Siam come le lucciole - Luca Moscariello ·...

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Siam come le lucciole La nostra società è sempre più attenta ai risparmi, alle fonti d’energia rinnovabile quali sole, mare, vento e calore della Terra, ovvero a quelle fonti il cui utilizzo attuale non ne pregiudica la disponibilità nel futuro e non delimitano un tempo d’esaurimento. È da questo presupposto che nasce il progetto SIAM COME LE LUCCIOLE che si propone di indagare la poetica di alcuni artisti che, attraverso l’utilizzo della vernice luminescente, utilizzano la luce come espressione artistica. Questo modo di fare pittura sconvolge i canoni mentali dello spettatore di fronte a un dipinto: il buio normalmente annulla la percezione ma, in questo caso, la rende possibile. Questa inversione fa sì che il fondamento della visibilità dell’opera diventi il principio attivo della tecnica artistica. Questa avventura ha stuzzicato la Famiglia Zingarelli a tal punto da porre la loro attenzione sulla luce e sugli artisti che in questi anni hanno utilizzato la pittura di luce come mezzo per comunicare. Siam come le lucciole a cura di Simona Gavioli Nel 1558 Giovan Battista della Porta scrive il Naturalis Magiae, raccontando di “meravigliosi fenomeni” che si verificano in natura e interrogandosi su “come si possa fare a far risplendere una oggetto nelle tenebre”. Studiando assiduamente risponde con una ricetta a base di lucciole distillate e seccate dalla quale si ricava una “polvere magica” nota nell’ambiente del teatro per la sua peculiarità, incline a produrre effetti sbalorditivi. Della Porta studia e risponde al quesito ignaro del fatto che, qualche decennio dopo, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, genio inquieto dall’intelligenza fervida e acuta, presterà attenzione proprio a quel passo descritto nel suo testo. Sedotto dalle potenzialità del “composto incantato”, Caravaggio lo applica nella sua agitata sperimentazione tesa allo studio della luce e all’impiego della camera ottica della quale si avvale per dipingere dal naturale. Nella magica miscela del pittore si rileva la presenza di argento, arsenico, zolfo, iodio, magnesio, materiali fotosensibili che accrescevano la luminosità del dipinto, migliorandone la profondità spaziale e permettendogli di lavorare anche al buio. Questi, usando distillato di lucciole dall’effetto fluorescente, fissava temporaneamente l’immagine in un tempo compreso tra i cinque minuti e le due ore dando inizio, cosi, al suo operato che oltrepassava la soglia dell’oscurità. Più recente è, invece, la scoperta fatta sull’acquerello di Van Gogh, Les bretonnes set le pardon de Pont Aven del 1888, in cui l’autore fece brillare le sue opere utilizzando alcuni colori fosforescenti. Sulla superficie del dipinto è stato rivelato un inconsueto splendore verdastro in corrispondenza delle macchie bianche. Pare che, per ottenere questo effetto, Van Gogh si servisse di un pigmento formato da ossido di zinco, tracce di solfuro di zinco e altri elementi metallici. Ne risulta che il colore si comporta come un materiale semiconduttore generando una fluorescenza verde. Le recenti scoperte, fatte da studiosi di varie università tra cui Roberta Lapucci per Caravaggio, hanno reso ancor più compatta e salda la ricerca sull’utilizzo del pigmento di luce in pittura.

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Siam  come  le  lucciole  La  nostra  società  è  sempre  più  attenta  ai  risparmi,  alle  fonti  d’energia  rinnovabile  quali  sole,  mare,  vento  e  calore  

della   Terra,   ovvero   a   quelle   fonti   il   cui   utilizzo   attuale   non   ne   pregiudica   la   disponibilità   nel   futuro   e   non  

delimitano  un  tempo  d’esaurimento.  È  da  questo  presupposto  che  nasce  il  progetto  SIAM  COME  LE  LUCCIOLE  che  

si  propone  di  indagare  la  poetica  di  alcuni  artisti  che,  attraverso  l’utilizzo  della  vernice  luminescente,  utilizzano  

la  luce  come  espressione  artistica.    

Questo   modo   di   fare   pittura   sconvolge   i   canoni   mentali   dello   spettatore   di   fronte   a   un   dipinto:   il   buio  

normalmente   annulla   la   percezione   ma,   in   questo   caso,   la   rende   possibile.   Questa   inversione   fa   sì   che   il  

fondamento   della   visibilità   dell’opera   diventi   il   principio   attivo   della   tecnica   artistica.   Questa   avventura   ha  

stuzzicato  la  Famiglia  Zingarelli  a  tal  punto  da  porre  la  loro  attenzione  sulla  luce  e  sugli  artisti  che  in  questi  anni  

hanno  utilizzato  la  pittura  di  luce  come  mezzo  per  comunicare.    

 Siam  come  le  lucciole  

a  cura  di  Simona  Gavioli    

Nel  1558  Giovan  Battista  della  Porta  scrive  il  Naturalis  Magiae,  raccontando  di  “meravigliosi  fenomeni”  che  si  

verificano   in   natura   e   interrogandosi   su   “come   si   possa   fare   a   far   risplendere   una   oggetto   nelle   tenebre”.  

Studiando  assiduamente  risponde  con  una  ricetta  a  base  di   lucciole  distillate  e  seccate  dalla  quale  si   ricava  

una   “polvere   magica”   nota   nell’ambiente   del   teatro   per   la   sua   peculiarità,   incline   a   produrre   effetti  

sbalorditivi.   Della   Porta   studia   e   risponde   al   quesito   ignaro   del   fatto   che,   qualche   decennio   dopo,  

Michelangelo  Merisi  detto   il  Caravaggio,  genio   inquieto  dall’intelligenza   fervida  e  acuta,  presterà  attenzione  

proprio  a  quel  passo  descritto  nel  suo  testo.  Sedotto  dalle  potenzialità  del  “composto  incantato”,  Caravaggio  lo  

applica   nella   sua   agitata   sperimentazione   tesa   allo   studio   della   luce   e   all’impiego   della   camera   ottica   della  

quale  si  avvale  per  dipingere  dal  naturale.  Nella  magica  miscela  del  pittore  si   rileva   la  presenza  di  argento,  

arsenico,   zolfo,   iodio,   magnesio,   materiali   fotosensibili   che   accrescevano   la   luminosità   del   dipinto,  

migliorandone  la  profondità  spaziale  e  permettendogli  di  lavorare  anche  al  buio.  Questi,  usando  distillato  di  

lucciole   dall’effetto   fluorescente,   fissava   temporaneamente   l’immagine   in   un   tempo   compreso   tra   i   cinque  

minuti   e   le  due  ore  dando   inizio,   cosi,   al   suo  operato  che  oltrepassava   la   soglia  dell’oscurità.  Più   recente  è,  

invece,  la  scoperta  fatta  sull’acquerello  di  Van  Gogh,  Les  bretonnes  set  le  pardon  de  Pont  Aven  del  1888,  in  cui  

l’autore   fece  brillare   le   sue  opere  utilizzando  alcuni   colori   fosforescenti.   Sulla   superficie  del  dipinto  è   stato  

rivelato  un  inconsueto  splendore  verdastro  in  corrispondenza  delle  macchie  bianche.  Pare  che,  per  ottenere  

questo  effetto,  Van  Gogh  si  servisse  di  un  pigmento  formato  da  ossido  di  zinco,  tracce  di  solfuro  di  zinco  e  altri  

elementi  metallici.   Ne   risulta   che   il   colore   si   comporta   come   un  materiale   semiconduttore   generando   una  

fluorescenza   verde.   Le   recenti   scoperte,   fatte   da   studiosi   di   varie   università   tra   cui   Roberta   Lapucci   per  

Caravaggio,  hanno  reso  ancor  più  compatta  e  salda  la  ricerca  sull’utilizzo  del  pigmento  di  luce  in  pittura.    

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Ai  giorni  nostri,  ci  sono  artisti  che  sono  riusciti  ad  oltrepassare  il  confine  della  notte  con  la  loro  pittura,  sono  stati  

capaci   di   scardinare   i   canoni   convenzionali   della   semplice   visione   diurna   di   un’opera   d’arte   consentendoci   di  

trovare  il  visibile  in  ciò  che  prima  si  mostrava  invisibile.  La  luce  si  è  amalgamata  con  l’oscurità,  il  giorno  con  la  

notte,  il  percettibile  con  l’impercettibile,  tutti  a  braccetto  mettendo  da  parte  i  preconcetti  della  visione  consueta  a  

favore  di  un  nuovo  credo  in  cui  le  tenebre  hanno  svelato  realtà  inaspettate.  La  pittura  di  luce  ci  svela  una  nuova  

dimensione  percettiva.  Guardando   il   lavoro  di   alcuni   artisti   che  hanno  dipinto   con  questa   tecnica,   si   sviluppa   la   capacità  di  percepire  

l’ignoto   (percettività)   e   ci   si   aggancia   immediatamente   all’illusione   immaginaria  dell’immagine   e   alla   formazione  

stessa  della  visione,  attraverso  quello  che  Deleuze  chiama  l’interstizio  o  spazio  vuoto  che  riconosciamo  come  spazio  

di   emozione   che   separa   il  momento   di   passaggio   dalla   luce   all’oscurità.   Nel   cinema   di   Godard,   secondo   Deleuze,  

l’interstizio   tra   le   immagini  è   “l’assunzione  ontologica  di  un  non  visto,  di  un   invisibile   che  passa   ‘tra’  un’immagine  e  

l’altra  e  che  riscatta   l’immagine  dalla   sua   illusione   inscrivendola   in  un  processo  di   svelamento”.  Nella  pittura  di   luce    

l’interstizio/spiraglio   è   la   nostra   commozione,   l’attesa,   lo   stupore   e,   se   vogliamo,   anche   la   paura   del   passaggio  

vedo/non   vedo   o  meglio   vedo   e   poi  mi   accorgo   di   presenze   oltre   la   luce.   “Il   colore   non   esiste”   esclama   l’artista  

Raimondo  Galeano   (grande   conoscitore   e   studioso  di   questa   tecnica)   “perché   in   assenza   di   luce   nessuno   di   noi  

sarebbe   in  grado  di  distinguerne  alcuno”.   In  effetti,   il  colore  non  è  una  caratteristica   fisica  ma  è  una  sensazione  

elaborata  dal  cervello  quando  i  nostri  occhi  percepiscono  fotoni  di  una  certa  lunghezza  d’onda.  Secondo  la  fisica,  siamo  noi  esseri  umani  ad  avere  un  determinato  sistema  visivo  dando  una  percezione  personale  del  mondo.  Ne  

deriva  che  il  colore  è  una  creazione  umana  e  la  vera  natura  delle  cose  è  il  buio.  Ogni  oggetto  in  realtà  è  oscuro  e  

non  emette  un  colore  di  per  sé.  La   luce  è  sempre  alla  base  di  tutto.  Così,   imprigionando  la  realtà  con  la  pittura  

luminescente,   ci   si   apre   un   mondo   sconosciuto   dove   le   sagome   prendono   vita   e   si   animano   d’emozioni   e  

sentimenti   che  corrono  attraverso   l’oscurità  e   rendono  percepibile  ciò  che  prima  era  nascosto.  Un  dialogo  con  

l’universo  al  quale   l’artista   invia   immagini   che  viaggiando  a   trecentomila   chilometri   al   secondo  vivranno  nello  

spazio  all’infinito.  A   tale  proposito  mi  viene  spontaneo  ricordare  un’affermazione  del  noto  scrittore  britannico  Terry  Pratchett  per  cui  “La  luce  crede  di  viaggiare  più  veloce  di  tutto,  ma  si  sbaglia.  Per  quanto  sia  veloce,  la  luce  

scopre  sempre  che  il  buio  è  arrivato  prima  di  lei,  e  l'aspetta”.  

Ma  le  opere  prodotte  con  questa  vernice  non  si  limitano  ad  essere  solo  pittoriche  e  rimanere  appese  alle  pareti,  

al  contrario  assoggettano  anche  l’oggetto.  Sono  innumerevoli  gli  oggetti  decontestualizzati  e  fatti  divenire  opere  

d’arte   tridimensionali   tra   cui   vasi,   anfore,   orci,   ventagli,   bauli,   rami   ed   elementi   della  natura   che   attraverso   la  

vernice  si  guadagnano  l’immortalità.    

I  soggetti  di  alcune  opere  della  mostra  fuoriescono  dal  limite  della  bidimensionalità  e  addirittura  paiono  mutare  

man  mano  che  ci  si  appresta  a  starvi  di  fronte,  l’opera  che  vedremo  sarà  diversa  da  quella  dell’attimo  prima.  Di  

fronte  ai  nostri  occhi  si  manifesta  un  fenomeno  a  dir  poco  incredibile:  mutano  con  il  tempo.  Come  ne  Il  ritratto  di  

Dorian  Gray  in  cui  il  protagonista  chiede  che  il  quadro  regalatogli  da  un  artista  “possa  invecchiare  al  posto  suo”  in  

quanto   “il   pensiero   del   tempo   che   passa   lo   distrugge”,   così   nella   desolazione   del   buio   di   una   stanza,   immersi  

nell’oscurità   più   totale,   ci   si   riproporrà   esattamente   ciò   che  Wilde   sembrava   aver   predetto   scrivendo   uno   dei  

romanzi  più   importanti  per   l’estetismo  letterario  decadente:  “Aveva  espresso  un  pazzo  desiderio:  che  potesse   lui  

rimanere  giovane,  e  il  ritratto  invecchiare;  la  sua  bellezza  restare  intatta,  e  il  viso  dipinto  sulla  tela  portare  il  peso  

delle  sue  passioni  e  dei  suoi  peccati.  [...]  Pareva  mostruoso  persino  pensarci…”  

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DOVE  Riserva  di  Fizzano  Rocca  delle  Macìe  –  Loc.  Le  Macìe  45,  Castellina  in  Chianti  (SI)  

 Rocca  delle  Macìe  nasce  nel  1973  quando   Italo  Zingarelli   acquista   la   tenuta  dando  vita  all’azienda  vitivinicola.  

Tutt’ora  appartiene  alla  famiglia  Zingarelli  ed  è  amministrata  dai  figli  Sandra  e  Sergio  con  la  moglie  Daniela.    

La  Riserva  di  Fizzano  è  un  antico  borgo  medievale  dell’XI  secolo  che  sorge  sulla  cima  della  collina  nel  cuore  del  

Chianti   Classico.   La   ristrutturazione,   curata   dagli   architetti   Fabio   Zingarelli   e   Lucia   Peretti,   ha   valorizzato   la  

struttura   archietettonica   preesistente   e   il   Relais   è   oggi   composto   da   sei   edifici   che   comprendono   19  

appartamenti,  ognuno  dei  quali  sarà  dedicato  agli  artisti  in  mostra.  

     

 

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QUANDO  14  maggio  2015  –  data  da  concordare  con  organizzazione  

Orario  inaugurazione  da  concordare  con  organizzazione  

 

ARTISTI  Karin  Andersen  

Matteo  Basilè  

Blue&Joy  

Fabrizio  Campanella    

Francesco  Casolari  

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Massimo  Catalani  

Marc  Egger  

Raimondo  Galeano  

Michael  Gambino  

Alessandro  Lupi  

Giorgio  Luppattelli  

Vincenzo  Marsiglia  

Luigi  Mastrangelo  

Yari  Miele  (da  confermare)  

Luca  Moscariello  

Massimiliano  Pelletti  

Omar  Ronda  

Nicola  RotiRoti  

Veronica  Santandrea  

Franco  Savignano  

Cristiano  Tassinari