Sentenze della Corte Costituzionale sull’applicazione del...

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Sentenze della Corte Costituzionale sull’applicazione del Titolo V come modificato dalla Legge Costituzionale n. 3 del 2001. Sentenza 07-10-2002, n. 422 Sentenza 10-07-2002, n. 408 Sentenza 10-07-2002, n. 407 Sentenza 10-07-2002, n. 376 Sentenza 20-06-2002, n. 306 Sentenza 20-06-2002, n. 304 Sentenza n 19-06-2002, n. 282 Sentenza 09-05-2002, n. 196 Sentenza 10-04-2002, n. 106 Sentenza 28-01-2002, n. 17 Sentenza 08-10-2001, n. 337 Sentenza 04-07-2001, n. 230 Sentenza 06-06-2001, n. 208 1

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Sentenze della Corte Costituzionale sull’applicazione del Titolo V come modificato dalla Legge Costituzionale n. 3 del 2001. Sentenza 07-10-2002, n. 422 Sentenza 10-07-2002, n. 408 Sentenza 10-07-2002, n. 407 Sentenza 10-07-2002, n. 376 Sentenza 20-06-2002, n. 306 Sentenza 20-06-2002, n. 304 Sentenza n 19-06-2002, n. 282 Sentenza 09-05-2002, n. 196 Sentenza 10-04-2002, n. 106 Sentenza 28-01-2002, n. 17 Sentenza 08-10-2001, n. 337 Sentenza 04-07-2001, n. 230 Sentenza 06-06-2001, n. 208

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Sent. 7 ottobre 2002, n. 422

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 3, della legge 23 marzo 2001, n. 93 (Disposizioni in campo ambientale), promosso con ricorso della Regione Abruzzo, notificato il 4 maggio 2001, depositato in cancelleria il 10 successivo e iscritto al n. 27 del registro ricorsi 2001. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei Ministri; udito nell'udienza pubblica del 4 giugno 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky; uditi l'avvocato Francesco Carli per la Regione Abruzzo e l'Avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Con atto notificato il 4 maggio 2001 e depositato il successivo 10 maggio la Regione Abruzzo ha proposto «ricorso per dichiarazione di incostituzionalità e, comunque, per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato», avente a oggetto l'art. 8, comma 3, della legge 23 marzo 2001, n. 93 (Disposizioni in campo ambientale), in relazione agli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione. Premette la ricorrente che il legislatore, con la legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), ha regolato la tutela, l'istituzione e la gestione delle aree naturali protette, prevedendo in particolare: a) che, ai sensi dell'art. 4, la programmazione dell'istituzione delle aree naturali protette sia stabilita con cadenza triennale, mediante la realizzazione di intese, eventualmente promosse dal Ministro dell'ambiente, tra Regioni ed enti locali, sulla base dei metodi e criteri indicati nel programma triennale di azione pubblica definito dalla legge 28 agosto 1989, n. 305 (Programmazione triennale per la tutela dell'ambiente); b) che, secondo l'art. 8, comma 1, l'individuazione e la delimitazione dei parchi nazionali avvengano previa acquisizione del parere della Regione interessata; c) che, secondo l'art. 34, la delimitazione dei parchi nazionali e l'adozione delle misure di salvaguardia ad essi relative siano disposte d'intesa con le Regioni e, comunque, sentite le Regioni e gli enti locali interessati. Ad avviso della Regione Abruzzo, dalle richiamate disposizioni della legge quadro emergerebbe la necessità, per la realizzazione di nuovi parchi nazionali, di un «procedimento concertativo» tra Stato e Regioni al fine di garantire la giusta delimitazione delle aree interessate e la corretta gestione degli enti istituiti. Tali principi troverebbero conferma: a) nella legge 8 ottobre 1997, n. 344 (Disposizioni per lo sviluppo e la qualificazione degli interventi e dell'occupazione in campo ambientale), che ha subordinato l'istituzione dei Parchi della Costa Teatina e Torre del Cerrano a un'istruttoria che il Ministro dell'ambiente avrebbe dovuto compiere entro il 30 giugno 1998, sentiti la Regione e gli enti locali competenti;

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b) nell'art. 77 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), che prevede che l'individuazione, l'istituzione e la disciplina generale dei parchi e delle riserve nazionali avvenga «sentita la Conferenza unificata». Posto il quadro anzidetto, secondo la ricorrente l'art. 8, comma 3, della legge n. 93 del 2001, istituendo nel territorio della Regione Abruzzo il Parco nazionale Costa Teatina senza l'acquisizione della previa intesa o di un parere della Regione stessa, sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, in quanto - non rispettando le procedure cooperative imposte dalla legge quadro e dalle altre disposizioni richiamate - avrebbe determinato lo svuotamento del ruolo e della funzione costituzionalmente riconosciuti alla Regione Abruzzo. La denunciata violazione del principio di leale cooperazione si sarebbe inoltre tradotta, ad avviso della ricorrente, nella menomazione delle sue prerogative costituzionali, dando luogo ad un «conflitto di attribuzioni». La Regione Abruzzo propone infine istanza di sospensione cautelare degli effetti della disposizione impugnata, poiché essa inciderebbe pesantemente sulla disciplina e sulla gestione di un'ampia porzione del territorio regionale e renderebbe possibile l'adozione di misure di salvaguardia, caratterizzate da «importanti effetti vincolistici», in assenza di preventive indicazioni da parte della Regione. 2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. L'interveniente, qualificando il giudizio promosso dalla Regione Abruzzo in primo luogo come conflitto di attribuzioni tra Stato e Regione, rileva che la disposizione impugnata non indica la perimetrazione del Parco nazionale in questione, limitandosi ad integrare l'art. 34 della legge n. 394 del 1991 e a stabilire la dotazione finanziaria dell'ente gestore. Inoltre, considerato che l'art. 2 della legge quadro articola le aree naturali protette in tre distinte tipologie sulla base delle loro caratteristiche e degli interessi coinvolti (i parchi nazionali previsti dal comma 1, i parchi naturali regionali indicati dal comma 2 e le riserve naturali di cui al comma 3), l'Avvocatura dello Stato sostiene che nessuna disposizione di rango costituzionale garantisce alle Regioni l'uso esclusivo del proprio territorio; pertanto, anche in base alla disciplina dettata dal citato art. 34, le modalità attraverso le quali esso può essere gestito da parte delle Regioni sono modulate secondo le competenze attribuite dalla Costituzione. Da ciò consegue - secondo l'Avvocatura - che non necessariamente le iniziative volte a soddisfare un interesse unitario devono essere precedute dall'intesa con la Regione nel cui ambito territoriale è previsto l'intervento statale. Nella fattispecie la collaborazione tra il Ministero dell'ambiente e la Regione Abruzzo sarebbe regolata dall'art. 34 della legge n. 394 del 1991 e la violazione delle procedure previste da tale disposizione non darebbe luogo ad un conflitto di attribuzioni, ma eventualmente alla illegittimità dei provvedimenti ministeriali, dovendosi in definitiva escludere ogni violazione dei parametri costituzionali invocati. L'Avvocatura conclude chiedendo che il ricorso sia respinto per carenza di presupposti, ove lo si qualifichi come conflitto di attribuzioni, o comunque che sia rigettato ove sia inteso quale atto introduttivo di un giudizio di legittimità costituzionale in via principale. 3. - In prossimità dell'udienza la Regione Abruzzo ha depositato una memoria nella quale sostiene che la disposizione impugnata ha un triplice contenuto normativo, in quanto: a) dispone «in via immediata» l'istituzione del Parco Nazionale della Costa Teatina; b) dispone, sempre in via immediata, il finanziamento del Parco, prevedendo l'iscrizione nel bilancio dello Stato di un impegno finanziario sin dall'anno 2001;

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c) rinvia ad un provvedimento successivo la delimitazione territoriale del Parco. Sulla base di tali considerazioni, la Regione ricorrente ribadisce, contestando le affermazioni dell'Avvocatura dello Stato, che il Parco nazionale della Costa Teatina è stato istituito con l'art. 8, comma 3, della legge n. 93 del 2001, senza alcuna previa intesa e pertanto in violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regione, oltre che «in aperto contrasto» con l'art. 77 del decreto legislativo n. 112 del 1998 e con l'art. 8 della legge n. 394 del 1991. Considerato in diritto 1. - La Regione Abruzzo solleva questione di legittimità costituzionale - tale può essere ritenuta, per sua non equivoca sostanza, la domanda della Regione, nonostante l'incertezza manifestata nel qualificare l'atto introduttivo «ricorso per dichiarazione di incostituzionalità e, comunque, per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato» - dell'art. 8, comma 3, della legge 23 marzo 2001, n. 93 (Disposizioni in campo ambientale), che così recita: «Con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'ambiente, d'intesa con la regione interessata, è istituito il Parco nazionale "Costa teatina". Il Ministro dell'ambiente procede ai sensi dell'art. 34, comma 3, della legge 6 dicembre 1991, n. 394, entro centottanta giorni a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge. L'istituzione ed il funzionamento del Parco nazionale "Costa teatina" sono finanziati nei limiti massimi di spesa di lire 1.000 milioni a decorrere dall'anno 2001». Ritiene la Regione ricorrente che la norma denunciata, istitutiva del Parco nazionale per determinazione unilaterale dello Stato, comporti violazione degli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione, in particolare sotto il profilo della mancata attivazione di una procedura di «leale cooperazione» con la Regione Abruzzo stessa, nel territorio della quale il Parco in questione è situato. Con il medesimo ricorso, la Regione ricorrente insta per la sospensione dell'efficacia della disposizione legislativa impugnata. 2. - La questione di costituzionalità è stata sollevata anteriormente all'entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), con riferimento alle norme costituzionali allora vigenti ed è stata promossa al fine di ottenere il riconoscimento, tramite l'annullamento della legge statale denunciata, delle competenze regionali che si pretendono fondate su quelle medesime norme, per il tempo in cui esse erano vigenti. La presente questione ha dunque da essere decisa esclusivamente alla stregua delle norme costituzionali del Titolo V della Parte II della Costituzione nella formulazione originaria - quali in effetti invocate dalla ricorrente -, non rilevando, in questa circostanza, il sopravvenuto mutamento di quadro costituzionale operato con la legge costituzionale menzionata. L'esito del giudizio, quale che esso sia, non pregiudica l'ambito delle competenze, rispettivamente dello Stato e della Regione, determinate dalla nuova normativa costituzionale. E ciò non solo - come è ovvio - nel caso in cui, con l'accoglimento della questione, la legge dello Stato sia annullata e quindi, per così dire, sia azzerata la situazione normativa in contestazione; ma anche nel caso di rigetto della medesima, con la permanente vigenza della norma impugnata anche al di là del momento di entrata in vigore della legge di riforma costituzionale, permanente vigenza che è conseguenza della necessaria continuità dell'ordinamento giuridico. In entrambi i casi, il rinnovato assetto delle competenze legislative potrà essere fatto valere dallo Stato e dalle Regioni tramite nuovi atti di esercizio delle medesime, attraverso i quali essi possono prendere ciò che la Costituzione dà loro, senza necessità di rimuovere previamente alcun impedimento normativo. Perciò, le norme che definiscono le competenze legislative statali e regionali contenute nel nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione potranno, di norma, trovare applicazione nel giudizio di costituzionalità promosso dallo Stato contro leggi regionali e dalle Regioni contro leggi statali soltanto in riferimento ad atti di esercizio delle rispettive potestà legislative, successivi alla loro nuova definizione costituzionale. 3. - Nel merito, la questione non è fondata.

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La Regione ricorrente si duole della legge impugnata perché avrebbe istituito il Parco nazionale «Costa teatina» senza una partecipazione della Regione stessa, conforme al principio di leale cooperazione. Questa doglianza, peraltro, si basa su un'inesatta valutazione dei termini normativi della questione. La norma impugnata, infatti, non istituisce, propriamente, il Parco nazionale in questione ma ne prevede l'istituzione a opera di un decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'ambiente, d'intesa con la Regione. Essa promuove un procedimento e, al tempo stesso, fornisce la base legale del provvedimento istitutivo del Parco, con il quale il procedimento stesso è destinato a concludersi. Come questa Corte ha numerose volte affermato (v. ad esempio sentenze n. 175 del 1976 e n. 1031 del 1988), l'istituzione di parchi nazionali coinvolge varie competenze, sia dello Stato che delle Regioni, le quali si atteggiano differentemente nei diversi momenti in cui la procedura di istituzione si svolge (decisione istitutiva; individuazione, provvisoria e definitiva, delle aree e determinazione dei confini; stabilimento delle misure di salvaguardia; creazione di enti o autorità di gestione, e così via) a seconda dell'incidenza delle relative determinazioni sulle competenze statali e regionali. Quando si abbia a che fare con competenze necessariamente e inestricabilmente connesse, il principio di «leale collaborazione» - che proprio in materia di protezione di beni ambientali e di assetto del territorio trova un suo campo privilegiato di applicazione - richiede la messa in opera di procedimenti nei quali tutte le istanze costituzionalmente rilevanti possano trovare rappresentazione. Tuttavia, il primo momento del procedimento, cioè la decisione iniziale che attiva le procedure in vista della creazione di uno specifico parco nazionale (decisione che prelude ma non è ancora, come detto, la «istituzione»), attenendo alla cura di un interesse non frazionabile Regione per Regione, rileva essenzialmente della competenza statale, quale espressione di tale interesse. Tale competenza, il cui esercizio è finalizzato alla tutela dei valori protetti dall'art. 9 della Costituzione, può essere organizzata in modo che trovino espressione punti di vista regionali e locali, quale integrazione degli elementi valutativi a disposizione dell'istanza nazionale decidente e contributi in vista di soluzioni condivise. Sarebbe tuttavia contraddittorio, rispetto al carattere nazionale dell'interesse ambientale e naturalistico da proteggere, ritenere che sia costituzionalmente dovuto l'assenso o l'intesa regionali o locali dotati di forza giuridicamente condizionante. In questo senso, la legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), per l'individuazione dei parchi naturali nazionali, dopo avere affermato, in principio (art. 1, comma 5), che «nella tutela e nella gestione delle aree naturali protette, lo Stato, le regioni e gli enti locali attuano forme di cooperazione e di intesa ai sensi dell'articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, e dell'art. 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142», e dopo avere stabilito (art. 2, comma 7) che la classificazione e la istituzione dei parchi nazionali è effettuata «d'intesa» con le Regioni, ha previsto procedure complesse di dimensione nazionale, facenti capo agli organi dello Stato. Secondo l'art. 8, comma 1, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'ambiente, sentita la Regione, si provvede all'istituzione e alla delimitazione definitiva dei parchi nazionali individuati e delimitati secondo le modalità di cui all'art. 4 della stessa legge. Tale ultima disposizione prevedeva un «programma triennale per le aree naturali protette», nel cui ambito era approvato (art. 5) l'elenco ufficiale delle aree naturali protette. Il programma triennale e l'elenco ufficiale erano adottati dal Comitato per le aree naturali protette previsto dall'art. 3, come organo nazionale, costituito con decreto del Ministro dell'ambiente e da esso presieduto, e formato da esponenti dell'amministrazione centrale e da rappresentanti delle Regioni; in mancanza dell'approvazione del programma entro il termine stabilito dall'art. 4, comma 6, si provvedeva direttamente con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente (art. 4, comma 7). Il programma triennale e, conseguentemente, la procedura incentrata su di esso sono stati successivamente aboliti con l'art. 76 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), il quale poi, all'art. 77, riconosce rilievo nazionale ai compiti e alle funzioni in materia di parchi naturali statali attribuiti allo Stato dalla legge quadro n. 394 del 1991 e, su questa premessa, li esclude dal conferimento alle Regioni e agli enti locali, a norma dell'art. 1, comma 4, lettera c), della legge 15 marzo 1997, n. 59, aggiungendo però, al comma 2, che l'individuazione, oltre che l'istituzione e la disciplina generale dei parchi nazionali, è operata «sentita la Conferenza unificata».

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Parallelamente alla procedura amministrativa, la legge quadro sulle aree protette, nelle sue Disposizioni finali, prevede per l'intanto direttamente la «istituzione» di alcuni parchi nazionali (art. 34, commi 1 e 2), disciplinando, al comma 3, le procedure attuative. All'elenco dei parchi nazionali ivi inizialmente menzionati, la legge impugnata ha successivamente aggiunto il Parco della Costa Teatina, già considerato dalla legge quadro «prioritaria area di reperimento», ai fini dell'adozione di misure di salvaguardia indicate (commi 6 - come integrato dall'art. 4 della legge 8 ottobre 1997, n. 344 - e 7 dell'art. 34 citato). L'individuazione di parchi nazionali direttamente per legge, anziché tramite procedimento amministrativo, è espressione della posizione eminente del Parlamento nel rappresentare l'interesse nazionale. Essa indubbiamente non consente di inserire formalmente nel procedimento legislativo che conduce alla decisione di istituire il parco la partecipazione delle Regioni e degli enti locali interessati; ma, fino a tanto che non si abbia una distorsione degli apprezzamenti del legislatore e un evidente abuso della sua funzione, con l'attribuzione ad aree evidentemente prive di valore ambientale e naturalistico di importanza nazionale della qualificazione di parco nazionale - ciò che nella specie non viene contestato -, non vi è motivo di negare al legislatore il potere di provvedere direttamente. D'altro canto, il provvedimento legislativo di istituzione del parco non comporta di per sé ancora, come si è detto, l'interferenza concreta con specifiche competenze regionali. E, per quanto riguarda il seguito, a norma dell'art. 34, comma 3, della legge n. 394 del 1991, richiamato dalla legge impugnata, per la delimitazione provvisoria del parco, il Ministro dell'ambiente procede sulla base degli elementi conoscitivi tecnico-scientifici disponibili, in particolare, oltre che presso i servizi tecnici nazionali e le amministrazioni dello Stato, presso le Regioni; per l'adozione delle necessarie misure di salvaguardia, poi, il Ministro dell'ambiente procede previa consultazione delle Regioni e degli enti locali interessati; la delimitazione in via definitiva è stabilita con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'ambiente, sentita la Regione (art. 8, comma 1, della legge n. 394 del 1991); il decreto istitutivo del Presidente della Repubblica, infine, è adottato d'intesa con la Regione. Il principio di leale collaborazione, al quale la Regione ricorrente impropriamente fa appello per contestare la legittimità costituzionale della determinazione legislativa, potrà invece utilmente essere invocato in relazione a sue eventuali violazioni che in ipotesi si verifichino in tali momenti amministrativi successivi. 4. - Il rigetto della questione di costituzionalità proposta rende superflua ogni pronuncia, di ammissibilità e di merito, circa la richiesta sospensione dell'efficacia del provvedimento legislativo denunciato. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 3, della legge 23 marzo 2001, n. 93 (Disposizioni in campo ambientale), sollevata, in riferimento agli artt. 5, 117 e 118 della Costituzione (questi ultimi, nella versione anteriore alla riforma operata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), dalla Regione Abruzzo, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2002.

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Sent. 10 luglio 2002, n. 408

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della deliberazione del Consiglio dei Ministri del 22 ottobre 1999 e della comunicazione del Commissario del Governo in pari data, prot. n. 023956, relativa al rinvio della legge provinciale di Bolzano, riapprovata il 6 ottobre 1999, concernente "Modifica alla legge provinciale 9 giugno 1998, n. 5, recante "Modifiche di legge nell'ambito della formazione sanitaria ed altre norme in materia socio-sanitaria", promosso con ricorso della Provincia autonoma di Bolzano, notificato il 21 dicembre 1999, depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2000 ed iscritto al n. 2 del registro conflitti 2000. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 4 giugno 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti; uditi l'avvocato Sergio Panunzio per la Provincia autonoma di Bolzano e l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - La Provincia autonoma di Bolzano, con ricorso notificato il 21 dicembre 1999 e depositato il successivo 4 gennaio 2000, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri in relazione al rinvio per nuovo esame, deliberato dal Consiglio dei ministri il 22 ottobre 1999 e comunicato in pari data dal Commissario del Governo, della delibera legislativa provinciale n. 5/99-ter (Modifica alla legge provinciale 9 giugno 1998, n. 5 recante «Modifiche di legge nell'ambito della formazione sanitaria ed altre norme in materia socio-sanitaria»), riapprovata a maggioranza assoluta dal Consiglio provinciale di Bolzano il 6 ottobre 1999. 2. - La Provincia premette che, nell'esercizio delle proprie competenze legislative ex artt. 8, 9 e 10 dello statuto, il Consiglio provinciale approvava, in data 26 marzo 1999, il testo del disegno di legge provinciale n. 5/99 recante "Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l'anno finanziario 1999-2000 e norme legislative collegate (legge finanziaria 1999)", il quale veniva rinviato per un nuovo esame al Consiglio provinciale dal Consiglio dei ministri con delibera del 30 aprile, limitatamente ad alcune disposizioni fra le quali l'art. 37 volto ad inserire, nella legge provinciale 9 giugno 1998, n. 5 (contenente "Modifiche di legge nell'ambito della formazione sanitaria ed altre norme in materia socio-sanitaria"), l'art. 15-bis relativo a corsi di formazione manageriale, indetti dalla Giunta provinciale, per l'accesso al secondo livello dirigenziale per i profili professionali del ruolo sanitario. Successivamente, la predetta disposizione, censurata dal Governo in sede di rinvio, veniva riprodotta nell'art. 1 del disegno di legge n. 5/99 bis contenente "Modifiche di leggi provinciali in connessione con le disposizioni finanziarie di cui alla legge provinciale 3 maggio 1999, n. 1", che veniva approvato il 2 giugno 1999 dal Consiglio provinciale e poi rinviato al medesimo per nuovo esame dal Consiglio dei ministri nella seduta del 30 giugno 1999. A seguito di tale rinvio il Consiglio provinciale approvava, a maggioranza assoluta, il 6 ottobre 1999, il disegno di legge n. 5/99 ter, contenente un articolo unico che riproduceva il testo dell'art. 1 del disegno di legge n. 5/99 bis (oggetto del rinvio governativo), in una formulazione, però, diversa rispetto a quella precedente in quanto modificata in modo che risultasse più chiaramente l'intendimento della Provincia di rispettare la disciplina statale dei requisiti d'accesso al corso di formazione manageriale. Con nota del 22 ottobre 1999 il Commissario del Governo comunicava alla Provincia che il Governo, nella seduta del 22 ottobre 1999, aveva

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deliberato di rinviare al Consiglio provinciale per un nuovo esame la delibera legislativa provinciale n. 5/99 ter sulla base di censure ed argomentazioni identiche a quelle già formulate in occasione del rinvio del disegno di legge n. 5/99 bis (con particolare riferimento all'art. 1). 3. - La Provincia sostiene che l'atto di rinvio sarebbe lesivo delle proprie attribuzioni legislative di cui agli artt. 8, 9 e 10 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige e relative norme di attuazione, come pure del potere di promulgazione delle leggi provinciali, spettante al Presidente della Giunta in base all'art. 55, ultimo comma, dello stesso statuto. Infatti, a suo avviso, il disegno di legge provinciale n. 5/99-ter, riapprovato a maggioranza assoluta dal Consiglio provinciale di Bolzano il 6 ottobre 1999, è una legge "non nuova", costituendo il risultato di modifiche apportate, in sede di riesame, solo alle disposizioni che erano state oggetto del precedente rinvio, in conformità con un ormai consolidato indirizzo della Corte Costituzionale. Il Governo, pertanto, non poteva nuovamente esercitare il potere di rinvio nei confronti della delibera legislativa riapprovata a maggioranza assoluta, potendo validamente impedire la promulgazione della legge da parte del Presidente della Giunta, di cui all'art. 55, ultimo comma, dello statuto, solo mediante ricorso dinanzi alla Corte Costituzionale. La Provincia, quindi, conclude chiedendo che la Corte dichiari che non spetta al Governo rinviare nuovamente la delibera legislativa provinciale n. 5/99-ter, riapprovata a maggioranza assoluta dal Consiglio provinciale di Bolzano il 6 ottobre 1999 e, conseguentemente, annulli la deliberazione di rinvio del Consiglio dei ministri del 22 ottobre 1999 e la relativa comunicazione in pari data del Commissario del Governo. 4. - Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che il ricorso sia dichiarato infondato. La difesa erariale sostiene che la delibera legislativa provinciale n. 5/99-ter, oggetto del rinvio governativo, è "nuova", dovendosi la novità riferire al disegno di legge nella sua organica identità e non alla singola disposizione da esso veicolata. Infatti - a suo avviso - il procedimento legislativo culminato nell'approvazione della delibera legislativa provinciale n. 5/99-ter è iniziato nel luglio 1999; pertanto sono del tutto ininfluenti rispetto ad esso le vicende richiamate nel ricorso e relative ad altri disegni di legge, così come è ininfluente la circostanza dell'avvenuta approvazione della delibera provinciale a maggioranza assoluta. Il Presidente del Consiglio dei ministri conclude, quindi, chiedendo che sia respinto il ricorso della Provincia. Considerato in diritto 1. - Il conflitto di attribuzione sollevato dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe ha ad oggetto il rinvio governativo della delibera legislativa n. 5/99-ter -approvata a maggioranza assoluta dal Consiglio provinciale di Bolzano il 6 ottobre 1999- (Modifica alla legge provinciale 9 giugno 1998, n. 5 recante "Modifiche di legge nell'ambito della formazione sanitaria ed altre norme in materia socio-sanitaria"), che riproduceva sostanzialmente la precedente delibera n. 5/99-bis, già oggetto di altro rinvio. Secondo la ricorrente Provincia, il rinvio deliberato dal Governo sarebbe lesivo delle attribuzioni legislative provinciali, di cui agli articoli da 8 a 10 dello statuto speciale, nonché del potere di promulgazione spettante al Presidente della Provincia, ai sensi dell'art. 55, ultimo comma, dello statuto, poiché il Governo non avrebbe potuto esercitare il potere di rinvio di una legge provinciale, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, sarebbe da considerare "non nuova". 2. - Successivamente alla proposizione del predetto ricorso è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione", il cui art. 8, sostituendo l'art. 127 della Costituzione, non prevede più il procedimento di rinvio governativo, né il controllo preventivo di costituzionalità delle delibere legislative regionali. Inoltre l'art. 10 della citata legge

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costituzionale stabilisce che fino all'adeguamento dei rispettivi statuti le disposizioni di essa si applicano anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano "per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite". Alla luce di queste disposizioni, dunque, si debbono considerare non più applicabili, a decorrere dall'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, le norme dell'art. 55 dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige, che prevedono il rinvio governativo e l'impugnazione in via preventiva della delibera legislativa regionale (o provinciale), in quanto la soppressione del sistema di controllo preventivo delle leggi regionali (o provinciali) si traduce in un ampliamento delle garanzie di autonomia rispetto alla previsione statutaria (ordinanza n. 377 del 2002). Questa Corte ha infatti già da tempo prospettato la stretta correlazione tra le particolari forme e condizioni di autonomia di cui godono Regioni a statuto speciale e Province autonome e le modalità di impugnazione delle leggi regionali (sentenza n. 38 del 1957). Ne consegue che la legge provinciale in esame può essere immediatamente promulgata dal Presidente della Provincia di Bolzano, non essendo più operante l'effetto impeditivo derivante dal meccanismo di controllo preventivo del Governo, il quale peraltro ha pur sempre la facoltà di promuovere la questione di legittimità costituzionale della stessa legge dinanzi a questa Corte, nei termini e nei modi previsti dal nuovo testo dell'art. 127 della Costituzione (ordinanza n. 65 del 2002). Le citate norme della legge costituzionale n. 3 del 2001, sopravvenute in pendenza di conflitto tra enti, hanno quindi disposto in senso satisfattivo della pretesa vantata dalla Provincia ricorrente, cosicché va dichiarata la cessazione della materia del contendere (sentenze n. 12 del 2000, n. 140 del 1999, n. 335 del 1998). Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara cessata la materia del contendere in ordine al conflitto di attribuzione sollevato dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti dello Stato con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Sent. 10 luglio 2002, n. 407

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 19 (Norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 23 gennaio 2002, depositato in Cancelleria il 31 successivo ed iscritto al n. 6 del registro ricorsi 2002. Visto l'atto di costituzione della Regione Lombardia; udito nell'udienza pubblica del 21 maggio 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti; uditi l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giuseppe Ferrari e Massimo Luciani per la Regione Lombardia. Ritenuto in fatto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri solleva, con ricorso notificato il 23 gennaio 2002, depositato il successivo 31 gennaio, questione di legittimità costituzionale in via principale degli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 19 (Norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti) - pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia del 27 novembre 2001, supplemento ordinario n. 48 - in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere h) ed s), della Costituzione, nonché agli artt. 8, 9, 15, 18, 21 e 28 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 (Attuazione della direttiva 96/82/CE relativa al controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose), ed all'art. 72 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59.) 2. - Il ricorrente premette che la disciplina delle attività a rischio di incidenti rilevanti sarebbe riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettere h) ed s), nel testo modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in quanto riconducibile alle materie «sicurezza» e «tutela dell'ambiente». L'art. 18 del D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 334, ai sensi dell'art. 72 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, ha attribuito alle regioni il potere di regolamentare il procedimento di istruttoria tecnica, le autorità titolari delle competenze conseguenti, il raccordo con il procedimento di valutazione di impatto ambientale, le modalità di coordinamento dei soggetti che svolgono l'istruttoria tecnica, le procedure per gli interventi di salvaguardia dell'ambiente e del territorio. Le regioni potrebbero, quindi, disciplinare esclusivamente gli interventi strumentali, nel rispetto della disciplina stabilita dalla legge statale, che sarebbe invece violata dalle disposizioni impugnate. 2.1. - Il ricorrente deduce che l'art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 334 del 1999 stabilisce che, «affinché sorga l'obbligo del rapporto preliminare di sicurezza», le sostanze pericolose presenti in determinati stabilimenti «debbono essere in quantità uguali o superiori a quelle indicate nell'allegato I, parti 1 e 2, colonna 3 (v. richiamo all'art. 8.1)».

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L'art. 3, comma 1, della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2001 dispone, invece, che il rapporto preliminare debba essere presentato dal gestore di nuovi stabilimenti, qualora negli stessi siano presenti sostanze pericolose in quantità uguale o superiore a quella indicata nell'allegato I, parte 1, colonna 2 e parte 2, colonna 2 del D.Lgs. n. 334 del 1999. Dunque, secondo la difesa erariale, «le quantità indicate nella norma statale sono più elevate di quelle richieste dalla norma regionale che in questo modo ha ampliato la sfera normativa della legge statale», non limitandosi a disciplinare le materie indicate nell'art. 18 del D.Lgs. n. 334 del 1999, né ad esercitare le funzioni amministrative conferite dall'art. 72 del D.Lgs. n. 112 del 1998. 2.2. - L'art. 28 del D.Lgs. n. 334 del 1999 ha disposto che, sino alla emanazione del decreto di cui all'art. 10, sono applicabili i criteri fissati nel decreto del Ministro dell'ambiente del 13 maggio 1996. L'art. 4, comma 2, della legge regionale in esame, in via transitoria e fino al termine fissato dalla legge statale, ad avviso dell'Avvocatura, avrebbe invece illegittimamente stabilito che sono obbligatori gli elementi previsti dal suo allegato 2, i quali non coincidono con quelli richiesti dalle norme dello Stato. 2.3. - L'art. 21, comma 3, del D.Lgs. n. 334 del 1999 dispone che per le modifiche di impianti e di depositi, di processi industriali, della natura o dei quantitativi di sostanze pericolose individuate con il decreto di cui all'articolo 10, ossia per quelle che potrebbero costituire aggravio del preesistente livello di rischio, deve essere avviata l'istruttoria per la valutazione del rapporto di sicurezza. L'art. 5, commi 1 e 2, della legge regionale impugnata, in contrasto con la norma statale, dispone invece che, anche qualora le modifiche «non comportano aggravio di rischio», debba essere redatta una scheda valutativa tecnica, la quale, ovviamente, presuppone un'attività preparatoria. Secondo l'Avvocatura, le norme impugnate realizzerebbero effetti innovativi e sarebbero costituzionalmente illegittime, dato che il livello di sicurezza, salvo che non sussistano situazioni ambientali differenti - ciò che non accade nel caso in esame -, dovrebbe essere identico sull'intero territorio nazionale. La fissazione di adempimenti differenziati realizzerebbe «alterazioni sotto il profilo della concorrenza in danno di quelle imprese che si trovano ad operare in regioni la cui disciplina più gravosa costringe ad affrontare costi maggiori». Infine, conclude il ricorrente, la circostanza che l'art. 10 della legge regionale rinvia la sua entrata in vigore alla data della stipulazione dell'accordo di programma Stato-Regione ex art. 72 del D.Lgs. n. 112 del 1998, non inciderebbe sull'interesse all'impugnazione poiché, una volta concluso detto accordo, le norme censurate diverrebbero immediatamente efficaci. 2.4. - La difesa erariale, nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, ha insistito per la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate, ribadendo le argomentazioni svolte nel ricorso. 3. - Nel giudizio si è costituita la Regione Lombardia, chiedendo che la Corte dichiari il ricorso manifestamente inammissibile e, in linea gradata, manifestamente infondato. Nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, la resistente deduce che il ricorso sarebbe inammissibile per difetto di interesse all'impugnazione, poiché l'efficacia delle norme censurate è condizionata alla stipulazione di un accordo di programma tra Regione e Stato, il quale, rifiutando il proprio assenso alla stipula di siffatto accordo, può impedire che la legge impugnata produca effetti. Nel merito, la Regione Lombardia sostiene che, sebbene il controllo sugli impianti e sulle industrie a rischio di incidenti rilevanti riguardi sia la materia "sicurezza", sia la materia "tutela dell'ambiente", gli artt. 72 del D.Lgs. n. 112 del 1998 e 18 del D.Lgs. n. 334 del 1999 dimostrerebbero che questo controllo interferisce con le materie "governo del territorio", "tutela della salute" e "protezione civile", attribuite alla competenza legislativa di tipo concorrente della Regione. Inoltre, il D.M. 9 maggio 2001, disponendo che «le Regioni assicurano il coordinamento delle norme in materia di pianificazione urbanistica, territoriale e di tutela ambientale con quelle derivanti dal decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 e dal presente decreto», nonché «il coordinamento tra i criteri e le modalità stabiliti per l'acquisizione e la valutazione delle

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informazioni di cui agli articoli 6, 7 e 8 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 e quelli relativi alla pianificazione territoriale e urbanistica» (art. 2, commi 1 e 3), conforterebbero che la prevenzione ed il controllo sui rischi di incidenti rilevanti è riconducibile anche a materie attribuite alla competenza legislativa regionale di tipo concorrente. Dunque, secondo la resistente, nell'esercizio della propria competenza in materia di governo del territorio e di tutela della salute dei cittadini, nel rispetto dei principi fondamentali fissati dalla legge statale, essa legittimamente avrebbe stabilito una disciplina più rigorosa, estendendo l'obbligo di redigere il rapporto di sicurezza e la scheda di valutazione dei rischi (artt. 3 e 5 della legge regionale n. 19 del 2001). Inoltre, a suo avviso, per numerose materie elencate nell'art. 117 della Costituzione sarebbe difficile stabilire i confini tra competenza statale e regionale e, proprio per questo, occorrerebbe applicare il criterio teleologico e, comunque, riconoscere, come nel caso della protezione ambientale, che la Regione è titolare di competenza legislativa in riferimento ai profili che interessano anche materie di sua competenza, potendo in ogni caso emanare quelle norme che garantiscono una maggiore tutela del bene della salute. Infine, conclude la resistente, le norme, sotto il profilo della concorrenza, non pregiudicano le imprese che svolgono attività nella Regione Lombardia e, ragionevolmente, allo scopo di garantire la tutela del territorio e della salute umana, pongono rimedio ad una «disciplina statale palesemente lacunosa». 4. - Le parti, all'udienza pubblica, hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate nelle difese scritte. Considerato in diritto 1. - Il giudizio in via principale promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso in epigrafe, nei confronti della Regione Lombardia ha ad oggetto gli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5, commi 1 e 2, della legge regionale 23 novembre 2001, n. 19 (Norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti), in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere h) ed s), della Costituzione, nonché agli artt. 8, 9, 15, 18, 21 e 28 del decreto legislativo n. 334 del 1999 ed all'art. 72 del decreto legislativo n. 112 del 1998. Premesso che la disciplina delle attività a rischio di incidente rilevante è riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, a norma dell'art. 117, secondo comma, lettere h) ed s), della Costituzione, il ricorrente sottolinea che questo tipo di riserva, innanzi tutto, esclude, per definizione, che i livelli di sicurezza per attività egualmente pericolose possano essere diversi da regione a regione ed in secondo luogo esclude conseguentemente che possano essere previsti adempimenti diversificati per le varie imprese, con possibile alterazione anche delle regole della concorrenza. Le disposizioni regionali impugnate sarebbero pertanto, ad avviso del ricorrente, costituzionalmente illegittime, in quanto invadono la competenza esclusiva dello Stato in materia di "sicurezza" ed "ambiente", avendo altresì un contenuto che, sotto vari profili, è difforme e contrastante rispetto ad una serie di norme "fondamentali" della disciplina statale. 2. - In linea preliminare va respinta l'eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, sollevata dalla difesa della Regione Lombardia, in base all'argomento che l'art. 10 della legge impugnata subordina l'efficacia della legge stessa alla "stipulazione dell'accordo di programma tra Stato e regione, di cui all'art. 72 del d. lgs. n. 112/98". Va infatti osservato che l'impugnativa da parte dello Stato delle leggi regionali è sottoposta, ai sensi dell'art. 127 della Costituzione, ad un termine tassativo riferito alla pubblicazione e non anche all'efficacia della legge stessa e, d'altra parte, la pubblicazione di una legge regionale, in asserita violazione del riparto costituzionale di competenze, è di per sè stessa lesiva della competenza statale, indipendentemente dalla produzione degli effetti concreti e dalla realizzazione delle conseguenze pratiche (cfr. sentenza n. 332 del 1998). 3. - Nel merito, il ricorso è infondato. La disciplina specifica delle attività a rischio di incidenti rilevanti si è sviluppata soprattutto in ambito comunitario, a decorrere dalla direttiva 82/501 CEE del 24 giugno 1982 -c.d. "direttiva Seveso"- la quale

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introdusse prescrizioni dirette alla prevenzione dei rischi industriali, coinvolgendo specialmente il responsabile dell'attività a rischio. Il decreto di attuazione -D.P.R. 17 maggio 1988, n. 175- stabilì infatti una serie di obblighi a carico dei fabbricanti, prevedendo altresì un complesso procedimento di controllo, con l'intervento di una pluralità di soggetti pubblici, nel cui ambito le regioni, in particolare, furono chiamate a svolgere compiti di vigilanza sugli impianti a minore pericolosità, soggetti alla c.d. "dichiarazione", nonché sul rispetto delle misure di sicurezza. Il predetto atto comunitario è stato modificato dalla direttiva 96/82 CE del 9 dicembre 1996, che ha accentuato il profilo del controllo tecnico-ispettivo, anche prevedendo forme di pianificazione urbanistica ed ambientale del territorio esterno agli stabilimenti. In attesa dell'attuazione di questa direttiva, l'art. 72 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, ha innovato il quadro organizzativo precedente, conferendo alle regioni, sia pure previa adozione di una specifica normativa, anche le competenze amministrative concernenti gli impianti a maggiore pericolosità, soggetti alla c.d. "notifica", e mantenendo allo Stato essenzialmente compiti di indirizzo e coordinamento. Successivamente il decreto di recepimento -D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 334- ha ulteriormente ampliato le precedenti competenze delle regioni attribuendo ad esse anche la disciplina dell'attività procedimentale connessa all'istruttoria tecnica, nonché l'individuazione delle procedure più idonee per l'adozione degli interventi di salvaguardia dell'ambiente e del territorio di insediamento degli stabilimenti. 3.1. - Lo scrutinio di costituzionalità delle disposizioni regionali censurate va pertanto condotto sulla base del quadro di riparto delle competenze tra Stato e regioni, sul quale ora incide la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che reca "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione". A questo scopo, il primo problema da risolvere, ai fini della determinazione della competenza ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, riguarda l'individuazione della "materia" alla quale ricondurre la legge regionale in esame; materia che, secondo il ricorrente, è da identificare nei disposti delle lettere h) e s) dell'art. 117, secondo comma, della Costituzione. In proposito, appare improprio, nella fattispecie in esame, il riferimento alla materia "sicurezza", di cui alla lettera h) del citato art. 117. Non sembra infatti necessario a questo scopo accertare, in una prospettiva generale, se nella legislazione e nella giurisprudenza costituzionale la nozione di "sicurezza pubblica" assuma un significato restrittivo, in quanto usata in endiadi con quella di "ordine pubblico", o invece assuma una portata estensiva, in quanto distinta dall'ordine pubblico, o collegata con la tutela della salute, dell'ambiente, del lavoro e così via. E' sufficiente infatti constatare che il contesto specifico della lettera h) del secondo comma dell'art. 117 -che riproduce pressoché integralmente l'art. 1, comma 3 lettera l), della legge n. 59 del 1997- induce, in ragione della connessione testuale con "ordine pubblico" e dell'esclusione esplicita della "polizia amministrativa locale", nonché in base ai lavori preparatori, ad un'interpretazione restrittiva della nozione di "sicurezza pubblica". Questa infatti, secondo un tradizionale indirizzo di questa Corte, è da configurare, in contrapposizione ai compiti di polizia amministrativa regionale e locale, come settore riservato allo Stato relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell'ordine pubblico (sentenza n. 290 del 2001). Alla luce di queste considerazioni, le disposizioni legislative in questione non possono rientrare nell'ambito materiale riservato alla competenza esclusiva dello Stato dalla lettera h) dell'art. 117, secondo comma, della Costituzione. 3.2. - La disciplina in esame è invece riconducibile al disposto dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, relativo alla tutela dell'ambiente. A questo riguardo va però precisato che non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell'art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come "materie" in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie (cfr. sentenza n. 282 del 2002). In questo senso l'evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una "materia" in senso tecnico, qualificabile come "tutela dell'ambiente", dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e

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delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte antecedente alla nuova formulazione del Titolo V della Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell'ambiente come "valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale (cfr., da ultimo, sentenze n. 507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998). I lavori preparatori relativi alla lettera s) del nuovo art. 117 della Costituzione inducono, d'altra parte, a considerare che l'intento del legislatore sia stato quello di riservare comunque allo Stato il potere di fissare standards di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali. In definitiva, si può quindi ritenere che riguardo alla protezione dell'ambiente non si sia sostanzialmente inteso eliminare la preesistente pluralità di titoli di legittimazione per interventi regionali diretti a soddisfare contestualmente, nell'ambito delle proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dallo Stato. Anche nella fattispecie in esame, del resto, emerge dalle norme comunitarie e statali, che disciplinano il settore, una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti e funzionalmente collegati con quelli inerenti in via primaria alla tutela dell'ambiente. A questo proposito occorre, innanzi tutto, ricordare che nei "considerando" della citata direttiva 96/82/CE si afferma, tra l'altro, che la prevenzione di incidenti rilevanti è necessaria per limitare le loro "conseguenze per l'uomo e per l'ambiente", al fine di "tutelare la salute umana", anche attraverso l'adozione di particolari politiche in tema di destinazione e utilizzazione dei suoli. Più specificamente, il citato decreto legislativo di recepimento n. 334 del 1999, dopo avere, all'art. 1, premesso che il decreto stesso contiene disposizioni finalizzate a prevenire incidenti rilevanti connessi a determinate sostanze pericolose e a "limitarne le conseguenze per l'uomo e per l'ambiente", all'art. 3, comma 1, lettera f), definisce "incidente rilevante" l'evento che "dia luogo ad un pericolo grave, immediato o differito, per la salute umana o per l'ambiente". E gli stessi concetti vengono sostanzialmente ribaditi anche negli artt. 7, comma 1, e 8, commi 2 e 10, cosicché si può fondatamente ritenere, in riferimento alle norme citate, che il decreto in esame attenga, oltre che all'ambiente, anche alla materia "tutela della salute", la quale, ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, rientra nella competenza concorrente delle regioni. Così pure rientra nella competenza concorrente regionale la cura degli interessi relativi alla materia "governo del territorio", cui fanno riferimento, in particolare, gli artt. 6, commi 1 e 2, 8, comma 3, 12 e 14 dello stesso decreto, i quali prescrivono i vari adempimenti connessi all'edificazione e alla localizzazione degli stabilimenti, nonché diverse forme di "controllo sull'urbanizzazione". Anche le competenze relative alla materia della "protezione civile" possono essere individuate in alcune norme del citato decreto, come, ad esempio, l'art. 11, l'art. 12, l'art. 13, comma 1 lettera c), comma 2 lettere c) e d), l'art. 20 e l'art. 24, le quali prevedono essenzialmente la disciplina dei vari piani di emergenza nei casi di pericolo "all'interno o all'esterno dello stabilimento". Infine, alcune norme, come, in particolare, i citati artt. 5, commi 1 e 2, ed 11 dello stesso decreto, sono riconducibili anche alla materia "tutela e sicurezza del lavoro", egualmente compresa nella legislazione concorrente. In definitiva quindi il predetto decreto n. 334 del 1999 riconosce che le regioni sono titolari, in questo campo disciplinare, di una serie di competenze concorrenti, che riguardano profili indissolubilmente connessi ed intrecciati con la tutela dell'ambiente. 4. - Così definito il quadro degli interessi sottostanti alla vigente disciplina sulle attività a rischio rilevante, ne deriva che essa ha un'incidenza su una pluralità di interessi e di oggetti, in parte di competenza esclusiva dello Stato, ma in parte anche -come si è visto- di competenza concorrente delle regioni, i quali appunto legittimano una serie di interventi regionali nell'ambito, ovviamente, dei principi fondamentali della legislazione statale in materia, la cui violazione peraltro prospetta il ricorrente, anche se in via subordinata. Alla luce di queste considerazioni è da respingere il motivo principale di ricorso, secondo cui, nel caso di specie, la materia de qua dovrebbe ritenersi di competenza legislativa statale esclusiva, afferendo essa sia alla tutela dell'ambiente che alla sicurezza pubblica. Ma è altrettanto da respingere il motivo prospettato in via

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subordinata, secondo cui "ove volesse considerarsi tale legge regionale alla stregua di atto regolamentare di competenza regionale", alcune norme di essa sarebbero illegittime sotto il profilo del mancato rispetto dei limiti fissati dal citato decreto legislativo n. 334 del 1999. In proposito è da osservare, indipendentemente dalla inammissibile "degradazione" della legge regionale a regolamento regionale, che i ricordati artt. 72 del D.Lgs. n. 112 del 1998 e 18 del D.Lgs. n. 334 del 1999 stabiliscono che le regioni provvedono a disciplinare la materia con specifiche normative ai fini, in particolare, di "garantire la sicurezza del territorio e della popolazione". In questa ottica vanno appunto respinte le prospettate censure incentrate sull'asserito superamento dei limiti prestabiliti dal citato decreto legislativo n. 334 del 1999, dal momento che la Regione Lombardia può ragionevolmente adottare, nell'ambito delle proprie competenze concorrenti, una disciplina che sia maggiormente rigorosa, per le imprese a rischio di incidente rilevante, rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, proprio in quanto diretta ad assicurare un più elevato livello di garanzie per la popolazione ed il territorio interessati. In questo senso, d'altronde, si è già espressa questa Corte, quando in una vicenda analoga, a proposito dei limiti massimi di esposizione ai campi elettrico e magnetico, ha ritenuto non incostituzionale una disciplina regionale "specie a considerare che essa se, da un canto, implica limiti più severi di quelli fissati dallo Stato, non vanifica, dall'altro, in alcun modo gli obiettivi di protezione della salute da quest'ultimo perseguiti" (sentenza n. 382 del 1999). Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 4, comma 2, 5, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 23 novembre 2001, n. 19 (Norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti), sollevata, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Sent. 10 luglio 2002, n. 376

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1, 2, 3 e 4, lettera a, e 6 della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1999), promossi con ricorsi della Regione Liguria e della Regione Emilia-Romagna, notificati il 22 e il 27 dicembre 2000, depositati in cancelleria il 29 dicembre 2000 e il 4 gennaio 2001 ed iscritti al n. 25 del registro ricorsi 2000 ed al n. 2 del registro ricorsi 2001. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri nonché l'atto di intervento del Comune di Genova; udito nell'udienza pubblica del 4 giugno 2002 il Giudice relatore Valerio Onida; uditi gli avvocati Barbara Baroli per la Regione Liguria, Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Emilia-Romagna e l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.1.- Con ricorso notificato il 22 dicembre 2000 e depositato il successivo 29 dicembre (reg. ric. n. 25 del 2000), la Regione Liguria ha sollevato due questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto, rispettivamente, l'art. 1, commi 1, 2, 3 e 4, lettera a, e l'art. 6 della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1999). La prima censura - concernente l'art. 1, commi 1, 2, 3 e 4, lettera a, nella parte in cui sostituisce il comma 2 dell'articolo 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) - viene sollevata in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione. I commi 1, 2 e 3 dell'art. 1, che disciplinano la delegificazione e la semplificazione dei procedimenti e degli adempimenti amministrativi individuati negli allegati A e B alla legge, e la lettera a del comma 4, la quale dispone che "nelle materie di cui all'articolo 117, i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino a quando la Regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia medesima", intervengono - osserva la Regione - sul rapporto intercorrente tra regolamenti delegati di semplificazione e competenze normative regionali, riconosciute e garantite dell'articolo 117 della Costituzione, considerato che l'elenco dei procedimenti allegato alla legge n. 340 del 2000 comprende procedimenti riservati alla competenza legislativa delle Regioni. Secondo la ricorrente, la competenza del Governo all'emanazione dei regolamenti delegati di semplificazione dovrebbe necessariamente essere circoscritta alle materie di competenza statale; mentre i procedimenti relativi alle materie attribuite alla competenza regionale dovrebbero essere semplificati solo dal legislatore regionale sulla base di principi stabiliti dal legislatore statale. Le disposizioni denunciate realizzerebbero pertanto una illegittima compressione della competenza legislativa regionale garantita dall'art. 117 della Costituzione: i regolamenti governativi non potrebbero disciplinare materie di competenza regionale e lo strumento della delegificazione non sarebbe abilitato ad operare per fonti tra le quali vi è un rapporto di competenza e non di gerarchia.

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La seconda censura ha ad oggetto l'art. 6 della legge n. 340 del 2000, che introduce l'art. 27-bis del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59.) Tale disposizione, nel porre, apparentemente, una norma di per sé ovvia ed implicita nella normativa vigente, si proporrebbe, secondo la ricorrente, lo scopo effettivo di qualificare espressamente come "atti istruttori" gli atti ed i provvedimenti propri dei diversi enti coinvolti (Stato nelle sue diverse articolazioni, Regioni, Province, enti parco, aziende sanitarie locali, e così via) al fine di attribuire al Comune la competenza sostanziale all'esercizio delle funzioni relative agli insediamenti produttivi. In realtà, secondo la Regione, con tale "degradazione" ad atti istruttori, si tenderebbe a concentrare in un unico ente l'intera potestà autorizzativa, residuando in capo agli altri soggetti coinvolti (Stato, Regioni, Province) un potere istruttorio "non riservato" ed "eventuale". Si delineerebbe, in tal modo, un quadro in cui il Comune sarebbe il titolare di tutte le funzioni autorizzative relative agli insediamenti produttivi, funzioni che potrebbe svolgere direttamente o avvalendosi di altri enti pubblici. Questa linea normativa troverebbe completamento e conferma interpretativa in una correlata modificazione al D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, approvata dal Consiglio dei ministri nella seduta del 3 novembre 2000, che sopprimerebbe ogni riferimento ai termini "procedimentale", "provvedimento" e "procedimento", per sostituirli con le parole "atti istruttori". La Regione ricorrente osserva che in sede di conferenza Stato-Regioni e di conferenza unificata la nuova previsione era stata oggetto di richiesta di specifica modifica per ragioni di costituzionalità e che la finalità sottesa all'art. 6 della legge n. 340 del 2000 non è stata adeguatamente evidenziata nella relazione al disegno di legge, rendendo così "occulta" la disposizione. La norma censurata eluderebbe i principi di collaborazione tra Stato e Regioni e le procedure legislative come delineate dalla Costituzione, ledendo così, per un primo profilo, gli articoli 70, 71 e 72 della Costituzione (in connessione con gli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione), "per gli aspetti relativi alla formazione delle leggi", nonché gli articoli 5, 128 e 129 della Costituzione, siccome lesiva "sia dei principi dell'autonomia e del decentramento riconosciuti alle autonomie locali (art. 5), per i quali sono le leggi generali della Repubblica che determinano le funzioni dei Comuni e delle Province e non un insieme di disposizioni sparse, derivanti da fonti normative diverse, continuamente modificate (art. 128), sia dei principi sul decentramento (statale e regionale), per cui sono i Comuni e le Province le circoscrizioni di esercizio del medesimo (art. 129)". Inoltre l'art. 6 sarebbe lesivo delle competenze legislative e amministrative delle Regioni di cui agli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione, nella parte in cui "riconforma, sostanzialmente, procedure e competenze in materie, quali sono quasi tutte quelle riconducibili allo sportello unico per le imprese, di competenza legislativa concorrente della Regione", e perché "altera la disciplina regionale vigente, per le numerose funzioni delegate alle Province o alle comunità montane, riconducibili allo sportello unico, ... incidendo gravemente sulla autonomia regionale". L'art. 6 contrasterebbe poi con l'art. 81 della Costituzione, giacché "attribuisce competenze ai Comuni senza la correlativa copertura finanziaria e, nel contempo, altera la copertura già prevista nelle leggi e nei bilanci delle Regioni che hanno delegato numerose funzioni riconducibili allo sportello unico, prevedendone il relativo finanziamento". La norma denunciata comporterebbe infine violazione tanto dei principi di certezza del diritto e di chiarezza della normativa quanto di quelli di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione sottesi agli articoli 70, 71, 72, 97, 101, 111 e 113 della Costituzione, perché, degradando a funzioni istruttorie le attività provvedimentali degli enti diversi dal Comune, introdurrebbe "situazioni normative non chiare sia per le pubbliche amministrazioni in oggi titolari delle funzioni", "sia per i cittadini e per le imprese che necessitano

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di norme chiare e certe al fine di poter legittimamente esercitare i propri diritti e concorrere allo sviluppo della comunità nazionale". 1.2.- Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la prima questione sia dichiarata non fondata e che il secondo motivo del ricorso sia dichiarato inammissibile e comunque non fondato. Premesso che la delegificazione, consistendo in una complessa operazione di riordino e di "bonifica" della normativa, sarebbe rivolta ad assicurare il miglior funzionamento del sistema-Paese, e che le leggi per la delegificazione di norme concernenti procedimenti amministrativi devono essere qualificate leggi di principio, anzi di riforma, vincolanti per i legislatori regionali, l'Avvocatura osserva che l'art. 1, comma 4, lettera a, della legge n. 340 del 2000 ha confermato il carattere "cedevole" dei regolamenti governativi di delegificazione rispetto alla legislazione regionale (ovviamente nelle materie di competenza delle Regioni) già in precedenza desumibile dal sistema normativo. Tale disposizione avrebbe così salvaguardato le autonomie regionali, razionalmente contemperando con esse le finalità di "interesse nazionale" perseguite dalle leggi per la delegificazione. La produzione ad opera dell'esecutivo statale di regolamenti "cedevoli", oltre a non comprimere le autonomie delle Regioni (ad esse rimanendo la facoltà di normare diversamente le materie senza assillo di "tempi"), dovrebbe essere collocata nel novero delle modalità di leale cooperazione. Non sarebbe corretto raffigurare l'ambito delle competenze regionali concorrenti alla stregua di un "recinto chiuso" nel quale apporti normativi di provenienza statale (diversi dalla legislazione di principio) non possano trovare ingresso; e neppure sarebbe corretto negare rilevanza alle peculiari funzione e forza dei regolamenti "delegati" di delegificazione, sia perché l'art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, reca solo una delle molteplici disposizioni legislative prevedenti l'effetto di delegificazione "condizionata e differita", sia perché soltanto per i regolamenti di cui al comma 1, lettera b, dello stesso art. 17 è prevista l'esclusione con riguardo a materie riservate alla competenza regionale. Osserva inoltre l'Avvocatura che le disposizioni legislative statali di delegificazione per loro natura inciderebbero sulla, e sarebbero riconducibili alla, normativa di principio, sicché l'eventuale effetto di abrogazione di disposizioni regionali si configurerebbe come una normale abrogazione da modificazione della anzidetta normativa. Inoltre, la disposizione denunciata concernerebbe soltanto aspetti procedimentali, prevedendo un mero snellimento delle forme dell'agire amministrativo, e non toccherebbe gli aspetti sostanziali, disciplinati pur sempre dalla normativa statale o regionale di riferimento. La doglianza della Regione, infine, sarebbe formulata in modo astratto, non essendo specificamente indicate le procedure elencate negli allegati A e B alle quali la Regione stessa intende riferirsi. Il secondo motivo, riguardante lo "sportello unico" per le attività produttive, sarebbe inammissibile, in quanto sull'argomento la disciplina è stata posta dagli artt. 23, 24 e 25 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, avverso i quali il motivo sarebbe sostanzialmente rivolto. In ogni caso la censura, pur evocando molti parametri costituzionali, sarebbe formulata in modo allusivo e non esauriente. La denuncia sarebbe anche infondata nel merito. 1.3.- In data 15 marzo 2001 ha depositato atto di intervento il Comune di Genova, affermando di vantare un interesse - in quanto destinatario, ai sensi degli artt. 23 e ss. del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, delle funzioni in materia di rilascio dell'autorizzazione unica alle imprese - alla corretta applicazione del sistema normativo che presiede al procedimento dello sportello unico, e chiedendo che la questione avente ad oggetto l'art. 6 della legge n. 340 del 2000 sia dichiarata inammissibile e comunque infondata. 2.1.- Con ricorso notificato il 27 dicembre 2000 e depositato il successivo 4 gennaio 2001 (reg. ric. n. 2 del 2001) la Regione Emilia-Romagna ha sollevato, in relazione agli artt. 117, primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione, e ai principi costituzionali relativi all'esercizio del potere regolamentare, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 4, lettera a, della legge n. 340 del 2000, in quanto, nel sostituire il comma 2 dell'art. 20 della legge n. 59 del 1997, dispone che "nelle materie di cui all'art. 117,

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primo comma, della Costituzione, i regolamenti di delegificazione trovano applicazione", sia pure "solo fino a quando la regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia medesima". Secondo la ricorrente, sul tema della incompetenza dei regolamenti delegati di delegificazione a disciplinare procedimenti nelle materie di cui all'art. 117, primo comma, della Costituzione, il disposto dell'art. 20 non era chiaro. Il testo originario del comma 2 prevedeva che il Governo, nel disegno di legge di semplificazione, avrebbe provveduto ad individuare "i procedimenti relativi a funzioni e servizi che, per le loro caratteristiche e per la loro pertinenza alle comunità territoriali, sono attribuiti alla potestà normativa delle regioni e degli enti locali", e ad indicare "i principi che restano regolati con legge della Repubblica, ai sensi degli articoli 117, primo e secondo comma, e 128 della Costituzione". Alle Regioni era ed è invece dedicato il comma 7 dello stesso art. 20, secondo cui esse "regolano le materie disciplinate dai commi da 1 a 6 nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in essi contenute, che costituiscono principi generali dell'ordinamento giuridico. Tali disposizioni operano direttamente nei riguardi delle regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia". La ricorrente ricorda poi come queste norme fossero state impugnate da parte di una Regione, e come la Corte avesse "fugato ogni dubbio" affermando, nella sentenza n. 408 del 1998, che, "fermo il valore di principio, legittimamente vincolante per i legislatori regionali, dei criteri indicati nell'art. 20, comma 4", all'espressione del comma 7 non è possibile attribuire "un significato che riguardi o comprenda l'attitudine di future norme regolamentari a disciplinare materie di competenza regionale". La sentenza della Corte, dunque, nell'escludere che la legislazione statale in vigore preveda l'ingresso dei regolamenti delegati nella disciplina delle materie regionali, indicherebbe che le Regioni hanno in proprio, nelle materie di loro competenza, la responsabilità di riordinare la propria normazione adeguandola agli stessi principi cui lo Stato dà attuazione, nei settori di propria competenza, mediante tali regolamenti. La disposizione ora impugnata avrebbe invece il significato inequivoco di estendere il potere regolamentare del Governo alla disciplina dei procedimenti regionali, e dunque essa recherebbe quel vulnus alla competenza regionale che la sentenza n. 408 aveva allora escluso. La Regione ricorrente afferma che la disposizione andrebbe intesa nel senso che, secondo l'intenzione di essa, la disciplina stabilita con il regolamento di delegificazione vale ad abrogare, nelle parti incompatibili e potenzialmente in toto, la previgente legislazione regionale, sostituendosi ad essa nella disciplina della materia e rimanendo in vigore fino a quando non venga eventualmente sostituita da nuova autonoma disciplina regionale. Dunque, il regolamento statale di delegificazione prevarrebbe sulle precedenti leggi regionali, e sarebbe invece (in linea puramente teorica) cedevole rispetto a norme regionali successive. L'altra interpretazione possibile, che comunque presenterebbe problemi di costituzionalità, secondo cui i regolamenti statali opererebbero nella Regione soltanto in quanto non sia attualmente operante una autonoma disciplina regionale, non corrisponderebbe al senso della modifica portata dalla legge n. 340 del 2000, la quale ha introdotto il meccanismo contestato al fine palese di realizzare rapidamente e coattivamente il processo di semplificazione, mediante l'introduzione automatica di una disciplina governativa, lasciando alle Regioni la cura di modificarla se lo ritenessero opportuno. Una ulteriore interpretazione, che avrebbe il pregio di far venire meno l'irrazionalità intrinseca della disposizione impugnata (tenendo conto del fatto che a tre anni di distanza dalla legge n. 59 del 1997 le Regioni hanno già provveduto a disciplinare con proprie leggi molte materie di loro competenza), ma non la sua incostituzionalità, sarebbe quella secondo cui le disposizioni regolamentari statali si sovrappongono, abrogandola, alla disciplina legislativa regionale precedente alla legge n. 59 del 1997, e soltanto ove questa non abbia provveduto ad applicare i principi di semplificazione. Anche seguendo questa interpretazione, tuttavia, si avrebbe lesione della prerogativa costituzionale delle Regioni, per cui la legge regionale sarebbe in rapporto di parziale subordinazione rispetto alla sola legge statale e agli atti ad essa equiparati (con l'unica eccezione degli atti di indirizzo e coordinamento). Che i regolamenti governativi non possano intervenire nella disciplina delle materie affidate alla potestà legislativa concorrente delle Regioni deriverebbe innanzitutto dall'art. 117, primo comma, della Costituzione, secondo cui la Regione emana norme legislative, nelle materie ivi elencate, "nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato". La garanzia costituzionale si riferirebbe in astratto alle fonti,

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ma includerebbe anche un aspetto per così dire soggettivo, nel senso che i limiti all'organo legislativo regionale possono derivare solo dall'organo legislativo statale, o da atti del Governo di rango legislativo. Sarebbe invece escluso che una volontà normativa espressa dall'organo governativo possa incidere sull'autonomia legislativa regionale, salva l'eccezione (criticata da parte della dottrina) dei regolamenti per l'attuazione delle direttive comunitarie: eccezione fondata su cogenti ragioni di responsabilità internazionale dello Stato, e dunque di stretta interpretazione, e subordinata dalla stessa giurisprudenza costituzionale al limite del principio di legalità. Limite che, fra l'altro, se si volesse applicare al caso di specie, i regolamenti di delegificazione non rispetterebbero. Al di fuori della necessità di dare attuazione alla normativa comunitaria, l'inammissibilità costituzionale di una disciplina regolamentare in materia regionale emergerebbe in modo esplicito anche dalla costante e consolidata giurisprudenza costituzionale. L'eventuale "interesse nazionale" alla semplificazione dei procedimenti delle Regioni dovrebbe pur sempre trovare espressione nelle forme tipiche del rapporto tra la legge regionale e le fonti costituzionalmente idonee a vincolarla. La potestà legislativa concorrente concorrerebbe con la potestà legislativa statale, mai con quella regolamentare del Governo. Nel caso, poi, mancherebbero persino i nuovi principi della materia: non sarebbero tali, infatti, i principi e criteri di semplificazione, che hanno carattere metodologico e operano trasversalmente alle materie, esprimendo un indirizzo di riforma, ma non nuovi principi di materia. 2.2.- Anche in questo secondo giudizio si è costituito dinanzi alla Corte il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Dopo avere svolto osservazioni del tutto analoghe a quelle proposte in relazione alla prima censura del ricorso iscritto al reg. ric. n. 25 del 2000, di cui si è riferito al punto 1.2., l'Avvocatura rileva che nel ricorso la Regione Emilia-Romagna fa presente di avere già provveduto a disciplinare con proprie leggi molte delle procedure considerate dalla legge di semplificazione 1999, e osserva che, se ciò fosse accaduto, non vi sarebbe materia del contendere, "non sussistendo quella incompatibilità che costituisce presupposto di qualsiasi abrogazione non esplicitamente statuita". 3.1.- In relazione al ricorso iscritto al reg. ric. n. 25 del 2000, in prossimità dell'udienza hanno depositato memorie la Regione Liguria, il Presidente del Consiglio dei ministri e il Comune di Genova. La Regione Liguria sottolinea, con riguardo alla censura concernente l'art. 1 della legge n. 340 del 2000, che permane l'interesse a veder eliminata l'impugnata disposizione, pur a seguito del radicale mutamento del quadro costituzionale intervenuto con la legge costituzionale n. 3 del 2001, in quanto il nuovo art. 117 della Costituzione, al sesto comma, limita esplicitamente l'ambito di operatività dei regolamenti governativi alle sole materie di competenza esclusiva statale, come enumerate tassativamente al secondo comma, ed attribuisce la potestà regolamentare alle Regioni in ogni altra materia. Con riferimento al secondo motivo dell'impugnativa, la Regione ricorda di aver dato attuazione alla normativa statale in materia di sportello unico delle imprese con la legge regionale 24 marzo 1999, n. 9. Senonché, mentre le originarie previsioni contenute nel D.Lgs. n. 112 del 1998 e la normativa regionale lasciavano inalterato il valore sostanziale degli atti imputabili alle varie amministrazioni intervenienti nel procedimento, limitandosi a concentrare tali atti in un modello procedimentale unico, gestito dal Comune in qualità di soggetto con funzioni di coordinamento procedimentale, tale quadro normativo sarebbe stato illegittimamente alterato con l'entrata in vigore dell'impugnato art. 6 della legge n. 340 del 2000. Esso avrebbe degradato ad "attività istruttorie" l'apporto delle varie amministrazioni intervenienti nel procedimento, mutando il valore sostanziale degli atti permissivi occorrenti per l'insediamento produttivo, che giungono a perdere il valore di "provvedimenti" per ridursi ad atti endoprocedimentali, con conseguente individuazione del Comune quale ente titolare esclusivo e responsabile dell'attività amministrativa in materia di insediamenti produttivi. In altri termini, l'impiego della locuzione "atti istruttori" in luogo di "autorizzazioni" condurrebbe alla elisione delle competenze autorizzatorie sostanziali esistenti in capo ai vari enti pubblici coinvolti (tra cui la

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Regione) a beneficio della struttura "sportello unico", alla quale verrebbe attribuita non tanto la regia di tutte le fasi di cui il modello procedimentale si compone, ma addirittura la titolarità degli atti di consenso occorrenti al privato imprenditore. Le norme denunciate, già contrastanti con le norme costituzionali vigenti all'epoca dell'introduzione del giudizio, sarebbero ancor più confliggenti con il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, ed in particolare con l'assetto di competenze introdotto dal nuovo art. 117. 3.2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri chiede in via preliminare di dichiarare improcedibile o inammissibile il primo motivo del ricorso, in quanto formulato con riferimento a parametri costituzionali non più utilizzabili per la decisione della controversia, come dimostrerebbero le recenti pronunce della Corte Costituzionale di improcedibilità dei ricorsi statali e di restituzione degli atti nei giudizi incidentali. La Regione - osserva l'Avvocatura - entro il termine decorrente dall'entrata in vigore della novella costituzionale avrebbe forse potuto riproporre - ma non lo ha fatto - la doglianza, riformulandola mediante un nuovo ricorso ed in relazione ai sopravvenuti parametri costituzionali; e non sarebbe dato sapere se la mancata riproposizione stia a significare abbandono di fatto della controversia in parte qua, od invece speranza nell'adozione di quel criterio di continuità normativa e di "conversione" delle doglianze che fino ad oggi è stato invece rifiutato. La censura mossa all'art. 1, comma 3, e, in parte, al comma 1, sarebbe altresì inammissibile in quanto l'allegato B della legge avrebbe contenuti inidonei a ledere le autonomie regionali, ed entrambi gli allegati (A e B) elencherebbero soltanto fonti normative statali. Le disposizioni dell'art. 1, commi 1 e 3, della legge, dunque, che tali allegati richiamano, prospettando la sostituzione delle fonti legislative con regolamenti cedevoli, per loro natura più deboli e meno vincolanti per le autonomie regionali, comporterebbero un ampliamento delle autonomie regionali rispetto al tessuto normativo ancora vigente alla data della loro entrata in vigore, e non una maggiore compressione delle autonomie stesse. Il primo motivo sarebbe poi inammissibile perché troppo generico e privo delle indicazioni necessarie per valutare la sussistenza dell'interesse a ricorrere. Quanto al secondo motivo del ricorso, l'Avvocatura fa proprie e riproduce le motivazioni a sostegno dell'inammissibilità e della non fondatezza della censura contenute nell'atto di intervento del Comune di Genova. La disposizione recata dall'art. 27-bis del D.Lgs. n. 112 del 1998 (introdotto dall'art. 6 della legge n. 340 del 2000) si limiterebbe a porre una regola che garantisce il coordinamento dei tempi delle attività endoprocedimentali con il termine per la conclusione del procedimento e, nel qualificare "istruttorie" dette attività, ricalcherebbe puntualmente la dizione contenuta nel precedente art. 25. Peraltro, secondo la difesa del Presidente del Consiglio, tutto il secondo motivo di ricorso sarebbe superato, nello spirito prima ancora che negli argomenti, dai parametri costituzionali introdotti dalla legge costituzionale di modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, i quali non soltanto avrebbero molto ampliato i compiti dei Comuni, ma avrebbero anche ad essi assegnato una più rilevante collocazione costituzionale. 3.3.- La memoria del Comune di Genova insiste nelle conclusioni già assunte nell'atto di costituzione. 4.1.- Nell'imminenza della medesima udienza pubblica, in relazione al ricorso iscritto al reg. ric. n. 2 del 2001 hanno depositato memoria sia la Regione Emilia-Romagna che il Presidente del Consiglio dei ministri. La ricorrente chiede in via principale che, previa constatazione della avvenuta abrogazione della disposizione impugnata ad opera della legge costituzionale n. 3 del 2001 - la quale, riformulando l'art. 117 della Costituzione, ha previsto, al sesto comma di tale articolo, che "la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni", e che "la potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia" - la Corte accolga il ricorso, nei termini originariamente formulati ed in base ai parametri costituzionali precedenti la modifica costituzionale, in relazione al periodo per il quale la disposizione è stata in vigore; in subordine, ove ritenga la perdurante vigenza della disposizione impugnata, ne dichiari la illegittimità costituzionale per le ragioni formulate nel ricorso ed in base ai parametri costituzionali precedenti la modifica costituzionale; in ulteriore subordine, dichiari la illegittimità

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costituzionale della stessa disposizione sulla base del contrasto tra essa e il testo attuale dell'art. 117, sesto comma, della Costituzione. Nella sua memoria la Regione, replicando all'atto di costituzione dell'Avvocatura dello Stato, precisa che la questione non sta nella qualificazione della legge o delle leggi di semplificazione come "di principio" o "di riforma", ma nel fatto che alla semplificazione e al riordinamento della normativa regionale deve provvedere la Regione stessa e non lo Stato, neppure in via temporanea, tramite l'uso dei regolamenti di delegificazione. Per questo motivo non rileverebbe affatto che l'abrogazione delle leggi regionali sia fatta risalire alla legge di delegificazione piuttosto che al regolamento: l'utilizzo dei regolamenti statali di delegificazione nelle materie regionali sarebbe comunque illegittimo. Ancora, dovrebbe escludersi che costituisca "interesse nazionale", come afferma l'Avvocatura, la delegificazione della disciplina regionale dei procedimenti: la scelta della fonte, nei limiti in cui non è costituzionalmente vincolata, sarebbe rimessa alla Regione, e inoltre, se il legislatore ravvisasse un urgente interesse alla semplificazione procedurale di determinati procedimenti regionali, dovrebbe pur sempre provvedervi - sin dove consentito - direttamente con lo strumento legislativo. Non apparirebbe poi pertinente il richiamo al principio di leale collaborazione, né avrebbe pregio l'argomento fondato sul tenore letterale del comma 2 dell'art. 17 della legge n. 400 del 1998, che non esclude i regolamenti di delegificazione nelle materie di competenza delle Regione, al contrario di quanto disposto dal comma 1, lettera b: quest'ultimo, infatti, conferisce al Governo un potere regolamentare di attuazione esercitabile in generale, senza necessità di ulteriore base legislativa, per cui si rende opportuno chiarire direttamente i limiti del potere; mentre il comma 2 prelude ad una ulteriore legge, rispetto alla quale non sarebbe utile ribadire il divieto, già derivante dalla Costituzione, di incidere sulle materie regionali. Quanto poi agli effetti della nuova disciplina costituzionale sulla legislazione preesistente, la Regione ritiene che, nella situazione di contrasto palese tra il nuovo sesto comma dell'art. 117 della Costituzione e le precedenti disposizioni attributive di poteri normativi secondari, il regime della diretta abrogazione si addica al caso in questione meglio del regime della illegittimità costituzionale sopravvenuta. Da un lato, infatti, si tratterebbe qui di pura e semplice cessazione di un potere, e non di sue limitazioni o trasformazioni; dall'altro, affermare che le norme che prevedono poteri regolamentari statali sono ancora operanti, benché costituzionalmente illegittime, comporterebbe che i titolari di tali poteri dovrebbero continuare ad esercitarli, dando origine a contenziosi nei quali le Regioni ed altri eventuali interessati dovrebbero far valere con i mezzi ad essi consentiti (cioè mediante il conflitto sugli atti secondari ovvero mediante il giudizio in via incidentale) la illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative attributive del potere. L'abrogazione della disposizione oggetto del giudizio, tuttavia, non potrebbe determinare la cessazione della materia del contendere nel giudizio stesso, perché tale disposizione da un lato manterrebbe anche dopo l'abrogazione la propria operatività quale fonte legittimante gli atti normativi secondari emanati sulla sua base, dall'altro ne stabilirebbe il regime giuridico quali disposizioni in grado di abrogare le precedenti disposizioni legislative regionali dettate nella materia. Sussisterebbe dunque l'interesse della Regione a che sia dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione per il periodo in cui essa ha operato o è stata suscettibile di operare. 4.2.- Anche nella memoria relativa a questo secondo ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto in via preliminare la dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità del ricorso regionale, sulla base di considerazioni analoghe a quelle già svolte in relazione alla prima censura del ricorso iscritto al reg. ric. n. 25 del 2000, di cui si è riferito al punto 3.2. Considerato in diritto 1.- I due ricorsi, promossi rispettivamente dalla Regione Liguria (reg. ric. n. 25 del 2000) e dalla Regione Emilia-Romagna (reg. ric. n. 2 del 2001), sollevano questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni, parzialmente coincidenti, della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1999). I giudizi possono dunque essere riuniti per essere decisi con unica pronunzia.

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2.- Deve preliminarmente essere dichiarato inammissibile l'intervento spiegato dal Comune di Genova nel giudizio promosso con ricorso della Regione Liguria (reg. ric. n. 25 del 2000), per l'assorbente ragione che il relativo atto è stato depositato quando il termine di cui all'art. 23, terzo comma, delle norme integrative era scaduto, anche se dovesse computarsene la decorrenza dal giorno della pubblicazione del ricorso nella Gazzetta Ufficiale. 3.- Entrambe le Regioni ricorrenti impugnano l'art. 1 della legge n. 340 del 2000: la Regione Liguria censura i commi 1, 2, 3 e 4, lettera a; la Regione Emilia-Romagna censura il solo comma 4, lettera a. Ma la sostanza delle due impugnazioni non è diversa. Infatti i primi tre commi dell'art. 1 prevedono "la delegificazione e la semplificazione", ai sensi dell'art. 20, comma 1, della legge n. 59 del 1997, di una serie di procedimenti amministrativi e di adempimenti elencati nell'allegato A alla legge e la soppressione di quelli elencati nell'allegato B (comma 1); alla delegificazione e alla semplificazione si provvede mediante regolamenti emanati ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, nel rispetto dei principi, criteri e procedure di cui all'art. 20 della legge n. 59 del 1997 (comma 2); quanto ai procedimenti soppressi, le relative disposizioni sono abrogate a far tempo dall'entrata in vigore della stessa legge n. 340 del 2000 (comma 3). Il comma 4, lettera a, sostituisce il testo dell'art. 20, comma 2, della citata legge n. 59 del 1997, stabilendo che "nelle materie di cui all'articolo 117, primo comma, della Costituzione, i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino a quando la regione non provveda a disciplinare autonomamente la materia medesima" e che "resta fermo quanto previsto dall'articolo 2, comma 2, della presente legge e dall'articolo 7 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267" (questi due ultimi rinvii normativi si riferiscono alla potestà riconosciuta alle Regioni e agli enti locali di disciplinare l'organizzazione e lo svolgimento delle funzioni rispettivamente conferite). In entrambi i ricorsi si lamenta che la previsione della emanazione di regolamenti di delegificazione si estenda a materie e a procedimenti di competenza regionale, come risulterebbe, secondo il ricorso della Regione Liguria, dal fatto che l'elenco allegato alla legge comprenderebbe appunto anche procedimenti di spettanza regionale, e, secondo il ricorso della Regione Emilia-Romagna, dalla esplicita statuizione del nuovo testo dell'art. 20, comma 2, della legge n. 59 del 1997 (applicabile a tutti i regolamenti di delegificazione in tema di procedimenti amministrativi, emanati sia sulla base della stessa legge n. 59 del 1997, sia sulla base delle successive leggi annuali "di semplificazione", come la legge n. 340 del 2000), il quale, nel prevedere il carattere "cedevole" della disciplina regolamentare rispetto alla sopravveniente legislazione regionale, implicitamente disporrebbe l'efficacia dei regolamenti nelle materie regionali, e anzi la loro idoneità a prevalere, abrogandole, sulle leggi regionali preesistenti. Le ricorrenti sostengono, richiamandosi alla giurisprudenza di questa Corte, che la disciplina dei procedimenti afferenti alle materie di competenza regionale spetta alle Regioni, con i soli limiti derivanti dai principi fondamentali che si traggono da leggi, e non da regolamenti, statali; che questi ultimi non possono dettare norme sui procedimenti regionali, e comunque norme che prevalgano sulle leggi regionali preesistenti, ancorché "cedevoli" rispetto alle leggi regionali sopravvenute; e che il meccanismo della delegificazione previsto da una legge dello Stato non può operare nei confronti di fonti regionali. Per queste ragioni le disposizioni impugnate violerebbero gli articoli 117 e 118 della Costituzione (nel testo in vigore prima della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.) 4.- La questione deve essere decisa avendo riguardo esclusivamente alle disposizioni costituzionali nel testo anteriore alla riforma recata alla legge costituzionale n. 3 del 2001, trattandosi di ricorso proposto anteriormente all'entrata in vigore di quest'ultima, che invoca quindi come parametri dette disposizioni. La Corte non ha invece motivo per porsi, in questa sede, in assenza di nuove impugnazioni, il diverso problema della compatibilità della legge impugnata con il sistema cui ha dato vita il nuovo Titolo V, Parte II, della Costituzione, che non solo ha posto su basi rinnovate il riparto delle competenze normative fra Stato e Regioni, ma ha stabilito che la potestà regolamentare spetta allo Stato solo "nelle materie di legislazione [statale] esclusiva", mentre "spetta alle Regioni in ogni altra materia" ( art. 117, sesto comma, Cost., nel nuovo testo).

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D'altronde, mentre la sorte dei regolamenti che fossero stati legittimamente emanati, prima della riforma, in base alla norma impugnata, discenderebbe dal principio di continuità, per cui restano in vigore le norme preesistenti, stabilite in conformità al passato quadro costituzionale, fino a quando non vengano sostituite da nuove norme dettate dall'autorità dotata di competenza nel nuovo sistema (cfr. sentenza n. 13 del 1974), le Regioni non mancherebbero di strumenti processuali per censurare eventuali nuove manifestazioni di potestà regolamentare statale, che fossero ritenute in contrasto con le attribuzioni ora ad esse spettanti, aprendo così anche la strada, ove necessario, ad una valutazione della ulteriore applicabilità e della compatibilità della norma di legge qui impugnata nel nuovo quadro costituzionale. 5.- La questione, così delimitata, è infondata nei termini di seguito specificati. Nel sistema del vecchio art. 117 della Costituzione, costituivano punti fermi le seguenti affermazioni: a) nelle materie di competenza propria delle Regioni, i principi fondamentali della disciplina, vincolanti nei confronti dei legislatori regionali, potevano trarsi solo da leggi o da atti aventi forza di legge dello Stato, con esclusione dunque degli atti regolamentari; b) le leggi regionali potevano essere abrogate, oltre che da leggi regionali sopravvenute, solo per effetto del sopravvenire di nuove leggi statali recanti norme di principio, con le quali la legge regionale preesistente fosse incompatibile, secondo il meccanismo previsto dall'art. 10 della legge n. 62 del 1953. Tali principi, che derivavano dalla configurazione del sistema costituzionale delle fonti e dei rapporti fra Stato e Regioni, devono essere qui ribaditi. Essi comportavano, di conseguenza, che l'intervento di regolamenti statali fosse di norma precluso nelle materie attribuite alle Regioni, come risultava anche dal disposto dell'articolo 17, comma 1, lettera b, della legge n. 400 del 1988, che escludeva le materie di competenza regionale da quelle nelle quali potevano essere emanati regolamenti statali per disciplinare "l'attuazione e l'integrazione" dei principi recati da provvedimenti legislativi (cfr. ad es. sentenze n. 204 del 1991, n. 391 del 1991, n. 461 del 1992, n. 250 del 1996, n. 61 del 1997, n. 420 del 1999, n. 84 del 2001). Non diversamente si poneva il problema dei regolamenti detti "di delegificazione", previsti dall'art. 17, comma 2, della stessa legge n. 400, destinati a sostituire, in materie non coperte da riserva "assoluta" di legge, preesistenti disposizioni legislative statali, in conformità a nuove "norme generali regolatrici della materia" stabilite con legge, e con effetto di abrogazione differita delle disposizioni legislative sostituite. Anche per tali regolamenti era di norma esclusa la possibilità di operare nelle materie spettanti alla potestà legislativa delle Regioni, quanto meno in assenza di ragioni giustificatrici particolari che abilitassero il legislatore statale a sostituirsi a quelli regionali nella disciplina di qualche aspetto delle materie medesime (cfr. ad es. sentenze n. 465 del 1991 e n. 482 del 1995). Si deve tuttavia ricordare che in molte materie, pur attribuite alla competenza regionale, la mancanza di una compiuta disciplina dettata da leggi regionali ha fatto sì che continuassero a spiegare efficacia leggi statali previgenti, non solo come fonti da cui si desumevano i principi fondamentali vincolanti per le Regioni (secondo la previsione dell'art. 9, primo comma, della legge n. 62 del 1953, come modificato dall'art. 17 della legge n. 281 del 1970), ma anche come disciplina di dettaglio efficace in assenza dell'intervento del legislatore locale. Per di più la giurisprudenza di questa Corte, a partire dalla sentenza n. 214 del 1985, ha ammesso che la legge statale, allorquando interveniva a modificare i principi di disciplina di una materia di competenza regionale (con effetto eventualmente abrogativo delle leggi regionali preesistenti divenute incompatibili, ai sensi del citato art. 10 della legge n. 62 del 1953), potesse altresì, al fine di garantire l'attuazione immediata dei nuovi principi, recare una normativa di dettaglio, immediatamente operativa, idonea a disciplinare la materia fino a quando non venisse sostituita da una legislazione regionale conforme ai nuovi principi (anzi, talvolta si è ammesso espressamente che potessero anche essere dettate - in mancanza di legislazione regionale - norme regolamentari "cedevoli", per dare esecuzione a leggi statali o a norme comunitarie operanti in materie regionali: cfr. ad es. sentenze n. 226 del 1986, n. 165 del 1989, n. 378 del 1995, n. 425 del 1999, n. 507 del 2000, ordinanza n. 106 del 2001). Si aggiunga la circostanza che, non di rado, la legge statale continuava a disciplinare, sul piano sostanziale e procedurale, in base alle previsioni

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costituzionali degli articoli 118, primo comma, e 128 (vecchi testi) della Costituzione, l'esercizio di funzioni attribuite agli enti locali, pur in ambiti materiali spettanti in via di principio alla competenza regionale. Tutto ciò spiega perché il legislatore statale, allorché si è posto, in anni recenti, il problema di interventi generalizzati volti a realizzare la "semplificazione" dei procedimenti amministrativi, in vista della riduzione dei tempi e degli oneri per i cittadini che chiedessero provvedimenti abilitativi o concessivi o prestazioni dovute dalla pubblica amministrazione, si sia trovato di fronte ad un corpo di norme statali in vigore di grado legislativo, talora assai risalenti, altre volte rinnovate in epoca più recente, ancora di fatto operanti, in taluni casi, in ambiti appartenenti, in tutto o in parte, alla sfera della competenza regionale. L'art. 20 della legge n. 59 del 1997 ha previsto, all'uopo, l'emanazione di una legge annuale di semplificazione che operasse mediante meccanismi di delegificazione, ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, nel quadro dell'indirizzo generale, seguito nella legislazione più recente, di favore per un consistente passaggio da una disciplina legislativa ad una regolamentare di molti aspetti dell'organizzazione e dell'attività amministrativa, salvo quelli coperti da riserva di legge secondo la Costituzione. La semplificazione era l'obiettivo, la delegificazione lo strumento: i nuovi regolamenti avrebbero dovuto da un lato realizzare l'obiettivo, prevedendo procedimenti "semplificati", dall'altro sostituire la disciplina legislativa in vigore con una modificabile, anche in seguito, mediante l'esercizio della potestà regolamentare. La delegificazione - cioè la sostituzione di una disciplina di livello regolamentare ad una preesistente di livello legislativo - riguardava però (e poteva riguardare) solo la legislazione statale preesistente: ed infatti nell'elenco di provvedimenti legislativi elencati, nell'allegato alla legge n. 59 e negli allegati alle successive leggi annuali di semplificazione, come fonti di disciplina dei procedimenti destinati ad essere ridisegnati e "semplificati", compaiono solo leggi dello Stato. Riguardo al problema dei procedimenti afferenti a materie di competenza regionale, il legislatore del 1997 indicava un modo di procedere conforme ai principi consolidati in tema di rapporto fra fonti statali e regionali. Il comma 2 dell'art. 20 della legge n. 59, nel testo originario, prevedeva che con la legge annuale di semplificazione fossero individuati altresì "i procedimenti relativi a funzioni e servizi che, per le loro caratteristiche e per la loro pertinenza alle comunità territoriali, sono attribuiti alla potestà normativa delle regioni e degli enti locali", e fossero contestualmente indicati "i principi che restano regolati con legge della Repubblica ai sensi degli articoli 117, primo e secondo comma, e 128 della Costituzione" (si consideravano dunque insieme sia le materie di competenza propria delle Regioni, che quelle di competenza "integrativa-delegata" delle Regioni stesse e quelle attribuite alla competenza amministrativa degli enti locali, nelle quali potesse dispiegarsi la potestà regolamentare di questi ultimi, riconosciuta in generale dall'art. 2, comma 2, della stessa legge n. 59 del 1997). Si indicavano poi, al comma 5 dell'art. 20, i "criteri e principi" di semplificazione cui avrebbero dovuto conformarsi i regolamenti di delegificazione. Il comma 7 prevedeva che le Regioni a statuto ordinario regolassero "le materie disciplinate dai commi da 1 a 6" - cioè, più propriamente, i procedimenti afferenti all'ambito delle materie di propria competenza, ai quali potessero riferirsi i principi della "semplificazione" - "nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in essi [cioè nei commi da 1 a 6] contenute, che costituiscono principi generali dell'ordinamento giuridico". Si sanciva cioè il vincolo per le Regioni a rispettare, nella propria legislazione di semplificazione dei procedimenti, i "criteri e principi" indicati nel comma 5 (e ciò era conforme al sistema, trattandosi di principi espressi in disposizioni legislative). Si aggiungeva poi che "tali disposizioni [vale a dire, sembrerebbe, sempre quelle dei commi da 1 a 6] operano direttamente nei riguardi delle regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia": previsione invero di oscuro significato, dato che non era chiaro come principi quali quelli di semplificazione, riduzione di procedimenti e di termini, regolazione uniforme di procedimenti dello stesso tipo, accelerazione delle procedure contabili, sostituzione di organi collegiali con conferenze di servizi (cfr. il citato comma 5), potessero operare direttamente in assenza di una disciplina attuativa. Comunque fosse, il comma 7 dell'art. 20, come ebbe a riconoscere questa Corte con la sentenza n. 408 del 1998, non conteneva alcuna previsione di possibile efficacia dei regolamenti statali di delegificazione, da emanarsi ai sensi del comma 1, per la disciplina di materie di competenza regionale.

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Dopo una prima modifica, irrilevante in questa sede, apportata all'art. 20 con l'art. 1 della legge 16 giugno 1998, n. 191, il comma 2 venne sostituito dall'art. 2 della legge 8 marzo 1999, n. 50 (legge di semplificazione per il 1998), che integrò anche l'indicazione dei criteri e principi da rispettare nell'emanazione dei regolamenti (comma 5). Il nuovo testo del comma 2 stabiliva che "in sede di attuazione della delegificazione, il Governo individua, con le modalità di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 241 [che riguarda la conferenza Stato-Regioni e la conferenza unificata Stato-Regioni-città], i procedimenti o gli aspetti del procedimento che possono essere autonomamente disciplinati dalle Regioni e dagli enti locali": dizione che sembrava alludere ad una disciplina in sede regolamentare, sia pure eventualmente in funzione solo ricognitiva, dell'ambito della competenza regionale. La disposizione in esame è stata poi nuovamente sostituita dall'art. 1, comma 4, lettera a, della legge n. 340 del 2000, impugnato in questa sede. Il testo attuale non allude più ad una normativa regolamentare che riguardi la competenza regionale per la disciplina dei procedimenti, ma si limita a prevedere che nelle materie attribuite dalla Costituzione alla potestà legislativa delle Regioni i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino al sopravvenire di una autonoma disciplina regionale: sancendo dunque espressamente il carattere "cedevole" della disciplina regolamentare nei confronti della successiva normazione di fonte regionale, ma implicitamente confermando che i regolamenti possono riguardare procedimenti in materie regionali, anche se viene ribadita la competenza delle Regioni ad attuare i principi di semplificazione in tali materie, ai sensi dell'invariato comma 7 dello stesso art. 20. 6.- Se, come sostiene in particolare la ricorrente Regione Emilia-Romagna, ciò significasse che la legge attribuisce ai regolamenti di delegificazione l'efficacia di sostituire la preesistente disciplina delle leggi regionali (dettata o meno in attuazione dei nuovi criteri di semplificazione dei procedimenti amministrativi), causandone l'abrogazione, sarebbe giocoforza concludere che la disposizione impugnata altera il rapporto costituzionalmente dovuto tra fonti statali e fonti regionali. Ma le disposizioni impugnate consentono, e dunque richiedono, una diversa lettura, rispettosa invece di quel rapporto. La premessa sta nei principi che si sono richiamati all'inizio, e che la legge impugnata non smentisce. La delegificazione è solo lo strumento adottato dal legislatore statale per realizzare l'obiettivo della semplificazione dei procedimenti nell'ambito di ciò che era già disciplinato dalle leggi statali precedentemente in vigore. La sostituzione, in parte qua, con norme regolamentari riguarda esclusivamente le preesistenti disposizioni di leggi statali, come confermano i riferimenti negli allegati delle leggi di semplificazione: e dunque, per ciò che rileva in questa sede, le disposizioni di leggi statali che già operavano nelle materie di competenza regionale. Tali leggi (a parte i casi di interventi particolari che lo Stato avesse effettuato sulla base di specifici titoli costituzionalmente giustificati, e che però in quanto tali si collocavano, propriamente, al di fuori dell'ambito delle attribuzioni regionali) potevano spiegare efficacia ad un doppio titolo: in quanto recanti le disposizioni da cui si desumevano i principi fondamentali vincolanti per i legislatori regionali, o in quanto recanti disposizioni immediatamente operative (di dettaglio) applicabili a titolo suppletivo in mancanza di legislazione regionale. L'operazione di delegificazione non riguarda e non può riguardare il primo tipo di disposizioni (e infatti l'originario testo dell'art. 20, comma 2, della legge impugnata prevedeva espressamente che i principi delle materie restassero "regolati con legge della Repubblica"), poiché la sostituzione di norme legislative con norme regolamentari esclude di per sé che da queste ultime possano trarsi principi vincolanti per le Regioni: come è testualmente confermato, del resto, dalla esplicita ammissione del carattere "cedevole" dei regolamenti. La delegificazione riguarda dunque e può riguardare - oltre a disposizioni di leggi statali regolanti oggetti a qualsiasi titolo attribuiti alla competenza dello Stato - solo disposizioni di leggi statali che, nelle materie regionali, già avessero carattere di norme di dettaglio cedevoli la cui efficacia si esplicava nell'assenza di legislazione regionale. La delegificazione, anzi, è in grado di introdurre, da questo punto di vista, un elemento di chiarezza: mentre in presenza di norme tutte legislative, nel cui ambito non si faceva alcuna distinzione, poteva sussistere il dubbio circa la loro natura di principio o di dettaglio, vincolante o cedevole, in presenza invece di norme regolamentari non può sussistere dubbio alcuno sull'assenza di ogni loro

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carattere di norme di principio, come tali vincolanti per le Regioni, e dunque sulla loro inidoneità a prevalere sulle disposizioni di leggi regionali. Quanto alle leggi regionali preesistenti, su di esse non può spiegare alcun effetto abrogativo l'entrata in vigore delle nuove norme regolamentari. Esse potrebbero ritenersi abrogate solo dall'entrata in vigore di nuove norme legislative statali di principio, con le quali risultino incompatibili. E' vero che lo stesso art. 20 della legge n. 59 stabilisce "criteri e principi" di semplificazione dei procedimenti, affermandone espressamente il carattere vincolante anche per le Regioni (comma 7). Ma - a parte il fatto che si tratta di principi procedurali, di massima inidonei, per il loro contenuto, a causare l'abrogazione per incompatibilità delle leggi regionali anteriormente vigenti (tanto che lo stesso legislatore statale li qualifica alla stregua di "principi generali dell'ordinamento giuridico": comma 7 dell'art. 20) -, l'ipotetica abrogazione sarebbe effetto autonomo dell'entrata in vigore delle disposizioni legislative contenenti i principi (secondo quanto previsto dall'art. 10 della legge n. 62 del 1953), e non già dell'entrata in vigore dei regolamenti di delegificazione, che condiziona soltanto - secondo il meccanismo sancito dall'art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, e ribadito dall'art. 20, comma 4, secondo periodo, della legge n. 59 del 1997 - l'abrogazione delle disposizioni di leggi statali delegificate. Conclusivamente: fermo restando il consueto rapporto fra legislazione regionale e principi fondamentali desumibili dalle leggi statali, l'emanazione dei regolamenti statali di delegificazione, riguardanti eventualmente ambiti materiali di competenza regionale, non ha alcun effetto abrogativo né invalidante sulle leggi regionali in vigore, sia emanate in attuazione dei principi di semplificazione, sia semplicemente preesistenti, né produce effetti di vincolo per i legislatori regionali. Le norme regolamentari vanno semplicemente a sostituire, in parte qua, le norme legislative statali di dettaglio che già risultassero applicabili, a titolo suppletivo e cedevole, in assenza di corrispondente disciplina regionale. È questa l'unica lettura della norma impugnata che si rivela coerente con il sistema e con i presupposti costituzionali. Così intesa, essa non incorre nelle censure di costituzionalità mosse dalle Regioni ricorrenti. 7.- La sola ricorrente Regione Liguria impugna altresì l'art. 6 della legge n. 340 del 2000, che introduce nel capo IV del D.Lgs. n. 112 del 1998 (intitolato "Conferimenti ai Comuni e sportello unico per le attività produttive") un art. 27-bis (Misure organizzative per lo sportello unico delle imprese). L'art. 23, comma 1, del decreto legislativo attribuisce ai Comuni "le funzioni amministrative concernenti la realizzazione, l'ampliamento, la cessazione, la riattivazione, la localizzazione e la rilocalizzazione di impianti produttivi, ivi incluso il rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie". L'art. 24, comma 1, stabilisce che "ogni Comune esercita, singolarmente o in forma associata, anche con altri enti locali, le funzioni di cui all'articolo 23, assicurando che un'unica struttura sia responsabile dell'intero procedimento" (comma 1), e che "presso la struttura è istituito uno sportello unico al fine di garantire a tutti gli interessati l'accesso, anche in via telematica, al proprio archivio informatico contenente i dati concernenti le domande di autorizzazione e il relativo iter procedurale, gli adempimenti necessari per le procedure autorizzatorie, nonché tutte le informazioni disponibili a livello regionale, ivi comprese quelle concernenti le attività promozionali, che dovranno essere fornite in modo coordinato". L'art. 25, a sua volta, prescrive che "il procedimento amministrativo in materia di autorizzazione all'insediamento di attività produttive è unico" e che "l'istruttoria ha per oggetto in particolare i profili urbanistici, sanitari, della tutela ambientale e della sicurezza"; e detta i principi cui si ispira tale procedimento, "disciplinato con uno o più regolamenti ai sensi dell'articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59". L'art. 27-bis, aggiunto dalla disposizione impugnata in questa sede, stabilisce che "le amministrazioni, gli enti e le autorità competenti a svolgere, ai sensi degli articoli da 23 a 27, attività istruttorie nell'ambito del procedimento di cui al regolamento previsto dall'articolo 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59, per la realizzazione, l'ampliamento, la ristrutturazione, la riconversione di impianti produttivi e per l'esecuzione di opere interne ai fabbricati, nonché per la determinazione delle aree destinate agli investimenti produttivi, provvedono all'adozione delle misure organizzative necessarie allo snellimento delle predette attività istruttorie, al fine di assicurare il coordinamento dei termini di queste con i termini di cui al citato regolamento".

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Secondo la Regione ricorrente, tale disposizione avrebbe lo scopo, ancorché "occultato" sotto l'apparenza di una previsione ovvia, di qualificare espressamente come "atti istruttori" gli atti e i provvedimenti propri dei diversi enti coinvolti nel procedimento, fra cui la Regione, e ciò al fine di spostare in capo al Comune la competenza sostanziale all'esercizio delle relative funzioni, lasciando agli altri enti solo un potere istruttorio "non riservato" ed "eventuale". In questo modo, prosegue la Regione, omettendo di mettere in evidenza tale scopo concreto e di accedere alle richieste di modifica avanzate in proposito dalla Conferenza Stato-Regioni e dalla conferenza unificata, si sarebbero violati anzitutto i principi costituzionali sulla collaborazione fra Stato e Regioni e sulle procedure legislative (articoli 70, 71, 72, in connessione con gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione), nonché i principi di autonomia e decentramento ( artt. 5, 128 e 129 della Costituzione). Sotto un secondo profilo, sarebbero lese le competenze delle Regioni di cui agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, per avere ri-conformato sostanzialmente procedure e competenze, incidendo anche sulla disciplina regionale vigente in tema di deleghe di funzioni alle Province e alle comunità montane. Sotto un terzo profilo, sarebbe violato l'art. 81 della Costituzione per l'attribuzione di competenze ai Comuni senza copertura finanziaria e per l'alterazione della copertura già prevista dalle leggi regionali che hanno delegato funzioni ad altri enti. Infine sarebbero violati i principi di certezza del diritto, di chiarezza normativa, di legalità e di buon andamento della pubblica amministrazione ( artt. 70, 71, 72, 97, 101, 111 e 113 della Costituzione), perché si sarebbero introdotte situazioni normative non chiare sia per le amministrazioni titolari delle funzioni, sia per i cittadini e per le imprese. 8.- La questione non è fondata. Anche tale questione deve essere valutata alla luce delle norme costituzionali, invocate dalla ricorrente, come risultanti dal testo anteriore alla riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione recata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. L'eventuale incidenza delle nuove norme costituzionali, in termini di modifiche delle competenze rispettive di Stato e Regione, sarebbe infatti suscettibile di tradursi solo in nuove e diverse possibilità di intervento legislativo della Regione o dello Stato, senza che però venga meno, in forza del principio di continuità, l'efficacia della normativa preesistente conforme al quadro costituzionale in vigore all'epoca della sua emanazione (cfr. sentenza n. 13 del 1974). La disciplina concernente il cosiddetto "sportello unico per le attività produttive" è dettata dagli articoli da 23 a 27 del D.Lgs. n. 112 del 1998, non contestati in questa sede. Essa è fondata sulla concentrazione in una sola struttura, istituita dal Comune, della responsabilità dell'unico procedimento attraverso cui i soggetti interessati possono ottenere l'insieme dei provvedimenti abilitativi necessari per la realizzazione di nuovi insediamenti produttivi, nonché sulla concentrazione nello "sportello unico", presso la predetta struttura, dell'accesso a tutte le informazioni da parte dei medesimi soggetti interessati: ciò al fine di evitare che la pluralità delle competenze e degli interessi pubblici oggetto di cura in questo ambito si traduca per i cittadini in tempi troppo lunghi e in difficoltà di rapporti con le amministrazioni. Quello che la legge configura è una sorta di "procedimento di procedimenti", cioè un iter procedimentale unico in cui confluiscono e si coordinano gli atti e gli adempimenti, facenti capo a diverse competenze, richiesti dalle norme in vigore perché l'insediamento produttivo possa legittimamente essere realizzato. In questo senso, quelli che erano, in precedenza, autonomi provvedimenti, ciascuno dei quali veniva adottato sulla base di un procedimento a sé stante, diventano "atti istruttori" al fine dell'adozione dell'unico provvedimento conclusivo, titolo per la realizzazione dell'intervento richiesto (cfr. art. 4, comma 1, del d.P.R. n. 447 del 1998, come modificato dall'art. 1 del D.P.R. n. 440 del 2000). Ciò non significa però che vengano meno le distinte competenze e le distinte responsabilità delle amministrazioni deputate alla cura degli interessi pubblici coinvolti: tanto è vero che, nel cosiddetto "procedimento semplificato", ove una delle amministrazioni chiamate a decidere si pronunci negativamente, "il procedimento si intende concluso", salva la possibilità per l'interessato di chiedere la convocazione di "una conferenza di servizi al fine di eventualmente concordare quali siano le condizioni per ottenere il superamento della pronuncia negativa" (art. 4, comma 2, del D.P.R. n. 447 del 1998, come modificato dall'art. 1 del D.P.R. n. 440 del 2000). In ogni caso, la configurazione delle competenze in questa materia risulta dai citati articoli da 23 a 27 del D.Lgs. n. 112 del 1998. La disposizione in questa sede impugnata ha lo scopo e la portata, assai più modesti,

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di prevedere che ciascuna delle diverse amministrazioni competenti adotti, nella propria autonomia, le misure organizzative necessarie perché le attività ad essa demandate siano svolte nel modo più rapido, così da coordinare i termini stabiliti per ciascuna di tali attività con i termini previsti per il compimento del procedimento unico di cui all'art. 25, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 112 del 1998. Un'esigenza di coordinamento, questa, che si correla naturalmente con l'intento unificante e semplificante che sta a base della scelta del legislatore. 9.- Stante l'effettiva portata della norma impugnata, quale emerge dalle considerazioni svolte, sono prive di fondamento le censure mosse dalla ricorrente sotto i profili della affermata violazione delle competenze regionali, che non sono modificate da detta norma, del principio di leale collaborazione e della presunta incidenza sulla finanza regionale, che non è toccata. Ma risultano altresì privi di consistenza anche gli altri profili di censura, che si richiamano alle regole del procedimento legislativo e ai principi di certezza del diritto, di chiarezza normativa e di buon andamento dell'amministrazione, senza che la Corte debba porsi il problema della loro ammissibilità nel giudizio in via principale promosso da una Regione nei confronti di una legge dello Stato. Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, a) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1, 2, 3 e 4, lettera a, della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1999), sollevata, in riferimento agli articoli 117 e 118 della Costituzione, dalla Regione Liguria con il ricorso in epigrafe (reg. ric. n. 25 del 2000); b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 4, lettera a, della predetta legge n. 340 del 2000, sollevata, in riferimento agli articoli 117, primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione, nonché ai principi costituzionali relativi all'esercizio del potere regolamentare, dalla Regione Emilia-Romagna con il ricorso in epigrafe (reg. ric. n. 2 del 2001); c) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 della predetta legge n. 340 del 2000, sollevata, in riferimento agli articoli 5, 70, 71, 72, 81, 97, 101, 111, 113, 117, 118, 119, 128 e 129 della Costituzione, dalla Regione Liguria con il ricorso in epigrafe (reg. ric. n. 25 del 2000). Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Sent. 20 giugno 2002, n. 304

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale della deliberazione legislativa statutaria adottata, in seconda votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio regionale della Regione Marche e recante "Disciplina transitoria in attuazione dell'articolo 3 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 7 settembre 2001, depositato in cancelleria il 15 successivo ed iscritto al n. 38 del registro ricorsi 2001. Visto l'atto di costituzione della Regione Marche; udito nell'udienza pubblica del 26 febbraio 2002 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte; uditi l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche. Ritenuto in fatto 1. - Il Governo della Repubblica ha proposto questione di legittimità costituzionale della deliberazione legislativa statutaria adottata, in seconda votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio regionale della Regione Marche e recante "Disciplina transitoria in attuazione dell'articolo 3 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1", denunciandone il contrasto con gli artt. 122, ultimo comma, e 126, terzo comma, della Costituzione, nonché con l'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, recante "Disposizioni concernenti l'elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l'autonomia statutaria delle Regioni". In via preliminare l'Avvocatura rammenta che la deliberazione legislativa impugnata non è stata ancora promulgata, in ossequio al dettato dell'art. 123, comma 3, della Costituzione e che dal tenore delle disposizioni costituzionali non è dato comprendere se essa possa essere promulgata in pendenza di giudizio costituzionale, quando siano decorsi i tre mesi previsti per la richiesta di referendum confermativo e qualora questo non sia stato richiesto, né è possibile dedurre se, in pendenza del giudizio costituzionale, possa essere fissata la data della consultazione referendaria. L'art. 1 dell'atto impugnato dispone che, fino alla approvazione del nuovo statuto regionale, nel caso di morte o impedimento permanente del Presidente della Giunta regionale, il vicepresidente, nominato ai sensi dell'art. 5, comma 2, lettera a), della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, subentra al presidente nell'esercizio delle relative funzioni. L'Avvocatura dello Stato contesta innanzitutto il meccanismo di approvazione delle modifiche statutarie al quale si è dato corso. Si osserva in proposito che l'art. 123 della Costituzione attribuisce al legislatore regionale la potestà di approvare e modificare lo statuto, e da ciò dovrebbe desumersi che sia consentito solo approvare uno statuto organico, salva successiva sua modifica, mentre resterebbe preclusa la possibilità di emendare lo statuto vigente, così da dare vita ad un testo statutario "misto". Ciò corrisponderebbe all'esigenza di rendere manifesto il disegno istituzionale complessivo, sia al corpo elettorale eventualmente interpellato mediante consultazione referendaria, sia allo stesso Governo della Repubblica legittimato a ricorrere dinanzi a questa Corte.

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La difesa erariale sostiene inoltre che la deliberazione impugnata sarebbe in contrasto con l'art. 122, ultimo comma, con l'art. 126, terzo comma, Cost. e con l'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, disposizioni, queste, che collegano alla morte, all'impedimento permanente e alle dimissioni volontarie del Consiglio regionale l'effetto automatico dello scioglimento del Consiglio regionale, con la conseguente necessità di procedere a nuove elezioni. Secondo l'Avvocatura sarebbe sottratta alla potestà statutaria delle Regioni ogni possibilità di incidere sull'automatismo di tale regola, come intende fare invece la deliberazione impugnata. Il carattere transitorio della disposizione, soggiunge la difesa del Presidente del Consiglio, non sarebbe tale da far venire meno i denunciati vizi di costituzionalità. 2. - Si è costituito in giudizio, per la Regione Marche, il Presidente della Giunta regionale. La difesa della Regione contesta in primo luogo l'argomento secondo il quale l'art. 123 ammetterebbe solo la approvazione di un testo statutario organico, replicando che sul piano logico come su quello normativo non sarebbe possibile escludere che la Regione approvi modifiche statutarie parziali, perché ciò equivarrebbe a negare ad essa la stessa autonomia statutaria, che così come potrebbe essere esplicata in pieno con l'approvazione di un intero statuto, allo stesso modo potrebbe essere esercitata anche per approvare norme che lo emendino solo in parte. Il pericolo, paventato dall'Avvocatura, di interventi plurimi e frammentari che tolgano ogni organicità al testo statutario risulterebbe d'altro canto scongiurato sia per la particolarità della fattispecie disciplinata dalla deliberazione impugnata, sia per il carattere provvisorio di detta delibera. Dopo aver premesso che la regola per la quale in caso di mozione di sfiducia, dimissioni volontarie, impedimento permanente o morte del Presidente della Giunta si procede alla indizione di nuove elezioni costituisce espressione del sistema di governo regionale, come delineato dall'art. 122, ultimo comma, della Costituzione, la difesa regionale osserva però che lo stesso art. 122 mantiene la scelta del meccanismo di elezione del Presidente della Giunta regionale in capo alla Regione, quando afferma che esso è eletto a suffragio universale e diretto "salvo che lo statuto regionale disponga diversamente". Da tale disposizione potrebbe desumersi che ogni Regione sia autorizzata ad adottare un sistema di governo che preveda il subentro del vicepresidente in caso di morte o impedimento permanente del Presidente della Giunta. Né la disposizione così posta potrebbe essere in alcun modo equiparata all'ipotesi di dimissioni volontarie del presidente o di mozione motivata di sfiducia, perché in entrambi questi casi viene a spezzarsi il rapporto fiduciario che deve sussistere tra Consiglio regionale e Presidente della Giunta, mentre nell'ipotesi di subentro del vicepresidente la relazione fiduciaria non ne verrebbe intaccata. Ulteriore conferma della legittimità della disposizione statutaria impugnata dovrebbe trarsi dal rilievo che l'art. 123 attribuisce alla Regione la potestà di determinare, con lo statuto, la propria forma di governo. Il richiamo alla necessità di armonizzare la potestà statutaria con la Costituzione, in effetti, non postulerebbe una assoluta aderenza al modello tratteggiato dalle norme costituzionali, ma implicherebbe la possibilità di una autonoma capacità di interpretazione dei principi costituzionali da parte della Regione. Anche sotto questo profilo dovrebbe dunque riconoscersi che la deliberazione impugnata costituisce una integrazione del tutto logica e coerente, oltre che temporalmente delimitata, delle previsioni costituzionali in materia di forma di governo regionale. 3. - In prossimità della data fissata per la pubblica udienza la Regione Marche ha presentato ulteriori memorie, nelle quali, dopo aver dato atto che la legge statutaria oggetto del giudizio non è stata ancora promulgata, sostiene che il nuovo articolo 123 della Costituzione non impone che l'esercizio della potestà statutaria si realizzi uno actu, ma consente interventi modificativi sugli statuti previgenti approvati con legge statale. Sarebbe dunque da considerare legittimo ogni intervento di integrazione dello statuto che presenti i caratteri di un atto di esercizio della potestà statutaria conferita dal nuovo art. 123 della Costituzione. La "novità" dello statuto, continua la difesa regionale, da un punto di vista logico non richiederebbe necessariamente l'approvazione di un testo organico che sostituisca integralmente il vecchio e non potrebbe essere negata di fronte al concreto esercizio, sia pure parziale, della nuova potestà statutaria riconosciuta alle Regioni. Se si riflette sulla natura del nuovo statuto regionale e sul suo rapporto con quello vigente, secondo la difesa delle Marche, non potrebbe dubitarsi della legittimità della delibera impugnata. In effetti, secondo la Regione, il nuovo statuto, così come il vecchio, è una «fonte sub-costituzionale a competenza materiale riservata», che si colloca in posizione sovraordinata rispetto alle altre fonti primarie e quindi condiziona la

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validità delle leggi regionali, analogamente a quanto avveniva nel regime precedente la riforma del Titolo V, Parte II, della Costituzione. Nonostante il diverso procedimento di formazione e l'ampliamento del relativo ambito materiale, quindi, lo statuto avrebbe conservato integra la propria natura, la propria collocazione nel sistema delle fonti normative, nonché la propria funzione istituzionale. In questi termini, una novella parziale effettuata successivamente alla entrata in vigore della legge costituzionale n. 1 del 1999 dovrebbe considerarsi legittima quanto quella effettuata prima, unico elemento di diversità tra le due fattispecie essendo la fonte abilitata a porre in essere la revisione statutaria. Quanto alla ipotizzata violazione, da parte della delibera impugnata, dell'art. 126, ultimo comma, della Costituzione, la Regione rileva che la regola aut simul stabunt aut simul cadent in esso posta sarebbe diretta a disciplinare il rapporto tra presidente e Consiglio solo nel contesto di una forma di governo autonomamente definita dallo statuto e di una legge elettorale che preveda l'elezione diretta del Presidente della Giunta, ed afferma che nessuna di queste condizioni ricorrerebbe nel caso di specie. La Regione Marche, infatti, non ha ancora adottato uno statuto organico che definisca la propria forma di governo, né una legge elettorale regionale, a causa dell'inerzia del legislatore statale, cui compete, ai sensi dell'art. 122, primo comma, della Costituzione la definizione dei principî della legislazione elettorale regionale. Non ricorrerebbero dunque i presupposti per l'applicazione, alla disciplina transitoria impugnata, dell'art. 126, ultimo comma, della Costituzione. In ogni caso, anche a ritenere che esso possa trovare applicazione, la difesa della Regione contesta che l'elezione del Presidente della Giunta regionale, come disciplinata dalla legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle Regioni a statuto ordinario) e dall'art. 5, primo comma, della legge costituzionale n. 1 del 1999, possa essere considerata tecnicamente a suffragio universale e diretto. Affinché una elezione presenti tali caratteristiche, occorrerebbe «che il candidato risulti eletto non soltanto da tutti i soggetti titolari della capacità elettorale attiva, ma anche che la scelta avvenga direttamente ed immediatamente, senza dunque che questa sia filtrata o mediata da altri meccanismi o organi o procedure». Ciò postulerebbe che la manifestazione del voto si esprima sulla base di una scheda che propone all'elettore solo la scelta di un capo dell'Esecutivo, cosa che attualmente non accade. L'art. 5 poc'anzi citato, del resto, non parla mai né di elezione diretta, né di suffragio universale e diretto, ma introduce la indicazione popolare del presidente della Giunta all'interno di un sistema elettorale che prevede che il presidente risulti eletto in quanto capolista della lista regionale dei candidati al Consiglio che ha ottenuto il maggior numero di voti. La stessa legge elettorale, continua la Regione, reca previsioni incompatibili con il sistema della elezione diretta del presidente. Segnatamente, l'art. 2 della legge n. 43 del 1995, nel disporre che - qualora l'elettore esprima il suo voto soltanto per una lista provinciale, il voto si intende validamente espresso anche a favore della lista regionale collegata - dimostrerebbe come al capolista possano essere attribuiti anche voti non espressamente indirizzati a lui, tradendo così la logica della elezione a suffragio universale e diretto. Su queste premesse la difesa della Regione Marche conclude che, in mancanza di un sistema di elezione diretta, la regola simul stabunt simul cadent non possa trovare applicazione. Proprio l'inapplicabilità dell'art. 126, ultimo comma, nella vigenza dell'attuale sistema elettorale, avrebbe indotto il legislatore costituzionale ad introdurre una apposita disposizione transitoria diretta a vincolare anche l'elezione attuale del presidente al regime della caduta contestuale con il Consiglio. Sarebbe questa disposizione transitoria, non già l'art. 126, ultimo comma, ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore dei nuovi statuti regionali e delle nuove leggi regionali, posto che - giova ricordare - la deliberazione impugnata opera all'interno di un sistema nel quale è ancora vigente la legge elettorale n. 43 del 1995. La deliberazione impugnata, secondo la Regione, si collocherebbe tuttavia nel campo di applicazione non del primo, ma del secondo comma, lettera b), dell'art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999. Tale disposizione - che a differenza di quella del comma 1, definisce un regime transitorio "fino all'entrata in vigore dei nuovi statuti", indipendentemente dalla intervenuta adozione della legge elettorale regionale - sarebbe diretta a disciplinare le situazioni nelle quali continua ad applicarsi un sistema elettorale definito dalla legge statale vigente e non è stato ancora approvato un nuovo statuto organico. Sarebbe dunque la stessa disposizione costituzionale testé menzionata ad autorizzare il legislatore regionale, nell'esercizio della sua nuova potestà statutaria, a porre deroghe alla regola simul stabunt simul cadent. Anche ad ammettere che l'art. 126, ultimo comma, della Costituzione si debba applicare alla deliberazione legislativa impugnata, l'introduzione di deroghe alla contestuale permanenza in carica di presidente e Consiglio rientrerebbe, secondo la difesa della Regione, nella competenza che il nuovo art. 123 riconosce allo statuto in materia di forma di governo. Il limite della "armonia" con la Costituzione, al quale è soggetta la potestà statutaria, dovrebbe infatti essere riferito alle scelte di fondo che ispirano la Carta, non già al

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rispetto formale di singole, puntuali disposizioni costituzionali. In tale prospettiva, la disciplina impugnata non potrebbe definirsi "orientata contro la Costituzione", in quanto sarebbe diretta semplicemente ad integrare il precedente statuto senza pregiudicare le scelte da effettuare con il nuovo. In un quadro di autonomia nel quale lo stesso legislatore costituzionale consente allo statuto di introdurre deroghe alla elezione diretta del Presidente, continua la Regione, dovrebbe a fortiori considerarsi legittima una modifica come quella oggetto di impugnativa, che non pone in questione il rapporto fiduciario tra Giunta e Consiglio regionale, e quindi non compromette la finalità stabilizzatrice alla quale tende la regola simul stabunt simul cadent. Il subentrare del vicepresidente nelle ipotesi di morte o impedimento permanente del presidente, infatti, non inciderebbe in alcun modo sul rapporto di fiducia, ma anzi consentirebbe a tale rapporto di proseguire, nonostante le vicende naturali che coinvolgano la persona fisica del Presidente della Giunta. Considerato in diritto 1. - Viene all'esame di questa Corte la questione di legittimità costituzionale della deliberazione legislativa statutaria adottata, in seconda votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio regionale della Regione Marche e recante "Disciplina transitoria in attuazione dell'articolo 3 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1", il quale dispone che, fino alla approvazione del nuovo statuto regionale, nel caso di morte o impedimento permanente del Presidente della Giunta regionale, il vicepresidente, nominato ai sensi dell'art. 5, comma 2, lettera a), della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l'elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l'autonomia statutaria delle Regioni), subentra al Presidente nell'esercizio delle relative funzioni. Il Governo della Repubblica ne denuncia il contrasto con gli artt. 122, ultimo comma, e 126, terzo comma, della Costituzione, nonché con l'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale n. 1 del 1999. Poiché si tratta del primo ricorso proposto ai sensi dell'art. 123 della Costituzione, nel testo risultante dalla revisione operata con la legge costituzionale n. 1 del 1999, occorre preliminarmente chiarire, ai fini della ammissibilità della questione, che il termine per promuovere il controllo di legittimità costituzionale dinanzi a questa Corte decorre dalla pubblicazione notiziale della delibera statutaria e non da quella, successiva alla promulgazione, che è condizione per l'entrata in vigore. Ancor prima di scendere nell'esegesi delle singole proposizioni costituzionali, va detto che una soluzione diversa da quella appena indicata non potrebbe certo fondarsi su una esigenza di simmetria con il giudizio di legittimità sulle leggi regionali, che ormai, a seguito della revisione dell'art. 127 Cost., così come risultante dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), è successivo alla entrata in vigore della legge. Ragioni di coerenza sistematica inducono a negare che il valore della legge regionale - inteso nel senso convenzionale di trattamento giuridico - sia in tutto assimilabile a quello degli statuti regionali, la peculiarità dei quali si fa evidente se si considerano le diverse innovazioni che li hanno coinvolti. Il legislatore del 1999 ha introdotto un procedimento aggravato di formazione dell'atto, imponendo al Consiglio regionale due successive deliberazioni a maggioranza assoluta, adottate ad intervallo non minore di due mesi; ha escluso il controllo preventivo del Governo, lasciando però che ad esso restasse assoggettata la generalità delle leggi regionali ed ha previsto in sua vece uno speciale controllo di legittimità da parte della Corte Costituzionale; ha infine prefigurato una eventuale consultazione referendaria, sicché può dirsi che il procedimento di formazione richiami il modello che l'art. 138 della Costituzione delinea per le leggi di revisione costituzionale. Complessivamente considerata, la disciplina posta dall'art. 123 è chiara nelle sue linee portanti e realizza un assetto normativo unitario e compatto, in cui ciascuna previsione è assistita da una propria ragione costituzionale, e tutte si legano tra loro in un vincolo di coerenza sistematica, che disvela il ponderato equilibrio delle scelte del legislatore costituzionale. Da un lato, le istanze autonomistiche sono state pienamente appagate con l'attribuzione allo statuto di un valore giuridico che lo colloca al vertice delle fonti regionali e con la scomparsa dell'approvazione parlamentare; dall'altro, il principio di legalità costituzionale ha ricevuto una protezione adeguata alla speciale collocazione dello statuto nella gerarchia delle fonti regionali: la previsione di un controllo di legittimità costituzionale in via preventiva delle deliberazioni statutarie è intesa infatti ad impedire che eventuali vizi di legittimità dello statuto si riversino a cascata

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sull'attività legislativa e amministrativa della Regione, per le parti in cui queste siano destinate a trovare nello statuto medesimo il proprio fondamento esclusivo o concorrente. Ebbene, se si considera la essenziale posizione che, nell'art. 123 Cost., assume l'impugnazione governativa dinanzi alla Corte Costituzionale e si tiene conto delle istanze alle quali tale posizione corrisponde, la tesi sostenuta dalla difesa regionale, secondo cui la modifica dell'art. 127 Cost. avrebbe comportato l'assimilazione del regime giuridico degli statuti a quello delle "ordinarie" leggi regionali, non può essere accolta. Pieno riconoscimento di autonomia statutaria e controllo preventivo di legittimità costituzionale rappresentavano, nel sistema della legge costituzionale n. 1 del 1999, un binomio inscindibile, che la successiva modificazione del trattamento delle leggi regionali non ha minimamente scalfito e che conserva la sua autonoma ragion d'essere anche dopo l'ampia revisione del Titolo V della Parte II e la connessa modificazione del regime di impugnazione delle leggi regionali. 2. - Il quadro sistematico poc'anzi tratteggiato non è contraddetto dall'esegesi delle disposizioni costituzionali coinvolte. L'art. 123, secondo comma, della Costituzione dopo aver disciplinato il procedimento di formazione dello statuto regionale ed aver statuito che per tale peculiare legge non è richiesta l'apposizione del visto da parte del Commissario del Governo, dispone che «il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali dinanzi alla Corte Costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione». Il successivo comma prevede che lo statuto «è sottoposto a referendum popolare qualora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia richiesta un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti il Consiglio regionale» e stabilisce che «lo statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi». La parola pubblicazione, utilizzata nel terzo comma, indica un evento che è anteriore alla promulgazione dello statuto (e quindi anche alla pubblicazione cosiddetta necessaria che ne determina l'entrata in vigore) e che funge da momento iniziale per il decorso del termine per richiedere referendum. E' a questo punto assai arduo immaginare, in assenza di una esplicita indicazione in tal senso da parte del legislatore costituzionale, che quella stessa parola "pubblicazione", che compare nel comma precedente e che ha, anch'essa, la funzione di scandire l'iniziale decorso di un termine (quello entro il quale il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali), abbia un significato totalmente disomogeneo e stia ad indicare non una pubblicazione a fini notiziali, ma la pubblicazione successiva alla promulgazione, la cui funzione, di per sé, non è quella di provocare l'apertura di termini, ma l'entrata in vigore degli atti normativi. L'interpretazione testuale induce dunque a ritenere che il termine pubblicazione di cui ai commi secondo e terzo indichi forme di pubblicità notiziale; conclusione non dissimile suggerisce l'architettura logica dell'art. 123 Cost. Le diverse disposizioni delle quali la disciplina degli statuti regionali si compone sono poste in una successione che corrisponde pienamente all'articolazione del controllo in due fasi procedimentali distinte ed autonome: il giudizio di legittimità e il referendum. Ad accogliere la tesi che il giudizio della Corte debba avvenire su deliberazioni statutarie già entrate in vigore, la sequenza procedimentale, che nell'art. 123 ha un andamento logicamente coerente, ne risulterebbe rovesciata: sarebbe infatti disciplinato prima, nel secondo comma, un controllo di legittimità temporalmente successivo, e quindi, nel terzo, una consultazione popolare avente ad oggetto quello stesso atto la cui validità potrebbe essere, in tutto o in parte, negata dalla Corte Costituzionale. Proprio quest'ultima considerazione, insieme agli argomenti testuali e sistematici dei quali si è detto, rende ragione della simmetria tra la collocazione topografica delle disposizioni e la successione temporale delle attività in esse previste. In conclusione, il ricorso proposto dal Governo prima che la deliberazione statutaria sia entrata in vigore, ma nei trenta giorni dalla pubblicazione notiziale della deliberazione stessa sul bollettino ufficiale della Regione, è da ritenere ammissibile. 3. - Una prima censura investe la deliberazione del Consiglio regionale Regione Marche per aver essa disposto una modifica solo parziale dello statuto. La potestà di «approvare e modificare lo statuto», ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, autorizzerebbe solo l'approvazione di uno statuto organico e la sua successiva

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modifica, ma non comprenderebbe la possibilità di emendare lo statuto ancora vigente, approvato con legge statale. La molteplicità di atti normativi autodefinentisi statuti - ragiona la difesa erariale - in assenza di uno statuto interamente prodotto dalla Regione potrebbe far sorgere difficoltà interpretative insormontabili e rendere oscuro il disegno istituzionale complessivo sia al Governo, legittimato a ricorrere innanzi alla Corte Costituzionale, sia al corpo elettorale nell'eventuale fase referendaria. Nessuno di tali rilievi può essere accolto, a partire dalla idea alla quale la censura è ispirata, che guarda ai vecchi e tuttora vigenti statuti come pura espressione di potestà statale e non ravvisa in essi, nella sostanza, una manifestazione di autonomia regionale, nonostante la loro imputazione formale e nonostante i limiti assai più pregnanti entro i quali li costringeva l'originaria formulazione dell'articolo 123 della Costituzione. Deliberati dal Consiglio regionale, quegli statuti erano bensì approvati con legge statale, ma non potevano da questa essere emendati né successivamente modificati unilateralmente. Si può certo dire che le norme in essi contenute non erano interamente disponibili dalle Regioni, ma oggi, dopo l'innovazione introdotta dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, lo sono divenute: solo la legge regionale, con il peculiare procedimento previsto dal nuovo articolo 123 della Costituzione, può modificarle o sostituirle. Se esse sono destinate a sopravvivere in tutto o in parte e per un periodo transitorio più o meno lungo, ciò accade per una scelta ascrivibile alla Regione. E se ne può dedurre che il vecchio contenuto degli statuti risultante dalle leggi statali di approvazione e quello nuovo che prenderà vita nelle future deliberazioni statutarie sono unificati dal potere, che solo alle Regioni è attribuito, di disporne: ciò che li rende, nel loro insieme e senza possibilità alcuna di distinguerli in ragione della diversa provenienza, espressione di autonomia. Quanto poi all'argomento speso dalla difesa statale, per il quale la frammentarietà di plurimi interventi di revisione statutaria creerebbe disorientamento nell'elettorato e nel Governo perché renderebbe incerto e precario il disegno riformatore complessivo, si tratta di un rilievo inidoneo a fondare un onere costituzionale di revisione totale degli statuti regionali vigenti e che mostra la sua inconsistenza se appena si considera che anche in riferimento al procedimento di revisione costituzionale è fisiologico, e comunque comprovato dalla prassi applicativa dell'art. 138 della Costituzione, che l'elettorato possa essere chiamato a pronunciarsi su proposte di revisione parziale. Del resto una limitazione tanto grave della potestà normativa regionale di grado più elevato, che resterebbe paralizzata finché non prendesse forma nella approvazione di un testo integralmente sostitutivo di quello vigente, non potrebbe certo essere affermata argomentando da presunti inconvenienti pratici derivanti dall'esercizio frazionato dell'autonomia statutaria. In assenza di statuizioni costituzionali esplicite che siano dirette a limitarne la portata, il conferimento alle Regioni di tale autonomia non può non incorporare il potere di determinarne le modalità ed i tempi di esercizio. 4. - Con una seconda censura, il Governo lamenta che la deliberazione statutaria impugnata, nel prevedere che in via transitoria, e segnatamente fino alla approvazione del nuovo statuto regionale, il vicepresidente della Giunta regionale subentra al Presidente nell'esercizio delle relative funzioni, nel caso di morte o impedimento permanente di quest'ultimo, sarebbe in contrasto con gli artt. 122, ultimo comma, e 126, terzo comma, Cost., nonché con l'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1. La questione è fondata. L'art. 126, terzo comma, della Costituzione dispone: «L'approvazione della mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e diretto, nonché la rimozione, l'impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso comportano le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio». Analoga è la formulazione dell'art. 5, comma 2, lettera b), della legge costituzionale n. 1 del 1999, dettato in relazione al periodo transitorio ("fino alla entrata in vigore dei nuovi statuti"). Il significato delle due disposizioni è evidente: con esse si tende a garantire, mediante il vincolo del simul stabunt, simul cadent, la stabilità dell'esecutivo regionale. Identiche nella ratio, le due previsioni normative si differenziano per la loro sfera temporale di operatività. L'art. 5, comma 2, lettera b), contiene la disciplina transitoria, destinata a permanere fino a quando, nell'esercizio dell'autonomia statutaria loro riconosciuta

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dall'art. 123, primo comma, le Regioni compiranno la scelta in ordine alla propria forma di governo. Solo in quel caso sarà loro consentito esercitare la facoltà prevista dall'ultimo comma dell'art. 126 e optare per un sistema di elezione del Presidente della Giunta regionale diverso dal suffragio diretto, ciò che le scioglierà dall'osservanza del vincolo costituzionale di cui si parla. Non vale l'obiezione della difesa regionale secondo cui il sistema elettorale che l'art. 5, comma 1, della legge costituzionale n. 1 del 1999 impone alle Regioni fino alla adozione dei nuovi statuti e delle nuove leggi elettorali non darebbe luogo ad una vera e propria elezione del Presidente della Giunta a suffragio diretto. Quale che sia la risposta tecnicamente corretta a tale quesito, il fatto stesso che anche per il periodo transitorio si sia inteso rendere operante il principio del simul stabunt, simul cadent dimostra che, nella valutazione del legislatore costituzionale, l'elezione del Presidente della Giunta è assimilabile, quanto a legittimazione popolare acquisita dall'eletto, ad una vera e propria elezione a suffragio diretto. Neppure rileva in questa sede il prospettato problema se, per compiere autonome scelte circa il proprio sistema elettorale, le Regioni debbano attendere la determinazione dei principi fondamentali da parte della legge statale, ai sensi dall'art. 122, primo comma, Cost., o se, di fronte all'inerzia del legislatore nazionale, possano desumere tali principi dalle leggi statali attualmente vigenti. 5. - Alla luce delle considerazioni fin qui svolte è agevole verificare se la deliberazione statutaria impugnata debba essere scrutinata sul parametro dell'art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999 o se, come sostiene la difesa regionale, il regime da tale disposizione previsto sia venuto a cessare proprio a causa dell'esercizio, seppure parziale, della potestà statutaria. E' sufficiente a tal fine rilevare che la Regione Marche, con la sua parziale innovazione statutaria, non ha operato quella diversa scelta in ordine alla forma di governo regionale che sola avrebbe potuto esonerarla dall'osservanza della regola stabilizzatrice che la Costituzione e la disciplina transitoria impongono nel caso di elezione diretta del vertice dell'esecutivo. Con lo stabilire che, nel caso di morte o impedimento permanente del Presidente della Giunta, non si proceda a scioglimento del Consiglio ed a nuove elezioni, ma gli subentri un vicepresidente, la disposizione censurata comporta una puntuale violazione della disposizione di rango costituzionale contenuta nel più volte menzionato art. 5, comma, 2, lettera b). La circostanza che la deliberazione impugnata sia stata adottata nella forma statutaria non vale a superare il vizio di legittimità dal quale essa è affetta. L'articolo 123 della Costituzione assoggetta attualmente la potestà statutaria regionale al solo limite dell'"armonia con la Costituzione" con formulazione meno stringente di quella precedente, che richiedeva anche l'armonia con le "leggi della Repubblica". Da ciò la difesa regionale ha tratto argomento per sostenere che il limite di legittimità degli statuti dovrebbe essere riferito ai valori di fondo che ispirano la Costituzione. L'armonia, si ragiona, esigerebbe solo che lo statuto non sia «orientato contro la Costituzione» e non ne pregiudichi i principi generali, ma non escluderebbe la possibilità di derogare a sue singole norme. Neppure questo ordine di considerazioni può essere accolto. Il riferimento all'"armonia", lungi dal depotenziarla, rinsalda l'esigenza di puntuale rispetto di ogni disposizione della Costituzione, poiché mira non solo ad evitare il contrasto con le singole previsioni di questa, dal quale non può certo generarsi armonia, ma anche a scongiurare il pericolo che lo statuto, pur rispettoso della lettera della Costituzione, ne eluda lo spirito. Tutto in conclusione può dirsi della deliberazione statutaria in questione, adottata in aperto contrasto con la disciplina costituzionale transitoria dell'art. 5, comma 2, lettera b), tranne che essa sia "in armonia" con la Costituzione. Per questi motivi La Corte Costituzionale

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dichiara l'illegittimità costituzionale della deliberazione legislativa statutaria adottata, in seconda votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio regionale della Regione Marche e recante "Disciplina transitoria in attuazione dell'articolo 3 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1". Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2002.

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Sent 19 giugno 2002, n. 282

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 13 novembre 2001, n. 26, recante "Sospensione della terapia elettroconvulsivante, della lobotomia prefrontale e transorbitale e altri simili interventi di psicochirurgia", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 17 gennaio 2002, depositato in cancelleria il 25 successivo ed iscritto al n. 3 del registro ricorsi 2002. Visto l'atto di costituzione della Regione Marche; udito nell'udienza pubblica del 21 maggio 2002 il Giudice relatore Valerio Onida; uditi l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche. Ritenuto in fatto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 17 gennaio 2002 e depositato il successivo 25 gennaio, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 13 novembre 2001, n. 26, recante "Sospensione della terapia elettroconvulsivante, della lobotomia prefrontale e transorbitale e altri simili interventi di psicochirurgia", assumendo, in via principale, la violazione degli artt. 2, 32, 33, primo comma, e 117, secondo comma, lettere l) (ordinamento civile e penale) e m), della Costituzione e, in via logicamente subordinata, ove si ravvisasse una competenza concorrente della Regione, dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione (professioni, tutela della salute) e dei principi recati dalle norme interposte quali quelle contenute negli artt. 1, 2, 3 e 5 della legge 13 maggio 1978, n. 180 (Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori), negli artt. 33, 34 e 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), negli artt. 1 e 14 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), e negli artt. 112, 113, 114 e 115 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della l. 15 marzo 1997, n. 59.) Il ricorrente premette che "la finalità di tutelare la salute dei cittadini e garantire l'integrità fisica della persona", che l'art. 1 della legge regionale impugnata dichiara di perseguire, è condivisibile, ma che il suo perseguimento non è riservato alla Regione Marche, neppure all'interno del territorio regionale; e nota poi che l'art. 2 della stessa legge regionale sospende d'imperio l'applicazione della terapia elettroconvulsivante (TEC) e la pratica degli interventi di psicochirurgia, e che tale sospensione parrebbe a sua volta condizionata, dovendo cessare - non è chiaro se automaticamente od invece mediante un qualche atto ricognitivo della Regione - se e quando il Ministero della salute, previa elaborazione di "protocolli specifici", avrà definito "in modo certo e circostanziato" - non è chiaro a giudizio di quale organo od ente - che detta terapia o pratica è "sperimentalmente dimostrata" efficace, risolutiva e non produttiva di danni alla salute. Secondo il ricorrente, tali norme, oltre a comprimere in modo "dirigistico" l'autonomia scientifica e professionale dei sanitari e delle strutture preposti alla cura della salute ed a contrastare con il principio secondo cui i trattamenti sanitari sono volontari salvo tassative eccezioni consentite dalla legge, invaderebbero la competenza legislativa esclusiva dello Stato, come attribuita dall'art. 115, comma 1, lettere

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b) ed e), del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 e da ultimo dall'117, secondo comma, lettere l (ordinamento civile e penale) e m, della Costituzione. Esse, infatti, atterrebbero alla preferibilità, qualità ed "appropriatezza" (così nell'art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, come sostituito dal D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229) di alcune cure, e quindi al diritto sostanziale alla salute, e non agli aspetti strumentali, quali l'organizzazione e la gestione di presidî e strutture sanitari e più in generale del "servizio" sanitario. Si sarebbe quindi nell'area concettuale dei diritti fondamentali della persona "paziente" ( artt. 2 e 32 della Costituzione) e nella contigua area delle responsabilità (anche civilistiche) degli esercenti le professioni sanitarie e, in qualche misura, delle linee di ricerca degli studiosi dediti alla scienza medica ( art. 33, primo comma, della Costituzione): aree che spetterebbe allo Stato sia configurare sia disciplinare. Il Governo della Repubblica, dunque, nega che ciascun legislatore regionale possa, e per di più senza l'apporto di adeguate istituzioni tecnico-specialistiche, dare indicazioni su singole terapie, e così incidere su fondamentali diritti di personalità dei cittadini ed anche su regole poste dal codice civile. Inoltre, l'ammissione, o l'ammissione iuxta modum, o il divieto di singole terapie per considerazioni di tipo sanitario, non potrebbe dipendere dalla volontà di questo o quel legislatore regionale, essendo decisione collocata in un momento logicamente preliminare persino rispetto alla determinazione - di competenza statale - dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza sanitaria (art. 117, secondo comma, lettera m, della Costituzione e art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502.) Inoltre, le disposizioni regionali in esame altererebbero le regole della responsabilità civile contrattuale ed extracontrattuale, in violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l) (ordinamento civile e penale), della Costituzione. In definitiva, la competenza regionale inizierebbe per così dire "a valle" della conformazione dei diritti della personalità e dei diritti patrimoniali dei cittadini. Ancora, sarebbe tuttora conforme a Costituzione l'art. 115, comma 2, del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, che ha confermato la competenza statale per la produzione del "corpo" di regole generali deputate a modellare gli interventi terapeutici. Per quanto non disposto dallo Stato dovrebbero valere solo le "regole dell'arte" e della scienza medica, eventualmente evidenziate e convalidate da documenti ufficiali delle autorità sanitarie. Infine, sarebbe ancora conforme a Costituzione l'art. 47-ter del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, che conferma il permanere della competenza statale in tema di "indirizzi generali e coordinamento in materia di prevenzione diagnosi cura e riabilitazione delle malattie umane". In via logicamente subordinata, ove si ravvisasse una competenza concorrente della Regione, il ricorrente denuncia comunque la violazione, da parte della legge impugnata, del limite dei "principi fondamentali", la cui determinazione è oggi riservata dall'art. 117, terzo comma, della Costituzione alla legislazione dello Stato. Secondo il Presidente del Consiglio, infatti, la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 dovrebbe essere letta in continuità con il passato, e dunque dovrebbero ancora oggi considerarsi e valorizzarsi i principi desumibili dalle norme statali interposte invocate all'inizio del ricorso. Infine, il ricorrente ricorda che, a seguito di intesa in Conferenza unificata, è stato approvato, con D.P.R. 10 novembre 1999, un progetto obiettivo "Tutela salute mentale" 1998-2000 nel quale, fra l'altro, si individua la salute mentale fra le tematiche ad alta complessità, per le quali si ritiene necessaria l'elaborazione di specifici atti statali di indirizzo. 2. - Si è costituita in giudizio la Regione Marche, chiedendo che il ricorso governativo venga dichiarato infondato e depositando alcuni documenti. La difesa regionale premette, fra l'altro, che la legge impugnata è stata proposta da un consigliere regionale per rispondere ad una sollecitazione proveniente da un appello popolare, sottoscritto da più di tremila cittadini e da diverse associazioni; che la richiesta di proibire l'elettroshock corrispondeva ad una ampia discussione in tutti i livelli dell'opinione pubblica e degli organismi scientifici nazionali ed internazionali (organismi citati nella proposta di legge); che al fine di limitare l'utilizzo di tale terapia era intervenuta anche la circolare del Ministero della sanità del 15 febbraio 1999; e che la proposta di legge veniva valutata

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favorevolmente anche in relazione alla necessità di applicare in materia il principio di precauzione di cui all'art. 174 del Trattato istitutivo dell'Unione europea. Formulando riserva di ulteriori e più complete deduzioni, la difesa regionale osserva che la legge impugnata interviene nell'ambito della tutela della salute, rispetto alla quale vi è una competenza legislativa concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione. Secondo la difesa regionale, non si potrebbe dire che la Regione non possa intervenire con propria normativa legislativa in tale materia, senza che siano stati fissati preventivamente i principi fondamentali da parte della legislazione statale. La legge regionale impugnata costituirebbe l'adozione di una misura cautelare che lo Stato non avrebbe in alcun modo impedito, mediante l'emanazione di principi fondamentali che la vietino; né si potrebbe ritenere che la Regione debba attendere l'intervento dello Stato prima di applicare, con riferimento al suo territorio, una misura cautelare ritenuta indispensabile, stante l'accertata pericolosità dell'intervento terapeutico. Quanto alla dedotta violazione dell'art. 117, secondo comma, lettere l e m, della Costituzione, la difesa regionale afferma che la legge impugnata non fissa uno standard in materia di prestazioni sanitarie, ma si limita a disporre la sospensione di alcune terapie, nell'attesa che, con adeguati protocolli stabiliti dallo Stato, venga chiarita la portata degli eventuali effetti lesivi. L'applicazione del principio di precauzione, inoltre, non inciderebbe nel quadro delle responsabilità contrattuali ed extracontrattuali, che anzi verrebbero prevenute ed evitate. Infondate sarebbero infine sia le censure che contestano alla Regione la possibilità di intervenire a tutela dei diritti della persona e della salute dei cittadini, in quanto la legge impugnata introdurrebbe una misura di carattere temporaneo e precauzionale, dettata anche dalla necessità di impedire l'utilizzazione di terapie ritenute ormai unanimemente di grave pericolo per la salute dei cittadini; sia quelle relative all'art. 33, primo comma, della Costituzione, in quanto la legge regionale non inciderebbe in alcun modo sulla autonomia della ricerca scientifica, limitandosi a sollecitarla al fine di consentire un'adeguata valutazione degli effetti di questa particolare terapia sui pazienti. 3. - Nell'imminenza dell'udienza ha depositato memoria la sola Regione resistente, allegando alcuni documenti. La difesa regionale ricorda innanzitutto che alla base della legge impugnata c'è la necessità di sospendere, in base al principio di precauzione, che in ambito comunitario si intende applicabile particolarmente nei settori della protezione della salute e dell'ambiente, l'utilizzo di terapie circondate da ampi e controversi margini di incertezza, tanto in relazione all'efficacia terapeutica quanto in relazione ai possibili effetti collaterali dannosi per la salute del paziente, come lo stesso Ministro della sanità avrebbe riconosciuto (quanto alla terapia elettroconvulsivante). La legge regionale interviene quindi, secondo la difesa regionale, in materia di tutela della salute, nella quale non vi è dubbio che la Regione disponga di una potestà legislativa concorrente, salvi naturalmente i limiti derivanti dall'esistenza di alcune materie "trasversali" di potestà legislativa statale, come quelle di cui alle lettere l ed m del secondo comma dell'art. 117 della Costituzione. Tuttavia, la censura relativa alla violazione della competenza statale in materia di "determinazione dei livelli essenziali" sarebbe infondata anche per la constatata assenza di una legge statale che fissi il livello essenziale delle prestazioni in questione, o comunque di un qualunque riferimento sul piano della legislazione statale all'adozione delle pratiche elettroconvulsivanti. Anche infatti ad ammettere, in ipotesi, che lo Stato possa definire in concreto i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali in un atto sub-legislativo o in un atto amministrativo, non si potrebbe dubitare che tali atti dovrebbero necessariamente rispettare il principio di legalità sostanziale, per il quale alla legge statale si impone l'obbligo di circoscrivere adeguatamente nei contenuti l'ambito di intervento delle fonti sub-legislative o delle determinazioni amministrative nell'ipotesi che queste intendano vincolare la legge regionale. Solo così, del resto, potrebbe ritenersi rispettato il modello di riparto delle funzioni legislative definito nel nuovo art. 117 della Costituzione, che non ammetterebbe alcuna limitazione della potestà legislativa regionale proveniente da atti dello Stato diversi dalle fonti primarie.

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Non si avrebbe neanche lesione della potestà legislativa statale in materia di "ordinamento civile e penale", in quanto le figure di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale legate all'adozione delle terapie non verrebbero in alcun modo alterate. In particolare, la legge regionale non modificherebbe il regime giuridico di quelle responsabilità, che continuerebbe ad essere disciplinato dalla legge statale, ma semplicemente ne limiterebbe l'insorgenza, come farebbe qualsiasi altra legge regionale che sospendesse o vietasse alcuni servizi rientranti in funzioni amministrative relative a materie su cui la Regione ha competenza legislativa. Inoltre, la legge regionale impugnata risponderebbe ad entrambi i requisiti da ultimo individuati dalla giurisprudenza costituzionale per escludere la violazione del limite del diritto privato, e cioè che l'adattamento operato dalla legge regionale sia in stretta connessione con la materia di competenza regionale e risponda al criterio di ragionevolezza, che vale a soddisfare il rispetto del principio di eguaglianza. Non sarebbe fondata neppure la censura relativa alla violazione dei principi fondamentali della materia, perché la legislazione dello Stato non conterrebbe, al momento attuale, alcun principio ostativo alla sospensione disposta dalla legge regionale, né tale principio potrebbe ritrovarsi nella previsione, contenuta nel piano sanitario nazionale, dell'erogazione delle prestazioni sanitarie sospese, in quanto il piano sanitario ha natura di fonte sub-legislativa, mentre ora l'art. 117, terzo comma, della Costituzione prevede espressamente che la determinazione dei principi fondamentali avvenga con fonte statale di rango legislativo. Né si potrebbe dire che la Regione sia tenuta, in base al principio di leale collaborazione, all'osservanza del piano, in quanto adottato dallo Stato d'intesa con la Conferenza unificata; o che la Regione non possa intervenire con propria normativa legislativa in tale materia, senza che siano stati fissati preventivamente i principi fondamentali da parte della legislazione statale. Non si potrebbe infatti ritenere che la Regione debba attendere l'intervento dello Stato prima di applicare, con riferimento al suo territorio, una misura cautelare ritenuta indispensabile, perché si tratterebbe di una inammissibile compressione delle competenze del legislatore regionale determinata da una semplice inerzia del legislatore statale. Infondata sarebbe anche la censura relativa all'art. 33, primo comma, della Costituzione, in quanto la legge regionale si limiterebbe a sollecitare la ricerca scientifica al fine di consentire un'adeguata valutazione degli effetti di queste particolari terapie sui pazienti. Il valore costituzionale dell'autonomia della ricerca scientifica verrebbe anzi presupposto dalla legge regionale che, sospendendo l'applicazione delle terapie, mostra di volere subordinare - per lo meno cronologicamente - la scelta organizzativa in ordine alla prestazione dei relativi servizi sanitari ai risultati che la ricerca stessa saprà offrire. Infine, la difesa regionale rileva che, in un sistema quale quello vigente a seguito della riforma del Titolo V della parte II della Costituzione, negare alla Regione la facoltà, nell'organizzazione del servizio sanitario regionale, di sospendere alcune terapie, rispetto alle quali è in corso una sperimentazione volta ad escluderne gli eventuali effetti lesivi, significa comprimere inammissibilmente l'autonomia finanziaria di spesa della Regione, che si vedrebbe altrimenti costretta a sopportare i costi di un servizio relativo a pratiche terapeutiche di cui lo stesso Stato, a mezzo della sperimentazione disposta e non terminata, non ha ancora escluso la potenziale dannosità; e, inoltre, in un caso come quello di specie, la sospensione disposta dalla legge regionale impugnata risponderebbe all'insopprimibile esigenza di evitare l'insorgenza in capo alla Regione di pesanti disavanzi di bilancio derivanti dalla necessità di risarcire i pazienti del Servizio sanitario per i danni causati dall'erogazione delle relative prestazioni. Considerato in diritto 1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, ai sensi dell'art. 127, primo comma, della Costituzione, ed entro il termine ivi stabilito, decorrente dalla pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione, questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli articoli 2, 32, 33, primo comma, 117, secondo comma, lettere l ed m, e terzo comma, nonché ai principi ricavati da norme contenute in leggi statali - della legge regionale delle Marche 13 novembre 2001, n. 26, recante "Sospensione della terapia elettroconvulsivante, della lobotomia prefrontale e transorbitale ed altri simili interventi di psicochirurgia". La legge impugnata, dopo avere, all'art. 1, enunciato generiche finalità di tutela della salute e di garanzia della integrità psicofisica delle persone - finalità che lo stesso ricorrente riconosce come condivisibili, pur

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sostenendo che il loro perseguimento non è riservato alla Regione -, all'art. 2 dispone che "è sospesa, su tutto il territorio della regione", da un lato "l'applicazione della terapia elettroconvulsivante (TEC)" (comma 1), dall'altro lato "la pratica della lobotomia prefrontale e transorbitale ed altri simili interventi di psicochirurgia" (comma 2): in entrambi i casi "fino a che il Ministero della salute non definisca in modo certo e circostanziato le situazioni cliniche per le quali tale terapia [rispettivamente la TEC, o c.d. elettroshock, e la pratica degli accennati interventi di psicochirurgia], applicata secondo protocolli specifici, è sperimentalmente dimostrata efficace e risolutiva e non è causa di danni temporanei o permanenti alla salute del paziente". Secondo il ricorrente tale disciplina, attinente alla qualità e "appropriatezza" delle cure, e non all'organizzazione e gestione del servizio sanitario, invaderebbe l'area della legislazione statale "esclusiva" definita dall'art. 117, secondo comma, lettera l (ordinamento civile e penale) e lettera m (determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale), incidendo sui diritti fondamentali della persona "paziente" ( artt. 2 e 32 Cost.) e sulle responsabilità, anche civilistiche, degli esercenti le professioni sanitarie (oltre che, "in qualche misura", sulla ricerca medica, al cui proposito si cita l'art. 33, primo comma, Cost.). La decisione circa l'ammissione o il divieto di singole terapie si collocherebbe in un momento "logicamente preliminare" anche rispetto alla determinazione, di competenza statale, dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza sanitaria. Sarebbero perciò tuttora conformi alla Costituzione l'art. 115, comma 1, del D.Lgs. n. 112 del 1998, che conserva in capo allo Stato le funzioni relative alla adozione del piano sanitario nazionale (lettera a), alla adozione di "norme, linee-guida e prescrizioni tecniche di natura igienico-sanitaria" relative fra l'altro ad "attività" (lettera b), alla approvazione di istruzioni tecniche su tematiche di interesse nazionale (lettera d), alla definizione dei criteri per l'esercizio delle attività sanitarie (lettera f : è menzionata anche, ma evidentemente per errore, la lettera e, in tema di ispezioni); nonché l'art. 47-ter del D.Lgs. n. 300 del 1999, aggiunto dall'art. 11 del D.L. n. 217 del 2001, convertito dalla legge n. 317 del 2001, che attribuisce al Ministero della salute gli indirizzi generali e il coordinamento in materia di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione delle malattie umane (lettera a), e l'adozione di norme, linee guida e prescrizioni tecniche di natura igienico-sanitaria (lettera b). Per quanto non disposto dallo Stato, dovrebbero valere solo le regole dell'arte e della scienza medica, eventualmente convalidate da documenti ufficiali delle autorità sanitarie. In subordine, il ricorrente ritiene che la legge impugnata, ove ritenuta afferente a materia di competenza concorrente della Regione, sarebbe ugualmente illegittima in quanto contrastante con i principi fondamentali che si desumerebbero dalle leggi statali vigenti, e in particolare dagli articoli 1, 2, 3 e 5 della legge n. 180 del 1978 e dagli articoli 33, 34 e 35 della legge n. 833 del 1978, in tema di trattamenti sanitari obbligatori, dagli articoli 1 (in tema di programmazione sanitaria e livelli essenziali e uniformi di assistenza) e 14 (in tema di diritti dei cittadini utenti del servizio sanitario) del D.Lgs. n. 502 del 1992 e successive modificazioni, e ancora dagli articoli 112, 113, 114 e 115 del D.Lgs. n. 112 del 1998, in tema di riparto delle funzioni in materia di tutela della salute. 2. - La legge impugnata, nel suo contenuto dispositivo sostanziale, prevede la obbligatoria "sospensione" - cioè il divieto, sia pure temporaneo - di determinate pratiche terapeutiche in tutto il territorio regionale. Essa non ha come destinatarie le strutture del servizio sanitario regionale, ma si riferisce alla pratica clinica, dovunque e da chiunque svolta. Il divieto - che il legislatore regionale risulta avere sancito anche sulla base di una iniziativa popolare, sfociata pure in altre Regioni nell'adozione di discipline in parte analoghe (cfr. ordinanza n. 228 del 2002, che dichiara improcedibile il giudizio già instaurato nei confronti di una delibera legislativa della Regione Piemonte in argomento), e motivata dall'assunto per cui le pratiche terapeutiche in questione non sarebbero di provata efficacia e potrebbero invece essere causa di danni ai pazienti - non si correla ad un autonomo accertamento, effettuato o recepito dal legislatore regionale, circa gli effetti delle pratiche terapeutiche considerate, né muove dal presupposto che siffatti accertamenti possano o debbano essere compiuti da organi o strutture regionali: il divieto sarebbe, secondo la stessa previsione legislativa, destinato a durare solo fino a quando l'organo statale competente, cioè il Ministero della salute, non definisca le situazioni cliniche per le quali dette terapie risultino sperimentalmente efficaci e non dannose per i pazienti, e non determini i protocolli specifici per la loro applicazione. La Regione in sostanza ha ritenuto di poter sancire il divieto a titolo precauzionale, in attesa di indicazioni ministeriali (che peraltro, per quanto riguarda la terapia

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elettroconvulsivante, non sono del tutto assenti: la stessa relazione al disegno di legge regionale poi approvato ricorda la nota 15 febbraio 1999 del Ministero della sanità, in cui, fra l'altro, si specificano le limitate indicazioni d'uso per questa che viene considerata "ancora oggi un'opzione terapeutica", nonché controindicazioni, modalità di attuazione, necessità di protocolli esecutivi, procedure di consenso informato). 3. - La risposta al quesito, se la legge impugnata rispetti i limiti della competenza regionale, ovvero ecceda dai medesimi, deve oggi muovere - nel quadro del nuovo sistema di riparto della potestà legislativa risultante dalla riforma del Titolo V, parte II, della Costituzione realizzata con la legge costituzionale n. 3 del 2001 - non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell'intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale. Il ricorrente lamenta la invasione di aree che apparterrebbero alla legislazione statale esclusiva, ai sensi del nuovo testo dell'art. 117, secondo comma, della Costituzione. Precisamente, da un lato, si tratterebbe di una disciplina incidente sull'"ordinamento civile" (lettera l), in quanto altererebbe indirettamente le regole della responsabilità civile degli operatori sanitari; dall'altro lato, si verterebbe in materia di diritti fondamentali dei pazienti, con decisioni che sarebbero logicamente preliminari alla "determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" (lettera m). Con riguardo a queste censure, si deve escludere che ogni disciplina, la quale tenda a regolare e vincolare l'opera dei sanitari, e in quanto tale sia suscettibile di produrre conseguenze in sede di accertamento delle loro responsabilità, rientri per ciò stesso nell'area dell'"ordinamento civile", riservata al legislatore statale. Altro sono infatti i principi e i criteri della responsabilità, che indubbiamente appartengono a quell'area, altro le regole concrete di condotta, la cui osservanza o la cui violazione possa assumere rilievo in sede di concreto accertamento della responsabilità, sotto specie di osservanza o di violazione dei doveri inerenti alle diverse attività, che possono essere disciplinate, salva l'incidenza di altri limiti, dal legislatore regionale. Quanto poi ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, non si tratta di una "materia" in senso stretto, ma di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull'intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle. Nella specie la legge impugnata non riguarda tanto livelli di prestazioni, quanto piuttosto l'appropriatezza, sotto il profilo della loro efficacia e dei loro eventuali effetti dannosi, di pratiche terapeutiche, cioè di un'attività volta alla tutela della salute delle persone, e quindi pone il problema della competenza a stabilire e applicare i criteri di determinazione di tale appropriatezza, distinguendo fra ciò che è pratica terapeutica ammessa e ciò che possa ritenersi intervento lesivo della salute e della personalità dei pazienti, come tale vietato. Sono coinvolti bensì fondamentali diritti della persona, come il diritto ad essere curati e quello al rispetto della integrità psico-fisica e della personalità del malato nell'attività di cura, ma, più che in termini di "determinazione di livelli essenziali", sotto il profilo dei principi generali che regolano l'attività terapeutica. 4. - Il punto di vista più adeguato, dunque, per affrontare la questione è quello che muove dalla constatazione che la disciplina in esame concerne l'ambito materiale della "tutela della salute", che, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, costituisce oggetto della potestà legislativa concorrente delle Regioni, la quale si esplica nel rispetto della competenza riservata allo Stato per la "determinazione dei principi fondamentali". È proprio il contrasto della legge impugnata con i principi fondamentali della materia, a norma dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, ad essere denunciato, in via subordinata, dal ricorrente. La questione è fondata. La nuova formulazione dell'art. 117, terzo comma, rispetto a quella previgente dell'art. 117, primo comma, esprime l'intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina. Ciò non significa

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però che i principi possano trarsi solo da leggi statali nuove, espressamente rivolte a tale scopo. Specie nella fase della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore. Non può ingannare la circostanza che non si rinvengano norme di legge statale esplicitamente volte a disciplinare l'ammissibilità delle pratiche terapeutiche in esame, o delle pratiche terapeutiche in generale. Anzi l'assenza di siffatte statuizioni legislative concorre a definire la portata dei principi che reggono la materia, e che, nella specie, non possono non ricollegarsi anzitutto allo stesso sistema costituzionale. La pratica terapeutica si pone, come già si è accennato, all'incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell'arte medica; e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica, diritto questo che l'art. 32, secondo comma, secondo periodo, della Costituzione pone come limite invalicabile anche ai trattamenti sanitari che possono essere imposti per legge come obbligatori a tutela della salute pubblica. Questi diritti, e il confine fra i medesimi, devono sempre essere rispettati, e a presidiarne l'osservanza in concreto valgono gli ordinari rimedi apprestati dall'ordinamento, nonché i poteri di vigilanza sull'osservanza delle regole di deontologia professionale, attribuiti agli organi della professione. Salvo che entrino in gioco altri diritti o doveri costituzionali, non è, di norma, il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche ammesse, con quali limiti e a quali condizioni. Poiché la pratica dell'arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione, la regola di fondo in questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione. Autonomia del medico nelle sue scelte professionali e obbligo di tener conto dello stato delle evidenze scientifiche e sperimentali, sotto la propria responsabilità, configurano dunque un altro punto di incrocio dei principi di questa materia. A questi principi si riconduce anche il codice di deontologia medica (3 ottobre 1998), che l'organismo nazionale rappresentativo della professione medica si è dato come "corpus di regole di autodisciplina predeterminate dalla professione, vincolanti per gli iscritti all'Ordine che a quelle norme devono quindi adeguare la loro condotta professionale". Come afferma l'art. 12 (Prescrizione e trattamento terapeutico) di tale codice, "al medico è riconosciuta piena autonomia nella programmazione, nella scelta e nella applicazione di ogni presidio diagnostico e terapeutico (~), fatta salva la libertà del paziente di rifiutarle e di assumersi la responsabilità del rifiuto stesso"; ma "le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche (~), sempre perseguendo il beneficio del paziente"; e "il medico è tenuto ad una adeguata conoscenza (~) delle caratteristiche di impiego dei mezzi terapeutici e deve adeguare, nell'interesse del paziente, le sue decisioni ai dati scientifici accreditati e alle evidenze metodologicamente fondate", mentre "sono vietate l'adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e documentazione clinico-scientifica, nonché di terapie segrete". 5. - Tutto ciò non significa che al legislatore sia senz'altro preclusa ogni possibilità di intervenire. Così, ad esempio, sarebbe certamente possibile dettare regole legislative dirette a prescrivere procedure particolari per l'impiego di mezzi terapeutici "a rischio", onde meglio garantire - anche eventualmente con il concorso di una pluralità di professionisti - l'adeguatezza delle scelte terapeutiche e l'osservanza delle cautele necessarie. Ma un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l'elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi - di norma nazionali o sovranazionali - a ciò deputati, dato l'"essenziale rilievo" che, a questi fini, rivestono "gli organi tecnico-scientifici" (cfr. sentenza n. 185 del 1998); o comunque dovrebbe costituire il risultato di una siffatta verifica.

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A indirizzi e indicazioni di tal natura alludono del resto talune norme di legge che configurano in capo a organi statali compiti di "adozione di norme, linee guida e prescrizioni tecniche di natura igienico-sanitaria" (art. 114, comma 1, lettera b, del D.Lgs. n. 112 del 1998; art. 47-ter, comma 1, lettera b, del D.Lgs. n. 300 del 1999), o di "approvazione di manuali e istruzioni tecniche" (art. 114, comma 1, lettera d, del D.Lgs. n. 112 del 1998), o di "indirizzi generali e coordinamento in materia di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione delle malattie umane" (art. 47-ter, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 300 del 1999): norme che, indipendentemente dall'attualità del riparto di funzioni che esse realizzavano nel quadro dell'assetto costituzionale dei rapporti fra Stato e Regioni precedente alla legge costituzionale n. 3 del 2001, concorrono tuttora a configurare i principi fondamentali della materia. 6. - Nella specie, l'intervento regionale contestato dal Governo non si fonda né pretende di fondarsi su specifiche acquisizioni tecnico-scientifiche verificate da parte degli organismi competenti, ma si presenta come una scelta legislativa autonoma, dichiaratamente intesa a scopo cautelativo, in attesa di futuri accertamenti che dovrebbero essere compiuti dall'autorità sanitaria nazionale (in ordine ai quali, peraltro, il legislatore regionale non stabilisce, né avrebbe potuto stabilire alcunché): e ciò, per di più, riferendosi non già a terapie "nuove" o sperimentali (anzi, nella relazione della commissione consiliare al disegno di legge, è detto che l'ultimo trattamento di TEC praticato nelle Marche risale al 1992, e da allora esso "risulterebbe essere stato abbandonato"), bensì a pratiche conosciute e utilizzate da tempo (la citata nota 15 febbraio 1999 del Ministero della sanità riconduce al 1938 l'epoca in cui "fu inventata e proposta la TEC"), ancorché oggetto di considerazioni non sempre omogenee fra gli specialisti. 7. - La legge impugnata è dunque costituzionalmente illegittima. La dichiarazione di illegittimità costituzionale deve estendersi all'intera legge, in quanto, anche tenendo conto di ciò che risulta dal titolo della medesima, l'articolo 1, contenente una generica enunciazione di finalità, di per sé non eccedente la competenza della Regione, è privo di autonoma portata normativa, costituendo solo la premessa per l'adozione della misura sancita dall'articolo 2. Restano assorbiti gli altri profili di incostituzionalità denunciati, senza che questa Corte debba proporsi il problema della loro ammissibilità in base al nuovo articolo 127, primo comma, della Costituzione. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale della legge della Regione Marche 13 novembre 2001, n. 26 (Sospensione della terapia elettroconvulsivante, della lobotomia prefrontale e transorbitale ed altri simili interventi di psicochirurgia). Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2002.

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Sent. 9 maggio 2002, n. 196

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito del decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999 recante "Delimitazione del bacino idrografico del fiume Piave", promosso con ricorso della Provincia autonoma di Trento, notificato il 21 ottobre 2000, depositato in Cancelleria il 31 successivo ed iscritto al n. 51 del registro conflitti 2000. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri, nonché l'atto di intervento della Regione Veneto; udito nell'udienza pubblica del 20 novembre 2001 il Giudice relatore Fernanda Contri; uditi l'avvocato Sergio Panunzio per la Provincia autonoma di Trento, gli avvocati Andrea Pavanini e Federico Sorrentino per la Regione Veneto e l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso regolarmente notificato e depositato, la Provincia autonoma di Trento ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione al decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, recante "Delimitazione del bacino idrografico del fiume Piave", lamentando la lesione delle proprie attribuzioni costituzionalmente garantite, come definite dagli artt. 131 e 132 della Costituzione; 8, nn. 6, 18, 20 e 24 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige; 9, nn. 9 e 11, nonché 11, 14, 16, 68 e 107 dello stesso Statuto speciale; 8, comma 1, lettera e), del D.P.R. 20 gennaio 1973, n. 115 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di trasferimento alle province autonome di Trento e Bolzano dei beni demaniali e patrimoniali dello Stato e della Regione); 5, comma 1, del D.P.R. 22 marzo 1974, n. 381 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di urbanistica ed opere pubbliche). La Provincia ricorrente lamenta altresì la violazione dell'art. 97 della Costituzione e del principio di leale cooperazione, e chiede a questa Corte di dichiarare che "non spetta allo Stato, e neppure alle Autorità di bacino del Piave e dell'Adige, in sede di delimitazione del bacino idrografico del fiume Piave, definire la linea del confine amministrativo fra la Regione Veneto (Comune di Rocca Pietore) e la Provincia Autonoma di Trento (Comune di Canazei), né la linea di displuvio sul monte Marmolada in maniera difforme da quella già definitivamente accertata con il D.P.R. 29 maggio 1982 e con la successiva sentenza del Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 1361/81, del 23 ottobre 1998 (passata in giudicato)". La ricorrente chiede inoltre l'annullamento dell'atto ritenuto lesivo. Al D.P.R. 21 dicembre 1999, all'origine del presente conflitto, è allegata una cartografia nella quale il confine amministrativo fra i comuni di Canazei e di Rocca Pietore, e quindi fra la Provincia di Trento e la Regione Veneto, viene rappresentato come una linea retta che taglia diagonalmente il ghiacciaio della Marmolada. La ricorrente rileva che tale tracciato cartografico riproduce la "vecchia linea già contenuta in passato nella cartografia dell'I.G.M., che dapprima il D.P.R. 29 maggio 1982 ed infine la ... richiamata decisione del Consiglio di Stato ... hanno accertato essere errata, riconoscendo che il confine corre invece lungo la linea delle cime (o di displuvio)".

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L'impugnato decreto presidenziale e l'annessa cartografia, si legge nel ricorso, "prima ancora di definire il confine del bacino del Piave sulla Marmolada, definisce il confine amministrativo fra Provincia di Trento e Regione Veneto" in modo lesivo dell'integrità territoriale e, conseguentemente, delle attribuzioni costituzionalmente garantite della ricorrente, delle quali risulterebbe ridotto l'àmbito territoriale di esercizio. In particolare, "poiché la modificazione del confine amministrativo quale risultante dalla cartografia allegata al decreto presidenziale in questione determina il passaggio di una parte cospicua del ghiacciaio della Marmolada - che ai sensi dell'art. 8, comma 1, lettera e), del D.P.R. 20 gennaio 1973, n. 115 (come modificato dall'art. 1 del decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463) ... appartiene al demanio della Provincia di Trento - dal territorio della Provincia di Trento a quello della Regione Veneto, ne risultano ... lese le attribuzioni della Provincia ricorrente relative al proprio demanio, di cui all'art. 68, nonché 9, n. 9, dello Statuto, ed alle relative norme di attuazione (art. 8 del D.P.R. n. 115 del 1973)". Nel ricorso si osserva inoltre che, data l'identità, accertata con efficacia di giudicato, del confine amministrativo con la linea "di displuvio" (linea che congiunge le "cime" o le "creste" della Marmolada), modificare quest'ultima "non facendola più coincidere ... con la linea delle cime della catena principale della Marmolada significa al tempo stesso modificare (o pretendere di modificare) surrettiziamente il confine amministrativo fra i comuni di Rocca Pietore e di Canazei, e fra la Regione Veneto e la Provincia di Trento", in contrasto, tra l'altro, con l'art. 132, secondo comma, della Costituzione, oltre che in violazione del giudicato amministrativo. La Provincia di Trento censura poi il D.P.R. 21 dicembre 1999, nella parte in cui prevede procedure per definire una cartografia più dettagliata: all'art. 2, è previsto che, "ai fini della soluzione di problemi specifici, che potrebbero manifestarsi in corrispondenza delle linee di confine, soprattutto nelle zone ove i limiti di bacino intersecano i limiti amministrativi dei territori comunali, le Autorità di bacino e le regioni interessate provvedono ad una intesa tra loro per produrre idonea cartografia"; ma, con particolare riferimento ai confini in contestazione nel presente conflitto, l'art. 4 stabilisce che "l'Autorità di bacino del Piave, d'intesa con l'Autorità di bacino dell'Adige, redige apposita cartografia di dettaglio per definire la linea di displuvio nei territori dei comuni di Rocca Pietore (Belluno) e Canazei (Trento)", omettendo la previsione dell'intesa tra la Provincia autonoma e la Regione interessate. L'ulteriore definizione della linea di displuvio a norma dei citati artt. 2 e 4, "diretta a perfezionare e consolidare la falsa rappresentazione della linea di displuvio già contenuta nella cartografia allegata al decreto presidenziale", non può, lamenta la ricorrente, essere affidata alle Autorità di bacino. Lo Statuto speciale (artt. 9, n. 9, e 14) e le norme di attuazione in materia di acque pubbliche (art. 5 del D.P.R. 22 marzo 1974, n. 381, come modificato dall'art. 2 del decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463) prevedono infatti che "nella Provincia di Trento i piani di bacino di rilievo nazionale sono sostituiti dal 'Piano generale per l'utilizzazione delle acque pubbliche' previsto dall'art. 14 dello Statuto speciale", stabilito "d'intesa tra i rappresentanti dello Stato e della Provincia in seno a un apposito comitato" (art. 14, terzo comma, dello Statuto). Dallo Statuto e dalle norme di attuazione statutaria risulta pertanto che nella Provincia di Trento "la definizione dei confini dei bacini idrografici di rilievo nazionale non può spettare alle rispettive Autorità di bacino e neppure al solo Governo, ma deve essere effettuata 'd'intesa' fra lo Stato e la Provincia". D'altro canto, aggiunge la ricorrente, che invoca il principio di leale cooperazione e l'art. 97 della Costituzione, "anche a voler ammettere una competenza delle Autorità di bacino del Piave e dell'Adige a definire la linea di displuvio in questione, tale definizione non potrebbe comunque avvenire se non previa una 'intesa' con la Provincia Autonoma di Trento", come previsto del resto dallo stesso art. 2 del D.P.R. impugnato, disatteso "in modo palesemente contraddittorio" dal successivo art. 4. 2. - Nel giudizio davanti a questa Corte, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri per chiedere che il ricorso della Provincia autonoma di Trento sia dichiarato inammissibile o infondato. La difesa erariale premette che l'art. 4, comma 1, lettera b) della legge 18 maggio 1989, n. 183 attribuisce allo Stato il potere di delimitare i bacini idrografici di rilievo nazionale, e sulla base di tale previsione è stato adottato l'atto all'origine del conflitto.

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Nell'atto di costituzione, l'Avvocatura contesta anzitutto alla Provincia di aver inam-missibilmente promosso il conflitto sulla base di una "prospettazione artificiosa", lamentando una violazione del giudicato che avrebbe dovuto essere semmai sottoposta al giudice comune, ed esclude che l'impugnato decreto presidenziale possa surrettiziamente modificare i confini amministrativi della ricorrente: "come reso palese dal 'considerato' del preambolo e dall'art. 4, l'atto 'sub judice' ha fatto riserva di più esatta e dettagliata cartografia 'per definire la linea di displuvio nei territori dei comuni di Rocca Pietore e Canazei; ed ai fini idrografici è precisa l'espressione 'linea di displuvio', e non l'espressione 'linea delle cime' (peraltro le due formule di fatto coincidono)". Quanto all'affermazione del carattere lesivo dell'art. 4 del decreto presidenziale all'origine del conflitto, la difesa erariale rileva l'improprietà dell'invocazione, da parte della Provincia di Trento, del nuovo testo dell'art. 5 del D.P.R. 22 marzo 1974, n. 381, come modificato dall'art. 2 del decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463 (impugnato in via principale davanti a questa Corte dalla Regione Veneto), giacché tale disposizione, si legge nell'atto di costituzione, "concerne non già la delimitazione dei bacini idrografici bensì soltanto il piano per l'utilizzazione delle acque ed il piano di bacino". La conclusione dell'Avvocatura è che non esisterebbe una disposizione di attuazione statutaria che prevede l'intesa tra lo Stato e la Provincia per la delimitazione dei bacini idrografici: "una intesa in argomento è prevista dall'art. 2 dell'atto amministrativo occasione del conflitto, atto che però palesemente non è un parametro costituzionale". 3. - La Regione Veneto ha depositato un atto di intervento, per chiedere che il ricorso della Provincia autonoma di Trento sia dichiarato inammissibile o comunque rigettato, rinviando ad una successiva memoria ulteriori, più argomentate, deduzioni. 4. - In prossimità dell'udienza la parte ricorrente ha presentato una memoria, ribadendo le ragioni già sottolineate in sede di ricorso. In particolare, la difesa della Provincia autonoma di Trento sottolinea che il D.P.R. 21.12.1999 modifica surrettiziamente il tratto di confine controverso a favore della Regione Veneto, con conseguente lesione dell'integrità territoriale della Provincia di Trento, garantita dagli artt. 131 e 132 della Costituzione. La violazione dell'art. 132 della Costituzione risulterebbe ad avviso della ricorrente ancor più evidente in riferimento al nuovo tenore della disposizione costituzionale da ultimo invocata, in quanto la disciplina contenuta nell'art. 132 della Costituzione sulla procedura per le modificazioni delle circoscrizioni provinciali coinvolgenti più Regioni è stata resa ancor più complessa e rigorosa dalla modifica introdotta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione". La suddetta lesione dell'integrità territoriale della Provincia di Trento si manifesterebbe, dunque, per effetto della difforme definizione della linea di displuvio rispetto a quella già accertata dal Consiglio di Stato e dell'erroneo tracciato del confine amministrativo tra i due enti territoriali, in quanto non coincidente con la linea di displuvio ma segnato in linea retta. La lesione dell'integrità territoriale della Provincia di Trento, viene nuovamente dedotto nella memoria, si rifletterebbe poi negativamente sulle competenze legislative e amministrative da essa esercitate sul proprio territorio, per effetto della diminuzione territoriale determinata dall'atto. La ricorrente ribadisce infine che la previsione dell'art. 4 del D.P.R. in esame, attribuendo alla "intesa" fra le Autorità di bacino del Piave e dell'Adige la definizione "più dettagliata" della linea di displuvio, sarebbe in contrasto con le norme statutarie che richiedono che il piano generale per l'utilizzazione delle acque pubbliche sia stabilito d'intesa tra lo Stato e la Provincia (artt. 9, n. 9, e 14 dello Statuto del Trentino Alto Adige e relative norme di attuazione). L'argomentazione dell'Avvocatura secondo la quale le norme citate non sarebbero rilevanti in quanto concernenti l'utilizzazione delle acque e il piano di bacino e non invece la delimitazione del bacino idrografico, non considererebbe ad avviso della Provincia "la strettissima correlazione dei due aspetti, e cioè, la circostanza che la delimitazione del bacino è un'operazione preliminare e strettamente funzionale rispetto alla redazione dello stesso piano di bacino e, nella Provincia di Trento, del piano generale di utilizzazione delle acque pubbliche".

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5.- Nella memoria presentata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, si ribadiscono le ragioni della inammissibilità e dell'infondatezza del ricorso. In particolare, la difesa erariale rileva che la perimetrazione del bacino idrografico del Piave indicata nella cartografia non è contestata di per sé, ma in riferimento ad un segno "a segmenti continui", relativo ai confini tra i comuni di Canazei e di Rocca Pietore, da ritenersi estraneo all'oggetto del D.P.R. riguardante la delimitazione del bacino anzidetto e non la delimitazione dei territori comunali e perciò rispetto ad essa privo di qualsivoglia efficacia e rilevanza. D'altra parte, l'art. 2 del D.P.R. in esame tiene distinti "limiti di bacino" e "limiti amministrativi dei territori comunali" ed è preordinato soltanto alla delineazione dei limiti di bacino, così come l'art. 4 concerne soltanto la perimetrazione del bacino secondo la "linea di displuvio". La difesa erariale conclude quindi per la inammissibilità del primo motivo del ricorso, per carenza di interesse a ricorrere e per non pertinenza della doglianza rispetto all'oggetto ed al contenuto del D.P.R. occasione del conflitto. Quanto al secondo motivo di ricorso, la difesa erariale rinvia all'atto di costituzione, specificando che "la intesa tecnico-geografica prevista dal menzionato art. 4 è solo una modalità di concorde accertamento di fatti (fluire delle acque meteoriche) e certamente non può essere trasfigurata in momento di coordinamento, attraverso il consenso, di differenziati interessi politico-amministrativi". 6. - La Regione Veneto, che aveva depositato un atto d'intervento, in prossimità dell'udienza presenta una memoria nella quale, tra l'altro, specifica che il conflitto in oggetto, pur avendo la configurazione di conflitto di attribuzione con lo Stato, coinvolge anche le attribuzioni dell'interveniente, riguardando "pretese" territoriali che interessano il confine con il Veneto. L'accoglimento di siffatte "pretese" presupporrebbe non solo l'instaurazione del contraddittorio con detta Regione, ma finirebbe per incidere sulle corrispondenti attribuzioni costituzionali di questa. Di qui la dedotta ammissibilità del suo intervento e, quanto alla tempestività dello stesso, la Regione deduce l'impossibilità di far decorrere il termine per l'intervento da una notifica non avvenuta. Nel merito, la Regione Veneto rileva la non incidenza dell'atto in esame sul territorio provinciale e sulle attribuzioni della ricorrente, altro essendo il confine amministrativo degli enti territoriali, altra la delimitazione dei bacini idrografici. La possibile coincidenza tra essi non esclude che le due "confinazioni" siano tra loro perfettamente autonome e produttive di conseguenze giuridiche del tutto diverse. La Regione Veneto conclude quindi per la carenza dell'oggetto del ricorso, dal momento che il potere esercitato non riguarda affatto i confini amministrativi delle Regioni. Considerato in diritto 1. - La Provincia autonoma di Trento ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione al decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, recante "Delimitazione del bacino idrografico del fiume Piave", chiedendo a questa Corte di dichiarare che "non spetta allo Stato, e neppure alle Autorità di bacino del Piave e dell'Adige, in sede di delimitazione del bacino idrografico del fiume Piave, definire la linea del confine amministrativo fra la Regione Veneto (Comune di Rocca Pietore) e la Provincia autonoma di Trento (Comune di Canazei), né la linea di displuvio sul monte Marmolada in maniera difforme da quella già definitivamente accertata con il D.P.R. 29 maggio 1982 e con la successiva sentenza del Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 1361/81, del 23 ottobre 1998 (passata in giudicato)" e di pronunciare l'annullamento di tale decreto, nella parte in cui si riferisce alla ricorrente, in quanto lesivo della propria sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite. La Provincia ricorrente lamenta in particolare la lesione delle attribuzioni definite, per un verso, dagli artt. 131 e 132 della Costituzione, giacché l'atto statale censurato produrrebbe una surrettizia modifica dei confini amministrativi della Provincia autonoma di Trento; per un altro verso, dagli artt. 8, nn. 6, 18, 20 e 24 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, nonché dall'art. 9, nn. 9 e 11, e dagli artt.11, 14, 16, 68 e 107 dello stesso Statuto speciale di autonomia, giacché l'impugnato decreto presidenziale con l'annessa cartografia, definendo "il confine amministrativo fra Provincia di Trento e Regione Veneto" in modo lesivo

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dell'integrità territoriale della ricorrente, risulterebbe altresì e conseguentemente lesivo delle sue attribuzioni costituzionalmente garantite, delle quali risulterebbe ridotto l'àmbito territoriale di esercizio. Con particolare riferimento al demanio provinciale ed alle funzioni relative, la Provincia lamenta poi la violazione degli artt. 68 e 9, n. 9, dello Statuto, nonché dall'art. 8, comma 1, lettera e), del D.P.R. 20 gennaio 1973, n. 115, giacché la modificazione del confine amministrativo quale risultante dalla cartografia allegata al decreto presidenziale in questione determinerebbe il passaggio di una parte cospicua del ghiacciaio della Marmolada, "che ai sensi dell'art. 8, comma 1, lettera e), del D.P.R. 20 gennaio 1973, n. 115 (come modificato dall'art. 1 del decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463) ... appartiene al demanio della Provincia di Trento", dal territorio della Provincia di Trento a quello della Regione Veneto, con conseguente menomazione delle attribuzioni della Provincia ricorrente relative al proprio demanio, di cui agli artt. 68 e 9, n. 9, dello Statuto, ed alle relative norme di attuazione (art. 8 del D.P.R. n. 115 del 1973). La ricorrente si duole infine della violazione dell'art. 97 della Costituzione, del principio di leale collaborazione, degli artt. 9, n. 9, e 14 dello Statuto speciale, nonché dell'art. 5, comma 1, del D.P.R. 22 marzo 1974, n. 381, come modificato dall'art. 2 del decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463, il quale prevede che "nella Provincia di Trento i piani di bacino di rilievo nazionale sono sostituiti dal 'Piano generale per l'utilizzazione delle acque pubbliche' previsto dall'art. 14 dello Statuto speciale", stabilito "d'intesa tra i rappresentanti dello Stato e della Provincia in seno a un apposito comitato" (art. 14, terzo comma, dello Statuto), e non d'intesa tra le competenti Autorità di bacino, come previsto invece - ad avviso della Provincia, illegittimamente - dall'art. 4 del decreto impugnato. 2. - In via preliminare deve essere esaminata l'eccezione d'inammissibilità sollevata dalla difesa erariale, la quale osserva come la perimetrazione del bacino idrografico del Piave indicata nella cartografia allegata al decreto presidenziale impugnato non sia contestata di per sé, ma in riferimento ad un segno "a segmenti continui", cioè la linea retta relativa ai confini tra i comuni di Rocca Pietore e Canazei, da ritenersi estraneo all'oggetto del D.P.R. 21 dicembre 1999, esclusivamente destinato alla delimitazione del bacino idrografico anzidetto e non già alla delimitazione dei territori comunali. La censura avanzata dalla ricorrente avrebbe così ad oggetto un provvedimento del tutto privo di effetti e di rilevanza giuridica ai fini della delimitazione del confine amministrativo tra i due Comuni, inidoneo, pertanto, a produrre una menomazione delle attribuzioni della ricorrente ed impugnato in carenza di interesse a ricorrere. 3. - L'eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato deve essere accolta. Per quanto concerne la lamentata lesione dell'integrità territoriale della ricorrente e la doglianza relativa alla conseguente menomazione delle competenze ad essa garantite dallo Statuto e dalle norme di attuazione, destinate ad essere esercitate in tale ambito territoriale, il provvedimento impugnato, nella parte in cui rinvia alla cartografia allegata, non è infatti idoneo a ledere le attribuzioni della ricorrente in riferimento agli invocati parametri. Tale provvedimento non è destinato a norma delle disposizioni legislative e sublegislative che lo disciplinano (art. 4, comma 1, lettera b) della legge n. 183 del 1989, come modificato ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera ii) della legge n. 13 del 1991; artt. 1 e 3 del D.P.R. 14 aprile 1994) ad incidere, neppure indirettamente, sulla delimitazione dei confini amministrativi tra gli enti territoriali interessati, che nella cartografia - sotto questo profilo, priva di rilevanza giuridica - allegata ai provvedimenti presidenziali di delimitazione dei bacini idrografici assumono un valore meramente indicativo. Ai fini della delimitazione dei confini amministrativi, è, in altri termini, irrilevante la rappresentazione che di questi ultimi compare nella cartografia contestata (una linea retta continua che taglia diagonalmente il ghiacciaio della Marmolada anziché congiungere le creste o le cime più alte), elaborata al solo fine di delimitare il bacino idrografico. 4. - Parimenti inammissibile deve essere dichiarato il ricorso, quanto alla lamentata violazione, ad opera dell'art. 4 dell'impugnato decreto presidenziale, dell'art. 97 della Costituzione, del principio di leale cooperazione, degli artt. 9, n. 9, e 14 dello Statuto speciale, nonché dall'art. 5, comma 1, del D.P.R. 22 marzo 1974, n. 381, come modificato dall'art. 2 del decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463.

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Il D.P.R. n. 381 del 1974, come modificato dall'art. 2 del decreto legislativo n. 463 del 1999, prevede che "nella Provincia di Trento i piani di bacino di rilievo nazionale sono sostituiti dal 'Piano generale per l'utilizzazione delle acque pubbliche' previsto dall'art. 14 dello Statuto speciale", stabilito "d'intesa tra i rappresentanti dello Stato e della Provincia in seno a un apposito comitato", e non d'intesa tra le competenti Autorità di bacino, come previsto dall'art. 4 del D.P.R. 21 dicembre 1999, che prevede, ai fini della predisposizione di "apposita cartografia di dettaglio per definire la linea di displuvio nei territori dei comuni di Rocca Pietore (Belluno) e Canazei (Trento)", la sola intesa tra le Autorità di bacino del Piave e dell'Adige. Il censurato art. 4, che, senza prevedere una partecipazione della Provincia ricorrente, rimette all'intesa tra le autorità di bacino del Piave e dell'Adige la definizione più dettagliata della linea di displuvio - la quale non riguarda, va ribadito, la materia della delimitazione dei confini amministrativi - si limita a disciplinare il procedimento da seguire per la redazione di "apposita cartografia di dettaglio per definire la linea di displuvio nei territori dei comuni di Rocca Pietore (Belluno) e Canazei (Trento)". Anche a questo riguardo, deve essere condivisa la deduzione della difesa erariale, che ravvisa nell'intesa tecnico-geografica prevista dal menzionato art. 4 "solo una modalità di concorde accertamento di fatti (fluire delle acque meteoriche)" e non già "un momento di coordinamento, attraverso il consenso, di differenziati interessi politico-amministrativi". Si tratta di un adempimento tecnico di specificazione dell'impugnato provvedimento di delimitazione del bacino idrografico del fiume Piave, che non interferisce nelle attribuzioni previste dall'art. 14 dello Statuto speciale, a norma del quale "l'utilizzazione delle acque pubbliche da parte dello Stato e della provincia, nell'ambito della rispettiva competenza, ha luogo in base a un piano generale stabilito d'intesa tra i rappresentanti dello Stato e della provincia in seno a un apposito comitato". Né l'impugnato decreto, nella parte in cui disciplina la predisposizione di apposita cartografia di dettaglio per definire con maggiore precisione la linea di displuvio, può risultare lesivo delle attribuzioni provinciali come definite dalle richiamate norme di attuazione statutaria, in base alle quali il piano generale per l'utilizzazione delle acque pubbliche previsto dal citato art. 14 dello Statuto, "vale anche, per il rispettivo territorio, quale piano di bacino di rilievo nazionale". Che alla delimitazione del bacino idrografico in base alla legge n. 183 del 1989 siano estranee le procedure di intesa di cui al D.P.R. n. 381 del 1974, come modificato dal decreto legislativo n. 463 del 1999, risulta del resto dal tenore del quarto comma dello stesso art. 5 del D.P.R. n. 381 del 1974, che prevede apposite intese, ulteriori rispetto a quella per l'adozione del piano generale per l'utilizzazione delle acque, tra l'autorità ministeriale e la Provincia autonoma interessata, solo per il "coordinamento e l'integrazione delle attività di pianificazione nell'ambito delle attribuzioni loro conferite dal presente decreto e dalla legge 18 maggio 1989, n. 183". Nel fare riferimento alle attività di pianificazione e nel richiamare la legge n. 183 del 1989, che all'art. 4 prevede appunto il potere statale di delimitazione dei bacini idrografici di rilievo nazionale, la citata disposizione non può essere interpretata - impregiudicata restando la questione del riparto delle competenze tra Stato, regioni e province autonome nella materia della delimitazione dei bacini idrografici, alla luce del nuovo quadro costituzionale, questione estranea al presente giudizio - come diretta ad imporre la procedura di intesa con la Provincia autonoma interessata anche per le operazioni tecniche di delimitazione dei bacini idrografici. Anche per la parte in cui lamenta la violazione dell'art. 97 della Costituzione, del principio di leale cooperazione, degli artt. 9, n. 9, e 14 dello Statuto speciale, nonché dell'art. 5, comma 1, del D.P.R. 22 marzo 1974, n. 381, come modificato dall'art. 2 del decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463, il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile per inidoneità dell'atto a produrre la lamentata menomazione delle invocate attribuzioni provinciali. Per questi motivi

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La Corte costituzionale dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione sollevato dalla Provincia autonoma di Trento in relazione al decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, recante "Delimitazione del bacino idrografico del fiume Piave", con il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2002.

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Sent. 10 aprile 2002, n. 106

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della delibera del Consiglio regionale Liguria n. 62 del 15 dicembre 2000 recante «Istituzione del Parlamento della Liguria», promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 5 marzo 2001, depositato in cancelleria il 15 successivo ed iscritto al n. 11 del registro conflitti 2001. Visto l'atto di costituzione della Regione Liguria; udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2002 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte; uditi l'avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Luigi Cocchi per la Regione Liguria. Ritenuto in fatto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ricorso per conflitto di attribuzione, in riferimento agli articoli 1, 5, 55, 115 (articolo abrogato dall'art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione") e 121 della Costituzione, avverso la delibera n. 62 del 15 dicembre 2000 con la quale il Consiglio regionale della Liguria ha approvato la proposta di istituzione del Parlamento della Liguria. Tale delibera prevede che in tutti gli atti dell'assemblea regionale, alla dizione costituzionalmente prevista "Consiglio regionale della Liguria" sia affiancata la dizione "Parlamento della Liguria". Secondo il ricorrente il cambiamento di denominazione dell'organo rappresentativo regionale, sia pure solo in via aggiuntiva, lederebbe la sfera di attribuzioni statali. Si osserva in proposito che il nomen iuris degli organi connota tipicamente le funzioni che a quegli organi sono attribuite, e tale generale principio assumerebbe particolare pregnanza in riferimento al nome "Parlamento", che, nella storia costituzionale moderna, identificherebbe l'organo attraverso il quale il popolo esprime la propria sovranità, partecipando all'esercizio del potere politico. Sebbene dunque sia teoricamente scorretto attribuire al Parlamento la qualifica di organo del popolo, aggiunge l'Avvocatura, non potrebbe dubitarsi che nel sistema costituzionale italiano, che esalta la "centralità" delle assemblee parlamentari, le due Camere siano gli organi costituzionali nei quali la volontà popolare più immediatamente ed efficacemente si esprime. La posizione eminente che esse occupano nella struttura dei poteri statali rifletterebbe appunto la sovranità popolare che il Parlamento incarna e rappresenta e precluderebbe l'impiego di tale denominazione con riferimento a organi della Regione, che sono comunque rappresentativi di poteri di autonomia e non di poteri sovrani. Lesivo delle attribuzioni statali pare alla difesa erariale anche il secondo comma del provvedimento impugnato. In esso si delibera di assumere i principi contenuti nelle premesse (principi comprensivi della denominazione di cui si è detto) «quali linee di indirizzo da trasmettere alla Commissione speciale per lo Statuto e per la legge elettorale, affinché quest'ultima possa procedere agli adempimenti necessari a consentire che gli stessi possano essere compiutamente attuati in sede di elaborazione del nuovo Statuto regionale». Una simile previsione, secondo il ricorrente, pur avendo valenza meramente ottativa, lederebbe le prerogative statali, intendendo preannunciare l'approvazione di un nuovo statuto regionale che sarebbe diretto a rivendicare alla Regione ambiti di potere sovrano. Su simili premesse il Presidente del Consiglio dei

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ministri chiede alla Corte di dichiarare che non spetta al Consiglio regionale adottare la delibera oggetto del ricorso, e conseguentemente di annullarla. 2. - Si è costituito, per la Regione Liguria, il Presidente della Giunta regionale, chiedendo che il ricorso statale sia dichiarato inammissibile o infondato. Quanto ai profili di inammissibilità, si denuncia il difetto di lesività dell'atto impugnato. La determinazione assunta dal Consiglio regionale, osserva la difesa della Regione, avrebbe un elevato valore simbolico, ma, in termini di puro diritto, si risolverebbe in una semplice addizione lessicale alla formula impiegata in Costituzione, senza che ciò determini una modifica delle competenze e delle prerogative dell'organo rappresentativo regionale. Non vi sarebbe, dunque, nell'atto oggetto del conflitto, alcuna capacità invasiva delle attribuzioni costituzionali dello Stato. Nel merito, la difesa regionale contesta l'affermazione secondo la quale l'espressione Parlamento «sia sintomatica e coessenziale della sovranità dello Stato», replicando che la sovranità è una caratteristica dello Stato complessivamente considerato, mentre la denominazione di Parlamento si attaglierebbe ad assemblee rappresentative, espressive di potere popolare, con funzione legislativa e di controllo politico sul Governo. Ad avviso della resistente dovrebbe considerarsi infondata anche la questione relativa al secondo comma della deliberazione impugnata, che formula indirizzi ai fini della redazione del nuovo statuto, poiché tale previsione non presenterebbe un contenuto lesivo, essendo priva di valore giuridico vincolante nei confronti della commissione alla quale è diretta. 3. - Nella pubblica udienza del 12 febbraio 2002 l'Avvocatura dello Stato, oltre a riprendere le argomentazioni spese nel ricorso, ha soggiunto che le attribuzioni del Consiglio regionale, per quanto siano state fortemente potenziate dalla revisione del Titolo V, Parte II, della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), sarebbero comunque espressione di poteri di autonomia e non potrebbero mai attingere il livello della sovranità. In tal senso, secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, con la delibera impugnata la Regione Liguria si arrogherebbe la titolarità di una sovranità che in nessun modo le spetta. Dal canto suo, la difesa della Regione ha sostenuto che l'impiego del nomen Parlamento nella delibera oggetto del conflitto - che peraltro esplicitamente riconosce la spettanza della sovranità allo Stato nella sua unitarietà - troverebbe giustificazione proprio nella marcata assimilazione funzionale tra assemblea legislativa statale e assemblea legislativa regionale alla quale hanno condotto le riforme costituzionali più recenti, tutte intese al rafforzamento delle istituzioni regionali nella complessiva organizzazione dello Stato. Particolare significato assumerebbe, in tale prospettiva, l'attribuzione di una amplissima potestà legislativa alle Regioni, per effetto del superamento del criterio della enumerazione delle materie di competenza regionale, cui era originariamente improntato l'art. 117 della Costituzione, e l'accoglimento del principio, concettualmente opposto, della residualità della competenza legislativa regionale ( art. 117, quarto comma, della Costituzione). Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ricorso per conflitto di attribuzione, in riferimento agli articoli 1, 5, 55, 115 (articolo abrogato dall'art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) e 121 della Costituzione avverso la delibera n. 62 del 15 dicembre 2000, con la quale il Consiglio regionale della Liguria, da un lato ha disposto che in tutti i propri atti la dizione "Consiglio regionale" sia affiancata da quella di "Parlamento della Liguria"; dall'altro ha indirizzato alla Commissione statuto la direttiva di tenere conto di tale denominazione in sede di elaborazione del nuovo statuto regionale. 2. - Il ricorso deve essere accolto. Già un approccio puramente testuale al tema oggetto del conflitto induce a nutrire forti dubbi sulla conformità a Costituzione della deliberazione impugnata. Il termine "Parlamento", che apre il Titolo I, Parte

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II, della Costituzione, si riferisce, ai sensi dell'art. 55, ai due organi che lo compongono: la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica. L'art. 121 della Costituzione denomina invece Consiglio regionale l'organo che esercita le potestà legislative attribuite alla Regione e le altre funzioni che la Costituzione e le leggi gli conferiscono. L'argomento letterale, seppure non privo di valore, non può tuttavia essere considerato decisivo se non viene saggiato alla luce degli altri canoni della interpretazione costituzionale. Le stesse parti, del resto, hanno avvertito la necessità di spingersi al di là del dato testuale allorché, con opposti intendimenti, hanno addotto elementi storico-sistematici per corroborarlo ovvero consentirne il superamento. L'Avvocatura dello Stato insiste sulla distinzione-contrapposizione tra sovranità popolare, della quale il solo Parlamento sarebbe espressione, e autonomia; la difesa della Regione, richiamandosi alla posizione di perfetta equiordinazione che, dopo le recenti riforme costituzionali, si sarebbe ormai realizzata tra Parlamento e Consigli regionali, ritiene che anche questi ultimi, da annoverare a pieno titolo tra le assemblee rappresentative, possano, per analogia, fregiarsi del nome Parlamento. È su tali antagonistiche prospettazioni che questa Corte deve portare il proprio esame. 3. - La difesa erariale, dunque, nel tentativo di rinvenire, al di là del dato testuale, una più profonda ragione costituzionale del carattere esclusivo della denominazione "Parlamento" attribuita alle assemblee legislative nazionali, pone l'accento sul fatto che siano queste la sede esclusiva, o anche soltanto preminente, in cui prende forma la sovranità del popolo. Si deve in proposito osservare che il legame Parlamento-sovranità popolare costituisce inconfutabilmente un portato dei principi democratico-rappresentativi, ma non descrive i termini di una relazione di identità, sicché la tesi per la quale, secondo la nostra Costituzione, nel Parlamento si risolverebbe, in sostanza, la sovranità popolare, senza che le autonomie territoriali concorrano a plasmarne l'essenza, non può essere condivisa nella sua assolutezza. Sebbene il nuovo orizzonte dell'Europa e il processo di integrazione sovranazionale nel quale l'Italia è impegnata abbiano agito in profondità sul principio di sovranità, nuovamente orientandolo ed immettendovi virtualità interpretative non tutte interamente predicibili, un apparato concettuale largamente consolidato nel nostro diritto costituzionale consente di procedere, proprio sui temi connessi alla sovranità, da alcuni punti fermi. L'articolo 1 della Costituzione, nello stabilire, con formulazione netta e definitiva, che la sovranità "appartiene" al popolo, impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi dell'organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare esaurendovisi. Le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi, infatti, non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l'intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono in una molteplicità di situazioni e di istituti ed assumono una configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali. Per quanto riguarda queste ultime, risale alla Costituente la visione per la quale esse sono a loro volta partecipi dei percorsi di articolazione e diversificazione del potere politico strettamente legati, sul piano storico non meno che su quello ideale, all'affermarsi del principio democratico e della sovranità popolare. Il nuovo Titolo V - con l'attribuzione alle Regioni della potestà di determinare la propria forma di governo, l'elevazione al rango costituzionale del diritto degli enti territoriali minori di darsi un proprio statuto, la clausola di residualità a favore delle Regioni, che ne ha potenziato la funzione di produzione legislativa, il rafforzamento della autonomia finanziaria regionale, l'abolizione dei controlli statali - ha disegnato di certo un nuovo modo d'essere del sistema delle autonomie. Tuttavia i significativi elementi di discontinuità nelle relazioni tra Stato e Regioni che sono stati in tal modo introdotti non hanno intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall'inizio dell'esperienza repubblicana. Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale attorno al quale esse ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare.

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In conclusione, se non lo si vuole racchiudere entro uno schema troppo angusto e ormai storicamente inattendibile, non è il principio di sovranità popolare a poter fondare un'attribuzione costituzionale all'uso esclusivo della denominazione "Parlamento". 4. - D'altro canto, non può essere accolta neppure la prospettiva ricostruttiva in cui si pone la Regione Liguria per superare l'ostacolo recato dalla lettera della Costituzione. La difesa regionale assume che la sostanziale parificazione di funzioni, nei rispettivi ambiti di competenza, tra Consiglio regionale e Parlamento renderebbe legittima l'estensione anche al primo della denominazione propria del secondo. Questa ricostruzione potrebbe avere una qualche plausibilità se la denominazione degli organi direttivi della Regione fosse collocata in uno spazio di indifferenza giuridica; solo allora sarebbe infatti possibile muovere alla ricerca di una nozione "sostanziale" di Parlamento, e, confortati dalla indagine storica, annettere una qualificazione siffatta alle assemblee legislative titolari di una funzione rappresentativa delle popolazioni governate, dunque anche ai Consigli regionali. È tuttavia di ostacolo alla utilizzazione dell'argomento analogico la circostanza che la Costituzione ha inteso pregiudicare questo spazio giuridico. Essa nel Titolo I, Parte II, attribuisce alle sole Camere il nome Parlamento, e definisce Consiglio regionale, nell'articolo 121, il titolare della funzione legislativa regionale. Gli organi direttivi della Regione non sono dunque entità nuove nate negli ordinamenti regionali in virtù delle modifiche introdotte nel Titolo V della Costituzione e prive di denominazioni proprie. Ed è vano richiamare profili di analogia tra Consiglio regionale e Parlamento, che erano evidenti al Costituente del 1948 - il quale con l'art. 121 Cost. (e con le corrispondenti norme degli statuti speciali) aveva nondimeno espresso chiaramente la propria scelta diversificatrice - così come si deve presumere lo siano stati al legislatore costituzionale del 1999 e del 2001, che pure, proprio nel momento in cui si accingeva ad un rilevante potenziamento del ruolo delle autonomie, non ha ritenuto di mutare in "Parlamento" la denominazione dell'organo legislativo delle Regioni. Conviene piuttosto individuare gli elementi che giustifichino la diversa denominazione costituzionale, ed è fin troppo agevole, in questa prospettiva, rilevare che il termine Parlamento rifiuta di essere impiegato all'interno di ordinamenti regionali. Ciò non per il fatto che l'organo al quale esso si riferisce ha carattere rappresentativo ed è titolare di competenze legislative, ma in quanto solo il Parlamento è sede della rappresentanza politica nazionale ( art. 67 Cost.), la quale imprime alle sue funzioni una caratterizzazione tipica ed infungibile. In tal senso il nomen Parlamento non ha un valore puramente lessicale, ma possiede anche una valenza qualificativa, connotando, con l'organo, la posizione esclusiva che esso occupa nell'organizzazione costituzionale. Ed è proprio la peculiare forza connotativa della parola ad impedire ogni sua declinazione intesa a circoscrivere in ambiti territorialmente più ristretti quella funzione di rappresentanza nazionale che solo il Parlamento può esprimere e che è ineluttabilmente evocata dall'impiego del relativo nomen. 5. - Le considerazioni fin qui svolte consentono di apprezzare nella pienezza del suo significato il valore deontico degli articoli 55 e 121 della Costituzione, che si traduce in un vero e proprio divieto per i Consigli regionali di appropriarsi del nome Parlamento. Ne consegue che la dizione lessicale integrativa introdotta dalla Regione Liguria, intesa ad estendere anche al Consiglio regionale ligure il nomen Parlamento, deve ritenersi illegittima, sicché il ricorso per conflitto deve essere accolto e la delibera impugnata annullata anche in riferimento alla sua seconda parte, con la quale il Consiglio regionale, esorbitando dalle proprie attribuzioni e ledendo quelle statali, invita la apposita commissione ad inserire nello statuto regionale in corso di elaborazione una denominazione costituzionalmente non consentita per l'organo consiliare. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara che non spetta al Consiglio regionale della Liguria adottare la delibera n. 62 del 15 dicembre 2000 recante "Istituzione del Parlamento della Liguria" e conseguentemente la annulla. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 aprile 2002.

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Sent. 28 gennaio 2002, n. 17

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria, riapprovata il 1° marzo 2000, concernente "Disposizioni integrative alle leggi regionali 27 dicembre 1994, n. 66 e 6 settembre 1999, n. 28, recanti disposizioni in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 17 marzo 2000, depositato in Cancelleria il 25 successivo ed iscritto al n. 12 del registro ricorsi 2000, nonché dell'art. 3, commi 1 e 2, della legge della Regione Toscana, riapprovata il 19 dicembre 2000, concernente "Disposizioni in materia di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie. Modifiche alle leggi regionali 15 maggio 1980, n. 80; 29 luglio 1996, n. 60; 1 luglio 1999, n. 37", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato l'11 gennaio 2001, depositato in Cancelleria il 18 successivo ed iscritto al n. 11 del registro ricorsi 2001. Visti gli atti di costituzione della Regione Liguria e della Regione Toscana; udito nell'udienza pubblica del 4 dicembre 2001 il Giudice relatore Massimo Vari; uditi l'Avvocato dello Stato Giancarlo Mandò per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Mario Loria per la Regione Toscana. Ritenuto in fatto 1.1. - Con il primo dei ricorsi in epigrafe il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, in riferimento all'art. 119 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge approvata dal Consiglio regionale della Liguria in data 1° marzo 2000 (n. 355 del 2000), concernente "Disposizioni integrative alle leggi regionali 27 dicembre 1994, n. 66 e 6 settembre 1999, n. 28, recanti disposizioni in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie". La disposizione dell'art. 1 prevede, per le tasse sulle concessioni regionali, la riduzione, al quinto del minimo, della sanzione applicabile per il caso di mancato pagamento del tributo (o di un acconto) entro il termine previsto, se il pagamento stesso sia comunque eseguito prima che la violazione sia stata constatata o siano iniziate verifiche o altre attività amministrative di accertamento portate a formale conoscenza dell'autore o dei soggetti obbligati. Il ricorrente, nel rammentare il carattere attuativo della competenza regionale in materia tributaria, è dell'avviso che la norma all'esame si ponga in contrasto con la disciplina del "ravvedimento" racchiusa nell'art. 13 del decreto legislativo n. 472 del 1997. E' oggetto di censura anche l'art. 2, il quale prevede la inapplicabilità delle sanzioni amministrative tributarie per insufficiente o ritardato versamento del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, relativamente al 1996, qualora i dovuti conguagli siano stati effettuati entro il 31 gennaio 1997. Secondo il ricorrente, l'art. 3 della legge statale n. 549 del 1995 non consentirebbe al legislatore regionale - al quale è rimessa solo la potestà di "stabilire le modalità di versamento" (comma 30 art. cit.) - di esonerare, in via generale, i soggetti tenuti a corrispondere il tributo dal rispetto del termine e dalle sanzioni correlate al ritardato o insufficiente pagamento.

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1.2. - Si è costituita in giudizio la Regione Liguria, chiedendo "il rigetto del ricorso siccome inammissibile e/o infondato"; conclusioni ribadite nella memoria depositata nell'imminenza dell'udienza. 2.1. - Con il secondo dei ricorsi in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 119 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 1 e 2, della legge approvata dalla Regione Toscana in data 19 dicembre 2000 (n. 67 del 2000), concernente "Disposizioni in materia di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie. Modifiche alle leggi regionali 15 maggio 1980, n. 80; 29 luglio 1996, n. 60; 1 luglio 1999, n. 37". Nel rammentare, anche in questo caso, che la potestà tributaria regionale ha carattere meramente attuativo, il ricorrente denuncia l'art. 3, comma 1, con il quale, per i periodi precedenti all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 472 del 1997, viene disposto che, in caso di tardivo versamento del tributo speciale dovuto per il deposito in discarica di rifiuti solidi, la sanzione, sempreché il ritardo sia contenuto entro cinque giorni lavorativi successivi alla scadenza di legge, è pari al 5% del tributo stesso. Secondo il ricorrente, la menzionata disposizione violerebbe l'art. 119 della Costituzione, per contrasto con la norma statale (art. 13 del decreto legislativo n. 472 del 1997) che regola gli effetti del ravvedimento. La medesima disposizione, disattendendo l'art. 3 della Costituzione, introdurrebbe, inoltre, una non ragionevole discriminazione tra le medesime infrazioni tributarie, a seconda che esse siano state commesse prima o dopo il 1° aprile 1998 (data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 472 del 1997). Il ricorrente censura, in relazione agli artt. 3 e 119 della Costituzione, anche la disposizione contenuta nel comma 2 del menzionato art. 3, riguardante le sanzioni da applicare per le ipotesi di esercizio di attività di discarica abusiva ovvero di abbandono, scarico o deposito in modo incontrollato di rifiuti. 2.2. - Con memoria del 22 ottobre 2001, il Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato di rinunciare all'impugnazione di quest'ultima disposizione, insistendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale del comma 1 del medesimo articolo. 2.3. - Si è costituita in giudizio la Regione Toscana, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale della legge regionale censurata sia dichiarata "inammissibile e infondata". Con memoria depositata nell'imminenza dell'udienza, la stessa Regione sostiene che l'intervenuta entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) e, in particolare, della modifica dell'art. 127 della Costituzione, ha fatto venir meno l'istituto del "ricorso in via preventiva" nei confronti delle leggi regionali. Di qui la richiesta di declaratoria di improcedibilità sopravvenuta o comunque di inammissibilità del giudizio avverso la delibera legislativa n. 67 del 2000. In tale mutata situazione normativa, la Regione chiede, in via subordinata, che venga dichiarata l'intervenuta cessazione della materia del contendere o, comunque, l'infondatezza del ricorso. Considerato in diritto 1. - Oggetto del primo dei giudizi in epigrafe è la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della delibera legislativa riapprovata dal Consiglio regionale della Liguria in data 1° marzo 2000 (n. 355 del 2000), concernente "Disposizioni integrative alle leggi regionali 27 dicembre 1994, n. 66 e 6 settembre 1999, n. 28, recanti disposizioni in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie", per contrasto con l'art. 119 della Costituzione. Secondo il ricorrente Presidente del Consiglio dei ministri, l'art. 1 della delibera legislativa è da reputare incostituzionale, perché disattende la disciplina del "ravvedimento" racchiusa nell'art. 13 del decreto legislativo n. 472 del 1997, mentre l'art. 2 introduce una non consentita generalizzata sanatoria per

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l'insufficiente o ritardato versamento dei tributi, destinata a risolversi in una rinuncia della Regione stessa ad un credito già insorto. 2. - Oggetto del secondo dei giudizi in epigrafe è la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 1 e 2, della delibera legislativa riapprovata dal Consiglio regionale della Toscana in data 19 dicembre 2000 (n. 67 del 2000), concernente "Disposizioni in materia di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie. Modifiche alle leggi regionali 15 maggio 1980, n. 80; 29 luglio 1996, n. 60; 1° luglio 1999, n. 37". Secondo il ricorrente Presidente del Consiglio dei ministri, sarebbero violati: - l'art. 119 della Costituzione, a causa del contrasto delle citate disposizioni legislative regionali con le norme statali che disciplinano, rispettivamente, gli effetti del ravvedimento in caso di pagamento tardivo del tributo (art. 13 del decreto legislativo n. 472 del 1997) e le sanzioni amministrative per il caso di esercizio di attività di discarica abusiva e di abbandono, scarico o deposito incontrollato di rifiuti (art. 3 della legge n. 549 del 1995;) - l'art. 3 della Costituzione, a causa della non ragionevole discriminazione derivante dalle norme censurate tra violazioni dello stesso tipo. Infatti, l'art. 3, comma 1, della deliberazione legislativa denunciata, introdurrebbe una diversa disciplina sanzionatoria a seconda che le violazioni siano state commesse prima o dopo il 1° aprile 1998 (data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 472 del 1997), con l'effetto, altresì, di comportare l'applicazione di una sanzione superiore a carico di chi abbia versato l'imposta con un ritardo minimo, e cioè sino a cinque giorni lavorativi, rispetto a quella applicabile, invece, a colui che abbia effettuato il versamento con un ritardo maggiore. A sua volta, l'art. 3, comma 2, della medesima deliberazione legislativa determinerebbe l'ammontare al quale deve essere commisurata la sanzione amministrativa di specie non già rapportandolo alla effettiva e concreta base imponibile, ma a quello risultante dal suo calcolo prefissato "forfetariamente" e, pertanto, in via astratta, e sostanzialmente fittizia. 3. - In ordine ai giudizi in epigrafe, i quali vanno riuniti avendo ad oggetto questioni analoghe o comunque connesse, occorre rilevare, in via del tutto preliminare, che, nelle more del giudizio, il peculiare procedimento di controllo di costituzionalità, attivato, nella specie, dal Presidente del Consiglio dei ministri, è venuto meno, a seguito dell'emanazione della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione", pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 248 del 24 ottobre 2001. L'art. 8 di detta legge, riformando l'art. 127 della Costituzione, che contemplava il detto procedimento, prevede ora che "il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale, entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione". Tale nuova disciplina, avendo espunto dall'ordinamento la sequenza procedimentale del rinvio governativo, della riapprovazione della legge regionale, a maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio regionale, e del successivo ricorso innanzi a questa Corte, impedisce che il presente giudizio possa aver ulteriore seguito, non essendo più previsto che la Corte stessa eserciti il sindacato di costituzionalità sulla delibera legislativa regionale prima che quest'ultima sia stata promulgata e pubblicata e, quindi, sia divenuta legge in senso proprio. Il che comporta la declaratoria di improcedibilità dei presenti ricorsi, ferma restando la facoltà per il Presidente del Consiglio dei ministri di proporre, eventualmente, impugnativa, nei termini e nei modi di cui al nuovo testo dell'art. 127 della Costituzione. Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, dichiara l'improcedibilità dei ricorsi in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 2002.

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Sentenza 8 dicembre 2001, n. 337

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza Uditi l'avvocato Sergio Panunzio per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Con ricorso notificato il 28 gennaio 1999 e depositato il 5 febbraio 1999, la Regione Lombardia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 4, 5 e 6; degli artt. 6, 65, 66, 68, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7 e 9 e dell'art. 71 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo). 2.- In particolare, la Regione censura, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, in relazione agli artt. 92 e 93 del trattato che istituisce la Comunità economica europea, firmato il 25 marzo 1957, reso esecutivo con legge 14 ottobre 1957, n. 1203, ed alle decisioni della Commissione delle Comunità europee del 2 marzo 1988 e del 1° marzo 1995, l'art. 3, commi 4, 5 e 6 della legge n. 448 del 1998, nella parte in cui, al fine di incentivare la occupazione nel meridione d'Italia, prevede: - al comma 4, la proroga e l'incremento degli sgravi contributivi già applicabili, in forza dell'art. 4, commi 17 e 18, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), nelle regioni meridionali per i lavoratori occupati alla data del 1° dicembre 1997; - al comma 5, che i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici operanti nelle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna possano godere, relativamente alle nuove assunzioni -effettuate, limitatamente all'Abruzzo ed al Molise, nell'anno 1999 e, per le altre regioni, anche negli anni 2000 e 2001 - incrementative del numero delle unità realmente occupate rispetto al 31 dicembre 1998, della totale esenzione, per un periodo di tre anni dalla avvenuta assunzione, dai contributi dovuti all'Istituto nazionale della previdenza sociale (I.N.P.S.) sulle retribuzioni assoggettate a contribuzione per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti; - al comma 6, le puntuali condizioni per poter accedere ai benefici di cui al predetto comma 5. Secondo la ricorrente, le norme impugnate comporterebbero un'evidente disparità di trattamento fra le regioni settentrionali e quelle meridionali causando, in particolare, lo spostamento di attività produttive verso una parte del territorio nazionale, e finendo per gravare, in assenza di una effettiva riduzione del costo del lavoro, sulla fiscalità generale e, di conseguenza, anche sulla Regione Lombardia e sui cittadini in essa residenti. Peraltro, osserva la ricorrente, le disposizioni in questione sarebbero anche in contrasto con le ricordate decisioni della Commissione delle Comunità europee, che già in passato avevano dichiarato illegittimo il regime degli sgravi contributivi esistente nel Mezzogiorno d'Italia, per violazione degli artt. 92 e 93 del trattato CEE. 3.- Viene altresì censurato, in riferimento all'art. 119 della Costituzione, l'art. 6 della legge n. 448 del 1998.

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La Regione ricorrente, dopo avere brevemente esposto le modifiche introdotte dal comma 1 della citata disposizione ai principi ed ai criteri direttivi cui il legislatore delegato deve ispirarsi ai fini della istituzione dell'imposta regionale sulle attività produttive (di seguito IRAP), lamenta in particolare che, per effetto dell'inserimento - disposto dal comma 2, lettera b), dell'art. 6 della legge n. 448 del 1998 - di una lettera e-bis) nel comma 147 dell'art. 3 della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), la dotazione propria del Fondo sanitario e le eccedenze dovute allo Stato vengano calcolate con riferimento ad un parametro maggiore rispetto a quello considerato in passato e costituito dall'intero gettito IRAP. Ed effetto indotto di tale innovazione normativa verrebbe ad essere, per un verso, la riduzione dei flussi finanziari dallo Stato alle regioni e, per altro verso, un più elevato ammontare dei fondi in eccedenza che le regioni debbono restituire allo Stato e, pertanto, in definitiva, la violazione della autonomia finanziaria delle regioni stesse. 4.- Ulteriore censura viene mossa dalla ricorrente, in riferimento agli artt. 117, 118 e 97 della Costituzione, all'art. 65 della legge n. 448 del 1998 che, nel prevedere la corresponsione di assegni in danaro in favore di nuclei familiari aventi determinati requisiti di composizione e di reddito, dispone che gli assegni in questione siano erogati dai comuni, che dovranno renderne nota la disponibilità attraverso pubbliche affissioni. Rileva sul punto la Regione che la norma in questione sarebbe lesiva delle sue competenze in materia di servizi sociali, riconosciute, in attuazione degli artt.117 e 118 della Costituzione, dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59.) Secondo la ricorrente, infatti, data la definizione che l'art. 128 del D.Lgs. n. 112 del 1998 fornisce dei "servizi sociali", tale da ricomprendere anche le erogazioni previste dalla norma censurata, la relativa funzione ed i connessi compiti amministrativi spetterebbero alla regione, cui sarebbero stati conferiti dall'art. 131 del D.Lgs. citato. Conclude sul punto la ricorrente osservando che, integrando sia il D.Lgs. n. 112 del 1998 che la legge di delega 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali, per la riforma della pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) il parametro dettato dagli artt. 117 e 118 della Costituzione, la loro violazione avrebbe rilievo costituzionale. 5.- Discorso in tutto analogo viene svolto per l'art. 66 della legge n. 448 del 1998, sempre in riferimento agli artt. 117, 118 e 97 della Costituzione, nella parte in cui prevede, in favore delle madri di figli nati successivamente al 1° luglio 1999 ed aventi determinati requisiti soggettivi e di reddito, la erogazione da parte dei comuni di assegni periodici in danaro. 6.- Nel ricorso viene, altresì, censurato l'art. 68, commi 1 e 2, della legge n. 448 del 1998, in riferimento all'art. 119 della Costituzione, in relazione all'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) ed all'art. 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421.) Per effetto del combinato disposto dei due commi impugnati, per le prescrizioni relative alle prestazioni di diagnostica strumentale e di laboratorio e per le altre prestazioni specialistiche ambulatoriali, gli assistiti esenti e quelli totalmente esenti sarebbero esonerati dal pagamento della quota fissa, ammontante sino a quel momento a lire 6.000 per ricetta; il che comporterebbe, secondo la ricorrente, in violazione dell'art. 119 della Costituzione, la decurtazione di entrate di indubbia spettanza regionale. 7.- Oggetto di censura sono altresì i commi 3, 4, 5, 7 e 9 del medesimo art. 68 della legge n. 448 del 1998. Essi, ad avviso della Regione Lombardia, nel dettare una articolata procedura volta alla determinazione sia delle eccedenze della spesa farmaceutica di ogni regione che dell'entità dei contributi dovuti, rispettivamente, dalle imprese titolari dell'autorizzazione all'immissione in commercio dei medicinali, dalle imprese distributrici e dalle farmacie aperte al pubblico per coprire parte di tali eccedenze, determinerebbero la totale estromissione delle regioni sia dal loro calcolo che da quello dei contributi, essendo esclusivo compito di

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queste ultime fornire al Ministero della sanità i dati relativi alla vendita da parte delle farmacie di tutti i medicinali erogati a carico del Servizio sanitario regionale. E ciò, secondo la ricorrente, contrasterebbe con il principio generale, proprio di tutta la materia sanitaria ed assistenziale, secondo il quale le regioni debbono essere in condizione di ottenere tutte le informazioni in ordine alla spesa afferente a tale materia. 8.- Infine la Regione Lombardia censura l'art. 71 della legge n. 448 del 1998, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, in relazione al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali), all'art. 2 del D.Lgs. n. 502 del 1992 ed all'art. 114 del D.Lgs. n. 112 del 1998. Tale norma prevede lo stanziamento di somme di danaro per interventi di riqualificazione della assistenza sanitaria nei grandi centri urbani, da individuarsi, su proposta del Ministro della sanità, dalla Conferenza unificata Stato-regioni e province autonome e Stato-città, tenendo in particolare considerazione le zone centro-meridionali della Nazione. Lamenta la ricorrente che sarebbe lesiva delle sue attribuzioni la circostanza che nella individuazione di tali interventi venga concesso un ampio spazio ai comuni; questi, infatti, debbono essere sentiti nella fase di elaborazione dei progetti; sono rappresentati, attraverso la Associazione nazionale comuni d'Italia - che partecipa, in misura paritetica con le regioni, il Ministero della sanità e la Conferenza Stato-regioni, alla istruttoria volta alla realizzazione degli interventi stessi -; possono, decorso il termine per la presentazione dei progetti di intervento da parte delle regioni, sostituirsi ad esse e presentarne di propri. La norma viene, altresì, censurata in relazione al coinvolgimento, che tramite essa si realizza, della Conferenza unificata Stato-regioni e Stato-città nella istruttoria relativa ai suddetti progetti, cioè in questioni ritenute essenzialmente di spettanza regionale. 9.- Si è costituito in giudizio, con atto del 17 febbraio 1999, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate. Secondo la difesa dello Stato la questione, relativa all'art. 3, commi 4, 5 e 6, della legge n. 448 del 1998 sarebbe inammissibile in quanto, per un verso, "impinge nel merito della scelta legislativa" e, per altro verso, in quanto viene denunziata un'irrilevante violazione del diritto comunitario. Anche la censura mossa nei confronti dell'art. 6 della legge n. 448 del 1998 sarebbe, secondo la stessa difesa, inammissibile non essendo chiaro in che modo risulti violato l'art. 119 della Costituzione. Parimenti inammissibili sarebbero le censure formulate relativamente agli artt. 65 e 66 della stessa legge, che si fonderebbero essenzialmente sulla violazione di un parametro, il D.Lgs. n. 112 del 1998, non avente rango costituzionale. Anche in riferimento alla costituzionalità dei commi 1 e 2 dell'art. 68 della legge n. 448 del 1998, l'Avvocatura eccepisce preliminarmente la inammissibilità della questione stante la evocazione di un parametro di legittimità costituzionale (l'art. 1 della legge n. 421 del 1992 e l'art. 11 del D.Lgs. n. 502 del 1992) avente rango solo ordinario; peraltro, nel merito, la questione sarebbe, comunque, infondata in quanto, a fronte della riduzione di entrate regionali legate alla parziale soppressione dei ticket sanitari disposta con la norma censurata, sarebbe stato previsto un meccanismo di risparmio di spesa nel medesimo settore farmaceutico tale da compensare l'ammontare delle minori entrate. Quanto agli altri commi impugnati del medesimo art. 68 la difesa dello Stato ritiene non ravvisabili le menomazioni delle garanzie di informazione lamentate dalla Regione Lombardia.

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Infine, riguardo alla affermata incostituzionalità dell'art. 71, rileva la Avvocatura che per effetto di esso non si realizzerebbe alcuna violazione di competenze attribuite alle regioni, non essendovi alcuna contraddizione fra l'ambito di tali competenze e la valorizzazione delle altre autonomie locali. 10.- In prossimità della udienza pubblica la Regione Lombardia ha depositato una documentata memoria illustrativa. In essa la ricorrente ha rilevato che la modifica medio tempore intervenuta di talune delle norme oggetto di censura non ne ha eliminato la illegittimità ed ha precisato che la censura rivolta nei confronti dell'art. 3 della legge n. 448 del 1998 è formulata anche con riferimento all'art. 10 della Costituzione, norma in base alla quale vi è l'obbligo di conformazione della legislazione statale ai principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti, nell'occasione rappresentati dagli artt. 92 e 93 del trattato CEE del 25 marzo 1957. Quanto agli artt. 65, 66 e 68 la ricorrente ha sottolineato la ammissibilità e la fondatezza della questione; in particolare, oltre a rilevare che il D.Lgs. n. 112 del 1998 è stato emanato in specifica attuazione degli artt. 5, 118 e 128 della Costituzione, ha osservato che la violazione costituzionale può verificarsi non soltanto allorché una norma ordinaria leda direttamente una norma di rango costituzionale, ma anche allorché, come nel caso, la violazione si realizzi, indirettamente, attraverso, appunto, il contrasto con una norma interposta. Considerato in diritto 1.- La questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 117, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Lombardia investe diverse norme della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), ed in particolare, l'art. 3, commi 4, 5 e 6; gli artt. 6, 65, 66, 68, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7 e 9 e l'art. 71. Attesa la sostanziale eterogeneità sia delle norme censurate che, sia pure in misura minore, dei parametri costituzionali evocati, la complessa questione va esaminata partitamente. 2.- L'art. 3 della legge n. 448 del 1998 viene censurato nella parte in cui, al fine di incentivare la occupazione nel Mezzogiorno, prevede: - al comma 4, la proroga e l'incremento degli sgravi contributivi già applicabili, in forza dell'art. 4, commi 17 e 18, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), nelle regioni meridionali per i lavoratori occupati alla data del 1° dicembre 1997; - al comma 5, che i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici operanti nelle Regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna, possano godere, relativamente alle nuove assunzioni, tali da incrementare il numero delle unità effettivamente occupate rispetto al 31 dicembre 1998, effettuate, limitatamente all'Abruzzo ed al Molise, nell'anno 1999 e, per le altre regioni, anche negli anni 2000 e 2001, della totale esenzione, per un periodo di tre anni dalla avvenuta assunzione, dai contributi I.N.P.S. sulle retribuzioni dei nuovi assunti; - al comma 6, le puntuali condizioni per poter accedere ai benefici di cui al predetto comma 5. Le norme in questione, secondo la Regione Lombardia, sarebbero lesive dell'art. 3 della Costituzione per la disparità di trattamento che verrebbero a determinare fra le regioni del nord e quelle del Mezzogiorno, risultando le prime pregiudicate sia a causa dello spostamento di attività produttive verso altre parti della Nazione sia dal fatto che gli sgravi contributivi previsti dalle disposizioni censurate, non connessi ad una riduzione effettiva del costo del lavoro, finirebbero per pesare sulla fiscalità generale e, di conseguenza, anche sulla Regione Lombardia e sui cittadini in essa residenti.

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Nella memoria illustrativa depositata in prossimità della udienza pubblica la ricorrente ha precisato che la censura viene altresì formulata, in riferimento all'art. 10 della Costituzione, in relazione agli artt. 92 e 93 del trattato che istituisce la Comunità economica europea, firmato il 25 marzo 1957, reso esecutivo con legge 14 ottobre 1957, n. 1203, ed alle decisioni della Commissione delle Comunità europee del 2 marzo 1988 e del 1° marzo 1995. 2.1.- La questione è inammissibile, con riferimento ad ambedue i parametri evocati. 2.2.- Quanto al secondo, a parte la circostanza che, come risulta dalla nota, acquisita in atti, del 10 agosto 1999, n. prot. SG(99) D/6511, la stessa Commissione europea (alla cui autorizzazione, secondo quanto previsto al comma 7 dell'art. 3 della legge n. 448 del 1998, è espressamente subordinata la efficacia delle disposizioni contenute nei precedenti commi 4 e 5), ha ritenuto che il regime degli aiuti in questione è compatibile con la disciplina comunitaria, basti osservare - al di là dell'evidente imprecisione in cui è incorsa la difesa della ricorrente indicando come parametro di riferimento, invece dell'art. 11 della Costituzione, norma che fornisce copertura costituzionale al diritto comunitario (cfr. sentenza n. 85 del 1999), l'art. 10 della Costituzione, norma che si riferisce esclusivamente al diritto internazionale generalmente riconosciuto - che la censura non può essere presa in considerazione in quanto è stata compiutamente formulata solamente in sede di memoria difensiva e, pertanto, tardivamente (cfr. sentenza n. 382 del 1999). 2.3.- Quanto al primo si rileva che questa Corte ha in varie occasioni avuto modo di precisare che, sebbene in linea di principio le regioni possano denunziare la violazione anche di norme costituzionali poste al di fuori del Titolo V della Parte II della Costituzione, ciò può, tuttavia, avvenire solo se ed in quanto tale violazione comporti una incisione delle competenze costituzionalmente assegnate alle regioni medesime (cfr. sentenza n. 373 del 1997). Circostanza quest'ultima nella specie non ravvisabile, atteso che la Regione Lombardia si limita a denunziare, peraltro in maniera piuttosto generica, una pretesa disparità di trattamento in materia di costi previdenziali fra i datori di lavoro di talune regioni meridionali e gli altri datori di lavoro, senza indicare, sia pure a livello di mera allegazione, la lesione di una qualsivoglia competenza, legislativa od amministrativa, propria della Regione ricorrente. 3.- La censura rivolta, in riferimento all'art. 119 della Costituzione, all'art. 6 della legge n. 448 del 1998 concerne specificamente la parziale modifica, disposta dal comma 2 della norma impugnata, dei principi e dei criteri, contenuti nell'art. 3, comma 147 della legge n. 662 del 1996 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), cui deve essere ispirata la disciplina transitoria da predisporsi al fine di garantire la graduale sostituzione del gettito prodotto dai tributi soppressi in occasione della istituzione dell'imposta regionale sulle attività produttive. In particolare, la ricorrente, riferite le altre modifiche apportate al regime transitorio, lamenta che, per effetto della norma impugnata, sia stato introdotto nel comma 147 dell'art. 3 della legge n. 662 del 1996 una ulteriore lettera e-bis) avente il seguente tenore: "il gettito dell'IRAP, ai fini della determinazione del fondo sanitario di cui alla lett. d) e delle eccedenze di cui alla lett. e) viene ricalcolato considerando l'aliquota base di cui al comma 144, lett. e)". Ritiene la Regione Lombardia che in conseguenza di tale modifica - a differenza di quanto originariamente previsto dalla lettera d) dell'art. 3, comma 147, della legge n. 662 del 1996 - le dotazioni proprie del Fondo sanitario e le eccedenze dovute allo Stato verrebbero calcolate con riferimento ad un parametro maggiore costituito dall'intero gettito dell'IRAP e non più da una percentuale di esso, come previsto dalla disposizione ultima citata. Da ciò la ricorrente fa derivare l'ulteriore conseguenza che, per un verso, l'aumento della dotazione propria della regione comporterebbe, quale effetto indotto, la diminuzione dei trasferimenti statali destinati a finanziare il servizio sanitario regionale e, per altro verso, che si determinerebbe un più elevato ammontare delle eccedenze che le regioni debbono, secondo quanto previsto dalla lettera e) dell'art. 3, comma 147, della legge n. 662 del 1996, riversare allo Stato.

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3.1.- La censura, così sintetizzata, è inammissibile. 3.2.- Invero, la ricorrente si limita a lamentare che, per effetto del descritto meccanismo, le regioni vedrebbero ridotte le loro complessive disponibilità finanziarie a causa, a quanto è dato intendere, di minori rimesse statali e di maggiori fondi in eccedenza da dover restituire allo Stato. Dato e non concesso che l'effetto della modifica normativa sia quello lamentato dalla ricorrente, questa Corte, con riferimento al tema della autonomia finanziaria regionale, garantita dall'art. 119 della Costituzione, ha in più occasioni statuito che la legge fondamentale non garantisce alle regioni una determinata quantità di risorse, ma solo il diritto di disporre di risorse finanziarie che risultino complessivamente non inadeguate rispetto ai compiti loro attribuiti (cfr., da ultimo, sentenza n. 507 del 2000). In altre parole, la autonomia finanziaria regionale ha valenza strumentale, e la sua tutela entra in gioco in quanto, per effetto della violazione del relativo principio, venga in concreto meno la possibilità per la regione di attuare le sue prerogative di autonomia legislativa ed amministrativa. In proposito, la Regione ricorrente non solo non fornisce alcuna dimostrazione della effettività del meccanismo denunziato (cioè in ordine alla reale diminuzione della sua complessiva disponibilità finanziaria), ma, e questo è il dato che determina la inammissibilità della censura proposta, neppure ipotizza che, per effetto della pretesa riduzione di tale disponibilità, essa si troverebbe a godere di una dotazione non più congrua e comunque non sufficiente per l'espletamento dei compiti che le sono affidati. 4.- Gli artt. 65 e 66 della legge n. 448 del 1998 vengono impugnati in base ad argomenti coincidenti, sicché l'esame delle relative censure può, questa volta, essere unitariamente condotto. Lamenta la ricorrente che il citato art. 65, nel prevedere la concessione di benefici economici in favore dei nuclei familiari composti da cittadini residenti, aventi tre o più figli minorenni e con determinate condizioni di reddito, disponga che il beneficio sia (nell'originario testo) "erogato dai comuni", i quali hanno altresì il compito di informare la cittadinanza sulla disponibilità dei predetti benefici. Tale disposizione viene ritenuta in contrasto con gli artt. 117, 118 e 97 della Costituzione, in quanto lesiva delle attribuzioni regionali in materia di servizi sociali, così come riconosciute dal D.Lgs 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59.) Premesso, infatti, che l'art. 128 del citato decreto legislativo fornisce una definizione dei "servizi sociali" nell'ambito della quale rientra la erogazione degli assegni in questione, la ricorrente fa presente che, secondo quanto previsto dall'art. 131 dello stesso decreto legislativo, "tutte le funzioni ed i compiti amministrativi nella materia dei servizi sociali" sono conferiti alle regioni ed agli enti locali, mentre, a mente del successivo art. 132, il trasferimento, o la delega, di funzioni in siffatta materia da parte delle regioni in favore degli enti locali deve intervenire, nei sei mesi successivi alla emanazione del D.Lgs. n. 112 del 1998, attraverso la adozione di apposite misure di legislazione regionale. La norma impugnata, viceversa, attribuendo direttamente i ricordati compiti ai comuni, risulterebbe, secondo la ricorrente, in aperto contrasto con gli artt. 117 e 118 della Costituzione, in relazione a quanto previsto, appunto, dal ricordato D.Lgs n. 112 del 1998, la cui disciplina integra, in quanto norma interposta, il parametro costituzionale. Analogo discorso vale per l'art. 66 della legge n. 448 del 1998, il quale (nel testo originario) dispone la possibilità per i comuni di erogare in favore delle madri di figli nati successivamente al 1° luglio 1999 le quali si trovino in determinate condizioni di reddito, un assegno in danaro per un periodo di tempo non superiore a cinque mesi. Anche in questo caso, come nel precedente, la Regione Lombardia lamenta la violazione di una competenza attribuitale, attraverso il D.Lgs. n. 112 del 1998, dagli artt. 117 e 118 della Costituzione.

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4.1.- La censura è in ambedue i casi inammissibile. 4.2.- Va, preliminarmente, rilevato che successivamente alla proposizione del ricorso le due norme impugnate sono state oggetto di una modifica, che non è, tuttavia, tale da giustificare la sopravvenuta cessazione della materia del contendere sul punto; infatti, con l'art. 50 della legge 17 maggio 1999, n. 144 (Misure in materia di investimenti, delega al Governo per il riordino degli incentivi all'occupazione e della normativa che disciplina l'I.N.A.I.L., nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali), le due norme sono state novellate nel senso di attribuire ai comuni il potere di "concedere" i detti benefici, la cui materiale erogazione è ora di competenza dell'Istituto nazionale della previdenza sociale. 4.3.- Ciò posto, osserva questa Corte che la censura formulata dalla Regione Lombardia si fonda sull'assunto che il D.Lgs. n. 112 del 1998, in quanto adottato in attuazione degli artt. 117 e 118 della Costituzione, ne mutua la valenza costituzionale, potendo, quindi, essere apprezzato quale parametro di legittimità di disposizioni legislative ad esso successive. Tale assunto è infondato. Invero, come già affermato da questa Corte in relazione ad altra norma legislativa avente analoga finalità di conferire alle regioni la competenza su funzioni proprie dello Stato - si trattava del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382) -, la circostanza, allegata dalla ricorrente, che il D.Lgs. n. 112 del 1998 sia con la Costituzione in rapporto di immediata attuazione non ha alcuna influenza sulla determinazione del rango o del valore formale delle disposizioni in esso contenute, tanto che queste ultime, per un verso, non possono fungere da parametro nei giudizi di legittimità costituzionale e, per altro verso, ben possono essere derogate da leggi successive che diversamente ripartiscano, come nel presente caso, fra enti locali delle competenze delegate od assegnate alle regioni (cfr. sentenza n. 85 del 1990). 5.- Ulteriore questione viene sollevata dalla Regione Lombardia riguardo ai commi 1 e 2 dell'art. 68 della legge n. 448 del 1998, in riferimento all'art. 119 della Costituzione, in relazione all'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), ed all'art. 11 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421.) Osserva la ricorrente che per effetto delle disposizioni censurate, le quali prevedono l'esenzione dal pagamento della quota fissa (ticket) per le ricette relative alle prestazioni di diagnostica strumentale e di laboratorio nonché per le prescrizioni diagnostiche e specialistiche inerenti la certificazione di idoneità per il servizio civile presso ente convenzionato con il Ministero della difesa, sarebbe pregiudicata la autonomia finanziaria della regione, poiché, nei fatti, ne verrebbero ridotte le entrate. 5.1.- La censura è inammissibile. Come già osservato, in tanto la riduzione di entrate in favore dell'ente locale, determinata in conseguenza di un intervento legislativo statale, ha rilievo, sotto il profilo della violazione della autonomia finanziaria regionale, in quanto, a causa della diminuita disponibilità, la regione non possa adeguatamente fare fronte alle attività di sua competenza. Peraltro l'orientamento di questa Corte è fermo nel rilevare che non vi è violazione costituzionale allorché, in occasione di manovre di finanza pubblica, quale è quella complessivamente realizzata con legge n. 448 del 1998, si determinino, per effetto di innovazioni legislative statali, riduzioni nella disponibilità finanziaria delle regioni, purché esse non siano tali da comportare uno squilibrio incompatibile con le esigenze complessive della spesa regionale (cfr., fra le più recenti, sentenza n. 138 del 1999). Nel presente caso, non solo tale squilibrio non è neppure allegato, limitandosi la ricorrente a lamentare genericamente la riduzione delle entrate, ma è da escludersi posto che, come osservato dalla difesa dello

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Stato e non contestato da quella della ricorrente, alla riduzione delle entrate si associano, per altra via, dei risparmi di spesa tali, ad ogni modo, da compensare la detta riduzione. 6.- L'art. 68 della legge n. 448 del 1998 viene, altresì, impugnato dalla ricorrente, con riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, in relazione all'art. 8 del D.Lgs. n. 502 del 1992, nella parte in cui, ai commi 3, 4, 5, 7 e 9, rispettivamente: - (ai commi 3 e 4) intervenendo sull'art. 36 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) attraverso l'inserimento di un nuovo periodo nel comma 16 e di un ulteriore comma, denominato 16-bis, detta la disciplina concernente i criteri di determinazione della eccedenza della spesa farmaceutica rispetto alla previsione annuale nonché i criteri per l'individuazione dell'ammontare della quota di questa che le imprese titolari della autorizzazione alla immissione in commercio dei farmaci, le imprese distributrici e le farmacie, pubbliche e private, aperte al pubblico sono tenute a versare allo Stato; - (al comma 5) attribuisce alla Commissione prevista dall'art. 36, comma 16, della legge n. 449 del 1997 il compito, in una prima fase, di proporre al Ministro della sanità l'adozione di misure idonee al contenimento ed alla riduzione della spesa farmaceutica per l'anno 1999 e, successivamente, di verificare il raggiungimento degli obbiettivi in questione; - (al comma 7) istituisce, in seno al Ministero della sanità, l'Osservatorio nazionale sull'impiego dei medicinali, attribuendo a tale organismo il compito di raccogliere dati sull'impiego dei medicinali, di svolgere i compiti già attribuiti all'osservatorio centrale degli acquisti e dei prezzi ed, infine, di redigere un rapporto annuale, indirizzato al Ministro della sanità, volto a confrontare l'andamento della spesa farmaceutica erogata dal servizio sanitario nazionale con quello della spesa erogata con sistemi alternativi e relativa ai farmaci somministrati direttamente in ambito ospedaliero; - (al comma 9) stabilisce l'obbligo per le farmacie di fornire al Ministero della sanità i dati di vendita dei medicinali dispensati con onere a carico del servizio sanitario nazionale. Lamenta la ricorrente che, in base alle illustrate disposizioni, le regioni sarebbero totalmente estromesse sia dal procedimento di calcolo delle eccedenze della spesa sanitaria (rectius: farmaceutica) sia dal calcolo dei contributi dovuti dai produttori e dai distributori di farmaci ai fini della copertura di tale eccedenza. Osserva, infatti, la ricorrente che, a fronte delle ampie competenze attribuite alle regioni dall'art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 502 del 1992, la disciplina in questione prevede esclusivamente che queste siano tenute a trasmettere al Ministero della sanità i dati relativi alla vendita dei farmaci erogati con onere a carico del servizio sanitario nazionale; ciò, si afferma nel ricorso, in violazione del principio, generale nella materia assistenziale e sanitaria, in base al quale le regioni devono essere in condizione di ottenere tutte le informazioni relative alla materia de qua e non possono essere estromesse in favore dell'amministrazione centrale. La censura, come articolata, è inammissibile. Va preliminarmente osservato che, per effetto della intervenuta abrogazione, ad opera dell'art. 85, comma 31, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -legge finanziaria 2001), sia del secondo e terzo periodo del comma 16 dell'art. 36 della legge n. 449 del 1997 che dell'intero comma 16-bis della medesima disposizione legislativa, non è più in vigore il complesso meccanismo normativo relativo al contributo dovuto dalle imprese produttrici e distributrici di farmaci allo Stato per il parziale ripianamento della eccedenza della spesa farmaceutica, nonché per la individuazione delle singole quote dovute. Tale circostanza non esclude, tuttavia, che perduri, per il periodo anteriore alla intervenuta abrogazione, un interesse alla decisione sulla questione sollevata dalla Regione Lombardia.

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Osserva questa Corte che, in sostanza, la Regione ricorrente lamenta che, attraverso la normativa denunziata, siano state lese le «ampie competenze attribuite alla Regione dall'art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 502 del 1992». A parte i rilievi sulla pertinenza del riferimento normativo, atteso che la norma indicata riguarda i rapporti fra le farmacie, pubbliche e private, ed il Servizio sanitario nazionale, prescrivendo che gli stessi siano disciplinati da convenzioni di durata triennale che tengano conto dei principi indicati nelle lettere a), b) e c) dello stesso comma 2 del predetto art. 8, la norma che si assume violata è, anche in questo caso, una norma di rango ordinario, tale quindi da non giustificare, in caso di modificazione da parte di altra norma successiva, il giudizio di costituzionalità della legge sopravvenuta. 7.- Infine, la ricorrente Regione censura l'art. 71 della legge n. 448 del 1998, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, in relazione al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali), all'art. 2 del D.Lgs. n. 502 del 1992 ed all'art. 114 del D.Lgs. n. 112 del 1998. Tale norma prevede lo stanziamento di somme di danaro per interventi di riqualificazione della assistenza sanitaria nei grandi centri urbani, da individuarsi, su proposta del Ministro della sanità, dalla Conferenza unificata Stato-regioni e province autonome e Stato-città, tenendo in particolare considerazione le zone centro-meridionali della Nazione. Ad avviso della ricorrente sarebbe lesiva delle sue attribuzioni la circostanza che nella individuazione di tali interventi venga concesso un ampio spazio ai comuni, i quali debbono essere sentiti nella fase di elaborazione dei progetti; sono rappresentati dalla Associazione nazionale comuni d'Italia nella istruttoria volta alla realizzazione dei medesimi interventi; possono, decorso il termine per la presentazione dei progetti di intervento da parte delle regioni, sostituirsi ad esse e presentarne di propri. La norma viene altresì censurata in relazione al "coinvolgimento" della Conferenza unificata Stato-regioni e Stato-città sia nella fase di individuazione dei grandi centri urbani potenzialmente idonei ad essere destinatari degli interventi, sia nella fase relativa alla scelta dei progetti meritevoli di finanziamento, cioè in questioni ritenute essenzialmente di spettanza regionale. 7.1.- La questione, sotto il duplice profilo prospettato, è infondata. 7.2.- Invero, quanto alla asserita illegittimità costituzionale del "coinvolgimento" della Conferenza unificata Stato-città e Stato-regioni nella attività istruttoria volta alla individuazione delle sedi ove realizzare gli interventi di riqualificazione e riorganizzazione della assistenza sanitaria di cui al comma 1 della norma censurata, basti rilevare, secondo l'orientamento ancora di recente ribadito da questa Corte (cfr. sentenza n. 408 del 1998), che è frutto della discrezionalità del legislatore, non in contrasto con la Costituzione, la attivazione della Conferenza unificata Stato-regioni e Stato-città quale strumento di raccordo fra il Governo e il sistema delle autonomie ogniqualvolta siano in discussione temi che coinvolgano interessi comuni vuoi delle regioni, vuoi degli enti locali. Peraltro, le concrete modalità di funzionamento della Conferenza unificata tutelano adeguatamente la posizione delle regioni, posto che nell'organismo unificato non vi è la totale compenetrazione fra la Conferenza Stato-regioni e quella Stato-città, che, anzi, rimangono organismi fra loro ben distinti, come è chiaramente indicato dalla previsione contenuta nell'art. 9, comma 4, della legge n. 281 del 1997, secondo la quale, ai fini delle deliberazioni di competenza, l'assenso della Conferenza unificata è assunto attraverso il consenso distinto dei membri dei due gruppi delle autonomie che compongono le due Conferenze. Nessun dubbio, infine, che la materia di cui si sta trattando sia tale da coinvolgere gli interessi sia delle regioni sia degli altri enti locali rappresentati nella conferenza unificata, posto che essa concerne la realizzazione di interventi di riorganizzazione e riqualificazione sanitaria nei grandi centri urbani.

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7.3.- Quanto, infine, al profilo relativo alla attribuzione di compiti ai comuni ed alla loro associazione esponenziale (ANCI) nella fase propositiva ed istruttoria degli interventi in questione, osserva questa Corte che, con riferimento alla possibilità per i comuni di presentare propri progetti di intervento, essa non è lesiva di competenze regionali, posto che tale possibilità, peraltro prevista limitatamente ai comuni già individuati dalla Conferenza unificata, entra in giuoco solo se la singola regione abbia omesso - nel termine fissato e previa intesa legislativamente prevista con la Conferenza Stato-regioni con decreto del Ministro della sanità - di presentare un suo progetto. Relativamente all'obbligo delle regioni di elaborare i propri progetti di intervento avendo prima proceduto alla audizione dei comuni interessati, non vi è poi alcuna lesione di competenze costituzionalmente garantite, in quanto il compito di formulare i progetti in questione rimane riservato alle regioni stesse. Quanto, da ultimo, alla partecipazione dell'ANCI alla commissione cui è demandato lo svolgimento della istruttoria sulla base della quale, in un momento successivo, saranno individuati dal Ministro della sanità, d'intesa con la Conferenza unificata, i progetti di intervento ammessi al finanziamento pubblico, anche in questo caso la censura va respinta in quanto la partecipazione nella fase istruttoria di tutte le soggettività pubbliche interessate alla successiva decisione è ben lungi dal ledere alcuna competenza regionale. Per questi motivi La Corte Costituzionale a) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe, relativamente: - all'art. 3, commi 4, 5 e 6, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), in riferimento agli artt. 3 e 10 (recte: 11) della Costituzione; - all'art. 6 della medesima legge, in riferimento all'art. 119 della Costituzione; - agli artt. 65 e 66 della medesima legge, in riferimento agli artt. 97, 117 e 118 della Costituzione; - all'art. 68, commi 1, 2, 3, 4, 5, 7 e 9 della medesima legge, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione; b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 71 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), sollevata, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2001.

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Sent. 4 luglio 2001, n. 230

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Sardegna, riapprovata il 6 giugno 2000 (Istituzione delle province di Carbonia-Iglesias, del Medio Campidano, dell'Ogliastra e di Olbia-Tempio), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 22 giugno 2000, depositato in cancelleria il 1° luglio 2000 ed iscritto al n. 15 del registro ricorsi 2000. Visto l'atto di costituzione della Regione Sardegna; udito nell'udienza pubblica dell'8 maggio 2001 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky; udito l'avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ritenuto in fatto 1.1. - Con ricorso notificato il 22 giugno 2000 e depositato il successivo 1° luglio, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha promosso, in riferimento all'art. 3, lett. b), dello Statuto speciale per la Sardegna (L.Cost. 26 febbraio 1948, n. 3), giudizio di legittimità costituzionale in via principale della delibera legislativa della Regione Sardegna, già approvata dal Consiglio regionale il 14 aprile 2000 e riapprovata, con modifiche, il 6 giugno 2000 (Istituzione delle province di Carbonia-Iglesias, del Medio Campidano, dell'Ogliastra e di Olbia-Tempio). 1.2. - Il Governo ricorrente rileva preliminarmente che nella seduta del 14 aprile 2000 il Consiglio regionale della Sardegna aveva approvato, con il medesimo titolo di quello successivamente riapprovato, un testo di legge regionale che era stato rinviato allo stesso Consiglio, a norma dell'art. 33 della L.Cost. 26 febbraio 1948 n. 3, per un duplice ordine di osservazioni: a) perché l'istituzione delle quattro nuove province non sarebbe stata ammissibile, rientrando nelle competenze della Regione solo l'ordinamento e la modifica delle circoscrizioni degli enti locali, non anche l'istituzione di nuovi enti, e b) perché, per «l'embricazione» fra la legislazione regionale e la disciplina statale concernente gli organi di livello provinciale, la delibera legislativa approvata non appariva chiara quanto alla insussistenza di oneri per lo Stato. Nella seduta del 6 giugno 2000 peraltro - prosegue il ricorrente - il Consiglio regionale della Sardegna aveva riapprovato, a maggioranza assoluta, il precedente testo oggetto di rinvio, con la sola aggiunta, nell'unico articolo di cui si compone la delibera, di un comma 3, aggiunta (contenente un mero richiamo a una precedente legge regionale) che però si assume essere improduttiva di effetti rispetto alle censure del Governo. 1.3. - Secondo il ricorrente, la delibera esorbita dalle competenze della Regione Sardegna.

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Con essa si dispone, in attuazione di una precedente legge regionale [la legge della Regione Sardegna 2 gennaio 1997, n. 4 (Riassetto generale delle province e procedure ordinarie per l'istituzione di nuove province e la modificazione di circoscrizioni provinciali)], l'istituzione di quattro nuove province, con la conseguente nuova delimitazione degli ambiti di quelle già esistenti nella Regione Sardegna. Ma l'istituzione per via legislativa di nuove province, secondo il ricorrente, non sarebbe consentita alla Regione, giacché l'art. 3, lett. b), dello Statuto speciale di autonomia, così come modificato dall'art. 4 della L.Cost. 23 settembre 1993, n. 2 (Modifiche ed integrazioni agli Statuti speciali per la Valle d'Aosta, per la Sardegna, per il Friuli-Venezia Giulia e per il Trentino-Alto Adige), nel riconoscere alla Regione autonoma competenza legislativa (esclusiva) in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», ammetterebbe, ad avviso del Governo ricorrente, solo l'organizzazione degli enti in questione e non anche la loro istituzione. Del resto, prosegue il Governo, circa la portata delle innovazioni introdotte dalla legge costituzionale n. 2 del 1993, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 415 del 1994, avrebbe soltanto rilevato che tale riforma «disegna il quadro delle competenze delle regioni ad autonomia speciale ... in materia di enti locali, privilegiando il criterio di maggiore ampiezza e di sostanziale uniformità», ma non avrebbe certo affermato che per effetto di essa è stato attribuito alle regioni il potere di istituire nuove province. Né potrebbe addursi la legittimità della delibera impugnata in base alla precedente legge regionale n. 4 del 1997, «in attuazione» della quale (secondo la formulazione in sede di riapprovazione) l'istituzione delle nuove province sarebbe stata disposta: e ciò non solo perché l'illegittimità costituzionale della disciplina nuova non può in alcun caso essere sanata o superata dalla mancata impugnazione della legge precedente, ma anche perché l'art. 1 della richiamata legge regionale n. 4 del 1997 non consentirebbe a sua volta l'istituzione di nuove province, limitandosi a disciplinare, tra l'altro, le procedure ordinarie per l'istituzione di nuove province, cioè - afferma il ricorrente - quelle procedure, preliminari o successive, che sono connesse all'istituzione di nuovi enti; la legge n. 4 citata, osserva dunque il Governo, non contiene una disposizione che come tale autorizzi l'istituzione ex novo delle province, ma si limiterebbe a porre un quadro di norme di «promozione» dell'istituzione medesima, secondo l'art. 16, comma 3, della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) [ora, art. 21, comma 3, lett. f)), del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267.] Pertanto, conclude sul punto il ricorrente, resta fermo anche per la Regione Sardegna che nuove province possono essere istituite solo con leggi della Repubblica, a norma dell'art. 133 Cost. La censura così formulata, si osserva infine nel ricorso, «assorbe» ogni altra censura dedotta in sede di rinvio e in particolare quella, «che pur si ripropone» nel giudizio costituzionale, della omessa precisazione della insussistenza di oneri per lo Stato, oneri che sono comunque configurabili, «indipendentemente dal disposto dell'art. 16, comma 2, lett. f), della legge n. 142 del 1990», in ogni caso in cui venga a essere istituito un nuovo ente provinciale. 2. - Nel giudizio così promosso la Regione Sardegna ha depositato atto di costituzione oltre il termine stabilito dall'art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale. Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale della delibera legislativa della Regione Sardegna del 14 aprile 2000, riapprovata il 6 giugno 2000, concernente la «istituzione delle province di Carbonia-Iglesias, del Medio Campidano, dell'Ogliastra e di Olbia-Tempio», ritenendo che essa comporti la violazione dell'art. 3, lett. b), dello Statuto regionale (L.Cost. 26 febbraio 1948, n. 3.) Secondo il ricorrente, l'istituzione di nuove province non è compresa nella competenza relativa all'«ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», spettante alla Regione Sardegna in forza del citato art. 3, lett. b), dello Statuto, quale risulta dalla modifica apportata con l'art. 4 della L.Cost. 23

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settembre 1993, n. 2 (Modifiche ed integrazioni agli Statuti speciali per la Valle d'Aosta, per la Sardegna, per il Friuli-Venezia Giulia e per il Trentino-Alto Adige). Tale competenza comprenderebbe la «mera organizzazione» degli enti territoriali ma non la loro istituzione - istituzione disciplinata in generale dall'art. 133 Cost., primo comma, che, per le province, richiede la legge statale, da approvarsi, su iniziative dei comuni, sentita la regione. Oltre a ciò, è denunciato il silenzio che la delibera legislativa impugnata tiene circa l'inesistenza di oneri per lo Stato, oneri che - a detta del ricorrente - sarebbero configurabili indipendentemente da quanto dispone[va] l'art. 16, comma 2, lett. f), della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) [norma ora contenuta nell'art. 21, comma 3, lett. f), del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali)]. 2. - Sebbene il testo approvato nella seconda deliberazione non coincida letteralmente con quello approvato nella prima, il ricorso è ammissibile. Il Consiglio regionale, infatti, si è limitato ad aggiungere, nei commi 1 e 3 dell'articolo unico di cui consta la delibera, un richiamo alla legge regionale 2 gennaio 1997, n. 4 (Riassetto generale delle province e procedure ordinarie per l'istituzione di nuove province e la modificazione delle circoscrizioni provinciali). Poiché il testo legislativo approvato già in sede di prima deliberazione si deve intendere adottato in attuazione (non in deroga) rispetto a tale legge generale, il richiamo esplicito che a essa è fatto nella seconda deliberazione assume carattere esclusivamente dichiarativo, non innovativo. Pertanto, conformemente alla costante giurisprudenza di questa Corte (a partire dalla sentenza n. 158 del 1988, più volte successivamente confermata), il testo sul quale il Consiglio regionale si è pronunciato con la seconda deliberazione non può ritenersi nuovo. Di conseguenza, il Governo, contro di esso, era abilitato a promuovere il ricorso di costituzionalità, e non il rinvio della legge al Consiglio regionale. 3. - Nel merito, il ricorso è infondato. 3.1. - La questione da decidere è se nella competenza legislativa della Regione Sardegna in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» (art. 3, lett. b), della L.Cost. 26 febbraio 1948 n. 3) rientri o sia esclusa l'istituzione di nuovi enti provinciali. L'art. 133 Cost., primo comma, stabilisce che «[...] la istituzione di nuove Provincie nell'ambito d'una Regione» è stabilita «con leggi della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione». Ma l'art. 116 Cost. prevede anche che «alla Sardegna [...] sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia», secondo lo Statuto speciale, adottato con legge costituzionale. Avendo dunque lo Statuto forza derogatoria rispetto alla disciplina dell'autonomia regionale stabilita nel Titolo V della Parte II della Costituzione, si tratta di stabilire la portata del citato art. 3, lett. b), dello Statuto stesso. Nella sua versione vigente, esso sostituisce la previsione della competenza nella limitata materia delle «circoscrizioni comunali», originariamente contenuta nella stessa disposizione statutaria approvata con la legge costituzionale n. 3 del 1948. Con la legge costituzionale n. 2 del 1993 (Modifiche ed integrazioni agli Statuti speciali per la Valle d'Aosta, per la Sardegna, per il Friuli-Venezia Giulia e per il Trentino-Alto Adige), alla Regione Sardegna e alle altre Regioni ad autonomia speciale indicate nel titolo, è stata riconosciuta uguale competenza in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», al fine dichiarato non solo di «rimuovere l'originaria diversità di regime giuridico delle regioni ad autonomia speciale in materia di enti locali» (si veda sent. n. 415 del 1994) ma anche di equiparare, sul punto in questione, la loro autonomia a quella già riconosciuta alla Regione siciliana (Camera dei Deputati, XI legislatura - Discussioni - Resoconto seduta del 6 agosto 1992, p. 2838). Quest'ultima Regione, infatti, secondo l'art. 15, terzo comma, del suo Statuto, è titolare della potestà legislativa esclusiva «in materia di circoscrizione, ordinamento [e controllo] degli enti locali» e in tale potestà è pacificamente compresa quella di istituire, con proprie leggi (si veda art. 6 della legge regionale 6 marzo 1986, n. 9, e art. 1 della legge regionale 12 agosto 1989, n. 17), i «liberi consorzi comunali» che, nella Regione Siciliana, sotto la denominazione di «province regionali» (art. 3 della medesima legge regionale n. 9 del 1986), hanno preso il posto delle province (art. 15, primo e secondo comma, del R.D.Lgs. 15 maggio 1946 n. 455.)

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Dall'identità di formulazioni normative e dall'intento di omologazione che esplicitamente ha mosso il legislatore costituzionale, deriva la conseguenza che l'ampiezza della potestà legislativa delle regioni ad autonomia speciale diverse dalla Sicilia in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni» debba essere ricostruita in conformità a quella che caratterizza la potestà legislativa di quest'ultima Regione, scontando la diversa configurazione che l'«ente intermedio» tra comuni e regione (provincia o libero consorzio comunale) riceve nelle diverse situazioni. Quanto specificamente alla Regione Sardegna, inoltre, l'art. 43 della L.Cost. 26 febbraio 1948 n. 3, fin dalla sua originaria formulazione, prevedeva la competenza legislativa della Regione circa la modifica delle circoscrizioni e delle funzioni delle province allora esistenti (Cagliari, Nuoro e Sassari), onde un'interpretazione restrittiva dell'innovazione apportata dalla legge costituzionale n. 2 del 1993 all'art. 3, lett. b), della L.Cost. 26 febbraio 1948 n. 3, quale sostenuta dal ricorrente, finirebbe per privare in gran parte di significato, per la Regione Sardegna, la riforma statutaria in tal modo operata. 3.2. - E' da considerare che, dopo l'entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 1993, in ambedue le regioni ad autonomia differenziata in cui concretamente era prospettabile un problema di rideterminazione numerica delle articolazioni provinciali - vale a dire il Friuli-Venezia Giulia e, per l'appunto, la Sardegna (escluse restando, per diverse ed evidenti ragioni, la Valle d'Aosta e il Trentino-Alto Adige) - è stata affrontata la questione sul piano normativo, dando per scontata la portata più pregnante dell'innovazione statutaria derivante dalla previsione della legge costituzionale. Il D.Lgs. 2 gennaio 1997, n. 9, contenente «Norme di attuazione dello Statuto speciale per la Regione Friuli-Venezia Giulia in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», all'art. 8, comma 1, stabilisce che «nella materia di cui all'art. 4, numero 1-bis, della L.Cost. 26 febbraio 1948 n. 3 [cioè, per l'appunto, in materia di "ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni"] è ricompresa [...] l'istituzione di nuove province [...], su iniziativa dei comuni, sentite le popolazioni interessate». A sua volta, la Regione Sardegna, con la legge regionale n. 4 del 1997, ha dettato una disciplina volta a ridefinire l'ordinamento provinciale nel suo territorio, in attuazione dell'art. 3, lett. b), della L.Cost. 26 febbraio 1948 n. 3, nella formulazione risultante dalla legge costituzionale n. 2 del 1993. Questa legge della Regione, all'art. 1, comma 2, prevede che «l'istituzione di nuove province e la modifica delle circoscrizioni provinciali sono stabilite con legge regionale, su iniziativa dei comuni», secondo vari procedimenti, aperti alla necessaria partecipazione delle comunità locali interessate, previsti dagli articoli successivi della legge. Gli sviluppi normativi anzidetti, non contraddetti fino al presente giudizio di legittimità costituzionale da atti di segno contrario, risultano così coerenti con l'interpretazione più ampia che all'innovazione contenuta nella legge costituzionale n. 2 del 1993 e all'art. 3, lett. b), della L.Cost. 26 febbraio 1948 n. 3 deve essere data, cioè col riconoscimento che la competenza a essa attribuita in materia di ordinamento degli enti locali e delle loro circoscrizioni comprende anche l'istituzione di nuove province: istituzione che - contrariamente a quanto adombrato col secondo motivo di ricorso - non comporta alcuna conseguenza sull'organizzazione amministrativa dello Stato. Nella legislazione concernente le province (oltre che i comuni) quali circoscrizioni di decentramento statale, alla stregua dell'art. 129 Cost., primo comma, non è infatti stabilito alcun nesso necessario tra l'istituzione di una provincia e la creazione di uffici statali decentrati su scala corrispondente. Rientra pur sempre nella discrezionalità del legislatore statale la determinazione dell'àmbito territoriale di competenza dei propri uffici decentrati, tanto più in quanto la provincia ha ormai perso la sua originaria prevalente matrice di circoscrizione dell'amministrazione decentrata del Ministero dell'interno per assumere la natura essenziale di ente espressivo di una delle dimensioni del sistema dell'autonomia locale tracciato dalla Costituzione. Della discrezionalità delle scelte organizzative statali che da tale non necessaria coincidenza deriva è manifestazione - oltre che l'art. 11 del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell'organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), il quale, riorganizzando le prefetture attraverso la loro trasformazione in uffici territoriali del governo, non fa riferimento alcuno alla loro dimensione provinciale - l'art. 16, comma 2, lett. f), della legge n. 142 del 1990, norma ora trasfusa nell'art. 21, comma 3, lett. f), del testo unico sull'ordinamento degli enti locali, approvato con il decreto legislativo n. 267 del 2000, che - con riferimento alle regioni ad autonomia ordinaria - prevede che l'iniziativa dei comuni

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per la revisione delle circoscrizioni provinciali e l'istituzione di nuove province tenga conto del fatto che «l'istituzione di nuove province non comporta necessariamente l'istituzione di uffici provinciali delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici». Analogamente, in riferimento alla regione Friuli-Venezia Giulia, il citato decreto legislativo n. 9 del 1997 fa salva «la facoltà dello Stato di non istituire propri uffici decentrati nelle nuove province». E, sulla stessa premessa dell'inesistenza di una corrispondenza necessaria tra provincia-ente autonomo e provincia-circoscrizione di decentramento statale, l'art. 12, comma 2, della citata legge regionale sarda n. 4 del 1997 stabilisce che «la Regione provvede [...] a promuovere tutte le opportune iniziative nei confronti dello Stato, affinché il decentramento statale tenda a corrispondere agli ambiti territoriali provinciali nel territorio della Regione». 4. - Le ragioni esposte - col riconoscimento all'art. 3, lett. b), della L.Cost. 26 febbraio 1948 n. 3, quale risulta dalla modifica apportata con l'art. 4 della legge costituzionale n. 2 del 1993, della capacità derogatoria rispetto alla generale disciplina in tema di istituzione di nuove province contenuta nell'art. 133 Cost., primo comma - portano a ritenere quindi che rientra nelle competenze della Regione Sardegna l'istituzione di nuove province nel suo territorio, nei limiti indicati nell'incipit dell'art. 3 della L.Cost. 26 febbraio 1948 n. 3 e, segnatamente, nei limiti derivanti dall'armonia con le norme della Costituzione, anche estranee al titolo V della sua seconda parte, e con i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della delibera legislativa della Regione Sardegna del 14 aprile 2000, riapprovata il 6 giugno 2000 (Istituzione delle province di Carbonia-Iglesias, del Medio Campidano, dell'Ogliastra e di Olbia-Tempio), sollevata, in riferimento all'art. 3, lett. b), dello Statuto speciale per la Sardegna (L.Cost. 26 febbraio 1948, n. 3), dal Presidente del Consiglio dei Ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2001.

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Sent. 6 giugno 2001, n. 208

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28, recante «Disposizioni in materia tributaria, di funzionamento dell'Amministrazione finanziaria e di revisione generale del catasto», promossi con ricorsi delle Regioni Piemonte, Veneto e Lombardia, notificati il 24 marzo 1999, depositati in cancelleria, i primi due, il 31 marzo e, il terzo, il 1° aprile 1999 ed iscritti rispettivamente ai nn. 10, 11 e 12 del registro ricorsi 1999. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei Ministri; udito nell'udienza pubblica del 6 febbraio 2001 il Giudice relatore Fernanda Contri; uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Luigi Manzi per le Regioni Piemonte e Veneto, Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Giancarlo Mandò per il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso regolarmente notificato e depositato, la Regione Piemonte ha sollevato in via principale, in riferimento agli artt. 3, 53, 76, 97, 117, 118 e 119 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28 (Disposizioni in materia tributaria, di funzionamento dell'Amministrazione finanziaria e di revisione generale del catasto), recante - a tenore della rubrica - "Interpretazione autentica della disciplina concernente le ritenute sugli interessi e sui redditi di capitale". La disposizione censurata ha ad oggetto l'art. 26, quarto comma, terzo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), che disciplina le ritenute sugli interessi e sui redditi di capitale, disponendo che esse "sono applicate a titolo di imposta nei confronti dei soggetti esenti dall'imposta sul reddito delle persone giuridiche ed in ogni altro caso". L'impugnata disposizione interpretativa stabilisce che la riportata norma, "riguardante l'applicazione della ritenuta a titolo d'imposta sugli interessi, premi ed altri frutti delle obbligazioni e titoli similari e sui conti correnti, deve intendersi nel senso che tale ritenuta si applica anche nei confronti dei soggetti esclusi dall'imposta sul reddito delle persone giuridiche". Ad avviso della ricorrente, il denunciato art. 14 della legge n. 28 del 1999 risulta irragionevole innanzi tutto alla luce dell'art. 88, comma 1, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), a norma del quale - in séguito ad una modifica introdotta, con effetto dal 1° gennaio 1991, dall'art. 4, comma 3, del decreto-legge n. 310 del 1990, convertito nella legge n. 403 del 1990 - non sono soggetti all'imposta sul reddito delle persone giuridiche "gli organi e le amministrazioni dello Stato, compresi quelli ad ordinamento autonomo, anche se dotati di personalità giuridica, i comuni, [i consorzi tra enti locali, le associazioni e gli enti gestori di demani collettivi,] le comunità montane, le province e le regioni". E' "contraddittorio", osserva a questo riguardo la difesa della Regione, ed in contrasto con il principio di capacità contributiva, "prevedere, ad un tempo, la non assoggettabilità a tributo di un dato soggetto e l'obbligo, per questo, di sottoporsi ad una ritenuta d'imposta", senza, tra l'altro - in contrasto con il principio di eguaglianza - che sia contemplata la possibilità di recuperare tale ritenuta in sede di

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dichiarazione annuale, secondo quanto previsto prima della modifica dell'art. 88 del testo unico, quando la regione, soggetto passivo Irpeg, era tenuta a differenziare le proprie operazioni, a contabilizzare a parte quelle fiscalmente rilevanti e a subire la ritenuta a titolo d'imposta, accompagnata dalla facoltà di recupero. In altri termini, l'art. 53 Cost. ed il principio di ragionevolezza risulterebbero violati "poiché la ritenuta a titolo d'imposta cade su somme depositate in conto corrente che non sono correlate al presupposto in base al quale un soggetto è colpito dall'Irpeg: infatti, la Regione non compie - per definizione, ex art. 88, comma 1, del D.P.R. n. 917 del 1986 - le attività di cui all'art. 51 del medesimo decreto presidenziale e, nondimeno, è tenuta a subire un prelievo che si traduce in un esborso sine titulo". Il principio di ragionevolezza, ad avviso della ricorrente, avrebbe subito un vulnus dalla disciplina denunciata anche a causa dell'uso distorto da parte del legislatore, in questa occasione, dello strumento della legge interpretativa: "la preoccupazione di acquisire disponibilità finanziarie, accompagnata dal metodo concretamente prescelto - ricorso alla legge interpretativa, perché retroattiva, incidente non sulla soggettività tributaria sostanziale, ma su un meccanismo procedurale, qual è lo strumento della ritenuta - ha portato alla manipolazione artificiosa del sistema creato con l'art. 88, comma 1, del D.P.R. n. 917 del 1986 ed alle conseguenti ... distorsioni". Le denunciate distorsioni si traducono, secondo la difesa della Regione Piemonte, in una lesione dell'autonomia finanziaria della stessa e del suo status costituzionale complessivamente inteso, come definito dagli artt. 117, 118 e 119 Cost. A questo riguardo, nel ricorso, si legge: "là dove il legislatore ha surrettiziamente assoggettato ad Irpeg, attraverso una ritenuta a titolo d'imposta, la Regione, dopo averla esclusa dall'area di operatività del tributo, in violazione tra l'altro degli artt. 3, 53 e 97 Cost. ..., ha disposto un prelievo coatto a carico di disponibilità regionali costitutive dell'autonomia finanziaria dell'ente". Nel ricorso si rammenta che alla citata modifica apportata nel 1990 all'art. 88 del testo unico - per equiparare gli enti territoriali allo Stato nel regime di esclusione dall'Irpeg, analogamente a quanto già previsto per diversi altri tributi - anche l'amministrazione finanziaria si è inizialmente adeguata con la risoluzione ministeriale 11 novembre 1991 n. 11/733 e con la risoluzione della Direzione generale delle imposte dirette 8 gennaio 1993, n. 8/645. Alla modifica dell'art. 88 del D.P.R. n. 917 del 1986, ad opera del citato decreto-legge n. 310 del 1990, si è successivamente adeguata - afferma, con dovizia di riferimenti, la difesa della Regione - la giurisprudenza tributaria. D'altra parte, deduce la ricorrente, "è solo equivocando circa il significato dell'espressione 'in ogni altro caso' (di cui all'art. 26, 4° comma, del D.P.R. n. 600 del 1973 ...) che si può pretendere di annoverare i soggetti esclusi dall'ambito di operatività dell'Irpeg tra quelli tenuti a subire la ritenuta d'imposta"; e ciò, si legge nel ricorso, anche per una ragione ulteriore: "poiché la norma del quarto comma dell'art. 26 preesisteva alla modifica introdotta dal T.U., non poteva prevedere ipotesi di non soggettività allora inesistenti completamente, ma solo ipotesi di esenzione dall'Irpeg tutte disciplinate dal D.P.R. n. 601 del 1973", coerentemente con le disposizioni della legge di delega per la riforma tributaria n. 825 del 1971, che, opinando diversamente, nel senso poi disposto dalla disposizione censurata, risulterebbe, ad avviso della Regione, violata, unitamente all'art. 76 Cost. La ritenuta a titolo d'imposta di cui si tratta appare alla ricorrente ancor più irragionevole in quanto si consideri che i fondi di tesoreria, nel sistema di tesoreria unica di cui alla legge n. 720 del 1984, "non sono depositi bancari". Le somme generatrici degli interessi colpiti dalla ritenuta "concernono risorse che affluiscono alla Regione nell'ambito del sistema di tesoreria unica ..., risorse che sono della Regione e che nulla hanno a che vedere con il presupposto dell'Irpeg". 2. - Nel giudizio davanti a questa Corte, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri per chiedere la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso della Regione Piemonte.

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Secondo l'Avvocatura, il ricorso sarebbe anzitutto inammissibile in quanto la Regione agirebbe "come contribuente", lamentando una lesione di competenze di cui in realtà non dispone. La Regione "non ha competenza alcuna in materia di imposizione sul reddito", né "può pensarsi che l'obbligazione di imposta ossia il prelievo a carico di disponibilità finanziarie regionali limiti l'autonomia garantita dall'art. 119 Cost.". Si tratterebbe di un effetto di mero fatto del tutto irrilevante: diversamente, rileva la difesa erariale, "si dovrebbe ritenere che può portarsi sul piano costituzionale ogni rapporto nel quale la Regione possa configurarsi come debitore". Nel merito, si osserva che "la ritenuta di imposta è una imposizione reale distinta dalla imposizione personale sul reddito, sì che non vi è contraddizione tra non soggezione all'Irpeg e soggezione alla ritenuta". L'art. 26 del D.P.R. n. 600, aggiunge l'Avvocatura, prevede "che alla ritenuta sono tenuti tutti i soggetti (anche lo Stato)" e "solo perché si è aperto sul punto un esteso contenzioso è apparso opportuno emanare una norma interpretativa che è veramente tale". 3. - Con ricorso regolarmente notificato e depositato, la Regione Veneto ha sollevato in via principale, in riferimento agli artt. 3, 53, 76, 97, 117, 118 e 119 Cost. questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28. Nell'atto introduttivo del presente giudizio, la difesa della Regione Veneto svolge le medesime deduzioni contenute nel ricorso della Regione Piemonte, testé illustrate. 4. - Nel giudizio davanti a questa Corte, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri per chiedere la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso della Regione Veneto, sulla scorta degli stessi argomenti già addotti avverso il ricorso della Regione Piemonte. 5. - Con ricorso regolarmente notificato e depositato, anche la Regione Lombardia ha sollevato in via principale, in riferimento agli artt. 53, 76 Cost., all'art. 101 Cost., secondo comma, agli artt. 114, 115 e 119 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28. Nei confronti della disciplina impugnata, il ricorso della Regione Lombardia prospetta censure in larga misura coincidenti con quelle, già esaminate, contenute nei ricorsi delle Regioni Piemonte e Veneto. La ricorrente lamenta innanzi tutto la violazione del combinato disposto degli artt. 114, 115, 119, 53 e 76 Cost., così come attuati dall'art. 88 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 ed in relazione ai princìpi della legislazione tributaria e ai princìpi affermati dalla giurisprudenza costituzionale in materia di leggi interpretative. Sotto quest'ultimo profilo, la difesa della Regione, richiamando alcune decisioni costituzionali, censura l'uso distorto - e lesivo dei princìpi di ragionevolezza e affidamento - dello strumento della legge interpretativa da parte del legislatore statale, escludendo la riconducibilità (del contenuto) della legge denunciata ad uno dei possibili significati della legge interpretata. A questo proposito, si osserva che l'art. 26 del D.P.R. n. 600 del 1973, oggetto della denunciata legge interpretativa, nella parte in cui dispone che le ritenute sono applicate a titolo di imposta nei confronti dei soggetti esenti da Irpeg "ed in ogni altro caso", va interpretato alla luce della legge di delega, la quale, "nel prevedere la ritenuta (a titolo d'acconto o d'imposta) sui redditi di capitale corrisposti esclusivamente a soggetti Irpeg o a soggetti esenti, aveva dimostrato la chiara intenzione di non assoggettare al prelievo alla fonte i soggetti esclusi dal tributo". La Regione Lombardia censura la previsione legislativa che assoggetta le regioni alla ritenuta alla fonte a titolo di imposta, sottolineando altresì che, "in base ai principi propri della legislazione tributaria, la posizione di 'contribuente sostituito' postula necessariamente la soggettività ai fini dell'imposta: se ne deduce che, in difetto, la ritenuta non può essere applicata". La disciplina impugnata sarebbe d'altro canto in contrasto con l'art. 119 Cost., giacché l'esclusione dall'Irpeg della regione deriverebbe dalla sua natura di ente politico e sarebbe pertanto "direttamente collegata" con il suo grado di autonomia finanziaria costituzionalmente garantita.

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La difesa della Regione osserva poi che l'art. 26 del D.P.R. n. 600 del 1973, oggetto di interpretazione autentica, "deve dettare esclusivamente disposizioni in ordine all'applicazione dell'imposta, non potendo attrarre a tassazione ciò che la disciplina istitutiva esclude"; anche perché, si legge nel ricorso, il D.P.R. n. 600 del 1973 "è stato emanato in attuazione di una delega relativa al solo accertamento e non anche alla potestà impositiva": attraverso una disposizione in materia di riscossione - conclude su questo punto la Regione, censurando la "intrinseca contraddittorietà" della disposizione impugnata - si determina "una sostanziale reviviscenza della soggettività tributaria esclusa da una norma di diritto sostanziale". Sulla scorta di ampi richiami di giurisprudenza costituzionale, la difesa della Regione si duole poi della lesione dell'art. 101 Cost., secondo comma. L'impugnata disciplina sarebbe infatti "finalizzata a bloccare le numerose richieste di rimborso avanzate dagli enti locali a seguito della intervenuta esclusione degli stessi dall'applicazione dell'imposta sui redditi delle persone giuridiche e ad incidere, di conseguenza, sui giudizi in corso". Ad avviso della ricorrente, l'orientamento della prevalente giurisprudenza tributaria, nonché la discrepanza tra la risoluzione ministeriale dell'8 gennaio 1993 n. 8/645 e quella, successiva, del 28 dicembre 1993, n. 5/846 "inducono a ritenere che l'introduzione nel nostro ordinamento dell'art. 14 della legge n. 28 del 1999 sia stata chiaramente finalizzata ad interferire sui giudizi instaurati dagli enti contemplati dall'art. 88 del D.P.R. n. 917 del 1986 per il rimborso delle ritenute applicate a loro carico ai sensi dell'art. 26 del D.P.R. n. 600 del 1973". 6. - Anche in questo giudizio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri per chiedere la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso della Regione Lombardia, sulla scorta dei medesimi argomenti, già illustrati, addotti avverso i primi due ricorsi. 7. - In prossimità dell'udienza, la Regione Piemonte ha depositato una memoria illustrativa per insistere nelle censure prospettate in sede di ricorso e per argomentarne più diffusamente i motivi. In particolare, quanto alla natura del contestato prelievo, la Regione sottolinea che la ritenuta, d'acconto o a titolo d'imposta, "rappresenta una obbligazione di carattere strumentale, comunque riconducibile a un soggetto passivo (in senso sostanziale) di un rapporto giuridico d'imposta". In merito all'asserita lesione della propria autonomia finanziaria, la ricorrente replica alle obiezioni dell'Avvocatura precisando che tale lesione deriverebbe soprattutto dal carattere retroattivo della disposizione impugnata, illegittimamente incidente sulla consistenza delle risorse finanziarie della Regione. 8. - In prossimità dell'udienza, anche la Regione Veneto ha depositato una memoria illustrativa per insistere nelle censure prospettate in sede di ricorso, adducendo argomenti analoghi a quelli proposti dalla difesa della Regione Piemonte. 9. - Non diversamente dalle prime due ricorrenti, la Regione Lombardia ha sviluppato in una memoria illustrativa le deduzioni formulate nel ricorso ed ha svolto argomentazioni ulteriori, anche per replicare alle eccezioni e alle difese dell'Avvocatura. In particolare, la Regione Lombardia osserva che, in base alla normativa sul sistema di tesoreria (art. 2 della legge n. 720 del 1984; art. 40 della legge n. 119 del 1981; art. 2, commi 1 e 4, del D.M. 11 aprile 1981; art. 7 del decreto legislativo n. 279 del 1997; art. 66 della legge n. 388 del 2000), le assegnazioni, i contributi e quanto altro proveniente dal bilancio dello Stato dovuti alle regioni affluiscono in conti infruttiferi ad esse intestati presso le tesorerie dello Stato, mentre solo le entrate proprie delle regioni, nella misura individuata dalla legislazione statale, sono suscettibili di produrre interessi: "nel caso di specie", afferma la difesa della Regione, "si tratta ... di somme 'proprie' delle Regioni depositate in conti fruttiferi presso le tesorerie regionali e pertanto sottoposte ad una disciplina diversa rispetto a quelle depositate presso la tesoreria dello Stato". Nel caso di specie, continua la ricorrente, "non si contesta il carattere infruttifero dei conti intestati presso la tesoreria dello Stato, bensì la previsione, con efficacia retroattiva, dell'applicabilità della ritenuta Irpeg sugli interessi prodotti da somme 'proprie' della Regione, soggetto escluso dall'imposta, somme che per

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disposto della legislazione statale sono state depositate presso la tesoreria regionale su conti correnti fruttiferi". Nella memoria, la Regione Lombardia richiama diffusamente la più recente giurisprudenza costituzionale, per insistere nelle censure prospettate in riferimento all'art. 76 Cost. (sent. n. 292 del 2000 e sent. n. 425 del 2000) e sotto il profilo dell'uso distorto del potere di interpretazione autentica (sentenza n. 525 del 2000). 10. - Nell'imminenza della data fissata per l'udienza, l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato tre memorie illustrative, di contenuto analogo, per argomentare ulteriormente l'infondatezza delle questioni sollevate in via principale dalle regioni ricorrenti. Negando l'incisione, ad opera dell'impugnata disposizione interpretativa, delle attribuzioni regionali, la difesa erariale esclude innanzi tutto una significativa decurtazione dei mezzi finanziari delle ricorrenti, "attesa la ordinaria 'marginalità' delle 'operazioni' interessate dalla ritenuta nel quadro complessivo della finanza regionale", tanto più, aggiunge l'Avvocatura, che "le giacenze di tesoreria della Regione non generano frutti suscettibili della ritenuta di imposta de qua". Sulla natura della contestata ritenuta, l'Avvocatura osserva che essa "esaurisce, con carattere di realità il prelievo tributario sulle specifiche rendite finanziarie considerate ... con l'applicazione di un'aliquota proporzionale ... inferiore (27%) rispetto a quella prevista per l'Irpeg (37%)". Si configurerebbe pertanto "una imposizione ... diversa e distinta rispetto alla imposizione personale propria dell'Irpeg, la quale colpisce il reddito complessivo netto delle società e degli altri enti che vi sono assoggettati", espressione di una non irragionevole scelta discrezionale del legislatore tributario. Sulla scorta della affermata distinzione tra le due ipotesi di prelievo, la difesa erariale esclude anche la violazione del principio di eguaglianza, prospettata dalle Regioni Piemonte e Veneto in considerazione dell'impossibilità di recuperare la ritenuta subita in sede di dichiarazione annuale. L'Avvocatura esclude altresì la violazione dell'art. 53 Cost.: "la ritenuta ... afferisce unicamente ad alcuni redditi di capitale percetti (anche) dall'Ente regionale - i quali indubbiamente costituiscono di per sé indici ragionevoli di ricchezza ...- e non ad un ipotetico reddito di impresa: sicché è irrilevante la considerazione che, per definizione legislativa, la Regione non compia le attività di cui all'art. 51 del T.u.i.r. n. 917 del 1986". In sede di replica alle censure prospettate dalla Regione Lombardia, la difesa erariale, richiamando la giurisprudenza di Cassazione, afferma la riconducibilità della disposizione interpretativa impugnata al novero dei significati ascrivibili alla disposizione interpretata, per sottolineare il corretto uso dello strumento della legge di interpretazione autentica in funzione di superamento di incertezze interpretative emerse in sede applicativa. La difesa erariale esclude infine la violazione dell'art. 76 Cost., rilevando che la disposizione impugnata è stata introdotta con legge ordinaria e non già con legge delegata. Considerato in diritto 1. - Con due distinti ricorsi, le Regioni Piemonte e Veneto hanno sollevato in via principale, in riferimento agli artt. 3, 53, 76, 97, 117, 118 e 119 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28 (Disposizioni in materia tributaria, di funzionamento dell'Amministrazione finanziaria e di revisione generale del catasto), recante - a tenore della rubrica - "Interpretazione autentica della disciplina concernente le ritenute sugli interessi e sui redditi di capitale", il quale prevede che l'art. 26, quarto comma, terzo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), "riguardante l'applicazione della ritenuta a titolo d'imposta sugli interessi, premi ed altri frutti delle obbligazioni e titoli similari e sui conti correnti, deve intendersi nel senso che tale ritenuta si

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applica anche nei confronti dei soggetti - tra i quali, le Regioni - esclusi dall'imposta sul reddito delle persone giuridiche". Con un terzo ricorso, la Regione Lombardia ha sollevato in via principale questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28, in riferimento agli artt. 53, 76 Cost., all'art. 101 Cost., secondo comma, agli artt. 114, 115 e 119 Cost. La disposizione interpretativa impugnata ha ad oggetto l'art. 26, quarto comma, terzo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), che disciplina le ritenute sugli interessi e sui redditi di capitale, disponendo che esse "sono applicate a titolo di imposta nei confronti dei soggetti esenti dall'imposta sul reddito delle persone giuridiche ed in ogni altro caso". L'impugnato art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28, recante "Interpretazione autentica della disciplina concernente le ritenute sugli interessi e sui redditi di capitale", stabilisce, come si è poc'anzi ricordato, che l'art. 26, quarto comma, terzo periodo, "deve intendersi nel senso che tale ritenuta si applica anche nei confronti dei soggetti esclusi dall'imposta sul reddito delle persone giuridiche". In gran parte coincidenti, le molteplici censure prospettate con i tre ricorsi possono essere raggruppate e riformulate nei termini seguenti. In riferimento all'art. 3 Cost. (parametro evocato solo dalle Regioni Piemonte e Veneto), sotto il profilo del principio di ragionevolezza, e all'art. 101 Cost., secondo comma (parametro evocato solo dalla Regione Lombardia), l'impugnato art. 14 della legge n. 28 del 1999 sarebbe illegittimo in quanto disposizione legislativa frutto di un uso distorto e arbitrario dello strumento della legge interpretativa, non riconducibile ad uno dei possibili significati della legge interpretata: "la preoccupazione di acquisire disponibilità finanziarie, accompagnata dal metodo concretamente prescelto ... ha portato alla manipolazione artificiosa del sistema creato con l'art. 88, comma 1, del D.P.R. n. 917 del 1986" (ricorsi del Piemonte e del Veneto); la disposizione impugnata sarebbe "finalizzata a bloccare le numerose richieste di rimborso avanzate dagli enti locali a seguito della intervenuta esclusione degli stessi dall'applicazione dell'imposta sui redditi delle persone giuridiche e ad incidere, di conseguenza, sui giudizi in corso" (ricorso della Lombardia). In riferimento all'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo del principio di eguaglianza e ragionevolezza, e all'art. 53 Cost., la disciplina denunciata sarebbe costituzionalmente illegittima giacché l'art. 88, comma 1, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), dispone - in séguito alla modifica introdotta, con effetto dal 1° gennaio 1991, dall'art. 4, comma 3, del decreto-legge n. 310 del 1990, convertito nella legge n. 403 del 1990 - che le Regioni non sono soggette all'imposta sul reddito delle persone giuridiche. Ad avviso delle ricorrenti, sarebbe "contraddittorio" ed in contrasto con il principio di capacità contributiva "prevedere, ad un tempo, la non assoggettabilità a tributo di un dato soggetto e l'obbligo, per questo, di sottoporsi ad una ritenuta d'imposta", senza, tra l'altro, che sia contemplata la possibilità di recuperare tale ritenuta in sede di dichiarazione annuale; in altri termini, l'art. 53 Cost. ed i princìpi di eguaglianza e ragionevolezza risulterebbero violati "poiché la ritenuta a titolo d'imposta cade su somme depositate in conto corrente che non sono correlate al presupposto in base al quale un soggetto è colpito dall'Irpeg: infatti, la Regione non compie - per definizione, ex art. 88, comma 1, del D.P.R. n. 917 del 1986 - le attività di cui all'art. 51 del medesimo decreto presidenziale e, nondimeno, è tenuta a subire un prelievo che si traduce in un esborso sine titulo" (ricorsi del Piemonte e del Veneto). L'art. 14 della legge n. 28 del 1999 violerebbe poi l'autonomia finanziaria e lo status costituzionale delle ricorrenti, come definito dagli artt. 114, 115, 117, 118 e 119 Cost. Nei ricorsi del Piemonte e del Veneto, che invocano solo gli artt. 117-119 Cost., si afferma che "là dove il legislatore ha surrettiziamente assoggettato ad Irpeg, attraverso una ritenuta a titolo d'imposta, la Regione, dopo averla esclusa dall'area di operatività del tributo ~ ha disposto un prelievo coatto a carico di disponibilità regionali costitutive dell'autonomia finanziaria dell'ente"; d'altro canto, lamenta la difesa della Lombardia, che invoca solo gli artt. 114, 115 e 119, l'esclusione dall'Irpeg della regione deriverebbe dalla sua natura di ente politico e sarebbe pertanto "direttamente collegata" con il suo grado di autonomia finanziaria costituzionalmente garantita. In riferimento all'art. 76 Cost., l'art. 14 della legge n. 28 del 1999 risulterebbe incostituzionale giacché l'art. 26 del D.P.R. n. 600 del 1973, oggetto della denunciata disposizione interpretativa, nella parte in cui dispone

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che le ritenute sono applicate a titolo di imposta nei confronti dei soggetti esenti da Irpeg "ed in ogni altro caso", va interpretato alla luce della legge di delega, la quale, "nel prevedere la ritenuta (a titolo d'acconto o d'imposta) sui redditi di capitale corrisposti esclusivamente a soggetti Irpeg o a soggetti esenti, aveva dimostrato la chiara intenzione di non assoggettare al prelievo alla fonte i soggetti esclusi dal tributo"; l'art. 26 del D.P.R. n. 600 del 1973, oggetto di interpretazione autentica, potrebbe pertanto "dettare esclusivamente disposizioni in ordine all'applicazione dell'imposta, non potendo attrarre a tassazione ciò che la disciplina istitutiva [la delega] esclude". In riferimento all'art. 97 Cost., l'impugnata disciplina sarebbe infine costituzionalmente illegittima in considerazione dell'impatto sfavorevole che la disciplina impugnata avrebbe, come si legge nel ricorso del Piemonte e della Lombardia, "sul piano dell'attività amministrativa e finanziaria". 2. - Con i ricorsi in epigrafe, le Regioni Piemonte, Veneto e Lombardia impugnano le medesime disposizioni legislative invocando parametri costituzionali in gran parte coincidenti e lamentandone la violazione sotto profili omogenei. I relativi giudizi possono pertanto essere riuniti e decisi con un'unica sentenza. 3. - Occorre anzitutto scrutinare la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento ai parametri costituzionali inclusi nel titolo V della parte II della Costituzione. L'art. 14 della legge n. 28 del 1999, ad avviso delle Regioni Piemonte e Veneto, violerebbe l'autonomia finanziaria e lo status costituzionale delle ricorrenti, come definito dagli artt. 114, 115, 117, 118 e 119 Cost.: "là dove il legislatore ha surrettiziamente assoggettato ad Irpeg, attraverso una ritenuta a titolo d'imposta, la Regione, dopo averla esclusa dall'area di operatività del tributo ~ ha disposto un prelievo coatto a carico di disponibilità regionali costitutive dell'autonomia finanziaria dell'ente"; d'altro canto - si sostiene nel ricorso della Regione Lombardia, che invoca gli artt. 114, 115 e 119 Cost. - l'esclusione dall'Irpeg della regione deriverebbe dalla sua natura di ente politico e sarebbe pertanto "direttamente collegata" con il suo grado di autonomia finanziaria costituzionalmente garantita. La questione è inammissibile. La costante giurisprudenza di questa Corte in tema di autonomia finanziaria regionale ha, ancora di recente, ribadito che la Costituzione non garantisce alle Regioni una determinata quantità di risorse, ma solo il diritto a disporre di risorse finanziarie che risultino complessivamente non inadeguate rispetto ai compiti loro attribuiti (sent. n. 507 del 2000). La Costituzione, in altri termini, non definisce né garantisce l'autonomia finanziaria delle regioni in termini quantitativi, a meno che non si determini quella «grave alterazione» del necessario rapporto di complessiva corrispondenza che - nel rispetto delle compatibilità con i vincoli generali derivanti dalle preminenti esigenze della finanza pubblica nel suo insieme - deve sussistere fra bisogni regionali e oneri finanziari per farvi fronte, affinché alle regioni stesse non sia impedito il normale espletamento delle loro funzioni (sent. n. 123 del 1992; si veda anche la sentenza n. 370 del 1993). L'autonomia finanziaria delle regioni postula piuttosto che esse abbiano la effettiva disponibilità delle risorse loro attribuite ed il potere di manovra dei mezzi finanziari (sent. n. 171 del 1999). Alla luce della giurisprudenza di questa Corte, la censura concernente l'asserita lesione dell'autonomia finanziaria e dello status costituzionale delle regioni - le Regioni Piemonte e Veneto lamentano che il legislatore avrebbe "disposto un prelievo coatto a carico di disponibilità regionali costitutive dell'autonomia finanziaria dell'ente", mentre la Lombardia asserisce che l'esclusione dall'Irpeg della Regione deriverebbe dalla sua natura di ente politico e sarebbe pertanto "direttamente collegata" con il suo grado di autonomia finanziaria costituzionalmente garantita - si appalesa priva di motivazione, non avendo le regioni neppure spiegato perché, a loro avviso, il prelievo in questione ridondi in lesione dell'autonomia finanziaria impedendo l'espletamento delle loro funzioni (si vedano sent. n. 103 del 2001, sent. n. 171 del 1999, sent. n. 244 del 1997, sent. n. 25 del 1996).

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4. - Anche in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza, e all'art. 101 Cost., secondo comma, la questione di legittimità costituzionale dell'impugnata disposizione interpretativa deve essere dichiarata inammissibile, giacché una ipotetica lesione di tali principi non può di per sé tradursi in una menomazione di competenze regionali. 5. - In riferimento all'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo del principio di eguaglianza e ragionevolezza, e all'art. 53 Cost., la disciplina denunciata sarebbe poi, ad avviso delle ricorrenti, costituzionalmente illegittima giacché l'art. 88, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi esclude le regioni dall'imposta sul reddito delle persone giuridiche, ciò che renderebbe "contraddittorio" ed in contrasto con il principio di capacità contributiva prevedere, come si legge nei ricorsi del Piemonte e del Veneto, "ad un tempo, la non assoggettabilità a tributo di un dato soggetto e l'obbligo, per questo, di sottoporsi ad una ritenuta d'imposta". La questione è inammissibile. Deve infatti essere accolta l'eccezione sollevata dall'Avvocatura dello Stato, ad avviso della quale la Regione agirebbe in questo frangente "come contribuente", lamentando una lesione di competenze di cui in realtà non dispone, e dovendosi escludere "che l'obbligazione di imposta ossia il prelievo a carico di disponibilità finanziarie regionali limiti l'autonomia garantita dall'art. 119 Cost.". Poiché si tratterebbe - come sostiene la difesa erariale - di un effetto di mero fatto in sé irrilevante; diversamente, ogni rapporto nel quale la Regione possa configurarsi come debitore rileverebbe sul piano costituzionale. 6. - In riferimento all'art. 76 Cost., la questione è parimenti inammissibile, dovendosi anche in questo caso accogliere l'eccezione di inammissibilità sollevata dall'Avvocatura dello Stato. Ad avviso delle ricorrenti, l'art. 14 della legge n. 28 del 1999 risulterebbe incostituzionale giacché l'art. 26 del D.P.R. n. 600 del 1973, oggetto della denunciata disposizione interpretativa, nella parte in cui dispone che le ritenute sono applicate a titolo di imposta nei confronti dei soggetti esenti da Irpeg "ed in ogni altro caso", va interpretato alla luce della legge di delega, la quale, "nel prevedere la ritenuta (a titolo d'acconto o d'imposta) sui redditi di capitale corrisposti esclusivamente a soggetti Irpeg o a soggetti esenti, aveva dimostrato la chiara intenzione di non assoggettare al prelievo alla fonte i soggetti esclusi dal tributo". Condivisibile è l'eccezione della difesa erariale, che esclude la violazione dell'art. 76 Cost., rilevando che la disposizione impugnata è stata introdotta con legge ordinaria e non già con legge delegata. 7. - Anche in riferimento all'art. 97 Cost., la questione è inammissibile. La doglianza avanzata dalle Regioni Piemonte e Veneto, in base alla quale l'impugnata disciplina sarebbe costituzionalmente illegittima in considerazione dell'impatto sfavorevole che la stessa avrebbe "sul piano dell'attività amministrativa e finanziaria", per altro formulata in termini meramente assertivi, non evidenzia alcuna menomazione di attribuzioni regionali. Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28 (Disposizioni in materia tributaria, di funzionamento dell'Amministrazione finanziaria e di revisione generale del catasto), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 53, 76, 97, 117, 118 e 119 Cost., dalla Regione Piemonte con il ricorso in epigrafe;

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dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28 (Disposizioni in materia tributaria, di funzionamento dell'Amministrazione finanziaria e di revisione generale del catasto), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 53, 76, 97, 117, 118 e 119 Cost., dalla Regione Veneto con il ricorso in epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 della legge 18 febbraio 1999, n. 28 (Disposizioni in materia tributaria, di funzionamento dell'Amministrazione finanziaria e di revisione generale del catasto), sollevata, in riferimento agli artt. 53, 76 Cost., all'art. 101 Cost., secondo comma, agli artt. 114, 115 e 119 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 giugno 2001.

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