stati Uniti con 10,462 miliardi di dollari, seguita dall’Italia con 6,954 miliardi di dollari, (15,66% del totale delle esportazioni algerine), Spagna con 4,988 miliardi (11,24%), Francia con 4,496 miliardi pari al 10,13% e principale fornitore dell’Algeria resta, nel 2005, la Francia con 4,438 miliardi di dollari, pari al 22,14% del totale delle importazioni, seguita dall’Italia con 1,497 miliardi di dollari (7,47%); dagli Stati Uniti con 1,339 miliardi (6,68%), sostituendo alla terza posizione la Germania con 1,239 miliardi (6,18%), e Cina con 1,298 miliardi (6,48%) che ha registrato una notevole crescita rispetto all’anno 2004 (+41,7%), da Germania con 1,239 (6,18%)e da Spagna con 935 milioni pari al 4,75% del totale delle importazioni. A fronte di un vivace interscambio commerciale, si registra ancora una limitatezza del volume degli investimenti esteri diretti nel paese, nonostante lo sforzo di liberalizzazione intrapreso dal Governo nel quadro della transizione verso l’economia di mercato. Per l’anno 2005, la Banca Centrale d’Algeria ha annunciato che gli IDE hanno raggiunto i 420 milioni di dollari, in calo in valori assoluti rispetto al 2004 di 200 milioni di dollari, nel 2003 gli IDE avevano totalizzato 620 milioni di dollari e 970 nel 2002. L'Algeria si colloca pertanto al primo posto nel Maghreb come paese destinatario di investimenti esteri, seguita dal Marocco con 853 milioni di dollari. Secondo i dati forniti dalla Banca d’Algeria e riportati dall’UNCTAD, gli Stati Uniti, con 907 milioni di dollari investiti dal 1998 al 2001, rappresentano il primo investitore, soprattutto nel settore degli idrocarburi, anche se comincia una certa diversificazione a favore dei settori chimico e farmaceutico. Segue l’Egitto, con 363 milioni di dollari investiti nel medesimo periodo, entrato nel mercato algerino nel 2001, e subito piazzatosi al secondo posto, grazie al rilevante investimento nel settore delle telecomunicazioni (Orascom è il secondo operatore di telefonia mobile). Seguono Francia, Spagna ed Italia , con 344, 221 e 148 milioni di dollari rispettivamente, investiti nel periodo considerato nei settori degli idrocarburi (AGIP), dell’agroalimentare, della ceramica, della chimica-farmaceutica, delle industrie manifatturiere e della siderurgia. L’Italia è poi seguita dalla Germania con 132 milioni di dollari, dai Paesi Bassi con 77 milioni, dalla Gran Bretagna con 75, dal Giappone con 49 e dal Belgio con 32 milioni di dollari, investiti nel quadriennio 1998-2001. Nel suo rapporto sugli “Affari nel 2005: eliminare gli ostacoli alla crescita”, la Banca Mondiale sottolinea come l’Algeria abbia ridotto i tempi per dare avvio ad un’attività imprenditoriale, mentre restano ancora in piedi numerose altre difficoltà che bloccano l’investimento. Il lancio di una nuova impresa richiede 14 procedure, il 27,3% del reddito pro capite e 26 giorni. L’immatricolazione di una nuova società necessita oltre 50 giorni e 16 procedure. Nella classifica generale, l’Algeria occupa il 128° posto, su 155 Paesi interessati.

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L’entrata in vigore dell’Accordo di associazione con l’UE il primo settembre 2005 ed il negoziato in corso per la futura adesione all’OMC hanno imposto all’Algeria l’attuazione di un programma di progressivo smantellamento delle barriere tariffarie al libero accesso di beni e servizi stranieri al suo mercato. In particolare, nei negoziati di accesso all’OMC, le Autorità algerine non avrebbero richiesto deroghe particolari sulle tariffe. E’ stato sospeso il sistema di imposizione di diritti doganali su alcuni beni di consumo considerati di lusso, basato non sul valore realmente fatturato, ma su un valore “amministrato” (notevolmente più alto), fissato arbitrariamente dall’Autorità Doganale. A parte un numero limitato di prodotti per i quali è previsto l’esonero, al fine di garantire una certa protezione alla produzione locale, il nuovo regime di dazi doganali, sancito dall’ordinanza n. 01-02 del 20 agosto 2001, prevede tre aliquote: del 5% per le materie prime, del 10% per i semilavorati e del 30% per i prodotti finiti. La T.I.C. (Taxe Intérieure sur la Consommation) grava su alcuni beni di consumo considerati a vario livello “superflui” o di lusso, con aliquote del 10%, 20%, 40%, 50%, fino al 100% per i superalcolici. Facendo un paragone con altri paesi allo stesso livello di sviluppo, i gravami riguardanti i prodotti introdotti in Algeria non sono da considerare particolarmente protettivi. I dazi doganali dovranno essere ulteriormente abbassati, in particolare quelli relativi all’agricoltura. Crea invece una certa difficoltà agli operatori locali la circostanza che ogni anno, con la Legge finanziaria, possano essere apportate modificazioni al sistema di imposizione o al sistema di importazione /distribuzione dei prodotti, traducendosi in vere e proprie barriere non tariffarie. Spesso, infatti, i problemi incontrati da tutti i partner europei per l’importazione di determinati beni nascono proprio dai parametri non sempre chiari ed univoci sui quali la regolamentazione interna si basa. In alcuni casi, il problema è stato risolto (o si cerca di risolverlo) sul piano bilaterale. Molti paesi europei hanno raggiunto, ad esempio, intese con i servizi sanitari algerini per l’importazione di bovini vivi, strada che anche l’Italia ha intrapreso, fornendo le medesime garanzie degli altri Paesi dell’UE. L’accordo tra i due Paesi non è stato, tuttavia, ancora raggiunto. La promozione degli investimenti passa anche attraverso gli Accordi di conversione del debito che il Governo algerino ha stipulato con la Spagna nel marzo 2002 (per un ammontare di 40 milioni di euro) e con la Francia nel dicembre dello stesso anno (61 milioni di euro). I due accordi, sebbene non siano ancora in una fase avanzata di esecuzione, sono infatti incentrati sulla formula debt-for-investment swap (conversione del debito in progetti di investimento). Nel luglio 2005 la Francia si è impegnata a concludere un accordo per la conversione di una seconda tranche del debito algerino per 110 milioni di euro in progetti di investimento. In tale settore va sottolineato il consistenze sforzo italiano di riconversione del debito algerino. L’accordo stipulato con l’Italia nel giugno 2002 (84 milioni di euro) è di debt-for-aid swap (conversione del debito in progetti di cooperazione allo sviluppo). Più di due terzi dei progetti complessivamente proposti dalle Autorità algerine ai fini della conversione riguardano il settore dell’ambiente, segnatamente la gestione integrata dei rifiuti solidi urbani in numerose città del paese. Le altre proposte riguardano invece il settore dell’educazione e della sanità. Le autorità algerine hanno però avanzato a più riprese (da ultimo durante gli incontri ad Algeri del novembre 2005 del Ministro Fini) la richiesta di conversione del debito in progetti di investimento (10% dello stock del debito commerciale bilaterale eventualmente da elevare al 20%), attualmente oggetto di conversazioni fra le parti.

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6.1.2 La cooperazione italiana La cooperazione tra Italia e Algeria, iniziata nei primi anni ‘70, ha alternato periodi di intensa attività (1985-1991), a momenti di minore intensità (1992-1998). Nel periodo 1998-2002 la cooperazione italiana ha riavviato le proprie attività riallocandosi, sia per quanto riguarda il volume degli interventi sia per la loro specificità, su livelli adeguati e in linea con le attività svolte dagli altri donatori bilaterali. Gli interventi si sviluppano lungo le direttrici consolidate e in linea con il Country Strategy Paper: sostegno alla piccola e media impresa, formazione, tutela dell’ambiente e salvaguardia del patrimonio culturale. L’appoggio alle PMI costituisce il settore principale dell’attività. Nel campo della formazione, il sostegno è stato rivolto alla ricerca di base, al potenziamento delle università, all’aggiornamento dei quadri superiori dei Ministeri. Nel corso del 2005 la DGCS ha erogato borse di studio per 200 mesi/anno. Oltre ai corsi di specializzazione postlauream di breve e media durata, la Cooperazione ha continuato a offrire all’Algeria programmi di promozione tematica più articolati. La Commissione Mista si riunisce a scadenza quasi regolare111 ed è organizzata in gruppi di lavoro (agricoltura, pesca, infrastrutture, ambiente, ristrutturazione industriale, public utilities). La parte italiana ha manifestato la propria disponibilità a fornire assistenza ai settori in fase di modernizzazione (bancario, catasto, lotta alla contraffazione e regolamentazione del mercato energetico) e tenuto conto che il settore dei servizi pubblici –per il quale è stato manifestato un interesse da parte di imprese italiane- venisse tenuto in particolare considerazione e divenisse oggetto di uno specifico gruppo di lavoro. Il Forum Italo-Algerino degli Uomini di Affari ( Memorandum Frattini-Belkhadem, 2003) è stato formalmente costituito il 5 dicembre con la firma del protocollo d’intesa tra la Camera di Commercio Italo-Araba e la Camera di Commercio algerina-CACI con lo scopo di promuovere le relazioni commerciali tra i due Paesi. Il Comitato Consultivo Imprenditori italiani in Alg eria opera dal 18 maggio 2004 e si riunisce almeno ogni due mesi per esaminare temi di interesse per le imprese italiane presenti in Algeria. Il Gruppo Consultivo di Imprenditori algerini costituito nella Conferenza Mediterranea di Palermo (20-21 febbraio 2006), organizzata da Confindustria-MAE-MAP, riunitasi presso l’Ambasciata con un gruppo di imprenditori facenti parte della delegazione algerina ospitata all’evento, nasce per avviare un sistema di consultazione regolare finalizzato a rafforzare la collaborazione bilaterale in campo economico-commerciale. 6.1.3 La cooperazione spagnola L’Algeria fa parte di quei paesi per cui la Spagna elabora un Documento Strategico (DEP). Questo documento marca il ciclo di pianificazione della cooperazione spagnola. La scarsa conoscenza del territorio sia da parte della Spagna sia degli altri donatori fa si che si che la strategia includa processi di identificazione per zone concrete e studi dettagliati per settori specifici di attuazione. Allora le linee strategiche attuali si basano sulla doppia priorità di appoggiare il processo di riforme in ambito istituzionale e sociale per rafforzare il dialogo e i meccanismi di riconciliazione. Con questo fine si rafforzerà la società civile e le

111 L’ultima sessione si è svolta in Algeria il 23 gennaio 2007, con la firma di un memorandum d’intesa tra Yahia Guidoum il Ministro dei Giovani e dello Sport e il ministro Giovanna Melandri sulla cooperazione per le politiche giovanili e lo sport.

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amministrazioni locali, si appoggerà la creazione di occupazione e la diversificazione delle attività produttive; e si rinforzerà la cultura legata allo sviluppo.

Riguardo al sostegno alle pubbliche amministrazioni, il Ministero dell’Interno ha proposto di dare appoggio tecnico alle amministrazioni in materia di miglioramento delle garanzie e dei diritti fondamentali, sicurezza pubblica e cittadinanza. Anche il Ministero dell’Ambiente da parte sua promuove azioni di sviluppo sostenibile, come ad esempio l’installazione da parte dell’Istituto Nazionale di Meteorologia di un fotometro solare. Tre settori sono di fondamentale importanza: occupazione, formazione e valorizzazione del ruolo della donna. Data la sua rilevanza nel panorama nazionale, la Spagna considerò quest’ultima area, quella del ruolo delle donne, una priorità, attuando tramite l’AECI e tramite il programma Cideal (Centro de Investigacion y Cooperacion para el Desarollo), un insieme di azioni dirette ad aumentare l’integrazione economica e ridurre le discriminazioni sociali della donna nel Maghreb, perseguendo così gli Obiettivi del Millennio. In materia di impiego l’AECI da il suo appoggio al programma Paz y Solidaridad diretto al rafforzamento delle organizzazioni sindacali algerine. Il Documento Strategico elaborato per questo paese non seleziona tra le sue attività l’intervento nell’Obiettivo 2 riguardo le necessità sociali di base, ma dopo un attenta analisi preferisce riporre le sue energie sul tessuto economico imprenditoriale. Questo non significa che la Spagna destinerà le sue risorse a questo unico scopo ma canalizzerà più risorse in questo senso, naturalmente continua a finanziare progetti e programmi rivolti alla sostenibilità ambientale e allo sviluppo delle capacità culturali. La Subdireccion General multilateraly horizontal dell’AECI attraverso il finanziamento di progetti di ONG, la Direccion General de Asuntos Culturales y Cientificos

Ripartizione dei finanziamenti nel 2005 Fonte Seguimento PACI 2005

2002 2003 2004 2005

Amministrazione dello Stato

36.944.719

17.117.212

24.371.548

13.078.254

Comunità Autonome 76.050

552.353

415.862

550.315

Enti locali 114.173

202.771

172.492

200.008

Università 0 0 0 0

Evoluzione APS spagnolo in Algeria 2002-2005

0

10000000

20000000

30000000

40000000

2002 2003 2004 2005

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attraverso il Programma de Patrimonio de la AECI, e l’azione diretta della cooperazione catalana e valenziana, saranno la chiave per una buona riuscita della strategia di sviluppo.

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7.1 Egitto Informazioni generali L’Egitto è una Repubblica presidenziale. Ottiene l’indipendenza dalla Gran Bretagna il 28 Febbraio 1922. Con il colpo di stato del 1952, il Movimento degli Ufficiali Liberi destituisce la monarchia e instaura un regime militare ispirato al socialismo panarabo. Gamal Abdul Nasser, leader della Rivoluzione del 23 Luglio, governa il paese per 16 anni sotto la legge marziale. La Costituzione adottata nel 1971 dal suo successore, Anwar al-Sadat, introduce un sistema bicamerale fortemente presidenzialista. Sadat viene assassinato nel 1981 dagli estremisti islamici che si oppongono alla pace firmata con Isrele. Mubarak è il presidente della Repubblica dal 14 Ottobre 1981. Da questo momento viene proclamato lo stato di emergenza nazionale, sospendendo la Costituzione del 1971, e riconoscendo lo status legale ad un numero limitati i partiti politici. La presidenza di Mubarak è stata rinnovata per altri 5 anni il 7 Settembre 2005 nelle prime elezioni pluraliste svoltesi in Egitto. Contesto socio-economico Secondo l’Indice di Sviluppo Umano dell’UNDP, nel 2005 l’Egitto è il 119° su 177 paesi. Il tasso di povertà è diminuito, pur rimanendo forti le disparità territoriali. È stata intrapresa la via della democratizzazione, e sono stati compiuti sforzi significativi contro l’emigrazione illegale, nel campo della lotta contro il terrorismo, il crimine organizzato, il riciclaggio di denaro e la droga. L’agricoltura continua a essere uno dei settori più importanti, anche se il paese rimane un forte importatore di prodotti alimentari. Si sono riscontrati progressi in molti indicatori dell’istruzione (tasso di iscrizione alla scuola primaria e secondaria, alfabetizzazione degli adulti); e sanitari (tasso di mortalità infantile, percentuale di bambini vaccinati e tasso di mortalità materna). Rimane tuttavia scarsa la qualità dell’istruzione di base e professionale e appare insufficiente l’accesso ai servizi sanitari e scolastici. Il coordinamento dei donatori è garantito dal Donor Assistance Group (DAG), che riunisce tutti i donatori bilaterali e multilaterali sotto il coordinamento UNDP. 7.1.1 La cooperazione euro-mediterranea Nell’Ambito del processo di Barcellona l’Accordo di Associazione con l’Egitto112 è stato firmato il 25 giugno 2001 ed è entrato in vigore il 1° giugno 2004. Gli obiettivi dell'accordo sono la creazione di un quadro appropriato per il dialogo politico che permetta lo sviluppo di strette relazioni politiche tra le parti, la creazione delle condizioni per la progressiva liberalizzazione del commercio dei beni, servizi e capitali, l'incoraggiamento di relazioni economiche e sociali attraverso il dialogo e la cooperazione, che contribuisca allo sviluppo economico e sociale dell'Egitto, incoraggi la cooperazione regionale con un'attenzione per il consolidamento della coesistenza pacifica e la stabilità politica ed economica, e, infine, per promuovere la cooperazione in altre aree di comune interesse. 112 2004/635/CE: Decisione del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativa alla conclusione di un accordo euromediterraneo che istituisce un'associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la Repubblica araba d'Egitto, dall'altra

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In conseguenza della ratifica dell’Accordo di Associazione con l’UE, relativamente ai prodotti industriali, quelli egiziani diretti in Europa sono da subito esenti da ogni dazio e quota. Per quelli europei diretti in Egitto si prevede una riduzione per fasi dei dazi esistenti. Dal 1° gennaio 2004 sono stati ridotti del 25% i dazi su materie prime e apparecchiature industriali. Resta comunque possibile per l'Egitto, a determinate condizioni ed entro certi limiti, reintrodurre o aumentare dazi nei settori della cosiddetta "industria nascente" o in ristrutturazione. Per quanto concerne i prodotti agricoli, quelli egiziani diretti in Europa sono da subito esenti da dazi e contingentamenti e , quando ancora esistenti, verranno progressivamente diminuiti. Per quelli europei diretti in Egitto, si prevede una riduzione, a seconda dell'articolo, dal 25 al 100%; per i prodotti alimentari, i dazi verranno - a seconda delle categorie aboliti o ridotti. Oltre alla barriere tariffarie, e nel quadro di una politica di contenimento delle importazioni, nel sistema egiziano persistono anche barriere di tipo paratariffario, quali ad esempio: controlli di laboratorio, requisiti tecnici e/o standard qualitativi con particolari caratteristiche o attraverso un sistema bancario che impone agli importatori egiziani di merce non essenziale, condizioni difficili (ad esempio: apertura di lettere di credito coperte da garanzie al 100%). La legislazione locale impone alle aziende straniere che intendano esportare prodotti tessili verso questo paese la preventiva registrazione e autorizzazione da parte del Ministero del Commercio Estero Egiziano, sulla base di criteri di conformità alle norme in materia di certificazione e controllo qualità. Il sistema giudiziario egiziano non da’ certezza sui tempi necessari per l’espletamento di vari gradi di giudizio e la stessa legislazione e’ a volte contraddittoria, il che ostacola non poco le operazioni commerciali e di investimento in loco. Teoricamente ammesso dalla legislazione locale e’ il ricorso all’arbitrato113, che però non viene sempre recepito dalla giurisprudenza locale. All’arbitrato internazionale, teoricamente ammesso dalla legge egiziana, viene spesso preferito da parte egiziana l’arbitrato interno. Anche grazie al rinnovato impulso impresso dalle Autorità ai processi di modernizzazione dell’economia (privatizzazioni, abbattimenti tariffari e liberalizzazione commerciale, riforma fiscale, semplificazione burocratica, ammodernamento del settore bancario, riforma del mercato valutario), l’anno trascorso ha segnato un sensibile risveglio di interesse degli operatori finanziari, nazionali ed esteri, per le opportunità di investimento in Egitto. La ripresa delle privatizzazioni ha contribuito a stimolare un sensibile incremento degli investimenti diretti dall’estero: nei primi nove mesi del 2005, gli IDE sono ammontati a 4 miliardi di dollari, oltre il 5% del PIL. Gli afflussi valutari hanno sostenuto il cambio della sterlina egiziana e alimentato una rapida accumulazione di riserve ufficiali, salite, durante l’anno, di 6,5 miliardi di dollari, raggiungendo a dicembre i 21,9 miliardi (pari a quasi 10 mesi di importazioni di merci). L’aumento delle riserve ufficiali ha ulteriormente rafforzato la copertura del debito estero (27 per cento del PIL, a settembre 2005), il cui servizio ha assorbito, nell’ultimo anno finanziario, meno dell’8 per cento delle entrate correnti di bilancia dei pagamenti. Al positivo clima di fiducia sui mercati finanziari ha fatto riscontro un’apprezzabile accelerazione della crescita economica: nell’anno finanziario 2004-05 (conclusosi lo scorso giugno) il PIL e’ infatti aumentato del 4,9 per cento, in progresso rispetto al 4,1 per cento

113 Strumento con cui si risolvono le controversie civili e commerciali, in alternativa alla via giudiziaria. La caratteristica fondamentale dell'istituto è che sono le parti a scegliere i soggetti che decideranno la loro controversia: gli arbitri

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dell’anno precedente. La ripresa della domanda interna - e, in special modo, dei consumi privati - vi ha contribuito per 6,4 punti percentuali; la domanda estera netta ha invece sottratto 1,5 punti percentuali alla crescita del prodotto: la pur sostenuta dinamica delle esportazioni e’ stata, infatti, più che compensata dal forte incremento delle importazioni. Secondo valutazioni preliminari, nel trimeste luglio-settembre 2005 la dinamica del PIL ha registrato un’ulteriore accelerazione, toccando il 5,3%. Per l’intero anno finanziario 2005-06 le Autorità hanno fissato un obiettivo di espansione economica del 6%circa, ritmo che dovrebbe consentire di far fronte all’afflusso netto di manodopera sul mercato del lavoro, stimato in circa 500.000 nuove unità (il più recente World Economic Outlook del Fondo Monetario, a settembre 2005, assegnava all’Egitto una previsione di crescita del PIL, per l’anno in corso, del 5%). L’economia egiziana ha registrato, nel 2005, una notevole espansione del commercio estero. Nei primi nove mesi dell’anno, le esportazioni di beni e servizi sono cresciute, del 19% rispetto allo stesso periodo del 2004, raggiungendo i 23,5 miliardi; il rialzo delle quotazioni ha favorito gli introiti petroliferi (20% circa delle esportazioni totali egiziane), cresciuti del 43%; apprezzabile è il risultato dell’incremento delle vendite di prodotti non energetici, aumentati del 18%, grazie ai guadagni di competitività seguiti alla svalutazione del cambio degli scorsi anni. La ripresa della domanda interna, le riduzioni delle tariffe doganali e le condizioni distese sul mercato valutario hanno, per parte loro, favorito un sensibile aumento delle importazioni di beni e servizi, cresciute, nel periodo in rassegna, del 32 per cento, superando i 26 miliardi di dollari. Il conseguente peggioramento del deficit commerciale (beni e servizi), passato da 300 milioni a quasi 3 miliardi di dollari, è stato in parte controbilanciato dal robusto incremento delle rimesse degli emigrati, cresciute del 63 %, a oltre 3,8 miliardi, grazie alla favorevole congiuntura nei paesi arabi del Golfo (ove si concentra, in maggioranza, l’emigrazione egiziana). 7.1.2 La cooperazione italiana Fra i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, l’Egitto è uno dei principali beneficiari dell’aiuto italiano allo sviluppo. La presenza italiana tocca i principali settori e aree geografiche. Particolare attenzione viene data allo sviluppo del settore privato attraverso linee di credito, nonché ad azioni ad ampia ricaduta sociale. Coerentemente alle indicazioni del Country Strategy Paper114 della Commissione Europea e alle raccomandazioni emerse dal rapporto congiunto del Ministry of Planning e della Banca Mondiale, la Cooperazione italiana in Egitto – nel periodo 2002-2005 - si è impegnata nel supporto al processo di transizione economica e allo sviluppo socio-economico sostenibile; nella lotta alla povertà; per la riduzione del divario tra il Basso e l’Alto Egitto. Particolare attenzione è stata dedicata alla gestione dei flussi migratori, tesa all’integrazione dei migranti nel mercato del lavoro euro-mediterraneo. La ripartizione geografica degli interventi interessa tutto il territorio, con particolare attenzione alle aree meno sviluppate: Alto Egitto, Minia, Fayoum, Siwa.

114Stabilisce i principi guida della cooperazione finanziaria UE-Egitto. Sulla base delle priorità stabilite nel Country Strategy Paper, sono stati adottati due Piani Indicativi Nazionali (PIN), rispettivamente per i periodi 2002-2004 e 2005-2006. I PIN fissano le iniziative da finanziarsi attraverso il MEDA, in accordo con le autorità egiziane

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L’Italia è stato il primo paese donatore ad aderire al progetto pilota “Free Village Model: a Demonstration of a Pertnership” presentato dall’UNDP e dal National Council for Childhood and Motherhood (NCCM). Queste attività sono finalizzate a creare consapevolezza tra le varie componenti della popolazione, per lo più rurale, circa l’inutilità e degli effetti dannosi delle mutilazioni genitali, così da ridurre nel tempo, il ricorso a tali pratiche. Inoltre nel 2003 si è concluso un importante progetto di tutela del patrimonio ambientale dal valore complessivo di 6.061.493 euro, articolato in interventi specifici nel settore delle risorse idriche, nella conservazione del patrimonio culturale e nella protezione della natura. Per i suoi buoni risultati il progetto è stato proseguito e ha permesso la realizzazione di ulteriori nove progetti. Per diffondere informazioni e sensibilizzare la popolazione sulla prevenzione dell’emigrazione illegale dall’Egitto, tenendo in considerazione l’esigenza di armonizzare la politica egiziana con le disposizioni legali europee, e in particolare con la legislazione italiana è stata attuata la Campagna informativa per la prevenzione dell’emigrazione illegale dall’Egitto. L’impegno attuale della cooperazione italiana in Egitto mira a:

o sostenere la transizione economica - da un’economia pianificata verso un'efficiente economia di mercato in grado di supportare una crescita sostenibile e creare impiego - attraverso il sostegno alle piccole e medie imprese e al settore privato;

o sostenere lo sviluppo socio-economico mediante interventi in settori chiave per lo sviluppo sociale.

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7.1.3 La cooperazione spagnola L’Egitto fa parte di quei paesi per cui la Spagna elabora un Plan de Actuaciòn Especial (PAE) ogni due anni. Inoltre si situa nella politica di prossimità attuata dall’Unione Europea e da appoggio ai processi di pace in Medio Oriente, in cui l’Egitto gioca un ruolo importante. In questo senso la Spagna appoggia il governo egiziano nella sua politica di riforma sempre tenendo fede al Plan Director che fissa nel periodo 2005-2008 la lotta alla povertà. Su questa scia l’obiettivo strategico globale della cooperazione spagnola in Egitto è quello di contribuire ad aumentare le capacità del paese e delle sue istituzioni in previsione di uno sviluppo economico e sociale più equo tra regioni, che generi più occupazione e che abbia come fine ultimo il benestare della popolazione. Gli interventi della Spagna quindi si concentrano negli ambiti di: - governo democratico, con il decentramento e rafforzamento delle amministrazioni locali e la protezione dei diritti umani115; - capacità umane, in riferimento al sistema pubblico sanitario, alla protezione delle fasce più vulnerabili (come i bambini) e l’accesso all’acqua potabile; - maggiore capacità economica, con appoggio alla microimpresa, attraverso il microcredito, la dotazione di infrastrutture (trasporti, energia rinnovabile, sviluppo tecnologico), rinforzamento dei settori produttivi come l’agricoltura, l’industria e il turismo; - recupero e valorizzazione del patrimonio culturale a El Cairo, vincolato alla creazione di impiego; - capacità e autonomia delle donne, nella prevenzione e trattamento della violenza di genere e il miglioramento della loro presenza in ambito economico. Se il governo egiziano riesce ad ottenere risultati positivi dalle riforme che in questo momento sta attuando, avrà una maggiore crescita economica, una politica che distribuisca meglio la ricchezza e che quindi ne benefici tutta la popolazione, allora gli obiettivi di riduzione della povertà, di maggiore sostenibilità ambientale, di maggiore uguaglianza di genere potranno essere raggiunti in breve periodo. Per questo è necessario che la Spagna appoggi l’Egitto nella sua transizione. La stabilità sociale è il motivo principale della presenza della comunità di donatori nel paese e ciò che giustifica le sue azioni. L’instabilità è messa in pericolo dalla mancanza di una democrazia reale e piena e per la mancanza di opportunità di lavoro e in particolare dalle poche prospettive di crescita delle popolazioni più povere. L’Egitto è il paese che unisce il mondo occidentale e arabo al quale appartiene, è il paese di riferimento per le relazioni tra queste due grandi aree, con un ruolo chiave nel processo di pace in Medio Oriente.

115 “Si la democracia constituye una condición indispensable para el desarrollo, su precariedad en Egipto supone una debilidad para el desarrollo del país. Asimismo el apoyo al proceso de reformas, en los ámbitos económico y social, como un elemento transversal” Dal Plan de Actuaciòn Especial 2006-2008

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La Spagna e l’Egitto hanno mantenuto storicamente buone relazioni politiche basate su un passato storico-culturale comune, nella loro prossimità nel bacino mediterraneo. Le relazioni tra i due paesi si sono sempre sviluppate su tre livelli: culturale, economico e in materia di cooperazione. Le relazioni culturali della Spagna si sono sviluppate intorno a due linee di attuazione: la promozione e la cooperazione culturale. Riguardo la prima, la Spagna nella sua diversità si impegna a conoscere la cultura egiziana. Tramite la cooperazione culturale , la Spagna appoggia le manifestazioni culturali locali partecipando a queste con rappresentanti spagnoli o finanziandole. Inoltre mantiene una politica di borse di studio e finanzia sei lettorati nell’Università Egiziana per l’insegnamento dello spagnolo. L’Istituto Cervantes è già presente al Cairo e ad Alessandria. Le relazioni di cooperazione si basano sulla cooperazione tecnica. Questa sperimentò un cambiamento nel 2004 con l’apertura dell’Ufficio Tecnico di Cooperazione. Nel 2005 venne firmata la IV Commissione Mista Ispano-Egiziana di Cooperazione per il periodo 2005-2008. Nel Piano Direttorio l’Egitto è considerato come paese preferente nel quale gli aiuti si concentreranno nelle zone geografiche e nei settori più bisognosi. Le relazione economiche sono state molto forti nel periodo 2002-2003, la Spagna è stata il terzo investitore in Egitto grazie alle operazioni riguardanti i gas naturali nella città di Damietta, nel Nord del paese, che ha superaro i 1500 milioni di dollari. Il secondo maggior investimento spagnolo costituisce il contratto di servizi per il trattamento dei residui solidi urbani in diverse zone del Cairo e Giza. Altri settori con forte presenza spagnola sono il turismo e i trasporti. Attualmente è in vigore il protocollo finanziario negoziato nel 2000 con il quale la Spagna ha finanziato operazioni importanti nei trasporti (ha acquistato 30 locomotrici Diesel), energie rinnovabili (base eolica a Zafharana), e turismo (controllo e accesso dei visitatori nelle zone turistiche a Luxor). In totale le operazioni finanziate superano i 250 milioni di euro. Dal punto di vista commerciale le relazioni tra i due paesi sono relativamente ridotte. L’Egitto rappresenta circa lo 0,3% delle esportazioni spagnole e lo 0,15% delle importazioni. Nell’UE la Spagna occupa il quarto posto come fornitore e cliente dell’Egitto.

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8.1 Libia Informazioni generali La Libia ha ottenuto l’indipendenza dall’Italia il 24 Dicembre 1951. Il 2 gennaio fu instaurata la monarchia costituzionale con il re Idris I, che fu destituito nel 1969 dal colpo di stato del Colonnello Gheddafi, che instaura la Repubblica Araba Socialista di Libia , le cui ispirazioni panarabe hanno dato vita a diversi tentativi di unione tra stati arabi limitrofi, tutti rimasti inattuali. L’ordinamento costituzionale della repubblica attuale si fonda su un complesso sistema di assemblee e comitati nominati dal Partito Unico della Rivoluzione. Il leader della rivoluzione, Gheddafi non ha una posizione formale nell’ordinamento costituzionale. Il Parlamento unicamerale è costituito dal Congresso Generale del popolo che ha funzioni al contempo, esecutive e legislative, ed è composto da 760 membri nominati per tre anni. La Costituzione non prevede elezioni.116 Contesto socio-economico Il Contesto socio-economico della Libia è quello di un paese produttore di materie prime energetiche - con ingenti introiti annuali in valuta da petrolio e gas - e potenzialmente in grado di finanziare una spesa pubblica più che sufficiente ad assicurare alla popolazione servizi di buon livello. Nella realtà, una serie di fattori radicati nel paese impediscono a settori come sanità ed educazione pubblica di raggiungere i livelli potenziali. 8.1.1 La cooperazione euro-mediterranea Le relazioni tra la Libia e l'Unione Europea ed i suoi Stati membri sono andate intensificandosi dopo il 2003, anno in cui sono state revocate le sanzioni ONU contro la Libia e sono iniziati gli sforzi tesi a normalizzare i rapporti tra il paese ed i partner esteri. Nel 1995 la Libia non fu invitata a partecipare al Processo di Barcellona, ma già nel 1999 partecipò come ospite speciale alla terza Conferenza Euro-Mediterranea dei Ministri degli Esteri, durante la quale fu stabilito che la Libia sarebbe entrata a pieno titolo nel Processo di Barcellona non appena fossero state revocate le sanzioni ONU e la Libia avesse accettato l'acquis comunitario, che attualmente non ha accettato117. Attualmente la Libia ha il solo status di osservatore e non sono ancora iniziati i negoziati per la conclusione di un Accordo di Associazione; pertanto, la Libia non beneficia della cooperazione finanziaria del programma MEDA e, sebbene eleggibile, non prende parte alla Politica di vicinato (ENP). Malgrado ciò sono aumentate le occasioni di contatto e, con l'obiettivo finale della piena partecipazione della Libia al dialogo euro-mediterraneo e all'ENP, sono stati conclusi accordi in tema di migrazioni e la Commissione Europea ha posto in essere un apposito intervento finanziario per

116 Ogni cittadino è considerato membro del Basic People’s Congress ed elegge il Basic People’s Commitee. I membri del Basic People’s Commiteee compongono a loro volta un’assemblea a livello municipalee , secondo lo stesso schema rappresentativo, vengono formati i Regional People’s Congress e il National People’s Congress. 117 Il 22 Settembre 2004 i 25 paesi membri dell’UE hanno deciso di revocare totalmente l’embargo verso la Libia, imposto nel 1986 e rafforzato nel 1992, in seguito all’embargo ONU. Le sanzione delle Nazioni Unite erano già state revocate il 12 settembre 2003, poiché la Libia ha riconosciuto con una lettere al Consiglio di Sicurezza ONU le responsabilità nel caso Lockerbie e approvato una compensazione dei familiari delle vittime

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l'assistenza ai malati di HIV . L'Italia fa parte degli stati UE che intrattengono intense relazioni commerciali con la Libia, sia come esportatori che come importatori. Il consolidamento dei rapporti con la Libia, con la distensione seguita alla risoluzione dei problemi legati ad avvenimenti del passato, ha favorito una maggiore presenza delle imprese italiane, anche in seguito ai programmi di modernizzazione e liberalizzazione dell'economia promosse dal governo libico. Se il grado di apertura fosse misurato rapportando l’interscambio globale libico al Pnl, questo paese figurerebbe tra i più aperti al commercio internazionale. In realtà, le esportazioni sono composte al 98% di petrolio greggio e carburanti, cui si affiancano fatturati esigui di prodotti dell’ industria petrolchimica e siderurgica, nessuno dei quali acquistato all’estero in quanto di superiore qualità. Il commercio in entrata è comunque in continua crescita, e la Libia è regolarmente rifornita dalle maggiori aree di scambio internazionali, inclusi gli Emirati Arabi Uniti e l’Estremo Oriente. 8.1.2 La cooperazione italiana Le iniziative della cooperazione italiana in Libia presentano una peculiarità per la loro origine. Esse sono state deliberate dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE), che nella seduta del 4 agosto 2000 ha deciso che: “ i fondi di cui alla legge 26 febbraio 1987, n.49, possono essere utilizzati per finanziare attività di cooperazione con la Libia, limitatamente ai settori della sanità, dell’agricoltura, della formazione, dello sminamento umanitario e degli interventi umanitari d’emergenza”. Grazie a tale decisione è stato possibile dare attuazione a una serie di impegni che l’Italia aveva assunto nei confronti della Libia con il Comunicato Congiunto firmato a Roma il 4 luglio 1998118. Il senso di tali impegni è connesso alle storiche richieste libiche di “compensazione” per i danni subiti nel corso del periodo coloniale e della II Guerra Mondiale. Considerando che non si tratta di un paese di cooperazione secondo i parametri internazionali di povertà e sviluppo, nessun’altra nazione vi realizza iniziative di cooperazione bilaterale. Tra le iniziative realizzate è importante ricordare la “Valorizzazione agricola di aree sminate nelle regioni di Sirte o Tobruk”, che si articola in due progetti:

o centro i ricerca e sperimentazione agricola della regione di Tobruk, affidata allo IAO119

o centro pilota per l’allevamento di vacche da latte e attività di forestazione nella regione di Sirte, sempre affidata allo IAO

Nel 2001 è iniziato un progetto a favore dei laureati libici elaborato in collaborazione con il Ministero dell’Università e della Ricerca e con la Conferenza dei Rettori e coordinata con l’Università di Ancona con altri 16 atenei italiani, che prevede l’organizzazione di corsi specializzazioni mediche pluriennali e dottorati di ricerca in ingegneria e scienze agrarie presso atenei italiani. Il progetto si protrae fino al termine degli studi ed è terminato nel 2006 ed è costato 5 milioni di euro con impegno medio annuo di 980.000 euro Le esportazioni italiane nel 2005 sono diminuite del 10,3%, tornando ai livelli del 2003. Si tratta comunque del 20% delle importazioni globali libiche, cosa che mantiene l’Italia al primo posto tra i partner commerciali. All’interno dei settori merceologici, tre 118Il Comitato Congiunto italo-libico da particolare riguardo alla collaborazione nel settore ortopedico-traumatologico, agricolo e della formazione. 119 Istituto Agronomico per l’Oltremare

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meritano attenzione: in ordine di importanza, i prodotti petroliferi raffinati (oli e carburanti), cresciuti (2004-2005) da 270 a 509 milioni di euro; i macchinari, scesi da 399 a 200; i prodotti in metallo, scesi da 365 a 153. Va detto che sono stati questi ultimi a determinare il record del 2004, grazie alle partite di prodotti importati per la costruzione dello stabilimento di Mellitah: si è trattato di un picco anomalo ed irripetibile, per cui non sorprende il ritorno a livelli normali. Anche se con la Libia, l’Italia ha un deficit strutturale e si tende a dare per scontato un elevato fatturato delle importazioni italiane, nel 2005, con l’avvio a buon regime delle spedizioni di gas, si è registrato un forte balzo in avanti (+54,2%), che ha portato per la prima volta a sfondare il tetto dei 10 miliardi di interscambio. L’avvio delle spedizioni di gas attraverso gli impianti e il gasdotto realizzati dalla joint venture italo-libica Eni North Africa ha portato la Libia al secondo posto tra i fornitori dell’Italia di materie prime energetiche dopo la Russia, unico altro paese dal quale l’Italia acquista sia petrolio che gas. Per ragioni storiche e di vicinanza, l’Italia ha affrontato la fase della riapertura del mercato libico saldamente in testa quale fornitore di beni, affermando tale posizione in tutti i settori. In alcuni di essi, il processo di inserimento della Libia nell’economia globale ha portato su questo mercato nuovi agguerriti concorrenti. La presenza commerciale italiana si avvale di un volano sinora abbastanza efficace, quello della partecipazione a due fiere, che vede operatori già presenti affiancati di volta in volta a nuovi espositori, permettendo di compiere progressi sia dal punto di vista del rafforzamento dei flussi commerciali, sia della loro espansione. La prima di tali manifestazioni (Fiera Internazionale di Tripoli) si svolge ogni anno dal 2 al 12 aprile. Purtroppo, la partecipazione italiana alla Fiera Internazionale del 2006 è stata limitata a 43 aziende, mentre l'organizzazione dell'evento a cura dell'ICE si era mossa per una presenza almeno del doppio degli operatori, come del resto era successo ogni anno dal 2000 con la fine delle sanzioni. Gli eventi di Bengasi del febbraio 2006120 e le successive dichiarazioni del Colonnello Gheddafi121 (2 e 20 marzo) hanno scoraggiato missioni d'affari e viaggi turistici italiani in Libia, ormai a ridosso della Fiera. Sugli investimenti esteri in Libia continua a prevalere una certa cautela: una recente ricerca da parte di un accreditato gruppo internazionale di consulenza, commissionata

120 Manifestazioni di protesta per le vignette satiriche. “I manifestanti si stavano dirigendo verso il consolato italiano, unica rappresentanza di paese occidentale in città, quando sono stati fermati dalla polizia che ha energicamente represso la manifestazione evitando che venisse raggiunta la sede del Consolato”. Almeno undici persone sono morte e altre venticinque sono state ferite. Si trattava di manifestanti che avevano preso d'assalto la rappresentanza diplomatica italiana per protesta contro le vignette anti-islamiche mostrate dal ministro della Lega Nord Roberto Calderoli. L'esponente leghista, infatti, nei giorni scorsi aveva mostrato in televisione le vignette che stanno infiammando il mondo arabo di proteste antieuropee. In risposta, numerosi manifestanti sono giunti dinnanzi al consolato italiano, dove hanno iniziato a lanciare sassi e latte di benzina verso le finestre del consolato. A nulla è valsa la resistenza delle autorità libiche, che, dopo aver messo al sicuro i rappresentanti italiani, compreso il console Giovanni Perrillo, hanno tentato di sedare la manifestazione, sparando contro i manifestanti. Non ci sono notizie di vittime italiane”.Da Ministero Affari Esteri

121 Dal Corriere della Sera del 3 marzo 2006: “Muammar Gheddafi, ieri, ha lanciato un avviso: dopo l'assalto di due settimane fa al consolato italiano a Bengasi, se il suo Paese non riceverà una compensazione adeguata per quel periodo del XX secolo, non vanno esclusi altri attacchi. Il Colonnello ne attribuisce il pericolo a passioni del suo popolo nate prima dello sdegno per le vignette danesi su Maometto e della loro riproduzione sulla maglietta del leghista Roberto Calderoli: «I libici odiano l'Italia, non la Danimarca. I libici cercano qualsiasi occasione per sfogare la loro rabbia contro l'Italia dal 1911, quando l'Italia occupò la Libia». Il Colonnello ha parlato così, stando all'agenzia britannica Reuters, davanti a alti funzionari governativi e suoi sostenitori riuniti a Sirte. Benché il Leader sia abituato a elargire colpi di scena, era da tempo che non ricorreva a toni così drastici verso l'Italia.

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da uno dei fautori delle riforme, Seif Gheddafi (figlio del Leader), ha evidenziato come di fronte a 318 progetti autorizzati dall’Ente Libico per gli Investimenti Stranieri tra il 2003 e il 2005, solo 150 sono giunti alla firma di un impegno e solo 3 sono stati realizzati. Come si è evidenziato, prevale la consapevolezza che le attività estere nei settori non petroliferi sono regolate, più che dalla legge, da fattori di controllo personificati. Non vi sono investimenti diretti italiani in Libia, se non alcune joint venture di piccola dimensione ma in alcuni casi note e visibili (la società turistica Dar Sahara, che ha avviato lo sfruttamento turistico del Sahara libico meridionale, ormai meta di élite). Altro settore di interesse per le Autorità libiche è lo sfruttamento di energie rinnovabili e sono stati stabiliti contatti interessanti con le aziende italiane (Ansaldo Energia) ed enti scientifici (ENEA). Nel corso del 2005 la Libia ha adottato importanti modifiche legislative nel settore commerciale, grazie alle quali è stato semplificato il sistema dei dazi e sono state ridotte alcune tariffe di elevato importo. Molti prodotti restano sottoposti, al momento dell’ importazione, ad una tassa di consumo che può raggiungere il 50% del valore. La riforma del regime di tariffe è stata positivamente valutata da tutti gli osservatori internazionali, anche perché secondo molti ha rappresentato l’unico sviluppo del 2005 che meriti di essere annoverato tra le riforme economiche. Alcuni prodotti continuano ad essere proibiti all’importazione, soprattutto per ragioni di tutela della produzione locale. Si tratta di prodotti primari (frutta, ortaggi) o di limitato contenuto tecnologico. Di fatto, per questi stessi prodotti sono presenti sul mercato quantità rilevanti di merci importate. Per quanto riguarda i prodotti italiani, una prassi andatasi via via imponendo è quella di applicare alle forniture italiane una tassa variabile tra lo 0,5% e l’1%, negoziando tale quota caso per caso in occasione di commesse di valore elevato, che viene versata ad una società denominata Azienda Libico-Italiana (ALI ) e da quest’ultima trasferita su un Fondo Sociale istituito nel 1998 dai due Governi per la realizzazione di opere utili allo sviluppo sociale ed economico libico ed in ultima analisi al superamento delle conseguenze del passato coloniale e bellico sotto occupazione italiana. Tale "tassa", in passato corrisposta da alcune aziende in forma del tutto volontaria, è stata resa obbligatoria da parte delle Autorità libiche. In tutte le occasioni di incontro a livello politico è stata sottolineata la contrarietà dell’Italia a tale prassi. Il trattamento delle aziende italiane determinato da questa tassa non è in linea con i principi generali di non discriminazione cui la Libia dovrà allinearsi prima di poter aderire all’OMC, richiesta che ha ufficialmente avanzato due anni or sono e che dovrebbe essere esaminata nell’Organizzazione proprio quest’anno.

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9.1 Marocco Informazioni generali Il Marocco ottiene l’indipendenza dalla Francia il 2 marzo 1956, il sultano Mohammed viene proclamato re e alla sua morte nel 1961, il figlio Hassan succede al trono e regna per 38 anni. Con l’insediamento sul trono del figlio di Hassan, Mohammed VI, il paese conosce una fase di modernizzazione politica ed economica significativa. Le elezioni del 2002 hanno portato al governo una coalizione dell’Unione Socialista delle Forze Popolari. La questione del Sahara Occidentale, occupato dalle truppe marocchine dopo la ritirata della Spagna nel 1975 resta irrisolta; il piano di regolamentazione ONU in vista dell’organizzazione del referendum con il quale la popolazione del Sahara Occidentale deciderà per l’indipendenza o per l’aggregazione al Marocco non ha avuto attuazione. Il Marocco attualmente è una monarchia costituzionale. La Costituzione attribuisce al sovrano ampi poteri, di nomina e revoca del primo Ministro e dei membri del Consiglio dei Ministri, può inoltre sciogliere la legislatura e dichiarare lo stato di allerta. Il sovrano riveste un ruolo temporale ma è anche un leader religioso. Contesto socio-economico Nel 2005 il PIL del Marocco ha registrato un aumento dell’1,6%, molto contenuto rispetto agli anni precedenti. Il paese mantiene comunque una buona stabilità macroeconomica. A questa situazione incoraggiante, si contrappone però un contesto sociale caratterizzato da elementi contradditori. I rapporti delle organizzazioni internazionali hanno evidenziato come, nonostante gli indubbi progressi in tema di lotta alla povertà e di miglioramento delle condizioni della popolazione, si registrano ancora indicatori sociali inferiori a quelli di altri paesi della regione che hanno un reddito analogo. Questo fa si che il Marocco occupi il 124° posto nella scala dell’indice di sviluppo umano stilato dall’UNDP per il 2005. Sulla scia di un importante processo di trasformazione, il sistema macro-economico del Marocco, mantenutosi stabile per un lungo periodo ha acquisito, negli ultimi anni, stimoli nuovi, avviando il paese verso modelli di sviluppo più prossimi a quelli occidentali. Tale percorso è il frutto di una serie incrociata di riforme economiche, politiche, sociali, che aprono per il Marocco possibilità crescenti sugli scenari internazionali dell’economia: gli imperativi di una crescita forte e duratura, l’apertura del Paese verso l’esterno, le questioni legate all’occupazione, sono questi i principali nodi problematici intorno ai quali si sta sviluppando l’azione pubblica. Emblematica, a tale proposito, risulta l’adozione di una nuova politica industriale rivolta alla modernizzazione competitiva del tessuto esistente ed alla valorizzazione di alcuni motori di crescita orientati verso l’esportazione, tra cui assumono una importanza prioritaria l’offshoring, l’automobilistico, l’aeronautico e l’elettronico, seguiti dal rilancio dei settori tradizionali quali l’agroalimentare, l’ittico, il tessile e l’artigianato. In una prospettiva internazionale, le trasformazioni in tali settori sono il segno tangibile dell’adozione di nuove politiche volte a consolidare ed incrementare i rapporti con l’estero, a cominciare dalla realizzazione, nel 2010, dell’Area di Libero Scambio Euro-Mediterranea, peraltro già anticipata dall’Accordo di Agadir (con Tunisia, Giordania, Egitto e Libano), nonché da uno specifico accordo con la Turchia. Ciononostante, le principali attese del Paese sembrano essere rivolte verso la realizzazione dell’Area di Libero Scambio con gli Stati Uniti d’America, la quale

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potrebbe fare del Marocco il luogo privilegiato per produzioni rivolte al mercato nord-americano che siano qualitativamente valide e rispettino costi di produzione contenuti. Un’analisi della bilancia commerciale nel corso dei primi undici mesi del 2005 rileva come, in seguito al processo di apertura che il Marocco sta attraversando, sia emersa una crescente difficoltà delle esportazioni nazionali nel sostenere livelli crescenti di concorrenza. Al tempo stesso, si riscontra un tendenziale aumento delle importazioni volte a soddisfare una sostenuta domanda interna. Tale disavanzo, ad ogni modo, continua ad essere largamente compensato dalle rimesse dei marocchini residenti all’estero (22 miliardi di dirhams,luglio 2005, +9,4 % rispetto all’anno precedente) nonché dal buon andamento del settore turistico (sono stati circa sei milioni i turisti che nel corso del 2005 hanno visitato il Marocco), elementi che insieme contribuiscono a mantenere la bilancia dei pagamenti su livelli positivi. 9.1.1 La cooperazione euro-mediterranea Il Marocco è un partner privilegiato nel contesto delle relazioni euro-mediterranee, sia nell'ambito del Processo di Barcellona sia nelle relazioni bilaterali con diversi Stati europei. L'Accordo euro-mediterraneo di associazione tra Unione Europea e Marocco è entrato in vigore il 1° marzo 2000122 ed ha come obiettivi: la creazione di una struttura idonea per un dialogo politico che permetta lo sviluppo delle relazioni nelle aree di maggiore rilevanza per le parti; la creazione delle condizioni per una graduale liberalizzazione del commercio dei beni, dei servizi e dei capitali; la promozione del commercio e l'espansione di armoniche relazioni economiche e sociali attraverso il dialogo e la cooperazione, in modo da incoraggiare lo sviluppo e la prosperità del Marocco e della sua popolazione; l'incoraggiamento dell'integrazione dei paesi del Maghreb promuovendo il commercio e la cooperazione tra il Marocco e gli altri Paesi della regione; la promozione della cooperazione economica, sociale, culturale e finanziaria. Successivamente, la politica euro-mediterranea di vicinato ed il piano d'azione che la accompagna hanno reso sempre più intensi i rapporti di partenariato, tanto che nel 2005-2006 i fondi UE destinati al Marocco sono ammontati a circa 300 milioni di euro, da utilizzare per le riforme in settori quali l'educazione, lo sviluppo rurale, l'approvvigionamento idrico, la condizione femminile, la competitività delle imprese, la modernizzazione della giustizia, ecc. L'Italia ha attivato numerose iniziative di cooperazione in Marocco, soprattutto sotto forma di progetti di natura decentrata, che coinvolgono regioni italiane ed Autorità locali marocchine; le iniziative sono molto varie e spaziano dall'assistenza tecnica all'institutional building, dal sostegno all'artigianato allo sviluppo rurale. Dal quadro della cooperazione internazionale in Marocco emerge l’importante ruolo della Commissione Europea, che copre quasi la metà dell’APS totale con il programma MEDA. Altre presenze forti e radicate sono quelle di Francia e Spagna. La Francia e la Spagna, grazie a legami storici ed alla prossimità geografica, si confermano i principali partner commerciali del Marocco. Mentre, tuttavia, la posizione francese risulta sostanzialmente statica, è evidente il notevole dinamismo della Spagna, sia come cliente che fornitore del Marocco. Va inoltre sottolineata la sensibile evoluzione dei rapporti commerciali del paese che, rispecchiando sia le priorità che il Marocco si sta dando, sia le evoluzioni in atto sullo scacchiere internazionale, mostra l’affermarsi di nuovi importanti partner asiatici ed americani.

122Precedentemente: 2000/204/CE, CECA: Decisione del Consiglio e della Commissione, del 24 gennaio 2000, relativa alla conclusione dell'accordo euro-mediterraneo che istituisce un'associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e il Regno del Marocco, dall'altra

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L’Italia, alla fine del terzo trimestre 2005 diviene il quinto paese fornitore del Marocco, mantenendo un valore costante rispetto al medesimo periodo dell’anno precedente, a fronte della crescita impetuosa della Russia (petrolio), dell’Arabia Saudita e della Cina. La cooperazione internazionale in Marocco è stata fin’ora rivolta principalmente alla crescita macroeconomia (come risulta degli investimenti in infrastrutture), al sostegno al settore privato e alle riforme istituzionali. Le sole attività di coordinamento tra donatori avvengono a livello di UE, tra i paesi membri, che hanno costituito alcuni gruppi tematici di approfondimento per sviluppare le linee guida del programma MEDA e , limitatamente alla tematica “genere”, anche in ambito Nazioni Unite. Nel complesso, prosegue positivamente la politica di smantellamento tariffario, mentre persistono alcuni limiti in materia di licenze all’esportazione, in particolare nel settore del cuoio. Permangono inoltre limiti per l’importazione di medicinali. E’ grave inoltre la distorsione legata al contrabbando, specie dalle enclaves spagnole, con una concorrenza diretta nei confronti degli operatori installati nel paese. Quanto ai servizi, l’apertura alla concorrenza di settori tradizionalmente affidati a monopolisti pubblici avviene con lentezza, ma sembra conoscere importanti progressi. In particolare, dopo la liberalizzazione del trasporto aereo, nel mese di marzo 2005 si è proceduto alla liberalizzazione anche dei servizi della telefonia fissa con l’avviso di gara per l’affidamento della seconda licenza per i servizi di telefonia locale, interurbana ed internazionale. La riforma del sistema doganale e’ stata portata positivamente a termine e, nonostante alcuni ritardi, lo standard e’ comparativamente adeguato. In materia di standards, il Marocco applica quelli ISO di cui e’ membro. Quanto ai prezzi, lo Stato regola quelli dei beni il cui consumo sia sussidiato, dei beni di monopolio e dei servizi di base, oltre che dei medicinali. 9.1.2 La cooperazione italiana Il primo accordo tra Italia e Marocco risale al 1961 e riguarda un accordo di cooperazione tecnica ed economica. I seguenti incontri bilaterali risalgono al 1998 e 1999 e hanno definito le strategie, le modalità di intervento e messo a punto il tasso di concessionalità dei crediti d’aiuto, infatti l’attuale quadro strategico della cooperazione italiana deriva proprio da questi ultimi accordi. Gli interventi in corso sono però anche frutto di nuove azioni, formulate nel frattempo in vista di esigenze più puntuali. I finanziamenti italiani sono destinati, in massima parte alla costruzione di infrastrutture economiche, al potenziamento di quelle esistenti, e alla creazione d’impiego (credito d’aiuto). I doni sono invece diretti a valorizzare le risorse umane, alla tutela del patrimonio culturale, allo sviluppo ambientale e rurale e dell’eco-turismo, al potenziamento dei servizi primari. Gli interventi italiani si sono concentrati soprattutto in alcune province centrali (come Settat, Khouribga, Beni Mellal) e nelle province del Nord, le più arretrate. Le regioni centrali sono state scelte, tra l’altro perché da esse proviene il principale flusso migratorio verso l’Italia. La cooperazione italiana interviene in Marocco con oltre 20 iniziative, per un importo totale di 200 milioni di euro, di cui 160 a credito d’aiuto e 40 a dono. L’erogazione nel 2005, per quanto riguarda i progetti a dono, è stata di circa 3,5 milioni di euro. I finanziamenti concessi tramite crediti d’aiuto sono destinati, in massima parte, alla costruzione di nuove infrastrutture economiche, al potenziamento di quelle esistenti, alla creazione d’impiego. I doni sono invece diretti a valorizzare le risorse umane, alla tutela

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del patrimonio culturale, allo sviluppo ambientale e rurale. Il programma di conversione del debito originato dalla concessione di crediti di aiuto, pari a 100 milioni di dollari, si è concluso nel 2002. Le risorse sono state utilizzate per realizzare progetti di sviluppo, in particolare la costruzione di scuole, strade rurali, centri sanitari, schemi irrigui e di approvvigionamento idrico. A seguito del sisma che ha colpito nel febbraio 2004 la provincia di Al Hoceima, il Governo italiano ha proposto la cancellazione del debito derivante da crediti di aiuto per un importo di 20 milioni di euro per contribuire al programma di ricostruzione lanciato dal Governo del Marocco. I progetti riguardano: la riabilitazione di edifici pubblici; la ristrutturazione di quartieri degradati; la costruzione di strade e piste rurali.………………..…………………………………………………... Sono in corso diversi progetti realizzati da ONG italiane, per un valore complessivo di circa 18 milioni di euro, di cui il 50% finanziato dalla cooperazione italiana. I progetti intervengono in diversi settori: sviluppo rurale, agricoltura, pesca artigianale, salvaguardia del patrimonio culturale. La più rilevante tra le iniziative nelle province centrali è il contributo al Programma nazionale di approvvigionamento di acqua potabile in ambito rurale (PAGER), mediante un progetto di 4,7 milioni di euro eseguito in gestione diretta nella provincia di Settat. Nelle province nord-occidentali é terminato il progetto di potenziamento dei laboratori d’analisi. Centrato sull’ammodernamento dell’equipaggiamento dell’Istituto Pasteur di Tangeri, l’intervento è stato integrato da attività di formazione, anche per migliorare la capacità dei laboratori di riferimento nelle province di Tétouan e Larache. Sempre a nord, sulla costa mediterranea, è stato recentemente aperto al traffico un tratto di 72 chilometri - finanziato con un credito d'aiuto di 62milioni di euro - della litoranea (Rocade) che ora rende sensibilmente più rapido il collegamento stradale tra le città di Nador e AlHoceima e da quest’ultima fino al confine con l’Algeria. Le altre due iniziative finanziate a credito d’aiuto hanno una valenza nazionale: si tratta di una linea di credito di 15,5 milioni di euro a sostegno delle piccole e medie imprese (accompagnata da un’attività di promozione e assistenza tecnica affidata all’UPI- Unità di Promozione degli Investimenti- in seno all’UNIDO) e di un contributo al Programma governativo di ristrutturazione del settore ferroviario, con un credito di 82,5 milioni di euro, unito ad un credito commerciale di 104,5 milioni di euro, per la fornitura di 24 convogli ferroviari a due piani. Il primo treno è stato già consegnato alle Ferrovie Nazionali marocchine. Nel corso del 2006 sono stati approvati cinque nuovi contributi a dono. Due, nell’ambito della iniziativa italiana E-government per lo sviluppo, hanno lo scopo di assistere il Marocco nell’ammodernare le proprie amministrazioni pubbliche con l'ausilio di tecnologie di informazione e comunicazione. Gli altri due finanzieranno altrettanti progetti: l’uno, a carattere sperimentale, sul fenomeno migratorio, il secondo per l’insegnamento della lingua araba (lettura e scrittura) mediante la televisione pubblica. Sull’impatto di quest’ultimo progetto si ripongono notevoli speranze, al fine di contribuire a ridurre un tasso di analfabetismo che in ambito urbano che supera ancora il 35% della popolazione e nelle campagne oltre il 60%. Infine, il partenariato italo-marocchino per la lotta alla povertà è stato rafforzato dall'approvazione dell'iniziativa PASC, Partenariati in Appoggio alla Società Civile, con uno stanziamento di 2 milioni di euro e in gestione al PNUD. 9.1.3 La cooperazione spagnola Il Marocco è da anni un paese prioritario per la politica di cooperazione spagnola e di fatto il principale partner nel Maghreb.

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La vicinanza geografica, la storia, la molteplicità dei flussi e l’interesse politico ed economico che esiste tra i due paesi sono ragioni sufficienti per mantenere, nonostante l’instabilità delle relazioni bilaterali, un livello di cooperazione molto alto. Inoltre la presenza in Spagna di un importante comunità marocchina che mantiene con il paese d’origine una rete di relazioni affettive ed economiche rende necessaria un’integrazione nelle relazioni politiche di cooperazione allo sviluppo, una concezione di co-sviluppo inteso come un ambito di attuazione trasnazionale dove predominano le relazioni di scambio. La concentrazione geografica che tradizionalmente era circoscritta alle province del Nord si amplia a verso altre due zone urbane, Casablanca, Mohammedia, Rabat, Sale e le zone a sud di Agadir, Tiznit, Sidi Ifni, che presentano una situazione di sviluppo più bassa della media nazionale che suscitano interesse per gli attori della cooperazione. Paese di medio reddito , il regno marocchino si presenta oggi come un paese con grandi potenzialità, che ha sperimentato negli ultimi 5 anni una certa crescita economica e una graduale apertura democratica. L’elaborazione della strategia ha coinciso con il lancio da parte del re del Marocco dell’Iniziativa Nazionale di Sviluppo Umano (INDH) il cui obiettivo è di potenziare le strategie nazionali di lotta contro la povertà. Questo va ad essere pertanto una cornice governalentale della strategia spagnola a livello sociale. La INDH ha identificato nel mondo rurale 360 comuni e nella città 250 quartieri verso i quali vanno diretti programmi integrati che contemplino la miglior accesso ai servizi pubblici e dinamismo del tessuto economico e sociale. L’UE vuole anch’essa contribuire a questa iniziativa scegliendo questi programmi come linee di azione prioritarie per il miglioramento della salute materno-infantile, rafforzando le azioni già intraprese nelle zone del Nord, nella protezione dei bambini e dei giovani in situazioni di precarietà e per creare un tessuto economico in zone degradate mediante l’accesso al microcredito e l’appoggio a imprese che attuano una crescita sostenibile. Nel campo sociale un altro tema di grande attenzione è la protezione delle donne di fronte alla violenza domestica e il consolidamento del loro ruolo come attrici dello sviluppo.

% APS dai vari attori della cooperazione, 2005

31,90%

44,40%

10,90%

12,80%

Comunitàautonome eenti localiMinistero esteri

Ministeroeconomia

Altri Ministeri

Evoluzione APS spagnolo in Marocco, 2002-2005

01000000020000000300000004000000050000000

2002 2003 2004 2005

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Inoltre l’UE va a contribuire alla riforma delle amministrazioni pubbliche iniziata dal governo marocchino, lavorando fondamentalmente attraverso due linee: da una parte la modernizzazione del sistema di giustizia con un programma di 3 anni che completa altre azioni finanziate dalla Commissione Europea e d’altra parte l’appoggio ai processi di decentramento dei servizi pubblici. In quest’ambito il contributo spagnolo si attua attraverso il Programma Gold124. Riguardo il settore produttivo, interessi comuni tra Spagna e Marocco, come la pesca hanno una linea d’azione di una certa importanza nella capacità tecnica e nella formazione, lo stesso che nel settore dell’artigianato per aumentare il suo potenziale di generare impiego. Nell’ambito culturale dove più facilmente si può creare uno spirito di co-sviluppo, si prevede di rinforzare le relazioni e le istituzioni ispano-marocchine anche a livello universitario. Con la creazione dell’Università dei due Re, come nell’ambito professionale nel mutuo riconoscimento e interscambio di esperienze che possa creare un tessuto di conoscenze e relazioni di convivenza.

123 Fonte: Seguimento PACI, 2005 124 Il Programma Nazionale ART GOLD Marocco si inserisce all’interno di un iniziativa di UNDP creata nel 2004 e denominata ART (Appoggio alle Reti Territoriali). Il Programma ART GOLD Marocco, avviato nel luglio 2005, si concluderà nel dicembre 2006. E’ stato alimentato con una parte del citato finanziamento della DGMM. L’obiettivo di questo programma è favorire e coordinare partenariati tra gli attori internazionali e quelli della cooperazione decentrata al fine di sostenere le strategie di sviluppo nazionali e locali del governo marocchino. In particolare, il Programma ART GOLD Marocco promuove e coordina la creazione di partenariati operativi tra collettività locali marocchine ed europee finalizzati a promuovere governance e sviluppo economico a livello locale nelle Regioni in cui esso opera

Settori di intervento123 2002 2003 2004 2005

Infrastrutture e servizi sociali

35.654.842

21.881.240

18.098.244

25.910.131

Educazione 24.041.605

4.738.840

4.995.983

8.555.365

Salute e salute riproduttiva

2.186.607 889.889

2.365.807 1.574.077

2.478.751 1.029.319

4.727.831 1.644.455

Acqua 829.815

1.326.906

1.286.757

2.723.362

Governo e società civile 1.337.465

1.974.508

1.306.580

987.746

Altri infrastrutture e servizi sociali

6.369.462

9.901.101

7.000.853

7.271.371

Infrastrutture e servizi economici

176.605

709.188

4.134.542

4.435.620

Settori produttivi 3.173.410

2.316.842

4.629.515

3.350.691

Multisettoriale 1.553.905

5.712.938

7.640.509

7.890.335

Protezione dell’ambiente 511.991

3.452.995

2.077.373

2.069.690

Donne e sviluppo 715.364

555.598

2.889.701

2.470.136

Altre azioni di carattere multisettoriale

326.549

1.704.345

2.673.435

3.350.508

Totale dei contributi distribuiti

40.558.762

30.620.207

34.502.811

41.586.776

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La celebrazione nel 2006 dell’Anno del Marocco in Spagna evidenzia tutte le iniziative in questa direzione. Aree di intervento - Copertura delle necessità di base: Adottando il Compromesso 20/20 di Copenaghen la Spagna si impegna destinare il 20% del suo APS per la copertura dei servizi di base. Il Marocco presenta un alto tasso di analfabetismo (48% e 40% della popolazione attiva) che porta il paese ad essere situato in basso nelle classifiche sullo sviluppo umano. E’ nel mondo rurale e soprattutto tra le donne che questa carenza è più accusata. Inoltre si osserva un abbandono prematuro dell’insegnamento secondario, la formazione tecnico professionale è minoritaria e mascolinizzata e non costituisce un alternativa valida all’insegnamento secondario. Tutto ciò porta a dover lavorare nel settore dell’educazione per ampliare la copertura educativa, diminuire l’abbandono scolastico e migliorare la qualità e l’equità educativa, fomentando la specializzazione e quindi l’occupazione. Anche la salute fa parte di quei servizi di base da perseguire. Gli indicatori parlano chiaro, muoiono 43 maschi e 41 femmine ogni mille nati, a causa dal difficile accesso ai centri di salute nelle zone rurali. Per questo motivo il Marocco ha iniziato un processo di decentramento delle strutture sanitarie per migliorarne l’efficacia. L’intervento spagnolo mira a rinforzare il sistema pubblico sanitario, includendo la salute sessuale e riproduttiva (il 63% delle donne in età riproduttiva non utilizza nessun metodo contraccettivo). Più di 550.000 minori di 15 anni (l’80% nelle zone rurali) lavorano nell’agricoltura, nel confezionamento tessile, nell’artigianato, lavoro domestico e nelle strade, serve pertanto un rinforzamento delle politiche sociali a tutela dell’infanzia. L’accesso all’acqua è un altro degli interventi più urgenti da perseguire. Le cifre affermano che c’è stato in lieve miglioramento che ha fatto si che il 56% della popolazione rurale potesse avere acceso all’acqua potabile e che il 30% avesse un ripulimento della acque dalle scorie e dai rifiuti e il 72% l’elettricità. -La necessità di un governo democratico, di una maggiore partecipazione cittadina è un’altra grande sfida per il paese. Il Marocco si trova in un processo di rinforzamento del suo sistema sebbene le sue peculiarità culturali, religiose e politiche e il suo livello di sviluppo non lo rendono omologabile a quello dei paesi occidentali sviluppati. Si può intervenire nel rinforzamento della democrazia , sistema giudiziario e sulla partecipazione. Allo stesso modo è importante appoggiare i processi per garantire maggiore trasparenza. Si nota infatti in Marocco lo scarso rinnovo delle elites politica, l’esistenza di partiti che non hanno grande consenso dal basso e una esigua partecipazione politica (52% nelle ultime elezioni legislative). -Sviluppo economico, tramite la promozione del tessuto economico e imprenditoriale che si sostenga nel tempo. Con un PIL di circa 40.000 milioni di euro e un reddito pro capite di 1.200 euro il paese concede all’agricoltura un posizione centrale nella sua economia che impiega il 44% della popolazione. Questo settore si riflette significativamente nel PIL in quanto lo fa variare tra l’11% e il 20% a causa delle variazioni climatiche che condizionano il settore agricolo. E’ un settore vulnerabile perchè legato principalmente alla coltivazione dei cereali. La Spagna a questo proposito cerca di dare appoggio a quei settori che concentrano il lavoro della maggior parte della popolazione come agricoltura e pesca e da cui l’economia marocchina dipende. Ma è anche un paese con un gran numero di artigiani e di piccoli proprietari. Il microcredito in questi casi si presenta come lo strumento migliore per promuovere il tessuto economico e per la ricerca di formule di autoimpiego per la popolazione disoccupata. Il

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disincanto sociale in Marocco è dato dalla scarsa competitività , carenza formativa, debole offerta e eccessiva dipendenza delle rimesse degli emigrati e dal turismo - Uguaglianza di genere. Le donne per questioni di indole sociale, religione e cultura si trovano ad essere fortemente discriminate rispetto all’uomo. Sono praticamente assenti da posti di responsabilità, nelle funzioni pubbliche, nel lavoro e discriminate nei codici penali. Un grande passo in avanti si è fatto con la riforma del codice familiare unito al Piano Nazionale per l’Integrazione della donna nello sviluppo. Inoltre la lotta contro la violenza di genere è diventata una questione di importanza nazionale. Le donne occupano il 33% della popolazione attiva ma soffrono di un 40% di disoccupazione. Inoltre il tasso di analfabetismo è sensibilmente superiore a quello dei maschi. Per questo i progetti sono diretti a una collaborazione con le cittadine per renderle più indipendenti e garantirne i diritti. Il secondo livello invece mira a una maggiore sostenbilità ambientale e alla valorizzazione della cultura.

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10.1 Tunisia Informazioni generali La Tunisia è una Repubblica presidenziale. La Costituzione, promulgata nel 1959, attribuisce al Presidente estesi poteri, garante dell’indipendenza nazionale, detiene il potere esecutivo, è capo delle forze armate, ratifica i trattati internazionali, nomina sia il Primo Ministro che il Governo e i Governatori delle 23 province. La Tunisia ottiene l’indipendenza dalla Francia il 20 marzo 1956. Per 30 anni il paese è stato governato da Habib Bourghiba, fondatore del partito socialista che dal 1934 lottava per l’indipendenza. Bourghiba ha dato una forte impronta laica al Paese e introdotto la legislazione più avanzata fra i paesi arabi in materia di diritti delle donne. Il generale Zine El Abidine Ben Ali, nominato Ministro degli Interni da Bourghiba nel 1987, destituisce l’anziano presidente con il pretesto di liberalizzare il sistema politico e assume il controllo di tutte le istituzioni. E’ stato rieletto nel 2004 per un quarto mandato con il 95% dei voti, grazie alla riforma costituzionale del 2002 che gli ha permesso di candidarsi a nuovi mandati e gli garantisce l’immunità a vita. Contesto socio-economico L’evoluzione degli indicatori sociali in Tunisia è, nel complesso, positiva. Il tasso di povertà è diminuito sensibilmente, anche se nell’ultimo quinquennio vi è stato un aumento della povertà nelle zone urbane, dove si concentra il 65% di indigenti. Il tasso di disoccupazione è stimato al 13,3%, ma raggiunge picchi del 21% in alcune aree particolarmente depresse, e riguarda soprattutto i giovani. Gli indicatori relativi alla salute sono migliorati nelle città, ma svelano realtà più svantaggiate nel contesto rurale dove, ad esempio, la mortalità infantile è circa doppia rispetto a quella urbana. Il sistema di previdenza sociale copre circa l’80% della popolazione attiva e l’aspettativa di vita è salita nell’ultimo decennio da 60 a 72 anni, ed e collocata al 89° posto nella classifica sullo sviluppo umano dell’ONU del 2005 Per quanto riguarda la strategia di sviluppo, il X Piano di Sviluppo Economico e Sociale della Tunisia125 prevede il consolidamento del ritmo di crescita dell’economia, il miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro, la realizzazione di una maggiore efficacia degli investimenti, l’ulteriore promozione delle esportazioni e l’incremento del risparmio interno. Dal punto di vista delle politiche sociali, un’attenzione particolare è dedicata allo sviluppo delle risorse umane, al rafforzamento del sistema di previdenza sociale e sanitario, al controllo delle nascite e al sostegno delle categorie svantaggiate (poveri, disabili, portatori di handicap, anziani) per facilitarne l’inserimento socio-professionale. L’obiettivo cui tende l’azione del Governo tunisino è il raggiungimento di un tasso di sviluppo stabile con una crescita media del 5,3%, un poco meno dell’6% stimato all’inizio della programmazione a causa del nuovo quadro internazionale. Ciò ha permesso di realizzare l’obiettivo di un PIL pro-capite di 3.500 dinari per il 2004 e 4.110 dinari nel 2006. Il settore dei servizi, darà il contributo più importante allo sviluppo, a un ritmo di crescita del 7.5% annuo. Questa progressione si basa principalmente sulla spinta del settore delle telecomunicazioni che deve crescere a un

125 Avviato all'inizio del 2002, il X° Piano quinquennale di Sviluppo economico e sociale, traccia un programma di riforme volto a rafforzare la competitività dell'economia tunisina e ad accelerare il processo di crescita. Il documento redatto dall'ICE sintetizza le linee principali del piano, evidenziando anche l'apporto garantito dall'Italia e da istituzioni quali la BEI, la Banca Mondiale, ecc., per la realizzazione dello stesso.

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tasso del 18.6% per anno e sull’espansione del turismo che potrà conseguire un aumento medio del 6% l’anno in linea con la dinamica registrata nello precedente Piano. Le risorse finanziarie necessarie per il raggiungimento degli obiettivi del Programma di Sviluppo del Paese richiedono il rafforzamento dei rapporti di cooperazione bilaterale e multilaterale, nonché la capacità di sfruttare le opportunità offerte dal mercato finanziario internazionale in termini di investimenti diretti e prestiti. 10.1.1 La cooperazione euro-mediterranea Il programma MEDA dell’UE per la Tunisia (2000- 2006) ha considerato, quali principali sfide sul medio termine, la messa in opera di una transizione democratica e il maggior coinvolgimento della popolazione. Riguardo la concorrenza internazionale, la Tunisia ha aderito al GATT ed è membro fondatore dell’OMC; nel 1995 ha siglato un accordo con l’UE che prevede il graduale abbattimento delle barriere doganali che porti alla creazione di una zona di libero scambio che inizia quest’anno. Inoltre l’UE risulta essere il più importante destinatario dei flussi commerciali. Ai paesi UE, è destinato l’90% delle esportazioni e dagli stessi proviene il 73% delle importazioni. In seguito a questo accordo è aumentata anche la capacità di attrarre investimenti esteri che nel 2000 ha raggiunto i 478 milioni di dinari. Questa valuta ha inoltre praticamente tenuto un ritmo di progressione uguale a quello delle monete europee, tenendo conto che il 40% del commercio estero è pagato in moneta europea così come il 30% del debito. Il Country Strategy Paper per il periodo 2002-2006 ha previsto in particolare iniziative di sostegno alle riforme strutturali nazionali, per mezzo di programmi settoriali, soprattutto nel campo dell’insegnamento, della formazione e della modernizzazione industriale. La Tunisia ha inoltre attuato un Accordo Euro-Mediterraneo126. Gli obiettivi dell'accordo sono la creazione di un quadro appropriato per il dialogo politico che permetta lo sviluppo di strette relazioni politiche tra le parti, la creazione delle condizioni per la progressiva liberalizzazione del commercio dei beni, servizi e capitali, l'incoraggiamento di relazioni economiche e sociali armoniose attraverso il dialogo e la cooperazione, che contribuisca allo sviluppo economico e sociale della Tunisia e della sua popolazione, incoraggi l'integrazione dei Paesi del Maghreb e, infine, promuova la cooperazione economica, sociale, culturale e finanziaria 10.1.2 La cooperazione italiana La V sessione della Grande Commissione Mista, del giugno 2004, ha confermato come prioritari i settori dello sviluppo del settore privato, della protezione dell’ambiente e dell’ equilibrio della bilancia commerciale. L’Italia e la Tunisia accordano la massima importanza agli interventi di sostegno al tessuto produttivo locale, auspicando e favorendo allo stesso tempo un continuo aumento dei rapporti sia industriali che commerciali tra l’imprenditoria dei due paesi. A questa strategia di intervento si accompagna l’attenzione per i fondamentali macroeconomici, rappresentata in questo caso dal sostegno fornito dall’Italia all’equilibrio della bilancia dei pagamenti. In linea poi con le evoluzioni più recenti delle strategie di salvaguardia delle risorse naturali, grande importanza rivestono gli interventi in materia di ambiente, soprattutto di lotta alla desertificazione e protezione dell’ambiente marino e delle coste del Mediterraneo.

126 98/238/CE, CECA: Decisione del Consiglio e della Commissione del 26 gennaio 1998 relativa alla conclusione dell'accordo euro-mediterraneo che istituisce un’associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da un lato, e la Repubblica tunisina, dall'altro

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Tali principi sono coerenti con quelli che ispirano la cooperazione dell’UE, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo del settore privato e il perseguimento di solidi equilibri macroeconomici. L’ultimo accordo tra Italia e Tunisia è stato firmato a Bari il 15 febbraio 2007, presso la sede dell'Istituto Agronomico Mediterraneo del Ciheam , che fornirà l'assistenza tecnica necessaria per realizzare una filiera di vivaismo frutticolo ed il relativo programma di certificazione genetica e sanitaria. Il progetto "Azioni di supporto della produzione ortofrutticola tunisina" rientra nei programmi di cooperazione internazionale del Ministero degli Affari Esteri italiano e sarà attuato nell'arco di tre anni. Tra i programmi conclusi recentemente possiamo ricordare: Il Programma integrato per la valorizzazione delle regioni del Sahara e del Sud della Tunisia con l’obiettivo è di promuovere lo sviluppo economico e sociale di queste zone della Tunisia attraverso la realizzazione di progetti in settori prioritari quali infrastrutture, agricoltura, sviluppo rurale, conservazione delle risorse naturali, sviluppo sociale. La creazione di un sistema di monitoraggio e valutazione del programma nazionale di lotta alla desertificazione. L’iniziativa fa parte del Piano d’Azione Nazionale di Lotta alla Desertificazione messo in atto dal Governo tunisino. Le attività hanno permesso la definizione del quadro metodologico del sistema in questione; la messa a punto di indicatori, la definizione del quadro organizzativo necessario a garantire il suo funzionamento, la costituzione di un sistema informativo nazionale sulla desertificazione. I Fondi di contropartita derivati dalla riduzione d el tasso di interesse sui crediti d’aiuto concessi dall’Italia alla Tunisia. Nel corso della IV Commissione Mista, l’Italia ha accordato al Governo tunisino la riduzione dei tassi di interesse sui crediti d’aiuto italiani concessi alla Tunisia dal 1983 al 1994. Tale riduzione ha comportato la costituzione di un Fondo di contropartita di un ammontare pari a circa 11,5 milioni di euro, utilizzati per finanziare quattro progetti di gestione e trattamento delle acque reflue e un progetto di rimboschimento nel sud della Tunisia. 10.1.3 La cooperazione spagnola Durante il 2005 la politica di cooperazione in questa regione sviluppò un processo di pianificazione strategica che culminò con l’approvazione del Documento Strategico del Paese 2005-2008 (DEP). In questo documento si stabiliscono le priorità di intervento sia geografica che settoriale della cooperazione spagnola. Il documento strategico tra le sue priorità contempla l’intervento nell’Obiettivo 2 e quindi l’aumento delle capacità umane e la copertura delle necessità di base, e richiama all’importanza di cooperazione e coerenza con gli interventi di tutti gli attori interessati. L’attuazione della politica di cooperazione spagnola negli ultimi anni si è orientata al

% Aiuto pubblico allo sviluppo per attori, 2005

Fonte Seguimento PACI 2005

8,90%

89,60%

1,50%ComunitàAutonome eEnti LocaliMaec

AltriMinisteri

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raggiungimento degli Obiettivi del Millennio, tenendo conto che si tratta di un paese con un reddito medio e con un livello di sviluppo relativamente alto. Le priorità fanno orientare verso l’aumento della capacità economica per raggiungere una sostenibilità ambientale. Tra le azioni per l’ambiente è importante l’appoggio allo sviluppo di centri tecnologici portati a compimento tramite l’AECI la Comunità Valenziana e il Ministero dell’Industria tunisino grazie al programma Azahar. Il Ministero dell’Ambiente ha negli ultimi anni portato avanti un progetto per la riabilitazione del litorale insieme con il governo d’oltremare e un progetto riguardante l’energia eolica.

127 Fonte: Seguimento PACI 2005

Settori di intervento127 2002 2003 2004 2005

Infrastrutture e servizi sociali

1.840.295

1.375.436

1.703.469

1.621.538

Educazione 472.464

888.392

437.332

1.140.665

Salute e salute riproduttiva

472.464

43.209

48.741

0

Acqua 0 0 228.459

0

Governo e società civile 510.626

11.966

24.545

0

Altri infrastrutture e servizi sociali

662.612

431.868

964.391

480.873

Infrastrutture e servizi economici

2.413.687

3.029.076

1.373.842

793.068

Settori produttivi 652.454

882.755

1.911.495

532.428

Multisettoriale 5.543.230

7.737.647

4.738.544

4.887.169

Protezione dell’ambiente 921.180

298.692

690.249

337.633

Donne e sviluppo 116.696

0 10.062

100.000

Altre azioni di carattere multisettoriale

4.505.355

7.438.956

4.038.234

4.449.536

Totale dei contributi distribuiti

10.449.666

13.024.914

9.727.351

7.834.202

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In relazione all’attuazione degli orientamenti previsti per aumentare le capacità economiche è stata messa in marcia da parte dell’AECI, dell’istituto Sociale della Marina e del Ministero dell’Agricoltura, Ambiente e Risorse Idrauliche di Tunisi, un’iniziativa congiunta di formazione marittima e peschereccia, che sarà articolata mediante il programma Nauta. Riguardo l’agricoltura è importante il progetto del Polo Agroalimentare di Bizeta grazie al Ministero dell’Agricoltura e il progetto di Informatizzazione della Medina. Tra gli aiuti canalizzati tramite le ONG è da evidenziare il lavoro IPADE, un azione regionale orientata alla migliore sostenibilità dei mezzi di vita della popolazione rurale più vulnerabile, e il progetto a Tabarka di ecoturismo. Dalle conclusioni emanate dal processo di pianificazione strategica, l’allineamento con le linee tracciate dalle autorità tunisine nel X Piano di Sviluppo del paese e perseguendo la maggior complementarietà e coordinamento con gli altri donatori, la Spagna ha messo in atto 4 strategie per i prossimi anni: - L’aumento delle capacità economiche, da cui si notano le attività del FAD nel 2006 (13,3 milioni, di cui 9.9 diretti alle piccole e medie imprese e 3.4 legati all’acquisto di beni e servivi spagnoli). - Educazione allo sviluppo, in cui l’AECI nel 2006 ha celebrato l’incontro di specialisti spagnoli e tunisini per un dibattito riguardo all’educazione alla pace, auspicabile tramite il dialogo, l’intercultura e la tolleranza. - Sostenibilità ambientale, in cui la Comunità di Navarra e l’AECI nel 2006 hanno terminato in Tunisia, il programma Azahar, un progetto di rinforzo istituzionale in materia di energia rinnovabile attraverso, tra le altre attività, l’elaborazione della Carta Eolica. - Uguaglianza di genere. In questo ambito nel 2006 è rilevante il lancio, da parte dell’AECI, in collaborazione con ONG specializzate, di un programma di appoggio a strumenti per la prevenzione della violenza di genere in Tunisia. Nel terreno del miglioramento della salute riproduttiva, l’AECI sostiene il programma Vita dell’associazione Medicus Mundi, per la realizzazione di un Corso per la salute sessuale e riproduttiva.

Evoluzione APS spagnolo in Tunisia 2002-2005

0

5000000

10000000

15000000

2002 2003 2004 2005

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11.Conclusioni Malgrado le tante differenze esistenti tra i paesi considerati, si può sostenere che i processi di sviluppo economico e di evoluzione dell’assetto sociale che hanno interessato nei tempi più recenti gli Stati a sud del Mediterraneo, fanno convergere in modo significativo le due sponde del bacino verso paradigmi di analisi assimilabili più di quanto comunemente si pensi. I fenomeni di crescita caratteristici dei PTM (Paesi Terzi Mediterranei), infatti non seguono in maniera rigida la sequenza cronologica dello sviluppo che ha avuto luogo storicamente in Europa: rivoluzione industriale, rapida urbanizzazione, modello di produzione taylor-fordista , mercati di massa, terziarizzazione, crescita PMI, sviluppo locale endogeno, flessibilizzazione del lavoro. Rispetto a questo paradigma di crescita, nei paesi del Sud del Mediterraneo, in virtù della capacità attrattiva e di spinta di un Nord già massicciamente industrializzato, si sono determinate delle varianti alla catena di progressione dello sviluppo, dando luogo ad una evoluzione accelerata per “salti”. Ciò significa che le tappe dello sviluppo percorse dall’Occidente non si replicano in tutte le società del Mediterraneo in transizione, in ragione della forza di influenza e di propulsione dei nuovi processi dipendenti dalle contaminazioni culturali del Nord, dalla penetrazione dell’innovazione tecnologica e dei nuovi sistemi di produzione occidentali. Ad esempio si pensi ai rivolgimenti in corso nei paesi del Sud nell’assetto del mercato del lavoro e nei sistemi organizzativi dei processi di produzione. E’ prevedibile che si assisterà nei prossimi anni ad un’accelerazione della trasformazione delle tradizionali formule contrattuali che regolano i rapporti di lavoro, con una diminuzione del bacino occupazionale rappresentato dal pubblico impiego e con un parallelo accrescimento del numero degli occupati secondo modelli di occupazione “atipici” (temporanei, parasubordinati, orari flessibili, salari deregolamentati). Ciò sarà determinato dall’esigenza di una maggiore competitività dei sistemi economici del Nord Africa e del Medio Oriente rispetto alle imprese della parte settentrionale del bacino, che già da tempo stanno sperimentando le nuove articolazioni dei rapporti di lavoro. Da questo punto di vista i paesi della porzione sud ed est del Mediterraneo conosceranno pertanto un passaggio epocale in contemporanea con gli stati europei, benché le due aree geografiche abbiano raggiunto stadi di sviluppo differenti. L’intero contesto mediterraneo si configura oggi come oggetto di analisi organico e si presta ad essere studiato prospetticamente in base ai medesimi parametri di interpretazione della modernità post-fordista e neo-industriale. Questa riflessione giustifica l’approccio unitario alle problematiche sollevate dal partenarito euro-mediterraneo. Ciò che è necessario, è superare la logica interventista del fare, per passare ad una dimensione diversa, che costruisce relazioni fra persone e tra popoli, offrendo loro le opportunità necessarie per organizzarsi e costruire un destino comune, mettendo insieme i contributi complessivi di ognuno. In questo modo non si realizzeranno più progetti che depauperano la stessa possibilità di relazione sociale e umana, ma si potrà riconoscere la dignità e il valore che sta dentro ogni persona. In questo senso è significativa l’esperienza di Guido Barbera che racconta di quando sentì una donna africana parlare a pochi giorni dalla costruzione di un pozzo nel suo villaggio. Finalmente questa donna aveva l’acqua a pochi metri dalla sua abitazione, ma le era stato rubato il tempo che dedicava ad arrivare al fiume per fare la sua scorta giornaliera. Il tempo essenziale per parlare con la gente, confrontarsi, scambiare opinioni, sensazioni e speranze. Questo porta a chiedersi “Quale ricchezza perdiamo con i nostri progetti?”.

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Serve più un pozzo nel villaggio, o la possibilità di parlare e discutere quotidianamente della propria vita? Forse si dovrebbe cercare un punto d’incontro tra le parti dove il confronto e il dialogo servono per arrivare fino al pozzo, ma non si fermano lì. Questa società globalizzata si sta fondando sull’individualismo, sulla concorrenza, sul primato del più forte e più furbo. “La qualità della vita della nostra società è pari alla somma della partecipazione sociale dei suoi cittadini e delle loro varie forme di aggregazione128”, Il nuovo approccio alla cooperazione internazionale quindi deve partire dal riconoscimento della dignità di ogni essere umano, quale protagonista della società e della storia, per valorizzarlo e responsabilizzarlo nell’affrontare i problemi del territorio e dei rapporti con gli altri.

128 G.Barbera, E.Melandri, op.cit

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PARTE D

NODI PROBLEMATICI

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In quest’ultima parte vorrei affrontare quei problemi “tipici” che esistono nel rapporto tra i paesi del Nord, industrializzati, occidentali, moderni e i paesi del Sud. Relazioni che non sono mai eque, spesso ingiuste e che vanificano gli sforzi fatti in materia di cooperazione, mi riferisco al ruolo del commercio internazionale e al peso del debito estero. Ma parlerò anche di alcuni aspetti come la crescita demografica come uno dei motivi del protrarsi dello stato di povertà e del ruolo della democrazia, che svolge un ruolo fondamentale nell’efficacia degli aiuti. Infine dedicherò una parte ad una visione insolita, un punto di vista rispetto a questo tema, molto controcorrente, fuori dai soliti perbenismi e terzomondismi etc. E’ il punto di vista di Axelle Kabou, camerunese che si domanda: “Non sarà forse l’Africa a rifiutare lo sviluppo?”

1.Il commercio internazionale La mondializzazione si basa su una serie di credenze, assunti, postulati promossi dalla potenze del Nord e inculcate al resto del mondo. In questo contesto il Sud del mondo, che deve accettare queste regole si trova intrappolato dietro una serie di imposizioni, teoricamente accettabili, ma che nella realtà lo intrappolano. E’ la trappola del libero mercato, del commercio, del liberismo, della fiducia nel mercato che regola i rapporti economici tramite i vantaggi comparati. In teoria lo scenario presentato è quello in cui la dominazione a livello politico non svolge alcun ruolo nel successo o insuccesso nella competizione economica. In questo scenario si suppone che solo la performance economica sia importante. Vince chi sa competere, chi riesce a rispondere alla domanda mondiale in maniera efficiente Chi perde quindi non può farne una colpa all’avversario perché entrambi stanno gareggiando ad armi pari. Infatti secondo i principi del libero scambio, lo sviluppo del commercio mondiale favorisce la crescita perché stimola l’aumento della produzione interna, bisogna quindi liberalizzare gli scambi, eliminando le dogane e le misure che limitano l’accesso; il protezionismo non fa parte delle regole del gioco. Inoltre l’apertura economica porterà ogni paese a specializzarsi in modo da avere dei vantaggi comparati. Per tutti questi motivi gli organismi internazionali e le grandi potenze raccomandano se non impongono il libero scambio tramite accordi internazionali (Organizzazione Mondiale del Commercio, accordi di Cotonou129). Nella realtà le cose sono diverse, e possiamo anche dare un nome al vincitore (occidente moderno e industrializzato, nel senso più comune), che è abituato alle regole del gioco, perché le ha inventate130, e al perdente (Sud del mondo, ed in questo caso l’Africa).

129 L'accordo di Cotonou, firmato il 23 giugno 2000 a Cotonou in Benin per una durata di 20 anni e riveduto per la prima volta nel 2005, si fonda sull'esperienza maturata in 30 anni. Lo scopo dell'accordo è di stimolare e accelerare lo sviluppo economico, sociale e culturale degli Stati ACP (Africa, Carabi, Pacifico), di contribuire alla pace e alla sicurezza e di favorire un clima politico stabile e democratico. Il processo di revisione dell'accordo di Cotonou si è svolto conformemente all'articolo 95 del medesimo che ne consente la modifica ogni cinque anni (eccetto per quanto riguarda le disposizioni in materia di cooperazione economica e commerciale). Il nuovo accordo riveduto abbraccia un'ampia gamma di temi e contempla una disposizione volta a potenziare il dialogo politico e riferimenti alla lotta contro il terrorismo, alla cooperazione in materia di lotta contro le armi di distruzione di massa e al tribunale penale internazionale (TPI).

130 Anne-Cecile Robert, L’Africa in soccorso dell’Occidente,Emi Editore 2006, p.45 e ss.

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Le differenze di situazione fra paesi sono troppo grandi perché il sistema possa funzionare. Le economie dell’Africa, in particolare, sono economie emergenti rispetto alle vecchie economie industriali del Nord. Nessuno stato povero può rivaleggiare spontaneamente con questi paesi. C’è da sottolineare l’incoerenza che ha portato proprio gli ideatori di tale gioco a non sottostare alle regole quando, dopo la seconda Guerra Mondiale hanno usato il protezionismo, in particolar modo per risanare i settori agricoli e industriali delle loro economie devastate dalla guerra. Solo più tardi in seguito alle pressioni esercitate dagli USA si sono riaperti progressivamente ai mercati131. Ma nel 2002 Washington ha ripristinato alcune barriere doganali per proteggere le sue acciaierie. Storicamente, il libero scambio è sempre stato un arma a doppio taglio, impiegata dai più forti per imporre ai più deboli l’apertura dei loro mercati. Nelle condizioni attuali, considerando le disuguaglianze in termini di potenza economica e tecnologica, il libero scambio è solo un alibi della dominazione delle aziende multinazionali. Queste imprese possono perpetrare così in nuovi mercati e mettere le mani sulle risorse naturali dei paesi del Sud. Le cifre parlano chiaro: secondo il Rapporto annuale sullo sviluppo umano, i più ricchi del pianeta rappresentano l’86% del prodotto interno lordo mondiale, l’82% dei mercati d’esportazione, il 68% degli investimenti diretti all’estero e il 74% delle linee telefoniche nel mondo132. Le importazione dei prodotti africani da parte dell’Unione Europea invece sono passate dal 6,7% nel 1975 al 3,4% nel 1998. Come riassume Jacques Nickonoff: “Il commercio internazionale deve avere le stesse regole del judo: non si organizzano gare fra pesi massimi e pesi piuma”. La negatività del libero scambio nel continente africano si traduce in particolare nell’obbligo di orientare la produzione verso l’esportazione, mentre questi paesi hanno bisogni interni molto più gravi, sarebbe invece necessario sviluppare prima un mercato interno. Infatti le colture d’esportazione hanno penalizzato la coltivazione di prodotti alimentari. Le conseguenze sono state drammatiche per le popolazioni: scarsità alimentari e perfino carestie (soprattutto in zone fragili come il Sahel). La specializzazione delle economie non crea come nella teoria, un vantaggio comparato che permetta ai paesi del Sud di rivaleggiare con quelli del Nord. Per questo bisognerebbe fornire agli Stati d’Africa i mezzi per costruire questo vantaggio. Inoltre tenendo conto dei poteri squilibrati fra gli stati, la specializzazione potrebbe rivelarsi una trappola che accresce la vulnerabilità delle economie africane, divenute molto dipendenti dai mercati mondiali, in cui le variazioni dei prezzi sono all’ordine del giorno. Come afferma Aminata Traorè: “Ricrediamoci: non siamo poveri, siamo impoveriti e abbindolati. E la via d’uscita dal marasma e dall’umiliazione è la lotta contro il sistema neoliberista, che secerne e orchestra la scarsezza, che pretende di correggere133”. La guerra commerciale e la concorrenza generalizzate distruggono interi settori delle economie locali, provocano la fuga dei capitali e le delocalizzazioni industriali. L’occupazione, la protezione sociale, la qualità della vita si degradano dappertutto. Secondo l’economista senegalese Sanou M’Baye, l’Africa dovrebbe poter usare, almeno periodicamente, l’arma del protezionismo, come ha fatto l’Europa dopo la seconda guerra mondiale e come fa tuttora in certi settori. Questo le permetterebbe di sviluppare nuove strutture produttive. All’inizio degli anni ‘80 l’Organizzazione dell’Unità Africana prese in considerazioni interventi del

131 Lo smantellamento della politica agricole comune dell’Unione Europea ha avuto luogo in seguito all’insistenza degli Stati Uniti, in cui agricoltori sono i più sovvenzionati del mondo. 132 Undp, Rapporto sullo sviluppo umano 2002 133 Anne-Cecile Robert,op.cit

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genere134, ma furono impediti a causa delle pressioni internazionali. Allo stesso modo il Forum sociale Africano di Addis Abeba nel 2003, che ha denunciato l’iniquità imposta dalle prescrizioni liberoscambiste. Ma questa logica liberoscambista continua a guidare la visione occidentale del mondo, a vantaggio naturalmente dei più ricchi, che come ho già detto, la hanno inventata. Proprio perché l’Africa rappresenta solo il 4% del commercio mondiale è tranquillamente trascurabile!! Ma l’Africa è davvero trascurabile? La Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo ha dimostrato, nel 2000, che gli investimenti privati verso i paesi africani erano diminuiti rispetto ai periodi precedenti. Nel corso del periodo 1975-1982 le entrate di capitali esteri rappresentavano il 3.9% del PIL dei paesi africani. Nel corso del periodo 1983-1998, rappresentavano ormai solo l’1,8%. Attualmente l’Africa riceve meno del 2,5 per cento degli investimenti diretti stranieri e comunque questi investimenti non vanno nei settori che creano impiego o ricchezza, ma sono indirizzati a settori sotto il controllo del monopolio pubblico e quindi del Governo come l’acqua o l’energia, o a settori che non sono concorrenziali e che comunque sono collegati al monopolio pubblico come quelli della comunicazione. Si constatava invece la fuga di capitali africani verso paesi esteri, dal momento che la liberalizzazione dei movimento permette ai capitalisti locali di collocare più facilmente il loro denaro. Cosa se ne deduce? I capitali africani vanno ad alimentare le economie dei paesi industrializzati! Secondo Baye l’Africa è il continente che offre agli investitori i migliori rendimenti, non solo a causa di scarsi vincoli sociali e fiscali, ma anche dall’abbondanza di ricchezze facilmente sfruttabili. L’UNCTAD ha dimostrato che “quasi il 40% delle entrate nette di capitali nell’Africa subsahariana negli anni 90 si sono dirette verso i paesi creditori sotto forma di interessi e di utili rimpatriati”. Di fatto gli investimenti esteri producono più profitti per i paesi stranieri che per i paesi africani. Secondo l’ultimo rapporto prodotto nell’ottobre 2005, ogni volta che c’è un investimento estero, il 65% del valore aggiunto legato a questo investimento esce dall’Africa per andare nel paese che ha investito Il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2004 dell’ONU in 400 pagine sconcertanti dimostra come “le barriere commerciali a cui devono fa fronte i paesi in via di sviluppo quando esportano i loro prodotti verso i paesi ricchi sono, in media, tre volte più alte di quelle esistenti tra i paesi ricchi quando commerciano tra loro. Questa perversa forma di tassazione e le inique politiche commerciali impediscono a milioni di poveri del mondo di uscire dalla loro povertà, mantenendo in piedi un sistema caratterizzato da enormi disuguaglianze135”. Dietro la retorica del libero mercato si nasconde la dura realtà degli agricoltori dei paesi poveri del mondo, che sono obbligati a concorrere non con i loro colleghi del Nord, ma con i Ministeri delle Finanze dei paesi industrializzati, come ha ribadito Kevin Watkins, principale autore del Rapporto. I sussidi garantiti dai governi dei paesi ricchi ai loro produttori, affinché distruggano le merci quando viene superata la quota di produzione fissata (in modo che l’aumento dell’offerta non provochi l’abbattimento dei prezzi), hanno raggiunto ormai “un miliardo di dollari al giorno”, l’equivalente degli aiuti che i paesi ricchi (tutti insieme) stanziano in un anno per quello in via di sviluppo.

134 il Piano Lagos, concepito fin dal 1980 dall’OUA aveva lo scopo di dotare il continente di un Fondo monetario africano, meglio calibrato alle esigenze dell’area. 135 UNDP Rapporto sullo sviluppo umano 2004

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I grandi discorsi mediatici sullo sviluppo del pianeta, dell’ultimo G8 e l’impegno preso dai paesi ricchi riguardo gli Obiettivi del Millennio contro la povertà vengono ridicolizzati dalle cifre del Rapporto dell’ONU che, al contrario, documenta in che modo i paesi ricchi, attraverso le non eque/ingiuste barriere commerciali, “impediscono” la crescita dei paesi più poveri. Con le sovvenzioni che i paesi ricchi versano ai loro agricoltori, questi godono di un “quasi monopolio sul mercato mondiale delle esportazioni agricole”, mentre i PVS “perdono circa 24 miliardi di dollari ogni anno a causa di questo protezionismo agricolo e di queste sovvenzioni. Per esempio, il meccanismo delle sovvenzioni si traduce in mancati guadagni per altri paesi come il Brasile, che perde ogni anno 494 miliardi di dollari, o per l’Africa che ne perde 151”. Ma allora a che serve destinare risorse a progetti di cooperazione, se la “mano invisibile” del commercio mondiale rende inutile aiuto? Un altro problema che vorrei inserire su questo tema è il diverso costo dei prodotti che arrivano in Europa come materie prime o come prodotti finiti. Qualche esempio sui dazi che l’Italia impone all’arrivo delle merci dai PVS.

Prodotto importato Dazio imposto136

Caffè

Grezzo 0%

Torrefatto 7%

Decaffeinato 9%

Ananas

Fresco 2%

Succo 15%

Liofilizzato 30%

Cotone

Grezzo 0%

t-shirt 10%

Che dire? Più un prodotto dei PVS ha valore aggiunto, più noi lo tassiamo impedendo che loro sviluppino una industria di trasformazione. Li chiamiamo in via di sviluppo, ma non siamo noi che gli impediamo di svilupparsi?? E' stato calcolato che i PVS perdono ogni anno 20 miliardi di euro per le mancate esportazioni dovute ai nostri dazi. Ogni anno i paesi industrializzati versano ai PVS 50 miliardi di euro per lo sviluppo. Se i PVS potessero aumentare le loro esportazioni solo del 5% guadagnerebbero 350 miliardi di euro, cioè 7 volte l’importo di tutti gli aiuti allo sviluppo che l’Italia destina

136 www.beppegrillo.it

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2. Il debito dei Paesi in Via di Sviluppo Le testate giornalistiche e le anteprime di tutti i telegiornali dell’11 Giugno 2005 aprirono con la notizia della cancellazione del debito pubblico in molti paesi dell’Africa, su Honduras e Bolivia. I ministri finanziari del G8 annullano 40 miliardi dovuti alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale. I 40 miliardi che saranno subito cancellati, però, sono solo una parte dell'indebitamento estero di questi paesi. Esso si compone, infatti, di debiti bilaterali, da restituire direttamente ai paesi ricchi che avevano prestato il denaro, e di debiti multilaterali, da pagare agli organismi internazionali. Secondo la Banca Mondiale, il debito estero complessivo dei paesi dell'Africa sub-sahariana era di 231 miliardi di dollari nel 2003. Solo il 30% (circa 69 miliardi) di questa somma era dovuto ai donatori multilaterali, ossia Banca mondiale e Fondo monetario internazionale. Secondo le cifre della Banca Mondiale, l’Africa ha già rimborsato circa quattro volte il suo debito del 1980, ma è tre volte più indebitata. Nel 1998, 1999, 2000 l’Africa subsahariana ha rimborsato circa 16 miliardi di dollari in più rispetto a ciò che ha ricevuto sotto forma di nuovi prestiti in quegli anni. Ogni anno l’Africa paga per il servizio del debito il quadruplo della somma dei suoi bilanci per la sanità e l’istruzione. Eppure i finanziatori internazionali hanno una responsabilità essenziale nella trappola del debito. Negli anni ‘60 e ‘70 la BM e gli altri istituti finanziari, hanno incoraggiato l’indebitamento di questi paesi del Sud senza operare sulla stabilizzazione dei prezzi delle materie prime sui mercati mondiali, motivo per cui questi paesi si stavano indebitando. Il crollo delle quotazioni e l’aumento dei tassi di interesse decisi unilateralmente dalla Riserva federale americana nel 1981 hanno provocato la crisi del debito, prima in Messico e poi negli altri paesi. La necessità di pagare obbliga i paesi interessati a seguire le prescrizioni dei finanziatori e li imprigiona nella gogna delle politiche di adeguamento economico. I programmi come l’iniziativa Paesi Poveri Molto Indebitati (HIPC) cancellano solo una piccola parte delle somme in gioco e non rimettono in discussione la logica di dipendenza insita in un debito contratto e accumulato sotto la pressione dei finanziatori. Servono perfino a perpetuarla a vantaggio dei creditori del Nord, poiché il servizio del debito non pagato si accumula di anno in anno (su 210 milioni di dollari di debito, il 30% è costituito da arretrati). Questa situazione legittima la frase spesso usata “Allora lavoriamo per niente”. Anche perché, se vogliamo dirla tutta gli Stati Uniti hanno un debito di gran lunga superiore a quello dell’Africa sabsahariana, però non gli si impone un aggiustamento strutturale come è imposto ai paesi del Sud per la cancellazione del debito. Questa disuguaglianza di trattamento, il funzionamento del sistema mondiale e i rapporti economici globali mostrano che a quarant’anni dalla fine della colonizzazione, l’Africa resta una terra di rendita per le società del Nord. 2.1 La cancellazione del debito, un lungo cammino Sin dalla crisi dei primi anni Ottanta, un gran numero di paesi poveri fortemente indebitati continuano ad avere difficoltà nel ripagare il debito accumulato. Sebbene i meccanismi impiegati dalla comunità internazionale per assicurare assistenza finanziaria e ridurre il peso del debito abbiano in molti casi funzionato, la situazione di

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indebitamento è divenuta cronica137 e non più sostenibile per un certo numero di paesi poveri. Questi paesi sono prigionieri di un circolo vizioso di indebitamento e povertà, nel quale il pagamento degli interessi sul debito inghiotte le risorse disponibili, che potrebbero essere altrimenti utilizzate per sostenere la crescita e combattere la povertà. Per rispondere a questa situazione drammatica e ridurre il peso dell’indebitamento a un livello sostenibile in un periodo determinato, il G8 e le istituzioni finanziarie internazionali promuovono nel 1996, l’iniziativa per la cancellazione del debito ai paesi HIPC. L’iniziativa specifica i requisiti per accedere alla procedura di cancellazione, che si articola in quattro fasi: Il governo del paese debitore adotta un programma di aggiustamento strutturale, concordato con FMI e BM, al fine di perseguire la stabilizzazione economica e una capacità autonoma di promuovere lo sviluppo.

1) Dopo un periodo di massimo tre anni, a seguito di una valutazione sulla sostenibilità di un programma adottato, il FMI e BM, se la valutazione è positiva, dichiarano il raggiungimento del decision point138, ovvero l’eleggibilità del paese all’iniziativa, e avviano un programma di assistenza finanziaria.

2) Il paese adotta allora una strategia nazionale di riduzione della povertà (PRSP), con il supporto di FMI e BM, oltre che del Club di Parigi, che raggruppa i 19 principali governi creditori e coordina le azioni di rinegoziazione del debito. A questo punto il governo sottoscrive con il Club di Parigi le intese multilaterali di cancellazione del debito, alle quali faranno seguito accordi bilaterali applicativi.

3) Dopo un ulteriore triennio, se il paese debitore ha attuato con successo la strategia nazionale di riduzione della povertà, FMI e BM dichiarano il raggiungimento del completion point139. A tal punto il governo debitore potrà beneficiare della cancellazione del 100% del debito eleggibile

4) L’approccio contenuto nell’iniziativa HIPC è di analizzare la situazione del paese, verificando in concreto gli impegni assunti dal governo interessato per risanare l’economia e mettere al centro del proprio programma di sviluppo la riduzione della povertà.

Con il lancio dell’Iniziativa un numero crescente di paesi meno avanzati inizia a formulare strategie nazionali, che diventano punto di riferimento per i programmi di aiuto. Partono dalla valutazione dell’incidenza della povertà, definiscono le priorità e identificano i risultati da conseguire entro un determinato periodo.

137 Debito inestinguibile: La banca, monopolizza il denaro ed è l’unica autorizzata a emettere monete e lo fa chiedendo in cambio interessi, che non può essere pagato in contante perché di fatto non esiste alcuna valuta che non sia della banca emittente. La domanda sorge spontanea, con quale valuta pagare gli interessi sulla valuta ricevuta se tutta la valuta è della banca? “Cioè se la banca presta mib100 euro devo ridarne 108, ma se devo chiedere gli 8 euro in più a lei per pagarglieli alimento il mio debito che passa a 116, e il circolo è infinito. Per questo il debito pubblico di ogni paese è inestinguibile” (F.Murerotto) www.signoraggio.com 138 Per raggiungere il “decision point” il Paese HIPC deve aver attuato con successo una serie di misure in campo economico (programmi di stabilizzazione macroeconomica, riforma del settore pubblico, riorientamento della spesa pubblica per progetti nel campo della riduzione della povertà, educazione, sanità e sociale), aver predisposto, con la più ampia consultazione, un Documento di Strategia di Riduzione della Povertà e aver regolato gli arretrati. In questa fase viene calcolato l'ammontare della riduzione debitoria necessaria per portare gli indicatori del debito ai livelli previsti dall'Iniziativa ed il Paese comincia a beneficiare della cancellazione parziale del debito. 139 Per raggiungere il “completion point” il Paese deve aver mantenuto la stabilità macroeconomica, attuato le riforme chiave in campo strutturale e sociale e realizzato con successo per almeno un anno la Strategia di Riduzione della Povertà. Il Paese beneficia quindi della cancellazione debitoria finale e dell'eventuale assistenza aggiuntiva.

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Le strategie valutano la povertà in senso multidimensionale comprendendo varie forme di privazione. Questa concezione, in larga misura ispirata alla riflessione di Armata Sen, va oltre l’aspetto meramente economico (reddito pro capite etc.) includendo la dimensione umana, politica e la sicurezza, le discriminazioni di genere e l’accesso alle risorse ambientali. La novità non sta solo nei contenuti, ma nel diverso approccio. Grazie al coinvolgimento della società civile, del settore privato, delle ONG, la preparazione della strategia contribuisce anche al rafforzamento della società civile stessa e dei processi democratici.

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3. Crescita demografica, causa/effetto del sottosviluppo Un altro argomento da discutere riguardante le cause/effetti del sottosviluppo è il problema demografico. Si possono analizzare diversi punti di vista che siano scientifici o meno e si può vedere come è sempre più difficile applicare teorie, regole, teoremi precisi ad una popolazione che di per sé agisce non sempre in maniere scientifica, razionale ed economica. In questo caso entra in gioco il fattore sociologico che vanifica ogni teoria che di per se potrebbe essere infallibile, per questo è così difficile capire e definire il problema delle nascite. A occhio inesperto può sembrare che una delle cause del sottosviluppo sia la grande quantità di popolazione che non è sostenuta da un corrispondente aumento delle derrate alimentari. Allora si accusano gli stessi africani di fare troppi figli quando poi non li possono accudire. Comunque è importante vedere come diversi punti di vista possano far cambiare il problema demografico da causa ad effetto. Causa del sottosviluppo. Sostenitore di questo concetto è J. Diamond, che nel suo ultimo saggio140 affronta questo argomento. “I tassi di crescita demografica dell’Africa Orientale sono tra i più alti del mondo:recentemente è stato rilevato che in Kenya la popolazione cresce del 4,1% l’anno, il che significa che raddoppia ogni 17 anni.” Secondo Diamond la causa di questo recente boom di nascite è dovuto alle molte innovazioni che hanno migliorato la qualità della vita e abbassato i tassi di mortalità, come l’adozione di colture dell’occidente, nuove tecniche agricole, introduzione di medicinali (sia nel controllo della malaria, che per assicurare i primi anni di vita dei bambini). Le previsioni puntano ad un espansione della popolazione a meno che la crescita non venga arrestata da qualche carestia o guerra. Naturalmente la visione catastrofica è di derivazione maltusiana, secondo cui la crescita della popolazione non verrà supportata dalla corrispondente crescita della produzione alimentare portando quindi a carestie e a tutte le conseguenze intrinseche. Effetto del sottosviluppo. Come controprova di questa teoria troviamo la testimonianza di Giulio Albanese che affronta l’argomento partendo da un avvenimento particolare. “All’inizio degli anni Sessanta nello Stato di New York vi fu un black-out che paralizzò la grande metropoli americana per due, tre giorni. La gente fu costretta a starsene in casa e –ironia della sorte- nove mesi dopo si verificò il cosiddetto baby-boom, che costrinse al ricovero molte mamme gravide in ospedali e cliniche fuori dallo stato per mancanza di letti nei presidi newyorkesi. Ora io dico: se gli americani hanno scatenato il baby-boom per una momentanea carenza di energia elettrica, che dire dell’Africa, dove manca tutto e non solo da tre giorni141?” Se pensiamo all’Italia, si è iniziato a fare meno figli quando le comodità sono aumentate, con il boom economico, per una scelta “condizionata dal benessere”, come effetto e non come causa dell’andamento economico. Indubbiamente questo aneddoto la dice lunga e fa capire che per affrontare il problema non si può avere una visione troppo rigida, è necessario in questo caso considerare più variabili, perlopiù sociali e culturali prima che economiche.

140 J.Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere, Einaudi, Torino 2005 141 G.Albanese,op.cit

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Questo racconto ci fa pensare che è stato l’aumento del benessere e della ricchezza ad aver distolto uomini e donne dal fare figli, troppo impegnati in altri settori della vita, studio, lavoro, affermazione sociale. In questi termini Albanese afferma che la questione demografica è l’effetto del sottosviluppo, prima ancora di esserne la causa. Allora forse è meglio non farne un colpa e iniziare a dare a queste persone “qualcos’altro da fare!” Naturalmente è fondamentale considerare che fare figli in questi paesi, in cui la vita media è ancora molto bassa, significa garantirsi l’assistenza durante la vecchiaia, in un paese in cui il sistema previdenziale e pensionistico scarseggia!

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4. Democrazia, corruzione e diritti dell’uomo 4.1 Ruolo della democrazia Nel 2005 grazie al prezioso contributo dell’Africa, il numero delle democrazie elettorali nel mondo è salito a 122, dalle 119 dell’anno precedente. I tre nuovi paesi iscritti in questa lista sono il Burundi, la Liberia e la Repubblica Centrafricana. E’ quanto si apprende dal rapporto annuale della Freedom Houses, l’organizzazione statunitense di difesa dei diritti dell’uomo, che classifica le forme di governo nazionali sulla base delle libertà civili, politiche e d’informazione. Secondo questa autorevole fonte il 46% della popolazione mondiale gode del rispetto dei diritti civili in 89 paesi considerati “liberi”; quelli invece giudicati “parzialmente liberi” sono 58 mentre i paesi “non liberi” erano 49 nel 2004 e 45 nel 2005. Sebbene il numero dei paesi democratici nel continente sia oggi il più alto della storia, in Africa persistono ancora una grande varietà di regimi non meglio identificabili i quali, in maniera differente tendono a ridurre o ad eliminare del tutto il pluralismo politico, privando i popoli dei diritti e delle libertà fondamentali, gestendo e distribuendo potere politico con l’uso della forza nei confronti di ogni forma di dissidenza. E’ in atto però un dibattito riguardo la possibilità che la democrazia liberale di stampo occidentale sia il modello universale verso cui dovrebbero tendere tutte le nazioni, indipendentemente dalla loro tradizione storico-culturale. Ma siamo sicuri che l’Occidente esporti il miglior modello di democrazia? Illuminante è la posizione dell’economista bengalese, premio Nobel Amartya Sen, ne “La democrazia degli altri”. La tesi è che le obiezioni scettiche sull’opportunità di proporre la democrazia per popoli che, a quanto si afferma, non la conoscono e su ciò che la democrazia può effettivamente realizzare nei paesi più poveri, presuppongono una conoscenza “troppo ristretta” e “limitata” della democrazia, identificandola con le “pubbliche votazioni” o con il “governo della maggioranza”. Una corretta concezione della democrazia, invece per Sen rimanda “all’esercizio della ragione pubblica” e dunque alla “garanzia di un dibattito pubblico libero e di interazioni deliberative nel pensiero e della pratica politica”, alla “salvaguardia della diversità delle dottrine”. Semplificando, la democrazia non è così facile da attuare, esige un impegno costante e non un semplice meccanismo indipendente e isolato da tutto il resto. E’ facile incorrere nel rischio di fornire una nozione di democrazia eccessivamente ampia e flessibile da includere una moltitudine di regimi, ma comunque è importante tenere presente queste considerazioni per rilanciare il dibattito nelle sedi internazionali, elaborando un compromesso inteso in senso stretto dalla sua etimologia cum promettere, cioè promettere insieme un impegno di pace per il futuro atteso e sperato dai popoli. Nei loro proclami a favore della democratizzazione i finanziatori omettono la propria responsabilità nel mantenimento di poteri autoritari in Africa: sostegno dato dalla Francia a regimi corrotti e dittatoriali (Gabon, Camerun, Togo etc.), alleanze degli USA con movimenti e dirigenti che usano l’arma etnica (Nigeria), doppio gioco del Regno Unito che alimenta frustrazioni e ingiustizie. L’ingerenza politica a dispetto dei diritti dell’uomo costituisce purtroppo una realtà dilagante.

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“Si possono democratizzare delle società dominate dell’esterno?” si chiede Atsusè-Kokouvi Agbobli, i governi africani essendo costantemente vincolati al volere esterno, all’approvazione delle grandi potenze, non puntano lo sguardo sulle popolazione e sui loro diritti. La realtà è che la possibilità di promuovere la democrazia in questi paesi è concessa dall’Occidente in base ai propri interessi, nel senso che la democrazia è necessaria se lascia spazio d’azione per la grandi potenze. Solo una volta slegati da queste relazioni le popolazioni africane potranno scegliere un modello di democrazia. 4.2 La corruzione La corruzione è citata spesso dagli osservatori internazionali come una delle cause del sottosviluppo. Così la Banca Mondiale “considera la corruzione ostacolo allo sviluppo economico e sociale (…).Combattere la corruzione è essenziale per realizzare con successo la missione di ridurre la povertà, che la Banca si è prefissata”142. Gli accordi di Cotonou dedicano un capitolo alla lotta alla corruzione e la inseriscono fra le condizioni del mantenimento degli accordi. Viene presentata come un fenomeno tipico dei paesi del Sud, essa ha giustificato sanzioni143 e provocato un nuovo orientamento della politica dei finanziatori a partire dal concetto di “buona governabilità” e della trasparenza. In pratica, la corruzione ha provocato un accrescimento della pressione esercitata sugli stati e ha giustificato gli obiettivi, già fissati, di riduzione dei loro mezzi. Se la corruzione costituisce una realtà innegabile che ostacola la democratizzazione e la lotta contro la miseria, l’analisi di questo fenomeno e le conseguenze che se ne traggono sono molto ideologizzate. La prospettiva adottata attribuisce ancora una volta la parte di maggiore prestigio all’occidente, evitando di affrontare la natura profondamente corruttiva del sistema mondializzato. Alcuni storici hanno dimostrato come le tradizioni comunitarie e tributarie africane spiegavano l’importanza della corruzione attraverso il tipo di rapporti stabiliti tra i capi e i sudditi in certe società per assicurarsi protezione e benessere. La crescita dell’aiuto bilaterale negli anni ‘70 ha aumentato l’importanza di questo assetto. Inoltre è sorto progressivamente un clientelismo internazionale attraverso l’aiuto pubblico allo sviluppo. Infatti secondo questo punto di vista, gli occidentali si assumono una responsabilità quando preferiscono trattare con personaggi come il maresciallo Joseph Mobutu, piuttosto che con Patrice Lumumba, di cui organizzano l’assassinio144.

142 www.worldbank.org/publicsector/anticorrupt 143 Come la sospensione dell’aiuto in Costa d’Avorio nel 1999 144 Mobutu Sese Seko, nome di battaglia del generale Joseph-Désiré Mobutu, uomo politico e presidente dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) dal 1965 al 1997. A diciannove anni si arruolò nell'esercito coloniale belga; nel 1958 si avvicinò al movimento nazionalista di Patrice Lumumba e partecipò agli incontri di Bruxelles che sancirono l'indipendenza del paese, allora denominato Congo Belga. Segretario di stato nel governo di Lumumba, fu nominato capo di stato maggiore nel 1960. Nello stesso anno, per porre fine agli scontri interni e al tentativo di secessione della provincia del Katanga, assunse i pieni poteri e ordinò l'arresto e, in seguito, l'assassinio di Lumumba. Tre mesi dopo la situazione tornò alla normalità, ma il nuovo presidente, Joseph Kasavubu, si dimostrò politicamente debole: nel novembre del 1965 Mobutu organizzò un secondo colpo di stato e si insediò alla presidenza del paese, istituendo un governo autoritario con un partito unico al potere. Tutto ciò con l’appoggio occidentale di Usa e Francia.

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Con questo non si vuole cancellare la responsabilità dei capi di stato africani ma si vuole sottolineare la perversità della logica economica occidentale. La liberalizzazione degli anni ‘80 e ‘90 ha favorito questo fenomeno sopprimendo i controlli ai movimenti di capitali. Come viene evidenziato nel Vertice per un altro mondo, organizzato parallelamente al vertice del G8 nel 2003 “.. si mette l’accento soprattutto sulle responsabilità del Sud, mentre non si accenna affatto ai paradisi fiscali”. Ciò che voglio spiegare in questa parte è che la corruzione non è una peculiarità dell’Africa. La corruzione è presente in tutte le relazioni di potere, e certi meccanismi di commercio internazionale favoriscono questo tipo di pratiche. 4.3 Fuori dal coro: Thomas Sankara e il “Paese degli uomini integri” Perché parlare di Thomas Sankara? Basta leggere la sua storia e le sue vicende e non si può fare a meno di citarlo. In questo caso ho preferito dedicare un piccolo paragrafo per dimostrare che anche in una situazione così tragica ci sono personaggi che possono ancora far sperare in un cambiamento. Purtroppo però è chiaro che un solo uomo non può fare grandi cose ma sicuramente può essere ricordato. Questa storia deve servire come esempio I 4 anni di governo di Thomas Sankara nel Burkina Faso, restano una sorta di indelebile paradigma nella storia della politica intesa come “bene comune”. Attuò profonde e radicali riforme dalla centralizzazione dell’amministrazione, all’abolizione di balzelli feudali, alla riforma agraria, alla promozione del ruolo della donna e ai forti investimenti per le infrastrutture. Riuscì in poco tempo a portare una maggiore giustizia sociale e un autosufficienza alimentare nazionale. Importante fu il suo rifiuto a firmare i piani di aggiustamento strutturale che il Fondo Monetario voleva imporgli, affermando chiaramente che le politiche dei paesi industrializzati miravano a perseguire un controllo politico sui poveri, rifiutava molti degli interventi dei paesi donatori se non erano finalizzati al bene del popolo. Un esempio importante fu il rifiuto del finanziamento della Banca Mondiale che voleva finanziare la costruzione di un autostrada che collegasse la capitale col il Nord del paese, ricco di manganese. Ma sapendo che la sua gente non si sarebbe potuta permettere l’acquisto di una”giardinetta”, volle realizzare una ferrovia con l’aiuto di volontari senza ricevere niente dai cosiddetti benefattori mondiali. Senza indugio mise al bando ogni privilegio per la classe dirigente burkinabè, era contrario a tutte le elitè borghesi africane che imponevano un feudalesimo fatto di corruzione, stigmatizzando ogni forma di arricchimento indebito, ordinò l’utilizzo delle economiche Renault 5 piuttosto che delle Mercedes come auto-blu ministeriale. Convinse i suoi ministri a volare in classe economica e ad alloggiare in alberghi a massimo tre stelle, in completa controtendenza rispetto a ciò che avveniva in tutti i palazzi del potere del mondo. Insomma giurò guerra alle spese inutili che dilapidavano le già scarse finanze dello stato. Famoso rimase il suo intervento alle Nazioni Unite “ il mio paese è un concentrato di tutte le disgrazie dei popoli, una sintesi dolorosa di tutte le sofferenze dell’umanità (…) e chiedo uno sforzo perché abbia fine l’arroganza di chi ha torto, svanisca il triste spettacolo dei bambini che muoiono di fame, vinca la legittima rivolta del popolo e tacciano finalmente i tuoni di guerra!”

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Non si stancava di ripetere che l’Africa chiedeva giustizia non beneficenza, invocava nuove regole per il commercio internazionale, ritenendo la questione del debito uno dei più grandi crimini contro le popolazioni immiserite dell’Africa. Pagò a caro prezzo il suo successo, venne assassinato il 15 Ottobre 1987 a trentasette anni, durante un golpe che portò al potere il suo amico ed ex compagno di lotta Blaise Compaorè, attuale capo di Stato del Burkina Faso, con la benedizione francese145. I poveri non si rivoltarono in massa contro gli autori del suo assassino, a dimostrazione del fatto che la base rurale, i contadini, le donne non erano ancora socializzati alla politica. Si può dire che di Sankara colpisce la sua visione incentrata sull’azzardo dell’utopia, “Per ottenere un cambiamento radicale” diceva “bisogna avere il coraggio di inventare l’avvenire. Tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è per la l’uomo realizzabile. Di questo sono convinto!” E’ proprio questo il problema dell’Africa, questo continente ha bisogno di leader illuminati capaci d’essere decisamente schierati da parte della loro gente, proprio come Sankara ,un “incidente felice della storia146”.

145 L’esempio del Burkina Faso galvanizzò tutte le vicine nazioni dell’Africa Occidentale ma irritò i grandi poteri occidentali. 146 Definizione di Sennen Andriamirado.

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5. E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?

A partire dalla fine degli anni Ottanta, intellettuali africani si pongono abitualmente domande sull’avvenire del loro continente, su come potrà migliorare la situazione, e soprattutto sul perché permanga questa situazione di miseria. La motivazione al mancato sviluppo che presenterò in questa parte è molto particolare, poco trattata o considerata quasi un tabù della nostra civiltà, e soprattutto da molti africani. Parte da una concezione diversa, un punto di vista che mette in luce il comportamento dei diretti interessati, gli africani. Axelle Kabou punta il dito, accusa l’Africa e i suoi abitanti per il mancato o ritardato sviluppo. Esordisce affermando che la volontà africana di sviluppo fa parte delle credenze venerabili che quasi non osiamo scalfire147 per paura di commettere un sacrilegio. Ciò che intende dire è che nessuno di noi ha il coraggio di puntare il dito contro chi muore di fame, di malattia, contro l’immagine in un manifesto di un bambino che con dei grandi occhioni e circondato di mosche invoca pietà. Di fronte a uno scenario del genere nessuno riuscirebbe a criticare queste persone. Però secondo l’autrice e in parte ne condivido le motivazioni, è necessario comprendere perché dopo tutti gli sforzi internazionali non si riesce a sfuggire dalla condizione di estrema miseria. Tutto ciò non vuole essere una lode al cosiddetto mondo industrializzato, occidentale che naviga nei lussi, ma vuole essere un monito, una provocazione che possa illuminare qualche mente. “La comunità internazionale si comporta, da trent’anni a questa parte come se la volontà di sviluppo fosse scontata148”. Ma è davvero così scontata? Il mito della volontà africana a svilupparsi, continua la Kabou sembra assolvere a tre funzioni essenziali: assolvere anticipatamente le classi politiche da ogni sospetto d’incompetenza, spostando l’attenzione verso l’interminabile complotto internazionale che più dura e più giustifica la loro permanenza al potere; ammassare gli africani in partiti unici che si presume possano incanalare efficacemente le energie verso obiettivi di sviluppo evanescenti; ingrassare una moltitudine di esperti perpetuamente impegnati in missioni e ricerche la cui inutilità è fuori discussione. In altre parole, meno l’Africa si svilupperà, più si rafforzerà il mito del suo desiderio di progresso. Naturalmente l’Africa non griderà mai ai quattro venti di non volersi sviluppare, immaginiamo cosa accadrebbe,tutta una parte delle relazioni internazionali crollerebbe. Anzi possiamo attribuire una colpa al ruolo dei mass media nella definizione della percezione che gli africani hanno di se stessi, totalmente incapaci di influire nel corso della loro vita, l’Africa pensa di non essere assolutamente responsabile della propria sorte ma che dipenda solamente dal teatrino internazionale che sposta le sue pedine come meglio pensa. Questo occultamento di responsabilità degli africani, di fronte al loro destino porta ad un’inerzia costante che ostacola il progresso. Ciò che manca è una nuova mentalità e organizzazione, “quand’anche l’Africa disponesse oggi di miliardi di dollari, lo sviluppo non inizierebbe ugualmente, poiché in questo continente non è stato fatto nulla, dalle dipendenze in poi, per favorire l’emergere di una visione nuova di sé e del mondo esterno”. Secondo l’autrice non si può fare a meno di essere colpiti dall’accanimento con cui gli africani rifiutano il metodo, l’organizzazione, sprecano le loro magre risorse, sabotano

147 A.Kabou,op.cit. 148 A.Kabou,op.cit

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tutto ciò che potrebbe funzionare.149 Detestano la coerenza, la trasparenza, il rigore. Nel caso poi di un emergenza, risulta che niente è stato predisposto per l’eventualità e non resta che la speranza di un intervento straniero, considerato come cosa dovuta. Dopo trent’anni spesi a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni africane, la cosa più sorprendente è vedere che non vi è un solo caso in tutto il continente in cui venga applicata una strategia di sviluppo che coinvolga la popolazione con dei risultati duraturi150 E’ sufficiente un soggiorno di una settimana in Africa perchè anche l’occhio meno esperto colga senza difficoltà i segni del rifiuto dello sviluppo, ma affermare una cosa del genere porta ad una valanga di critiche e proteste che mettono a tacere questo punto di vista. In effetti è come se esistesse una specie di prescrizione tacita che vieta formalmente di collegare la situazione africana con il comportamento degli africani . E ciò è dimostrato dal fatto che la maggior parte degli studi internazionali fin’ora pubblicati sulla difficile situazione dell’Africa sono basati sul tema degli “effetti perniciosi della congiuntura mondiale”. La Kabou, e mi unisco al suo pensiero, afferma che il problema è molto più a livello locale che mondiale. Il sottosviluppo dell’Africa non è dovuto alla sola mancanza di capitali, infatti nonostante le sue ricchezze considerevoli occorre domandarsi cosa succede a livello microeconomico, cioè nella testa degli africani, accantonando per una volta gli indicatori statistici come PIL, PNL e quant’altro. Le mentalità africane non figurano mai nelle lunga lista delle cause ufficiali del sottosviluppo ed invece dovrebbero essere considerate come fattori fondamentali del sottosviluppo. Non che l’africano sia sottosviluppato in sé, ma che non ha intenzione, motivazione di cambiare la realtà delle cose. Non si può nemmeno semplificare eccessivamente affibbiando la ricchezza al Nord del mondo e le povertà al Sud. In fondo come dice la Kabou, alcuni “ricchi” dei paesi poveri sono “più ricchi di certi ricchi dei paesi ricchi”, allora c’è da chiedersi, come usano questo denaro? Ormai di tutto si è detto sulle possibili cause del ritardo nello sviluppo africano, dal cannibalismo al trialismi, passando per l’imperialismo, il colonialismo, il neocolonialismo, la corruzione, la siccità, le cavallette, la massa celebrale dell’uomo nero e quant’altro. Però è da notare anche che analisi africane sistematiche sulle cause interne del proprio sottosviluppo sono pressoché inesistenti, sembra che dalla parte africana ci sia poca voglia di autocritica e di svolgere analisi centrate, a differenza degli autori non africani che hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro sul tema del sottosviluppo. Secondo la Kabou si è spesso rimproverato ai modelli di sviluppo proposti all’Africa di presupporre dei modelli di consumo pericolosi per lo spirito africano e per le risorse del pianeta, di essere portatori di ideologie discutibili. Ma questo è un problema secondario, importante è invece è la tendenza ad “alleggerire sistematicamente l’africano del suo spessore psicologico. Sostituendolo con un uomo teorico e fantastico, quindi perfettamente inattivo151” . Questo è quello che l’africano pensa di sé.

149 Basti pensare, per esempio, che quando la Costa d’Avorio si dibatteva in enormi problemi economici, il presidente in quel paese avviava la costruzione di una basilica il cui costo sarebbe bastato per molto tempo a soddisfare i bisogni primari degli Ivoriani. Vi è evidentemente un problema di definizione delle priorità in Africa. Così come si pensi ai miliardi spesi dal Gabon per ospitare un vertice dell’OUA 150 A.Kabou, op.cit. 151 A.Kabou, op.cit

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5.1 Una questione d’onore Le teorie del sottosviluppo applicate all’Africa hanno il grande inconveniente di rivolgersi a soggetti dalla grande sensibilità, che si rivela essere decisiva, in positivo o in negativo, nei progetti di sviluppo. Espressioni come “paesi sottosviluppati”, “industrialmente arretrati”, “in via di sviluppo” vengono avvertite come delle accuse poco velate d’inferiorità culturale e tecnologica. E ciò è alla base dei discorsi dei padri fondatori dell’Organizzazione dell’Unità Africana. Inoltre oggi gli Africani, secondo la Kabou, sono convinti, a causa della discriminazione razziale, di essere dominati a causa del colore della loro pelle. Le classificazioni dell’ONU sulle cause del sottosviluppo pongono maggiormente un problema alle menti africane perché comprendono indicatori tipici delle “società inferiori”. Come conseguenza si ha che le campagne di alfabetizzazione condotte in Africa producono pochi risultati pratici perché l’analfabetismo ricorda la nozione valorizzante di “popolo senza scrittura”, la scienza e la tecnologia sono tenute a distanza perché ricordano la loro condizione di inferiorità. Il problema sta nel fatto che l’africano si trova sempre davanti a soluzioni inventate ad hoc dagli occidentali, e questo per la sensibilità e l’orgoglio è difficile da accettare. Ma come denuncia la Kabou è anche una tenda dietro cui è molto facile nascondersi. Questo senso di umiliazione viene avvertito ogni qualvolta si parla di sviluppo, tutto sembra dimostrare che l’Africa preferisce trovare soluzioni endogene ai suoi problemi piuttosto che adottare idee occidentali. Una vera e propria questione d’onore. Una dimostrazione? Quando nel maggio 1963 N’Krumah, buon cantore del pan-africanismo, ad Addis Abeba, difende il suo progetto unitario di fronte ad una platea di leaders politici venuti a gettare le basi per l’unità africana, nessuno fu pronto a seguirlo: propone proprio l’idea secondo cui l’Africano, naturalmente associato alle tecnologie primitive si contrappone immutabilmente all’Europeo, geneticamente legato al progresso. Colpisce in pieno quella che l’Africa considera la propria “dignità storica”, parlando come un civilizzatore bianco e ha la sfacciataggine di riconoscere che l’Africa è arretrata e lo dice senza problemi. Con rammarico la Kabou riafferma tutto ciò e conferma che trent’anni dopo il fallimento di N’Krumah, vi sono ancora degli Africani “diplomati fino ai denti, che hanno l’impressione sgradevole di fare una concessione pericolosa ai discendenti dei colonizzatori riconoscendo che il loro continente è sottosviluppato”. Ammissioni del genere si fa fatica a farle, magari si pensano ma non si dicono per non dare ragione ai neocolonialisti. Per la Kabou il vero militante della causa africana “ha la responsabilità di presentare al mondo il volto autentico dell’Africa e di correggere i pregiudizi e gli errori dei quali i suoi popoli sono vittime”. La delusione è evidente anche nelle dichiarazioni di M.Amadou Mahtar Mbow152 secondo cui in molti paesi africani non vi è più entusiasmo creativo. “Si ha l’impressione che il nostro destino ci sfugga sempre più (…) è come se le nostre società fossero bloccate e le loro sorti dipendessero unicamente da interventi esterni di carattere economico o finanziario. Ma un paese non può costruire il proprio avvenire su basi del genere.”153 Particolare, se non paradossale in questo senso l’atteggiamento dei leaders africani che, pur denunciando l’imperialismo e il neocolonialismo, “sembravano adattarsi benissimo

152 Senegalese, direttore generale dell’UNESCO 1974-1987 153 Intervsta in Sud-Hebado, n°91, 8 febbraio 1990, p.10

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a situazioni pregiudizievoli per i loro paesi”. Partecipano a conferenze e stringono accordi senza battere ciglio. Oggi l’Africa dovrebbe avviare delle strategie di sviluppo attive per eliminare e risolvere i suoi problemi alimentari e sanitari, ma se non riescono a farlo da soli devono adattarsi ai modelli elaborati da altri. “Questo non significa che gli Africani debbano rinunciare ai loro valori di civiltà. Dovrebbero, al contrario, compilare un elenco di tutti quelli che potrebbero favorire una solida base ai progetti di sviluppo coerenti e rifiutare con fermezza i valori oggettivamente dannosi al progresso. Senza che questi sforzi siano avvertiti come ammissioni di impotenza, debolezza e inferiorità culturale e razziale”. Infine un ultima osservazione riguardo a questa volontà di svilupparsi. Fino ad ora nessun paese africano ha elaborato una politica linguistica che consenta davvero di comprendere e integrare i concetti scientifici utilizzati a livello globale, in lingue africane. “Ciò che si è fatto invece è scrivere e organizzare manifestazioni contro il neocolonialismo culturale della Francia alla vigilia di ogni conferenza in lingua francese; mai però che gruppi di pressione tentino di strappare ai governi i mezzi necessari per arricchire il lessico scientifico delle lingue africane154” . Sembrerà un aspetto irrilevante, ma da ragione all’autrice sulla poca volontà di sviluppo.

154 A.Kabou, p.58 e ss

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6. Conclusione

“La mano che riceve sta sempre sotto quella che dà”

Proverbio africano

Quali somme si possono tirare da questi cinquant’anni di cooperazione? Penso sia impossibile dare una conclusione definitiva che possa classificare la politica di aiuto allo sviluppo, italiana, spagnola, mondiale. Però critiche se ne possono sempre fare,e sono sicura non mancheranno mai. La trasformazione della cooperazione in aiuti umanitari e lo spettacolo attuale di una confusione sistematica tra aiuti e interventi militari non costituiscono affatto un evento accidentale e transitorio, ma, al contrario rappresentano la prassi più seguita di un progetto dai vaghi sentimenti colonizzatori. Gli obiettivi della lotta alla povertà non solo non sono stati raggiunti, ma sembrano sempre più lontani e inverosimili. Addirittura negli ultimi decenni, secondo i dati dell’UNDP si è registrato un aumento degli indici di povertà in 37 dei 67 paesi di cui si disponeva di dati. Allora ci si deve chiedere come si può spiegare la diffusione della miseria e di condizioni di esistenza sempre più drammatiche, proprio nei decenni in cui si sono registrati i maggiori tassi di produzione, di consumo, di crescita? Il mondo non è mai stato così ricco, eppure sono milioni le persone che continuano a morire di stenti. Probabilmente le condizioni di miseria in cui vive una gran parte della popolazione mondiale, non sono il risultato di una condizione di sottosviluppo, ma il risultato stesso delle strategie di sviluppo. Le politiche di sviluppo hanno concretamente determinato la distruzione sistematica delle forme di povertà conviviale praticate dalle comunità locali, svalutando e soppiantando le forme di produzione per la sussistenza e quelle di scambio locale, per imporre l’imperativo della crescita, creando una maggiore dipendenza individuale e sociale dalla produzione, dal reddito monetario e dal consumo in una competizione tra tutti contro tutti, che porta all’arricchimento di pochi a discapito di tanti altri. Come ha mostrato Majid Rahnema155, lo sviluppo non ha rappresentato l’uscita da un stato di povertà, ma piuttosto una modernizzazione della povertà, la trasformazione della povertà in una condizione di miseria ben più drammatica. Infatti la mancanza di soldi in una società nella quale il denaro rappresenta la principale, se non l’unica possibilità per accedere ai beni o servizi, o per lavorare, porta ad una condizione di emarginazione ben più grave di una condizione di povertà in una società tradizionale. “Non è aumentando la produzione di beni che si metterà fine alla fame, poiché sono proprio questi processi che producono sistematicamente la miseria”. Le politiche e l’economia dello sviluppo hanno fatto crescere insieme la ricchezza e la miseria. Hanno determinato contemporaneamente una condizione di abbondanza e di spreco da un lato, e di dipendenza e deprivazione dall’altro. In effetti, man mano che si afferma l’economicizzazione della società non è più l’economia a dover corrispondere

155 Majid Rahnema, Fondatore dell'Istituto per lo Sviluppo Locale, già Ministro della Cultura dell'Iran e Ambasciatore del paese all'ONU, attacca i potenti che "mascherano la povertà falsificando gli indicatori, perché considerano poveri solo le persone che vivono con meno di un dollaro al giorno. Nei paesi industrializzati si può essere poveri anche con 10 dollari al giorno. 2/3 dell'umanità vivono in realtà in condizioni di povertà. Tutto questo nonostante la produzione alimentare mondiale sia sufficiente per 9 miliardi di persone

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ai bisogni delle persone, ma piuttosto questi ultimi a dover corrispondere ai bisogni dell’economia di mercato. La miseria, nella forma in cui si presenta oggi, non è il residuo di epoche passate, ma, al contrario un prodotto della modernità e dell’economicizzazione del mondo.156 Il giudizio di arretratezza che abbiamo imposto agli altri unito alla mentalità che ci porta a guardarci come rappresentanti di una civiltà più evoluta, ci spinge a credere che gli altri popoli debbano in fondo imitarci per diventare come noi e accedere al nostro mondo di benessere. L’idea dell’aiuto, del dono, dunque non è altro che lo strumento attraverso cui il cooperante occidentale pensa si possa colmare questo gap “temporale” tra noi e gli altri, cercando di renderli più simili a noi. Quale cooperazione? Ciò che è difficile capire, che è all’origine dei loro problemi, è che le persone di questi paesi non sono state semplicemente private dei beni materiali e di prima necessità ma soprattutto di quel “mondo sociale”157 tradizionale, fatto di legami, di solidarietà, di appartenenze, di equilibri socio-ecologici, che permetteva di autodeterminare da se la produzione, lo scambio e le condivisioni. Ma proprio perché il sistema degli aiuti affligge un duro colpo a queste forme di autodeterminazione, si può capire come diventa difficile per queste società reagire. E’ necessario allora rovesciare radicalmente le premesse dell’immaginario economico che ha attraversato tutta la modernità e capire che, se si vuole colmare questo gap bisogna lottare non contro la povertà ma contro la crescita illimitata e la continua ricerca della ricchezza. Quali sono le opzioni? Visto che il suggerimento di Latouche della decrescita158 è in realtà impraticabile, ci si chiede e me lo chiedo anch’io, ha ancora senso la cooperazione allo sviluppo? Secondo Marco Deriu un’altra cooperazione è possibile solo se si prendono le distanze da due ideologie: quella dello sviluppo e degli aiuti. Da un lato si deve abbandonare il paradigma dello sviluppo, uscendo dall’immaginario economico basato sulla crescita, sull’aumento della produzione, dei profitti, dei consumi e della ricerca della migliore performance tecnologica. Da un altro, si deve abbandonare la filosofia degli aiuti come pratica politico-economica generalizzata. Questa infatti non è altro che ultimo retaggio della cultura e dell’immaginario coloniale. Si tratta dunque di inventare pratiche che favoriscano l’incontro e lo scambio di persone, di esperienze e di visioni del mondo che possono permettere una contaminazione, un cambiamento e una maturazione reciproca tra noi e gli altri. In quest’ottica, fare cooperazione significa riconoscere soggettività ai partner locali e soprattutto mettersi alla pari anche se è difficile perché a causa della disponibilità di mezzi il cooperante, agli occhi dei suoi interlocutori locali è visto come un bancomat ambulante o un distributore automatico di beni159. La relazione corre il rischio di giocarsi unilateralmente sull’avere e sul ricevere. Proprio in tempi in cui le risorse destinate alla cooperazione sono in calo, gli attori più vicini, le ONG dovrebbero giocarsi un’altra carta: quella della relazione, del valore aggiunto di una presenza che gioca a 360° per valorizzare lo scambio culturale, dove le

156 Marco Deriu, Cooperazione: L’altra faccia della colonizzazione,da La cooperazione dai bisogni ai diritti , EMI 157M.Deriu op. citata 158 “La società della crescita non è sostenibile né auspicabile (…) non solo per motivi ecologici, ma perché incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie; perché dispensa un benessere largamente illusorio, e perché non offre un tipo di vita conviviale neppure ai benestanti, perché è un antisocietà malata della propria ricchezza. E’ quindi urgente pensare a una società della decrescita.” Latouche in Bottazzi, 2007. 159 Jean Leonard Touadi, Non tutto si misura in dollari da “La cooperazione dai bisogni ai diritti” Melandri,EMI

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cose scambiate sfuggono alla mera considerazione quantitativa per accentuare la valenze qualitative. Allora cooperare diventa aiutare i territori e le comunità a riscoprire le risorse endogene, la fiducia in se stessi, la prospettiva di poter riprendere in mano il proprio destino, e perché ciò succeda l’unica cosa che bisogna fare è ascoltare e comprendere senza giudizi e pregiudizi. In questo senso è importante la proposta di permettere ai partner locali di partecipare direttamente ai bandi di finanziamento, riconoscendo alle organizzazioni del Sud il ruolo di veri e propri “agenti di sviluppo” . Questo fa si che le che le organizzazioni del Nord e del Sud creino un laboratorio unico di formazione reciproca, acquisendo le esperienze necessarie alla costruzione di relazioni autentiche di aiuto reciproco. Non si tratta solo di rispettare le culture locali ma di creare le condizioni perché siano le comunità stesse del Sud a gestire il proprio processo di sviluppo160. Il rilancio della cooperazione, oltre a collocarsi nel quadro delle linee della collaborazione internazionale dovrà anche dare seguito all’indicazione data dalla Conferenza di Monterrey sulla addizionalità della cancellazione del debito dei paesi impoveriti rispetto ai finanziamenti destinati alla cooperazione allo sviluppo. E’ necessario tornare a una politica della cooperazione, che negli ultimi anni è stata fortemente penalizzata, all’altezza degli impegni assunti in ambito internazionale e in grado di promuovere politiche ed iniziative coerenti che vedano tutti i paesi impegnati a reimpostare le basi dei rapporti di collaborazione e sostegno con i paesi impoveriti accompagnandola con le altre iniziative possibili in campo economico e commerciale che rendano più compositi, strategici ed efficaci gli interventi di politica estera.

160 Cristiano Colombi, Solidarietà oltre la competizione, da “ La cooperazione dai bisogni ai diritti” Melandri,EMI

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Ai miei genitori, sempre presenti Alla mia famiglia Al mio amore Alle mie amiche sempre pronte ad ascoltarmi Ai miei colleghi che hanno condiviso le mie stesse preoccupazioni Al professor Bottazzi per la pazienza e per aver passato i sabati liberi a leggere la tesi A tutti i professori All’Ersu per l’opportunità che mi ha dato di viaggiare All’Erasmus e in particolare a Bucarest Al Ministero di Grazia e Giustizia Al personale della DGCS del Ministero degli Esteri per la disponibilità ed in particolare alla Dott.sa Laura Bottà Ai ragazzi del FOCSIV, del CIPSI, e a Manuela dell’AOI Un grazie a tutti perché grazie a voi ho potuto raggiungere questo traguardo