Shadow Lady di Michela Pisu

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Shadow Lady è un romanzo in cui la ricerca della verità fa da sfondo ad un continuo tentativo di redenzione. Vendetta e pietà sono i sentimenti che più si affacciano in uno scenario fatto di complotti e bugie. Ma chi è la Nobiltà Nera? Rebecca Sorani scoprirà a sue spese che spesso la verità e la menzogna si vestono di uno stesso abito e che ciò che ha sempre creduto di essere era soltanto ciò che altri avevano costruito per lei. Perché non esiste niente di casuale, tutto sembra essere già tracciato da un’ombra che s’aggira sull’esistenza dell’intera umanità. Partendo dal simposio annuale del gruppo Bilderberg, Becky ripercorrerà la storia della setta che vede come affiliati persone influenti e interessati esclusivamente al potere personale.

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MICHELA PISU

Shadow Lady

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Copyright © 2010 CIESSE Edizioni Copertina © 2010 Ilio Leo

Shadow Lady

di Michela Pisu Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l‟utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910/8862964 Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN 978897277446 Versione eBook Collana BLACK & YELLOW http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE

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Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun

contributo economico all’Autore.

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BIOGRAFIA DELL’AUTORE Michela Pisu è nata a Cagliari nel 1972.

Giornalista, insegnante di filosofia e storia si è sempre descritta come affetta dalla sindrome del bovarismo. Non sei tu che scegli il libro, ma è il libro che sceglie te è da sempre una sua convinzione, per questo ama trascorrere ore nelle librerie a origliare ciò che i libri raccontano. Michela Pisu è senza dubbio un‟autrice eclettica che spazia dai racconti dal sapore gotico, ai romanzi filosofici. Shadow Lady è un romanzo in cui la ricerca della verità fa da sfondo a un continuo tentativo di redenzione. Vendetta e pietà sono i sentimenti che più si affacciano in uno scenario fatto di complotti e di bugie. Perché l‟ordine nasce dal caos…

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Alla mia Famiglia

che mi sopporta negli infiniti sbalzi di umore

A Mariella

che ha creduto inesorabilmente e dolcemente in me.

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L‟Armonia del cosmo ha bisogno del caos come la forza opposta per esistere. E il caos si identifica con le potenze demoniache dei giganti e di tutti quegli esseri che sono per il momento bloccati, ma che aspettano solo il giorno stabilito per liberarsi e aggredire tutto ciò che garantisce lo scorrere armonioso del tempo.

La vita è un continuo rinnovarsi e il tempo presente avrà una fine che sarà, a sua volta, l‟inizio di un nuovo tempo.

Quando le due forze opposte, l‟armonia e il caos, sempre presenti, ma costantemente in equilibrio, entreranno in conflitto, ci sarà l‟ultima battaglia e tutto finirà. Per poter ricominciare con un nuovo ciclo.

(Snorri Sturlunson, L’Inganno di Gylfi in Edda)

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Prologo

“Colui che diventa padrone

è colui che non ha avuto timore della morte”

(Hegel “Fenomenologia dello Spirito”)

Arthur Postdam scriveva freneticamente su delle carte già ingiallite dal tempo. Amava il profumo della carta antica e della ceralacca, con il timbro raffigurante il vecchio stemma: uno scheletro, ai piedi una corona e una spada. Sin da bambino era solito osservare suo nonno intento a fare quello che ora stava facendo lui: scrivere il Testamento del mondo. Un compito che si tramandavano di generazione in generazione, ma ora che il giorno fatidico si avvicinava, il suo ruolo di scriba assumeva un significato più profondo. Oramai non c‟era niente che potesse fermare il cerchio triadico della tesi, antitesi e sintesi: l‟Assoluto aveva già predisposto tutto nel senso più razionale possibile. Adonai, l‟uomo-re, presto sarebbe giunto. «Con un nome nuovo e un aspetto nuovo: chissà in quanti potrebbero riconoscerlo, senza la

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lettura del Testamento del mondo». Postdam temeva la reazione dei suoi ex fratelli. Troppo tempo era vissuto con loro, e conosceva abbastanza bene la politica Illuminata da rendersi conto che quella verità sarebbe stata, per loro, un duro colpo. Dovevano comunque sapere, dovevano comunque prepararsi per il grande mutamento che tutto il mondo, animale e vegetale, avrebbe vissuto di lì a poco.

«La verità» scriveva spasmodicamente nonostante fosse la mano di un ottantenne a muovere la penna «è la nostra nottola di Minerva, è come la civetta che salta fuori dal suo nido solo all‟imbrunire, solo a giorno concluso».

Conosceva quel passo della Fenomenologia dello Spirito a memoria. Di più, era come se a furia di leggere, l‟intera opera di Georg Wilhem Friedrich Hegel gli si fosse tatuata nelle profondità della carne. «La Fenomenologia» scrisse di getto «è il percorso che lo spirito umano compie per acquisire un punto di vista maturo sulla realtà. La triade dialettica: cosa c‟è di più vero di questo?» Arthur Postdam scrisse il passo che più lo aveva colpito, sin dalla

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prima lettura di quel testo filosofico del maestro dell‟idealismo «Il bocciolo dispare nella fioritura e si potrebbe dire che quello vien confutato da questa; similmente, all‟apparire del frutto, il fiore vien dichiarato una falsa esistenza della pianta, e il frutto subentra al posto del fiore come sua nuova verità»1.

«Noi siamo vivi perché stiamo morendo.» disse a voce alta. Il suo corpo avvizzito, riflesso sullo specchio posto all‟interno dell‟anta dell‟armadio, sembrava ricordargli che il suo momento era più vicino di quanto avesse creduto qualche ora prima. «Stanno per arrivare», pensò in modo spento «a quest‟ora avranno saputo che il Libro è pronto. Quando giungeranno a me tutto sarà predisposto: il mio compito è terminato con queste ultime righe». Il mondo sarebbe rinato come l‟araba fenice dalle sue ceneri. Ma quelle ceneri nessuno le avrebbe reclamate. «Troppo sudicie e sporche di sangue», scriveva ancora il vecchio «ma anche noi abbiamo contribuito a renderle così putrescenti, non ci sarà salvezza per noi Illuminati di Baviera: l‟Assoluto ha già deciso

1 G.W.F. Hegel Fenomenologia dello Spirito

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la nostra fine, ed è giusto così». Già altri prima di lui, prima di loro, avevano compreso il senso della realtà. E se di panteismo si voleva parlare, allora che Dio si mostrasse anche nella sua piena antitesi, prima di arrivare alla sua ultima e più perfetta forma. Postdam rilesse silenzioso il passo del Corpus Hermeticum, perché non voleva dimenticare nessun passaggio dovuto, affinché fosse chiaro il tragitto della coscienza umana lungo la storia.

Tat: «...il mondo è necessariamente Dio. Come può essere, allora, che in ciò che è Dio, che è l‟immagine del Tutto, ci siano cose morte?»

Ermete: «Taci, figlio mio, perché tu sei indotto in errore dall‟apparenza del fenomeno. Gli esseri viventi non muoiono ma, essendo corpi composti, si dissolvono; e questo non è morte, ma la dissoluzione di un miscuglio. Se si dissolvono, non è per andare incontro alla distruzione, ma a un rinnovamento. Che cos‟è, infatti, l‟energia della vita? Non è movimento? E cosa c‟è nel Mondo che sia immobile? Niente!»2

2 Corpus Hermeticum XII – Sull’intelletto comune; dialogo tra Ermete Trismegisto e suo

figlio Tat

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Arthur Postdam piegò il foglio ingiallito senza rileggere ciò che aveva scritto. Non poteva e non voleva rivedere: quelle parole erano dardi avvelenati, eppure il sogno tanto atteso. Poi d‟improvviso un dubbio. «Chissà se scrivere il Testamento del mondo è davvero una scelta giustificata». Il dubbio come venne se ne andò. La mano avvizzita dello scriba ricadde, seguendo l‟ordine razionale della gravità.

La pistola ancora fumante fu la prima a entrare nella stanza. Gli uomini arrivarono subito dopo e, in preda a un‟isteria collettiva, misero sottosopra lo studio del vecchio. Eppure, solo una cosa interessava loro. Una mano guantata di nero raccolse con freddezza il documento tanto agognato. «Povero Arthur, amico mio, ognuno ha la sua croce da portare e tu sei stato forse più bravo di noi a scorgerci la rosa, ma l‟Assoluto, per raggiungere la sua forma più perfetta, ha bisogno di un piccolo aiuto. Al giorno d‟oggi, caro Arthur, l‟unico vero aiuto è quello finanziario. Sai già la domanda, come non potresti? Te la voglio ripetere ugualmente: dimmi, amico mio, chi è il pazzo e chi è il saggio? Il re o il mendicante? Poveri o ricchi, siamo tutti uguali dinanzi alla morte.»

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L‟uomo dal guanto nero non attese la risposta. «Qui abbiamo terminato.» ordinò poi agli altri. «Andiamo.»

La mano avvizzita di Arthur Postdam bloccò in un‟ultima presa il braccio dell‟uomo: «Emet» riuscì a pronunciare in un sussurro.

«Mi stai sporcando di sangue la tunica.» Disse freddo il killer, e senza neppure pensarci, puntò la pistola alla tempia del vecchio. Anche quel secondo sparo colpì Arthur Postdam in modo silenzioso. La mano del vecchio ricadde verso il suo centro. Ricadde come una foglia morta, ma la sua scia di sangue scrisse un‟ultima parola: emet.

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Parte prima

Becky

Capitolo primo

L‟aria era talmente calda che sarebbe stato possibile cuocere un uovo sulla corteccia di un albero. «La mia lunga estate calda», pensavo «così uguale, così inutile». Agosto e febbraio erano i mesi che più detestavo: troppo caldo, troppo freddo, la pioggia e le ferie che non arrivano, carnevale che fa sembrare tutti allegri, ma chissà poi cosa si cela dietro la maschera di ognuno. Quell‟anno la sensazione di vuoto mi sfiancava più del solito, come se il mio corpo e la mia anima fossero troppo stanchi di anelare, e chiedessero di raggiungere, una volta per tutte, l‟obiettivo finale. Io mi conoscevo, o almeno credevo di riconoscermi in quel dolce titanismo romantico, e non avevo mai davvero un obiettivo finale: una volta raggiunta la meta già non mi interessava più, e guardavo oltre. Forse il timer, che sentivo battere dentro di me, aveva già scoccato l‟ora. E l‟ora parlava di

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una fine. Di nuovo quella sensazione, quella voglia irrefrenabile di fuggire. Ma dove? Ci avevo già provato a fuggire e senza alcun risultato. «Probabilmente è solo stanchezza», mi dicevo a voce alta «un po‟ di vacanze e ritornerò come nuova». Speravo di avere ragione. Nel frattempo avevo difficoltà a mantenere il mio umore stabile, mi sarebbe bastato non essere sempre incazzata con il mondo. O almeno esserlo un po‟ meno. Mi alzavo la mattina con il sapore della noia in bocca, con la voglia di assaggiare nuovi gusti, anche se poi avrei sentito, lo sapevo, tutto comunque amaro. Così ogni mattina mi appariva tragicamente uguale a quella appena trascorsa, statica e prevedibile. Eppure, avevo la felicità a portata di mano: adoravo il mio lavoro, avevo un ragazzo comprensivo e carino, una famiglia tranquilla. Il sorriso, tuttavia, non sembrava volersi cucire sulla mia bocca: desideravo qualcosa di più, o forse solo qualcosa di diverso.

Quella mattina ero davvero di cattivo umore: avrei voluto due o tre giornate a letto con la febbre alta, magari con quell‟influenza suina che stava mettendo ko l‟intera Europa. Non ero di certo il tipo che fingeva di stare

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male. «Becky sei una vera stacanovista». Quante volte avevo sentito quelle parole, rivolte alla mia persona. Avevo una teoria in merito. «Non si lamenta mai nessuno della gente che lavora troppo, tranne quelli che non lavorano abbastanza». D‟altro canto non avevo mai creduto alle pandemie pubblicizzate dai media, soprattutto se i cronisti ci calcavano la mano e, detto da una giornalista, quella riflessione valeva più di un semplice punto di vista scettico. Eppure, mi accingevo verso la redazione de la Zanzara, questo era il nome del giornale per il quale lavoravo da tre anni. Ero stata davvero fortunata: mi ero laureata in Scienza della Comunicazione a ventiquattro anni e non avevo avuto neppure il tempo di abituarmi al nuovo status di disoccupata intellettuale che avevo già trovato lavoro. Di più. Il lavoro che avevo sempre sognato di fare. Vista la crisi mondiale che si stava vivendo, trovare un lavoro era come fare il cinque più uno e trovarne uno dove ti pagavano per quello che facevi equivaleva al superenalotto. Quanti riuscivano a vincere cifre del genere? Davvero pochi fortunati. Io mi trovavo a metà strada, perché il giornalismo era il mio sogno da sempre e i soldi, mi dicevo, primo o

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poi sarebbero arrivati. All‟inizio, però, non era stato facile inserirmi in quel nuovo ambiente, perché i tempi erano molto veloci e stressanti, poi però erano diventati i miei tempi, e adesso faticavo ad andare più lenta. Probabilmente non era così normale essere una trottola vivente, ma in fondo a me piaceva. Mi faceva sentire viva, soprattutto perché, se c‟era qualcosa che mi spaventava, era la noia e girare continuamente non mi permetteva di annoiarmi. Tranne che in quell‟agosto afoso.

La Zanzara era un quotidiano di piccole dimensioni che si occupava della politica locale. Anche per questo i ritmi erano accelerati: era necessario essere primi, se non nelle vendite, almeno nella pubblicazione delle notizie. Se la Maremma News, il quotidiano più importante della provincia di Grosseto, rappresentava il quotidiano per eccellenza, la Zanzara doveva rappresentare la novità anche nello stile. Non a caso la scelta del nome: l‟insetto più fastidioso, che punge quando meno te lo aspetti, lasciando un gonfiore pruriginoso sulla pelle. L‟immagine mi piaceva. Peccato che nell‟Isola del Giglio non succedesse mai qualcosa di straordinario: l‟arcipelago

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toscano era solito affollarsi solo nel periodo estivo, per il resto dell‟anno l‟unico collegamento con il mondo esterno era Porto Santo Stefano. In fondo, era proprio questa insularità a rendere “Giglio” il fiore più bello. Anche se la leggenda voleva che Giglio derivasse dal termine greco aegylion e poi dal latino aegilium che significa capre. Infatti, l‟Isola del Giglio in realtà significherebbe Isola delle Capre e non l‟Isola del fiore di giglio. Adoravo quei luoghi, eppure volevo andarmene. Se solo mi fosse stato possibile fuggire da lei, da quell‟Isola che, con le sue meraviglie e la sua solitudine, non mi permetteva di respirare. Sarebbero potuti bastare un traghetto, un aereo, un dirigibile, eppure niente sembrava capace di portarmi via, perché poi tornavo sempre, richiamata dal canto delle sirene. Gli scogli mi aspettavano ogni volta che provavo a fuggire e anche io, una volta che rimettevo piede sull‟Isola, mi abbarbicavo su di essi perché, in fondo, la mia anima, come le anime di tutti coloro nati e cresciuti a Giglio, era figlia del mare. Il mare, se ti ritiene sua figlia, non ti permette di abbandonarlo proprio come il destino non permette a nessuno di non diventare ciò che si è.

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Man mano che l‟autobus si avvicinava alla fermata posta di fronte alla redazione, il mio umore peggiorava. Sarà stato l‟odore di fritto che si propagava intenso e veloce, e se c‟era un odore che detestavo era proprio quello delle fritture, o forse il fatto che quella mattina avevo commesso l‟errore di mettermi un vestito anziché i soliti jeans e maglietta. Era sabato e la sera Stefano sarebbe venuto a prendermi, io per una volta volevo sentirmi se non proprio elegante, adeguata. Adeguata a cosa non saprei dire, ma ultimamente mi sentivo troppo spesso insufficiente. Forse stare con il ragazzo più ricco dell‟isola mi faceva sentire così poco opportuna. In realtà Stefano non mi aveva mai fatto pesare il suo conto in banca: non era uno sbruffone né un arrampicatore sociale. Anche lui, in fondo, tutto ciò che desiderava era fuggire. Dopo aver conosciuto la sua famiglia sapevo anche da chi avrebbe voluto allontanarsi. Stefano non era il tipo che si lamentava, anzi era sempre molto comprensivo. Forse anche troppo. «Croce e delizia», mi ripeteva, quando gli chiedevo scusa per qualcosa che avevo detto o fatto «ma non ti cambierei con nessun‟altra e sai perché?» Mi chiedeva divertito, sapendo che

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avrei fatto no con la testa. «Perché sei imprevedibile come una sacher torte: un morso e senti il sapore della marmellata, un altro morso e senti il cacao. Dolce e amaro». L‟analogia con il dolce austriaco non mi piaceva molto, avrei di certo preferito assomigliare alla crostata di frutti di bosco, ma in fondo Stefano non aveva tutti i torti: ero un‟esplosione anche come dessert. Ripensavo al mio abbigliamento: ero sicura che Stefano avrebbe gradito, abituato com‟era alla mia divisa da giornalista che corre sempre. Del resto era per questo che avevo deciso di indossare l‟abito dei figli dei fiori, come lo avevo battezzato il giorno che lo avevo visto in vetrina. Una pazzia: non potevo permettermi quella spesa ma, spinta da un impulso assolutamente femminile, avevo comunque deciso di comprarlo. «Io adoro questo vestito» continuavo a ripetermi. «Sì, ma non oggi. Oggi detesto tutto e tutti». I pensieri terminavano in quello stesso modo ogni fine mese. Chissà perché. O forse semplicemente il caldo afoso di agosto stava rendendo tutto troppo complicato: ancora qualche settimana e sarebbero arrivate le vacanze. Persino per una che amava il lavoro come me, arrivava il

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momento di chiudere con lo stress e prendersi un po‟ di sole e mare.

Entrai in redazione usando il mio mazzo di chiavi, pur sapendo che Mariano e Gigi erano già a lavoro. Mi costava persino salutare.

«Ciao Rebecca, come siamo eleganti oggi.»

«Stai zitto Gigi.» Le mie risposte acide non erano una novità, soprattutto il fine settimana. Avevo sempre la sensazione che il weekend arrivasse lento, ma andasse via veloce. Per di più, mi sembrava di sprecarlo.

«Come siamo di buon umore.» Gigi non capiva mai quando era il caso di smetterla di punzecchiarmi.

«Piantala, non è giornata.» Risposi in tono caustico.

La cosa più positiva di lavorare in un ambiente esclusivamente maschile era che potevi essere sempre te stessa e, contemporaneamente, essere certa che nessuno dei colleghi avrebbe perso tempo a sparlare di te e dei tuoi umori. Non che gli uomini non chiacchierino, al contrario, è solo che lo fanno in un modo totalmente diverso dalle donne. Gli uomini di solito dimenticano in fretta, mentre le donne preferiscono ricordare tutto. C‟era anche l‟aspetto

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negativo di lavorare in un ambiente frequentato da soli uomini: non potevi parlare con nessuno dei tuoi veri umori da donna. A quanto pare ero l‟unica ragazza che era rimasta più di due settimane a la Zanzara. Sapevo che, al mio arrivo, erano volate scommesse su quanto avrei resistito, ma non sapevano con chi avessero a che fare, alla fine la scommessa l‟avevo vinta io. Mi ero talmente ambientata che qualche volta tutti i miei colleghi si dimenticavano che non ero un uomo e finivano per prendere i tipici argomenti da bar. Io ascoltavo senza chiose: era pur sempre un modo per studiare la fauna maschile. Qualche volta, però, intervenivo per difendere la categoria femminile: a tutto c‟era un limite nelle schermaglie maschiliste.

«Becky sei tu?» La voce del capo mi richiamava all‟ordine «potresti venire nel mio ufficio?»

Mi guardò da dietro gli occhiali: «Sempre più figlia dei fiori».

Il suo commento sul mio vestito anni „60 risultava davvero inopportuno, soprattutto perché avrei dato qualunque cosa per avere un cambio.

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«Qua dentro sono l‟unico vero bocciolo».

«Direi più una rosa selvatica.» Commentò senza acidità.

Intuivo che Carlo mi preferiva agli altri della redazione. Sarà stato il fatto che ero l‟unica femminuccia del gruppo, o perché spesso parlavamo la stessa lingua quando si trattava di politica. Non eravamo sempre d‟accordo, a dire la verità la vedevamo in modo diametralmente opposto: io, come sosteneva lui, sembravo uscita da un raduno hippy; lui, come gli rimproveravo sempre, aveva dimenticato cosa significava essere dei fricchettoni. Tuttavia, avevamo la stessa scintilla negli occhi. La scintilla della curiosità e di chi non ha paura di mettere al bando i propri pensieri. Solo che io ero più libera di esprimermi Carlo, invece, in quanto direttore, doveva usare troppo spesso la tecnica del bastone e della carota: l‟unico modo, diceva, per non far schiacciare sul muro la Zanzara. Sapevo ovviamente che aveva ragione, ma amavo essere la sua spina nel fianco.

«Hai mai sentito parlare del Gruppo Bilderberg?» Chiese in velocità, come se anche solo fare quella domanda gli costasse

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più del necessario «Lo chiedo a te e non agli altri perché so che tu ami i misteri».

Lo chiedeva a me e non agli altri come sempre, quando si trattava di informazioni che esulavano dal lavoro vero e proprio, perché ero l‟unica che gli dava corda. «Non ne so molto. Intendi dire i banchieri?» Avrei voluto sapere tutto del gruppo Bilderberg, se non altro perché sembrava, da come mi era stata posta la domanda, che avrei dovuto sapere tutto.

«Sono molto più che banchieri, o almeno è ciò che si dice in certi ambienti. Del conclave datato 7 giugno 1999, solo una testata giornalistica ha pubblicato, anche se solo un piccolo articolo. In effetti, a detta di alcuni, troppo piccolo, vista l‟importanza che i summit sembrerebbero avere per il futuro del mondo. Ciò che mi ha incuriosito e che mi ha effettivamente portato a fare delle ricerche, è questa lettera trovata stamattina nella cassetta della posta. Niente francobollo e nessun mittente: era dentro una di quella buste prestampate che ti mandano per corrispondenza. In questo caso si trattava di soldatini di stagno da collezionare, davvero

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buffo non credi? Potrebbe essere uno scherzo, o forse no.»

Mi porse la lettera. Vi era scritta una filastrocca.

Burattini e Burattinai

A quali di questi signori la tua anima avvicinerai?

Non è un gioco di parole

eppure, le verità sono soffici come il cotone.

Vuoi capire da che parte stare?

Allora accosta l’orecchio, aguzza la vista

perché è tutto ciò che dovrai fare

solo ascoltare e osservare.

La fine del mondo

in fondo sarà solo un tragico girotondo.

Il gruppo Bilderberg si è già riunito

e su dei progetti ha già puntato il dito

Polemos il cammino ha tracciato

ma non a tutti è concesso di oltrepassare il selciato.

Non potrai fidarti

Non potrai fermati…