SHARING Tutti fuori gli uomini che avevano seguito ... · Sempre più accordi fra gestori: il trend...

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pag.tre 21. 3-16dicembre2007 Sempre più accordi fra gestori: il trend è nato nel mobile ma potrebbe estendersi alla telefonia fissa Parola d’ordine: condivisione È l’ora della condivisione delle reti fra gli operatori delle telecomunicazioni. Il rallen- tamento della crescita dei fatturati, la riduzione dei margini e soprattutto gli ingenti investimenti necessari per il futuro, con tutte le preoccupazioni che si portano dietro, stanno convincendo i colossi del settore che è il caso di allearsi per aumentare l’efficienza e diminuire i costi. Così, accade sempre più spesso che gestori abituati a farsi una concorrenza feroce sul mercato, ogni tanto si siedano al tavolo per studiare il modo di raziona- lizzare le infrastrutture e tagliare via le parti sovrapponibili, con ovvi vantaggi anche sul piano della gestione e della manutenzione. Può essere questa la soluzione del “problema Ngn”, la rete di nuova ge- nerazione nella telefonia fissa, che si vuole quasi interamente in fibra ottica? È una delle ipotesi in campo, visto che per la nuova infrastruttura sono previsti investimenti di almeno 6 miliardi (come minimo) nei prossimi dieci anni e più volte Telecom Italia ha fatto presente, in convegni e dibattiti pubblici, di aspettarsi che anche gli altri operatori facciano la loro parte. Si tratta anzitutto di trovare un punto di incontro per stabilire il modo in cui gli investimenti dei singoli ope- ratori possono essere remunerati negli anni (forse con tariffe di terminazione diverse, fra vecchia e nuova rete?). Se sarà così potremmo avere in futuro un’unica infrastruttura fissa comune, costituita non solo dalla rete Telecom, ma anche, in misura ovviamente molto più ridotta, da quelle di Wind, Fastweb, Bt Italia, Tiscali e così via. A favore di un’ipotesi del genere gioca l’esperienza fatta negli anni nel campo delle reti mobili, dove i casi di condivisione della rete, insieme a quelli di outsourcing della sua gestione, stan- no accelerando in modo significativo in tutta Europa. Ci sono accordi importanti realizzati fin dal 2002, come quelli fra T-Mobile e 02 per condividere le reti in Germania e in Gran Bratagna o l’ou- tsourcing della gestione delle antenne affidato a Ericsson dall’olandese Telfort. Ma la grande maggioranza è più recente: dall’accordo fra Orange, Sfr e Bouygues Telefone in Francia, del 2004, a quelli fra Vodafone e Orange in Spagna nel 2006 NETWORKSHARING e in Gran Bretagna nel 2007. Per non parlare della pioggia di esternalizzazio- ni della gestione della rete verificatasi nel frattempo nella maggior parte dei paesi europei. In Italia la tendenza si è fatta sentire un po’ più tardi, forse perché da noi il mercato della telefonia mobile ha continuato a lungo produrre fatturati e margini talmente alti da non aver biso- gno di sostegni. Ma ora che le pressioni regolatorie e politiche cominciano a pe- sare (dal taglio delle tariffe fisso-mobile al decreto Bersani sulle ricariche), la condivisione è finita di forza in cima all’agenda del settore. Mentre il tema è allo studio per la separazione della rete fissa di Telecom Italia (nelle sue molte varianti possibili: funzionale, societa- ria e perfino proprietaria, con tanto di quotazione in Borsa) è già pienamente attuale nella telefonia mobile, dove i 4 gestori si sono divisi in due coppie che si scambiano reciprocamente (sebbene secondo modalità e modelli ben diversi) siti, pali e attrezzature. Una è formata da Wind e 3 Italia, l’altra da Tim e Vodafone. Della nuova struttura che avrà il compito di gestire le torri di 3 e Wind si parla da mesi. È il cosiddetto “progetto Eiffel”. I proprietari delle due compagnie, il magnate di Hong Kong Li Ka Shing e l’egiziano Naguib Sawiris, conferiscono 18 mila torri (di cui circa 3.500 da chiudere, con un significativo risparmio per tutti) a una nuova società e la mettono in vendita, offrendo agli acquirenti una prima e importante fonte di ricavi: l’affitto delle antenne da parte delle loro stesse compagnie per 16 anni al prezzo di 443 milioni all’anno. Anche Tim e Vodafone hanno imboc- cato la strada della condivisione. Senza prevedere alcuna vendita, beninteso, ma solo per integrare i siti, i pali e tutte le infrastrutture “passive” di una parte delle rispettive reti, come annunciato il 12 novembre scorso. Vodafone mette sul piatto 2.500 siti, Tim 15.000. Alla fine dell’operazione la parte condivisa dovrebbe risultare di poco inferiore a 10.000. Con il vantag- gio di avere una copertura più capillare del territorio nazionale e, soprattutto, un risparmio (meno affitti di siti, ma anche meno manutenzione) che viene stimato a regime in circa 800 milioni in dieci anni. S.Cav. Dalla competizione sulle infrastrutture alla razionalizzazione delle installazioni: così cambiano le scelte sugli investimenti La nuova tendenza ha preso corpo allʼestero ma ora si estende in Italia Le torri Wind e 3 Italia lʼaccordo Tim-Vodafone sono i casi più recenti L’addio di Buora e il tramonto dei Pirelli-Boys Tutti fuori gli uomini che avevano seguito Tronchetti in Telecom L’ULTIMO RIMASTO, nella prima linea del vertice, era il vicepresidente esecutivo Carlo Buora. Il solo che ricoprisse un incarico di primo piano in Telecom Italia e che fosse arrivato in azienda direttamente dalla Pirelli, sin dalla prima ora, insieme con il presidente Marco Tronchetti Provera. E proprio Tronchetti ha provato a far sì che il suo uomo, con cui pure ultimamente i rapporti non erano certo idilliaci, potesse rimanere in Tele- com Italia anche con la nuova gestione. Quasi un piccolo segno di continuità, di cambiamento non disruptive. Ma la determinazione di Bernabè ad avere su di sé tutti i poteri gestio- nali del gruppo non ha lasciato margini di nessun tipo. Del resto non appariva chiaro il senso del rimanere di Buora, dopo un cambiamento di marcia gestionale così drastico e dopo l’uscita di scena contempo- ranea del presidente Pasquale Pistorio e dell’amministratore delegato Riccardo Ruggiero. E così Buora ha capito che non poteva svolgere la parte dell’ultimo giapponese che difende le postazioni a guerra conclusa. E ha preferito rassegnare anch’egli le dimissioni insieme a Pistorio e Ruggiero. Dei Pirelli boys, oramai, in Telecom è rimasto ben poco, se non nelle seconde e terze linee. E chissà quanto dureranno ancora. Un’era è davvero finita. L’esperienza di 3 anni di dialettica con Bruxelles ha dimostrato come l’esistenza stessa del veto è sufciente a conferire ai suggerimenti della Commissione una forza irresistibile. Si dirà che questo è necessario per omogeneizzare le pratiche dei regolatori nazionali. Forse, se non fosse che una cosa è l’omogeneità, altra l’omologazione, poiché è elevato il rischio di appiattimento su pratiche regolatorie giudicate apoditticamente superiori. In concreto questo signica che alcuni players potrebbero trovarsi dall’oggi al domani privi della rete di protezione di norme pensate per tenere conto della storia e del contesto di un mercato non assimilabili a quelli di mercati contigui. L’unica giusti- cazione per una svolta di questa portata potrebbe essere il fallimento della liberalizzazione nelle tlc. Eppure è vero esattamente il contrario. Perché allora una movimento centripeto così forte in un settore che la stessa Ue giudica altamente concorrenziale? Chi leggesse il rapporto sull’impatto regolamentare pub- blicato dalla Commissione rimarrebbe esterrefatto dalla circostanza che si giudichi necessaria una centralizzazione così radicale in un comparto nel quale il successo del calo dei prezzi (40% in dieci anni) è stato stupefacente. Questo allorché la stessa Commissione manifesta forti timidezze a disciplinare gli altri servizi infrastrutturali dove si registra un mezzo fallimento oppure esita a coordinare i mercati nanziari con buona pace della ubiquità del capitale. Il paradosso è che si accentra di più la dove ve ne è meno bisogno. Ciò induce a interrogarsi sui driver di questa operazione. Il primo è quello di una forte espansione della burocra- zia comunitaria. È ingenuo immaginare che il veto rimanga un’ipotesi limite e che basti il blando parere non vincolante di una pseudo Autorità europea per arginarlo. Chi rivendica un potere lo fa perché intende esercitarlo, come attesta la circostanza che l’Autorità europea sia fortemente condi- zionata dalla Commissione stessa, dotata degli strumenti per tenerla sotto tutela. Se poi lo spirito della riforma era davvero quello di stimolare le autorità nazionali più pigre a fare il loro dovere, bastava immaginare un potere di sup- plenza senza creare le premesse per una normalizzazione conservatrice. Il che ci conduce diritto alla seconda forza dietro alla riforma che è quella dei players più strutturati a livello continentale e quindi maggiormente capaci di inuenzare il processo decisionale a Bruxelles. Che nessuno si faccia illusioni: nel nuovo quadro la partita regolamentare si svolgerà in Commissione dove vince chi è più forte e non chi ha più argomenti – vedi il caso della repentina cancellazione del mercato 15. L’Italia rischia di uscirne con le ossa rotte. Ecco perché una volta tanto la professione di europeismo politicamente corretto dovrebbe cedere il passo all’interesse nazionale. Ricor- dando che la sovranità è come la salute: ci si accorge di quello che valeva dopo averla perduta. VIVIANE REDING Commissario Ue per la Società dell’Informazione e i Media CARLO BUORA Ex vice-presidente esecutivo di Telecom Italia Guindani: «No a contropartite per scorporo rete» «Non si comprende come un ex monopolista possa chiedere misure compensative quale contropartita di un’apertura a una maggiore concorrenza». Si è espresso così l’Ad di Vodafone Italia, Pietro Guindani nell’ambito della consultazione pubblica avviata dall’Agcom sullo scorporo della rete di Telecom Italia. «Lo scambio favorirebbe solo l’operatore dominante» Fastweb: «Remunerazione per chi investe in Ngn» «È necessario un quadro regolamentare che preveda adeguati meccanismi di remunerazione degli investimenti effettuati, sia dall’operatore dominante, sia dagli operatori alternativi». Non solo aiuti a Telecom dunque. «Siamo l’unico operatore in Italia ad avere investito nella realizzazione di una rete Ngn», sottolinea la società invitando l’Agcom a tener conto degli operatori alternativi.

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pag.treN°21. 3-16dicembre2007

Sempre più accordi fra gestori: il trend è nato nel mobile ma potrebbe estendersi alla telefonia fissaParola d’ordine: condivisione

È l’ora della condivisione delle reti fra gli operatori delle telecomunicazioni. Il rallen-

tamento della crescita dei fatturati, la riduzione dei margini e soprattutto gli ingenti investimenti necessari per il futuro, con tutte le preoccupazioni che si portano dietro, stanno convincendo i colossi del settore che è il caso di allearsi per aumentare l’efficienza e diminuire i costi. Così, accade sempre più spesso che gestori abituati a farsi una concorrenza feroce sul mercato, ogni tanto si siedano al tavolo per studiare il modo di raziona-lizzare le infrastrutture e tagliare via le parti sovrapponibili, con ovvi vantaggi anche sul piano della gestione e della manutenzione.

Può essere questa la soluzione del “problema Ngn”, la rete di nuova ge-nerazione nella telefonia fissa, che si vuole quasi interamente in fibra ottica? È una delle ipotesi in campo, visto che per la nuova infrastruttura sono previsti investimenti di almeno 6 miliardi (come minimo) nei prossimi dieci anni e più volte Telecom Italia ha fatto presente, in convegni e dibattiti pubblici, di aspettarsi che anche gli altri operatori facciano la loro parte. Si tratta anzitutto di trovare un punto di incontro per stabilire il modo in cui gli investimenti dei singoli ope-ratori possono essere remunerati negli anni (forse con tariffe di terminazione diverse, fra vecchia e nuova rete?). Se sarà così potremmo avere in futuro un’unica infrastruttura fissa comune, costituita non solo dalla rete Telecom, ma anche, in misura ovviamente molto più ridotta, da quelle di Wind, Fastweb, Bt Italia, Tiscali e così via.

A favore di un’ipotesi del genere gioca l’esperienza fatta negli anni nel campo delle reti mobili, dove i casi di condivisione della rete, insieme a quelli di outsourcing della sua gestione, stan-no accelerando in modo significativo in tutta Europa. Ci sono accordi importanti realizzati fin dal 2002, come quelli fra T-Mobile e 02 per condividere le reti in Germania e in Gran Bratagna o l’ou-tsourcing della gestione delle antenne affidato a Ericsson dall’olandese Telfort. Ma la grande maggioranza è più recente: dall’accordo fra Orange, Sfr e Bouygues Telefone in Francia, del 2004, a quelli fra Vodafone e Orange in Spagna nel 2006

NETWORKSHARING

e in Gran Bretagna nel 2007. Per non parlare della pioggia di esternalizzazio-ni della gestione della rete verificatasi nel frattempo nella maggior parte dei paesi europei.

In Italia la tendenza si è fatta sentire un po’ più tardi, forse perché da noi il mercato della telefonia mobile ha continuato a lungo produrre fatturati e margini talmente alti da non aver biso-gno di sostegni. Ma ora che le pressioni regolatorie e politiche cominciano a pe-sare (dal taglio delle tariffe fisso-mobile al decreto Bersani sulle ricariche), la condivisione è finita di forza in cima all’agenda del settore. Mentre il tema è

allo studio per la separazione della rete fissa di Telecom Italia (nelle sue molte varianti possibili: funzionale, societa-ria e perfino proprietaria, con tanto di quotazione in Borsa) è già pienamente attuale nella telefonia mobile, dove i 4 gestori si sono divisi in due coppie che si scambiano reciprocamente (sebbene secondo modalità e modelli ben diversi) siti, pali e attrezzature. Una è formata da Wind e 3 Italia, l’altra da Tim e Vodafone. Della nuova struttura che avrà il compito di gestire le torri di 3 e Wind si parla da mesi. È il cosiddetto “progetto Eiffel”. I proprietari delle due compagnie, il magnate di Hong Kong Li

Ka Shing e l’egiziano Naguib Sawiris, conferiscono 18 mila torri (di cui circa 3.500 da chiudere, con un significativo risparmio per tutti) a una nuova società e la mettono in vendita, offrendo agli acquirenti una prima e importante fonte di ricavi: l’affitto delle antenne da parte delle loro stesse compagnie per 16 anni al prezzo di 443 milioni all’anno.

Anche Tim e Vodafone hanno imboc-cato la strada della condivisione. Senza prevedere alcuna vendita, beninteso, ma solo per integrare i siti, i pali e tutte le infrastrutture “passive” di una parte delle rispettive reti, come annunciato il 12 novembre scorso.

Vodafone mette sul piatto 2.500 siti, Tim 15.000. Alla fine dell’operazione la parte condivisa dovrebbe risultare di poco inferiore a 10.000. Con il vantag-gio di avere una copertura più capillare del territorio nazionale e, soprattutto, un risparmio (meno affitti di siti, ma anche meno manutenzione) che viene stimato a regime in circa 800 milioni in dieci anni.

S.Cav.

Dalla competizionesulle infrastrutturealla razionalizzazionedelle installazioni:così cambiano le sceltesugli investimenti

La nuova tendenzaha preso corpo allʼesteroma ora si estende in Italia Le torri Wind e 3 Italialʼaccordo Tim-Vodafone sono i casi più recenti

L’addio di Buora e il tramonto dei Pirelli-BoysTutti fuori gli uomini che avevano seguito Tronchetti in Telecom

L’ULTIMO RIMASTO, nella prima linea del vertice, era il vicepresidente esecutivo Carlo Buora. Il solo che ricoprisse un incarico di primo piano in Telecom Italia e che fosse arrivato in azienda direttamente dalla Pirelli, sin dalla prima ora, insieme con il presidente Marco Tronchetti Provera. E proprio Tronchetti ha provato a far sì che il suo uomo, con cui pure ultimamente i rapporti non erano certo idilliaci, potesse rimanere in Tele-com Italia anche con la nuova gestione. Quasi un piccolo segno di continuità, di cambiamento non disruptive. Ma la determinazione di Bernabè ad avere su di sé tutti i poteri gestio-nali del gruppo non ha lasciato margini di nessun tipo. Del resto non appariva chiaro il senso del rimanere di Buora, dopo un cambiamento di marcia gestionale così drastico e dopo l’uscita di scena contempo-ranea del presidente Pasquale Pistorio e dell’amministratore delegato Riccardo Ruggiero. E così Buora ha capito che non poteva svolgere la parte dell’ultimo giapponese che difende le postazioni a guerra conclusa. E ha preferito rassegnare anch’egli le dimissioni insieme a Pistorio e Ruggiero. Dei Pirelli boys, oramai, in Telecom è rimasto ben poco, se non nelle seconde e terze linee. E chissà quanto dureranno ancora. Un’era è davvero finita.

L’esperienza di 3 anni di dialettica con Bruxelles ha dimostrato come l’esistenza stessa del veto è sufciente a conferire ai suggerimenti della Commissione una forza irresistibile.

Si dirà che questo è necessario per omogeneizzare le pratiche dei regolatori nazionali. Forse, se non fosse che una cosa è l’omogeneità, altra l’omologazione, poiché è elevato il rischio di appiattimento su pratiche regolatorie giudicate apoditticamente superiori. In concreto questo signica che alcuni players potrebbero trovarsi dall’oggi al domani privi della rete di protezione di norme pensate per tenere conto della storia e del contesto di un mercato non assimilabili a quelli di mercati contigui. L’unica giusti-cazione per una svolta di questa portata potrebbe essere il fallimento della liberalizzazione nelle tlc. Eppure è vero esattamente il contrario.

Perché allora una movimento centripeto così forte in un settore che la stessa Ue giudica altamente concorrenziale?

Chi leggesse il rapporto sull’impatto regolamentare pub-blicato dalla Commissione rimarrebbe esterrefatto dalla circostanza che si giudichi necessaria una centralizzazione così radicale in un comparto nel quale il successo del calo dei prezzi (40% in dieci anni) è stato stupefacente.

Questo allorché la stessa Commissione manifesta forti timidezze a disciplinare gli altri servizi infrastrutturali dove si registra un mezzo fallimento oppure esita a coordinare i mercati nanziari con buona pace della ubiquità del capitale. Il paradosso è che si accentra di più la dove ve ne è meno bisogno. Ciò induce a interrogarsi sui driver di questa operazione.

Il primo è quello di una forte espansione della burocra-zia comunitaria. È ingenuo immaginare che il veto rimanga un’ipotesi limite e che basti il blando parere non vincolante di una pseudo Autorità europea per arginarlo. Chi rivendica un potere lo fa perché intende esercitarlo, come attesta la circostanza che l’Autorità europea sia fortemente condi-

zionata dalla Commissione stessa, dotata degli strumenti per tenerla sotto tutela. Se poi lo spirito della riforma era davvero quello di stimolare le autorità nazionali più pigre a fare il loro dovere, bastava immaginare un potere di sup-plenza senza creare le premesse per una normalizzazione conservatrice. Il che ci conduce diritto alla seconda forza dietro alla riforma che è quella dei players più strutturati a livello continentale e quindi maggiormente capaci di inuenzare il processo decisionale a Bruxelles.

Che nessuno si faccia illusioni: nel nuovo quadro la partita regolamentare si svolgerà in Commissione dove vince chi è più forte e non chi ha più argomenti – vedi il caso della repentina cancellazione del mercato 15. L’Italia rischia di uscirne con le ossa rotte. Ecco perché una volta tanto la professione di europeismo politicamente corretto dovrebbe cedere il passo all’interesse nazionale. Ricor-dando che la sovranità è come la salute: ci si accorge di quello che valeva dopo averla perduta.

VIVIANE REDINGCommissario Ueper la Società dell’Informazionee i Media

CARLO BUORAEx vice-presidente esecutivo di Telecom Italia

Guindani: «No a contropartite per scorporo rete»«Non si comprende come un ex monopolista possa chiedere misure compensative quale contropartita di un’apertura a una maggiore concorrenza».Si è espresso così l’Ad di Vodafone Italia, Pietro Guindani nell’ambito della consultazione pubblica avviata dall’Agcom sullo scorporo della rete di Telecom Italia. «Lo scambio favorirebbe solo l’operatore dominante»

Fastweb: «Remunerazione per chi investe in Ngn»«È necessario un quadro regolamentare che preveda adeguati meccanismi di remunerazione degli investimenti effettuati, sia dall’operatore dominante, sia dagli operatori alternativi». Non solo aiuti a Telecom dunque. «Siamo l’unico operatore in Italia ad avere investito nella realizzazione di una rete Ngn»,sottolinea la società invitando l’Agcom a tener conto degli operatori alternativi.