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C m p s z n Copyright © 2006 by Riccardo Piacentini Conservatorio di Musica “Antonio Vivaldi” di Alessandria Diploma accademico sperimentale di II livello in Discipline musicali Indirizzo compositivo Anni accademici 2004/6 Corso biennale di specializzazione in Docente: Riccardo Piacentini Sintesi per la parte teorica dei moduli II e IV di “Tecniche di composizione”

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    Conservatorio di Musica “Antonio Vivaldi” di AlessandriaDiploma accademico sperimentale di II livello in Discipline musicali

    Indirizzo compositivo

    Anni accademici 2004/6

    Corso biennale di specializzazione in

    Docente: Riccardo Piacentini

    Sintesi per la parte teorica dei moduli II e IV

    di “Tecniche di composizione”

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    Indici1 - Dalle avanguardie storiche ai contemporanei 4

    a) Storicizzare 4

    b) Le avanguardie storiche e il concetto di creatività 5

    c) Estetica e poetica 9

    d) Contestualizzare 11

    2 - La scrittura vocale e le sonorizzazioni d’ambiente 16a) La voce come archetipo 16

    b) I manuali del belcanto 18

    c) “Extended techniques” 23

    d) Contesto e applicazione 26

    e) La voce “applicata” 28

    f) “Foto-musica con foto-suoni”® 33

    Indice delle figurefigg. 1, 2, 3 • Paul Klee, Strumento per la musica contemporanea (1914), Polifonia (1932), Scontro armonizzato (1937)figg. 4, 5 • Douglas Hofstadter, diverse tipologie della lettera a ed esempi di “grigliabeti” (da Concetti fluidi e analogie creative, tr. it. Milano 1996)fig. 6 • Luigi Nono, pagina manoscritta da La fabbrica illuminata (1964)fig. 7 • Lamberto Pienotti, Decomposizione (1976) fig. 8 • Cathy Berberian, pagina da Stripsody (1966)figg. 9, 10 • Posizioni foniatriche corrette (da Alfred Tomatis, L’orecchio e la voce, tr. it. Milano 1993)fig. 11 • Arnold Schönberg, pagina da Pierrot lunaire (1911)figg. 12, 13 • John Cage, due pagine manoscritte da A flower (1950)fig. 14 • Luciano Berio, pagina da Sequenza III (1966)

    fig. 15 • Cicli del paesaggio sonoro della costa occidentale della Columbia britannica (da Raymond Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, tr. it. Milano 1985)

    fig. 16 • Giacomo Manzoni, pagina da Du Dunkelheit (1998)fig. 17 • Pierre Boulez, pagina da Improvisation sur Mallarmé II (1958)

    fig. 18 • Giorgio Federico Ghedini, pagina dal manoscritto inedito del quinto dei Quattro canti su antichi testi napoletani (1925)

    fig. 19 • Sylvano Bussotti, Lacrymae (19..) fig. 20 • Ennio Morricone, pagina manoscritta aggiunta nel 2001 a Epitaffi sparsi (1992/93)

    figg. 21-26 • Frontespizi dei booklet dei CD di “foto-musica con foto-suoni”® (1999/2004)

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    Molti dei materiali che seguono sono stati raccolti grazie

    alla collaborazione di Tiziana Scandaletti, cui si devono

    diverse informazioni riguardanti gli aspetti vocali e, non

    ultimo, l’aver messo a disposizione alcune delle partiture

    del suo archivio (tra queste il manoscritto inedito di Gior-

    gio Federico Ghedini di cui è riportato un frammento alla

    fig. 16 così come altri estratti le cui copie a stampa non

    sono di immediato reperimento).

    Tutto il contenuto di questa Sintesi, incluse le immagini e i

    testi citati, è stato redatto per fini esclusivamente didattici,

    contestuali ai moduli del Corso biennale di specializza-

    zione in Composizione tenuti dal sottoscritto negli a. a.

    2004/06 per il Conservatorio Vivaldi di Alessandria.

    La Sintesi è organizzata in modo da essere consultata

    sia nella versione cartacea sia su computer (PC o Mac)

    tramite link interattivi opportunamente predisposti nel

    documento.

    Riccardo Piacentini (settembre 2006)

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    Dalle avanguardie storiche ai contemporaneiDalle avanguardie storiche ai contemporanei

    Storicizzare

    Le avanguardie e il concetto di creatività

    Estetica e poetica

    Contestualizzare

    Storicizzare

    Le avanguardie e il concetto di creatività

    Estetica e poetica

    Contestualizzare

    • Attitudine psicologica• Informazione preventiva• Pluralità di storie

    • Il caso delle arti figurative • I casi della musica • Arte e creatività, un’identità? (Cor Blok) • Le “analogie creative” di Douglas Hofstadter

    • Etimologia dei due termini• Nascita della “estetica”• Saggi di simbolica e arte (Ananda Coomaraswamy)

    • Conquista dell’abbondanza (Paul Feyerabend)• Moderno e post-moderno

    a) Storicizzare

    Presupposto fondamentale al nostro corso è la volontà e capacità di storicizzare, ossia di consi-

    derare gli eventi come parte integrante di un processo storico il cui flusso è, o quanto meno si presume

    essere, culturalmente acquisito e rilevante.

    Tale volontà in atto non si improvvisa né nasce spontaneamente, richiedendo in primo luogo una

    corretta attitudine psicologica e, in secondo luogo, una informazione preventiva che sia la più ampia possibile e senza pregiudizi.

    Certo il processo storico può essere soggetto a letture plurime, e in più casi divergenti, ciò che

    legittima l’esistenza di una pluralità di storie, anziché di una soltanto che finirebbe con l’acquisire tratti dogmatici ed emarginanti. Ma qualche storia ha più successo di altre e perciò diventa convenzio-

    nalmente paradigmatica; in tal senso una o più storie possono radicarsi in modo più profondo all’interno

    di una cultura e, indipendentemente da quello che si suppone essere il loro intrinseco valore, possono

    essere più vincolanti di altre nella nostra decifrazione degli eventi.

    1 - Dalle avanguardie storiche ai contemporanei

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    b) Le avanguardie storiche e il concetto di creatività

    Le avanguardie storiche e il concetto di creatività, termini di acquisizione relativamente tarda, non

    sfuggono a questo principio. Delle avanguardie storiche del primo dopoguerra alcune si sono “salvate”,

    altre non sono riuscite a imporsi e a diventare storia. E’ alle prime che ci rivolgeremo, lasciando da

    parte le seconde. Analogo discorso per le avanguardie del secondo dopoguerra, delle quali, a quaranta-

    cinquanta anni dal loro exploit, gli studiosi hanno ormai disegnato con chiarezza i tratti caratterizzanti,

    tale che si può parlare di avvenuta storicizzazione, da valutare con il conseguente distacco.

    Il caso delle arti figurative è stato più precoce dei casi della musica. Singolare e plu-rale non sono casuali. Da un lato il caso delle arti

    figurative, inclusa la fotografia, attesta che queste

    hanno da sempre preceduto le arti della musica,

    eccetto rarissimi casi. Le tendenze figurative, in

    altre parole, hanno giocato di anticipo rispetto

    alle corrispondenti tendenze musicali, come

    dimostrano “impressionismo”, “espressionismo”,

    “neoclassicismo”, “astrattismo”, “funzionalismo”

    e lo stesso “post-modernismo” etc. D’altro canto

    le arti figurative, particolarmente nel Novecento,

    hanno rappresentato, pur nelle disparate coniugazioni, un complesso tale per cui la loro forza d’impatto

    è penetrata a fondo nel nostro tessuto culturale e sociale investendo la stessa quotidianità (in molti

    locali pubblici ci sono opere d’arte figurativa contemporanea mescolate a oggetti da ufficio o a tavoli

    di ristorante...), mentre la musica sembra essersi “dispersa” in posizioni poetiche frammentate, spesso

    tra loro antagoniste, che ne hanno minato l’efficacia di impatto, senza contare la proliferazione dei

    generi cui negli ultimi decenni assistiamo. Il risultato è che, mentre la nostra esistenza quotidiana è

    di fatto abitata dall’arte figurativa contemporanea (non importa se in modo consapevole né se venga

    effettivamente compresa), lo stesso non può dirsi per la musica “contemporanea”.

    Arte e creatività, un’identità? (Cor Blok) è il titolo di un interessante saggio che indaga le origini di questo binomio apparentemente inscindibile, scoprendo che in realtà si tratta di un binomio

    escogitato soltanto nei primi decenni del Novecento, quando per la prima volta i due termini “arte” e

    “creatività” furono associati per affermare che l’arte senza creatività non poteva esistere. E’ sintoma-

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    tico che in passato la questione non venisse neppure posta e, per quanto possa apparire oggi strano, la

    creatività non era condizione indispensabile per il buon esito della realizzazione artistica. Certamente

    non si trattava di una problematica degna di considerazione. Al suo posto venivano privilegiati criteri

    di funzionalità e adeguatezza rispetto al contesto per il quale l’opera d’arte veniva concepita; in altri

    termini l’opera d’arte doveva fare uso corretto e appropriato della “retorica” (nel senso di “poetica”) del

    suo tempo, alla quale il compositore era chiamato a rispondere senza improbabili capricci creativi e

    mirando dritto agli scopi per cui era pagato. Neanche la nascita dell’estetica all’inizio del Settecento

    modificò, almeno per diversi decenni, questa necessità cui non poteva esimersi nessuna realizzazione

    artistica e nessun compositore. Nel corso dell’Ottocento sarà il concetto di “genio” unito all’adegua-

    mento dell’artista alla nuova figura dell’intellettuale a spianare la strada verso l’identità di cui parla

    Cor Blok.

    Per una ulteriore indagine sul termine “avanguardia” si consulti la voce corrispondente sul Dizionario En-ciclopedico Universale della Musica UTET, mentre per il termine “creatività” e le sue ingerenze nel settore artistico si veda Cor Blok, Arte e creatività, un’identità?, in: Paul Feyerabend e Christian Thomas (a cura di), Kunst und Wissenschaft, Verlag der Fachvereine an den Schweizerischen Hochschulen und Techniken, Zurich, 1984 (tr. it. Arte e Scienza, Armando Editore, Roma, 1989).

    LETTURA (da Arte e Scienza, pagg. 117 e segg.). «Nel Lessico di cultura generale di Mayer, un lessico di conversazione del 1878, col termine Kunst (arte) – che si fa derivare da Können (potere) – s’in-tende “in generale ogni abilità (per esempio: arte dello scrivere, culinaria, nuoto), in particolare la capacità dell’uomo a produrre quelle cose che costituiscono o che dovrebbero costituire l’espressione del bello”. Alla creazione non si fa alcun cenno; si parla di abilità, di capacità e di potere e ciò ben corrisponde alla rappresentazione che cento anni fa il pubblico si faceva dell’arte: un artista è anzitutto colui che può qualcosa, che conosce le regole di un’arte e le applica in maniera specialistica. Per quanto ne so, solo a partire dal 1910 circa si è parlato di creazione e di creatività in relazione all’arte, cioè a partire da quel periodo in cui entro le arti figurative nasce la pittura astratta, vale a dire una forma artistica che rinuncia alla tradizionale imitazione della natura. Uno tra gli innovatori più in vista era allora Was-sili Kandinsky, che nel 1913 scrisse: “La creazione dell’opera d’arte è creazione del mondo” [...] ed effettivamente si tratta di un ‘mondo’ a sé, senza

    quella relazione immediata con la natura, che prima si estrinsecava nella forma dell’imitazione. Cinque anni più tardi il poeta dadaista Tristan Tzara affermava: “Il nuovo pittore crea un mondo i cui elementi sono nel contempo i suoi mezzi [...]”. [...] Dacché Paul Klee nel 1918 scrisse una Confessione creativa, la connessione tra arte e creatività è stata gradualmente assunta nell’uso del linguaggio comune, quando addirittura non è divenuta un luogo comune. [... Ma] se la nozione di

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    creativo nell’arte figurativa, come presumo, è legata al declino dell’imitazione della natura, si deve ritenere che già prima sia stata in connessione con la musica, ché questa l’imitazione l’ha appena conosciuta. In effetti Richard Wagner in un articolo del 1850 definisce la genesi della sinfonia di Beethoven “un meraviglioso processo di creazione” e Beethoven un Prometeo. [...] Hoffmann vedeva nel musicista un apprendista stregone, che neanche lui sa con certezza quale regno di spiriti viene evocato con la sua formula. Wagner nell’articolo del 1850 [...] loda in Beethoven il più intrepido tra tutti i navigatori, un Colombo “che percorse fino ai suoi limiti il vasto, sterminato mare della musica assoluta”, scoprendo terre inaspettate. E un secolo dopo il pittore Mark Rothko diceva dei suoi dipinti: “Il loro inizio è un’avventura ignota in uno spazio ignoto”. [...] La scoperta, la trovata, l’idea è, accanto al principio di variazione, una forma principale della creatività artistica. Ma idee ne ha chiunque senza che necessariamente debba essere artista. Il cervello umano, secondo me, lavora quasi come un insetto cieco, che modifica la sua direzione soltanto quando cozza contro un ostacolo. Il procedere a salti sembra farci progredire più che la condotta graduale, a passi misurati, che la logica esige da noi: noi non sviluppiamo alcuna nuova idea, noi cozziamo contro di esse, e in questa prospettiva l’artista, quando procede senza sapere dove sta andando, mi sembra che sia altro che la rappresentazione dell’uomo in generale. Ma penso anche che l’artista – per lo meno l’artista nella situazione odierna – abbia conquistato una libertà di seguire i suoi capricci un po’ più grande di quella di molti altri uomini. E ciò è importante. Non si tratta semplicemente di trovare qualcosa, ma piuttosto di essere in grado di riconoscere nel ritrovamento alcunché di valido e di saperlo utilizzare. Perciò si richiede una capacità di guardare alle cose, in certa misura, immuni da pregiudizi. Naturalmente gli artisti sono liberi da pregiudizi nella stessa misura in cui lo sono gli altri uomini; è, per esempio, una loro abitudine quella di considerare gli oggetti come degli idioti specializzati, nell’ottica del proprio mestiere e non del loro funzionamento pratico o del valore economico: come un fenomeno puramente visivo o acustico, privato della funzione e significato usuali nella vita sociale. Proprio questa visione da idiota specializzato permette in certe circostanze all’artista di percepire una cosa in un modo fino allora inedito, cioè di sviluppare nuove relazioni con essa e di intrecciare nuove connessioni tra essa ed altre cose del mondo empirico dell’artista».

    Le “analogie creative” di Douglas Hofstadter rappresentano un interessante approfondimento

    dei meccanismi della creatività artistica alla luce delle più recenti scienze cognitive e informatiche.

    L’approccio non è precisamente quello del musicista, ma proprio per questo apre a prospettive nuove

    e stimolanti per chi fatichi a entrare nell’ottica delle avanguardie. Non si tratta né di approvare né di

    respingere questa o quella posizione creativa, ma di indagare gli aspetti “fisiologici” che presiedono a

    ogni attività creativa umana. Hofstadter lo fa studiando le capacità analogiche e la flessibilità tipiche

    dell’intelligenza umana.

    Il testo di riferimento è: Douglas R. Hofstadter, Fluid Concepts and Creative Analogies, Harper Collins Pu-blishers, 1995 (tr. it. Concetti fluidi e analogie creative, Adelphi Edizioni, Milano, 1996). Soprattutto le ultime pagine, quelle che trattano specificamente della creatività artistica e dei “grigliabeti” (alfabeti stilizzati al fine di scoprire le capacità analogiche della mente umana), meritano attenzione.

    LETTURA (da Concetti fluidi e analogie creative, pagg. 447 e segg.). «[...] data una realizzazione di ‘a’, come costruire una ‘e’ o una ‘k’ [...] nel medesimo stile? [...] In genere, non è possibile trasferire direttamente gli aspetti stilistici da una lettera a un’altra; piuttosto, si deve farli ‘slittare’ in varianti ragionevoli, in modo che si adattino al quadro concettuale della nuova lettera. [... Il programma informatico di intelligenza artificiale Letter Spirit vuole occuparsi nello stesso tempo di due aspetti importanti e, metaforicamente parlando, ortogonali delle lettere: la identità di categoria, che è quella

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    condivisa dalle diverse realizzazioni, secondo stili differenti, di una singola lettera (per esempio, la ‘a’ resa in Baskerville, Palatino, Helvetica etc.) e la identità stilistica, che è quella condivisa da tutte le lettere di un dato stile (per esempio, da ‘a’, ‘b’, ‘c’ etc., rese nel solo stile Baskerville). [...] La sfida, per Letter Spirit, è questa: date poche lettere (i semi) di un grigliabeto (questo nome indica gli alfabeti usati nel progetto, vincolati ad adattarsi allo schema di una griglia), cercare di capire la categoria di ciascuna di esse e le tendenze stilistiche suggerite dai semi nel loro complesso; immaginare lo stile sottinteso; infine, creare le lettere che mancano. Certo non vi è mai una sola risposta corretta, perché i semi, anche quando si forniscano venticinque semi, lasciandone solo uno da disegnare, non specificano uno stile unico, né lo stile determina in maniera unica i caratteri che lo costituiscono. La percezione e la creazio-ne delle lettere aprono una finestra elegante sul funzionamento della mente; ci sembra che avre-mo fatto un bel passo avanti verso la soluzione

    del problema della intelligenza se, lavorando nel campo della creazione di lettere, riusciremo a illuminare in senso generale il modo di operare dei concetti e le loro mutue relazioni fluide. [...] Creare lettere – così come comporre musica, o scrivere racconti – è un’arte molto raffinata che richiede anni di pratica. Non potremmo certo aspirare a costruire un modello che operasse al livello delle capacità di un grafico esperto [... e infatti] il dominio di Letter Spirit [...] contiene caratteri ridotti al minimo [... e] l’ispi-razione iniziale è stata l’idea di progettare e realizzare un programma per calcolatore capace esso stesso di disegnare caratteri tipografici ben formati [...] Che cosa hanno in comune tutti gli elementi di una qualsiasi colonna? La lettera. Che cosa hanno in comune tutti quelli di una riga qualsiasi? Lo spirito. Si può, così, pensare alle lettere come ‘categorie verticali’ e agli spiriti come ‘categorie orizzontali’. In questo senso le due categorie sono ortogonali. [...] Tutti i processi percettivi e creativi [...] risultano dalle azioni di innumerevoli codicelli indipendenti [...] Essi sono prodotti in continuazione e attendono di entrare in azione in una

    struttura detta appendicodici, che si può immaginare come una sala di attesa stocastica. [...] A cia-scun codicello è assegnata una urgenza, cioè un valore numerico che ne determina la probabilità di essere il prossimo scelto per entrare in azione; questi valori di urgenza sono basati sul grado di accordo tra gli effetti possibili dei codicelli e le strutture già esistenti. [...] L’effetto di ciascun codicello, considerato da solo, è minuscolo; ma, dal momento che agiscono innumerevoli codicelli, i loro effetti si rafforzano mutuamente e danno luogo a un comportamento collettivo coerente. Per farsene un’idea, è utile immaginare centinaia di formiche, o termiti, nell’atto di costruire una grande opera [...] Così, strutture percettive vengono costruite in modo casuale ma non a casaccio. Si costruiscono percezioni coerenti a partire da innumerevoli piccole decisioni probabilistiche, ciascuna di per sé insignificante e non essenziale. [...] In Letter Spirit, un processo ha luogo solo come risultato dell’azione di certi codicelli, e quindi non è possibile descriverlo in anticipo. In effetti, i processi di Letter Spirit esistono nell’occhio dell’osservatore, non sono entità oggettive. [...] E’ vero che un disegnatore umano a volte sfrutta [...] relazioni ripetitive e assai formalizzate tra

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    le lettere, ma ciò non ha nulla a che vedere con il disegno davvero creativo [...] Quest’ultimo ha a che fare piuttosto con le connessioni imprevedibili, molto astratte e uniche, che sorgono in modo spontaneo da analogie sottili, a loro volta evocate da costellazioni uniche di pressioni dipendenti dal contesto. [...] una componente cruciale della creatività umana [... è] la capacità di avvertire come sorprendente, oltre che vero, un certo fatto già conosciuto. In altre parole, un modello computazio-nale del processo creativo dovrebbe essere realizzato da un programma abbastanza introspettivo da guardare quello che sta facendo, fare osservazioni sul grado di interesse di quello che ha prodotto, usare queste osservazioni per selezionare i propri risultati e modificare le proprie preferenze ar-rivando a sviluppare per gradi, tramite una serie di tali scoperte che si auto-osservano, uno stile ‘personale’. Un modello di questo genere non solo farebbe queste cose, ma saprebbe che è esso stesso a farle: sarebbe, cioè, conscio dell’esistenza e dell’evoluzione del proprio stile».

    c) Estetica e poetica

    Estetica e poetica: i due termini indivi-

    duano due rispettive aree di approccio artistico,

    la prima riconducibile a precise convergenze

    storiche e culturali che trovano esplicita codi-

    ficazione a partire dagli inizi del Settecento,

    la seconda di carattere più generale – o meglio

    “categoriale” –, connessa alle disparate poièsi

    artistiche.

    L’etimologia dei due termini aiuta a comprendere. La parola “estetica” ha la sua radi-

    ce nel greco àisthesis, che significa “percezione” o

    “sensazione”. Estetico è ciò che viene percepito

    come “bello” e l’estetica è la scienza che si occupa

    del bello, stabilendo quali siano i fondamenti che relazionano sensazioni soggettive e criteri di oggettiva

    universalità (perlomeno nella nostra cultura occidentale). Questo approccio, che in realtà è altamente

    problematico e richiede una costante capacità di storicizzazione, non sarebbe stato possibile se prima

    non fosse nata la scienza occidentale come conseguenza del successo delle posizioni filosofiche socra-

    tiche e platoniche. Il bello è sì percepibile a livello soggettivo, ma anche elevabile a princìpi di ideale e

    astratta universalità. La parola “poetica” ha anch’essa radice greca, pòiesis, che sta per “fatto” o “azione”.

    Mentre l’estetica si occupa della percezione del bello, la poetica rappresenta la molteplicità dei metodi

    che al bello possono condurre, ma anche, più genericamente e più semplicemente, la molteplicità dei

    metodi in cui si manifesta il processo artistico senza presupporre necessariamente una concezione di

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    tipo estetico. La differenza è sottile ma fondamentale: una poetica artistica non implica d’obbligo una

    visione estetica dell’arte, mentre l’estetica non può mai prescindere da una qualche poetica. Il termine

    “poetica” trova l’analogo in “retorica”, purché quest’ultimo venga inteso nella sua accezione indicativa,

    sgombro cioè dai pregiudizi che nel Novecento sono seguiti alla retorica di matrice romantica.

    La nascita della “estetica” è un fenomeno culturale e artistico relativamente recente (il testo primo e decisivo è quello di Alexander Gottlieb Baumgarten, Aesthetica, pubblicato a Francoforte nel

    1750/58, nel quale l’estetica viene definita «scienza della conoscenza sensibile»). Una critica molto

    interessante all’approccio estetico è contenuta in Saggi di simbolica e arte (Ananda Cooma-raswamy), raccolta di scritti sulle problematiche sollevate direttamente o per riflesso dalle avanguardie artistiche del periodo interbellico. Almeno tre sono le tesi avanzate e discusse da Coomaraswamy nei

    suoi Saggi:

    a) l’estetica ha rimosso le possibilità applicative dell’arte e la contemporaneità ne sta pagando le con-

    seguenze;

    b) la cultura museografica ha eliminato il contesto originario per cui era stata concepita l’opera d’arte

    compromettendone il senso e il ruolo sociale (un Budda sottratto al suo tempio non sarà più lo stesso

    in una sala museale);

    c) gli ornamenti dell’arte antica avevano un significato altamente simbolico, erano funzionali e social-

    mente utili, non erano affatto puramente decorativi (il concetto di soprammobile è un portato della

    cultura moderna, di pari passo alla ideologia de “il bello per il bello”).

    Un testo comprensivo delle problematiche estetiche è Giovanni Guanti, Estetica musicale. La storia e le fonti, La Nuova Italia, Milano, 1999. Per una doppia focalizzazione, si rimanda al testo archetipico di Alexander Gottlieb Baumgarten, Aesthetica, Francoforte 1750/58 e al più recente Ananda Coomaraswamy, Selected papers – Traditional Art and Symbolism, Princeton University Press, 1977 (tr. it. Il grande brivido – Saggi di simbolica e arte, Adelphi Edizioni, Milano, 1986).

    LETTURA (da Il grande brivido, pagg. 13 e segg.). «Siamo gente strana. Dico questo riferen-domi al fatto che mentre quasi tutti gli altri popoli hanno dato alla loro teoria dell’arte o dell’espres-sione il nome di retorica e hanno considerato l’arte come una forma di conoscenza, noi abbiamo inventato un’ ‘estetica’ e consideriamo l’arte come un modo di sentire. La parola originale greca da cui deriva ‘estetica’ significa percezione attraverso i sensi, in particolare attraverso sensazioni tattili. L’esperienza estetica è una facoltà che abbiamo in comune con gli animali e con i vegetali, ed è irrazionale. L’ ‘anima estetica’ è quella parte della nostra costituzione psichica che ‘sente’ e reagisce alle cose: in altri termini, è la parte ‘sentimentale’ che è in noi. Identificare il nostro modo di porci di fronte all’arte con la ricerca di queste reazioni non significa rendere le arti ‘belle’, ma destinarle alla sola vita di piaceri e disgiungerle dalla vita attiva e da quella contemplativa. La nostra parola ‘estetica’ presuppone quindi ciò che oggi in genere si dà per scontato, che cioè l’arte sia evocata da emozioni, e abbia come fine di esprimere e di evocare altre emozioni. A questo riguardo, Alfred

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    North Whitehead ha osservato che “fu una scoperta sconvolgente, come suscitare le emozioni per se stesse”. Abbiamo poi proseguito su questa via inventando una scienza delle nostre simpatie e antipatie, una ‘scienza dell’anima’, la psicologia, e abbiamo sostituito delle spiegazioni psicologiche alla concezione tradizionale dell’arte come virtù intellettuale e del bello come cosa riguardante la conoscenza. Quanto forte sia oggi l’ostilità verso la presenza di un significato nell’arte è già espres-so dalla stessa parola ‘estetica’. Quando diciamo che un’opera d’arte è ‘significativa’, ci sforziamo di dimenticare che questa parola si può usare solo se accompagnata dalla preposizione ‘di’, e che l’espressione è significativa solo se significa ciò che si voleva esprimere, e trascuriamo il fatto che tutto ciò che non significa qualcosa è letteralmente in-significante. Se poi l’arte non avesse altro fine che di ‘esprimere delle emozioni’, il grado della nostra reazione emotiva sarebbe la misura della bellezza, e ogni giudizio sarebbe soggettivo, perché dei gusti non si discute. Andrebbe ricordato che una reazione è un’ ‘affezione’, e che ogni affezione è una passione, cioè qualcosa che si soffre o si subisce passivamente, e non – come nell’operazione del giudizio – un’attività da parte nostra. Equiparare l’amore per l’arte all’amore per le belle sensazioni significa far delle opere d’arte una sorta di afrodisiaco. Le parole ‘contemplazione estetica disinteressata’ sono una contraddizione in termini e un puro nonsenso [...] Noi distinguiamo le ‘belle arti’ dalle ‘arti applicate’ distinzione assurda, perché anche le belle arti sono ‘applicate’ a dare piacere) come “non di solo pane” volesse dire “di torte” per l’élite che va alle mostre, e “di solo pane” per la maggioranza e, di solito, per tutti quanti. La musica e la ginnastica platoniche, che corrispondono a ciò che noi sembriamo intendere con ‘belle arti’ e ‘arti applicate’ (dato che l’una è per l’anima e l’altra per il corpo), non sono mai disgiunte nella sua teoria dell’educazione; il dedicarsi soltanto all’una conduce all’effeminatezza, il dedicarsi soltanto all’altra, alla brutalità; l’artista delicato non è più uomo del robusto atleta; la musica deve riflettersi nell’eleganza del corpo, e la potenza fisica va esercitata soltanto con movimenti misurati [...] Il sé sentimentale gode delle superfici estetiche degli oggetti naturali o artificiali, a cui è affine; il sé intellettuale o spirituale gode del loro ordine e trova nutrimento in ciò che in essi gli è affine. Lo spirito è un’entità molto più esigente che sensibile; trova gusto non nelle qualità fisiche delle cose, ma in quel loro elemento ch’è chiamato fragranza o sapore: per esempio, nell’ “immagine che non risiede nei colori”, o nella “musica non udita”, non nella figura sensibile ma nella forma intelligibile».

    Alternativa all’impasse dell’arte per l’arte, o del bello per il bello, è il recupero di una visione forte-

    mente contestualizzata del fenomeno artistico, vale a dire il recupero della consapevolezza che l’opera

    d’arte è parte stretta di un contesto che le conferisce senso e funzione. Questo sembra essere, nell’epoca

    della multimedialità, il tramite indispensabile di nuovi importanti sbocchi per lo spinoso problema

    delle committenze, problema che notoriamente affligge un’arte – la musica “colta” soprattutto – che

    sembra avere smarrito il filo diretto tra a) chi la richiede, b) chi la realizza (gli artisti e gli operatori

    culturali) e c) chi la fruisce.

    d) Contestualizzare

    Contestualizzare diventa in questa ottica una parola chiave essenziale, e contestualizzare signi-

    fica prima di tutto individuare le connessioni con una realtà sociale circostante che non può essere

    facilmente sottintesa rifugiandosi in modo più o meno consolatorio nel tabernacolo dell’arte; in altri

    termini, significa farsene condizionare e al tempo stesso condizionarla. Non è certo inusuale per l’arte

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    del passato, e particolarmente per quella che precede l’avvento dell’estetica, quando l’espressione artistica

    non veniva mai ridotta a oggetto di contemplazione museale, ma è solo verso la metà del Novecento

    che l’esigenza viene sentita con rinnovato vigore come vitale e indispensabile.

    Conquista dell’abbondanza (Paul Feyerabend) è il titolo di un testo pubblicato postumo del noto filosofo

    della scienza. Tra le tesi esposte da Feyerabend ne sintetiz-

    ziamo due di particolare pregnanza:

    a) dalla filosofia greca all’invenzione della scienza occi-

    dentale fino a quella della prospettiva pittorica, la nostra

    storia è un precipitare continuo verso forme di progressiva

    semplificazione che fanno dell’astrazione un principio

    superiore ai fenomeni stessi (come dire che è più efficace

    la perseveranza di un’idea astratta, soprattutto se legata a

    un congruo apparato propagandistico che pervicacemente

    la sostiene, piuttosto che l’evidenza stessa dei fatti, considerati strumentalmente illusori, superficie

    esterna e ingannevole di una realtà sottostante e nascosta ai più);

    b) all’artista, anche se non solo a lui, spetta il compito di recuperare l’“abbondanza” che alcuni filosofi

    e scienziati hanno con successo anestetizzato nel corso degli ultimi duemilacinquecento anni, abbon-

    danza per la quale si sono battuti altri filosofi (tra questi lo stesso Aristotele) e scienziati che, a conti

    fatti, hanno avuto meno successo.

    E’ evidente che le tesi di Feyerabend, non meno di quelle di Coomaraswamy, non si conformano

    a una comoda routine di pensiero e, grazie anche a questo, inducono un quoziente di riflessione di

    superiore importanza per chi voglia problematizzare il “contesto”, o semplicemente prenderne atto

    anziché ignorarlo.

    Il testo di riferimento è: Paul Feyerabend, Conquest of Abundance, The University of Chicago Press, 1999 (tr. it. Conquista dell’abbondanza, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002). Per quanto riguarda una visione contestuale dello specifico della musica oggi, si rimanda al saggio di Riccardo Piacentini, Musica contestuale, in “NC News”, Roma, gennaio 2000 (consultabile via internet all’indirizzo www.arpnet.it/rgauche/_ric_phm.pdf).

    LETTURA (da Conquista dell’abbondanza, pagg. 3 e segg.). «Il mondo in cui abitiamo è ab-bondante al di là della nostra più audace immaginazione. Vi sono alberi, sogni, tramonti; temporali, ombre, fiumi; guerre, punture di zanzara, relazioni amorose; ci vivono persone, Dei, intere galassie.

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    L’azione umana più semplice è diversa da individuo a individuo e da occasione a occasione [...] Argomenti molto specifici, come la teologia parigina del XIII secolo, il controllo della folla, l’arte umbra del tardo Medioevo, sono pieni di trappole e di sorprese, mostrando così che non c’è limite ad alcun fenomeno, per quanto specificamente lo si definisca. “Con lui”, scive François Jacob del suo maestro Hovelaque, “un osso in apparenza semplicissimo come una clavicola diveniva un pae-saggio fantastico, del quale si potevano percorrere, all’infinito, monti e valli”. Solo una piccolissima frazione di tale abbondanza influenza le nostre menti. Ed è una benedizione, non uno svantaggio. Un organismo superconscio non sarebbe supersaggio, ma paralizzato. Shereshevskii, un cultore dell’arte della memoria la cui vita è stata descritta in un’affascinante monografia di A. R. Lurija, era consapevole delle sfumature solo un po’ più di noi. Eppure, si sentiva ostacolato a ogni angolo. “Sono troppo instabili”, osservò dei volti umani, “dipendono dagli stati d’animo, dal momento dell’incontro. E’ per questo che mi riesce tanto difficile ricordarli”. Per fare ordine, Shereshevskii decise di passare “a raffigurazioni sempre più ridotte e i dettagli superflui vennero assumendo una rilevanza sempre minore”. Eliminò consapevolmente ampie sezioni del suo mondo. Shereshevskii era infastidito dalle percezioni e pertanto ricostruì il suo universo percettivo. Moltissime persone sono aiutate dal meccanismo stesso della percezione: la maggior parte dei blocchi che modellano le nostre vite opera indipendentemente dai desideri e dalle intenzioni umane. Eppure, molti non sono infastiditi dalle percezioni quanto piuttosto dagli eventi in natura e nella società, reagendo di conseguenza: ovvero, cercando di ‘bloccare’ ciò che li disturba. Per loro il mondo è ancora troppo complicato e vogliono semplificarlo ulteriormente. Certo [...] questo mondo non è un paradiso. Le persone hanno bisogno di cibo, di riparo, di protezione dagli elementi e, cercando di ottenerli, modificano l’ambiente circostante. Sfortunatamente, questa ragionevole spinta a rendere più abita-bile la natura e la società è spesso andata oltre ciò che era necessario per la sopravvivenza, e persino per la prosperità. Il problemi ecologici causati dagli esseri umani, per esempio, sono emersi già nell’Antichità. E tuttavia, la spinta a interferire, a eliminare, a ‘migliorare’ non si è fermata qui [..] Nel tentativo di creare un mondo uniforme intere culture e interi popoli sono stati sradicati, non perché svantaggiati nell’adattamento o d’ostacolo ai piani di un qualche conquistatore, ma perché le loro credenze non si accordavano con la verità di una religione o di una filosofia particolari. [...] La ricerca della realtà che ha accompagnato la crescita della civiltà occidentale ha svolto un ruolo importante nel processo di semplificazione del mondo. In genere la si presenta come qualcosa di positivo, o come un’impresa capace di scoprire nuovi oggetti, nuovi aspetti, nuove relazioni. [...] Ma tale ricerca ha anche una forte componente negativa. Non accetta i fenomeni come sono: li cambia, o nel pensiero (astrazione) o interferendo attivamente con essi (esperimento). Entrambi questi due cambiamenti implicano delle semplificazioni. Le astrazioni rimuovono i particolari che distinguono un oggetto dall’altro, insieme a qualche proprietà generale come il colore e l’odore. Gli esperimenti rimuovono, o tentano di rimuovere, i legami che vincolano un qualsiasi processo all’ambiente circostante: ne creano uno artificiale, in qualche modo impoverito, esplorando poi le sue peculiarità. In entrambi i casi le cose sono estrapolate, o ‘bloccate’, dalla totalità che ci circonda. Ed è interessante notare come ciò che resta sia definito ‘realtà’».

    La cornice culturale entro cui prendono forma, e a cui contribuiscono con singolare vivacità, le

    posizioni di Feyerabend corrisponde per molti versi al “post-modernismo”. Moderno e post-mo-

    derno sono categorie concettuali, prima ancora che storiche, per le quali è possibile individuare alcune

    delle connotazioni ricorrenti nelle avanguardie artistiche del ‘900. Termini tra loro contrapposti,

    moderno e post-moderno stanno a significare due atteggiamenti profondamente diversi nei confronti di

    un sapere che, dalla Rivoluzione francese in poi, si ritiene modernamente capace di esaustività organica

    ma anche di progressive e inarrestabili evoluzioni (da cui la sua inclinazione verso i massimi sistemi),

    oppure post-modernamente “disilluso”, consapevole di una perenne frammentarietà del pensiero e del-

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    l’agire umano, particolarmente predisposto alla pluralità ideologica (da cui l’inclinazione, tipicamente

    post-moderna, di accogliere un consesso di opinioni ampio e fortemente dialettico).

    Quest’ultimo atteggiamento può condurre a svariate forme di relativismo, ma non necessariamente.

    Valga notare che Feyerabend ha sempre preso le distanze dai movimenti relativistici. In campo musicale,

    ad esempio, il post-modernismo americano (da John Cage in avanti) si è configurato secondo linee

    e tendenze che – dall’alea sperimentale al gestualismo, dal minimalismo alla ambient music – hanno

    tracciato un percorso le cui connessioni con la tradizione indiana, il futurismo, l’ibridismo legato alle

    esigenze di contestualizzazione hanno dato luogo a prodotti artistici chiaramente connotabili e, in più,

    iscrivibili in una “storia” che oggi può dirsi acquisita da una larga parte di studiosi.

    Un altro esempio è la reimportazione del post-moderno da parte della cultura europea, secondo

    un tipico percorso che dal vecchio continente passa al nuovo per poi tornare al mittente, con le me-

    tamorfosi del post-strutturalismo e dei vari “neo” e “ismi” che spesso definiscono temperie culturali

    molto definite e da più parti condivise.

    Per un approfondimento del concetto di “post-moderno”, esemplare il testo di Nicola Abbagnano, Storia della Filosofia, vol. 9, Il pensiero contemporaneo: il dibattito attuale (di Giovanni Fornero e Franco Restaino), Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006.

    LETTURA (da Storia della filosofia, §§ 1179 e 1180). «Il termine ‘postmoderno’, come han-no appurato le ricerche di Michael Köhler, compare per la prima volta nella Antologia de la Poesia Española Hyspanoamericana (1934) del critico spagnolo Federico de Onìs e in A Study of History (1934 e segg.) dello storico americano Arnold Toynbee, per indicare, nel primo caso, una corrente poetica che reagiva agli ‘eccessi’ del modernismo letterario e, nel secondo caso, la nuova fase storica della civiltà occidentale iniziata a partire dal 1875 con l’imperialismo fine de siècle, ovvero con il passaggio dagli Stati nazionali “ad una prospettiva di interazione globale” (M. Köhler)[...] In se-guito, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, il termine è stato usato, dapprima in America e poi in Europa, sia per denotare una serie di pratiche culturali presenti in ambiti disciplinari specifici (architettura, arti figurative, letteratura, teatro, filosofia etc.), sia per alludere ai mutati assetti della società postindustriale. In ogni caso, con l’aggettivo ‘postmoderno’, o con quella sua derivazione sostantivata che è ‘il postmoderno’, si è inteso sottolineare l’esistenza di atteggiamenti o di modi d’essere (sociali, esistenziali e intellettuali) diversi o alternativi rispetto a quelli tipici della modernità. [... Il postmoderno] è espressione di una mutata comprensione della nostra epoca, e in questo senso sta in opposizione al concetto di ‘Moderno’ (Moderne) nell’arte e a quello di ‘ciò che appartiene all’età moderna’ (Neuzitliche) nella storiografia in generale. [...] Alle idee-madri della modernità [... i postmoderni] contrappongono le seguenti idee alternative: 1) La sfiducia nei macro-saperi totalizzanti incarnati dai ‘grandi racconti’ e l’abbandono delle legittimazioni ‘forti’ o ‘assolute’ [... basato] sulla consapevolezza che non si danno ‘fondamenti’ ultimi e immutabili, né del conoscere né dell’agire; 2) Il rifiuto di concepire la successione temporale in termini di ‘superamento’ e la tesi della avvenuta “dissoluzione della categoria del nuovo” [...] Dissoluzione che implica una “una rottura con l’idea di rottura” [...] 3) La rinuncia a concepire la storia come una totalità significante universale in grado di fungere da fondamento ‘garantito’ della iniziativa storica dell’umanità sulla via dell’emancipazione e del ruolo-guida degli intellettuali in essa. Rinuncia che si accompagna ad una diffidenza programmatica verso ogni terapia salvifica (politica, esistenziale, artistica etc.) [...] 4)

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    Il passaggio dal paradigma dell’unità al paradigma della molteplicità, ossia la raggiunta consapevo-lezza della “eteromorfia dei giochi linguistici” (Lyotard) [...] A differenza di quanto accadeva nelle cosiddette ‘filosofie della crisi’ della prima metà del Novecento, questa “fine dei sistemi unitari” e questo emergere dell’arcipelago della molteplicità” non vengono tuttavia prospettati – in ciò risiede una delle maggiori novità del postmoderno – con un senso di nostalgia o di rimpianto per l’intero perduto, ma vengono salutati come un fatto positivo [...] E come dichiara John Barth [...] “Il mio scrittore ideale postmoderno non imita e non ripudia né i suoi genitori novecenteschi né i suoi nonni ottocenteschi. Ha digerito il modernismo, ma non lo porta sulle spalle come un peso” [...] Il postmoderno non è soltanto il frutto di un insieme di suggestioni teoretiche o di convergenze speculative. Esso è il prodotto di trasformazioni storico-sociali che hanno inciso profondamente sulle condizioni di esistenza dell’uomo novecentesco. Infatti, alle spalle della cosiddetta moda post (‘post-ui, post-là’) vi è una serie concatenata di avvenimenti storici (le guerre mondiali, gli orrori dei campi di concentramento, i fallimenti del socialismo reale, gli inconvenienti del capitalismo, i pericoli di una guerra atomica, la minaccia di una catastrofe ecologica etc.) che hanno minato alla base i principali ‘miti’ della modernità, a cominciare da quelli del progresso e della emancipazione [...] “Ci sono molti tipi di distruzione, diversi nomi che ne sono il simbolo. ‘Auschwitz’ può esser preso come un nome paradigmatico per l’‘incompiutezza’ tragica della modernità [...] Per quanto concerne le matrici sociali, il postmoderno si è qualificato, sin dall’inizio, come uno dei riflessi più significativi e sofisticati dei meccanismi di struttura della società postindustriale, a cominciare dal noto processo – caratterizzato dalla transizione dalle tecnologie meccaniche alle tecnologie infor-matiche – che va sotto il nome di “informatizzazione della società” o di “egemonia dell’informatica” [...] Processo che ha coinciso con una [...] “pluralizzazione inarrestabile” [...] delle condizioni di vita tardo-moderne che ha prodotto, in concomitanza del decollo dei media, una vertiginosa esplosione e moltiplicazione delle Weltanschauungen [...] generando la diffusa consapevolezza secondo cui la condizione postmoderna coinciderebbe, per definizione, con quella di una “umanità al plurale” che si è definitivamente lasciata alle spalle il sogno ‘medioevale’ di un’unica verità, di un’unica fede e di un unico sistema di valori».

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    La scrittura vocale e le sonorizzazioni d’ambienteLa scrittura vocale e le sonorizzazioni d’ambiente

    La voce come archetipo

    I manuali del belcanto

    “Extended techniques”

    Contesto e applicazione

    La voce “applicata”

    “Foto-musica con foto-suoni”®

    La voce come archetipo

    I manuali del belcanto

    “Extended techniques”

    Contesto e applicazione

    La voce “applicata”

    “Foto-musica con foto-suoni”®

    • Archetipo “fisiologico”• Archetipo “ideale-culturale”• Storia della voce

    • Tosi, Garcia, Marchesi... • La voce dei foniatri

    • Terminologia europea e terminologia americana• Nascita della “vocalità”

    • L’arte applicata secondo Ananda Coomaraswamy• La musica applicata• “Musica contestuale”

    a

    b

    • Linea futurista (da Marinetti a Berberian, Berio, Bussotti, Morricone...)• Linea mitteleuropea (Sprechgesang, Seconda Scuola di Vienna, Weill, Dallapiccola, Nono, Manzoni...)• Linea francese (Debussy, Ravel, primo Casella... fino a Boulez e Xenakis)• Linea “etnica” (etnomusicologia e folk songs)• “Linea Callas” (postumi ed eccessi del belcanto)• Linea neoclassica (Stravinskij, Prokofiev, Hindemith, Šostakovič, secondo Casella, primo Petrassi)

    • Pre-storia (da Fewkes a Schafer)• Storia attuale

    a) La voce come archetipo

    Considereremo da un lato la voce come archetipo “fisiologico”, dall’altro come archetipo “ideale-culturale”. La voce è il più antico e più “umano” degli strumenti musicali, è il nostro stesso corpo che vibra e risuona; non è localizzabile nella sola regione laringo-faringea, ma occupa – ed anzi

    è – l’intero nostro corpo, comprensivo di corde e di cassa armonica di risonanza. Ciò corrisponde a un

    dato fisiologico umano di carattere metatemporale, rilevante ai tempi di Neanderthal così come oggi,

    che della voce fa uno strumento unico e irripetibile, anzi lo strumento per eccellenza, senza “protesi”

    ausiliarie. Nel corso dei secoli, fatto decisivo nella nostra cultura occidentale, questo strumento è di-

    ventato ideale pietra di paragone per (gli) altri strumenti, tale che il concetto di “cantabilità” può essere

    considerato una delle costanti, se non un vero e proprio parametro, della civiltà musicale occidentale;

    2 - La scrittura vocale e le sonorizzazioni d’ambiente

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    in altri termini, la voce è soggetto di studio che attraverso i secoli si è sviluppato per mezzo di specifiche

    tecniche che ne hanno consentito l’espansione delle possibilità espressive.

    Una storia della voce è dunque possibile sia dal punto di vista dello studio delle prospettive tecniche volta a volta adottate, sia da quello, intimamente connesso, del repertorio accreditatosi lungo

    il corso dei secoli. Si tratta di una storia che tiene conto delle complesse e variegate vicissitudini che,

    da un lato, hanno coinvolto questo straordinario strumento sul piano degli sviluppi tecnico-espressivi

    e, dall’altro, su quello di stretta competenza degli storici della musica (implicazioni sociali, correlazioni

    con le diverse forme d’arte e di cultura etc.).

    Sulla voce come doppio archetipo, specie in una visione prospettica e anche funzionalmente provocatoria, si può leggere l’articolo di Cathy Berberian, La nuova vocalità nell’opera contemporanea, in “Discoteca”, Milano, luglio-agosto 1966 (vedi in coda alla dispensa). E’ un ottimo tramite per coniugare i due archetipi, quello “fisiologico” e quello “ideale-culturale”, secondo l’ottica della «nuova vocalità». Per una lettura forse meno stimolante, ma molto più ricca di informazioni, si può invece consultare il termine “Voce”, curato da Bettina Lupo, sul Dizionario Enciclopedico Universale della Musica UTET.

    LETTURA (da La nuova vocalità nel-l’opera contemporanea). «Che cosa è la nuova vocalità che appare tanto minacciosa alla vecchia guardia? E’ la voce che ha a pro-pria disposizione una gamma infinita di stili vocali che abbracciano la storia musicale e in più aspetti sonori, marginali rispetto alla musica, ma fondamen-tali per gli esseri uma-ni. Contrariamente allo strumento che può essere chiuso o messo

    via in una custodia dopo l’uso, la voce è qualcosa di più di uno strumento proprio perché non si separa mai dal suo interprete. Si presta continuamente alle innumerevoli incombenze della nostra vita quotidiana: discute col macellaio per l’arrosto, sussurra dolci parole nell’intimità, urla insulti all’arbitro, chiede la strada per Piazza Carità etc. Poi, la voce s’esprime con i ‘rumori’ comunicativi, come i singhiozzi, sospiri, gli schiocchi di lingua, i gridi, i gemiti, i gorgoglii, le risate. Inoltre la voce è capace di diversi tipi di emissione vocale, tra cui due sono ingiustamente considerati ille-gittimi ancor oggi, anche se hanno lasciato le loro tracce su compositori decisamente seri quanto Schoenberg, Debussy, Ravel, Bartók etc. – e cioè quelli legati al jazz e al folclore. [...] Gli elementi che costituiscono la Nuova Vocalità esistono da tempo immemorabile: è la loro giustificazione e necessità musicale che è nuova. Non vorrei essere fraintesa: la nuova vocalità non è affatto basata sul repertorio di effetti vocali più o meno inediti che il compositore può escogitare e che il cantante si offre di rigurgitare, ma piuttosto sulla capacità di usare la voce in tutti gli aspetti del processo vocale

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    che possano flessibilmente integrarsi come si integrano i lineamenti e le espressioni di un volto. A questo punto viene la solita domanda: ma cosa hanno da fare con la musica queste esperienze sonore? Un pittore contemporaneo come Dubuffet usa materiali completamente estranei all’olio, alla tempera, all’acquarello classico quando adopera ali di farfalla, spugne, peli da barba e l’incro-stazione residuale delle caldaie – cosa può essere più lontano da Michelangelo, eppure più vicino agli oggetti con cui siamo quotidianamente in contatto? Nel capitolo delle Sirene d’Ulysses, Joyce introduce l’elemento rumore attraverso l’onomatopea. Il testo diventa la sonorizzazione verbale di una scena in un luogo pubblico, una specie di registrazione. Infatti su questa ‘registrazione’ letteraria fu basato uno fra i lavori più belli nel campo della musica elettronica: Thema (Omaggio a Joyce) di Berio. Devo constatare qui che le tecniche di registrazione e di montaggio hanno avuto un ruolo fondamentale nella musica vocale. Il fatto che con un magnetofono si possa registrare un suono o dei suoni, isolarli dal contesto originale, ascoltarli di per sé, in quanto suono, modificarli e combinarli con altri elementi sonori appartenenti ad altri contesti, ha messo il musicista (e anche il cantante) in condizione di ascoltare in maniera diversa la realtà e tutti quei fatti sonori che normalmente ci sfuggono perché assorbiti e mascherati dall’azione che li produce e dall’esperienza che li provoca. Per capire la Nuova Vocalità è essenziale stabilire che l’arte deve riflettere ed esprimere la propria epoca; e tuttavia deve riferirsi al passato, accettare il peso della storia (quanto mia figlia invidia i bambini nati secoli fa, perché avevano meno storia da studiare!); deve, mentre apparentemente crea una rottura, provvedere una continuazione che appartiene a oggi, e allo stesso tempo lascia aperta la porta al futuro. Un’altra funzione della registrazione è la documentazione dei fatti sonori: delle interpretazioni ritenute stilisticamente e tradizionalmente perfette ai loro tempi, ma ora rivelate come superate attraverso la spietata testimonianza del disco. L’interpretazione segue l’evoluzione della società. [...] l’aumentata divulgazione delle forme artistiche, la velocità con cui queste ven-gono consumate e assorbite nella cultura (non necessariamente la haute culture), il moltiplicarsi dei mezzi di divertimento per le masse a un volume mai conosciuto prima, tutto questo rende non solo essenziale, ma anche salutare l’evoluzione dell’interpretazione. Avere una tradizione è tanto importante quanto avere una madre e un padre per potere nascere – ma arriva sempre il momento inevitabile in cui si deve lasciare la sicurezza della vecchia vita per poterne creare una nuova. Ma la parola tradizione anche una trappola. Pensate solo che la tradizione del recital è relativamente nuova. Liszt fu uno dei primi virtuosi a fare una serata con piano solo. I recital per voce vennero molto più tardi [...] A un certo punto, qualcuno si è assunto la responsabilità di ‘rompere’ con la serata pot-pourri in favore del recital e così ha creato una tradizione. Ma una tradizione è sempre un artefatto e quando diventa solamente un fossile legittimizzato [...] allora deve fare posto alla ‘nuova’ tradizione. In questo senso la Nuova Vocalità non si riferisce solo alla musica contemporanea, ma anche al modo nuovo di affrontare la musica tradizionale sfruttando le esperienze sonore del passato con la sensibilità di oggi (e un presentimento del domani). Per questo motivo il cantante oggigiorno non può più essere solo un cantante. Ormai i confini dell’interpretazione, come quelli delle arti non sono più chiaramente definibili – e gli esecutori di un campo violano il territorio degli altri (Brecht-Weill esigevano attori che potessero cantare, Schoenberg voleva cantanti che sapessero fare l’attore). La Nuova Vocalità propone cantanti che possano recitare, cantare, ballare, mimare, improvvisare – in altre parole, colpire gli occhi oltre che le orecchie. Proporre l’artista come un fatto globale, come la voce fa parte del corpo che vive, agisce e reagisce. Cosicché anche nel recital e nel concerto ci sarà quel tanto di elementi teatrali inerenti al contesto musicale come una alternativa gestuale che la musica dà agli stimoli invadenti e disordinati di una civiltà della visione e dell’azione».

    b) I manuali del belcanto

    Dalla fine del ‘500 ai primi del ‘900 la storia della voce è punteggiata da numerosi e paradigmatici

    testi di argomento tecnico e talvolta anche “ideologico” sull’arte del canto. Spesso sono stati definiti

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    come manuali del belcanto. Alcuni di questi, adottati o meno che siano, si rivelano tuttora validi e

    operativi. In essi eminenti cantanti-insegnanti, dotati cioè della doppia preparazione sul fronte sia di-

    dattico sia performativo (tra questi Tosi, Garcia, Marchesi...) usavano fornire precise indicazioni tecniche corredate da adeguati esercizi di respirazione ed emissione vocale, oltre che in qualche caso

    da vere e proprie composizioni musicali, allo scopo di fare apprendere l’arte del belcanto direttamente

    da chi ne faceva pratica esperienza. Il termine “belcanto” non è proprio dei primi di questi manuali,

    ma si afferma progressivamente nel corso del ‘600 e diventa segnale di un fortunatissimo approccio

    della voce “impostata” così come veniva richiesto dagli ampi spazi teatrali e dall’assenza dei mezzi

    elettronici di amplificazione.

    Per un elenco cronologico più dettagliato si possono citare, tra gli altri, il Maffei [...] discorso della

    voce e del modo d’apparare di cantar di garganta senza maestro (Napoli 1562), il Rognoni Passaggi per

    potersi esercitare nel diminuire [...] (Venezia 1592), Zacconi Prattica di musica utile et necessaria (Vene-

    zia 1592), Caccini Le nuove musiche (Firenze 1602), Durante Arie devote le quali contengono in se la

    maniera di cantar [...] (Roma 1608), Giustiniani Discorso sopra la musica de’ suoi tempi (1628, pubbl.

    Lucca 1778), Tosi Opinioni de’ cantori antichi e moderni [...] (Bologna 1723), Crescentini Esercizi per la

    vocalizzazione (Parigi 1811), Vaccaj Metodo pratico di canto italiano (Firenze 1830), Lablache Methode

    complete de chant (Magonza-Anversa-Bruxelles 1835-1840), Garcia

    Traité complet de l’Art du Chant (Parigi 1847), Panofka L’art de chanter

    (Parigi 1853) etc.

    E’ significativo che nel ‘900 i manuali di canto, così come tradizio-

    nalmente intesi, siano andati estinguendosi, lasciando il posto a quella

    che potremmo chiamare la voce dei foniatri, vale a dire ai suggeri-menti di carattere medico-specialistico e, corrispondentemente, ai testi

    scientifici sull’organo vocale che, sotto lo stretto profilo

    della tecnica musicale, non hanno nulla in comune con

    la manualistica dei cantanti-insegnanti dei tre secoli

    passati. Tra i più illustri foniatri ricordiamo il francese

    Alfred Tomatis, autore di testi in cui viene indagato il

    rapporto bidirezionale orecchio-voce, come ad esem-

    pio il suo noto L’orecchio e la voce, e ideatore di centri

    specialistici che consentono un esame particolareggiato dell’udito e una conseguente

    metodologia curativa che rapporta l’organo di fonazione a quello uditivo.

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    Se quello dei foniatri “puri” è senza dubbio l’approccio nuovo più sorprendente dopo quello ma-

    nualistico dei secoli scorsi, va anche rilevato che nel ‘900 si registrano altre due tipologie di approccio:

    si consideri da un lato Richard Miller e il suo testo esemplare The Structure of Singing, dove lo speciali-

    smo si manifesta attraverso una intensa attività di giornalismo e di pratica didattica, ma non di diretta

    pratica esecutiva, e comunque l’impostazione rimane quella della ricerca scientifica; d’altro canto si può

    considerare il caso di una delle più celebri cantanti e didatte del ‘900 italiano, Rachele Maragliano

    Mori, né foniatra né giornalista, il cui bellissimo libro Coscienza della voce risponde a riflessioni di ordine

    storico-musicologico informate a criteri di catalogazione anche qui di ordine scientifico, lontani dalla

    concezione manualistica e senza corredo alcuno di esercizi o persino di esempi musicali.

    Questi libri esplicitano una doppia intenzione: a) soddisfare la richiesta di maggiori conoscenze

    scientifiche sull’organo vocale da parte dei cantanti professionisti e b) adattarsi a un pubblico di lettori

    molto più vasto, mantenendo uno stile fluido e di carattere scientificamente divulgativo. Entrambe

    queste intenzioni, e in particolare la seconda, sono del tutto nuove rispetto ai manuali del Sei, Sette,

    Ottocento e tendono a stabilire un crescente iato tra lo studio del canto (e chi lo pratica) e la scrittura

    vocale dei compositori contemporanei.

    Fra i numerosissimi trattati storici sull’arte del canto si suggerisce di consultare, tra gli ultimi, Mathilde Mar-chesi, Bel Canto: A Theorethical & Practical Vocal Method, rist. Dover Publications, New York, 1970, mentre la voce dei foniatri può essere bene espressa dal citato Richard Miller, The Structure of Singing, Schirmer Books, New York, 1986 (tr. fr. La structure du chant, Editions IPMC, Paris, 1990) e da Alfred Tomatis, L’oreille et la voix, Editions Robert Laffont, Paris, 1987 (tr. it L’orecchio e la voce, Baldini&Castoldi, Milano, 1993). Fondamentale poi Rachele Maragliano Mori, Coscienza della voce, Edizioni Curci, Milano, 1970 e, per una panoramica sull’attuale situazione della didattica della voce in Italia, il saggio di Tiziana Scandaletti, Una didattica per la voce contemporanea?, in “Rassegna Musicale Curci”, Anno LI – maggio 1998, contenente recenti interviste a Dorothy Dorow, Liliana Poli e Gabriella Ravazzi.

    LETTURA (da Una didattica per la voce contemporanea?). «Fino all’inizio del Novecento, l’immagine del cantante di successo era strettamente e univocamente legata al teatro d’opera; oggi gli idoli vocali della cultura di massa sono proteiformi: il cantante rock, il cantante pop, il can-tante jazz, il cantante folk etc. La stessa figura del cantante lirico si deve poliedricamente ricono-scere in più specializzazioni: il cantante di musica antica, il cantante di musica barocca, il cantan-te di Lied o di musica da camera, la voce rossiniana o quella verdiana etc. C’è inoltre da conside-rare che la possibilità di utilizzare il microfono per ampliare la voce e l’accompagnamento riser-vato non più agli strumenti acustici ma a quelli elettrici hanno portato nell’universo vocale una vera e profonda rivoluzione. Nella ‘musica leggera’ le caratteristiche di potenza ed estensione che caratterizzavano le peculiarità vocali del cantante d’opera (la ‘voce impostata’) vengono meno di fronte ad una serie di effetti resi percepibili da un’accorto uso dell’amplificazione. Dovrebbe far riflettere che nel linguaggio comune l’espressione The Voice non evoca personaggi come Caruso o Pavarotti, ma piuttosto Frank Sinatra. Credo che identificare la ‘voce contemporanea’ con la musica colta del XX secolo vada accolto come una semplice convenzione, che non ha in sé alcun giudizio discriminante nei confronti delle altre ‘voci’ contemporanee. Si deve inoltre considerare che le sperimentazioni operate nel campo vocale dai compositori hanno fatto sì che ai cantanti di

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    musica contemporanea vengano richiesti i più svariati tipi di emis-sione, da quella belcantista a quel-la non impostata, al controllo del vibrato proprio della musica baroc-ca. Cathy Berberian, in un un bel-lissimo articolo nel 1966 intitola-to La Nuova Vocalità nell’opera con-temporanea, scriveva: “Per capire la Nuova Vocalità è essenziale stabilire che l’arte deve riflettere ed esprimere la propria epoca; e tuttavia deve riferirsi al passato, accettare il peso della sto-ria”. Qui nascono i problemi: quale preparazione vocale deve avere il cantante di musica contempora-nea? O meglio, per riproporre la questione come nel titolo di questo lavoro: quali sono le prospettive per una didattica della voce contempo-ranea? Ho cercato di intraprendere questo percorso avvalendomi della collaborazione di tre importanti interpreti e didatte del repertorio contemporaneo: Dorothy Dorow, Liliana Poli e Gabriella Ravazzi, che hanno gentilmente accolto il mio invito a porre per iscritto al-cune riflessioni sulla loro esperien-za di esecutrici e insegnanti di canto contemporaneo. [...] Spetta a queste artiste il merito di aver

    cantato in prima esecuzione assoluta molte partiture dei più significativi compositori degli ultimi decenni, collaborando con questi nella sperimentazione sonora; alla domanda su quali composi-tori abbiano maggiormente influito nella propria ricerca vocale, Dorothy Dorow risponde con un’ampia rosa di autori che comprende, per citare solo i nomi italiani, Bussotti, Castiglioni, Dal-lapiccola, Donatoni, Sciarrino e Togni; Liliana Poli ricorda Bussotti, Ligeti e Nono; Gabriella Ravazzi, sottolineando in particolar modo il rapporto artistico con Nono, aggiunge ai nomi di Bussotti e Ligeti quelli di Berio e Corghi. Tutte e tre le cantanti confermano quanto la Berberian scriveva trent’anni fa e concordano nel riconoscere la specificità della ‘voce contemporanea’ in un gusto per la ricerca e la sperimentazione degli effetti vocali, che parta però da una buona cono-scenza della tecnica della ‘voce impostata’ e dei diversi stili vocali. Non parliamo solo di Bel canto ottocentesco, ma anche di prassi esecutiva dei secoli precedenti; del resto, va ricordato che la lo-cuzione Bel canto dal punto di vista musicologico si riferisce anche alla vocalità dell’opera in musica del primo Seicento veneziano. Scrive Dorothy Dorow: “Non c’è una tecnica speciale per la musica vocale contemporanea, la quale utilizza così tanti e diversi stili che risulta impossibile isolarne uno solo come specifico. Del resto il nostro secolo ha visto l’affermarsi di molti diversi linguaggi compositivi che non devono essere necessariamente ricondotti ad un’unica matrice. Un cantante di musica contemporanea deve innanzitutto sviluppare una buona base tecnica, non nel modo in cui il Bel canto si è deteriorato negli ultimi decenni, al punto che in inglese sarcasticamente è detto can belto (belt = shout, quindi puoi gri-dare), ma piuttosto tornando ai secoli precedenti quando la voce veniva esercitata come un vero e proprio strumento, con anni di esercizi per la coloratura, i trilli, gli abbellimenti, prima di essere ritenuta pronta per cantare un’aria. In altre parole il cantante dovrebbe in primo luogo e soprattutto curare l’educazione della propria voce e quindi, come un qualunque altro musicista, preoccuparsi di possedere un perfetto controllo sull’intera estensione del proprio strumento”. Sulla stessa lunghezza d’onda è Liliana Poli: “Acquisire

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    una vocalità contemporanea non vuol dire gettare alle ortiche quella tradizionale, quel vibrando con il cor-retto uso delle risonanze. Si può partire da questa base e successivamente ricercare i più svariati suoni e colori insiti in ogni voce. La tecnica per la voce contemporanea racchiude, a mio parere, la vocalità del Sei-cento, del Settecento e dell’Ottocento, a cui si aggiungono lo Sprechgesang, i quarti di tono, i suoni aspi-rati, i suoni a bocca chiusa anche nel registro acuto, il saper schiarire, scurire, arrochire secondo le varie esigenze del compositore”. Così Gabriella Ravazzi: “La tecnica per la vocalità contemporanea è un am-pliamento della tecnica usuale, supportata dalla curiosità espressiva e musicale, dalla ricerca di nuove pos-sibilità del proprio mezzo vocale e dal gusto di frangere i limiti stabiliti”. E aggiunge: “Il cantante contem-poraneo non può nascere come tale, ma diventarlo in seguito, dopo aver accuratamente effettuato lo studio del passato, dal recitar cantando all’opera belcantistica. La tecnica necessaria per il canto contemporaneo è un ampliamento della tecnica, non una sua parzializzazione. Pertanto è indispensabile saper padroneggiare con la voce gran parte del repertorio del passato. Non credo alle specializzazioni che nascono senza l’appro-fondimento del repertorio tradizionale”. Senza dubbio un punto chiave per un diverso uso tecnico della voce tra la scuola del Bel canto e la voce contemporanea è riconosciuto dalla Poli e dalla Ra-vazzi nell’uso dei registri vocali. Scrive Gabriella Ravazzi: “Nella tradizione belcantista la bellezza e l’uguaglianza del suono sono condizioni indispensabili; nella vocalità contemporanea, invece, una delle qua-lità più importanti è la capacità di cambiare, adattare, modificare la voce nel suo colore, quasi a divenire più strumenti diversi. Aggiunge Dorothy Dorow: “Nella musica romantica si può dare maggiore intensità emotiva nell’espressione della linea melodica e del testo, nella musica contemporanea è richiesto un estremo controllo su di una estensione vocale ampia quanto mai prima, e sull’uso delle dinamiche da un pianissimo ad un fortissimo secondo le possibilità naturali di ciascuna voce”. Quindi una buona base tecnica, cul-tura musicale e conoscenza del repertorio storico del canto unite alla curiosità e alla disponibilità alla sperimentazione, la capacità di mettersi in gioco in accordo con il compositore ai limiti delle proprie possibilità vocali, queste sono le caratteristiche indicate dalle tre artiste che dovrebbero costituire il bagaglio del cantante contemporaneo. Su tutto una parola chiave: flessibilità. Scrive Dorothy Dorow: “La voce contemporanea richiede flessibilità di mente quanto di voce. Idealmente un cantante di musica contemporanea dovrebbe evitare i due estremi che troppo spesso si ascoltano dai cosid-detti esperti: da una parte una esecuzione meccanica, spesso noiosa, ma accurata della partitura e dall’altra la ricerca del bel suono, che adatti la partitura alla voce del cantante e non viceversa”. Piuttosto preciso appare anche il percorso che dovrebbe segnare didatticamente la formazione specifica del cantan-te contemporaneo che non può non partire mettendosi a confronto con le partiture della ‘Scuola di Vienna’, a cui la Dorow aggiunge la produzione cameristica francese di Debussy, Milhaud, Pou-lenc, Messiaen. Spiega Liliana Poli: “La preparazione del cantante contemporaneo deve avvenire per gradi, e cioè partendo dalla Wiener Schule come base. Si deve pertanto affrontare lo studio del Pierrot Lunaire di Schoenberg e dei Lieder di Webern, indicati in particolar modo per la vocalità razionale ed es-senziale che esprimono, per arrivare dopo una certa maturazione a Donatoni, Bussotti, Crumb, Ligeti... Tutto dipende dalle possibilità personali: estensione, duttilità, peculiarità timbrica”. Piuttosto disilluse sono le tre artiste quando assumono la veste di insegnanti e parlano della situazione della didattica contemporanea oggi. Rileva la Ravazzi: “Scarso è l’interesse da parte dei giovani che, specie se dotati, preferiscono dedicarsi esclusivamente alla vocalità tradizionale. A tutto ciò si aggiunge il poco interesse per la ricerca e la sperimentazione, per l’apprendimento di brani mai o poco eseguiti. Scrive la Poli: “I cantan-ti diplomati in canto fanno una certa fatica anche per un lavoro di Petrassi. Gli allievi hanno sempre un certo grado di potenzialità che devono essere sviluppate; ma chi li informa? Chi li esorta?” Dorothy Dorow mi rimanda ad un suo articolo uscito sulla Gazzetta di Parma il 20 settembre 1989, dal titolo Ma qui è il terzo mondo, e mi aggiunge: “Non credo che questo sia cambiato in otto anni”. C’è un passo di questo suo scritto, nel quale si riscontra la scarsa apertura nelle nostre scuole di musica ad un repertorio che non sia quello operistico ottocentesco, che merita particolari riflessioni [...]: “Così è facile capire che le opportunità di carriera e lavoro per i giovani cantanti italiani siano più limitati in man-canza di una voce eccezionale. Imparando un repertorio più limitato si hanno meno opportunità di lavoro e si rischia di essere confinati ai cori. E’ un vero peccato, perché il materiale vocale c’è in quantità e di ottimo livello”. Dunque, per tornare sul tema, Una didattica per la voce contemporanea? La risposta potrebbe essere: una didattica contemporanea per la voce. Una didattica in una scuola moderna e aperta che si assuma il compito di preparare dei cantanti professionisti da inserire nel mercato del lavoro [...]».

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    c) “Extended techniques”

    Accade dunque che, simultanea-

    mente al decadere della manualistica

    del belcanto, i compositori continuano

    a ricercare nuove possibilità tecnico-

    espressive di scrittura vocale e anzi

    sembrano dare un nuovo e decisivo

    impulso a questa ricerca, ponendo in

    tal modo le premesse di quelle che nel

    secondo dopoguerra saranno definite,

    con locuzione anglosassone, “exten-

    ded techniques”, locuzione tuttora in

    uso nel Nord America che in Europa

    trova l’equivalente in “nuove tecniche”

    (Neue Techniken, nouvelles techniques

    etc. che rispondono a locuzioni come

    “nuova musica”, Neue Musik, Musique

    d’aujourd’hui etc.).

    Terminologia europea e ter-minologia americana testimoniamo di due approcci fondamentalmente

    diversi, il primo volto a sottolineare gli

    aspetti innovativi e, se occorre, le frat-

    ture nei confronti della tradizione, il

    secondo più “conciliante”, nel senso che

    ogni incursione nel nuovo viene letta

    come ampliamento delle possibilità pre-

    cedenti e non come loro negazione che

    in varia misura determina un trauma.

    Il primo atteggiamento spiega la

    nascita della “vocalità”, fenomeno

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    squisitamente europeo la cui origine data verso la metà del Novecento, laddove il termine “vocalità”,

    di origine latina e non aglo-sassone, testimonia della necessità di (ri)definire l’ambito specifico della

    voce, ciò che non viene sentito come necessario per altri strumenti, tant’è che non esiste una “flautità”

    né una “pianità”...

    Su quest’ultimo punto è interessante la relazione condotta da Sergio Durante dell’Università di Padova dal titolo Aspetti di contemporaneità nella vocalità del Novecento (Cagliari, 1997), mentre può tornare ancora utile il citato articolo di Cathy Berberian La nuova vocalità nell’opera contemporanea. Uno sguardo sulle “extended techniques”, o “nuove tecniche”, non può invece prescindere da una conoscenza storicamente approfondita della “nuova musica” (che anche in Nord America viene chiamata “new music”!). A questo proposito un testo efficace, anche se disponibile solo in lingua inglese, è quello di Reginald Smith Brindle, The new music – The Avant-Garde since 1945 (Second Edition), Oxford University Press, 1987, ripreso in numerose successive ristampe.

    LETTURA (da Aspetti di contemporaneità nella vocalità del Novecento). «[...] ‘vocalità’ è un neologismo. Il termine, che troviamo oggi spiegato in modo articolato dal Vocabolario della Lingua italiana Treccani (tanto per intenderci, lo stesso che accoglie ‘world music’), non era censito dallo Zingarelli almeno fino al 1943. A questo dovremmo aggiungere una seconda constatazione, e cioè che il termine non ha una traduzione corrispondente all’uso in Inglese, non ne ha in Tedesco ed in Francese, dove è sostituita da locuzioni. [...] sembrerebbe quindi che ‘vocalità’ – come termine – sia non solo un oggetto che appartiene a pieno titolo al secondo Novecento, il che va benissimo, ma che appartiene alla lingua (ossia forse alla cultura musicale italiana) in modo particolare [...] si tratta di un derivato da ‘vocale’, a sua volta derivato da ‘voce’. Nel processo, il termine si allontana dall’individualità di ‘voce’ (legata alla fisicità ed alla produzione della medesima, il cantante); assume invece un carattere più generale e ‘teorico’, anche se non esattamente ‘astratto’ [...] E’ chiaro che nel parlare di ‘vocalità’ in riferimento alla musica del Novecento intendiamo accostarci e selezionare una serie di fatti particolare (che hanno a che fare con la voce), assegnando alla voce una posizione ‘speciale’. Infatti non parliamo o non facciamo gran caso (anche se magari si potrebbe) alla ‘clari-nettisticità’, alla ‘cornisticità’ e così via. Val la pena di osservare che anche per uno strumento come il flauto, che in un momento particolare della post-avanguardia ha avuto un peso non trascurabile, si è preferita la concretezza del sintagma ‘Gazzelloni-Musik’ ad una pur legittima ‘flautisticità’ [...] L’analogia grammaticalmente più prossima a ‘vocalità’ che viene in mente a proposito del nostro tema è ‘aleatorietà’; qui si vede anche la differenza maggiore però: ‘aleatorietà’ è termine indispen-sabile ma anche esclusivo (o almeno ben focalizzato su certi repertori storicizzati del secondo Novecento), mentre ‘vocalità’ si estende universalmente ad ogni angolo di storia musicale [...] al di là del rinnovamento del linguaggio compositivo, il Novecento storico eurocolto ha ereditato lungamente (in qualche modo dandolo per scontato) un tipo di tradizione e di tipologizzazione vocale che apparteneva al sistema del repertorio ottocentesco. [...] Da un lato si è fatto riferimento nella composizione a dei tipi ‘vocali’ relativamente stabili (in altre parole si è usata la voce come se fosse un altro strumento, con una precisa tessitura e secondo una modalità di produzione del suono ben definita, sia essa legata al repertorio di matrice franco-italiana ovvero wagneriana, o infine liederistica). Dall’altro lato si è ereditata dalla tradizione medio-ottocentesca la centralità dell’elemento compositivo (cioè a dire fra compositore ed esecutore chi guida il gioco è certamente il primo). Questo non equivale a dire che l’esecutore non abbia importanza, ma sempre all’interno di una divisione del lavoro nella quale i ruolo sono mutuamente accettati. Quanto questo sia vero lo si verifica anche per opere che suonano assolutamente ‘nuove’ [...] nell’uso della voce, come lo stesso Pierrot. Albertine Zehme, che commissionò l’opera era principalmente un’attrice e, ciò nonostante, aveva in mente come punto di riferimento un lavoro di tipo liederistico [...] Dal diario berlinese di Schönberg non risulta che la Zehme abbia avuto parte nella messa a punto dello Sprechgesang, che fu dunque essenzialmente un atto ‘compositivo’. Ma forse è ancora più significativo il paradosso che l’inclusione in un’opera musicale fondamentale di un artificio essenzialmente ‘teatrale’ sia poi

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    entrato nella coscienza critica piuttosto come un dato di sperimentazione ‘vocale’. Prendendo come punto di riferimento le ‘opere’ in quanto testi musicali, cioè essenzialmente come lavoro del com-positore, si perdono di vista fattori di ordine performativo che sono più rilevanti nel considerare ‘la vocalità’ per se stessa. In altre parole, sotto il profilo storico e della Wirkungsgeschischte il Pierrot schönberghiano appare più significativo ed individuato per la concezione drammaturgico-com-positiva e timbrica generale che sotto il profilo della ‘vocalità’ in quanto tale [...] E’ probabile che la data di inizio di una modernità vocale nella sfera eurocolta debba essere posdatato alla seconda metà del secolo. Vengono in mente, in un contesto di ‘opere’, la Stimmung di Stockhausen (1968) o il Requiem di Ligeti. Ma si potrebbero viceversa tenere in considerazione i ‘procedimenti’, vale a dire le elaborazioni, deformazioni o riformazioni di materiali vocali, e allora i riferimenti sono il Canto sospeso di Nono, il lavoro di Pierre Schaeffer e quelli dello studio di fonologia della RAI di Milano. [...] Oppure ci si può collegare con l’attività ‘creativa’ di un cantante: allora il nome più ovvio è quello di Cathy Berberian, ma ve ne sono altri di altrettanto buoni. Uno ottimo, parlando di voce, è Carmelo Bene (quello del Pinocchio in particolare), anche se si potrebbe lamentare un nesso troppo tenue con la tradizione specificamente musicale [...] Mi sembra probabile che la mo-dernità vocale si sia prodotta anche come violazione delle ‘tipologie vocali’ tradizionali da parte di compositori e cantanti. [... Nello stesso tempo] è verificabile una rispondenza fra l’affermarsi di vocalità realmente moderne e la riscoperta delle pratiche musicali ‘antiche’. L’analogia parziale fra questi fenomeni non sta solo nella negazione del fardello ottocentesco. In fin dei conti nella musica vocale solistica settecentesca (ma anche per parte del secolo successivo) la centralità del testo/partitura cede il passo ad una centralità del testo performativo, cioè a dire dalle modalità esecutive dei singoli cantanti per le cui particolari ‘abilità’ un testo veniva scritto, e ai quali ‘servi-va’. [...] D’altra parte, i risultati del lavoro esecutivo cosiddetto ‘filologico’ vanno ad incontrare sul piano dell’influenza specificamente stilistico vocale i repertori novecenteschi. [...] I caratteri a cui mi riferisco sono il gusto per il timbro morbido, l’assenza quasi completa di vibrato, la condotta omogenea delle frasi, l’articolazione del testo verbale resa secondaria rispetto all’esigenza di omo-geneità [...] Il che ci porta al nocciolo del problema. Il modo in cui si produce un ‘corto circuito’ (o chiamiamolo ‘influenza’) è l’ampia disponibilità di modelli od esempi vocali diversissimi attraverso l’ascolto riprodotto. [...] Allora potremmo proporre come termine per l’inizio del Novecento vocale il momento (o piuttosto la fase) dell’ampia diffusione di quel tipo particolare di ‘testi’ che sono i ‘testi discografici’. Dal punto di vista di una nozione di vocalità che abbia al suo centro l’individualità

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    di un singolo modo di cantare, di un singolo ‘stile’ [...] è certamente questo il fatto più importante del secolo [...] L’ascolto riprodotto è importante sotto vari aspetti: da un lato ‘stabilisce’ un nuovo tipo di testo (la fonte sonora); dall’altro rende possibile lo sviluppo di tipi di vocalità che nascono e stanno in diretto rapporto con gli strumenti registrazione ed amplificazione disponibili [...]».

    d) Contesto e applicazione

    Una via percorribile al fine

    di ristabilire legami migliori tra

    chi studia canto, chi lo insegna e

    le “nuove” esigenze sia dei com-

    positori sia della società in cui

    cantanti, didatti e compositori

    si trovano a operare è quella di

    rivalutare i concetti di contesto

    e applicazione riferiti alla voce

    e non solo. L’arte applicata secondo Ananda Cooma-raswamy non è appannaggio

    esclusivo delle epoche passate, quando l’opera d’arte rivestiva una precisa funzione sociale e anche

    l’artista vi trovava un posto riconoscibile (e riconosciuto da chi foraggiava le imprese artistiche, vale

    a dire i mecenati), ma può e deve essere riconsiderata come obiettivo imprescindibile anche dell’arte

    contemporanea. Benché morto nel lontano 1947, il critico d’arte Ananda Coomaraswamy criticava

    aspramente la cultura museografica che allineava nel corridoio di un museo opere d’arte concepite per

    contesti e applicazioni totalmente differenti (un Budda nel suo tempio, un dipinto nel suo ambiente etc.)

    e insieme rifiutava una concezione facilmente “estetica”, fondata sul bello che disattende gli sbocchi

    applicativi e inneggia a un gratuito, e chiuso in se stesso, “bello per il bello”. Posizioni decise le sue, che

    però in questi ultimi decenni, dopo l’esasperazione dell’arte funzionale, sembrano trovare conferma in

    nuove importanti espressioni dell’arte contemporanea (dall’arte povera a quella che dell’utilità sociale

    fa uno scopo imprescindibile).

    Il messaggio di Coomaraswamy, d’altra parte, corre parallelo a quello messo in atto da alcuni

    compositori del secondo ‘900 – dalle “musiche da tappezzeria” (musique d’ameublement) di Eric Satie

    alle provocazioni “contestuali” di John Cage e altri compositori del “post-modernismo” americano, dal

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    Poéme electronique di Iannis Xenakis e Edgar Varése per lo storico Padiglione Philips dell’esposizione di

    Bruxelles nel 1959 alle varie musiche per aeroporti di Brian Eno, al World Soundscape Project di Murray

    Schafer, alle sonorizzazioni di musei e ambienti pubblici –, tutti progetti intesi a recuperare in nuove

    vesti la musica applicata, al di là dei fraintendimenti scaturiti da una visione “nobile” e distaccata del prodotto artistico convertito in oggetto da vetrina, elegante soprammobile la cui funzione è di stare

    là dove viene messo, bello e indifferente, senza possibilità di interferire con l’ambiente circostante.

    All’opposto della musica concepita per puri scopi estetici, la “musica contestuale” si pre-figge l’obiettivo di valorizzare il contesto circostante, rapportandosi ad esso con il preciso scopo di

    influenzarlo e farsi influenzare. E’ una relazione simbiotica quella che vuole stabilire, convinta che il

    contesto non rimarrà indifferente né la lascerà indifferente, ma anzi le permetterà di assumere forma

    e funzione più adeguate ed efficaci.

    Il testo di riferimento è Ananda Coomaraswamy, Selected papers – Traditional Art and Symbolism, Princeton University Press, 1977 (tr. it. Il grande brivido – Saggi di simbolica e arte, Adelphi Edizioni, Milano, 1986). Sulla “musica contestuale” si veda invece Riccardo Piacentini, Musica contestuale, in “NC News”, Roma, gennaio 2000 (cfr. in coda alla dispensa), mentre un testo che illustra le direttive ideali che stanno alla base di uno dei progetti più articolati e interessanti di musica applicata all’ambiente, il World Soundscape Project, è Murray Schafer, The Tuning of the World, New York, 1977 (tr. it. Il paesaggio sonoro, LIM, Milano, 1985).

    LETTURA (da Il grande brivido – Saggi di simbolica e arte, pag. 205 e segg.). «Noi trattiamo l’ ‘arte’ come un lusso che l’uomo comune difficilmente può permettersi, e come qualcosa che ha il suo luogo ideale in un museo più che in una casa o in un ufficio commerciale [...] Vien da chiedersi se il nostro ‘alto tenore di vita’ sia davvero qualcosa di più di un alto tenore di spesa [...] In tutto ciò pare esserci qualcosa che è sfuggito all’attenzione dei nostri moderni uomini di cultura impegnati nell’insegnamento dell’arte [...] e dei nostri esponenti della dottrina dell’arte come espressione di sé, o comunque come espressione di emozioni, o ‘sentimenti’. [...] “quando si cominciò a scendere a compromessi sui princìpi, inevitabilmente le arti presero a deteriorarsi”. [... L’arte] “può di nuovo essere prodotto, non più come espressione inevitabile del tempo e delle circostanze, ma ancora come qualcosa che soddisfi la mente nauseata dalla sovrabbondante ornamentazione e dalla mera ostentazione”, prodotto – [...] perché no? – per “gente di mezzi limitati ma raffinata nei gusti [...] che sia alla ricerca di cose che uniscono in sé la convenienza pratica e un’affascinante sobrietà”. In altre parole, bisogna for