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SINTESI DELLE ATTIVITA’ DI ESPLORAZIONE, SVILUPPO E PRODUZIONE DEI GIACIMENTI PETROLIFERI a cura di Renzo Mazzei

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SINTESI DELLE ATTIVITA’ DI ESPLORAZIONE,

SVILUPPO E PRODUZIONE DEI GIACIMENTI

PETROLIFERI

a cura di Renzo Mazzei

Maggio 2009

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INDICE DEL TESTO

SINTESI DELLE ATTIVITA’ DI ESPLORAZIONE, SVILUPPO E PRODUZIONE DEI GIACIMENTI PETROLIFERI …………………………………………………..

Il petrolio dall’antichità ad oggi ……………………………………………………….Come si è formato il petrolio ………………………………………………………….La migrazione del petrolio …………………………………………………………….Le trappole …………………………………………………………………………….Efficienza di accumulo ………………………………………………………………..Gli idrati di metano ………………………………………………………………........

ESPLORAZIONE PETROLIFERA …………………………………………………..Esplorazione della trappola ………………………………………………………........

LA PERFORAZIONE E IL COMPLETAMENTO DEI POZZI ……………………..La perforazione ………………………………………………………………………..Pozzi deviati, orizzontali, multilateral ………………………………………………...La perforazione offshore …………………………………………………………........Il completamento ……………………………………………………………………...

IL GIACIMENTO: SUE CARATTERISTICHE, COMPORTAMENTO IN FASE PRODUTTIVA E RELATIVI STUDI ………………………………………………..Studi di giacimento ………………………………………………………………........Meccanismi naturali di produzione ……………………………………………………Olio recuperabile ………………………………………………………………………Ottimizzazione della produzione ……………………………………………………...Monitoraggio dei pozzi e del giacimento durante la produzione ……………………...La decisione di abbandonare un giacimento …………………………………………..

TECNICHE DI SVULUPPO DEI GIACIMENTI E TRATTAMENTO DEI FLUIDI PRODOTTI ……………………………………………………………………………Giacimenti a terra ……………………………………………………………………...Giacimenti in mare …………………………………………………………………….Piattaforme offshore …………………………………………………………………...Trattamento dei fluidi prodotti ………………………………………………………...Trattamento dell’olio ………………………………………………………………….Trattamento del gas ……………………………………………………………………

TRASPORTO DEGLI IDROCARBURI ……………………………………………...Trasporto del greggio in condotta ……………………………………………………..Trasporto del gas in condotta ………………………………………………………….Tecniche di costruzione e posa delle condotte a terra ………………………………...Tecniche di costruzione e posa delle condotte sottomarine …………………………..Trasporto del greggio via nave ………………………………………………………..Trasporto del gas via nave …………………………………………………………….Altri sistemi di trasporto del gas ………………………………………………………

LO STOCCAGGIO DI GAS NATURALE IN SOTTERRANEO E SUE PROBLEMATICHE …………………………………………………………………..BIBLIOGRAFIA ………………………………………………………………………………………..

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INDICE DELLE FIGURE

Fig. 1 - Diagramma semplificato della generazione d’idrocarburiFig. 2 - Migrazione primaria e secondaria degli idrocarburiFig. 3 - Esempio di alcuni tipi di trappoleFig. 4 - Varie tecniche di rilevamentiFig. 5 - Esempio di sezione sismica interpretataFig. 6 - Alcuni tipi di scalpelli usati nella perforazione dei pozziFig. 7 - Esempi di pozzi deviati e orizzontaliFig. 8 - Alcune tipologie di pozzi orizzontali multilateralFig. 9 - Schema di completamento di un pozzo: (a) singolo; (b) doppio Fig. 10 - Schemi di completamento con pompa centrifuga, ESP (a sinistra) e gas lift (a destra)Fig. 11 - Andamento della saturazione in acqua in funzione della pressione capillare e della altezza sulla tavola d’acqua in un giacimento ad olioFig. 12 - Esempio di log interpretatoFig. 13 - Curve di permeabilità relativa in sistemi gas/olio e acqua/olioFig. 14 - Esempio di pressione anomala (sovrappressione)Fig. 15 - Giacimenti ad olio in cui il principale meccanismo di spinta è il gas in soluzione (a sinistra) o la concomitante azione dell’acquifero e del gas cap (a destra) Fig. 16 - Giacimenti ad olio che producono principalmente sotto l’azione di spinta del gas cap ( a sinistra) o dell’acquifero (a destra)Fig. 17 - Esempio d’iniezione d’acqua periferica a linee radialiFig. 18 - Principali modelli d’iniezione in olioFig. 19 - Esempi di vari tipi di strutture di produzione off shoreFig. 20 - Esempio di piattaforma fissaFig. 21 - Esempio di piattaforma a gravitàFig. 22 - Piattaforma tipo compliant towerFig. 23 - Piattaforme TPL (Tension Leg Platform) (a sinistra) e Mini TPL (a destra)Fig. 24 - Piattaforme SPAR (a sinistra) e Truss SPAR (a destra)Fig. 25 - Impianti di produzione galleggianti tipo FPS (Floating Production System) (a sinistra) e FPSO (Floating Production Storage & Offloading) (a destra) Fig. 26 - Esempio di separatore trifaseFig. 27 - Schema di colonna di strippaggioFig. 28 - Schema dei processi di trattamento cui è sottoposto un olio greggio a seconda delle sue caratteristicheFig. 29 - Schema dei trattamenti effettuati ai vari tipi di gas prodotti Fig. 30 - Esempio di condotta posata su fondali irregolariFig. 31 - Schema che illustra il ciclo di produzione e trasporto del GNLFig. 32 - Schema di un terminale di ricezione e rigassificazione del GNLFig. 33 - Esempio di stoccaggio di gas in giacimenti gassiferi esauritiFig. 34 - Schema di costruzione di una caverna artificiale per lo stoccaggio di gas in un deposito salino

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SINTESI DELLE ATTIVITA’ DI ESPLORAZIONE, SVILUPPO E

PRODUZIONE DEI GIACIMENTI PETROLIFERI

di Renzo Mazzei

La parola “petrolio”, dal latino petrae oleum (olio di pietra), è un termine generico ed è comunemente usato in modo intercambiabile con il termine “idrocarburi”. Il petrolio, infatti, non è altro che una miscela d'idrocarburi (liquidi, gassosi e solidi), composti organici costituiti da carbonio e idrogeno che contengono spesso nella loro molecola anche atomi d'azoto, ossigeno, zolfo e altri elementi. Nel gergo petrolifero si chiama comunemente “olio” (greggio in termini commerciali) la miscela d'idrocarburi liquidi alle condizioni ambientali normali e “gas naturale” o semplicemente “gas” (il cui principale costituente è il metano), quella che alle stesse condizioni è in fase gassosa.

Il petrolio dall’antichità a oggiIl petrolio era conosciuto fin dall’antichità ed è citato da diversi autori antichi e nella Bibbia. Esso era conosciuto in quanto in alcune parti del mondo sgorgava spontaneamente dal sottosuolo ed era utilizzato per impermeabilizzare gli scafi delle barche, come conservante del legno e delle pelli, come medicinale, come legante per l’edilizia (i mattoni con cui fu costruita la città di Babilonia sono legati tra loro con il catrame), oltre che come combustibile e per l’illuminazione. L’industria estrattiva moderna viene fatta coincidere con l’anno 1859, quando il colonnello Edwin Drake perforò con successo il primo pozzo petrolifero ad Oil Creek, a valle del villaggio di Titusville in Pennsylvania (USA). A quell’epoca il petrolio cominciò ad essere utilizzato soprattutto per l’illuminazione. Infatti, un suo distillato, il cherosene, bruciato nel “lume a petrolio”, determinò un incredibile boom economico in quanto forniva una fonte d’illuminazione limpida e splendente, rispetto alle candele, che permetteva di prolungare la giornata sia nelle fabbriche che nelle abitazioni.Oggi il petrolio è importante soprattutto come fonte d’energia e come materia prima per l’industria petrolchimica e nell’ultimo secolo ha sopravanzato tutte le altre fonti d’energia, compreso il carbone che nel 1800 e per buona parte del 1900 aveva dominato lo scenario energetico mondiale alimentando le macchine a vapore. Con l’avvento dei motori a combustione interna, il petrolio ha preso rapidamente il sopravvento, grazie al maggior potenziale energetico, ma soprattutto per le sue più agevoli facilità d’estrazione e trasporto e per la maggiore flessibilità d’impiego.

Come si è formato il petrolio E’ oggi ormai unanimemente accettata la tesi secondo cui esso ha avuto origine dalla degradazione termica e microbica della materia organica, vegetale e animale, accumulata nel corso delle ere geologiche sui fondali marini e lacustri insieme al fango che si è poi trasformato in una roccia argillosa.Cerchiamo ora di capire come si arriva al petrolio partendo dalla materia organica e come dopo che si è formato va ad accumularsi in determinate parti della terra dando origine ai giacimenti. In pratica sui fondali marini e lacustri nel corso di milioni d’anni va ad accumularsi, per decantazione, una quantità di materiale fine fangoso portato in sospensione dalle acque torbide e, sepolta insieme a tale materiale, si accumula anche una quantità di materia organica costituita principalmente da plancton (piccoli organismi animali e vegetali che vivono in sospensione nelle acque e che man mano che muoiono cadono sul fondo), ma anche da resti di pesci e d'alghe e di piante provenienti dalla terraferma. Ciò che è importante è che tale materia organica, una volta caduta sui fondali, non sia distrutta da organismi che vivono sul fondo (vermi, lumache, gamberetti, ecc.) o da microbi che ne determinano la decomposizione e

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l’ossidazione, i quali comunque possono sopravvivere solo se l’ambiente è ricco d'ossigeno (ossidante). La conservazione della materia organica è perciò legata a fattori che inibiscono l’ossidazione, primo fra tutti la deposizione in condizioni anaerobiche (prive d’ossigeno) caratteristiche delle acque stagnanti. Tipici esempi di tali condizioni si riscontrano oggi nel Mar Nero, nel Golfo di Maracaibo in Venezuela, lungo le coste del Perù e della Penisola Araba, al largo delle coste della Namibia e nei laghi dell’Africa centrale. Nel corso di milioni d’anni strati fangosi contenenti materia organica si sono accumulati gli uni sugli altri e, poiché i fondali tendono gradualmente a sprofondare per effetto della subsidenza, la pila di sedimenti accumulati è venuta a trovarsi a diverse migliaia di metri di profondità e quindi in condizioni d'alta pressione e temperatura. Durante un processo chiamato “diagenesi” (in cui sono attivi processi geochimici e mineralogici) il materiale inorganico accumulato si è trasformato in una roccia argillosa che in gergo petrolifero viene chiamata “roccia madre”, mentre la materia organica ha subito una serie di trasformazioni che hanno portato alla formazione di una sostanza solida ad alto peso molecolare chiamata kerogene. In seguito, con l’aumento della temperatura il kerogene si è trasformato, per distillazione naturale, in idrocarburi liquidi o gassosi a seconda dei gradi di temperatura raggiunti e della composizione del kerogene di partenza. E’ stato scientificamente provato che in un intervallo di temperatura compreso tra 80° C e 150° C si ha generazione d'olio (tale intervallo è chiamato “finestra dell’olio”), mentre a temperature superiori l’olio comincia a trasformarsi in gas (Fig. 1).

Fig.1 - Diagramma semplificato della generazione d’ idrocarburi.

La genesi del gas non è tuttavia dovuta solo a tale tipo di processo; esiste infatti nel mondo un 20 % di giacimenti di metano d'origine biogenica, generato cioè da batteri metanogenici attraverso processi di fermentazione o di riduzione del biossido di carbonio, che possono avvenire a temperature relativamente basse (ne è testimonianza quasi tutto il gas della Pianura Padana e dell’Adriatico).

La migrazione del petrolioFinora si è parlato del processo di genesi del petrolio avvenuto all’interno della roccia madre. Ma non è qui che il petrolio deve essere ricercato in quanto in seguito a periodi di forte sedimentazione e di subsidenza, il crescente carico geostatico provoca una progressiva compattazione della roccia madre con conseguente riduzione del suo volume poroso. I fluidi in essa contenuti vengono quindi parzialmente espulsi (prima l’acqua poi il petrolio che va via via formandosi) e migrano in adiacenti strati rocciosi porosi e permeabili chiamati “roccia serbatoio”. E’ questa la cosiddetta “migrazione primaria” in cui il flusso avviene prevalentemente in senso verticale ed è limitato a distanze non superiori a qualche centinaio di metri (Fig 2).

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Una volta raggiunti gli strati porosi e permeabili, gli idrocarburi continuano a muoversi all’interno di essi sotto la spinta di galleggiamento e, correndo lungo piani inclinati, cercano di risalire verso la superficie. Questa seconda fase migratoria, che è chiamata “migrazione secondaria” e che è caratterizzata da un flusso prevalentemente laterale, può svilupparsi anche su grandi distanze (talvolta superiori a 1.000 km) e s’interrompe solo quando gli idrocarburi incontrano, durante il loro cammino, particolari configurazioni degli strati geologici chiamate “trappole”, in grado d’intrappolarli e conservarli, altrimenti essi continueranno il loro cammino fino in superficie e ivi si disperderanno dando origine a manifestazioni (Fig.2).

Fig. 2 - Migrazione primaria e secondaria degli idrocarburi.

Perché possa formarsi un accumulo petrolifero è quindi necessario che si verifichino le seguenti condizioni:

la presenza di rocce madri nel bacino di sedimentazione ricche di materia organica e sufficientemente mature dal punto di vista termico, in grado di generare idrocarburi;

la presenza di una roccia serbatoio porosa e permeabile in grado di contenere gli idrocarburi;

la presenza di una roccia impermeabile (tipo argilla o evaporite) al tetto della roccia serbatoio (chiamata roccia di copertura) che ne garantisca la conservazione;

la presenza di una trappola che arresti la migrazione degli idrocarburi.

Le trappoleNumerosi sono i tipi di trappole conosciute e in base alla forma e alle condizioni di formazione vengono distinte in tre grandi gruppi: strutturali, stratigrafiche e miste (Fig. 3).Le trappole strutturali si formano in seguito alla deformazione degli strati geologici causata da tensioni nella crosta terrestre. Tipiche trappole strutturali sono le “anticlinali”, pieghe positive a forma di cupola e le “chiusure per faglia”, in cui strati porosi e permeabili associati a rocce di copertura vanno a contatto con strati di roccia impermeabile lungo un piano di faglia. Le anticlinali sono le più facili da individuare, quindi sono anche le prime ad essere sfruttate in un bacino sedimentario. Le trappole stratigrafiche possono essere dovute a una variazione litologica laterale della roccia serbatoio, in cui gli strati porosi e permeabili sono sostituiti (per sedimentazione) da strati impermeabili oppure ad una interruzione della roccia serbatoio per erosione degli strati dovuta ad un periodo d'esposizione in superficie e a un successivo ricoprimento con rocce impermeabili. Le trappole miste sono quelle in cui la componente stratigrafica è associata a quella strutturale.

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Fig. 3 - Esempio di alcuni tipi di trappole.

Efficienza di accumuloUn argomento molto dibattuto tra i geologi del petrolio riguarda lo studio dell’efficienza d'accumulo nei bacini petroliferi, per stabilire quanto del petrolio generato dalla roccia madre riesce in realtà ad accumularsi e a conservarsi nelle trappole e quindi è potenzialmente scopribile. E’ stato stabilito che di tutto il petrolio generato in un bacino sedimentario solamente una quantità di poco superiore al 10 % riesce in definitiva ad accumularsi e conservarsi nelle trappole. Infatti, circa il 25 % rimane, come olio residuo, nella roccia madre aderente ai grani della roccia e del kerogene; il 50 % circa dell’olio espulso dalla roccia madre si perde durante la fase di migrazione secondaria perché trattenuto dalle pareti dei pori della roccia veicolante ed il 10 % si disperde in superficie evitando le trappole; quindi solo il 40 % dell’olio espulso raggiunge le trappole. Inoltre, il 25 % dell’olio accumulato si perde in un lento processo d’infiltrazione attraverso la roccia di copertura ed un 25 % del rimanente viene perso per processi chimico-fisici e batterici. Nelle modellizzazioni di bacino, per eseguire previsioni quantitative sui luoghi dove esistono maggiori probabilità di trovare giacimenti petroliferi, le valutazioni sopra indicate sono tenute in debita considerazione in funzione delle caratteristiche delle rocce madri e di quelle serbatoio presenti.

Gli idrati di metanoUn caso particolare d'accumulo di gas riguarda i cosiddetti “idrati di metano”, che sono composti solidi simili al ghiaccio in cui le molecole d’acqua disposte in reticoli cristallini presentano lacune nelle quali sono intrappolate le molecole di metano. Simili composti si formano in presenza di elevate pressioni e/o basse temperature, condizioni che si riscontrano oggi nei fondali oceanici e nel “permafrost” (strato di terreno permanentemente gelato tipico delle aree a clima freddo delle alte latitudini). In tali ambienti sono stati valutati potenziali energetici in metano che superano di gran lunga la somma di tutte le riserve di combustibili fossili del mondo (olio, gas, carbone).

ESPLORAZIONE PETROLIFERA

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L’esplorazione petrolifera comprende una serie di attività che vanno dalla raccolta di dati e informazioni riguardanti un bacino sedimentario, per verificarne l’eventuale potenzialità petrolifera, ai rilevamenti geologici e geofisici a carattere regionale e di dettaglio, per determinare la presenza di possibili trappole, fino alla perforazione del pozzo esplorativo che può condurre alla scoperta di un giacimento. Verificare le potenzialità petrolifere di un bacino sedimentario è molto importante (se non ancora esplorato) prima di intraprendere qualsiasi attività di ricerca in una determinata zona, in quanto è necessario conoscere se in quel determinato bacino ci sono state le condizioni favorevoli sia per la genesi di idrocarburi, che per il loro accumulo.E’ importante ricordare che non è raro incontrare in una stessa struttura più accumuli d’idrocarburi, distanti tra loro in verticale alcune centinaia e talvolta anche più di mille metri, appartenenti a epoche geologiche diverse e lontane tra loro decine se non centinaia di milioni d'anni.Una volta completati gli studi per verificare le potenzialità petrolifere di un bacino sedimentario, i successivi studi saranno prevalentemente a carattere geologico e geofisico e saranno mirati ad individuare la presenza di possibili trappole, determinanti per intrappolare gli idrocarburi durante la loro migrazione. Infatti, ad oggi non esiste ancora una tecnologia in grado di individuare direttamente un giacimento petrolifero e tutte le tecnologie disponibili, se pur d'altissimo livello, sono mirate a ricostruire la configurazione geologica del sottosuolo ed a individuare le possibili trappole. Sarà poi la perforazione di un pozzo a determinare se la trappola esplorata è sede di un accumulo petrolifero e se in quantità economiche. Anticamente i primi pozzi petroliferi furono ubicati in base esclusivamente a manifestazioni d'idrocarburi in superficie. Successivamente, per individuare le zone favorevoli agli accumuli furono determinanti i rilevamenti geologici di superficie. Ciò era però possibile solo in zone dove le formazioni geologiche erano affioranti in quanto, studiandone le caratteristiche e la loro giacitura in superficie, era possibile estrapolare la loro configurazione nel sottosuolo. Quando le ricerche hanno cominciato a spostarsi in aree prive o lontane dagli affioramenti, come le grandi pianure e in seguito le zone off shore, è stato indispensabile disporre di tecniche e tecnologie che fossero in grado di permettere la ricostruzione del sottosuolo geologico per via indiretta. Sono nate quindi le prospezioni geofisiche, che possono essere di tipo gravimetrico, magnetometrico, magnetotellurico e sismico. Le prime tre sono indagini passive in quanto non richiedono sorgenti d’energia artificiali e servono a dare alcune utili indicazioni soprattutto a carattere regionale sull’assetto geostrutturale del sottosuolo, mentre le prospezioni sismiche, per le quali è invece richiesta una sorgente d'energia in grado di generare onde acustiche che penetrano nel sottosuolo, sono risultate determinanti per l’individuazione e la delimitazione delle trappole (Fig. 4).I rilevamenti gravimetrici consistono nella determinazione delle anomalie dell’accelerazione di gravità terrestre (misurata in più punti di una determinata zona tramite strumenti chiamati “gravimetri”), provocate da contrasti di densità tra corpi presenti nel sottosuolo. Le misure gravimetriche sono eseguite in modo sistematico, in terra, in mare e per via aerea, in punti regolarmente distribuiti su reticoli in grado di coprire l’intera area da esplorare. Successivamente vengono costruite mappe, le cui curve rappresentano linee d'ugual valore d'anomalia e che viste in un contesto regionale riproducono approssimativamente l’andamento geostrutturale del sottosuolo.I rilevamenti magnetometrici consistono nel misurare in una serie di punti, tramite strumenti chiamati “magnetometri”, le anomalie locali del campo magnetico terrestre e sono utilizzati già da diversi anni soprattutto per la ricerca dei minerali. Tuttavia essi sono utili anche per le ricerche petrolifere in quanto consentono di ottenere informazioni sui caratteri strutturali e sulla profondità del basamento cristallino, permettendo quindi di misurare indirettamente lo spessore della serie sedimentaria giacente su di esso. Tali rilevamenti consentono inoltre di localizzare e dimensionare corpi vulcanici o plutonici entro la serie sedimentaria.

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I rilevamenti magnetotellurici consistono nel misurare le variazioni temporali del campo elettromagnetico naturale. Essi si basano sul principio che le onde elettromagnetiche a bassa

Fig. 4 - Varie tecniche di rilevamenti.

frequenza, chiamate anche magnetotelluriche, generate nella ionosfera (parte più alta dell’atmosfera terrestre) e nella magnetosfera (regione dello spazio in cui è confinato il campo magnetico terrestre), penetrando nei terreni del sottosuolo sono influenzate dalle anomalie di resistività che producono un campo elettromagnetico secondario, le cui caratteristiche dipendono dall’andamento della conduttività dei terreni. La definizione e la descrizione di tali campi elettromagnetici secondari costituiscono un mezzo per conoscere l’assetto geostrutturale del sottosuolo e soprattutto di differenziare, nei bacini sedimentari, rocce porose e permeabili da rocce compatte, siano esse basaltiche, granitiche o massive tipo i calcari compatti e le anidridi. I rilevamenti magnetotellurici sono stati un valido supporto nella valutazione mineraria (dal punto di vista petrolifero) dei bacini sedimentari del Golfo del Messico e dell’Atlantico settentrionale.

Fig. 5 - Esempio di sezione sismica interpretata.I rilevamenti sismici a riflessione sono, fra i metodi d’indagine geofisica, quelli che vengono maggiormente utilizzati nelle ricerche petrolifere, in quanto permettono di ottenere

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una ricostruzione piuttosto dettagliata della configurazione geologico-strutturale del sottosuolo e quindi di individuare e delimitare le possibili trappole per gli accumuli di idrocarburi (Fig. 5). Per la loro esecuzione essi utilizzano una sorgente d'energia, prodotta artificialmente, in grado di generare onde elastiche (sismiche), che penetrando nel sottosuolo ritornano in superficie riflesse da superfici di discontinuità rappresentate da strati geologici di diversa composizione e registrate con opportuni sensori (Fig. 4).Generalmente quale sorgente d'energia per i rilevamenti a terra vengono utilizzate cariche di dinamite, che vengono fatte esplodere in pozzetti profondi da 3 m a 30 m perforati per l’occasione oppure, in zone abitate o in ambienti protetti dal punto di vista ambientale, da vibratori costituiti da veicoli pesanti che producono oscillazioni meccaniche e le trasmettono al terreno per mezzo di piastre solidali a masse. Nei rilevamenti in mare, per non danneggiare la fauna ittica, la sorgente d'energia è rappresentata da cannoni ad aria compressa che producono un’iniezione improvvisa d’aria fortemente compressa (fino a oltre 170 bar) in mare ad una profondità di 3 – 10 m o superiore. I sensori utilizzati per la registrazione delle onde sismiche riflesse dagli strati geologici del sottosuolo sono chiamati “geofoni”, nei rilevamenti a terra e “idrofoni”, in quelli in mare. Registrando l’onda riflessa in superficie si è in grado di valutare il tempo da questa impiegato per il percorso d'andata e ritorno e, conoscendo la velocità di trasmissione del suono attraverso i vari strati attraversati, di risalire alla profondità della superficie riflettente e alla sua pendenza.In un rilevamento sismico l’operazione di generazione dell’impulso e di registrazione dell’onda riflessa viene ripetuta lungo profili tra loro allineati e perpendicolari (profili o linee sismiche 2 D), la cui interpretazione permette di generare mappe della configurazione degli strati geologici del sottosuolo e quindi di individuare possibili trappole. Nei rilevamenti sismici a terra i geofoni sono distesi sulla superficie del suolo mentre in quelli in mare gli idrofoni sono montati entro un cavo galleggiante trainato da navi opportunamente attrezzate e mantenuto stabilmente a profondità di 5 – 20 metri; un cavo sismico può essere lungo fino a 10 chilometri.La tecnologia dei rilevamenti sismici si è perfezionata nel tempo permettendo di ottenere risultati sempre più sorprendenti. Già da diversi anni sono comunemente utilizzati i rilevamenti sismici 3D (tridimensionali), che attraverso un miglioramento nella tecnica d'acquisizione (in cui generatori d’impulsi e sensori sono distribuiti all’interno di un’area anziché lungo profili) permettono un’interpretazione in tre dimensioni. Se poi lo stesso rilevamento è ripetuto nel tempo (a distanza di uno o più anni) in un giacimento in produzione, si è in grado di rilevare eventuali variazioni in termini di saturazione in fluidi e della quota della tavola d’acqua. Sono questi i rilevamenti sismici 4 D, in cui la quarta dimensione è rappresentata dal tempo.Attraverso elaborazioni speciali eseguite sui profili sismici registrati si è inoltre in grado, per esempio tramite un’analisi delle anomalie d’ampiezza delle onde riflesse, di ottenere utili informazioni qualitative sulla porosità della roccia serbatoio e, in particolari condizioni, indicazioni sul contenuto in fluidi.Per essere in grado d’interpretare i rilevamenti geofisici illustrati sopra, il geologo-geofisico interpretatore deve avvalersi dei dati e delle conoscenze acquisite in pozzi già perforati nella zona e/o di quelli d'aree affioranti ai margini dei bacini sedimentari. Per tale scopo possono risultare utili anche i rilevamenti di superficie eseguiti con l’aiuto di foto aeree o satellitari.

Esplorazione della trappolaUna volta individuata una possibile trappola attraverso i rilevamenti geofisici, per accertarsi se essa contiene idrocarburi e in quantità economicamente sfruttabile, è necessario perforare un pozzo esplorativo. Durante la perforazione possono verificarsi manifestazioni d'idrocarburi, sia nei detriti di roccia rimossi dallo scalpello (cuttings) sia nel fango di circolazione utilizzato durante la perforazione oppure nelle carote (campioni di roccia di forma cilindrica della lunghezza di alcuni metri) prelevate nel pozzo negli intervalli più interessanti per mezzo di

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speciali scalpelli chiamati “carotieri”, ma esse sono solo indicative e non determinanti per l’accertamento di un accumulo.Al termine della perforazione e comunque prima dell’installazione della colonna di rivestimento del pozzo, nel foro vengono registrati una serie di diagrammi (logs) di tipo elettrico, acustico e radioattivo, attraverso la cui interpretazione si sarà in grado di determinare la natura dei terreni attraversati e quella dei fluidi contenuti (Fig.12). Tuttavia per avere la certezza che la trappola esplorata contiene idrocarburi è necessario eseguire delle prove di produzione che, oltre a documentare la presenza d'idrocarburi attraverso l’erogazione in superficie, permettono di misurare la pressione e la temperatura del giacimento e, registrando e interpretando le variazioni di pressione sia in fase d'erogazione che durante la successiva chiusura del pozzo, di valutare la permeabilità media della roccia serbatoio, l’indice di produttività, la presenza d'eventuali barriere (faglie o variazione delle proprietà della roccia) ad una certa distanza dal pozzo e, se la prova ha una durata superiore a un mese, di ottenere indicazioni sul volume d'idrocarburi contenuto nella trappola.Un altro importante test che viene normalmente eseguito nel pozzo al termine delle perforazione è la cosiddetta “sismica di pozzo”, che serve a misurare la velocità delle onde sismiche attraverso i vari strati geologici e che risulta determinante quando s’interpretano i profili sismici per risalire alla profondità degli orizzonti riflettenti. La tecnica è piuttosto semplice e consiste nel generare un’onda sismica tramite una sorgente d'energia artificiale posta ad una certa distanza dal pozzo e nel misurare il tempo da questa impiegato per raggiungere un geofono calato in profondità nel pozzo.Dopo aver completato l’interpretazione dei logs e delle prove di produzione ed eseguite le analisi di laboratorio sulle carote e sui fluidi erogati, si esegue una valutazione preliminare del volume d’idrocarburi in posto e di quello che si pensa sia possibile produrre negli anni e se, in base a calcoli economici la scoperta risulta interessante, si procede alla fase cosiddetta di appraisal, consistente nella perforazione di uno, due o anche tre o quattro pozzi di conferma ubicati in altre parti del giacimento e, se positivi, si passa alla fase di sviluppo e sfruttamento.Si ricorda che la valutazione dell'economicità dello sfruttamento d'un giacimento petrolifero è un fattore molto importante e deve avere un certo margine di sicurezza. A seconda delle dimensioni e della complessità del giacimento, infatti, gli investimenti necessari per il suo sfruttamento possono superare uno o più miliardi di euro.

LA PERFORAZIONE E IL COMPLETAMENTO DEI POZZI

Le operazioni di perforazione e completamento di un pozzo petrolifero consistono nello scavare un foro nel sottosuolo di forma circolare e, se questo intercetta livelli produttivi, completarlo per la produzione, dotandolo cioè di particolari attrezzature adatte a portare in superficie gli idrocarburi. Negli anni la ricerca si è spostata da configurazioni geologiche semplici e facili da raggiungere a situazioni sempre più complicate o localizzate in ambienti ostili e di difficile accesso, comprese le acque profonde. Ciò ha determinato l’evoluzione di tecniche e tecnologie di perforazione e completamento dei pozzi che hanno raggiunto livelli altissimi. Si pensi ad esempio alla tecnica di perforazione in deviato e in orizzontale per mezzo della quale si possono raggiungere obiettivi localizzati a grandi profondità e a distanza di chilometri dal punto di partenza, con la possibilità di manovrarli dalla superficie eseguendo le più sofisticate operazioni a fondo pozzo, definibili “di alta chirurgia”. Si pensi anche alla perforazione in acque profonde, cioè in fondali marini superiori a 1.000 m, con tutte le problematiche legate alle condizioni meteo-marine e ai sistemi di ancoraggio adottati per eseguire in piena sicurezza le perforazioni.

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La perforazioneL’operazione di scavo di un pozzo è realizzata con sistemi a rotazione utilizzando scalpelli di varia forma a seconda del tipo di roccia da perforare, avvitati nella parte terminale di una sequenza di tubi d'acciaio (aste), messi in rotazione da motori elettrici o a combustione interna (Fig. 6). La perforazione è effettuata utilizzando una torre a traliccio, chiamata derrick o mast a

Fig. 6 - Alcuni tipi di scalpelli usati nella perforazione dei pozzi.

seconda del sistema adottato per il montaggio e lo smontaggio, che permette di manovrare le attrezzature di perforazione e altro materiale all’interno del pozzo. Il moto rotatorio che permette allo scalpello di frantumare la roccia è normalmente impresso su tutta la batteria di perforazione per mezzo di un’asta motrice azionata tramite la tavola rotary (costituita da un basamento fisso e da una piattaforma girevole azionata dai motori) oppure tramite un’attrezzatura chiamata top drive (testa motrice) in cui il motore è inserito direttamente alla testa dell’attrezzatura di perforazione, attraverso la quale viene iniettato anche il fango di perforazione. Durante lo scavo infatti, è necessario pompare in modo continuo, attraverso le aste e lo scalpello, del fango avente determinate caratteristiche di densità e viscosità, in grado di portare in superficie i detriti di roccia (cuttings) grazie al flusso di ritorno che si genera alle spalle della batteria di perforazione. Importante compito del fango di circolazione è anche quello di raffreddare lo scalpello e soprattutto di creare, grazie al suo peso, una contropressione verso gli strati geologici attraversati contenenti fluidi in pressione e quindi evitare pericolose eruzioni (blow out). Per questo motivo il fango di perforazione deve essere continuamente controllato sia per quanto riguarda le sue caratteristiche in termini di peso e viscosità, sia per quanto riguarda il suo livello in pozzo, che può variare in funzione di eventuali assorbimenti da parte degli strati geologici. Recentemente, per imprimere il movimento rotativo allo scalpello è stato introdotto l’uso di motori idraulici, posti a fondo pozzo al termine della batteria di perforazione, avvitati direttamente sullo scalpello e azionati dalla pressione del fango. In tal caso la batteria rimane ferma e ruota solo lo scalpello. Questo sistema di perforazione è generalmente utilizzato nei tratti di forte deviazione o nei tratti orizzontali. Per garantire la stabilità del pozzo e il completo isolamento idraulico dei vari strati attraversati, al termine della perforazione il foro viene rivestito con un tubo d'acciaio (casing) e cementato alle spalle con malta di cemento tramite una tecnica che prevede lo spiazzamento di questa dall’interno del casing, dove era stata immessa in fase semifluida, verso le spalle ad opera del fango in pressione. Poiché il raggiungimento dell’obiettivo minerario si realizza di solito attraverso la perforazione di fori di diametro decrescente, anche i casing avranno un diametro decrescente e saranno inseriti uno dentro l’altro in forma telescopica. La prima colonna, quella più superficiale, viene chiamata “colonna d'ancoraggio” in quanto su di essa sono ancorate le successive colonne di rivestimento, è fissata la testa del pozzo e sono montate le apparecchiature di sicurezza chiamate BOP (Blow Out Preventer). La lunghezza di tale colonna è variabile, in ogni caso deve essere tale da oltrepassare le falde acquifere d'acqua dolce superficiali onde evitare il loro inquinamento e garantire la piena sicurezza contro le massime pressioni previste a testa pozzo. La colonna più profonda, che generalmente raggiunge i livelli produttivi, di solito non arriva fino in superficie ma è ancorata sulla parte

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terminale della colonna precedente per un tratto di circa 100 m; in tal caso essa è chiamata liner.

Pozzi deviati, orizzontali, multilateralFra le tecniche e tecnologie maggiormente sviluppate nel campo della perforazione c’è sicuramente quella riguardante i pozzi deviati, i pozzi orizzontali e quelli multilateral (più tratti orizzontali a partire da uno stesso pozzo verticale) (Fig. 8).

Fig. 7 - Esempi di pozzi deviati e orizzontali.

La perforazione dei pozzi deviati si è resa necessaria per poter raggiungere località inaccessibili oppure per superare incidenti verificatisi nel pozzo verticale, ma si è maggiorente sviluppata per l’attività di ricerca off shore. Per poter mettere in produzione giacimenti localizzati nel sottosuolo marino tramite piattaforme fisse o galleggianti, i pozzi di sviluppo devono, infatti, necessariamente essere perforati in deviato, partendo a grappolo dalla piattaforma stessa. Secondo le esigenze un pozzo deviato può seguire diverse traiettorie: iniziare la deviazione a partire da una certa profondità (KOP, Kick-Off Point) e continuare poi con una pendenza costante (normalmente dai 30° ai 60°) fino all’obiettivo; iniziare la deviazione incrementando continuamente e gradualmente la pendenza fino all’obiettivo (talvolta fino a 90°); deviare, continuare in deviato fino ad una certa profondità e poi ritornare in verticale fino all’obiettivo; raggiungere l’obiettivo seguendo una certa deviazione e poi perforare il livello mineralizzato orizzontalmente per tratti compresi fra qualche centinaio di metri fino a oltre un chilometro (Fig. 7). Mentre la tecnica dei pozzi direzionati è stata adottata da lungo tempo, quella dei pozzi orizzontali è relativamente recente essendosi sviluppata intorno alla metà degli anni ’80 del secolo scorso ed è nata soprattutto con l’esigenza di aumentare la produttività dei pozzi in rocce serbatoio a bassa permeabilità o costituite da livelli abbastanza estesi ma di spessore relativamente piccolo. Oggi lo sviluppo di un giacimento con pozzi orizzontali è diventata quasi una routine in quanto anche se più costosi essi presentano, oltre a quelli indicati sopra, altri importanti vantaggi quali la sensibile riduzione del numero di pozzi, la possibilità di operare mantenendo un salto di pressione tra giacimento e pozzo più basso evitando così la formazione di coni d’acqua o di gas (nei pozzi ad olio con gas cap) che renderebbero difficoltosa la produzione, aumentare l’area di drenaggio avendo maggiori probabilità di intercettare zone fratturate (più permeabili).Le tecniche utilizzate per eseguire la deviazione del pozzo nella direzione voluta sono diverse e si sono evolute nel tempo parallelamente alla necessità di eseguire fori deviati sempre più

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Fig. 8 - Alcune tipologie di pozzi orizzontali multilateral (da Oilfield Review, Schlumberger).

complessi come i pozzi orizzontali e soprattutto quelli multilateral (Fig. 8). Tali tecniche prevedono l’utilizzo di un attrezzo a forma di cuneo (wipstock) munito all’estremità superiore di un collare all’interno del quale è inserito lo scalpello oppure l’utilizzo di uno scalpello munito di un solo foro laterale attraverso il quale fuoriesce un getto di fango ad alta pressione (jetting), che producendo un’azione di scavo lateralmente al pozzo indirizza il foro in quella direzione per la successiva perforazione in deviato. Recentemente con l’introduzione dei motori rotativi di fondo (PDM, Positive Displacement Motors) sono state introdotte tecniche di deviazione più semplici che prevedono l’introduzione di una riduzione angolata montata tra il PDM e lo scalpello (Steerable System). Gli Steerable systems prevedono inoltre l’installazione, al di sopra del PDM, di un’attrezzatura di rilevazione continua di dati (MWD, Measurement While Drilling) riguardanti l’inclinazione e la direzione del foro, la pressione, la temperatura, ecc. e il loro invio in superficie. Recentemente, insieme al MWD è stata introdotta un’altra attrezzatura, il LWD (Logging While Drilling), che permette la registrazione in continuo dei logs (diagrammi) elettrici acustici e radioattivi capaci d’individuare i vari terreni attraversati e i fluidi contenuti man mano che la perforazione procede.

La perforazione offshoreNel campo tecnologico anche la perforazione in mare ha registrato notevoli progressi. Infatti, spostandosi le ricerche petrolifere dalla terraferma a fondali marini sempre più profondi, è stato necessario sviluppare tecniche e tecnologie sempre più complesse per raggiungere obiettivi posti a migliaia di metri sotto i fondali marini. Le prime perforazioni in mare in acque relativamente basse (fino a 50 m) furono eseguite con impianti di perforazione montati su pontoni, che venivano rimorchiati sul sito di perforazione e ivi fatti affondare fino a poggiare sul fondo allagando la parte di scafo galleggiante. In acque più profonde, in ogni caso non oltre i 110 m circa, vengono utilizzate piattaforme di perforazione autosollevanti chiamate Jack-up. Esse consistono in uno scafo galleggiante a pianta triangolare o rettangolare dotate di lunghe gambe mobili poste ai vertici dello scafo. Le gambe possono scorrere verticalmente e poggiando sul fondo permettono di sollevare lo scafo con tutte le attrezzature di perforazione sopra il livello del mare. Al termine della perforazione le gambe vengono sollevate e lo scafo può galleggiare ed essere trasportato su un nuovo sito. Per profondità del mare superiori ai 100-110 m non è più possibile operare con impianti appoggiati sul fondo, quindi sono state progettate piattaforme di perforazione galleggianti, caratterizzate da strutture natanti sulle quali è montato l’impianto di perforazione. Tali strutture devono essere mantenute il più possibile in posizione con sistemi di ancoraggio o di posizionamento dinamico. Il collegamento tra l’impianto galleggiante e la testa del pozzo fissata sul fondo è assicurata tramite una specifica tubazione chiamata marine riser. Gli impianti di perforazione galleggianti si dividono in due grandi categorie: gli impianti semisommergibili e le navi di perforazione, entrambi capaci di ospitare un cantiere di perforazione autonomo e alloggi per il personale.

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Gli impianti semisommergibili sono costituiti da una grande piattaforma collegata a scafi zavorrabili, mentre le navi di perforazione sono delle navi trasformate oppure costruite appositamente per tale uso e sono caratterizzate dall’avere nel baricentro un’apertura (moon pool) su cui viene installata la torre di perforazione. Sia le piattaforme semisommergibili sia le navi di perforazione hanno sistemi di ancoraggio fissi, con cavi e catene, fino profondità del mare di circa 1.000 m, mentre per profondità superiori (superiori anche a 3.000 m) per mantenere la posizione essi sono muniti di sistemi di posizionamento dinamico, consistenti in coppie di propulsori ad elica posti a poppa, a prua e sulle fiancate, mantenuti sempre in funzione e regolati da un sistema elettronico di controllo.

Il completamentoUna delle fasi più interessanti dei pozzi petroliferi è senz’altro quella riguardante il loro completamento, dotando cioè i pozzi di particolari attrezzature necessarie per consentire la produzione in superficie degli idrocarburi. Il completamento di un pozzo può essere eseguito sia in foro scoperto sia in foro tubato. Nel primo caso il casing è fissato nello strato di copertura della formazione produttiva, la quale quindi rimane priva di rivestimento; è questo il caso di formazioni dure e fratturate che sarebbero danneggiate se interessate da rivestimenti e cementazioni. Nel secondo caso, che è il più frequente, anche la formazione mineralizzata è coperta da casing e cemento e garantisce una maggiore sicurezza del foro e un maggior controllo della produzione. In tal caso però è necessario ristabilire la comunicazione tra formazione mineralizzata e foro, che è effettuata tramite un attrezzo, chiamato “fucile”, munito di cariche esplosive ad alta penetrazione collegate a contatti elettrici in superficie, che permette di eseguire una serie di fori (spari) nel casing e nel cemento. Di solito un pozzo petrolifero è dotato di una batteria di produzione

Fig. 9 - Schema di completamento di un pozzo: (a) singolo; (b) doppio.

consistente in una stringa di tubi (tubing) calata in pozzo fino alla formazione produttiva, munita di valvole e di una particolare attrezzatura (packer), che fissata alle pareti del casing assicura il completo isolamento tra l’intervallo produttivo e il soprastante tratto di foro (di solito riempito di fango di completamento) permettendo ai fluidi di fluire in superficie

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attraverso il tubing. Tramite l’introduzione di più di un packer in uno stesso foro è anche possibile produrre in modo selettivo da più intervalli agendo semplicemente su valvole di fondo manovrate dalla superficie oppure di produrre da più livelli contemporaneamente inserendo fino a tre tubing di produzione nel pozzo (accoppiati ad altrettanti packer) (Fig. 9). In presenza di formazioni poco consolidate è possibile che si verifichi della produzione di sabbia insieme agli idrocarburi che, oltre a creare erosioni alle attrezzature, può accumularsi sul fondo del pozzo fino a soffocarlo, impedendo la produzione. In tal caso, per prevenire l’ingresso di sabbia in pozzo il completamento deve prevedere l’inserimento di speciali filtri a fondo pozzo, spesso combinati con sistemi di consolidamento costituiti da sabbia drenante rivestita di resine (gravel-pack). Nei pozzi ad olio non più in grado di produrre spontaneamente per abbassamento della pressione, il completamento deve prevedere l’introduzione di sistemi di sollevamento artificiale costituiti da pompe di vario tipo (tra le più comuni ricordiamo quelle ad astine e quelle centrifughe ad immersione, ESP) o da un’apparecchiatura chiamata gas lift; quest’ultima apparecchiatura consiste nell’effettuare una iniezione di gas in pressione nel tubing ad una certa profondità per mezzo di tubini, che produce un alleggerimento della colonna di favorendo quindi l’erogazione (Fig. 10).

Fig. 10 - Schemi di completamento con pompa centrifuga, ESP (a sinistra) e gas lift (a destra) (da M. Economides e al., Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Il completamento di un pozzo prevede l’installazione in superficie della “croce di produzione” o “albero di Natale” (Christmas tree), che oltre a sostenere la batteria di produzione è munita di valvole d'intercettazione manovrabili manualmente oppure idraulicamente o pneumaticamente, che permettono sia la chiusura e l’apertura del pozzo che la regolazione del flusso.

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IL GIACIMENTO: SUE CARATTERISTICHE, COMPORTAMENTO IN FASE PRODUTTIVA E RELATIVI STUDI

Come detto precedentemente un giacimento petrolifero è un accumulo d’idrocarburi verificatosi milioni d’anni fa in corrispondenza di una particolare configurazione degli strati geologici chiamata “trappola” in seguito a lenti processi di deposizione della materia organica in fondali marini o lacustri, di trasformazione causata soprattutto dalla temperatura e di migrazione. Un giacimento può essere formato da un accumulo di gas, d’olio o di entrambi e può trovarsi a profondità comprese tra qualche centinaio di metri e oltre 6.000 m. Gli idrocarburi sono contenuti nei pori della roccia serbatoio, che può essere costituita da sabbie più o meno consolidate, da arenarie o da calcari e dolomie porose e che presenta, nella sua parte sommitale, strati di roccia impermeabile costituita da argilla o evaporiti (salgemma o anidride), che ne assicurano la copertura impedendo agli idrocarburi di fuggire. Gli idrocarburi migrati nella trappola, essendo leggeri si sono accumulati nella sua parte più alta spiazzando l’acqua (che può essere più o meno salata) che si trovava nei pori della roccia fin dal momento della formazione. Si formerà quindi all’interno della trappola una stratificazione di fluidi, con gli idrocarburi (gas o olio) in alto e l’acqua in basso. Se l’accumulo è costituito da olio saturo o soprassaturo, che contiene cioè una quantità di gas disciolto pari al livello di saturazione, una parte del gas potrà liberarsi ed accumularsi nella parte più alta della trappola dando origine a una cappa di gas (gas cap). Avremo in questo caso una stratificazione di tre fluidi, con il gas in alto, l’acqua in basso e l’olio che occupa una posizione intermedia. Il contatto tra questi fluidi sarebbe netto se essi fossero contenuti all’interno di un unico spazio vuoto, per esempio a forma di campana; poiché invece essi sono contenuti in un mezzo poroso, molto spesso costituito da pori e canalicoli di livello microscopico, il contatto tra i fluidi (a causa dei fenomeni capillari) sarà sempre sfrangiato, presenterà cioè un intervallo (chiamato zona di transizione) in cui due fluidi saranno contemporaneamente presenti allo stato mobile (Fig. 11).

Fig. 11 - Andamento della saturazione in acqua in funzione della pressione capillare e dell’altezza sulla tavola d’acqua in un giacimento ad olio.

Dobbiamo precisare che nella parte della trappola in cui si è verificato l’accumulo petrolifero i pori della roccia non sono stati riempiti al 100 % di idrocarburi, ma sulle loro pareti e in quelli di piccolissime dimensioni è rimasta aderente una pellicola d’acqua (che resterà però immobile durante la produzione) che viene chiamata “acqua irriducibile”. Poiché gli idrocarburi sono contenuti nei pori della roccia, l’accumulo potrà quindi risultare più o meno consistente in funzione, oltre che della grandezza della trappola e della quantità di idrocarburi migrati, del suo grado di porosità e di saturazione in acqua. Oltre a essere porosa una roccia serbatoio deve possedere un’altra importante proprietà, la permeabilità, che indica il grado di intercomunicazione esistente tra i pori. Tale proprietà

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esprime la capacità di un fluido di muoversi all’interno dei pori e di fluire dalla roccia serbatoio verso il pozzo produttore quando sottoposta ad un gradiente idraulico (cioè ad una differenza di pressione tra il giacimento e il pozzo).La porosità, che viene espressa come percentuale di vuoti (pori) sul volume totale di roccia, può essere misurata sperimentalmente in laboratorio su campioni di roccia (carote) prelevati nel pozzo oppure per via indiretta tramite la registrazione di diagrammi (logs) acustici e radioattivi eseguita in pozzo al termine della perforazione. Tali logs misurano alcune proprietà fisiche della roccia dalle quali si ottengono, attraverso una serie di calcoli, i valori di porosità (Fig 12).

Fig. 12 - Esempio di log interpretato.

La permeabilità (che è espressa in darcy dal nome dell’ingegnere francese che per primo studiò nel 1856 il movimento dei fluidi nei mezzi porosi) invece, essendo un parametro dinamico risulta difficilmente misurabile tramite logs (come per la porosità) eseguiti in condizioni statiche; essa viene quindi misurata sperimentalmente in laboratorio su campioni di roccia. E’ possibile tuttavia ottenere la permeabilità della roccia anche per via indiretta, attraverso l’interpretazione delle prove di produzione eseguite nei pozzi. Misurando infatti la caduta di pressione in un livello in prova oppure il tempo di risalita della pressione quando lo stesso viene chiuso alla produzione, è possibile risalire alla sua permeabilità media. Quando si parla di permeabilità s’intende il suo valore assoluto, cioè come se la roccia fosse saturata da un solo fluido. Poiché la roccia è sempre saturata da almeno due fluidi (gas, olio e acqua), è importante conoscere la permeabilità effettiva ad un fluido in presenza di un altro fluido. In laboratorio, comunque, viene misurato un altro parametro, la permeabilità relativa,

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che è il rapporto tra quella effettiva e quella assoluta e che risulta molto utile per gli studi di giacimento (Fig.13).

Fig. 13 - Curve di permeabilità relativa in sistemi gas/olio e acqua/olio

Conoscere il grado di saturazione in acqua della zona mineralizzata è inoltre molto importante per poter stabilire quanto volume di roccia è realmente occupato dagli idrocarburi. Tale parametro viene ricavato tramite i logs elettrici registrati in pozzo attraverso i quali, immettendo corrente elettrica nello strato, si è in grado di misurare la resistività della roccia impregnata di fluidi e di risalire al valore di saturazione in acqua, ricordando che gli idrocarburi sono resistivi (cioè impediscono il passaggio di corrente), mentre l’acqua salata è conduttiva.L’accumulo d’idrocarburi, una volta formato, è rimasto indisturbato per milioni d’anni e si trova in condizioni di pressione e temperatura diverse a seconda della profondità in cui giace. Normalmente la temperatura, al di sotto di uno strato superficiale variabile da 15 a 130 m, aumenta di 3 gradi C ogni 100 m, mentre la pressione, detta “pressione di strato” o “pressione

Fig. 14 - Esempio di pressione anomala (in questo caso sovrappressione) dei pori”, se in condizioni idrostatiche normali equivale al peso di una colonna d’acqua esercitato dalla superficie fino alla profondità in cui viene misurata (per esempio a 1.000 m si avranno circa 100 bar). Ci sono tuttavia casi in cui, per varie cause, la temperatura e la pressione possono trovarsi in condizioni anomale (Fig. 14).Gli idrocarburi contenuti in un giacimento possiedono alcune proprietà chimico-fisiche, quali densità, viscosità, compressibilità, fattore di volume, solubilità del gas nell’olio, punto di bolla (per l’olio) e punto di rugiada (per il gas), che sono caratteristiche di quel dato fluido e rimangono immutate fintantoché la pressione e la temperatura non variano. Quando il giacimento comincia a produrre e la pressione diminuisce, le sue condizioni risultano perturbate e le proprietà indicate sopra subiscono quindi delle modifiche. Per conoscere come

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tali proprietà varieranno al variare della pressione è necessario campionare il fluido (alla condizioni di giacimento) e sottoporlo in laboratorio ad una serie di test (analisi PVT) per conoscere appunto come le proprietà chimico-fisiche variano al variare della pressione, del volume e della temperatura. I risultati di tali test sono molto importanti sia per gli studi di giacimento sia per la progettazione degli impianti di processo.

Studi di giacimentoQuando un giacimento viene scoperto è necessario effettuare studi di giacimento per poter stabilire il volume d'idrocarburi presenti e quanti se ne potranno recuperare (infatti non tutti gli idrocarburi contenuti possono essere prodotti). Gli studi di giacimento comprendono due parti sequenziali e tra loro interdipendenti: lo studio geologico e lo studio dinamico. Lo studio geologico consiste nel definire la geometria del giacimento, le variazioni litologiche e petrofisiche della roccia, la presenza di faglie e fratture, ecc. e nella valutazione del volume d’idrocarburi in posto. Lo studio dinamico, comunemente eseguito tramite modelli matematici, serve invece a definire il piano di sviluppo (comprendente il numero di pozzi, la loro ubicazione e le portate da adottare) e nel prevedere un profilo di produzione per tutta la vita produttiva, in definitiva quanti idrocarburi verranno recuperati. Ulteriori importanti indicazioni che lo studio dovrà fornire, oltre a quelle per la progettazione degli impianti di trattamento, sono relative ad eventuali futuri investimenti necessari per progetti di miglioramento del recupero. Il volume d’idrocarburi in posto si ottiene dal prodotto tra il volume di roccia lorda (ricavato dalla mappa strutturale), il rapporto netto/lordo (rapporto tra roccia porosa e permeabile e roccia lorda, cioè comprensiva degli interstrati impermeabili), la porosità, e la saturazione in idrocarburi, dividendolo poi per il fattore di volume, definito in laboratorio attraverso le analisi PVT (che serve a convertire il volume d’idrocarburi dalle condizioni di giacimento a quelle standard di superficie). Quando viene costruito il modello matematico i parametri indicati vengono introdotti tenendo conto della loro variabilità. Essendo stato il giacimento suddiviso nel modello matematico in tanti blocchetti, a ciascuno di questi verranno assegnati i relativi valori di profondità, spessore, rapporto spessore netto/lordo, porosità, saturazione in idrocarburi e permeabilità, conformemente ai risultati del modello geologico. Nel modello verranno inoltre introdotti gli altri parametri ottenuti dalle analisi chimico-fisiche di laboratorio e dai risultati delle prove di produzione.Uno dei vantaggi dei modelli matematici è quello di investigare diverse ipotesi di sviluppo, in termini di numero di pozzi, ubicazione e portate, per poter essere in grado di selezionare quella più conveniente sia dal punto di vista economico che operativo. Il risultato della simulazione è quello di ottenere una previsione di produzione del giacimento per tutta la sua vita produttiva, in termini di portata, pressione, rapporto gas/olio di produzione, water cut (quantità d’acqua prodotta assieme agli idrocarburi) e rapporto gasolina/gas (giacimenti a gas con condensati).

Meccanismi naturali di produzioneLa produzione di un giacimento petrolifero è detta primaria se essa avviene grazie all’energia propria del sistema sfruttando la pressione. L’insieme delle forze che agiscono sugli idrocarburi, in grado di provocarne il movimento attraverso la roccia serbatoio verso il pozzo vengono chiamati meccanismi di spinta o semplicemente meccanismi di produzione. Tali meccanismi comprendono: la compattazione della roccia al diminuire della pressione, l’espansione degli idrocarburi contenuti, l’espansione del gas di cappa (se presente), l’espansione del gas disciolto nell’olio, l’espansione dell’acquifero sottostante all’accumulo e l’espansione dell’acqua interstiziale (acqua irriducibile).

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Spesso più meccanismi contribuiscono contemporaneamente alla produzione, ma generalmente si è soliti indicare quello prevalente. Possiamo avere quindi giacimenti che producono per semplice espansione, che consentono recuperi molto bassi (2-5 %) nei giacimenti ad olio e molto alti (80-90 %) nei giacimenti a gas (in quanto il gas è un fluido molto comprimibile ed espandibile); giacimenti che producono per l’espansione del gas disciolto, in cui l’abbassamento della pressione provoca la liberazione del gas disciolto e il relativo spiazzamento dell’olio dai pori nei quali è contenuto (tale meccanismo permette recuperi pari al 15-20 % dell’olio in posto); giacimenti che producono per spinta del gas cap, in cui il gas di cappa espandendosi esercita un’azione di spinta sull’olio sottostante verso i pozzi produttori (tale meccanismo permette recuperi pari al 25-30 %); giacimenti che producono per l’espansione dell’acquifero, quando l’acquifero sottostante è molto esteso (tale meccanismo risulta di solito il migliore e permette un recupero pari al 30-50 % dell’olio in posto, mentre nei giacimenti a gas il recupero sarà inferiore rispetto a quelli che producono per semplice espansione in quanto si avrà anche produzione d’acqua insieme al gas (Figg. 15 e 16).

Fig. 15 - Giacimento ad olio in cui il principale meccanismo di spinta è il gas in soluzione (a sinistra) o la concomitante azione dell’acquifero e del gas cap (a destra) (da N. J.Clark, SPE 1960 ).

Olio recuperabileCome abbiamo visto il recupero primario d’olio dai giacimenti è di solito piuttosto basso, sia perché una parte rimane aderente ai grani della roccia sia perché abbassandosi troppo la pressione questa può raggiungere un valore corrispondente al punto di bolla (valore al di sotto del quale il gas disciolto nell’olio si libera e può fluire nel pozzo riducendo la portata d’olio fino a farla scomparire), sia perché alcune aree di giacimento a bassa permeabilità possono essere aggirate dal fronte d’acqua spiazzante.

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Fig. 16 - Giacimento ad olio che produce principalmente sotto l’azione di spinta del gas cap (a sinistra) o dell’acquifero (a destra) (da N.J. Clark, SPE 1960).

Normalmente per aumentare il recupero d’olio si interviene con sistemi di recupero secondario, iniettando gas o acqua in fase immiscibile nel giacimento in modo da restaurare in parte l’energia dissipata durante la produzione. L’iniezione di gas viene effettuata iniettando gas nella parte sommitale della trappola in modo da creare una cappa di gas come nel caso di un gas cap naturale.L’iniezione d’acqua (che è la tecnica più comunemente usata) può essere effettuata direttamente nell’acquifero, in una zona periferica (se la roccia è abbastanza permeabile) e in questo caso si creerà una condizione simile al meccanismo di spinta naturale dell’acquifero (Fig 17). Se invece il giacimento è molto esteso e la roccia serbatoio poco permeabile,

Fig 17- Esempio d’iniezione d’acqua periferica a linee radiali.

l’iniezione d’acqua nell’acquifero risulterebbe inefficace per mantenere la produzione a livelli economici. L’iniezione d’acqua viene allora effettuata nella zona ad olio, con pozzi dedicati distribuiti secondo schemi da scegliere fra quelli chiamati pattern d’iniezione (Fig. 18).

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Fig. 18 – Principali modelli d’iniezione in olio.

L’acqua utilizzata per l’iniezione può essere reperita da un livello contenente acqua soprastante o sottostante al livello produttivo, ma non in comunicazione idraulica con esso, dal mare se il giacimento è ubicato offshore o si trova vicino alla costa oppure da corsi d’acqua. Prima di essere iniettata l’acqua dovrà essere filtrata, per rimuovere eventuali parti solide, disaerata e trattata con prodotti chimici, per impedire la precipitazione di sali e la formazione di colonie batteriche, che andrebbero ad ostruire i pori della roccia.

Ottimizzazione della produzionePer aumentare la produttività dei pozzi in giacimenti costituiti da roccia compatta a bassa permeabilità spesso s’interviene acidificando e fratturando la roccia serbatoio tramite l’iniezione di soluzioni acide ad altissima pressione e aumentando il numero di spari (fori sulla colonna di rivestimento del pozzo) nell’intervallo produttivo. Se nei giacimenti ad olio i pozzi non sono più in grado di produrre spontaneamente si interviene, come già detto, installando nei pozzi sistemi di sollevamento artificiale che possono essere costituiti da pompe oppure da un’apparecchiatura chiamata gas lift. I giacimenti a gas producono invece sempre spontaneamente sfruttando unicamente la pressione. Per ottenere il massimo recupero è necessario imporre un valore di pressione a fondo pozzo il più basso possibile. In tal caso però la pressione di produzione potrebbe risultare inferiore a quella della rete di trasporto, per cui il gas prodotto dovrà essere compresso prima di essere immesso nella rete, tramite centrali di compressione (piuttosto costose), la cui realizzazione dovrà essere valutata economicamente in relazione all’incremento di recupero ottenibile.

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Monitoraggio dei pozzi e del giacimento durante la produzioneDurante la sua vita produttiva un giacimento viene monitorato periodicamente e sistematicamente sia per aggiornare il modello matematico costruito sia per accertare situazioni anomale nella produzione. Bisognerà quindi, oltre alle portate e alla pressione, monitorare il rapporto gas/olio di produzione (rapporto tra gas e olio prodotti), il rapporto acqua/olio o acqua/gas, che talvolta risultano anomali e possono causare indesiderate produzioni di gas (nei pozzi ad olio) o d’acqua. La produzione indesiderata di gas e d’acqua, se non sono accertate adeguatamente le cause e non sono adottate le relative azioni correttive, possono compromettere sia la vita dei pozzi sia quella del giacimento. Per accertare le cause di produzioni anomale vengono utilizzati speciali strumenti chiamati “log di produzione”, tramite i quali è possibile rilevare i punti d’entrata e la percentuale dei fluidi indesiderati e le variazioni delle saturazioni in fluidi nel livello produttivo; fra tali log ricordiamo il flowmeter, il gradiomanometro e il Thermal Decay Time-TDT, ecc.Per ottenere un controllo continuo della pressione, della temperatura e della portata a fondo pozzo le batterie di produzione vengono sempre più spesso dotate di sensori che permettono la misurazione in modo continuo di tali parametri. Attualmente è in fase di sperimentazione la tecnologia chiamata lab-on-a-chip che permette, oltre che di misurare in situ i parametri indicati sopra, di eseguire le più sofisticate analisi di laboratorio.

La decisione di abbandonare un giacimentoAlla domanda “quando un giacimento viene abbandonato?” sembra ovvio poter rispondere “quando tutti gli idrocarburi sono stati prodotti”. Ciò sarebbe vero se gli idrocarburi fossero contenuti in una grande cisterna dalla quale attingere fintantoché essa ne contiene. Ma sappiamo invece che gli idrocarburi sono contenuti in un mezzo poroso insieme ad altri fluidi e che alla fine della produzione una parte di essi rimane aderente ai pori della roccia o immobilizzata in aree di giacimento poco drenate. Normalmente un giacimento dovrebbe essere abbandonato quando i costi relativi all’estrazione sono superiori ai ricavi. Prima di prendere una tale decisione bisognerà però cercare di attuare tutte le tecniche e tecnologie disponibili mirate ad un miglioramento del recupero, dopo averne valutato la fattibilità da punto di vista economico. Fra le tecniche da attuare per ottenere un ulteriore incremento di recupero ci sono quelle cosiddette di “recupero terziario” (enhanced oil recovery) che fino ad oggi sono state scarsamente utilizzate perché piuttosto costose, ma che in regime di prezzi del petrolio alti potrebbero garantire ritorni economici interessanti. Tali tecniche hanno in definitiva lo scopo di recuperare un’addizionale quantità d’olio che tramite le tecniche illustrate sopra non sarebbe assolutamente possibile. Esse sono mirate a recuperare una parte dell’olio residuo migliorando il rapporto di mobilità tra olio e acqua attraverso il riscaldamento del livello produttivo con vapore d’acqua o con altri sistemi, l’iniezione di polimeri per rendere l’acqua di strato più densa, l’iniezione di gas miscibili all’olio come anidride carbonica, metano o azoto, o l’iniezione di soluzioni alcaline che tendono a modificare la tensione interfacciale tra olio e acqua.La decisione di abbandonare o meno un giacimento, oltre che per motivi economici, talvolta può essere presa per motivi politici o strategici, per esempio perché si hanno interessi futuri nell’area o perché s’intendono utilizzare gli impianti costruiti per altri futuri progetti.

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TECNICHE DI SVILUPPO DEI GIACIMENTI E TRATTAMENTO DEI FLUIDI PRODOTTI

La fase di sviluppo di un giacimento petrolifero prende avvio al termine della fase esplorativa dopo che, in base a studi di giacimento e di fattibilità, è stata riconosciuta l’economicità di un suo sfruttamento. Un giacimento può trovarsi in terra oppure in mare (off shore). Nel tempo sono state sviluppate tecniche e tecnologie sempre più sofisticate per poter mettere in produzione giacimenti localizzati in ambienti sempre più ostili e in acque sempre più profonde.Con lo sviluppo di un giacimento si da il via ad una serie d’investimenti, piuttosto ingenti, e che crescono in funzione della profondità del giacimento e dell’ambiente in cui si trova. Tali investimenti comprendono: la perforazione e la messa in produzione di tutti i pozzi previsti nel piano di sviluppo e la relativa connessione con le strutture di produzione; la costruzione degli impianti per il trattamento dei fluidi prodotti (per portarli a specifica per la commercializzazione) e di quelli per lo stoccaggio (se il prodotto è un greggio); la costruzione di eventuali impianti per progetti di recupero secondario (giacimenti a olio); la costruzione di strutture di carattere logistico quali uffici, officine, sale tecniche, laboratori, alloggi per il personale, ecc. e, se il giacimento è a terra la costruzione di strade, eventuali aeroporti o eliporti. Altri impianti necessari comprendono i generatori di energia elettrica, l’eventuale centrale di compressione (per giacimenti a gas), necessaria quando la pressione del giacimento risulterà inferiore a quella della rete di trasporto o il sistema di sollevamento artificiale (per giacimenti a olio) necessario quando i pozzi non saranno più in grado di produrre spontaneamente.

Giacimenti a terraSe il giacimento è a terra gli impianti e le strutture menzionati sopra vengono dislocati in modo che la zona residenziale sia posta ad una distanza di sicurezza dall’area impianti e sopravvento rispetto ai venti dominanti. Le aree di competenza degli impianti vengono invece suddivise in lotti per tipologia impiantistica. I pozzi possono essere perforati tutti in verticale, se l’area in superficie corrispondente al giacimento è accessibile e possono essere distanziati uno dall’altro da qualche centinaio di metri a oltre un chilometro a seconda delle caratteristiche del giacimento e del piano di sviluppo. Molto spesso tuttavia può risultare conveniente, anche per esigenze di carattere logistico e ambientale, accorpare i pozzi di sviluppo in una o più postazioni (clusters), perforando da queste i pozzi in deviato sull’obiettivo profondo. Ciò facilita e ottimizza tutte le operazioni sia nella fase iniziale di perforazione e completamento dei pozzi sia nella successiva fase di vita produttiva, con notevole risparmio sui costi operativi.

Giacimenti in mareL’attività di sfruttamento dei giacimenti in mare è molto più recente rispetto a quella a terra. Essa nasce alla metà del secolo XX, ma ha cominciato a svilupparsi intensamente a partire dagli anni ’70 con la messa in produzione di numerosi giacimenti soprattutto nel Golfo del Messico e nel Mare del Nord. Inizialmente le tecnologie per lo sfruttamento di giacimenti in mare sono state sviluppate per profondità dell’acqua contenute entro i limiti della piattaforma continentale (cioè fino a circa 200 m). Spingendosi la ricerca in acque sempre più profonde (superiori anche a 2.000 metri), è stato necessario studiare e sviluppare tecniche e tecnologie sempre più sofisticate in grado di mettere in produzione giacimenti localizzati a tali profondità.

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Piattaforme offshoreL’attività di sfruttamento dei giacimenti in mare richiede la costruzione di piattaforme, capaci di contenere l’impianto di perforazione, i pozzi (che devono essere perforati in deviato) e le teste pozzo, gli impianti di processo per il primo trattamento dei fluidi prodotti (gli impianti di trattamento vero e proprio e lo stoccaggio dell’olio di solito vengono dislocati a terra sulla costa e sono collegati al sistema produttivo della piattaforma tramite condotte sottomarine), gli impianti ausiliari e di sicurezza e gli alloggi per il personale.Se il giacimento si trova a profondità dell’acqua moderate (non superiori a 400 m) le piattaforme sono generalmente costituite da strutture rigide appoggiate e ancorate sul fondo, mentre per profondità superiori esse devono essere lasciate libere di oscillare in risposta alle sollecitazioni ambientali; per cui generalmente sono galleggianti e sono ancorate al fondo con sistemi di ancoraggio fissi o dinamici (Fig. 19).

Fig. 19 - Esempi di vari tipi di strutture di produzione off shore.

Le piattaforme rigide constano di una struttura di sostegno, generalmente reticolare, chiamata jacket, costituita da elementi tubolari saldati assieme, su cui viene fissata la struttura contenente tutti gli impianti e gli alloggi chiamata topside (tale struttura viene mantenuta ad una certa distanza dalla superficie dell’acqua onde evitare le azioni del moto ondoso). Una moderna struttura di topside comprende un modulo principale (deck), nel quale sono generalmente contenuti i vari impianti disposti su più piani, sul quale viene fissato successivamente il modulo alloggi, comprendente anche le sale comuni, in cui trovano sistemazione fino a 150 persone. Sopra il modulo alloggi viene realizzato il ponte elicotteri (helideck), utilizzati per il trasferimento del personale. Lateralmente sul deck e in posizione sottovento ai venti dominanti, viene fissata la torcia o fiaccola, costituita da un traliccio metallico avente una certa lunghezza, che serve a bruciare il gas in caso di emergenza o durante la messa in marcia dell’impianto. Sia il jacket sia i vari moduli della piattaforma vengono costruiti separatamente a terra in cantieri allestiti appositamente e vengono poi caricati su chiatte o bettoline e trasportati sul luogo di installazione (Fig. 20). Interessante è la tecnica di varo e installazione del jacket. Esso viene trasportato in orizzontale sulla bettolina e viene varato sul sito d’installazione mediante un’operazione detta di “lancio”. Durante tale operazione la bettolina viene opportunamente zavorrata in modo da farla inclinare di qualche grado verso poppa. A questo punto il jacket viene spinto da martinetti idraulici e

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fatto scorrere sulle guide dove si trova collocato sulla bettolina fino a che cade in mare. Il jacket può galleggiare grazie a dei serbatoi provvisori aderenti alla struttura (rimossi successivamente) chiamati “cilindri di spinta” (buoyancy tanks) che, allagati in modo differenziato permettono al jacket, prima di posizionarsi in assetto verticale e poi di affondare in tale posizione fino a toccare il fondo. Il jacket viene successivamente reso stabile con il fondo tramite una serie di pali di fondazione costituiti da elementi tubolari di grande diametro (lunghi talvolta anche più di 100 m), infissi tramite battipali subacquei azionati idraulicamente. L’installazione del deck e degli altri moduli sul jacket viene effettuata con l’utilizzo di potenti mezzi navali dotati di coppie di gru che lavorano in tandem, capaci di sollevare il deck (e poi gli altri moduli) dalla bettolina e posizionarli sul jacket.

Fig 20 – Esempio di piattaforma fissa (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Per particolari tipi di ambiente, come il Mare del Nord o zone artiche, in alternativa al jacket in traliccio di acciaio, possono essere costruite strutture di supporto cosiddette “a gravità” molto pesanti, realizzate in cemento armato, che aderiscono sul fondo per effetto del proprio peso. La base di tali supporti è molto massiccia e di grandi dimensioni e molto spesso consente anche lo stoccaggio dell’olio prodotto grazie ai serbatoi ricavati all’interno delle celle della struttura basale (Fig. 21).

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Fig. 21 - Esempio di piattaforma a gravità (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Le strutture a gravità vengono costruite in bacini di carenaggio di grandi dimensioni; vengono poi trasferite in galleggiamento (grazie alla base stagna) in un’area di mare protetta, dove tramite navi gru vengono installati i moduli di topside sulla struttura. La piattaforma completa viene poi rimorchiata in galleggiamento fino al sito di installazione e affondata in modo lento e controllato allagando i serbatoi stagni. Le strutture a gravità sono molto robuste e possono reggere anche l’urto di iceberg. Per profondità dell’acqua superiori a 400 m fino a oltre 2.000 m, non è più possibile usare le stesse strutture rigide adottate per i bassi fondali, per cui è stato necessario studiare nuovi tipi di piattaforme, che pur mantenendosi ancorate al fondo, siano libere di subire leggeri spostamenti adattandosi al moto ondoso. Le strutture di topside rimangono più o meno uguali per qualsiasi tipo di piattaforma; mentre cambia invece, a seconda della profondità dell’acqua, delle dimensioni del giacimento e dell’ambiente, la parte di sostegno del topside che si trova a contatto col mare. Per fondali non superiori a 600 m (talvolta anche fino a 900 m) è ancora possibile costruire piattaforme simili a quelle tradizionali (in quanto anch’esse fissate al fondo), ma molto più snelle e costituite da due parti: una parte inferiore più corta fissata sul fondo con sistemi tradizionali e una parte superiore, più lunga, appoggiata su quella inferiore, collegate da complessi sistemi di stabilizzazione, che permettono una parziale flessione della struttura e la rendono adatta a resistere alle sollecitazioni laterali del moto ondoso. Tali strutture vengono chiamate Compliant Tower, cioè “torri adattabili” (Fig. 22).

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22 – Compliant tower (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani

Per profondità dell’acqua superiori sono stati studiati vari tipi di strutture galleggianti come: le TLP (Tension Leg Platform) e le Mini TLP, la cui parte galleggiante è ancorata sul fondo con tiranti verticali (Fig. 23); le piattaforme SPAR e Truss SPAR (Fig. 24), in cui la parte galleggiante è costituita da una torre cilindrica di circa 25 m di diametro, alta 200-250 m, che galleggia in assetto verticale grazie alla opportuna predisposizione dei compartimenti stagni ed è ancorata con un sistema di ormeggi costituito da cavi disposti in modo radiale attorno alla torre.

Fig. 23 - Piattaforma TLP (a sinistra) e Mini TLP (a destra) (da F. Pallavicini, Enciclopadia. degli Idrocarburi Treccani).

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Fig. 24 - Piattaforma SPAR (a sinistra) e Truss SPAR (a destra) (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Tutti i tipi di piattaforme descritti finora consentono di portare i pozzi con le loro teste pozzo sulla piattaforma e da qui operarli durante tutta la vita produttiva. In alternativa, esistono altri tipi di sistemi di produzione galleggianti, che non consentono però di portare i pozzi e le teste pozzo in superficie, ma devono essere abbinati a sistemi di produzione sottomarina, dove le teste pozzo sono fissate sul fondo del mare. In questo caso i pozzi vengono perforati e completati precedentemente e vengono collegati con l’unità di produzione galleggiante, chiamata FPS (Floating Production System) tramite tubazioni rigide o flessibili (riser), che servono a portare i fluidi prodotti dalle teste pozzo sottomarine fino agli impianti di superficie. L’unità FPS viene inoltre collegata con i sistemi di produzione sottomarina da una tubazione flessibile, chiamata umbilical, in cui si trovano i cavi elettrici, scorrono i fluidi idraulici che servono a controllare le teste pozzo dalla superficie ed eventuali sostanze chimiche necessarie durante l’avviamento dei pozzi. Le unità FPS sono mantenute in posizione tramite cavi e catene ancorati al fondo oppure tramite sistemi di posizionamento dinamico.

Fig. 25 - Impianto di produzione galleggiante tipo semisommergibile FPS (a sinistra) e FPSO (a destra) (da F. Pallavicini, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Queste unità di produzione non dispongono di alcuna capacità di stoccaggio. Per evitare di costruire tubazioni per l’esportazione di non facile realizzazione e di costo elevato, molto

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spesso esse vengono abbinate a mezzi di stoccaggio (navi cisterna) e ad una boa di caricamento ormeggiate nei pressi della FPS. In alternativa alla FPS spesso vengono utilizzate petroliere convertite per questo uso o navi costruite appositamente, in cui trovano alloggio, oltre agli impianti di perforazione e produzione, anche il sistema di stoccaggio dell’olio. Tali unità di produzione, stoccaggio e caricamento vengono chiamate FPSO (Floating Production Storage & Offloading) (Fig. 25).

Trattamento dei fluidi prodotti Gli impianti di trattamento necessari per rendere i fluidi prodotti trasportabili e commerciabili sono diversi a seconda che si tratti di olio o di gas.

Trattamento dell’olioSe il fluido prodotto è un greggio è necessario, prima di tutto, disidratarlo e degassarlo, cioè togliere l’acqua prodotta assieme all’olio ed il gas in esso disciolto. Per fare questo si usano di solito separatori trifase, speciali apparecchiature tramite le quali è possibile separare contemporaneamente dall’olio sia l’acqua sia il gas (Fig. 26).

Fig. 26 – Esempio di separatore trifase (da Rojey e Jaffret, Ed. Tecnip, 1977).

L’acqua può essere presente sia come acqua di condensa sia come acqua di strato e può presentarsi sia in forma libera sia sotto forma di emulsione.Quando è presente un’emulsione olio-acqua, prima della separazione occorre rompere tale emulsione per portare l’acqua allo stato libero. Ciò si ottiene addizionando all’olio prodotti chimici ad azione disemulsionante o tramite riscaldamento. La disidratazione può essere ottenuta anche sottoponendo l’emulsione ad un campo elettrico (15.000 – 20.000 volt), che provoca la collisione e la coalescenza delle goccioline d’acqua disperse, consentendo la separazione dell’acqua per gravità. Poiché l’acqua di strato prodotta insieme all’olio, essendo salata può lasciare in sospensione nell’olio dei cristalli di cloruro di sodio, il greggio prodotto deve essere desalificato. Le apparecchiature utilizzate per tale processo sono simili a quelle utilizzate per la disidratazione elettrostatica, avendo l’accorgimento di aggiungere acqua dolce per sciogliere i cristalli di sale in sospensione; l’acqua arricchita di sale verrà poi separata dall’olio.

Fig. 27 – Schema di una colonna di strippaggio.

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Un altro importante processo di trattamento che normalmente i greggi prodotti devono subire è quello della desolforazione. Molto spesso infatti i greggi contengono disciolte percentuali di idrogeno solforato, gas tossico molto corrosivo, che deve essere eliminato. Il processo di desolforazione più usato è il cosiddetto “strippaggio”, in cui vengono utilizzati speciali recipienti cilindrici verticali (stripping tower), all’interno dei quali del gas dolce viene fatto gorgogliare in controcorrente attraverso il greggio, sottraendogli l’idrogeno solforato (Fig. 27). Dopo aver subito i vari trattamenti il greggio normalmente viene stoccato in serbatoi cilindrici in acciaio, pronto per essere trasportato (Fig. 28).

Fig. 28 - Schema dei processi di trattamento cui è sottoposto un olio greggio a seconda delle sue caratteristiche.

Trattamento del gasSe il fluido prodotto è gas, esso può contenere acqua (sia sotto forma di condensa sia di strato), idrocarburi pesanti e superiori (chiamati genericamente gasoline), gas inerti come anidride carbonica e azoto e gas tossici come l’idrogeno solforato; prima di essere commercializzato il gas deve quindi essere disidratato, degasolinato e addolcito. Il processo di semplice disidratazione può essere effettuato tramite impianti al glicol, avendo tale prodotto la proprietà di assorbire l’umidità del gas. Per limitate quantità di gas la semplice disidratazione può essere effettuata anche tramite impianti che utilizzano membrane polimeriche aventi la proprietà di essere permeabili all’acqua e relativamente impermeabili al gas.

Fig. 29 - Trattamenti effettuati ai vari tipi di gas naturale prodotti.

Per gas contenenti sia acqua sia discrete quantità di gasolina, la disidratazione e il degasolinaggio possono essere effettuati contemporaneamente, utilizzando impianti cosiddetti “a letto solido”, che sfruttano le proprietà adsorbenti di alcune sostanze solide, come allumina attiva e silica gel, che grazie a tale proprietà trattengono sia l’acqua sia la gasolina. La separazione tra acqua e gasolina risulta poi facilitata grazie alla diversa densità dei due fluidi.

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La disidratazione e il contemporaneo degasolinaggio possono essere effettuati anche tramite separatori a bassa temperatura chiamati LTS (Low Temperature Separator). Il gas all’ingresso del LTS viene fatto espandere repentinamente attraverso una valvola di controllo; a causa dell’espansione (per effetto Joule-Tomson) il gas si raffredda favorendo la condensazione sia dell’acqua sia della gasolina, che vengono separate dal gas nel LTS. I processi di addolcimento sono mirati a rimuovere dal gas l’idrogeno solforato e l’anidride carbonica che, oltre ad essere tossico il primo, provocano corrosione nelle tubazioni. Gli impianti utilizzati per tale processo fanno venire a contatto, in appositi recipienti (colonne) soluzioni acquose a base di ammina, che grazie alle loro proprietà basiche assorbono sia l’idrogeno solforato sia l’anidride carbonica (Fig. 29).

IL TRASPORTO DEGLI IDROCARBURIIl trasporto degli idrocarburi è una voce molto importante nella valutazione dell’economicità di un progetto di sviluppo di un giacimento petrolifero e possiamo dire che esso è parte integrante del progetto stesso. Infatti, per poter affermare di aver scoperto un giacimento è necessario dimostrare che esso è economicamente sfruttabile ed il costo del trasporto del fluido dal giacimento ai luoghi d’utilizzo e di commercializzazione molto spesso incide fortemente sull’economicità del progetto, specialmente se il giacimento si trova in zone remote.Tradizionalmente quando si parla di trasporto idrocarburi, ci si riferisce a quello effettuato in condotta (pipeline) e a quello via mare con navi cisterna (petroliere e metaniere). Bisogna tuttavia fare una netta distinzione fra condotte a terra e condotte sottomarine e fra fluidi trasportati (gas o greggio), in quanto sia i due ambienti sia i due fluidi presentano problematiche di trasporto diverse.Il trasporto di idrocarburi in condotta, utilizzato a partire dal 19° secolo e affermatosi dalla metà del 20° secolo, ha sviluppato tecniche e tecnologie di costruzione, di posa e di gestione di alto livello e nello stesso tempo ha generato elevati livelli di sicurezza. Generalmente il trasporto in condotta presenta costi d’investimento piuttosto alti, bilanciati però da costi operativi relativamente bassi. Esso non è molto conosciuto dall’opinione pubblica, in quanto non interferisce con attività umane. Per chi opera nell’industria del petrolio, le condotte rappresentano tuttavia un investimento da gestire con cura in quanto elementi portanti della politica energetica di uno stato.

Trasporto del greggio in condottaIl trasporto del greggio in condotta viene effettuato prevalentemente su percorsi a terra e serve a collegare aree di intensa utilizzazione o terminali petroliferi di caricamento delle petroliere con zone continentali di produzione remote. Il trasporto in condotta di greggio in ambiente sottomarino è di solito limitato a pochi casi e comunque per distanze moderate e su fondali relativamente piatti, in quanto le condotte richiedono l’installazione di stazioni di pompaggio intermedie.

Trasporto del gas in condottaIl trasporto del gas in condotta è stato fino a poco tempo fa l’unico mezzo per veicolare ingenti quantità di gas (anche attraverso gasdotti sottomarini di grande lunghezza come quelli, per esempio, tra il Nord Africa e la Sicilia), presentando quello con navi cisterna problematiche e costi eccessivi. Questo fatto aveva infatti limitato, fino a poco tempo fa, lo sviluppo anche di grossi giacimenti di gas dislocati in zone troppo lontane dai luoghi di utilizzo (per esempio il North Field in Qatar, il più grosso del mondo, che scoperto negli anni sessanta dello scorso secolo è rimasto inutilizzato per oltre trenta anni). Cresciuto il mercato del gas e migliorate le tecniche di trasformazione e trasporto, anche la veicolazione del gas con navi cisterna sta diventando una valida alternativa al trasporto in condotta, presentando grossi vantaggi

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soprattutto di carattere strategico, potendo un paese importatore differenziare le importazioni da più aree.

Tecniche di costruzione e posa delle condotte a terraPrevedono lo scavo di una trincea lungo un percorso predefinito (profonde generalmente un paio di metri), la saldatura con sistemi automatici o semiautomatici di tubi lunghi mediamente 12 metri uno dopo l’altro sul bordo della trincea e la posa successiva sul fondo di stringhe lunghe alcune centinaia di metri tramite macchine di sollevamento-posa adeguate, aventi bracci laterali e contrappesi, che operano in modo coordinato per evitare curvature eccessive (tali stringhe vengono poi collegate l’una all’altra con saldature a mano eseguite direttamente in trincea). Lungo il tracciato della condotta (quando questa è piuttosto lunga) devono essere previste stazioni di pompaggio intermedie per il greggio o di compressione (meno frequenti) per il gas, per sopperire alle perdite di pressione che avvengono lungo il percorso, dovute soprattutto all’attrito del fluido trasportato con le pareti dei tubi. Particolarmente importanti sono gli studi da eseguire durante la progettazione delle condotte per stabilire il diametro (che può superare il metro), lo spessore dei tubi (da 12 mm a 20 mm per le condotte a terra, da 15 mm a 35 mm per le condotte sottomarine) e il materiale (acciai speciali) da usare, in funzione della quantità e del tipo di fluido da trasportare, della pressione di esercizio e delle sollecitazioni previste. Particolare cura è richiesta soprattutto nella scelta e nella progettazione del tracciato, onde evitare zone franose, zone di faglia e pendii pericolosi e, se non evitabili, prevedere opere adeguate per impedire danneggiamenti della condotta. Interessanti le tecniche usate per gli attraversamenti di strade, autostrade, ferrovie e corsi d’acqua, che di solito prevedono la costruzione di micro tunnel e la contemporanea installazione della condotta usando macchine speciali.Le condotte, come già detto, sono composte da tubi in acciaio e prevedono, soprattutto contro la corrosione, una protezione esterna cosiddetta passiva, costituita da una guaina in asfalto, polietilene, ecc. ed una protezione attiva, costituita da anodi sacrificali in zinco o alluminio. Inoltre, esse prevedono un rivestimento interno in resine epossidiche per ridurre l’attrito tra il fluido trasportato e la parete di acciaio e un ulteriore rivestimento in cemento armato per fornire il peso necessario alla sua stabilità nel letto di posa e una protezione meccanica contro interferenze esterne.

Tecniche di costruzione e posa delle condotte sottomarineLe condotte sottomarine vengono invece di solito adagiate sul fondo e non interrate. Esse vengono interrate solo nelle zone di raccordo con la costa o per brevi tratti sul fondale, dove ci sono particolari problemi. Non potendosi avvalere di visioni dirette, di carte topografiche di dettaglio e di foto aeree come sulla terraferma, la fase conoscitiva dei fondali si affida soprattutto a sistemi strumentali e tecnologie sofisticate. La caratterizzazione morfologica, geotecnica e fisica del fondale viene di solito derivata da indagini geofisiche e da prove penetrometriche e per i dettagli si affida a minisommergibili e foto del fondale. Uno dei principali problemi delle condotte sottomarine riguarda (per fondali particolarmente irregolari) i tratti che rimangono sospesi fra due zone di cresta, che devono essere completate con opere di sostegno (Fig. 30). La parte più interessante dal punto di vista tecnologico delle condotte sottomarine riguarda la fase di posa, che richiede l’uso di mezzi specifici, le navi posatubi, di notevoli dimensioni e costi, che sono delle vere e proprie officine di lavoro galleggianti, dove trovano alloggio anche

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Fig. 30 – Esempio di condotta posata su fondali irregolari (da R. Bruschi, Enciclopedia Idrocarburi Treccani).

centinaia di persone che lavorano a ciclo continuo su 24 ore per preparare e saldare i tubi e calarli via via in mare. La tecnica più comunemente usata per la posa in mare è quella cosiddetta a “S”, così chiamata per la forma tipica che la condotta assume lungo la campata di varo. Man mano che la condotta scorre verso il fondale viene sostenuta tramite tensiometri e clampe scorrevoli applicati longitudinalmente alla condotta. Per la posa in acque molto profonde, che richiederebbe l’applicazione di forze longitudinali sempre più crescenti, creando perciò problemi al sistema di ancoraggio e posizionamento della nave, viene usato il metodo di posa cosiddetto a “J”, caratterizzato da una rampa di varo pressoché verticale. Tale metodo è stato usato tra il 2000 e il 2002 nella installazione di due condotte sottomarine da 24 pollici ciascuna (61 cm) di diametro nel Mar Nero a profondità di oltre 2.000 metri, per una lunghezza di circa 350 km.Per le condotte di modesto diametro fino a 14 - 16 pollici (35,6 - 40,6 cm) i tubi possono essere saldati insieme a terra e avvolti su un tamburo. Durante la posa, effettuata con navi posatubi appositamente attrezzate per questa funzione, la tubazione viene svolta dal tamburo, raddrizzata e calata in mare.Le condotte, sia in terra che in mare, vengono collaudate riempiendole di acqua e pressurizzandole al di sopra del valore di pressione di esercizio, svuotandole poi e asciugandole con aria compressa, azoto o tramite vuoto pneumatico. Le pressioni usate per il trasporto vanno dai 75 ai 100 bar per le condotte a terra, mentre per quelle in mare oscillano tra 200 e 300 bar. Durante tutta la vita le condotte devono essere continuamente ispezionate, sia esternamente (in mare tramite robot) sia internamente introducendo nella condotta, attraverso stazioni di lancio e ricezione, speciali attrezzature chiamate pig spinte dal fluido stesso che viene trasportato. Vengono utilizzati pig calibratori per ottenere dettagli sulla parete interna, pig magnetici e a ultrasuoni per verificare il grado di corrosione, pig per rilevare eventuali fessure e pig per identificare falle o crepe.

Trasporto del greggio via naveIl trasporto di greggio via nave prende avvio a partire dai terminali di caricamento posti nei pressi della costa (talvolta off shore), dove il greggio proveniente dai giacimenti in produzione, dopo aver subito i relativi trattamenti, viene stoccato in serbatoi cilindrici in acciaio, aventi la capacità di contenere una quantità di greggio pari a circa 10 giorni di produzione (per sopperire a eventuali disguidi nel trasporto cisterniero ed evitare interruzioni della produzione). Fondamentalmente la tecnica costruttiva delle petroliere è rimasta pressoché immutata negli anni per quanto riguarda l’allocazione delle cisterne. Esse sono parte integrante della nave e sono allocate nella stiva; sono suddivise da compartimentazioni longitudinali e trasversali, hanno intercapedini per lo zavorramento e paratie stagne. Quello che sta cambiando nella tecnica costruttiva ed in parte è già avvenuto, sono gli accorgimenti adottati per quanto riguarda la sicurezza e la tutela dell’ambiente, imposti da accordi internazionali ed europei (per

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il Mediterraneo). Le navi moderne devono infatti essere provviste di intercapedini o cisterne adibite allo zavorramento (con acqua), in modo che la zavorra non vada a contatto con le cisterne del carico, devono avere il doppio scafo (che in caso di incidenti rappresenta una garanzia) e devono avere attrezzature adatte per il lavaggio delle cisterne (eseguito durante il viaggio di ritorno) e lo smaltimento dei reflui. Anche i terminali di carico/scarico devono avere attrezzature adeguate per garantire la sicurezza e la tutela dell’ambiente, che tuttavia non ancora tutti i paesi hanno adottato. Uno dei principali problemi provocati dal traffico petrolifero marittimo sono le cosiddette “maree nere”, che a differenza di quello che si pensi non sono tanto generate da cause accidentali (come l’affondamento di una petroliera), ma piuttosto da versamenti di routine dovuti al lavaggio delle cisterne, a perdite durante le operazioni di carico/scarico, ecc. Nella fase di carico il sistema di pompaggio si trova a terra presso il terminale, mentre in quella di scarico è la nave stessa che provvede, attraverso il suo sistema di pompaggio a bordo, allo scarico del greggio nei serbatoi di stoccaggio allocati nei pressi del terminale. Il sistema di pompaggio a bordo è dimensionato in modo da poter eseguire lo scarico in una ventina di ore (solitamente il 5 % all’ora del carico). Le petroliere sono munite di un sistema di riscaldamento a serpentina posto nella parte bassa delle cisterne, nelle quali viene fatto circolare vapore, che serve a riscaldare il greggio prima dello scarico. Tale riscaldamento (fino a circa 50° C), che solitamente viene attivato prima di arrivare al terminale, produce una riduzione di viscosità del greggio facilitando le operazioni di pompaggio. Durante il viaggio di ritorno verso i terminali di carico, per ottenere una maggiore stabilità le petroliere vengono zavorrate pompando acqua di mare nelle apposite intercapedini adibite a tale uso; la zavorra viene eliminata prima di eseguire il caricamento.Esistono 5 tipologie di petroliere, suddivise in base alle dimensioni e alla capacità di trasporto: le Panamax aventi capacità da 55.000 a 70.000 tpl (tonnellate di petrolio lorde), adatte per l’attraversamento del Canale di Panama; le Aframax da 75.000 a 120.000 tpl, con sei classi tariffarie, adatte per il trasporto a breve e medio raggio; le Suezmax da 120.000 a 200.000 tpl, adatte per il trasporto attraverso il Canale di Suez; le VLCC (Very Large Crude Carrier) per il trasporto di grandi volumi di greggio (da 200.000 a 320.000 tpl), adatte per lunghe distanze; le ULCC (Ultra Large Crude Carrier) da oltre 320.000 tpl, che però possono accedere solo a pochi porti e sono poco flessibili. La flotta petrolifera mondiale (se si escludono le navi di piccola stazza, cioè inferiore a 10.000 tpl) è di circa 3.500 unità, con una capacità complessiva di trasporto di poco inferiore ai 300 milioni di tpl. Per la sicurezza dei mari norme internazionali hanno stabilito un piano di dismissione di tutte le navi vecchie e la graduale sostituzione con nuove navi provviste di doppio scafo e munite di tutte le attrezzature necessarie per la tutela dell’ambiente. Per quanto riguarda l’Europa ed in particolare il Mediterraneo, dove oggi transitano giornalmente oltre 8 milioni di barili di greggio (con una previsione a 10 milioni nel prossimo decennio) sono state decise restrizioni ancora più rigide, che impediscono il transito di navi costruite prima del 1982 che abbiano raggiunto un’età di 23 anni (anziché 28 come precedentemente previsto) e la messa in mora entro il 2010 delle altre grandi navi (oltre 250.000 tpl) sprovviste di doppio scafo.

Trasporto del gas via naveLe crescenti richieste di gas e le previsioni di un suo utilizzo sempre più massiccio, anche perché costituisce una fonte di energia abbastanza pulita, hanno spinto le compagnie petrolifere e di trasporto a migliorare le tecniche e le tecnologie di trasporto via nave di questo prodotto in modo da poter competere, anche dal punto di vista economico, con il trasporto in condotta. Le tecniche finora utilizzate sono state: quella del trasporto del gas compresso (CNG, Compressed Natural Gas) e quella del trasporto del gas liquefatto (LNG, Liquefied Natural Gas; in italiano GNL, Gas Naturale Liquefatto).

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La tecnica di trasporto CNG è la più antica e presenta costi relativamente più bassi rispetto alla GNL; permette però di trasportare minori quantità di gas, su distanze inferiori e soprattutto risulta più pericolosa, dovendo il gas essere trasportato in navi cisterna a pressioni comprese tra 200 e 250 bar (tecniche più moderne permettono comunque di abbassare tale valore di pressione raffreddando il gas fino a – 30° C). La tecnica di trasporto GNL è senz’altro oggi quella maggiormente utilizzata, in quanto permette di trasportare ingenti quantità di gas (avendo un fattore di riduzione di 610 volte, rispetto alle 200-250 volte del CNG). Essa consiste nel liquefare il gas con sistemi di refrigerazione multipli o in cascata a – 162° C e nel trasportarlo a tale temperatura e a pressione atmosferica con navi cisterna adeguate, aventi serbatoi ben coibentati (Fig. 31).

Fig. 31 – Schema che illustra il ciclo di produzione e trasporto del GNL (da C. Alimonti, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Durante il trasporto tuttavia è inevitabile che a causa dello scambio termico tra l’interno e l’esterno dei serbatoi si verifichi una vaporizzazione del GNL liberando gas. Tale vaporizzazione risulta comunque contenuta in 0,1 – 0,2 % del carico e il gas vaporizzato può essere utilizzato per i servizi di bordo e per la propulsione della nave se questa impiega turbine a vapore. Se invece la nave impiega motori diesel il gas vaporizzato (al netto dell’utilizzo per i servizi di bordo) viene ri-liquefatto sulla nave. A parte i costi del trasporto, i costi che incidono maggiormente sulla tecnica GNL sono quelli relativi agli impianti per la liquefazione e quelli per lo stoccaggio e la riconversione in gas. I rigassificatori sono costituiti semplicemente da sistemi di riscaldamento del GNL ad acqua o ad aria. Attualmente sono allo studio tecniche per convertire direttamente il GNL in gas evitando i costi per lo stoccaggio (Fig. 32).

Fig. 32 - Schema di un terminale di ricezione e rigassificazione del GNL (da C. Alimonti, Enciclopedia degli Idrocarburi Trecccaani)

Altri sistemi di trasporto del gasUn sistema allo studio per il trasporto del gas, in alternativa al CNG e al GNL, è il cosiddetto GTS (Gas To Solid), cioè la trasformazione del gas in idrati di metano (solidi), il trasporto di questi come tali e la successiva riconversione in gas nelle aree di ricevimento. Altre tecniche riguardano invece la trasformazione del gas in un’altra forma di energia, trasportando e utilizzando poi questa come tale. Ci riferiamo alle tecniche GTL (Gas To Liquid), cioè alla trasformazione del gas in combustibili di sintesi come il cherosene, la nafta e il gasolio (nel 2004 due di tali impianti erano in produzione rispettivamente in Sud Africa e in

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Malaysia) o in prodotti chimici come il metanolo e il dimetiletere e quelle GTW (Gas To Wire) alla trasformazione cioè del gas in energia elettrica e al relativo trasporto di questa via cavo. Sia per quanto riguarda il GTL che il GTW si tratta in genere di quantitativi di gas limitati e dispersi (generalmente in forma di gas associato all’olio) che normalmente vengono bruciati in fiaccola e il cui utilizzo attraverso un’altra forma di trasporto sarebbe difficoltosa e non economica.

LO STOCCAGGIO DI GAS NATURALE IN SOTTERRANEO E SUE PROBLEMATICHE

Lo stoccaggio di gas in sotterraneo è un argomento di grande attualità in quanto esercita un ruolo determinante nello sviluppo del mercato del gas e nella sua stabilizzazione. Lo stoccaggio di gas inoltre è importante sia per la regolazione stagionale delle forniture di gas sia per il mantenimento delle riserve strategiche. Ma che cosa è in realtà lo stoccaggio? Esso non è altro che l’immagazzinamento in strutture geologiche del sottosuolo di una quantità di gas importato in eccesso durante il periodo di minor consumo (solitamente l’estate), per essere poi utilizzata nel periodo di maggior consumo (l’inverno) (Fig. 33).

Fig. 33 – Esempio di stoccaggio di gas in giacimenti gassiferi esauriti.

Anche i paesi ricchi di gas e che sono esportatori utilizzano la tecnica degli stoccaggi, per fornire gas senza interruzione alle aree maggiormente industrializzate rispettando le variazioni di richiesta orarie, giornaliere e stagionali, evitando così la costruzione verso tali aree di gasdotti di grande capacità di trasporto, che ovviamente avrebbero un basso coefficiente di utilizzazione per buona parte dell’anno (a fronte di grossi investimenti).Le strutture geologiche in cui viene effettuato lo stoccaggio possono essere rappresentate da:

giacimenti di gas o di olio esauriti o semiesauriti; acquiferi (strutture geologiche aventi caratteristica di trappola ma contenenti acqua); cavità ricavate entro depositi salini; miniere abbandonate (molto più raramente).

Più del 70 % dello stoccaggio di gas viene effettuato nei giacimenti esauriti o semiesauriti gassiferi, sia perché questi richiedono minori investimenti, sia perché in essi è garantita la tenuta avendo già contenuto gas. I risparmi sugli investimenti per tali tipi di stoccaggi sono relativi ai costi esplorativi, praticamente inesistenti e alla possibilità di utilizzo sia di pozzi

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esistenti (anche se dovranno essere ricompletati ad hoc) sia di impianti di trattamento già costruiti e che dovranno subire solo piccole modifiche. Lo stoccaggio negli acquiferi è invece più costoso in quanto richiede alti costi esplorativi per la ricerca della trappola e test approfonditi per verificare la tenuta della copertura, per la perforazione di tutti i pozzi necessari, oltre che per la costruzione degli impianti di superficie (centrali di compressione e di trattamento). Lo stoccaggio nelle cavità saline è abbastanza costoso (in rapporto al basso volume di gas che permette di stoccare), specialmente se le cavità non sono preesistenti cioè generate per lo sfruttamento del cloruro di sodio. Se devono essere create appositamente si dovranno adottare tecniche particolari che consistono nell’effettuare una iniezione in modo continuo di acqua dolce nella formazione salina tramite un pozzo e nell’asportazione attraverso lo stesso della salamoia che via via si forma; in tal modo verranno a formarsi delle caverne artificiali oblunghe a forma di pera (Fig. 34).

Fig. 34 - Schema di costruzione di una caverna artificiale per lo stoccaggio di gas in un deposito salino (da G. Altieri, Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani).

Gli stoccaggi nelle cavità saline, pur avendo una bassa capacità di immagazzinamento, permettono di ottenere una risposta immediata e vengono soprattutto impiegati nei casi di emergenza e quando ci sono improvvise richieste di gas ma per brevi periodi.Fra gli investimenti da considerare nei vari tipi di stoccaggio c’è quello relativo ad un certo volume di gas inattivo (cushion gas), che rimane immobilizzato durante tutto il periodo in cui il giacimento viene utilizzato per lo stoccaggio. Il cushion gas ha la funzione di garantire il mantenimento di una certa pressione e quindi la produttività dei pozzi ed evitare l’avanzamento della tavola d’acqua. Il cushion gas potrà essere recuperato solo quando il giacimento non sarà più utilizzato per lo stoccaggio. La capacità di stoccaggio da considerare di un giacimento sarà quindi quella relativa alla quantità di gas che realmente può essere movimentato durante un ciclo completo di stoccaggio (iniezione/erogazione) e che viene normalmente chiamato working gas (vedi Fig. 33).

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Lo stoccaggio di gas nei giacimenti esauriti o semiesauriti risulta facilitata se questi sono di natura volumetrica (non presentano cioè una forte spinta prodotta dall’acquifero sottostante). In questo caso durante la fase di riempimento (iniezione) sarà richiesta una quantità minore di energia (pressione), in quanto non sarà necessario fare arretrare il fronte d’acqua avanzato durante la fase di erogazione come negli altri casi.Gli studi di giacimento per gli stoccaggi vengono effettuati con l’ausilio di modelli matematici, i quali ovviamente risulteranno più attendibili (almeno per i primi cicli di iniezione/erogazione) per i giacimenti esauriti e semiesauriti in quanto hanno la possibilità di essere tarati in base al comportamento del giacimento durante la sua vita produttiva. Tramite tali modelli è possibile effettuare simulazioni dinamiche ipotizzando diversi scenari, per verificare come il giacimento possa rispondere a cicli alternati di iniezione/erogazione variando il numero di pozzi, il tipo, l’ubicazione e il completamento. E’ importante sottolineare che se il giacimento è stato in produzione esso ha fornito una quantità di gas in un certo numero di anni, mentre, in caso di stoccaggio, allo stesso giacimento viene richiesto di poter assorbire e verosimilmente restituire importanti volumi di gas in un arco di tempo limitato (5-6 mesi per l’iniezione e altrettanti per l’erogazione). Quindi è molto importante che tali giacimenti abbiano adeguate caratteristiche, presentino cioè buona porosità e permeabilità, siano piuttosto omogenei e per essi sia stato predisposto un adeguato numero di pozzi, con tubing di grandi dimensioni (se non addirittura pozzi orizzontali), oltre che il mantenimento di un certo valore di pressione, che tuttavia non potrà superare i limiti stabiliti in base a test o per legge.Per determinare il fabbisogno di gas stoccato è necessario conoscere la vendita annuale e i relativi profili mensili e giornalieri per uso industriale, termoelettrico e civile (sia per uso domestico che per riscaldamento), oltre che il profilo mensile e giornaliero dei volumi approvvigionati nel corso dell’anno. Per quanto riguarda la vendita annuale e il profilo mensile le maggiori incertezze sono legate all’uso civile per riscaldamento, in quanto dipendente dall’andamento climatico. Il fabbisogno viene quindi stimato sia in termini di volumi di gas necessari che di massima portata giornaliera, considerando sia un andamento termico normale che un andamento particolarmente freddo registrati su un arco temporale di 30-50 anni a seconda del paese. Il profilo dell’approvvigionamento nel corso dell’anno è funzione naturalmente oltre che dei contratti di importazione anche della flessibilità dei campi di produzione nazionali (se esistenti); ovviamente per ridurre le necessità da gas stoccato si cercherà di utilizzare la massima erogabilità dai campi nazionali durante il periodo invernale.I sistemi di stoccaggio sono collegati alla rete principale di trasporto del gas (che opera a livello nazionale), costituita da tubi di grande dimensione, capace di trasportare ingenti volumi di gas e operata a pressioni che possono superare i 75 bar, a differenza della rete di distribuzione (quella che opera a livello locale) che è costituita da tubi di piccole dimensioni e che è operata a pressioni molto più basse (massimo 5 bar). Lo scopo principale dello stoccaggio è quello di garantire il cosiddetto “bilanciamento della rete”, cioè il mantenimento nei gasdotti di un livello minimo di pressione grazie a un adeguato volume di gas, chiamato line-pack che assicura un flusso ininterrotto. In caso di reti di trasporto molto estese, costituite da tubi di grande diametro, il contributo del line-pack in termini di richiesta di punta giornaliera può raggiungere livelli significativi (alcune decine di milioni di metri cubi, a fronte di un abbassamento di pressione di qualche bar). Normalmente il line-pack viene utilizzato negli orari di massimo consumo per uso civile (mattina e sera) e viene ricostituito durante le ore notturne.Nel mondo ci sono oggi oltre 580 siti di stoccaggio, di cui più del 70 % negli Stati Uniti e gli altri in Europa, Russia e Canada: la disponibilità mondiale di stoccaggio è pari a 286 miliardi di m3 di working gas, con una portata di punta giornaliera a massimo invaso di 5 miliardi di m3/giorno. Poiché nel trentennio 2000-2030 è prevista una crescita del consumo di gas del 2,4 % all’anno, passando da circa 2500 miliardi di m3 nel 2000 a circa 5000 miliardi di m3 nel 2030, si prevede anche una crescita della capacità di stoccaggio. Al 2010 la capacità di stoccaggio per Europa e Stati Uniti (per Russia e ex paesi dell’Est non si hanno dati attendibili)

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dovrebbe essere pari a circa 350 miliardi di m3 di working gas e a circa 6 miliardi di m3/giorno di portata di punta.

CV di Renzo MazzeiRenzo Mazzei si è laureato in Scienze Geologiche presso l’Università di Pavia ed ha operato in Eni Divisione Esplorazione e Produzione da 1957 al 1997, ricoprendo varie posizioni: da geologo dell’Esplorazione a Esperto di giacimenti di olio e gas in Italia e all’estero, ad Areal Manager del Reservoir Engineering Dpt.E’ stato per alcuni anni segretario del Comitato Nazionale Italiano per i Congressi Mondiali del Petrolio. E’ autore di articoli pubblicati su riviste nazionali e internazionali. Recentemente ha fatto parte del Comitato di Coordinamento per la preparazione dell’Enciclopedia degli Idrocarburi Treccani, curando in particolare il primo volume.

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