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Silvio Guarnieri un maestro

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Silvio Guarnieriun maestro

I lavori per la pubblicazione degli atti del convegno su “Silvio Guarnieri un maestro” sono stati diretti e seguiti da Stefano Bertelli

Hanno contribuito alla pubblicazione:Associazione Italiana di Cultura ClassicaComune di PontederaIstituto tecnico commerciale e per geometri “E. Fermi” Pontedera

ASSoCIAzIonE ItAlIAnA dI CulturA ClASSICA«Atene e roma»

Delegazione di Pontedera

in collaborazione conComune di Pontedera

Istituto tecnico commerciale e per geometri “E. Fermi” Pontedera

Silvio Guarnieriun maestro

con scritti di C. Cosci, l. Marconcini turini, n. Guarnieri, G. Fassorra, F. romboli,

F. Petroni, G. Bertoncini, r. luperini, C. Gonnelli

Quaderno 2

Atti del convegno del 12/XI/2010 a Pontedera

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Sono particolarmente lieta di scrivere una breve prefazione alla pubblica-zione degli atti del convegno su “Silvio Guarnieri, un maestro” che si tenne all’ ItCG “E. Fermi” di Pontedera il 12 novembre 2010, sia nella mia qualità di dirigente scolastica, che in quella di assessore alla cultura.

In quella occasione, introducendo il convegno, che trattava di un uomo di cultura e di scuola, non potei fare a meno di fare qualche accenno alla situa-zione in cui versano la cultura e la scuola italiana, fra tagli finanziari e riforme non del tutto condivisibili.

Ma ora non credo sia questa la sede per ripercorrere quelle mie annotazioni. Adesso è il momento di presentare questo volumetto, piccolo, ma straordina-riamente denso di notevoli interventi di qualificati relatori, che rappresenta il secondo “Quaderno” delle pubblicazioni annuali della delegazione di Ponte-dera dell’ Associazione italiana di cultura classica (ma non la seconda pub-blicazione in assoluto, dopo i bellissimi volumi sul romanzo e sulla poesia).

Come persona di scuola, insegnante e preside, non posso non segnalare la figura di Silvio Guarnieri preside agli ItC di Feltre e di Pontedera, come risulta nitidissima, con le sue intuizioni e innovazioni, dagli interventi delle presidi Cosci e Fassorra e della figlia nina. la sua attenzione privilegiata alla persona dello studente (compresa la sua salute fisica e la sua formazione sportiva!); la sua apertura della scuola al territorio e agli enti locali (eravamo negli anni ‘64 / ‘68 !); la proposta di “uscite” culturali (non semplicemente gite!). un dirigente scolastico all’avanguardia.

In questa pubblicazione seguono interventi di alto livello culturale su Guar-nieri docente universitario (in Belgio e romania, prima che a Pisa!), italiani-sta, critico letterario, scrittore a sua volta. Interventi di suoi ex alunni, saliti a loro volta in cattedra, come F. romboli, F. Petroni, G. Bertoncini, e, soprattut-to, il nostro concittadino romano luperini cattedratico a Siena.

PREFAZIONE

liviana Canovai

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Comprenderete anche la mia soddisfazione come assessore all’istruzione e cultura del Comune di Pontedera, che vede qui realizzata un’altra importante iniziativa, non unica e non nuova, nel panorama dell’impegno dell’ ammini-strazione comunale per la cultura in generale, e per la scuola in particolare. ormai da anni – direi da sempre – il Comune di Pontedera è in prima linea nell’indire o sostenere eventi di questo tipo, ed anche altri, e lo fa anche con un non indifferente contributo finanziario (il che non guasta mai !). Purché di vera cultura si tratti, come in questo caso.

Invito tutti ad un’attenta lettura di questo libro: è un vero diletto per la men-te e c’è davvero da impararci qualcosa.

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ringrazio i relatori, il pubblico oggi numeroso; ringrazio in modo partico-lare l’Associazione italiana di cultura classica, che ha organizzato l’iniziativa ed ha proposto di realizzarla in questo Istituto, in quest’aula che è intitolata proprio a Silvio Guarnieri.

Silvio Guarnieri è stato per alcuni anni Preside di questo Istituto e, pur nel-la brevità del suo incarico (1964-1968), ha lasciato un forte segno, a dimo-strazione della rilevanza dell’intellettuale, dell’uomo, dell’educatore. Con un linguaggio oggi diffuso nel mondo della scuola, si potrebbe dire che la sua leadership è stata caratterizzata da un’impostazione strategica, ovvero dalla capacità di vedere lontano e di dare un impulso profondo all’impianto peda-gogico dell’Istituto. Erano anni lontani da noi, nei quali la scuola era molto più di ora ancorata al modello gentiliano, chiusa in se stessa, con una mission dichiarata di fornire gli strumenti necessari alla vita professionale senza “con-taminarsi” con l’esterno, demandando al dopo diploma l’immersione nella realtà del mondo del lavoro.

Guarnieri ha rappresentato una ventata di novità ed ha introdotto alcuni aspetti che fanno parte dell’impostazione metodologica e didattica più avan-zata: il bisogno di un’interazione formativa scuola-territorio, il legame con il mondo del lavoro, l’attenzione rivolta allo studente come persona, la cura verso la sua formazione intellettuale, ma anche relazionale, persino fisica.

Con lui la scuola si apre il pomeriggio; i ragazzi vengono portati a Firenze e Pisa per assistere a spettacoli di prosa, opera lirica, concerti; si organizzano gite, campeggi e lavoro estivo nelle banche e nell’ospedale cittadino. Si orga-nizzano anche le settimane bianche e, poiché ci si rende conto che non tutte le famiglie possono noleggiare o comprare gli sci, Guarnieri provvede con il bilancio della scuola ad acquistare gli sci, perché a tutti vengano date, tramite la scuola, le medesime opportunità.

Ma il suo merito più grande è di aver provveduto, in un’Italia priva di Ser-

Cristina Cosci

PREsENtAZIONE

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vizio Sanitario nazionale, a svolgere una capillare opera di medicina pre-ventiva, finanziando con la cassa scolastica l’assistenza gratuita in campo odontotecnico, oculistico e otorinolaringoiatrico per tutti gli studenti.

Voi capite, attraverso questi brevi cenni, il motivo per cui la memoria di Guarnieri è ancora viva in questo istituto, in chi lo ha conosciuto direttamente e in chi ne ha sentito parlare ed è rimasto colpito da quanto gli è stato raccon-tato.

Capite anche perché a lui è stato intitolato il Circolo culturale-ricreativo interno, aperto nel 1997 e perché, quando nel 2008 è stata ristrutturata questa aula magna e ci siamo posti il problema di dedicarla a un personaggio signifi-cativo per la scuola, di nuovo la scelta è caduta su Silvio Guarnieri.

oggi, 12 novembre 2010, illustri relatori parleranno di Guarnieri preside, ma, soprattutto, dell’italianista e storico della letteratura. A tutti loro il saluto e il ringraziamento mio e dell’ ItCG Fermi, che fin da ora si impegna a dare il suo contributo per la pubblicazione degli atti.

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Silvio Guarnieri

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ricorrendo il centenario della nascita di Silvio Guarnieri (1910-1992) il Con-siglio direttivo dell’AICC di Pontedera ha ritenuto non solo opportuno ma ne-cessario riproporre ai giovani studenti e agli insegnanti - molti dei quali lo avevano avuto come docente negli anni universitari a Pisa, altri come capo d’Istituto - e a quanti sanno ricercare nel mondo della cultura un modello di riferimento morale e civile, sia pure, anzi preferibilmente, in senso dialettico, questa figura di intellettuale teso alla ricerca del senso del vivere, comprensivo ma severo osservatore degli umani comportamenti, Maestro di scuola e di vita.

è un invito a riflettere su un’esistenza consapevolmente inserita nella “sto-ria”, condotta all’insegna della “normalità”degli affetti familiari ma originale nell’impostazione dei rapporti, scevra da qualsiasi condizionamento forma-le - come raccontano i diretti testimoni - ricca di avvenimenti stimolanti, di formative esperienze letterarie e politiche, di incontri eccellenti casuali o ri-cercati, continuamente sottoposti alla personale riflessione e rielaborati sul piano della scrittura per coglierne a fondo la portata e al tempo stesso farsene testimone per gli altri anche come prezioso retaggio per i posteri.

“Spettatore appassionato” Silvio Guarnieri amava definirsi e su questo aspetto della sua personalità di uomo di cultura Carlo Bo focalizzava la sua attenzione nell’articolo a lui dedicato, apparso nella Terza Pagina del Cor-riere della Sera il 30 giugno 1992, tre giorni dopo la Sua scomparsa auspi-cando l’apertura e lo studio dei “tesori del suo archivio”. In questa prospettiva acquistano un carattere rilevante, oltre alle interessanti pubblicazioni di criti-ca letteraria, i numerosi scritti di narrativa e autobiografici, il cui valore, non solo in quanto preziosi documenti di un lungo periodo storico, ma anche, e in primo luogo, di originale forma di scrittura, è stato ampiamente messo in ri-salto in tutti i contributi degli studiosi relativi alla sua collocazione all’interno della storia della letteratura.

INtROduZIONE

laura Marconcini Turini

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determinante nella formazione di Silvio Guarnieri - dopo l’educazione ai valori dell’impegno individuale e sociale ricevuta dal padre notaio di profes-sione ed esponente del Partito Popolare - il periodo degli studi universitari a Firenze conclusi con una doppia laurea, prima in materie giuridiche poi in lettere, che indicano la sua esigenza di affrontare le complesse problematiche della vita umana sia in rapporto alle situazioni pratiche sia tramite l’appro-fondita e autorevole consapevolezza acquisita nei secoli registrata nelle opere dei grandi del passato.

A Firenze il giovane Guarnieri nel Caffè “le Giubbe rosse” in seguito de-finito “laboratorio quanto mai libero e indisciplinato di letteratura”, entra in contatto con il gruppo degli intellettuali che con il fondatore Alberto Caroc-ci hanno dato vita alla rivista Solaria e ne portano avanti le pubblicazioni con spirito critico, di apertura alle letterature straniere. Il numero monografico dedicato a Italo Svevo, esposto nella vetrina di una libreria nell’autunno del 1930, lo attrae, dandogli, come affermerà ormai avanti negli anni Guarnieri stesso, “la garanzia di una consonanza, di una predilezione condivisa”. nelle pagine di Solaria, a cui lui stesso collabora, insieme all’elaborazione dei con-cetti teoretici e metodologici della “poesia pura”, che getta le basi dell’“er-metismo”, Guarnieri scopre, accanto all’esigenza di una “letteratura pura, la letteratura disinteressata dell’intelligenza”, quel ritorno alla narrativa - intesa in senso non realistico, ma saggistico, come narrare della memoria - a cui lui pure si sente incline e che avverte consono al momento storico.

In questo clima di grande fervore ideologico oltre che letterario Guarnieri stringe amicizia con Alessandro Bonsanti, autore di romanzi d’impegno mo-rale e acuta analisi psicologica, e con gli altri collaboratori della rivista come Giansiro Ferrata e Bonaventura tecchi condivide, sia pure con molta libertà di pensiero, le ragioni di opposizione al fascismo di Elio Vittorini; osserva con attenzione i lunghi silenzi di Montale nel costante dibattito culturale, ascolta i suoi rapidi e acuti interventi, “le sue brusche ed accese puntualizzazioni”. nelle pagine di Solaria conosce l’opera narrativa di Proust e, proprio nelle traduzioni montaliane, t.S.Eliot. Per primo, come gli viene unanimemente ri-conosciuto, si accorge dell’importanza di Carlo Emilio Gadda.

tutti i momenti successivi della sua vita culturale (il lungo periodo dell’in-segnamento all’estero, in romania prima e, dopo la guerra, a Bruxelles; l’approdo a Pisa, come “maestro irregolare di letteratura italiana moderna e contemporanea”, l’inserimento nella scuola pontederese) rimangono profon-damente e definitivamente segnati da quell’atmosfera esaltante e feconda di confronto e di condivisione di ideali.

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Ad illustrare nelle motivazioni profonde la personalità di intellettuale e di uomo di scuola sono in quest’occasione di reminiscenza e di festeggiamenti persone a lui vicinissime come la figlia Antonia e soprattutto il genero Fran-co Petroni, a cui si debbono i contributi fondamentali per la conoscenza di Guarnieri apparsi a più riprese nella rivista Allegoria, oltre all’Introduzione al volume contenente il racconto dei rapporti con gli amici, in particolare con gli amici scrittori, Le Corrispondenze, edito a lecce nel 1997. un allievo il-lustre di Guarnieri come romano luperini esaminerà i rapporti di Guarnieri con Montale e la sua interpretazione di “interlocutore ‘esigente’”. un altro al-lievo, studioso di letteratura contemporanea, Floriano romboli, compirà una disamina a tutto tondo dell’uomo, dello scrittore, dell’intelletuale. Si ascol-teranno altre testimonianze dirette, di allievi grati al Maestro, quali Claudio Gonnelli e Giancarlo Bertoncini. Grazia Fassorra per molti anni docente di lettere e poi dirigente Scolastica dell’Istituto “E.Fermi”, che ospita questo convegno e di cui Guarnieri fu Preside, illustrerà la figura di Guarnieri pre-side. Si prevedono molti altri interventi interessanti di colleghi che lo ebbero maestro e che ne serbano un ricordo indelebile.

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Sono sempre contenta di venire all’Istituto Fermi di Pontedera, perché qui mio padre lo sento vivo, ricordato nel modo che lui avrebbe desiderato, cioè come persona che ha dato, sempre, in tutta la lunga vita, il meglio di sé, direi ogni sua forza, alla Scuola superiore, e all’università in Italia e all’estero. Ma mi si impone un chiarimento, una piccola spiegazione, perché non vorrei essere accusata di piaggeria.

Mio padre tornò definitivamente a Feltre nell’estate del 1950, cacciato dal Belgio per incompatibilità ideologica con l’allora re leopoldo. tornò in Ita-lia, abbattuto ma non vinto, e deciso a conquistarsi la stima dei concittadini del natio borgo selvaggio che però gli dimostrarono subito freddezza o anche indifferenza, quella stessa incompatibilità ideologica che lui aveva già prova-to e di cui era caduto vittima. I Guarnieri hanno la testa dura, e quando riten-gono di aver ragione non si arrendono. Così fece lui, e neppure quando per la strada salutava chi conosceva da sempre, perché in quell’ambiente era nato e cresciuto, e il suo saluto era appena frettolosamente ricambiato, si rassegnò alla solitudine e all’isolamento.

Mancava da Feltre da dodici anni, partito nel 1938 per timishoara (ro-mania) e le cose erano cambiate: il padre, avvocato e poi notaio più che co-nosciuto in città anche per certe stravaganze che anticipavano i tempi nuovi – portava i capelli lunghi – ma soprattutto perché non si faceva pagare dalla povera gente, era morto, e lui non aveva seguito la strada del padre, e dopo la laurea in legge aveva conseguito quella in lettere e ad esse si era dedicato. Ma non aveva seguito l’esempio del padre neppure sul piano politico, che quello era stato stimato rappresentante del Partito Popolare, e lui invece era diven-tato quel che di peggio si poteva allora, un comunista iscritto. Guardato con diffidenza dai concittadini e dagli stessi parenti, pensò che con l’inizio della scuola le cose sarebbero cambiate.

Avrebbe preso servizio all’Istituto tecnico commerciale Andrea Colotti, nel-la sezione geometri, proprio come mia madre in quella dei ragionieri. I posti c’erano, avrebbe ottenuto il trasferimento insieme alla moglie, e cominciato a

MIO PAdRE PREsIdE A FEltRE E A PONtEdERA

nina Guarnieri

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farsi conoscere, che non era poi quel diavolo che troppi pensavano. Ma se mia madre il posto lo ebbe, lui no, la sua cattedra per tre anni fu nascosta e affidata per supplenza annuale a chi dava maggiori garanzie di non turbare l’ambiente con idee nuove e ritenute pericolose. Finì così all’Istituto Magistrale di rovi-go, dove restò per tre lunghi anni, ma alla fine fu trasferito a Feltre al Colotti dove il collega usurpatore, salutandolo mesto, si consolò dicendo: “In fondo siamo tutti e due sotto lo stesso tetto”. l’Istituto Colotti infatti occupava sol-tanto il primo piano del grande fabbricato che al piano terreno ospitava la scuola media, della quale l’usurpatore sarebbe diventato preside.

Per due anni insegnò ai Geometri, poi dovette assumere la presidenza dell’Istituto rimasta vacante, come supplente. Era il professore più anziano, toccava a lui. Gli dispiacque perdere il rapporto con gli alunni e ebbe paura di diventare un burocrate come tanti che conosceva e ai quali non avrebbe voluto sicuramente assomigliare. non poteva che tentar di dare una nuova immagine al ruolo di capo di istituto: preside sì, ma diverso da ogni prece-dente modello.

E convinto che a scuola gli alunni devono andare volentieri, cominciò dal-la merenda: a un prezzo molto tagliato la scuola offriva interessanti panini ripieni, uguali per tutti, che uguale era l’appetito nei giovani. I due custodi, i fratelli darin Giancarlo e Maria teresa si accollarono volentieri l’ulteriore lavoro e sorridevano alle critiche che taluno rivolgeva al preside Guarnieri che obbligava i custodi a svolgere una mansione non di loro competenza. Poi, da feltrino qual era, sentì nel sangue il rimescolio di Vittorino e si impegnò a migliorare le strutture sportive della scuola che dotò di una attrezzatura che era messa a disposizione di tutti gli studenti che se ne volessero servire, e che erano guidati da due appassionati insegnanti: de Ciàn e la rossanda. Il Colotti rialzò la testa e, alle gare provinciali a Belluno, presto conquistò il se-condo posto, cosa della quale mio padre fu molto orgoglioso, che il primo era impossibile strapparlo all’Istituto Segato di Belluno, di 1500 allievi mentre il Colotti era di 350. troppo difficile sconfiggere la selezione naturale.

Ma sempre più studenti si appassionavano ai vari sports, tanti correvano, tanti saltavano, e lanciavano il peso, il disco, il giavellotto, e era un piacere vederli, e lui li guardava, che scendeva dai luoghi del potere, dalle stanze del-la burocrazia, per mescolarsi agli atleti sulle piste, a dare consigli, a stimolare, a entusiasmare, come entusiasta era lui. E la domenica dal Colotti partiva una grande corriera, fornita dalla scuola, che portava gli studenti a sciare a S. Martino di Castrozza, e la scuola metteva a disposizione sci e racchette per chi non li aveva. E poi, durante la settimana, continuavano gli allenamenti

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allo sci di fondo sul telva, e gli insegnanti di educazione fisica si accollavano volentieri le fatiche degli allenamenti pomeridiani, e non protestavano per i miseri straordinari, che il sentimento del gruppo e dell’appartenenza al Co-lotti era l’orgoglio di tutti. Al Colotti si organizzava il corso di presciistica , al Colotti c’era persino un massaggiatore, toni Slacca, che si prendeva cura di sciogliere i muscoli annodati da allenamenti eccessivi o troppo intensi. l’ora di educazione fisica, prima considerata noiosa e inutile, era diventata la più appassionante, e quella che univa tutti. E al povero professor de Ciàn, che impazziva dalla gioia e non pensava più ai capelli che aveva perduto, gli studenti cantavano: “l’occhio di de Ciàn brilla, e la pelata sua scintilla!”. E lui rideva con loro.

“Ma il preside Guarnieri fa fuori tutti i soldi della scuola … come farà quando avrà vuotato le casse dell’Istituto?” dicevano i maligni - e aspettavano nell’ombra il capitombolo di quell’avventuriero che aveva sposato le gelide teorie dei paesi dell’Est, e poi era tornato in patria e ora pretendeva, con ec-cessiva e disinvolta determinazione, di dare una nuova impronta alla vecchia prestigiosa scuola del luogo. Sembrò ambizioso, sembrò superbo, divenne una spina nella carne degli insegnanti e degli studenti ritardatari che lui, pun-tuale, accoglieva ogni mattina in cima alla grande scalinata con quel sorriso che non perdona e non archivia.

Ma il preside Guarnieri non fu solo un appassionato sportivo, seppe diven-tare anche un temuto burocrate. Cercando di fermare un po’ l’istinto che lo portava in palestra e lo avvicinava agli atleti che lui sosteneva sempre con grande animosità, si rinchiuse nella stanza della sofferenza burocratica, co-minciò a leggere i programmi preventivi che gli erano stati consegnati dagli insegnanti e che lui doveva valutare, su di essi esprimere un giudizio. Forse si annoiò, forse si divertì, sicuramente soddisfece quella sua ansia di conoscere le persone sulle quali poi si sarebbe proiettato suggerendo loro nuove idee, nuove possibilità di interazione con gli studenti, e rinnovato entusiasmo. Ma c’era un collega silenzioso e chiuso, di quelli che a scuola ci vanno puntua-li, a fare il loro stretto dovere e niente di più, e che non ci si trattengono un attimo se non richiesti perché non hanno curiosità, piuttosto sempre fretta di scappare. Si trovò fra le mani il suo piano di lavoro e lo lesse con attenzione, pensando che così lo avrebbe meglio conosciuto. Ma quando dalla prima pa-gina passò alla seconda, si trovò davanti “Quel ramo del lago di Como …” che tutti conoscono e ne provò stupore e sgomento. Che fare? Il suo dovere era di chiarire la questione, e chiamò l’uomo. “Ho letto il suo piano di lavoro … - gli disse -, la premessa è interessante … ma poi il discorso si interrompe

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… non capisco …”. E quello, duro: “non c’è niente da capire … queste cose ce le impongono, ma non servono a nulla e io non ho voglia di perdere tempo … che nessuno le legge. da anni dalla seconda pagina in poi io copio il primo capitolo dei Promessi Sposi … e nessun preside se ne è mai accorto … ma lei, perché è così scrupoloso? Vada al cinema, o a fare una passeggiata, che non sono queste le cose importanti nella scuola.”.

Come finisse la faccenda non so, so però che mio padre spesso lamentava disagio e sconfitte nei confronti dei colleghi che si impegnava a convertire a un diverso modo di lavorare nella scuola. Così, quando dovette affrontarne uno simpatico, ma troppo allegro e scanzonato, ebbe difficoltà, non ottenne da lui il cambiamento desiderato e dovette prendere coscienza del fatto che qualche volta gli insegnanti soffrono di allergia alla correzione dei compiti scritti. l’uomo in questione ne faceva fare tanti ai suoi allievi, ma non li ri-portava mai e, quando arrivava in laguna – abitava a Venezia – li gettava dal finestrino, dandoli in pasto ai pesci. Ma era divertente quando si giustificava: “Preside Guarnieri, l’importante è che gli studenti studino, si preparino bene, e i compiti li affrontino con serietà e con impegno … prima o poi arriveran-no tutti alla sufficienza, che io ne faccio fare tanti. E poi a me basta dargli un’occhiata, di correggerli non ho voglia. la correzione mi intristisce, e poi divento nervoso, e questo è un guaio, perché gli studenti vogliono insegnanti allegri e imparano per empatia.”. Forse il preside Guarnieri sorrise la propria disapprovazione, ma non riuscì a invertire la rotta di un metodo collaudato e che aveva il suo fascino perché costringeva gli studenti alla collaborazione e alla solidarietà.

Fra alti e bassi, ma in un grande fervore di idee e di iniziative i primi anni passarono, e mio padre si andò accorgendo che era bene regolarizzare la sua posizione di preside dando il concorso. Penso non gli pesasse eccessivamente prepararsi, che quel po’ di legge che aveva studiato dovette soccorrerlo. E fu preside, che in Italia vuol dire inamovibile, e i feltrini si rassegnarono. d’altra parte gli era entrata un po’ di assuefazione, e di costernato gusto del nuovo, e con esso la curiosità della preveggenza, e qualcuno cominciò a divertirsi a fare ipotesi anche azzardate. Ma per queste ci volevano soldi, e questi non c’erano più perché il preside Guarnieri si era guardato bene dal lasciarli gia-cere dove li aveva trovati. Fu a questo punto che di nuovo spiazzò tutti.

dalle stanze del potere si affacciava alle finestre come per un bisogno di ossigeno, di aria fresca che gli rinnovasse quella stantia che gli riempiva i polmoni, e rivide i suoi allievi che si allenavano felici sulle piste un po’ im-provvisate, ma con i migliori sussidi – scarpe coi chiodi per la velocità e per

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i salti in alto e in lungo ad esempio – delle quali lui aveva dotato la scuola, e de Ciàn e la rossanda contenti, e pensò che era urgente far costruire una pa-lestra della scuola, così studenti e insegnanti non avrebbero più perso tempo nei trasferimenti a quella di Pedavena. lo spazio c’era, i soldi no, ma quelli si possono sempre trovare, e lui era uomo di fede incrollabile. l’attitudine al pensiero lo soccorse, e nel rimuginio di ipotesi diverse, una gli sembrò più facile da realizzare. Si avvicinò così a un senatore del Partito Socialdemocra-tico, di nota famiglia feltrina, luciano Granzotto Basso, che già conosceva, come tutti si conoscono a Feltre, e andò a trovarlo. lo investì del problema, e siccome sapeva parlare e convincere, lo ebbe subito dalla sua parte, e ebbe il suo appoggio. Adesso i soldi c’erano, la cosa era fatta. Ma, come prevedibile, ci fu chi osservò il passo inopportuno, che la gloria della nuova costruzione sarebbe andata a chi aveva trovato i finanziamenti e non a chi aveva avuto l’idea coraggiosa di dotare la scuola di una palestra, più che utile e necessaria. Ma tant’è: chi anticipa i tempi è sempre criticato. E quando il tutto cominciò a funzionare, i risultati ottenuti dagli atleti migliorarono, e ce ne furono alcuni che si piazzarono ai primi posti alle gare di atletica provinciali, e mio padre era felice: ora aveva anche la squadra di palla a volo e di pallacanestro sia maschile che femminile. E quando, sempre a Belluno, il vice-provveditore Bocco, consegnando la meritata medaglia alla figlia che aveva varcato per prima il traguardo della corsa veloce, lo apostrofò dicendo: “Preside Guar-nieri ottiene tutto quello che vuole, anche la figlia che vince la gara di corsa veloce”, si accorse che lui si era commosso. E tutti lo guardarono turbati, e forse in quella occasione qualcuno dei più accaniti oppositori capì che non era un mostro, ma soltanto un preside e un padre felice.

A Feltre ci sono voluti anni perché mio padre fosse accettato, ma era tenace e finì con l’imporsi al rispetto e alla simpatia dei cittadini, ma poi, nel ’64, si trasferì a Pisa con la famiglia, e all’Istituto Colotti della sua opera non è rimasta traccia. nessuno ha continuato le sue iniziative, nessuno ha tenuto viva la sua memoria.

non così a Pontedera, dove non era conosciuto, dove è rimasto in servizio per un tempo molto meno lungo, ma dove tante persone lo ricordano, hanno continuato le sue iniziative e significativamente hanno dedicato a lui l’Aula Magna e il Circolo culturale e ricreativo: qui la sua presenza è viva e palpa-bile, e io di questo sono commossa. E mi fa piacere che in questa scuola di lui resti non solo un ricordo, ma anche una sua immagine (una incisione di E. Faraoni) alla quale ognuno possa riferire quel pensiero che si riserva solo ai maestri, e sono contenta di farvene dono.

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Altri illustreranno la figura e la storia di Silvio Guarnieri quale uomo di cul-tura, docente universitario, critico…Io desidero invece presentarvelo quale preside di questo istituto così come l’ho conosciuto attraverso le storie e le parole di molti che hanno lavorato con lui.

Potrei dire che, quando sono arrivata qui come docente, già correvano storie leggendarie sul “preside” per antonomasia, sulla sua disponibilità al dialogo con gli studenti e le famiglie, sulla sua propensione ad un rapporto di franca collaborazione con i docenti e di apertura al mondo esterno alla scuola.

un’idea sembrava stare alla base del suo lavoro, quella che il territorio nel quale si colloca la scuola, fosse un protagonista fondamentale della stessa, in quanto portatore di interessi verso la formazione. un’anticipazione, direi, formidabile sullo sviluppo del principio di sussidiarietà quale si è manifestato molti anni dopo con i provvedimenti che hanno interessato la scuola quale espressione della pubblica amministrazione e, successivamente, quale espres-sione di autonomia funzionale.

ovviamente quello in cui Guarnieri operava era un altro “mondo” rispetto a questo, ma un mondo nel quale riusciva a cogliere quei già manifesti segni delle innovazioni alle quali sarebbe andato incontro negli anni successivi.

le innovazioni stanno nella testa di chi anticipa i tempi, sempre. E’ questa una verifica che è facile fare da parte di chi avesse voglia di ripercorrere vicende e storie. Spesso gli innovatori sono poco compresi, a volte li si ri-conoscono col senno di poi, a volte, come nel caso di Silvio Guarnieri, li si percepiscono subito.

Arrivai in questa scuola agli inizi degli anni ’70, laureata da poco, con scar-sa esperienza di insegnamento, ma con una grande curiosità nei confronti di questo istituto considerato, a voce di popolo, molto prestigioso. Avevo incon-

sIlvIO GuARNIERI, PREsIdE dEll’ItC “E. FERMI”(1964 – 1968)

Grazia Fassorra

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trato Silvio in altri contesti, quello politico, in quanto condividevamo scelte e schieramenti e in quello universitario, in quanto docente di letteratura nella facoltà di lettere e Filosofia presso la quale mi ero laureata. la vera sorpresa fu la scoperta delle sue vicende di uomo di scuola, non solo dal punto di vista dell’insegnamento, ma da quello che allora era considerato un lavoro quasi “estraneo” alla vita comune della scuola, cioè del preside, visto ancora come una figura apicale solitaria e decisionista: ricordo che la percezione di tale professione allora era molto diversa da quella attuale.

Ci sarebbero stati poi i decreti delegati e l’arrivo in massa dei giovani in questa professione agli inizi degli anni ’80, per ridisegnare la figura del pre-side in un’altra ottica. la sorpresa fu che, a fronte di uno stereotipo molto diffuso (difficile da superare, anche se nella mia esperienza avevo conosciuto un altro preside, Aldo Vespi, assolutamente fuori dagli schemi consueti). Ma Vespi era stato il mio preside quando studiavo al liceo, nonché mio professo-re di fisica sperimentale e si sa che la visione degli studenti è sempre diversa da quella dei docenti e più positiva: il preside è sempre stato una figura di protezione e di garanzia.

Per tornare a Guarnieri, cominciai ad ascoltare le storie che venivano rac-contate dai colleghi insegnanti più anziani, dal personale della segreteria e, in particolare dal sig. Malloggi che già allora aveva, oltre al suo ruolo professio-nale, anche una funzione di “memoria” all’interno della scuola. Funzione che ha continuato a svolgere negli anni successivi.

ricordo che una delle prime cose che mi fu mostrata nello scantinato della scuola (che poi, da preside, divenne uno degli incubi ricorrenti in quanto “da sgomberare” e svuotare dalle masserizie) furono i famosi sci che Guarnieri aveva fatto comprare dall’ istituto per portare i ragazzi (tutti, beninteso, anche quelli che non se lo potevano permettere) a sciare.

Fu proprio il sig. Malloggi (allora Capo Bidello, così si definiva la sua pro-fessione) che mi fece esplorare per primo questo luogo e che mi mostrò i resti dei famosi sci. non so se ne rimane ancora qualcosa, in memoria dei tempi.

Certamente il preside, nel suo proporre questa attività, aveva in mente di-verse finalità: quella dell’equità sociale (come si direbbe oggi) ma anche l’idea che lo sport fa bene e che non è mai tempo perso quello che si passa a contatto con la natura e, infine, che si può anche imparare divertendosi. Evi-dentemente era una riflessione forte sul tema della motivazione come punto centrale per lo studio, ma anche per il recupero di chi a scuola va meno bene, ma che ha bisogno di sentirsi integrato e parte della comunità.

In effetti questa idea della scuola come comunità, come corpus da valo-

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rizzare come tale, pur non essendo nuova, è molto difficile da trovare nella pratica e lo era di più in quegli anni, in quanto tale idea si fonda su un presup-posto identitario forte. una comunità si riconosce come tale se si individuano valori condivisi, pratiche comuni, se “ci si riconosce” come tale. Ecco, credo che uno dei meriti più importanti di Guarnieri sia stato, attraverso le pratiche innovative nell’organizzazione e nella gestione della scuola, proprio questo. l’aver capito e messo in pratica un modello condiviso di appartenenza che è ancora raro trovare nel nostro sistema scolastico, in quanto il sistema è stato più orientato a considerare la scuola come un servizio uguale ed indistinto in qualunque luogo lo si potesse trovare, piuttosto che vocato a rispondere a bisogni personalizzati. Infatti non ci si è quasi mai, salvo le dovute eccezioni, fermati a considerare quanto lo stesso servizio possa essere diverso secondo chi lo esercita e secondo chi lo utilizza. Eppure la ricchezza del sistema sta proprio nel riconoscimento delle sue diversità, purché ce ne sia la consapevo-lezza. Sono le persone che fanno la differenza e con Guarnieri ciò era diven-tato percepibile.

Vorrei citare, tra le tante iniziative (mi scuso se ne tralascio un po’, ma il mio compito non era quello di fare un elenco, ma di restituire impressioni, in qualità di “erede”), quella del lavoro estivo degli studenti che, confesso, di aver copiato e rimesso in atto una volta iniziato il mio lavoro di preside della stessa scuola.

Probabilmente il modello non era proprio uguale, ma lo era l’idea di parten-za: questo è un istituto tecnico. Il suo compito è aiutare i ragazzi ad appren-dere i fondamenti di professioni che avranno poi necessità di aggiornamenti continui nelle competenze, ma anche consentire un approccio al mondo del lavoro e delle professioni in modo il più vicino possibile alla realtà. Se que-sta non può essere riprodotta in aula, la si può però avvicinare ed averne un saggio.

Questa idea, che sta alla base dei successivi apporti dell’alternanza scuola-lavoro, fu messa in pratica per il periodo nel quale rimase preside di questa scuola, con grande stupore di molti. Ma con grandi risultati positivi per gli studenti immessi, durante il periodo estivo, in ambienti di lavoro “vero” nei quali hanno potuto esprimere anche ciò che a scuola è difficile far emergere. E’ l’idea di ambiente di apprendimento “altro”, fuori dai banchi e dalle aule, della simulazione del reale che tanta storia avrà ed ha anche oggi. E che è legata alla domanda, allora assai anticipatoria del “come si apprende?”.

Consapevole che l’esperienza è alla base del miglior apprendimento e che dal “fare” si apprende tanto quanto dal “sapere”, confesso di aver seguito le

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sue orme e di aver aperto in istituto un fronte rivolto al laboratorio, alla simu-lazione del lavoro, all’area di progetto, all’alternanza.

Poiché per me iniziare a fare la preside è stato uno choc culturale (ero in-fatti molto contenta di insegnare ed è stato un caso che mi sia trovata a cam-biar mestiere) devo confessare che proprio l’insegnamento di Guarnieri mi ha fatto capire che forse potevo dare un contributo alla formazione dei ragazzi anche stando dietro la scrivania dell’ufficio invece che dietro la cattedra. Col che si dimostra che i buoni maestri sono fondamentali.

Ma vorrei ricordare un’ultima cosa: Guarnieri è sempre rimasto affezionato a questo istituto. da preside, non ho certo dimenticato la sua “altra” profes-sione, quella di docente universitario e più volte gli ho chiesto di tornare a parlare con gli studenti più grandi (quasi sempre quelli in procinto di affron-tare gli esami finali) di argomenti a lui cari di letteratura del ‘900.

ne sono nate lezioni indimenticabili sugli autori e sui personaggi, sugli sce-nari e sugli sviluppi della letteratura. Come dimenticare quelle lezioni e la passione nell’esporre, nel dimostrare, nel citare?

Credo che tanti lo ricordino anche così: in questo suo voler continuare ad essere un maestro per i “suoi” studenti, in qualunque tempo e luogo li si volesse collocare, con quella passione civile e partecipazione che lo hanno sempre contraddistinto come persona, oltre che come educatore.

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Silvio Guarnieri era nato a Feltre, in provincia di Belluno, il 5 aprile 1910 ed è morto il 28 giugno 1992 in seguito a un drammatico incidente occorsogli sulle strade circostanti la sua città natale, disagevoli a causa delle frequenti salite e che egli amava percorrere in sella alla bicicletta, non di rado compia-cendosi dello sforzo fisico a cui quasi sempre gli itinerarî lo costringevano.

Scrittore eminentemente autobiografico, ha espresso le idee, i fondamentali principî culturali ed etico-civili, le convinzioni profonde a cui ha ispirato la sua vita lunga e laboriosa nell’opera narrativa, che ha fin dall’inizio accompagnato il lavoro critico, l’attività professionale di interprete assiduo e rigoroso, di sto-rico attento della letteratura italiana, e che consta essenzialmente dei racconti raccolti in quattro volumi: Utopia e realtà (1955), Cronache feltrine (1969), Storia minore (1986) e Senza i conforti della religione (1992), prescindendo intenzionalmente da libri quali L’ultimo testimone (1989) o il postumo Le cor-rispondenze (1992), tramati di riferimenti storico-letterarî, sovente rinvianti a figure di autori famosi (Montale, Vittorini, Gadda, tobino, Bonsanti, tabucchi) e pertanto maggiormente caratterizzati in senso saggistico.

un lettore perspicace e sincero amico di Guarnieri, il poeta Andrea zanzot-to, ha segnalato un movimento interno alla sua produzione di narratore, se-condo lui dominata da una dinamica accrescitiva, problematicamente ampli-ficativa e artisticamente perfezionante i temi originarî, còlti dapprima in una dimensione autobiografica e nel tempo elaborati e sublimati nella cronaca ragionata e nella storia.

Per parte mia sottolineerei in aggiunta la costanza di taluni motivi, a testi-monianza di valori centrali nella concezione guarnieriana, come innanzitutto un vivo senso delle radici, un intenso amore per la sua terra. leggiamo infatti in Commiato da Feltre, la prosa conclusiva di Cronache feltrine:

A Feltre, ogni via, ogni casa, ogni tratto, ad ogni passo mi provoca-vano un ricordo, in ogni luogo mi ritrovassi la memoria anticipava lo

l’uOMO, lO sCRIttORE, l’INtEllEttuAlE

Floriano romboli

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sguardo; la minima variazione subito mi colpiva; e le cose, gli oggetti, in ogni loro particolare vivevano, con me, avevano una loro continuità, che di giorno in giorno seguivo, con curiosità, e pure, di volta in volta, con soddisfazione o con rammarico (…) Era un senso di proprietà e di gelosia che mi faceva mia tutta la mia città, tutta la sua zona circostante, come se in esse io mi continuassi, come se esse fossero una continua testimonianza di me1

tale atteggiamento intellettuale-morale non produsse mai in lui chiusura provinciale, rattrappimento localistico, culto delle esperienze geo-cultural-mente limitate; Guarnieri sentì sempre forte il desiderio di un vasto giro di relazioni sociali, aspirò a un continuo allargamento dell’orizzonte mentale e critico.

lo attesta in maniera inequivoca la sua biografia: studente a Firenze, iscritto contemporaneamente alle Facoltà di Giurisprudenza e di lettere, frequentato-re degli ambienti letterarî del capoluogo toscano e collaboratore della rivista “Solaria” fino dal 1931, dopo la laurea operò per dodici anni (1938-1950) all’estero in qualità di direttore di Istituti italiani di cultura e di lettore di ita-liano presso le università di timishoara (romania) e di Bruxelles; al rientro in patria fu insegnante di lettere nella scuola media superiore e poi preside a Feltre e a Pontedera nell’Istituto tecnico-Commerciale “Fermi”, e dal 1960 al 1980 docente di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea alla facoltà di lettere dell’università di Pisa.

Fuori d’Italia , nel 1945, aveva maturato la scelta fondamentale dell’adesio-ne al partito comunista, della quale alcuni anni dopo, nel racconto eponimo della prima raccolta precedentemente menzionata, rammenterà il preciso con-testo motivazionale:

Attraverso uno svolgimento, ch’era stato e di letture e di esperienze, di contatti con gli uomini, e di vita quotidiana, di continua aderenza agli eventi della nostra società, e del nostro tempo, ero arrivato ad una decisa ed esplicita convinzione politica e avevo aderito al partito co-munista. Così quanto ero andato scrivendo, e tutta la mia attività, mi avevano portato a tale risoluzione, e quindi a tale risoluzione erano stati aderenti, conseguenti2

Anche nell’àmbito più particolarmente letterario egli era stato netto e coe-rente nel rifiuto deciso del bozzettismo, del quadretto regionalistico superfi-

1 S. Guarnieri, Commiato da Feltre, in Id., Cronache feltrine, Vicenza, neri Pozza, 1969, p.223.2 Guarnieri, Utopia e realtà, in Id., Utopia e realtà, torino, Einaudi, 1955, p.321.

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cialmente stilizzato, magari sviluppato con studiato intento calligrafico allo scopo di riscattarne per questa via l’inconsistenza problematica.

lasciamo in proposito la parola al nostro autore:

Si giungeva così ad eliminare ogni proposito bozzettistico e con esso l’elemento che resta alla base del bozzettismo; in un certo senso questo si capovolgeva. difatti, se il bozzettismo aveva significato la resa di una realtà locale, per lo più paesana, confinata in termini ben precisi di limitatezza, di meschinità, di inferiorità; per cui quelle vicende e i loro protagonisti venivano marcati dai segni della goffaggine, della gros-solanità, e quindi del ridicolo; ricuperando in essi la loro più profonda ragione, ad essi si restituivano un’esigenza di vita, un’aspirazione ed anche un coraggio di vita (…) che finivano con il risultare forza mo-trice, elemento di spinta determinante della storia: quella parte celata della storia maggiore di cui però la storia maggiore vive, senza la quale essa, per uno o per un altro verso, non si farebbe, o meglio non potrebbe essere fatta3

Sono considerazioni comprese nella nota preliminare a Storia minore, un ampio volume ricco di testi rievocativi di avvenimenti e personaggi a vario ti-tolo significativi della vicenda storica recente del Feltrino (dagli episodî della resistenza contro il nazifascismo ai duri conflitti politico-sociali legati alla ricostruzione post-bellica, ad aspetti e individualità del mondo cattolico tanto presente e radicato nell’area veneta), e anche meno recente, giacché il primo, godibilissimo racconto intitolato L’albero della libertà ricorda la curiosa fi-gura della nobildonna Billesimo, una giovane signora di Fonzaso - frazione di Feltre e luogo d’origine della famiglia Guarnieri -, che alla fine del Settecen-to, a dispetto della sua appartenenza alla piccola aristocrazia terriera, scanda-lizzava i benpensanti conservatori per lo spregiudicato anticonformismo con cui manifestava il proprio consenso alle idee rivoluzionarie che giungevano d’oltralpe, arrivando a leggere in chiesa durante le funzioni religiose una co-pia – magari non fresca di stampa - de “le Journal des débats” e soprattutto a danzare seminuda attorno a un albero della libertà che aveva fatto innalzare nel giardino attiguo alla sua abitazione…

l’amore per l’ambiente originario si specifica altrove nella forma del con-tatto ammirato e tonificante con il paesaggio naturale, dalla cui bellezza lo scrittore si sente talora intimamente pervaso, davvero conquistato, come in occasione di quella gita in macchina che lo conduce in compagnia di un ami-co oltre le località di Pedavena, Pren e lamen, fino all’imboccatura di una

3 Guarnieri, Perché questo libro, in Id., Storia minore, Verona, Bertani, 1986, pp.11-13. Il libro è accompagnato da illustrazioni di Vico Calabrò, un artista amico dello scrittore.

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valle magnifica e riposante per l’armoniosa conformazione e per la lontanan-za dalla vita frenetica della città.

la zona è descritta con notevole partecipazione nel racconto Perché sono uno scrittore, apparso per la prima volta su “l’unità” dell’ 8 settembre 1955 e poi incluso in Cronache feltrine:

Mi sentivo prendere da tutta la stanchezza accumulata in tanti anni, con un abbandono, con un desiderio davvero di immergermi in quella pace, in quella serenità, di farla mia e di penetrarmi in essa, e non per un momento;. restare qui, girovagare per i prati, sedere all’ombra di un al-bero, inerpicarmi per un sentiero, e riposare, infine riposare, non pensa-re più a nulla; dimenticare preoccupazioni, dispiaceri, gioie ed impegni (…) Ecco quella valle diventava per me proprio come una meta ideale, come un momento fondo e necessario della mia esistenza4

Però l’incontro nel medesimo luogo con il grave disagio umano, con la rassegnata e fiera sofferenza di una donna costretta, a causa della malattia del marito, ad andare, insieme ad un figlio adolescente, a lavorare in Svizzera e a separarsi dalla figlioletta che la saluta piangente, spezza la serenità idillica della situazione iniziale; e le ultime raccomandazioni rivolte in dialetto alla bambina (“ricòrdete de badarghe ai cunicét, de darghe l’erba fresca”) deter-minano nell’animo dell’autore uno stato d’intensa commozione che finisce per sopraffarlo:

In quelle parole s’erano ormai fissati un’immagine ed un sentimento, e per esse mi si premeva come un peso sull’alto della gola, contro il palato, e ad inghiottire non lo vincevo; e se poi la gente, la lettura e la conversazione mi riprendevano, il ritmo consueto della mia giornata, ecco che d’un tratto, ad una pausa, ad un momento vuoto, quelle parole e quella frase tornavano, si ripetevano, mi costringevano5;

inducendolo a dichiarare il proprio orientamento etico-estetico, in una vibran-te puntualizzazione auto-esplicativa:

Io non so essere scrittore obbediente alle leggi dell’estetica, io non so essere scrittore che distacca e domina i propri sentimenti, che sa calare anche il dolore in una serena contemplazione, superarlo nell’armonia della rievocazione poetica (…) Vorrei che le mie parole, che tutti i miei scritti fossero nutriti di una serenità e di una tranquilla gioia ed invece essi mi nascono come un grido, sono sostenuti e costretti dal dolore,

4 Guarnieri, Perché sono scrittore, in Id., Cronache feltrine, cit., p.148.5 Guarnieri, Perché sono scrittore, cit., p.151.

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dalla disperazione, da una necessità di rivolta; da tanti anni, da quando ho cominciato a scrivere, dolore e furore, ribellione mi nutrono; per essi sono divenuto scrittore; per essi sono, forse, scrittore6.

Avvertiamo qui un aspetto peculiare della personalità di Silvio Guarnieri: la sua umanità generosa e combattiva, la grande disponibilità personale sempre animata da una tensione ideale che lo rendeva alieno dai calcoli utilitarî, dai cedimenti al compromesso accomodante, del tutto insensibile alle lusinghe del successo e alla prospettiva di un’integrazione furbesca nelle strutture del potere.

Sono caratteristiche salienti della sua fisionomia morale e intellettuale un’orgogliosa rivendicazione di autonomia, una ricerca di indipendenza nei comportamenti e nei giudizî ispirata a un radicale volontarismo che non pote-va non permeare altresì l’abito mentale dello studioso, se nelle riflessioni in-troduttive a un’opera di forte impegno interpretativo e storico-culturale come Cinquant’anni di narrativa in Italia, questi non esitava ad asserire:

Sin da allora, anzi sin proprio dai miei inizi di scrittore, ero sostenuto da un ben deciso orgoglio e da una sorta di persistente convinzione non tanto e non solo di un mio valore, quanto dell’importanza e della pe-rentorietà di una mia posizione di intransigenza. non potevo accettare di piegarmi, di adeguarmi ad una mentalità e ad un costume che non fossero i miei; anzi alle suggestioni ed ai suggerimenti reagivo proprio in senso opposto; e quando mi parve di poter riconoscere dentro me un momento, un modo di accondiscendenza, subito fui portato a reagirvi, come d’un subito ad escludermi una via che comunque avesse potuto significare per me un anche minimo compromesso7

un siffatto orientamento ideale si concretizzava sul terreno social-politico in una posizione di aperta opposizione al sistema del predominio economico borghese, nella collocazione a fianco dei ceti svantaggiati, sfruttati, tradizio-nalmente privi di parola e di presenza organizzata nella comunità civile.

Se “la convinzione del necessario riscatto della personalità dell’uomo, della sua dignità da ogni sfruttamento, da ogni forma di imposizione, del suo di-ritto al lavoro, ad occupare nella società il posto che gli spetti nell’effettiva eguaglianza con tutti gli altri suoi simili, in una solidarietà retta su giuste leggi liberamente promosse ed accettate” rappresentava un nucleo di “indi-scutibili, irrenunciabili ideali umani” che “si compendiavano nella parola

6 Guarnieri, ibidem.7 Guarnieri, Ragioni di una critica, in Id., Cinquant’anni di narrativa in Italia, Firenze, Pa-renti, 1955, pp.19-20.

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comunismo”8, un’appassionata e tenace militanza nel partito comunista era stata per Guarnieri la conseguenza ineludibile di una mai sconfessata scelta di vita (“Il desiderio di un incontro disarmato e spontaneo con persone alle quali mi potessi dichiarare senza riserve e diffidenze e che a me si dichiarassero allo stesso modo, in una concorde ricerca, animati dalle stesse aspirazioni e partecipi dello stesso costume morale; questo era per me l’attività politica, strumento di una fiduciosa, aperta solidarietà; o meglio senza ciò per me essa nessun interesse avrebbe avuto (…) perché in questa attività, in questi incon-tri trovo l’ultima conseguenza, la più profonda ragione della mia vita”)9, no-nostante la manifesta ostilità di molti e la prassi intimidatoria di alcuni, come nel caso di quell’irruzione da parte di quattro carabinieri armati in un locale privato annesso a un’osteria, ove egli teneva un’assemblea di iscritti e simpa-tizzanti a Seren del Grappa, di cui si narra nel racconto Le forze dell’ordine in Storia minore10.

Questa intransigenza assumeva anche il volto della polemica anticlericale, allorquando la religione fosse utilizzata dai sacerdoti in funzione di un’ege-monia conservatrice sul costume sociale, allo scopo di “ consigliare ai loro fedeli, ai contadini loro parrocchiani, il rispetto per quanti erano depositari di un’autorità, per invitarli alla rassegnazione ed alla sottomissione anche di fronte ai soprusi, alle imposizioni di coloro dai quali per lo più dipendevano”11.

8 Guarnieri, Giustificazione, in Id., Cronache feltrine, cit., p.14.9 Guarnieri, Le Croci, in Id., Cronache feltrine, cit., pp.115 e 124).10 Guarnieri, Le forze dell’ordine, in Id., Storia minore, cit., p.348: “Improvvisamente, giun-gendo dal corridoio attraverso il quale si accedeva all’osteria, aperta la porta fecero irruzione nella cucina quattro carabinieri con l’arma sulla spalla, tutta ingombrandola senza che ci si po-tesse più rigirare. Ci eravamo volti verso di loro sorpresi, senza renderci ben conto di che cosa avvenisse; chi si era addormentato si svegliò di colpo, si guardava intorno mal capendo dove si trovasse; neppure io mi capacitavo di fronte ad un simile apparato di guerra; l’appuntato che comandava il gruppo mi chiese che cosa si facesse; gli risposi che si teneva una riunione in un locale di uso privato concessoci da chi ne era il proprietario; di nulla potevamo essere incrimi-nati. Forse anche lui fu colto da disagio, si rese conto di quello che era un errore acquistando coscienza della situazione, ma ormai non poteva ritrarsi dal compito che gli era stato affidato; ci intimò di uscire di là, l’indomani avrei dovuto presentarmi alla sede della tenenza”.

è pur degno di interesse il discorso fatto a Guarnieri in tono pacato da un graduato nei locali della tenenza di Feltre; eccone il resoconto preciso alla pagina seguente:

“davvero io non potevo per nessun motivo essere perseguitato per quella riunione, però era nel mio interesse rendermi conto del momento, della situazione, delle responsabilità che gravavano sulle forze dell’ordine; di come esse dovessero essere preoccupate a far fronte a qualunque azione che potesse essere indirizzata a turbarlo; e poi, io appartenevo ad una famiglia agiata, ad una delle famiglie più note in città, come insegnante io avevo un posto di responsabilità e di prestigio; perché mi sceglievo delle compagnie tanto lontane da quelle che erano le mie esigenze culturali, la mia posizione sociale, le mie frequentazioni consuete?”.11 Guarnieri, Vita e morte di Giuseppe Greco, in Id., Senza i conforti della religione, roma, Editori riuniti, 1992, p.86.

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è quel che pensa dei preti Giuseppe Greco, protagonista del bellissimo Vita e morte di Giuseppe Greco, il primo dei due racconti che costituiscono il li-bro Senza i conforti della religione; era costui un giovane dal fisico robusto e temprato dalla dura fatica del lavoro di muratore e contadino, nonché va-loroso attivista di partito, che si era ferito gravemente ed era ormai prossimo alla morte perché finito ad alta velocità con la motocicletta contro un platano.

Guarnieri, che a Bepi Greco si era nel tempo legato in un rapporto di grande stima reciproca, anzi di “confidenzialità persino affettuosa”12, in accordo con i suoi genitori, ne difese con decisione la ferma volontà di rifiutare “i conforti della religione” offertigli dal cappellano dell’ospedale di Feltre con “ un sen-so quasi di rivincita, come se in lui vedesse il peccatore, il reprobo, colpito ed umiliato dalla potenza divina”13, magari nell’intento di “fargli condannare ciò cui più teneva: la sua lunga opera di una presa di coscienza politica, le convin-zioni raggiunte, tutta la sua attività, la sua militanza; infine quanto nella sua esistenza egli riteneva vi fosse di più valido, di esemplare”.14

Però la riserva ideologica in nessun caso divenne in lui oltranzismo pregiudi-ziale e fanatico, poiché era indubbio il suo apprezzamento per quegli uomini di chiesa che testimoniavano con coerenza lo spirito del Vangelo, proponendo il messaggio cristiano nella sua universalità, quale valore coinvolgente ognuno in una dimensione spirituale di comunione e di fraternità; ad esempio gli incontri per strada con monsignor Angelo troian, suo antico maestro di latino al gin-nasio, improntati a chiara e viva cordialità, gli suggeriscono alla fine del testo, che non per caso reca il titolo Nel segno del Vangelo, pensieri di questa natura:

da quel suo gesto, da quella sua stretta, come in un tempo lontano, mi sentivo difeso, mi sentivo protetto; poiché egli mi confermava la certezza che, al di là di ogni vicenda umana, di ogni principio, di ogni convinzione, vi è sempre nell’uomo, in qualunque uomo una zona pro-fonda, e per lui la più valida, quella per la quale egli è veramente uomo, che gli permette, che gli rende possibile la partecipazione, la solidarietà con l’altro uomo; anche con quello che pare a lui più lontano. Con que-sta certezza penetrava in me un profondo senso di pace15.

Gli è che la lotta ideale per un costume etico-culturale rinnovato era sempre parsa pure al critico condizione sine qua non per una nuova letteratura, stando a quanto egli scriveva nel saggio Sul neorealismo, vergato nel 1955 e stampa-to poi ne L’intellettuale nel partito(1976), un volume significativamente de-dicato a Sebastiano timpanaro, grande filologo, storico delle idee e rigoroso

12 Guarnieri, Vita e morte di Giuseppe Greco, cit.,p.64. 13 Ivi, p.87.14 Ivi, p.91.15 Guarnieri, Nel segno del Vangelo, in Id., Storia minore, cit., p.386.

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(talvolta rigido) intellettuale di estrema sinistra:

noi sappiamo bene che una nuova arte, una nuova letteratura, una nuova cultura, come movimento, come elemento di civiltà, possono na-scere e svolgersi naturalmente e avere una loro forza di spinta, un loro rigoglio solo se si alimentino del tessuto di un nuovo costume, di una nuova società che siano portatori dei nuovi principi16.

Si coglie in tale impostazione critico-culturale un animus neo-romantico e desanctisiano, così come più d’uno spunto del vasto lavoro Carattere degli italiani(1948) – costruito sulla base di quadri generali in cui la storia lettera-ria nelle sue linee di forza è rivelatrice delle “caratteristiche” primarie della storia nazionale – è debitore della lezione metodologica di Francesco de San-ctis; d’altra parte Guarnieri ha sempre praticato la letteratura come impegno totale e ciò non è stato privo di importanti ripercussioni sul piano dello stile, sollecitando una tecnica di scrittura imperniata sulla misura lunga dei periodi, contraddistinti da volute sintattiche elegantemente esuberanti e reduplicative, tese ad aderire a tutto il reale, a esprimere ogni frammento di esso.

la loro lentezza, quel voler dire tutto e nulla tralasciare, quell’insi-stenza e quella ripetizione degli stessi elementi nella ricerca di un’estre-ma compiutezza e chiarezza, ed infine quella volontà di una stretta con-seguenza, quel tendere in ogni modo ad una conclusione, quell’esiger-la, insomma quell’essere tutti organati su di un ragionamento, e quindi quel tanto di ammaestrativo, di didascalico che ne risulta”17:

l’osservazione dell’autore, vòlta a un’auto-caratterizzazione stilistico-lette-raria relativa alle Cronache feltrine, è invero proficuamente suscettibile di ge-neralizzazione, poiché – come ha rilevato Franco Petroni con riferimento ad altre pagine –dalla narrazione guarnieriana “deve essere espunto tutto ciò che alla realtà non è conforme: la retorica deve sempre cedere il posto alla verità, sulla quale, soltanto, si misura la validità di ciò che si scrive. E la verità deve essere completa : quindi non sono permesse le omissioni. da qui l’assenza…della figura dell’ellissi nella narrativa di Guarnieri: l’omissione coincide con la mancanza d’informazione; mai è dovuta ad artificio retorico”.18

Persino uno scrittore del prestigio di Italo Calvino riconosceva “nella sua mappa dello scrivibile” una ‘zona Guarnieri’ ,individuandone la specificità nella “zona dell’esperienza vissuta e riflettuta fino in fondo giorno per giorno,

16 Guarnieri, Sul neorealismo, in Id., L’intellettuale nel partito, Venezia, Marsilio, 1976, p.114.17 Guarnieri, Giustificazione, in Id., Cronache feltrine, pp.17-18.18 F.Petroni, Introduzione a S. Guarnieri, Le corrispondenze, Milano-lecce, lupetti-Piero Manni Editori, 1996, p.11.

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la zona dei fatti che danno forma e senso alla vita (…) perché Silvio Guarnie-ri scrittore ha praticato questo tipo di prosa insieme narrativa e saggistica, e perché Silvio Guarnieri critico ha sempre identificato il valore nella ricerca di una verità morale ed esistenziale”.19

Per l’intellettuale feltrino la realtà è storia, ma anche natura, e quest’ultima rappresenta ai suoi occhi quel complesso di forze esterne, spesso ostili che contrastano l’iniziativa dell’uomo, bloccandone il disegno ideale e frustran-done le aspirazioni morali più alte; mi permetto ancora una citazione:

nella natura, nell’ordine delle cose, nello svolgimento dei fatti, non avverto il segno, l’impronta di un essere superiore che tutti li compren-da e li ordini secondo un fine di cui non si possa non essere veramente partecipi. E nella natura, e così nella nostra storia, vedo la prevalenza e il dominio di una norma che è ancora al di fuori di noi, della nostra in-telligenza, della nostra volontà e della nostra capacità. da quella norma e dall’ordine che ne dipende l’uomo si distacca ed essi gli si configura-no come inadeguamento, disordine, sofferenza; in essi, contro di essi, l’uomo lentamente, tenacemente, penosamente si scava la sua storia, con una lunga fatica che lo logora, che lo affina, che spesso lo stronca. E spesso egli sperimenta la propria inadeguatezza, trova il proprio limite, e non ha i mezzi per superarli; ed al tempo stesso non può non ricono-scerlo; ma come sofferenza, anche come disperazione20

In questo brano è posta in risalto con lucidità ed efficacia la dualità –ambi-gua e affascinante –costituzionalmente propria dell’uomo: questi è infatti ad un tempo un animale di natura, alla stregua di tante altre specie di viventi, e un animale di cultura, in forza delle sue capacità intellettive raffinate e complesse che gli assicurano nell’ordine biologico una condizione del tutto speciale, eppur intimamente contraddittoria.

Grava altresì su di esso il peso determinante di quella parte fisico-istintuale che lo accomuna all’universo zoologico, necessitandone i comportamenti e limitandone obiettivamente il campo d’azione; tuttavia ha sempre ambìto a liberarsi di tali vincoli, a sublimare gli stimoli coattivi, canalizzandone l’ener-gia vitale secondo intenti di costruzione individuale e collettiva diretti a cor-reggere storture, a sanare situazioni di partenza aspre e crudeli caratterizzate dal primato della forza e quindi dall’egoismo aggressivo e prevaricatorio dei meglio dotati per eredità naturale e sociale, secondo quella legge inesorabi-le – evidenziata tanto tempo fa con sintetica incisività da Seneca in un passo delle Epistulae morales (XIV, 2, 4) -, secondo la quale “naturae est enim

19 I.Calvino, Una “zona Guarnieri”, in A.A.V.V., Per Silvio Guarnieri. Omaggi e testimo-nianze, Pisa, nistri-lischi, 1982, p.111.20 Guarnieri, Vita e morte di Giuseppe Greco, cit., pp.102-103.

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potioribus deteriora submittere” (è infatti proprio della natura sottomettere i fiacchi ai più capaci).

la civiltà umana nel corso dei secoli ha mirato a ridurre progressivamente le esteriori e spietate necessità riconducibili alla spontanea dinamica della natura o attribuibili all’arretratezza storica tramite il controllo razionale di àmbiti sempre più estesi di realtà; e l’idea comunista si è spinta più avanti di ogni altra nel reclamare la subordinazione totale delle energie sociali ai fini di una cosciente programmazione egualitaria delle forme di convivenza. Vale la pena ricordare al proposito le riflessioni teorico-politiche svolte da lev tro-ckij appunto alla fine della sua Storia della rivoluzione russa:

l’ascesa storica dell’umanità, considerata nel suo insieme può essere sintetizzata come un susseguirsi di vittorie della coscienza sulle forze cieche – nella natura, nella società, nell’uomo stesso (…) Ma i rap-porti sociali continuano a formarsi alla maniera delle isole coralline (…) la democrazia costituisce naturalmente una grande conquista. Ma non intacca il gioco cieco delle forze nei rapporti sociali. la rivoluzio-ne d’ottobre ha alzato la mano per la prima volta contro questa sfera dell’inconscio. Il sistema sovietico vuole stabilire una finalità ed un pia-no nelle basi stesse di una società, dove sino a quel momento avevano prevalso solo effetti accumulati21.

risulta obbligatorio a questo punto l’interrogativo : è possibile assoggettare completamente alla ragione disciplinante e pianificatrice la natura istintivo-animale dell’uomo senza andare incontro a inquietanti conseguenze negative?

Già Freud sottolineava i costi - in termini di infelicità individuale e colletti-va, di autentico “disagio della civiltà”- del sistematico infrenamento dell’istin-tività libidica, e sono ormai evidenti e ammonitrici le “dure repliche” storiche al principio ambizioso di un piano che metodicamente e diffusamente diriga la vita dell’intero corpo sociale; il progetto di un superamento definitivo del-le conflittualità e delle differenze/disparità innegabilmente, almeno in parte, connesse alla natura umana ha infatti avuto rovinose implicazioni dispotico-autoritarie, approdando a esiti di grave, inaccettabile oppressione che non possono non interrogare la coscienza culturale-ideologica contemporanea.

Guarnieri, delle cui convinzioni politiche già si è detto, prevedeva que-sti rischi drammaticamente involutivi, allorché, commentando nel 1957 – quindi in un tempo appena successivo al XX Congresso del PCuS e all’ini-zio della cosiddetta destalinizzazione – un articolo di Kostantin Simonov pubblicato sulla rivista “novy Mir”, affermava senza incertezze l’irrinun-ciabilità nei paesi socialisti del diritto a una ricerca davvero libera e priva di

21 l.trockij, Storia della rivoluzione russa, traduzione di l.Maitan, Milano, Sugarco, 1964, p.1251.

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condizionamenti diretti e costrittivi:

lo scrittore, portato di necessità, direi per sua natura, a conoscere, a rendersi conto della realtà, ad aderire alla realtà e a coglierne le molle segrete, più intime, e a trovare così un accordo con il suo popolo, e un accordo che si basi appunto su una solidarietà fondamentale, umana, su di un incontro fatto di lavoro e quindi di moti quotidiani e di sentimenti, -poi troverà di per sé, secondo le sue esigenze e le sue possibilità, la via per esprimere tale solidarietà, tale sua conoscenza della realtà, senza schemi fissi e programmi determinati (…) di questa sua piena libertà egli ha diritto, perché guai se egli non sentirà la sua arte come una libe-razione, senza imposizioni e costrizioni e neppure autocensure. Sennò arriveremo a un risultato opposto22

Il corsivo è mio e serve a sottolineare la ponderatezza del giudizio critico-politico: il socialismo, se davvero si proponeva di liberare i lavoratori dallo sfruttamento e dal bisogno, e di garantire a tutta la collettività un sistema di vita superiore, non poteva ammettere la limitazione della circolazione delle idee e la compressione della libertà intellettuale e artistica, pena umilianti regressioni autocratiche.

A distanza di tanti anni è difficile non ravvisare forme di ingenuità e di persistente fideismo ideologico in questo tipo di approccio ai problemi delle società del comunismo realizzato nell’Est europeo; mi preme piuttosto rileva-re e valorizzare in esso quelle doti di sensibilità culturale e di grande umanità che sempre appartennero a un uomo come Guarnieri e ne contemperarono il risentito volontarismo, conferendo alla sua figura quel tratto di grande equili-brio che egli immediatamente trasmetteva nel rapporto con gli altri. è grazie a questo equilibrio che l’intellettuale, il critico, l’uomo di scuola, il militante politico può diventare un maestro.

22 Guarnieri, Per uno scritto di Konstantin Simonov, in Id., L’intellettuale nel partito, cit., pp.170-171. Konstantin Mikhajlovic Simonov (1915-1979), poeta, drammaturgo e prosatore sovietico, era stato un intellettuale molto influente all’interno dell’unione degli Scrittori, in seno alla quale fu segretario della direzione negli anni 1954-1959 e 1967-1979. Il suo intervento su “novi Mir” era stato tradotto e pubblicato in Italia su “rassegna sovietica” (n°1, gennaio-febbraio 1957), ove lo aveva letto Guarnieri, che affidò originariamente la sua risposta alla rivista “Presenza” (Anno I, n°1, luglio 1958, pp. 44-57) .

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Silvio Guarnieri, noto soprattutto come intellettuale e come critico mili-tante, è stato anche un narratore dotato di una sua forte connotazione. Il più chiaro riconoscimento del significato della sua opera narrativa lo si deve a Italo Calvino, il quale scrisse:

C’è una «zona Guarnieri» nella mia mappa dello scrivibile: la zona dell’esperienza vissuta e riflettuta fino in fondo giorno per giorno, la zona dei fatti che danno forma e senso alla vita. la chiamo «zona Guar-nieri» perché Silvio Guarnieri scrittore ha praticato questo tipo di prosa insieme narrativa e saggistica, e perché Silvio Guarnieri critico ha sem-pre identificato il valore nella ricerca d’una verità morale ed esistenzia-le. la lezione di Guarnieri ha contato per me fin dagli anni della mia formazione letteraria perché mi è giunta attraverso la vibrazione morale e la calorosa fiducia umana che egli è sempre riuscito a comunicare1.

Senza la lezione di Guarnieri non sarebbe nato, forse, un racconto-saggio come La giornata d’uno scrutatore2. Ma, nella produzione calviniana, esso è un episodio: perché Calvino era convinto che lo scrittore si può esprime-re solo «parlando d’altro». Guarnieri viceversa abolisce dalla sua narrativa ogni elemento d’invenzione. la riflessione morale è, immediatamente, anche ricerca letteraria. la scrittura deve rappresentare la realtà, perché essa è in-finitamente più ricca e imprevedibile di qualsiasi invenzione (quest’ultima regola tuttavia, con intelligente incoerenza, Guarnieri critico l’applicava sol-tanto a se stesso). una simile poetica sembra negare la funzione di ritorno del

1 A.A.V.V. Per Silvio Guarnieri, omaggi e testimonianze, Pisa, nistri-lischi, 1982, p. 111.2 I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, torino, Einaudi, 1963.

lA POEtICA dEllA vERItà sIlvIO GuARNIERI NARRAtORE

Franco Petroni

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represso che sarebbe specifica della letteratura; ma la sua forza sta proprio nell’energia di questa negazione.

Caratteristica della scrittura di Guarnieri è la perentorietà. Egli deliberata-mente ignora il relativismo, la sospensione del giudizio, la molteplicità dei punti di vista, se questa comporta anche l’equivalenza sul piano del valore e quindi la sostanziale indifferenza morale: cioè quelli che molti considerano elementi distintivi del moderno in letteratura, ma che più opportunamente dovremmo considerare elementi distintivi del postmodernismo. non rifiuta l’ideologia (o meglio, non finge il rifiuto dell’ideologia), anzi la ostenta.

la deliberata indistinzione tra letteratura e vita risale all’origine solariana di Guarnieri (che fu il più giovane collaboratore di «Solaria»), cioè agli inizi degli anni trenta. Gli anni Quaranta e Cinquanta, nei quali si svolse la sua prima attività di narratore, (nel ‘41 e nel ‘43 pubblicò in romania, dove si trovava a dirigere l’Istituto Italiano di Cultura, in soli centodieci esemplari, la prima e la seconda parte di una Autobiografia giovanile di anonimo scrittore contemporaneo3; nel ‘55, nei «Gettoni» di Vittorini, Utopia e realtà4), sono quelli in cui alcuni tra i risultati più alti della nostra narrativa si hanno nella memorialistica (si pensi a Carlo levi, a Primo levi, a Giuseppe raimondi, a Guglielmo Petroni, a Mario tobino). la poetica di Guarnieri si forma quindi in un ambiente particolarmente propizio. All’autobiografismo egli si manten-ne fedele per tutta la sua attività di scrittore (narratore e critico, perché anche la sua saggistica letteraria è sempre in chiave autobiografica): dalle sue prove iniziali a quelle della piena maturità (Cronache feltrine5; Storia minore6; L’ul-timo testimone7), fino alle sue prove ultime: Senza i conforti della religione8 e i dieci racconti postumi Le corrispondenze9, pubblicati nel 1996 a cura della figlia Antonia (queste ultime due opere fanno parte di un progetto unitario, in cui rientrano altri due volumi finora inediti, Lavori d’autunno e Cronache di pace e di guerra).

nel’Autobiografia giovanile (ripubblicata nella sua prima parte nell’’84, in

3 l’opera consta di due volumi, stampati in proprio e non firmati. 4 torino, Enaudi, 1955.5 Vicenza, neri Pozza, 1969.6 Verona, Bertani, 1986.7 Milano, Arnoldo Mondadori, 1989.8 roma, Editori riuniti, 1992.9 Milano/lecce, lupetti/Piero Manni, 1996.

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edizione anastatica, presso la libreria Pilotto Editrice di Feltre) l’allora tren-tunenne Guarnieri scriveva:

Sono convinto che l’opera d’arte, e qualunque lavoro umano, nasce da una forma di compromesso con se stesso, da un abbandono, da una non volontà di continuare ad indagarsi e tormentarsi; essa segna un mo-mento di riposo nella continua fatica del pensiero; perciò chi scrive, chi agisce, non può sentire nell’atto che compie qualcosa di assoluto, gli resta la coscienza ch’egli stesso avrebbe potuto dargli forma diversa, ma al tempo stesso ha la convinzione che ciò ch’egli fa lo impegna per il rapporto che ha con ciò che ha fatto e con ciò che farà. Per me l’episodio separato non esiste, come non esiste la bella pagina, o la bella espressione; esiste un continuo e fitto intreccio di rapporti umani che noi, per avere la possibilità di rifugiarci in qualcosa di certo e di immutabile, tentiamo fermare con definizioni le quali di volta in volta ci si consumano nella memoria e possono essere soltanto riassuntive di un momento o di un periodo.10

Questa riflessione, che subordina la dimensione estetica a quella morale, ha profonde radici nella nostra cultura (basti pensare a Manzoni). l’«abbassa-mento», che ne consegue, del linguaggio letterario, avviene in lui nel segno della concretezza e dell’assenza di retorica; quindi anche della democraticità, per il rifiuto di ogni forma di «assoluto» e per la convinzione che non esiste la «bella pagina», ma piuttosto «un continuo e fitto intreccio di rapporti uma-ni» che noi invano tentiamo di immobilizzare in definizioni, quando cediamo all’illusione di «rifugiarci in qualcosa di certo e di immutabile».

la letteratura, per Guarnieri, ha una funzione insostituibile. Egli, pessimi-sticamente, vede che ognuno tende a chiudersi in sé, anche quando persegue un obiettivo per lui essenziale, e talvolta nobile; perché tutti inevitabilmente tendiamo ad affermare la nostra concezione della vita su quella degli altri. Senza accorgercene, non teniamo conto degli altri e senza volerlo esercitia-mo su di loro un’oppressione. Guarnieri, comunista e moralista, si avvede del pericolo. la letteratura, abituando allo scavo interiore, può svolgere una funzione di correttivo. Conoscendo più profondamente noi stessi, possiamo conoscere anche gli altri e le loro ragioni.

la letteratura può favorire i rapporti umani. Ecco cosa Guarnieri scrive

10 S. Guarnieri, Autobiografia giovanile, Feltre, libreria Pilotto Editrice, 1984, p. 8.

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nell’Avvertenza posta all’inizio di Utopia e realtà:

negli uomini e nei fatti sono stato spinto a cercare quella stessa ur-genza, quell’ansia e quella speranza che mi sono proprie.

Per questo molti, e forse anche taluno di quelli che qui si vedranno ritratti, affermeranno ch’io ho fondamentalmente forzato, e quindi fal-sato, la realtà; ma io appunto badavo a rinnovare e quindi a salvare la realtà, còmpito dal quale troppi volentieri si esimono.11

Intento, questo, che già era presente nell’Autobiografia del ‘41:

Il parlare di me non significa un escludere gli altri, ma solo parti-re dalla base più nota e che meno si presta a fraintendimenti; per tale convinzione io non posso apprezzare, nel loro schema costruttivo, le opere di fantasia in cui uno scrittore maschera se stesso sotto diversi personaggi e mescola nella narrazione le esperienze autentiche ad altre immaginate; più m’interesserebbe l’indagine di che cosa lo spinga a tale alternare diverse posizioni [...]. troppo spesso in essa [nell’opera di fantasia] sento la rinuncia a qualcosa di ben più vitale e più importante per l’uomo, e nello scrittore indovino quella rassegnazione alle forme consacrate dalla consuetudine nella vita che non può non influire fon-damentalmente sulla sua opera trascinandolo ad atteggiamenti sempre più convenzionali ed abitudinari.12

una simile concezione della letteratura costringe Guarnieri a un atteggia-mento oggettivamente sperimentale. A lui interessa, delle opere d’invenzio-ne, non l’invenzione in sé ma la motivazione dalla quale essa nasce. Questo atteggiamento continuamente sorvegliato, attento a non cedere all’elemento ludico e alle lusinghe della retorica, nelle sue prove migliori (posso citare come esempio due racconti di Utopia e realtà: Visita alla certosa e L’amore, che giudico tra i più belli in assoluto della narrativa italiana degli anni Cin-quanta) produce come conseguenza un assillante interrogarsi che continua-mente allarga i limiti della narrazione, la quale cresce su se stessa e prolifera in ogni più imprevista direzione, rompendo l’assetto tradizionale del genere racconto.

11 S. Guarnieri, Utopia e realtà, cit., p. 9.12 S. Guarnieri, Autobiografia giovanile, cit., pp. 14-15.

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Quella che con termini freudiani è definita elaborazione del lutto, per una perdita già avvenuta o imminente, è narrata da Guarnieri senza percorrere la scorciatoia del moralismo. In Senza i conforti della religione, argomento è la morte, che ci priva delle persone alle quali siamo legati e che, annunciata dalla malattia e dalla vecchiaia, incombe su di noi; in Le corrispondenze ar-gomento è l’amicizia, sentita come rapporto continuamente a rischio, e che quindi può dar luogo a una perdita, dolorosa come tutte le perdite che ci toc-cano nelle nostre più profonde ragioni di vita.

Quest’ultimo libro, formato da dieci racconti che narrano le «corrisponden-ze», in senso foscoliano, con altrettanti amici, presenta anche un interesse sto-rico, dato che quattro di questi amici sono scrittori o critici noti: Elio Vittorini, niccolò Gallo, Mario tobino, Antonio tabucchi. Esso prosegue l’opera di «testimonianza», riguardo a fatti rilevanti della storia culturale, ma soprattut-to a un sistema di valori che si vuole conservare e tutelare, iniziata con L’ul-timo testimone. la testimonianza, in Le corrispondenze, è tanto più autentica quanto meno è programmatica. nel narrare i suoi complessi rapporti con gli amici, Guarnieri si dimostra un finissimo psicologo, proprio perché, direi, non gli interessa fare della psicologia. Egli coglie il carattere drammatico del rapporto d’amicizia: che è insieme di collaborazione e di scontro, perché ognuno degli amici, ne abbia o meno consapevolezza, cerca di affermare su quella dell’altro la propria concezione della vita; sì che in questo rapporto è coinvolto il senso stesso dell’esistenza.

Scrittore rigidamente moralista, che tende a una definizione inequivoca dei doveri di un uomo di fronte a se stesso e alla società, Guarnieri è anche sensi-bile a ciò che non viene detto, perché non si ha il coraggio di dirlo: proprio la sua unilateralità lo spinge ad analizzare e ad analizzarsi senza tregua, fino ad arrivare al lato in ombra, per costringerlo a venire alla luce. E in questo riesce tanto più, quanto più volutamente ignora quegli strumenti di ricerca, come la psicoanalisi, che si rivolgono all’aspetto individuale e privato dell’esperien-za. Il suo strumento di analisi è la letteratura, perché essa ha un carattere so-ciale, e il linguaggio in cui essa si esprime è necessariamente pubblico. non a caso egli parla principalmente dei suoi privati rapporti con gli amici: lo fa per costringerli a diventare pubblici. Scrive infatti, nella Premessa alla ristampa del 1984 della citata Autobiografia giovanile:

Certo anche quei tre volumi si presentavano originariamente come il tentativo di stabilire comunque un rapporto del tutto schietto e confi-

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dente con gli altri; infine, nella mia coscienza, essi erano rivolti proprio a coloro che in essi figuravano come protagonisti. In nessun modo io mi ero proposto, quando li avevo iniziati, di chiudermi in me; e ne era il primo segno il fatto che di me avevo sempre voluto parlare nel modo più spregiudicato ed aperto, avevo voluto dire di me anche quanto ave-vo celato nella mia profonda coscienza od avevo tentato di nascondere a me stesso. Ed allo stesso modo mi ero comportato nei confronti de-gli altri, cercando di rendere le loro persone, la loro presenza umana attraverso tutti quegli elementi che di loro mi erano giunti. Insomma, tacitamente, era una sorta di dialogo con loro che io scrivendo avevo cercato di stabilire; quasi confidando che solo attraverso una simile resa all’insegna di una schiettezza disarmata si potesse giungere ad una pie-na partecipazione, ad una sodalità senza riserve13.

la letteratura è considerata un mezzo di conoscenza della realtà e di inter-vento in essa. «tutti si erano chiusi in una immagine, in una considerazione di sé», scrive Guarnieri a proposito dell’ambiente in cui si era formato da ragazzo, «che [...] celava, soverchiava ed escludeva tanta parte della loro per-sona». Il raccontare di loro deve costringere le persone ad uscire da questa immagine, restituendo la loro individuale esperienza al circuito dell’esperien-za comune. lo scrivere è quindi ricondotto da Guarnieri alla sua funzione originaria di strumento primario della vita sociale: al continuo variare delle condizioni di questa è legato il suo carattere necessariamente sperimentale. Guarnieri rifiuta l’assolutizzazione dell’esperienza estetica, derivante dal ca-rattere epifanico che ad essa è attribuito dai simbolisti ma anche da alcune avanguardie, ed evidenzia l’irrelatezza, che in tale concezione è implicita, dell’esperienza estetica alla vita sociale, e quindi il reale impoverimento, che ne deriva, della funzione della letteratura.

Alla sua poetica Guarnieri si è mantenuto fedele sia nelle opere critiche (la sua scelta degli autori destinati a restare, fatta con straordinaria precocità, si è poi dimostrata quella giusta), sia nelle opere narrative; e questo nell’arco di più di un cinquantennio, dalle sue prime pubblicazioni nelle edizioni di «Solaria» fino agli anni novanta. Il suo lavoro letterario si è sempre misurato, negli anni trenta, dominati dalle tendenze ermetiche, come in quelli a noi più vicini, in cui si manifestano tendenze neosimbolistiche, con un’esigenza di realismo e insieme di sperimentalismo. la costante è il rifiuto sia della faci-

13 S. Guarnieri, Autobiografia giovanile, cit., p. VII.

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le letteratura di mercato, sia di quella neoorfica. della sua poetica, questo è l’aspetto che la rende attuale.

la morte (una morte giovanile, per incidente) colse Guarnieri a ottantadue anni mentre ancora, con ostinazione, si serviva della scrittura per conoscere e modificare la realtà. non però alla maniera dei grandi scrittori d’avanguardia del primo novecento (di Svevo, per esempio, o di tozzi, che egli, come sola-riano e come ammiratore del grande critico Giacomo debenedetti, conside-rava fondanti per tutta la letteratura italiana del novecento): non cioè usando la scrittura come una sonda gettata nel profondo per far emergere qualcosa di incognito, ma, al contrario, per confermare e ribadire certezze già raggiunte al livello ideologico e passate al vaglio della prassi. Egli svolgeva attività molte-plici (l’insegnamento, la politica, l’amministrazione locale), ma al centro dei suoi interessi è sempre stata la letteratura, perché era convinto che soprattutto dalla letteratura potesse venire qualcosa di nuovo, di non messo nel conto; perché l’uomo, nell’attività letteraria, rivela aspetti di se stesso che non rive-la in altre attività, e quindi la letteratura può servire alla vita assai più della politica. Questa era certamente una contraddizione, in un narratore e critico come lui che non credeva nell’utilità del gioco formale come «provocazione» per indurre la realtà a rivelarsi, e non lasciava vivere la scrittura di vita pro-pria, ma ne voleva controllare gli svolgimenti e gli esiti. una contraddizione, tuttavia, che lo spingeva a non rassegnarsi al falsamente evidente, al banale, all’omologato dalle ultime mode, e gli dava l’energia per avanzare in una sorta di processo di accumulo, per cui la definizione (che era sempre giudizio morale) di un personaggio non era mai sufficiente, e una notazione doveva essere integrata da altre notazioni (sì che la sua arte non si faceva «per via di torre», come raccomandava Michelangelo, ma per continue aggiunte).

Guarnieri aveva l’esigenza, anzi l’ossessione della completezza. nella vita, secondo lui, non dovevano esserci momenti di opacità, di inerzia: sempre bisognava perseguire il meglio. Così, nella sua scrittura, che della vita vuole essere l’esatta testimonianza, non devono esserci vuoti; ogni spazio bianco deve essere riempito; la rappresentazione deve essere sempre frontale; non sono ammesse le vedute di scorcio e quei drastici tagli che, in altri artisti, sono giustificati dalle scelte formali, le quali a un certo punto impongono di togliere. Egli non conosce la figura dell’ellissi. la sua narrativa si forma attraverso un procedimento di continue aggiunte, per cui all’essenziale si ar-riva attraverso una quantità di particolari apparentemente inessenziali. Questa ricerca della completezza si riflette nello stile. Quasi ogni parola e ogni frase

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generano due, tre variazioni, tutte giustificate dall’esigenza di chiarire, di spe-cificare; per cui il periodo prolifera e si dirama, in un ritmo binario o ternario. tuttavia non si può affermare che la ipotassi domini sulla paratassi. In realtà, contrariamente alla prima apparenza, la struttura prevalente è quella paratat-tica. Il segno d’interpunzione usato per scandire il periodo in pause forti è il punto e virgola, che segna un accostamento, non una conseguenza (i due punti sono assai scarsamente usati). le congiunzioni che segnalano il nesso di causa («quindi», «perciò») sono quasi totalmente assenti; si può trovare qualche «cosicché» o, assai più spesso, qualche «ed ecco allora che», i quali indicano, piuttosto che il nesso causa-effetto, la conseguenza già avvenuta. Sottolineo questo aspetto della prosa di Guarnieri per mettere in rilievo il metodo di vita e di conoscenza che sta dietro la scelta formale. Guarnieri non crede nella possibilità di chiudere l’esistenza in una definizione razionale. la vita non la si definisce: ad essa si può solo aderire. la scelta morale è scelta in ultima analisi non razionale, ma dettata da un’esigenza profonda e indero-gabile; dalla necessità di mantenersi coerenti a quella che è la propria «natu-ra» (Guarnieri usa assai spesso questa parola con riferimento al carattere di un uomo, quale risulta dal complesso delle attitudini innate e delle abitudini acquisite: in un modo che può apparire anacronistico, in quanto non tiene in nessun conto quanto hanno scritto in proposito gli psicologi moderni; ma di-rei che la deliberata ignoranza della psicoanalisi sia un punto di forza, anziché di debolezza, dei testi narrativi di Guarnieri, il cui tema è di solito lo scontro di due opposte concezioni, messe l’una di fronte all’altra nella loro assolu-tezza, in una tensione alfieriana). Come ben vide Italo Calvino, Guarnieri, sia come critico che come narratore, «ha sempre identificato il valore nella ricerca d’una verità morale ed esistenziale». la letteratura perciò non può mai essere, per lui, evasione. Coerentemente, egli non pratica la fiction: la vita è per lui infinitamente più ricca di qualsiasi immaginazione; ad essa possiamo solo aderire, e cercare di restituirla, narrativamente, nella sua integrità, senza fittizi abbellimenti e senza forzature razionalistiche.

le narrazioni di Guarnieri vogliono essere «storie» nel senso originario del-la parola: resoconti di avvenimenti reali dei quali si è stati testimoni. Perciò da esse deve essere espunto tutto ciò che alla realtà non è conforme: la reto-rica deve sempre cedere il posto alla verità, sulla quale, soltanto, si misura la validità di ciò che si scrive. E la verità deve essere completa: quindi non sono permesse le omissioni. da qui l’assenza della figura dell’ellissi: l’omissione, se c’è, coincide con la mancanza d’informazione, e di norma è dichiarata; mai, viceversa, è dovuta ad artificio retorico. da qui la necessità di riempire

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ogni vuoto, e di conseguenza l’affollarsi delle informazioni, la cui sovrab-bondanza gonfia la frase, il periodo, fino a rischiare di spezzarne l’equilibrio. da qui, anche, un’altra delle contraddizioni che caratterizzano l’opera e la poetica stessa di Guarnieri: l’esigenza della completezza cozza contro l’altra esigenza, altrettanto forte, della scelta: cosa è degno di essere raccontato, e cosa non lo è? deliberatamente, credo, Guarnieri lascia irrisolto il problema: la soluzione non può darsi a freddo, ma nel crogiuolo dell’opera di scrittura. Ai ricordi, perciò, è data piena libertà di proliferare, e alla coscienza critica d’intervenire su di essi, a commentarli, dopo che, con la propria forza auto-noma, si sono presentati alla soglia della coscienza. Questo è, a ben vedere, un atteggiamento, per la sua unilateralità e per la sua coerenza, sperimentale (anche se si afferma al di là delle stesse intenzioni esplicite di Guarnieri, il quale vuole essere semplicemente uno «storico», del pubblico come del pri-vato), e che comunque è singolare ed unico, nel panorama della letteratura degli ultimi decenni.

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una riflessione compresa in uno dei saggi più estesi su un narratore, e in aggiunta su un narratore fra i più amati da Guarnieri, può essere assunta a premessa di una noticina - qual è la presente - su Guarnieri e la narrativa:

“In ogni modo l’operazione più corretta per un critico, l’unica davvero cor-retta, è quella di individuare e di mettere in evidenza per ogni scrittore quanto vi è di più nuovo, di più indicativo in un senso di rinnovamento nella sua opera; perché ognuno di noi ha il diritto di essere considerato e valutato anzi-tutto per quello che è stato ed è, per quel che ha dato e dà, per quella parola, la sua più alta ed avanzata, che comunque, in uno od altro modo, è stato capace di pronunciare, di immettere nel discorso del suo tempo.” 1

la citazione è tratta dall’ampio, articolatissimo, appassionato e insieme attento saggio su Giovanni Comisso. Com’è chiaro, si tratta di una dichia-razione di metodo critico, anzi della definizione di uno statuto della critica, designazione che, in quanto tale, vale per ogni genere letterario, non solo per la narrativa: e in effetti la proposizione su riferita ha svolto per Guarnieri una simile funzione, senza discriminazioni fra poesia e prosa, fin dai primi tempi del suo operare critico, vale a dire fin da quelle recensioni che segnarono la sua collaborazione ad una delle più prestigiose e valide riviste del novecento italiano, cioè “Solaria”.

la dichiarazione riportata contiene alcuni parametri fondamentali dell’ope-razione critica di Guarnieri: in primis, l’asserzione che è dovere prioritario del critico individuare e mettere in rilievo e dunque apprezzare ciò che in un autore costituisce l’atto più avanzato di rinnovamento e contemporaneamen-te il più elevato risultato estetico nell’ambito di un duplice contesto: quello

1 S. Guarnieri, Il realismo di Giovanni Comisso, in Id., Condizione della letteratura, roma, Editori riuniti, 1975, p. 416.

PER ‘GuARNIERI E lA NARRAtIvA’

Giancarlo Bertoncini

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personale, ossia della propria esperienza creativa, e quello collettivo, ovvero della storia e della società in cui l’autore si è trovato immesso, come è ribadi-to poco oltre e con forza, assegnando al critico una funzione che ha il segno di un dovere istituzionale: “ora a noi compete sopratutto, - poiché noi tutti, chiunque di noi vive ed agisce in una realtà, poiché tutto è realtà, - di renderci ben conto in quale realtà [lo scrittore] viva ed agisca [...] ed in secondo luogo come egli ad essa reagisca.”2

E viene così definita anche la specie della letteratura cui il critico e l’autore sono naturaliter ascritti: l’orizzonte del realismo, che diviene pertanto metro di misura dell’opera. Certo a questo punto interviene il problema dell’iden-tificazione di questo termine di riferimento. Quello che è certo è che si tratta di un realismo aideologico: da ciò deriva la distanza rispetto al naturalismo. Anzi, poiché Guarnieri è ‘il guardiano del faro’3 della nuova letteratura, quel-la del novecento, il patrono e il custode della narrativa più specificamente novecentesca, il naturalismo resta proprio uno dei riferimenti da cui il nuovo scrittore deve allontanarsi. Il naturalismo è uno dei due termini, insieme con d’Annunzio, costantemente individuati da Guarnieri come negativi rispetto alla possibilità di dar vita ad una nuova letteratura: da una parte, un’ottica preformata rispetto alla realtà da rappresentare, una realtà raffigurata secondo un modello ideologico anteriormente dato; dall’altro, l’adulterazione forma-le della realtà, il compiacimento virtuosistico ed egotico, la preponderanza dell’io. l’utilizzo di una priorità ideologica è pure il motivo per cui rice-ve una limitazione assai forte quella narrativa che proprio in virtù della sua (reale o presunta) intenzione innovativa rispetto alla letteratura anteguerra, anche rispetto alla migliore letteratura anteguerra, quale quella ermetica, po-teva aspirare al riconoscimento del requisito del ‘realismo’, vale a dire la letteratura neorealistica. è proprio in nome di questi connotati che riceve una svalutazione il romanzo di Vittorini che, sia pure con tutte le riserve del caso, viene solitamente riportato al clima neorealistico, Uomini e no, opera che per Guarnieri contiene una simile dimensione velleitaria e intellettualistica, un’opera che è comunque così intensamente impegnativa per Vittorini e con la quale Vittorini conquista una rilevante novità strutturale e linguistica pro-prio nella prospettiva di un rinnovamento della letteratura postbellica. Ma nell’orizzonte della valutazione di un’opera da parte di Guarnieri predomina l’attenzione al significato, piuttosto che la preoccupazione delle risoluzioni

2 Ibidem.3 Secondo la bella immagine di C. Bo, Il guardiano del faro degli anni lontani, in Per Sil-vio Guarnieri omaggi e testimonianze, Pisa, nistri-lischi, 1982.

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strutturali o di rilevanza semiotica. Il cardine della sua attenzione è poggiato sulla sostanza dell’opera, dove in qualche misura si riconoscono i requisiti di un’alta concezione etica della letteratura, una concezione che si rileva nella più nobile tradizione novecentesca - tra cui quella vociana e solariana (non-ché con una radice desanctisiana) - e che si istituisce sui dati dell’autenticà e della sincerità.

Così, per l’autore da lui particolarmente amato, Comisso, la “continua spe-rimentazione quotidiana” non comporta la rinuncia “alla propria più autentica natura”4. è proprio questo uno dei principali requisiti per l’apprezzamento di un narratore: la fedeltà alla ‘propria più autentica natura’, che sola consente una autenticità di rapporto con l’altro da sé e addirittura con la natura a sé esterna: “Cosicché già per questo modo ci si rivelano la forza di Comisso, la sua novità nei confronti dei naturalisti, dei veristi, e quindi anche di d’An-nunzio: nella capacità di avvertire la intrinseca vivacità, la originaria vita-lità della natura, nella quale l’uomo è completamente integrato, della quale fa parte, anche se con essa debba contrastare”5 . è appunto tale dote di una relazione fresca, nuova, con il reale che apre l’autenticamente nuova narrati-va novecentesca, la quale segna davvero la rottura fondamentale, quella che potremmo definire epistemologica, rispetto all’ottocento, quell’ottocento, in cui per Guarnieri rientra quasi sempre e quasi tutto anche d’Annunzio. E la nuova letteratura è in specie quella vociana: “quel generoso urgere di aspi-razioni, di ricerche, di confessioni, tumultuoso, appassionato, spregiudicato e pure ancora ingenuo, che si espresse per lo più attraverso le pagine delle riviste fiorentine Leonardo, Lacerba ma sopratutto La Voce, nel periodo che va dal 1908 al 1916; è questo il periodo cui restano legati i nomi di Campana, rebora, Boine, Jahier, Michelstaedter, Serra, Slataper, Soffici, Papini; ma ad esso si riferiranno, anche con la loro opera successiva, scrittori di più lunga e complessa esperienza, come Pea, Saba, ungaretti, Palazzeschi”6. del resto, questo rapporto fresco con la realtà, questo sguardo nuovo, sciolto da moda-lità precostituite, si può attuare in virtù di una disposizione dello scrittore: la generosità: “Vi erano in lui [Vittorini], e davvero lo caratterizzavano, una continua attenzione, una continua tensione, come s’egli fosse sempre all’er-ta, sempre disposto a cogliere ogni invito, ogni stimolo, ogni suggestione, comunque si manifestassero, anzi addirittura teso a scoprirli, e con una pron-

4 S. Guarnieri, Il realismo di Giovanni Comisso, in Id., Condizione della letteratura, cit., p. 296.5 Ivi, p. 306.6 S. Guarnieri, Per Elio Vittorini, in Id., Condizione della letteratura, cit., p. 17.

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tezza, con una capacità di adesione, anche di entusiasmo, e con assoluta spre-giudicatezza [...] Insomma dobbiamo sottolineare e mettere in evidenza la sua generosità umana e intellettuale”7 .

Curiosità per gli atti, i fatti, la vita degli uomini, slancio vitale , anticon-formismo8 sono i tratti che delineano la positività dello scrittore: sono pe-raltro i tratti che consentono il superamento del ‘naturalismo e del verismo’, in quanto, a differenza di essi, non cedono alla supremazia negativa della realtà, non danno conto di una civiltà sottomessa alla sconfitta, ad essere ‘vin-ta’, “considerando la realtà non come data definitivamente”9 , ma aprono una nuova prospettiva, superando tradizioni e convenzioni, “fondando un nuovo costume, una nuova norma dei rapporti umani” 10, esigendo e proponendo “un costume nuovo” 11, prospettando (come Guarnieri scriveva per Vittorini nel 1973) “una immagine di civiltà, la sua possibilità; di una civiltà che sia di-versa dall’attuale, per mezzo della quale si ristabiliscano gli autentici rapporti umani”12. Si chiarisce così come per Guarnieri lo scrittore dovesse assolvere ad un compito, quello di stringere un rapporto stretto tra letteratura e vita (tra-sponendo in tali termini la ‘letteratura come vita’ di Carlo Bo): rappresentare la realtà per modificarla in meglio, per costruire una nuova civiltà. E quindi si motiva la preminenza assegnata alla sostanza del discorso narrativo piutto-sto che alle sue formalizzazioni: i termini di giudizio estetico sono affidati al riconoscimento di caratteristiche primieramente ‘naturali’: sincerità, sponta-neità, freschezza, aletterarietà potremmo dire, seppure nella consapevolezza di quanto queste peculiarità siano invece anche frutto, oltre che di passione, di un lavoro attento, se non accanito, di “ricerca”, di “impegno”13.

Proprio in conseguenza del suddetto rapporto tra scrittura e civiltà, si tratta di una relazione con la scrittura che può dar conto di una dimensione esi-stenziale appagante, anzi del raggiungimento di un fine di illuministica me-moria, quello di conseguire addirittura la ‘felicità’: “in ogni momento e con chiunque è possibile raggiungere la perfetta rispondenza dei nostri mezzi, insomma la felicità; e la felicità può, deve essere fatto quotidiano, diventare

7 S. Guarnieri, Il realismo di Giovanni Comisso, in Id., Condizione della letteratura, cit., pp. 492-493.8 Ivi, passim, p. 491, 492, 497.9 Ivi, p. 303.10 Ivi, p. 304.11 Ivi, p. 501.12 S. Guarnieri, Per Elio Vittorini, in Id., Condizione della letteratura, cit., p. 517. 13 S. Guarnieri, Il realismo di Giovanni Comisso, in Id., Condizione della letteratura, cit., p. 301.

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appunto abitudine, possibilità di ogni momento;” (come è detto per Comisso con riguardo a Il porto dell’amore) 14. letteratura e vita, si è detto: e questo legame spiega anche l’adozione di uno stilema che marca il discorso critico di Guarnieri, e che è più volte comparso nelle citazioni riferite: l’uso, vale a dire, del pronome plurale ‘noi’ e degli aggettivi possessivi di riferimento. Si tratta di un ‘noi’ che non appartienene all’ambito del plurale majestatis, ma che è ancora una volta una marca molto forte dello statuto della critica da parte di Guarnieri: ancora una volta esso segna il circuito, il circolo potremmo dire, che si stabilisce tra il lettore-critico, l’autore e il lettore esterno. è il segno di un rapporto dialettico, se vogliamo, sicuramente dinamico, di confronto fra lettore e testo, fra lettore e autore: non è la letteratura in quanto vita, ma è una relazione che mette in gioco la vita del lettore, per cui al critico (e in particolare al “critico militante”) spetta il compito di “battersi” per “la nuova, la vera letteratura”.15

14 Ivi, p. 297.15 S. Guarnieri, Per Elio Vittorini, in Id., Condizione della letteratura, cit., p. 499.

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Silvio Guarnieri non è un critico letterario tradizionale; anzi, per certi ver-si, si potrebbe addirittura affermare che non è un critico letterario, almeno nel senso tecnico-specialistico del termine. Manca sempre nei suoi scritti de-dicati ad autori letterari la fase della distanziazione, del commento, della certificazione testuale. non per nulla vi è quasi del tutto assente il momento paradigmatico della citazione, snodo fondamentale di verifica oggettiva e di legittimazione soggettiva del critico (la critica letteraria non essendo altro – secondo una boutade non del tutto priva di verità ─ che lo spazio fra due citazioni). Se la critica nasce, come vuole Benjamin, dall’incontro fra filo-logia e filosofia, fra commento e interpretazione, tra analisi del contenuto di fatto ed elaborazione del contenuto di verità dei testi, in Guarnieri troviamo dispiegato solo il secondo momento.

non per nulla il registro di scrittura di Guarnieri, quando l’argomento è un autore letterario, è molto spesso a mezza strada fra il saggio e la narrazione. Si direbbe, anzi, che in ciò stia la sua originalità: nella invenzione di un genere ibrido di scrittura. Più di ogni altro, forse, lo ha capito Italo Calvino quando parla di una «zona Guarnieri», «la zona dell’esperienza vissuta e riflettuta fino in fondo giorno per giorno, la zona dei fatti che danno forma e senso alla vita». Calvino distingue però «Silvio Guarnieri scrittore» che pratica un tipo di prosa «insieme narrativa e saggistica» e «Silvio Guarnie-ri critico» che ricerca «una verità morale ed esistenziale», quando invece, mi pare, la peculiarità di Guarnieri consiste proprio nell’abbattere questa distinzione. In Guarnieri il critico e lo scrittore si fondono, e il luogo di questa fusione è una forma di scrittura originale che è contemporaneamente narrativa e saggistica e insieme volta alla ricerca di una verità morale ed esistenziale. la vera «zona Guarnieri» mi sembra questa.

l’«INtERlOCutORE EsIGENtE». su GuARNIERI lEttORE dI MONtAlE

romano luperini

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Fra i generi letterari noti il più vicino alla tipologia a cui Guarnieri fa ri-corso spesso – e sempre, per esempio, nel caso che qui ci interessa, quello dei suoi scritti su Montale ─ è la memoria o la testimonianza. d’altronde egli stesso sembra avallare tale affermazione con il titolo del suo libro forse più importante, L’ultimo testimone. E tuttavia il suo intento non è mai solo quello di ricordare una persona o un evento o di testimoniare una cronaca di fatti. Egli vuole piuttosto cogliere il senso, insieme, della vita e dell’opera di un autore; e, con esse, della sua propria esistenza. nella sua scrittura c’è narra-zione, indubbiamente, ma da sola a Guarnieri essa sembra non bastare; non gli basta la vicenda di un io che racconti di sé e di altri; gli occorre anche un impegno riflessivo e saggistico che sia volto alla enucleazione di un signifi-cato capace di spiegare non solo, insieme, la vita e l’opera altrui, ma anche la vicenda del sé che narra e ragiona in prima persona.

Se la critica considera in modo privilegiato l’opera e può (secondo Proust e molti altri con lui, deve) porre in secondo piano l’uomo, la ricerca di Guar-nieri non può separare l’attività dello scrittore dalla sua specifica «presenza umana», e anzi tende ostinatamente a postulare una «coincidenza» fra opera e comportamento. E’ Guarnieri stesso ad ammetterlo nel saggio di chiusura dell’Ultimo testimone, Il mio apprendistato letterario a Firenze. Ed è interes-sante che faccia tale affermazione, a cui dobbiamo indubbiamente riconosce-re un valore teorico generale, proprio a proposito del suo rapporto con Monta-le che tanta importanza ha avuto nella sua formazione e nella sua produzione saggistico-narrativa.

Se la critica letteraria, inoltre, pone in secondo piano o del tutto censura la figura del soggetto che scrive per appellarsi a una verità che aspira ad avere un valore oggettivo o universale, Guarnieri invece non separa mai la vicenda altrui dalla propria. Sta qui una delle ragioni della sovrapposizione fra nar-razione e saggismo, che corrisponde anche a una alternanza o intreccio fra autobiografia e ritrattistica, fra il registro della analisi morale ed esistenziale propria e quello della analisi morale ed esistenziale altrui e della cronaca storico-oggettiva dei fatti che legittimano l’una e l’altra. Insomma in Guar-nieri il senso del sé si definisce solo in relazione a un senso altrui, in un corpo a corpo incessante, in cui il processo della propria Bildung è inseparabile da quello della vicenda artistica e umana che egli va considerando.

Guarnieri, si è detto, non cita quasi mai dai testi dei suoi autori. Ma è vero poi che anche la sua stessa scrittura non è facilmente citabile: non tende, infatti, a momenti sintetici o a definizioni stringenti, ma procede per approssimazioni

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successive che tornano e ritornano insistentemente sugli stessi temi, come per uno scavo a progressione indefinita. Anche nel caso di Montale gli stessi ri-cordi e gli stessi argomenti riaffiorano più volte, incessantemente rielaborati. Si direbbe che quanto vale per la microstruttura dei suoi scritti, che nel giro dello stesso capoverso e magari dello stesso periodo presentano una serie di riprese, di ripetizioni, di precisazioni continue, di aggiunte incessanti, valga anche per la macrostruttura. lo scritto conclusivo su Montale, che apre L’ul-timo testimone con il titolo Con Montale a Firenze e a Milano e porta la data in calce 1982-1987, riprende, riaggiusta, sistema e assomma tutti i suoi pre-cedenti, a partire dal primo del 1966, Per i settant’anni di Montale compreso nel fascicolo speciale di «letteratura» (79-81) in omaggio al poeta, e spesso qui riecheggiato o addirittura riprodotto. Già dal titolo si evince però che il la-voro conclusivo nasce dalla fusione di due precedenti interventi, tenuti in due diversi convegni del 1982 e dedicati rispettivamente al periodo fiorentino e a quello milanese. Alcune anticipazioni di quest’ultimo risalivano però a qual-che anno prima e precisamente a un saggio, Dai «Madrigali privati» a «Con-clusioni provvisorie», pubblicato nel 1977 in un volume collettaneo di Letture montaliane in occasione dell’80° compleanno del poeta. In totale, dunque, si tratta di cinque scritti che coprono un ventennio di riflessioni (1966-1987). Vi si possono aggiungere un saggio compreso in Condizione della letteratura (1975), Motivi e caratteri della poesia italiana da Gozzano a Montale che, avendo un taglio più istituzionalmente critico-letterario, mi sembra meno rile-vante di quelli ora ricordati, e soprattutto il carteggio con Montale contenente domande e quesiti interpretativi e relative risposte. tale carteggio, pubblicato da lorenzo Greco, meriterà, più avanti, un discorso particolare ma su di esso si può anticipare subito una constatazione: per quanto il poeta abbia fornito una serie di importantissimi autocommenti, Guarnieri non se ne è affatto gio-vato nei suoi scritti successivi: li ha utilizzati, sì,oralmente, nel corso delle sue lezioni universitarie, ma poi, al momento della scrittura, li ha del tutto ignorati nel loro versante filologico ed ermeneutico, lasciando che li mettesse a frutto, al posto suo, un allievo e parlandone solo per confermarne il carattere provocatorio e per sottolinearne la dimensione di confronto, anche polemico, con la poesia montaliana. Insomma le richieste di spiegazione testuale metto-no in scena non uno scrupolo di conoscenza obbiettiva ma un vero e proprio duello fra interprete e interpretato, un duello che ha per posta il senso della vita dei due interlocutori; ed è questo senso che interessa a Guarnieri, non l’accertamento semantico-filologico che pure dovrebbe stare a cuore di qua-lunque commentatore e critico letterario.

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Infine un’ultima osservazione. lo scritto conclusivo concede un particolare risalto – narrativo ed ermeneutico insieme – all’amore di Montale per Volpe. Il tema era già emerso con forza nel lavoro del 1977 dedicato a Madrigali privati e a Conclusioni provvisorie, ma ora assume un rilievo ben maggiore: Guarnieri infatti narra l’episodio di un incontro milanese fra Montale e Maria luisa Spaziani a cui ha personalmente assistito e rivela di avere scritto a Mon-tale, poco dopo la morte di Mosca, per invitarlo a riprendersi la propria vita affettiva suscitando così la collera del poeta che rivendica invece l’importan-za della moglie nella propria vita. Il mancato coronamento del rapporto con Volpe, a causa dei ricatti di Mosca e della cronica tendenza alla indecisione del poeta, diventa ora l’asse interpretativo che consente a Guarnieri di spiega-re l’involuzione – tale gli pare - della zona finale della Bufera e di buona parte di Satura (fatti salvi gli Xenia appunto dedicati a Mosca): il poeta, che sino allora aveva cercato ostinatamente una via di salvezza e di autorealizzazione, ora si conferma, a causa di questo fallimento amoroso, prigioniero di una vita senza più vie di uscita e rivolto a negare a sé e a qualsiasi altro uomo qualsivo-glia prospettiva di senso. Anche se in siffatto atteggiamento, e persino nella «beffarda acredine» con cui è espresso, Guarnieri vuole continuare a vedere, per l’accanimento stesso che rivela, un qualche fervore di vita, è indubbio che si tratta di una svolta che chiude il periodo della speranza e della attesa che per Guarnieri sarebbe rappresentato soprattutto dalle Occasioni. da questo punto di vista la vicenda di Volpe acquista nella interpretazione di Guarnieri un valore decisivo e, si direbbe, di maggiore rilevanza rispetto al rapporto di Montale con Clizia, che egli giudica assai più cerebrale, meno vitale e passionale dell’altro. Il fatto è che il Guarnieri testimone non aveva avuto notizia diretta di Irma Brandeis, la relazione con la quale gli era stata nascosta da Montale, probabilmente scoraggiato dall’intransigente moralismo del suo giovane amico; e d’altronde il silenzio di Montale in proposito può essere stato agevolato anche con dal fatto che, a partire dal 1937, Guarnieri aveva lasciato Firenze e la sua frequentazione del poeta era diventata assai saltuaria. Insomma, fondarsi in modo prioritario sulla esperienza vissuta può indubbia-mente condizionare anche la prospettiva della interpretazione e del giudizio. E’ il limite, questo, di qualsiasi vocazione ermeneutica e moralistica che si basi prevalentemente sulla testimonianza diretta e sul rapporto personale.

Il primo scritto montaliano (quello del 1966 Per i settant’anni di Monta-le) contiene una autodefinizione di Guarnieri interprete di Montale, quella di «interlocutore esigente» inteso a recuperare una «autentica parte» del poeta

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«addirittura contro lui stesso». Più tardi Guarnieri la riprenderà, in parte cor-reggendola: «mi ponevo di fronte a lui – rievoca ─ come colui che esige, o perlomeno come chi chiede alla persona che stima ed ammira una piena co-erenza», ma, ammette, «non potevo pretendere da Montale ch’egli divenisse altro da quello che era» (Montale da parte sua replicherà in versi famosi, e beffardamente ironici e autoironici, che suonano come implicita risposta al proprio esigente interlocutore, ribadendo la propria natura di topo e non di aquila). E tuttavia caparbiamente,ancora nel 1982, Guarnieri scrive che Mon-tale, «polemizzando con me, respingendo me, egli non faceva che polemiz-zare con se stesso» o almeno con una «parte di se stesso», e infine, nel saggio conclusivo collocato in L’ultimo testimone, ricorda che i quesiti interpretativi rivolti a Montale non assolvevano tanto a un compito filologico quanto al ten-tativo di «costringere Montale a riconoscersi nel ritratto» che il suo interprete andava tracciando, «quasi ad indicare a Montale non solo la via ch’egli aveva percorso, ma anche quella ch’egli avrebbe dovuto percorrere, riconoscendo che essa era implicita in lui, nella sua poesia». Se il critico militante è colui che collabora alla nascita della letteratura e a indirizzarne l’evoluzione e le tendenze, bisogna ammettere che Guarnieri si è spinto al di là di ogni soglia consueta, sin quasi alla prevaricazione consapevole.

I quesiti rivolti a Montale propongono continuamente una interpretazione esistenziale e morale che il poeta invece si rifiuta accuratamente di avalla-re, riconducendo con ostinazione il commento al dato semantico e fattuale. Prendiamo, per esempio, il caso del commento a Il balcone. Coerentemente al ritratto che dà di Montale, Guarnieri vuole ritrovare nella destinataria una forza di vita e di speranza che il poeta avrebbe sempre nutrito dentro di sé ma che ora, timoroso di fallimento se vi si abbandonasse e ormai rassegnato, af-fiderebbe alla donna. Così chiede se i versi «sull’arduo nulla si spunta/ l’ansia di attenderti vivo» vogliono significare «il desiderio di vedere se tu riuscirai, e quindi magari di seguire il tuo esempio», desiderio che verrebbe «insidia-to dalla certezza del tuo fallimento». Montale risponde tagliando corto: non prende neppure in considerazione l’ipotesi che la donna possa rappresentare per il poeta un modello esemplare e propone solo una scarna parafrasi: «E’ l’ansia di continuare a vivere senza di te». E poi Guarnieri intenderebbe ve-dere un valore positivo nella «vita che dà barlumi» accessibile alla donna ma negata al poeta e «un invito trepidante, quasi neppure cosciente» nello spor-gersi di lei dalla finestra, mentre Montale, con percettibile moto di fastidio, si limita a registrare esclusivamente il senso letterale e a rimandare al referente concreto della realtà rappresentata.

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Fra interprete e interpretato si svolge insomma una lotta fitta di mosse e contromosse che mette in luce da un lato l’invadenza del primo e dall’altro il divincolamento tattico del secondo, che vuole approfittare dell’occasione per risolvere alcune zone di oscurità della sua poesia sottraendosi però all’iperin-terpretativismo dell’interlocutore. E se nella volontà di sfuggire all’abbraccio interpretativo di Guarnieri gioca certo un movimento psicologico di difesa, un ruolo hanno avuto molto probabilmente il gusto e la cultura di un intel-lettuale che annoverava, fra i suoi principali amici e interlocutori, uno dei commentatori più filologicamente rigorosi del secolo, Gianfranco Contini.

Eppure, anche su un piano strettamente critico, la prosa saggistico-narrativa di Guarnieri riesce a cogliere alcuni tratti di fondo di Montale poeta che la critica in senso critico-specialistico in parte riprenderà e svilupperà. Mi rife-risco, per esempio, all’insistenza sul modello dante preferito da Montale in opposizione al modello Petrarca caro a ungaretti e agli ermetici, che Guar-nieri ha sottolineato per primo e che più tardi Jacomuzzi e altri svolgeranno in senso assai fruttuoso. Guarnieri inoltre sottolinea con forza la relazione fra la evoluzione della poesia di Montale e quella storica della società italiana dagli anni del fascismo a quelli del postmoderno. Quando scrive che Montale «è un uomo e un poeta decisamente e completamente legato e condizionato dalla storia, dalla storia degli uomini, dalla loro società», afferma una verità che nessuna interpretazione di tipo astorico o mistico-ontologico (non ne sono mancate nell’ultimo trentennio) può capovolgere e che altri critici, a partire dai primi lavori di umberto Carpi, hanno poi avallato. Infine anche gli eccessi interpretativi volti a cercare un Montale capace di nutrire una speranza e una fiducia nella vita riposano su un nucleo di verità critica che Guarnieri ha esat-tamente intuito, osservando che in nessun caso Montale è «il poeta dell’ac-quietamento, della pacificazione», che «è sempre disposto a ricominciare da capo» e che la ricerca incessante e in ogni direzione di una via di salvezza ha caratterizzato buona parte della sua poesia. Quando Guarnieri scrive che Montale è «partito da una fiducia iniziale nella realtà e nella vita» e che «que-sta fiducia ha cercato e tentato tutti gli esiti, ed anche l’ha confermata tutte le volte che la realtà gli ha offerto un qualche aggancio cui potersi afferrare, cui potersi attenere. Ma la realtà gli è mancata ogni volta», il lettore capisce che qui l’interprete è andato al di là di ogni forzatura moralistica e ha colto nel segno.

Ma, ripeto, Guarnieri vuole essere di più, o di diverso, dal critico di profes-sione. Se è stato maestro per molti, e anche per il sottoscritto, ciò non è stato

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per il rigore del metodo, ma perché – come ebbi a dire anni fa a conclusione di una mia testimonianza – se egli ha offerto a me e ad altri un modello di in-tegrità. nella società delle mode e della disgregazione oggettiva e soggettiva, Guarnieri è rimasto sempre fedele a se stesso. nel mondo dell’io diviso ha voluto salvaguardare un io integro. l’ha fatto a prezzo di un feroce autocon-trollo, di un’ostinata autorepressione, non ha ceduto a nessuna tentazione. Ha esorcizzato l’avventura, l’imprevisto, la vitalità che pure come critico tanto amava. Ha cercato caparbiamente la coerenza per sé e per gli altri. Per farlo, non ha visto pezzi di realtà, e si è barricato in se stesso erigendo barriere pro-tettive. Forse questo è stato il suo limite; certo questa è stata ed è la sua forza, quella che gli ha consentito di lasciare negli allievi una traccia incancellabile.

[le citazioni sono tratte dai seguenti scritti di S. Guarnieri: Per i settant’an-ni di Montale, in «letteratura», 79-81, 1966; Montale dai «Madrigali privati» alle «Conclusioni provvisorie», in AA.VV., Letture montaliane in occasione dell’80 compleanno del poeta, Bozzi, Genova 1977; Con Montale a Firenze, in La poesia di Eugenio Montale. Atti del Convegno internazionale (settem-bre 1982), librex, Milano/Genova 1982; Gli anni milanesi di Montale, in AA.VV., La poesia di Eugenio Montale. Atti del Convegno internazionale nov. 1982), le Monnier, Firenze 1984; Con Montale a Firenze ed a Milano, in S. Guarnieri, L’ultimo testimone. Storia di una società letteraria, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1989 e Il mio apprendistato letterario a Firenze, ivi.

I quesiti interpretativi di Guarnieri a Montale sono stati pubblicati da l. Greco, Montale commenta Montale, Pratiche editrice, Parma 1980.

la citazione da Calvino è tratta da I. Calvino, Una «zona Guarnieri», in AA.VV., Per Silvio Guarnieri. Omaggi e testimonianze, nistri lischi, Pisa 1982.]

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Quando frequentavamo l’università a Pisa, alla facoltà di lettere e Filoso-fia, trovare un professore come Silvio Guarnieri era inimmaginabile.

Abituati, come eravamo, ad essere torchiati e maltrattati dagli insegnanti del liceo e dell’università, incontrare un insegnante che ci rispettava, che ci portava a casa sua, che ci presentava alla sua famiglia, che mangiava insieme a noi, era un evento al di là della più fervida immaginazione. Per dirla in due parole, mentre i nostri professori sembrava non fossero mai stati giovani, con tutti i problemi, le ansie, la voglia di rinnovare il mondo, che costituiscono l’essenza di quella fase della vita, Silvio Guarnieri aveva, al contrario, il culto dei giovani; non li aveva mai, per così dire “sbarcati”.

Io ho avuto il privilegio di frequentarlo e di conoscere da lui stesso molti episodi della sua vita. Era nato a Feltre, figlio di un notaio, ed era destinato a proseguire la carriera del padre, ma aveva un marcato interesse per la let-teratura e così seguì gli studi in due facoltà: legge e lettere. Era nato nel 1910, quindi la sua giovinezza l’ha trascorsa negli anni ’30, gli anni d’oro del Fascismo. A Firenze, dove ha fatto l’università, frequentava il caffè delle Giubbe Rosse, in piazza della repubblica; era – come diceva lui – una società letteraria, composta da scrittori e poeti come Montale, Gadda, Vittorini, Bon-santi e molti altri. tutte queste anime belle, avvalendosi della loro intelligen-za, ironizzavano sul Fascismo prendendone di mira gli aspetti più volgari e ridicoli. Ma si fermavano lì.

Siccome il professor Guarnieri non era un chiacchierone ma un uomo d’azione ed aveva una robusta coscienza morale, ad un certo punto disse a questi suoi amici: “non possiamo limitarci a parlare, dobbiamo agire contro il fascismo”. Visto che aveva messo il dito nella piaga successe il finimondo. urla, minacce, botte, sedie che volavano: tutto questo ad onore dell’intelli-ghentia italiota.

Claudio Gonnelli

tEstIMONIANZA

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Aderì al partito comunista allora clandestino. Mi raccontò che il partito ado-perava questo sistema di reclutamento: mandava a casa dei simpatizzanti un rappresentante di libri per accertare attraverso il colloquio l’adesione o meno delle persone alle idee comuniste. Poi arrivò alla posta un pacco di libri “sov-versivi” che fu intercettato dalla questura. Il professor Guarnieri fu richiamato e si giustificò dicendo che il pacco glielo avevano mandato a sua insaputa. Ma in questura dovevano sapere qualcosa sul suo conto, tant’è che fu consigliato di lasciare l’Italia, forse anche perché proveniva da una famiglia importante e quindi non potevano prenderlo a bastonate come facevano abitualmente.

E lui andò ad insegnare letteratura italiana in romania, a timishoara, dove nacque la sua prima figlia: Antonia, detta nina. Poi ci fu la guerra e quando l’Armata rossa ritornò alla base, dopo la conquista della Germania, passando per la romania, mi raccontò che sì presentò ad un Comando, dichiarò la sua fede comunista e chiese un aiuto per rintracciare gli Italiani presenti in ro-mania e portare loro conforto. Gli fu subito messo a disposizione un camion e due soldati, con i quali cercò di aiutare i nostri connazionali dispersi nel turbi-ne della guerra. la sua opera fu molto apprezzata dalle autorità romene, tant’è vero che era considerato come uno dei fondatori della nuova romania e un giorno mi disse che ogni volta che varcava il confine della romania gli veniva messa a disposizione un’auto e due segretarie. Inoltre ha contribuito molto a fondare la cattedra di romeno alla facoltà di lingue a Pisa ed ha continuato a seguire le vicende di quel paese per tutta la vita, senza ricavarne una lira. Poi per ragioni di famiglia tornò in Italia, da dove ripartì per lavorare, sem-pre come docente di letteratura italiana, a Bruxelles. lì organizzò anche una mostra di Giorgio Morandi allora sconosciuto, che gli regalò una sua opera. la pittura infatti era la sua passione e in casa aveva opere di de Pisis, rosai, ecc. Quando era lì, il governo italiano, venuto a conoscenza delle sue idee politiche, inviò un ex agente dell’oVrA, la polizia politica fascista passata con armi e bagagli alle dipendenze della d.C., che allora governava in Italia. Questa persona, che era un buontempone, a suo modo simpatico – mi raccon-tò il professor Guarnieri – gli disse ridendo:” Ma via professore, si tratta solo di stracciare una tessera di partito, ne sono cambiate tante in Italia !”

Ma lui non si rinnegò e così perse il posto e dal dire al fare fu rispedito in Italia dove cercò, fra mille difficoltà, perché era molto duro essere comunista nel cattolicissimo Veneto degli anni ’50, un posto di preside di scuola media superiore - che alla fine ottenne a Feltre – dove poté dimostrare tutta la sua abilità di organizzatore. Io l’ho visitata quella scuola – era un Istituto tecnico – e sono rimasto a bocca aperta quando ho visto che la scuola era dotata di

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sci per tutti i ragazzi che venivano portati a far lezione sulla neve, avevano il gabinetto dentistico gratuito, la colazione gratuita. Insomma il professor Guarnieri, al contrario della stragrande maggioranza degli insegnanti che ti-rano a campare, ci teneva ai suoi ragazzi, faceva tutto quel che poteva perché stessero bene e diventassero buoni cittadini. A me che gli chiesi dove trovava i soldi per fare tutte queste cose disse: “Vado alle banche, spiego che cosa voglio fare e me li danno”.

Quando andò in pensione, fu festeggiato dai suoi estimatori, fra i quali ri-cordo Italo Calvino. Anche quando era anziano amava lo sport e soprattutto la bicicletta, con cui usava fare percorsi così lunghi che avrebbero messo in difficoltà anche un ventenne, sempre col desiderio di mettersi alla prova, di non cedere mai alla stanchezza, di non tirare mai i remi in barca. E così gli è capitato un incidente che ha posto fine alla sua vita . ora non c’è più, ma il suo esempio resta nel cuore e nella testa di chi l’ha conosciuto ed apprezzato.

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AlIGHIErI dante p.58 BEnJAMIn Walter p.53 Bo Carlo pp.9, 48n., 50 BoInE Giovanni p.49 BonSAntI Alessandro pp.10, 25, 61 BuonArrotI Michelangelo p.43 CAlVIno Italo pp.32, 33n, 37 e n., 44, 53, 59,63 CAMPAnA dino p.49 CAroCCI Alberto p.10 CArPI umberto p.58 CoMISSo Giovanni p.47 e n.,49 e n.,50 e n. ContInI Gianfranco p.56 d'AnnunzIo Gabriele pp. 48, 49 dE BEnEdEttI Giacomo p.43 dE PISIS Filippo p.62 dE SAnCtIS Francesco p.32 ElIot thomas Stearns o.10 FErrAtA Giansiro p.10 GAddA Carlo Emilio pp.10, 25, 61 GAllo niccolò p.41 GozzAno Guido p.55 GrECo lorenzo pp. 55, 59 JACoMuzzI Angelo p.58 JAHIEr Piero p.49 lEVI Carlo p.35 lEVI Primo p.38 MAnzonI Alessandro p.39 MICHElStAEdtEr Carlo p.49 MontAlE Eugenio pp.10, 25, 54-59, 61

MorAndI Giorgio p.62 PAlAzzESCHI Aldo p.49 PAPInI Giovanni p.49 PEA Enrico p.49 PEtrArCA Francesco pp.48, 49 PEtronI Franco p.32 e n. PEtronI Guglielmo p.38 ProuSt Marcel p.10 rAIMondI Giuseppe p.38 rEBorA Clemente p.49 roSAI ottone p.62 SABA umberto p.49 SEnECA lucio Anneo p.33 SErrA renato p49 SIMonoV Konstantin pp.34, 35n. SlAtAPEr Silvio p.49 SPAzIAnI Maria luisa p.56 SVEVo Italo pp.10, 43 tABuCCHI Antonio pp. 25, 41 tECCHI Bonaventura p.10 tIMPAnAro Sebastiano p.31 toBIno Mario pp.25, 38, 41 tozzI Federigo p.43 troCKIJ lev p.34 e n. unGArEttI Giuseppe pp.49, 58 VIttorInI Elio pp.10, 25, 38, 41, 48, 49 e n., 50 e n.,51n., 61 zAnzotto Andrea p.25.

nomi degli autori citati dai relatori

Sommario

pag.4Prefazione

liviana Canovai

pag. 6PresentazioneCristina Cosci

pag.7Introduzione

laura Marconcini turini

pag. 13Mio padre preside a Feltre e a Pontedera

nina Guarnieri

pag. 19Silvio Guarnieri, Preside dell’ItC “E. Fermi” (1964 – 1968)

Grazia Fassorra

pag. 25l’uomo, lo scrittore, l’intellettuale

Floriano romboli

pag. 37la poetica della verità

Silvio Guarnieri narratoreFranco Petroni

pag. 47Per ‘Guarnieri e la narrativa’

Giancarlo Bertoncini

pag. 53l’«interlocutore esigente».

Su Guarnieri lettore di Montaleromano luperini

pag. 61testimonianza

Claudio Gonnelli

Finito di stamparenella tipograFia

Bandecchi & ViValdipontedera

maggio 2011