LA PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA E LA CONCERTAZIONE TERRITORIALE DELLO SVILUPPO...

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1 Rapporto di ricerca LA PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA E LA CONCERTAZIONE TERRITORIALE DELLO SVILUPPO IN LOMBARDIA: L’INDAGINE EMPIRICA Matteo Bolocan Goldstein, Gabriele Pasqui, Paolo Perulli Indice 1 LA PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA E IL NUOVO LESSICO ISTITUZIONALE 1.1 Programmazione negoziata: una genealogia 1.2 L’orizzonte concertativo 1.3 Lo sviluppo locale come posta in gioco, tra statualità e territori 2. LA CONCERTAZIONE TERRITORIALE E LO SVILUPPO LOCALE 2.1 Una nuova stagione delle politiche per lo sviluppo locale 2.2 Come “funziona” lo sviluppo locale 2.3 Le forme di regolazione dello sviluppo locale 2.4 Capitale sociale, beni comuni e sviluppo locale 2.5 La dimensione territoriale della concertazione 2.6 Le pratiche di istituzionalizzazione dello sviluppo locale: la costruzione di condizioni 3. LA GOVERNANCE MULTILIVELLO 3.1 Il gioco della governance 3.2 La governance multilivello 3.3 I conflitti 3.4 Apprendimento 4. PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA: IN QUALE CLASSEDI POLITICHE? 4.1 Quattro classi di teorie 4.2 Quattro tipi di politiche 5. VERSO LALTO: REGIONI E STATO 5.1 La concertazione Regioni – Stato: le pratiche “al centro” 5.2 L’esperienza lombarda e l’Intesa istituzionale di programma 5.3 Regione e territori, tra autonomia e centralismo 6. VERSO IL BASSO: REGIONI E SISTEMI LOCALI 6.1 Le esperienze di concertazione territoriale: le condizioni istituzionali e la geografia 6.2 Le esperienze in corso 6.3 Spunti per una classificazione: formale/informale; particolaristico/strategico 7. CONCLUSIONI 7.1 Una nuova arena per le politiche pubbliche 7.2 La costruzione della visione territoriale: un problema irrisolto 7.3 Un’agenda per la programmazione negoziata regionale e sub-regionale BIBLIOGRAFIA La ricerca è stata svolta congiuntamente dai tre autori, i par. 1 e 5 sono stati stesi da Matteo Bolocan Goldstein, i par. 2 e 6 da Gabriele Pasqui, i par. 3, 4, 7 da Paolo Perulli

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Rapporto di ricerca

LA PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA E LA CONCERTAZIONE TERRITORIALE DELLO SVILUPPO IN LOMBARDIA:

L’INDAGINE EMPIRICA

Matteo Bolocan Goldstein, Gabriele Pasqui, Paolo Perulli

Indice 1 LA PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA E IL NUOVO LESSICO ISTITUZIONALE 1.1 Programmazione negoziata: una genealogia 1.2 L’orizzonte concertativo 1.3 Lo sviluppo locale come posta in gioco, tra statualità e territori 2. LA CONCERTAZIONE TERRITORIALE E LO SVILUPPO LOCALE 2.1 Una nuova stagione delle politiche per lo sviluppo locale 2.2 Come “funziona” lo sviluppo locale 2.3 Le forme di regolazione dello sviluppo locale 2.4 Capitale sociale, beni comuni e sviluppo locale 2.5 La dimensione territoriale della concertazione 2.6 Le pratiche di istituzionalizzazione dello sviluppo locale: la costruzione di

condizioni 3. LA GOVERNANCE MULTILIVELLO 3.1 Il gioco della governance 3.2 La governance multilivello 3.3 I conflitti 3.4 Apprendimento 4. PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA: IN QUALE “CLASSE” DI POLITICHE? 4.1 Quattro classi di teorie 4.2 Quattro tipi di politiche 5. VERSO L’ALTO: REGIONI E STATO 5.1 La concertazione Regioni – Stato: le pratiche “al centro” 5.2 L’esperienza lombarda e l’Intesa istituzionale di programma 5.3 Regione e territori, tra autonomia e centralismo 6. VERSO IL BASSO: REGIONI E SISTEMI LOCALI 6.1 Le esperienze di concertazione territoriale: le condizioni istituzionali e la

geografia 6.2 Le esperienze in corso 6.3 Spunti per una classificazione: formale/informale;

particolaristico/strategico 7. CONCLUSIONI 7.1 Una nuova arena per le politiche pubbliche 7.2 La costruzione della visione territoriale: un problema irrisolto 7.3 Un’agenda per la programmazione negoziata regionale e sub-regionale BIBLIOGRAFIA La ricerca è stata svolta congiuntamente dai tre autori, i par. 1 e 5 sono stati stesi da Matteo Bolocan Goldstein, i par. 2 e 6 da Gabriele Pasqui, i par. 3, 4, 7 da Paolo Perulli

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1. LA PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA E IL NUOVO LESSICO ISTITUZIONALE La programmazione negoziata è innanzitutto un metodo, un insieme di pratiche negoziali attraverso le quali istituzioni, soggetti pubblici, soggetti privati e attori sociali, concorrono a individuare determinati obiettivi di sviluppo economico-territoriale, a concertare i diversi interventi e le risorse necessarie, a definire con forza ‘contrattuale’ i tempi e i modi delle realizzazioni, ma anche le responsabilità e gli obblighi reciprocamente derivanti dagli impegni condivisi. Come si evince dal nuovo metodo prefigurato, la stessa definizione di programmazione negoziata allude a un nuovo orizzonte di intervento, impiegando un termine carico di storia come programmazione, evocativo di un ruolo interventista dello stato nei paesi ad economia di mercato, qualificandola come negoziata, riferendosi al tema - certamente più recente - relativo al pieno riconoscimento del carattere plurale degli attori che intervengono nella definizione, ma anche nella progettazione e attuazione, delle politiche di sviluppo. Questa prima definizione mette in risalto che un’efficace applicazione degli strumenti e degli istituti della programmazione negoziata non dipende tanto dalla corretta applicazione di disposizioni normative astratte da parte di un solo attore centralizzato, quanto, piuttosto, dall’individuazione, dalla sperimentazione e dal progressivo apprendimento di ‘buone prassi’ per lo sviluppo locale da parte dei diversi attori. 1.1. Programmazione negoziata: una genealogia La fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, decretata a cavallo tra il 1992 e il 1993, marca una decisa discontinuità nella storia Repubblicana e contribuisce ad accelerare un processo di ripensamento complessivo degli strumenti e delle forme dell’intervento economico territoriale. Ad un primo decreto ministeriale fa seguito, il 19 dicembre 1992, l’approvazione da parte del Parlamento della legge 488 1. Una legge per molti aspetti importante, che sancisce la conclusione dell’intervento straordinario, estendendo l’intervento ordinario a tutte le “aree depresse del territorio nazionale” in relazione con le politiche della Comunità europea. Il successivo Decreto Legislativo 3 aprile 1993 n. 96 affida al Ministero del bilancio e della programmazione economica la competenza in materia di contratti di programma, contratti di impresa, intese di programma ed accordi di programma; un insieme di strumenti, definiti in quel momento come contrattazione programmata, che impone una complessiva riorganizzazione dello stesso Ministero. Le critiche rivolte all’intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno 2, insieme alla mancanza quasi assoluta di normali controlli dell’ingente flusso di risorse finanziarie avuto verso il Mezzogiorno, e caratterizzato dal “parassitismo assistito e speculativo, senza mai riuscire a intraprendere la strada dello sviluppo produttivo e innovativo” 1 Di conversione del decreto-legge 22 ottobre 1992 n. 415 (Modifiche alla legge 1 marzo 1986 n. 64, in tema di disciplina organica dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno). 2 La Cassa del Mezzogiorno è stata a lungo protagonista dell’intervento nelle regioni del sud fino al 1984, da allora è sopravvissuta come Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno con una nuova configurazione organizzativa e operativa.

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(Barbagallo, Bruni, 1997), avevano persino condotto nei primi anni novanta alla promozione di un referendum da sottoporre al giudizio dei cittadini. In questo contesto di forte cambiamento istituzionale dell’intervento nelle aree deboli del Paese, in specie quelle del Mezzogiorno, il Cnel assume con maggior forza un impegno meridionalista, costruendo diversi forum nel territorio e delineando l’esistenza di una ‘società di mezzo’ come potenziale protagonista di un possibile sviluppo ‘dal basso’. Si fa strada - in questo modo - l’idea del patto come formazione (e conseguente formalizzazione) di una coalizione articolata di soggetti locali impegnati nello sviluppo territoriale. Una volta promossa questa esperienza di patti nel territorio, il Cnel assume il ruolo di accompagnatore alla firma del protocollo d’intesa (attraverso una propria Consulta del Mezzogiorno) 3; un importante ruolo conquistato sul campo e giustificato a partire dalla debolezza di un’amministrazione attiva di tipo promozionale (cfr. Bonomi, 1996). I patti territoriali di prima generazione si formano, così, in attesa della definizione di un quadro normativo certo e si configurano come “un processo di negoziazione tra attori che liberamente contrattano la propria partecipazione a progetti di interesse comune riempiendo il vuoto lasciato dal ritrarsi dalla politica della sfera degli interessi” (Cnel, 1994). Sebbene condizionati da questa incertezza normativa, i primi patti hanno il merito di mettere in discussione la pratica a lungo dominante di allocazione delle risorse nel territorio, costituendo il primo tentativo diffuso di programmazione ‘dal basso’ e di valorizzazione dell’insieme delle risorse economiche e sociali per lo sviluppo 4. La fase delle sperimentazioni locali alimentata dalla conclusione dell’intervento straordinario può essere considerata come il momento di nascita di quel “movimentismo dei patti territoriali” (Bonomi, 1998) che troverà un’eco crescente negli ultimi anni, contribuendo a ridefinire in modo non marginale il campo delle politiche di sviluppo locale. Il successo iniziale dei patti lanciati dal Cnel è stato attribuito alla forza dei principi fondativi del ‘fare patto’ individuati in un approccio ‘dal basso’ allo sviluppo e nel partenariato sociale. Ma alcuni osservatori segnalano anche la comprensibile curiosità degli imprenditori verso nuove possibili forme di finanziamento delle attività in aggiunta agli strumenti tradizionali, e la capacità promozionale del Cnel nei territori dopo la scomparsa dei vecchi attori dell’intervento straordinario (cfr. Manzella, 1997). In altre parole, questa prima fase della concertazione territoriale sembra lasciare un ampio margine d’azione a quel ‘localismo spontaneo’ descritto a più riprese dai rapporti del Censis, alimentata da una cultura dello sviluppo di matrice comunitaria, nel senso di un’azione locale tesa ad affermare il primato delle pratiche sociali su quelle politico-statuali e il prevalere della “storia lunga dei comportamenti sociali sulla storia corta delle svolte politiche e la diffusa autonomia soggettuale del sociale sul dominio del potere” (De Rita, 1998). In questo senso si spiega il ruolo attivo del Cnel nel far crescere società di mezzo, enfatizzando quella sua “collocazione intermedia di crocevia di risorse economiche e 3 La Consulta, costituita il 21 novembre del 1994, è formata da 72 membri. 4 Per un primo bilancio complessivo dell’esperienza dei patti territoriali si veda il recente rapporto del Cnel (1999).

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consenso politico” in grado di cogliere “il passaggio dai processi di perimetrazione corporativa e territoriale degli interessi verso nuovi processi di rappresentanza”, e connettendo l’esigenze espresse dai soggetti sociali localizzati di “ridisegnare il proprio intorno immediato” (Cnel, 1994) esprimendo nuova classe dirigente nella dimensione territoriale 5. Come abbiamo evidenziato, le prime esperienze dei patti nel Mezzogiorno avvengono contestualmente alla faticosa messa a regime del nuovo quadro normativo per un intervento ordinario nelle aree depresse del Paese che contribuisce, a sua volta, a ridefinire quella che era stata denominata la contrattazione programmata. Dalla contrattazione programmata alla programmazione negoziata Emerge, in questo modo, una nuova concezione della contrattazione programmata, da strumento quadro per la definizione dei rapporti dello stato con l’imprenditoria privata (prevalentemente nel settore industriale), verso un’articolazione di strumenti atti a definire i rapporti dello stato con una pluralità di soggetti, pubblici e privati, anche contestualmente (cfr. Gallia, 1996). In questo ambito, la nuova filosofia programmatoria incontra il principio della concertazione delle azioni fra le parti sociali, e lo strumento del patto territoriale viene riconosciuto nel protocollo sottoscritto in data 11 novembre 1994 dai rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, Confindustria e - per il Governo - dal Ministro del bilancio e dal Ministro dell’industria. La nuova terminologia che accompagna l’avvio dell’intervento ordinario nelle aree depresse introduce - quindi - la dizione di programmazione negoziata come: « ..... regolamentazione concordata tra soggetti pubblici o tra il soggetto pubblico competente e la parte o le parti pubbliche o private per l’attuazione di interventi diversi, riferiti ad un’unica finalità di sviluppo, che richiedono una valutazione complessiva delle attività di competenza ». La successiva evoluzione del quadro degli strumenti della programmazione negoziata considererà opportuno evitare duplicazioni e sovrapposizioni di interventi che potrebbero vanificare il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo, definendo una gerarchia funzionale tra i diversi strumenti (vedi Tab. 1). Il rapporto tra le Regioni e l’amministrazione centrale dello stato si definisce attraverso lo strumento dell’Intesa istituzionale di programma e la successiva stipula di Accordi di programma quadro. A disposizione dei sistemi territoriali locali vi è una pluralità di strumenti operativi (Patto territoriale, Contratto d’area, Contratto di programma) atti a rispondere alle diverse esigenze di sviluppo locale individuate dagli attori pubblici e privati. Come vedremo più avanti alcune Regioni articoleranno ulteriormente gli strumenti della programmazione negoziata a scala locale, recependo in questo modo la legislazione nazionale delineata dalle ‘leggi Bassanini’.

5 Questa centralità dei luoghi intermedi della rappresentanza uscirà rafforzata proprio dai processi dei primi anni novanta, a partire dalle innovazioni amministrative introdotte a livello locale (si pensi solo all’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province definita dalla legge 81/1993). Per una analisi del ruolo delle istituzioni intermedie nello sviluppo locale, si veda Arrighetti e Seravalli (1999).

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PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA

STRUMENTI QUADRO

INTESA ISTITUZIONALE DI

PROGRAMMA

art. 2 legge 662/96 Del. Cipe 21.3.1997

attori istituzionali

ACCORDI DI PROGRAMMA

QUADRO

art. 2 legge 662/96 Del. Cipe 21.3.1997

STRUMENTI OPERATIVI TERRITORIALI

attori istituzionali

e attori sociali

PATTO

TERRITORIALE

art. 2 legge 662/96 Del. Cipe 21.3.1997

CONTRATTO

D’AREA

art. 2 legge 662/96 Del. Cipe 21.3.1997

CONTRATTO DI PROGRAMMA

art. 2 legge 662/96 Del. Cipe 21.3.1997

ACCORDO DI PROGRAMMA

solo attori istituz.

art. 27 L. 142/1990 Tab. 1 Il quadro degli strumenti della programmazione negoziata 1.2. L’orizzonte concertativo Come abbiamo indicato, la definizione del nuovo quadro di intervento ordinario nelle aree depresse del Paese e la conseguente definizione della programmazione negoziata avviene nell’ambito della concertazione nazionale. Proprio il richiamo continuo alla concertazione, sia essa nazionale o territoriale, condotta tra soggetti istituzionali o con il concorso delle parti sociali e di altri attori, fa sì che tale dimensione diventi parte costitutiva del nuovo lessico istituzionale. Vale quindi la pena richiamare alcuni aspetti di un termine carico di implicazioni. Durante gli anni novanta la concertazione tra governi e parti sociali in Italia si è ulteriormente rafforzata in ampiezza e stabilità rispetto al decennio precedente. Nel breve giro di pochi anni diversi accordi triangolari su politiche dei redditi e sistema contrattuale sono stati siglati dal governo e dalle rappresentanze di Confindustria e dei sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil); inoltre, alcune importanti leggi di riforma sono state

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negoziate in anticipo con le parti sociali per facilitarne l’iter parlamentare, si pensi alle riforme riguardanti il pubblico impiego e successivamente quella sulle pensioni (cfr. Regini, Regalia 1996). Tale impiego massiccio di pratiche di concertazione centralizzata hanno caratterizzato le relazioni industriali italiane, in una fase difficile della vita del paese. Una fase nella quale le emergenze economiche hanno fortemente ridimensionato la possibilità di politiche redistributive e di compensazione sociale attraverso benefici immediati, a favore di politiche regolative, quindi atte a ridefinire intenzionalmente l’insieme dei comportamenti ammessi nel campo delle politiche economiche con una certa delega di funzioni pubbliche alle associazioni di rappresentanza, e in particolare ai sindacati. All’emergenza economica si è inoltre sommata quella politica e sono proprio stati i governi tecnici - nel 1992 Amato, nel 1993 Ciampi e nel 1995 Dini - “quelli più bisognosi del sostegno esterno e della legittimazione sociale fornita dalle organizzazioni degli interessi, quali sostituti dell’investitura elettorale” (Regini, Regalia, 1996). Mentre per i successivi governi di Centro-sinistra la costruzione del consenso per le politiche non poteva che trovare ‘naturale’ la strada della concertazione 6. Per le cose appena accennate, l’uso più diffuso del termine concertazione si riferisce al processo che conduce all’accordo tra governo e rappresentanze sociali (o meglio associazioni di rappresentanza, cfr. Zan, 1992) in relazione a contratti nazionali o a più complessive manovre di politica economica; un processo così ricorrente da condurre taluni a parlarne come di “un pezzo della nostra Costituzione materiale” (Treu, 1998), altri ad auspicare che la concertazione trovi “un riferimento esplicito alla Costituzione per svincolare il metodo dalla casualità e imporlo come un vincolo” (D’Antoni, 1998). All’incerto statuto della concertazione fa riscontro una sua accresciuta importanza in termini pratici, ma uno dei suoi più autorevoli sostenitori sottolinea quanto sia “stretto il crinale che divide la concertazione dal consociativismo: crinale che rende positivo il dialogo, costruttivo il confronto in quanto non intacchi l’autonomia, la responsabilità di ogni istituzione” (Ciampi, 1996). La preoccupazione di Ciampi sembra particolarmente significativa se si pensa a quanto sia cresciuta la retorica concertativa negli ultimi anni. Essa pervade infatti ogni azione pubblica di indirizzo e/o di allocazione di risorse e non sembra esservi spazio alcuno per politiche che non si ammantino del necessario richiamo alla concertazione delle scelte. Le difficoltà a condividere e definire un consenso duraturo attorno a poste rilevanti appare essere una delle ragioni che portano a questa forte istituzionalizzazione della dimensione concertativa. Questo confine oscillante tra una concertazione intesa come metodo, e una concertazione elevata a ‘fine in sé’, sembra essere l’aspetto più problematico per una riflessione sulle forme consensuali nella definizione delle politiche. E’ proprio un primo attore della concertazione nazionale - il segretario della Cgil Sergio Cofferati - a rimarcare questo aspetto delicato quando afferma che “la riforma dello Stato sociale non sia un tema adatto a pratiche di concertazione (preferendo) lo schema del confronto bilaterale, in cui il governo propone e consulta le parti sociali e poi indirizza al Parlamento un disegno di riforma contenente l’indicazione degli strumenti che ritiene necessari”. Questo richiamo appare importante perchè introduce un approccio selettivo, in qualche modo legato ai contenuti della concertazione. “Non si può - infatti - parlare di concertazione senza sapere 6 Si veda Carlo Trigilia, “Dalla concertazione vantaggi al governo”, Il Sole 24 Ore, 18 luglio 1996.

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di cosa concertare, non spendere una parola sull’obiettivo che si vuole raggiungere” (Cofferati, 1998). Concertare ‘al centro’ Se dai giudizi e dalle differenti valutazioni dei soggetti partecipi del gioco concertativo spostiamo l’attenzione ai modelli sottesi alla concertazione non possiamo che riconoscere che questo metodo si qualifica come forma di contrattazione politica centralizzata che combina regolazione pubblica-statuale con regolazione associativa. In termini di macro-regolazione, la concertazione viene infatti introdotta dalle analisi sul neocorporativismo condotte a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 (cfr. Schmitter, Streeck, 1985) 7. Tale forma di regolazione sociale trova nelle associazioni di rappresentanza di tipo neocorporativo i suoi principali agenti, garantendo in questo modo la partecipazione degli interessi in forma di “governi privati”, ai quali vengono delegate importanti funzioni pubbliche in diversi campi d’azione economica e sociale (cfr. Trigilia, 1998). Questo aspetto richiama la centralità e la preminenza del momento organizzativo (cfr. Schmitter, 1983) nell’azione congiunta e triangolare tra parti sociali e governo a livello centrale, ma richiama anche uno sfondo nel quale predominanti risultano essere la produzione industriale e gli assetti keynesiana di regolazione politica dell’economia. L’efficacia di un certo ‘dirigismo’ nel definire accordi centralizzati, funzionali ad una crescita dei principali paesi ad economia matura, è stato infatti a lungo favorito dalla possibilità di “una rappresentanza aggregata degli interessi” (Bagnasco et al. 1997); possibilità oggi fortemente ridimensionata e compromessa sia dalla crescente segmentazione sociale, sia dalla conseguente frammentazione e articolazione delle forme di rappresentanza. Se un ruolo spiccato dello stato centrale ha a lungo caratterizzato quel modello di regolazione sociale e produttiva che prende il nome di ‘fordismo’, nel quale l’assegnazione ‘dal centro’ di compiti e ruoli risultava per molti versi efficiente, le tendenze attuali verso la ‘decentralizzazione’ nel coordinamento degli attori economici e delle forme regolative (cfr. Perulli, 1998) rendono alquanto difficoltoso riprodurre modalità tradizionali di trattamento e di coinvolgimento centralistico degli interessi nella definizione delle politiche pubbliche. Il recente ‘Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione’, messo a punto e siglato da un tavolo rappresentativo di ben 32 associazioni nel dicembre del ’98, sembra la conferma delle questioni ora richiamate. L’inclusione di molti soggetti tradizionalmente estranei ai tavoli della concertazione nazionale (si pensi alle rappresentanze della piccola e media impresa, o a quelle del commercio) pare più il segno di una cooptazione dall’alto che mantiene immutata la logica d’azione, piuttosto che un riconoscimento effettivo della pluralità di soggetti in grado di ridefinire il campo delle politiche di sviluppo alle diverse scale.

7 Per una discussione critica sulla ‘rinascita della concertazione’ e sul suo scarto dal modello neo-corporativo, si veda il recente lavoro di Regini (2000).

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Concertare nei territori, un problema e una sfida

Fino ad ora abbiamo guardato la concertazione ‘al centro’. D’altronde, pare indiscutibile che la forma propria del rapporto stato-mercato nello sviluppo delle economie industriali europeee sia stata segnata - pur tra molte differenze - da gradi rilevanti di intervento pubblico diretto e centralizzato, sostenuto da relazioni mediate e ‘concertate’ tra le rappresentanze sociali del capitale e del lavoro. Questo fatto non ha impedito la compresenza di altri processi di segno diverso e in parte complementare; e a livello diffuso - nei territori come nelle singole unità produttive - si è infatti parlato di ‘micro-concertazione appartata’ (Regini e Sabel, 1989) per spiegare proprio il carattere informale e volontario di molti riaggiustamenti industriali, rispetto al profilo centrale e ufficiale dei tradizionali protocolli di intesa tra le parti sociali. Anche per questa ragione non stupisce il fatto che gli attori delle relazioni industriali della fase precedente siano gli stessi animatori della più recente fase di concertazione territoriale delineata, in particolare, con gli strumenti e gli istituti della ‘programmazione negoziata’. Questa traslazione della pratica concertativa a livello di territori non è affatto priva di implicazioni e vale forse la pena avanzare qualche distinzione. La filosofia dell’accordo negoziato tra i diversi soggetti dello sviluppo fa infatti da cornice al proliferare di ‘patti’, ‘intese’ e ‘contratti’, a tal punto che il Cnel propone la concertazione come metodo di governo “dell’intera realtà italiana, e non limitato all’accordo triangolare tra parti sociali e governo” (Cnel, 1998). Proprio rivendicando la “parola chiave della concertazione”, il Cnel invita a guardare alla “nuove strategie di concertazione sociale basate su un approccio locale e territoriale” come campo di ridefinzione di una cultura della negoziazione “arricchita e ampliata” che muova dalla “logica della concertazione per vincoli, di salario e di spesa pubblica”, verso una pratica orientata all’accompagnamento dello sviluppo locale e al supporto di “coalizioni sociali che operano per obiettivi condivisi” (Cnel, 1999). Se la nuova centralità del territorio sembra difficilmente contestabile, sembra di qualche utilità provare a distinguere sia dal punto di vista analitico, sia per le diverse implicazioni operative, quando la concertazione coinvolge prioritariamente le filiere istituzionali (con riferimento a quella governance multilivello che pare oggi riconosciuta da alcuni istituti come l’Intesa istituzionale di programma), rispetto a quando la concertazione si traduce in un partenariato sociale multilaterale (formula sempre più caldeggiata dall’Unione Europea). Come appare evidente, la questione non investe solo la natura diversa dei soggetti in gioco (pubblica/statuale piuttosto che privata/sociale), ma riguarda da vicino i diversi contesti decisionali - il loro carattere orizzontale o verticale - e l’articolazione di risorse mobilitate nelle diverse arene. La stessa capacità da parte degli attori di definire opzioni strategiche sulle quali negoziare risorse plurime e finalizzate, sembra strettamente connessa alla possibilità di rigenerare circuiti della rappresentanza oggi atrofizzati (la gran parte delle associazioni vivono infatti una profonda crisi di rappresentanza), ma anche di qualificare un lobbismo territoriale spesso inconcludente.

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Questo sottolinea che lo spostamento dalla concertazione centralizzata del modello neo-corporativo a quella decentralizzata del ‘neoregionalismo’ non rappresenta semplicemente un salto di scala della stessa dinamica verso la dimensione ‘locale’, ma implica impatti e turbolenze sull’insieme dei comportamenti degli attori delle politiche e sulla capacità di concertare elevando il proprio profilo progettuale e relazionale 8. 1.3. Lo sviluppo locale come posta in gioco, tra statualità e territori

In ordine a questi processi di ridefinizione dei principali comportamenti degli attori locali e nazionali, possiamo affermare che il campo dello sviluppo locale sembra delineare un terreno specifico di riarticolazione dei conflitti e delle alleanze: • sia in relazione alle forme della rappresentanza politica e territoriale (con una

crescente concorrenza tra sistemi locali e regionali), • sia per quanto riguarda i circuiti di allocazione delle risorse e i rapporti inter-

istituzionali ai diversi livelli continentali e nazionali. Da questo punto di vista, può essere di qualche utilità descrivere le diverse fasi che hanno contraddistinto l’istituzionalizzazione della programmazione negoziata, con particolare riferimento alla vicenda dei patti territoriali come strumento in un certo senso fondativo della concertazione nei territori. Assumere questo strumento di intervento come chiave di lettura più generale della programmazione negoziata è possibile proprio a partire dalla rilevanza simbolica, non solo operativa, ricoperta dalla pratica dei patti nel sancire la discontinuità verso le vecchie forme di regolazione dell’intervento territoriale. Inoltre, la stagione della “nuova programmazione” (cfr. Ministero del tesoro, bilancio e programmazione economica, 1998), si presenta particolarmente controversa proprio a partire dai modi con i quali i diversi strumenti sono stati individuati, fatti propri e codificati dall’amministrazione centrale, ma anche praticati dagli attori territoriali. L’intenzione della periodizzazione proposta è quella di fornire una cornice di riferimento che ponga particolare attenzione ai principali attori di volta in volta protagonisti nell’arena delle politiche economico-territoriali, sottolineando inoltre il nuovo lessico emergente che accompagna operatori e istituzioni nell’effettiva pratica quotidiana di programmazione e gestione degli interventi. � Fine dell’intervento straordinario e movimentismo dei patti (1992-1994)

Principali eventi: fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e dibattito sulla nuova questione meridionale / ruolo attivo del Cnel nel mobilitare i contesti locali, specificamente quelli meridionali / sperimentazione dei primi 12 patti territoriali al Sud e di alcuni contratti d’area / legge 81 del 1993 per l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia / definizione del nuovo quadro di intervento ordinario nelle aree depresse del Paese nell’ambito della concertazione

8 Sul deficit di progettualità dei diversi attori insiste Fabrizio Barca, “Pericolo di esclusione. Perchè la modernizzazione non va avanti”, Corriere della Sera, 25 febbraio 2000. Per quanto riguarda i mutamento di posizionamento strategico di Confindustria sui temi della concertazione, insiste Ilvo Diamanti, “Confindustria cambia pelle per sostenere le nuove sfide”, Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2000.

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nazionale e delle politiche regionali dell’Unione Europea / Libro Bianco di Delors. Principali attori: attori locali e in particolare i nuovi sindaci e i nuovi presidenti di province eletti direttamente, le associazioni di rappresentanza delle imprese e dei lavoratori, le camere di commercio / CNEL - Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Parole chiave: fare patto, società di mezzo.

� Programmazione negoziata e prima normativa dei patti (1995-1996)

Principali eventi: deliberazioni Cipe per la regolamentazione dell’istituto del patto territoriale e per le singole forme di programmazione negoziata, quali intese, accordi, contratti, patti / faticoso iter di approvazione dei primi 12 patti territoriali nel Mezzogiorno / nel quadro del Patto per l’occupazione, il Consiglio Europeo sancisce la sperimentazione di 89 patti territoriali per l’occupazione, 10 dei quali in Italia / la nuova disciplina della programmazione negoziata viene dettata nell’ambito della legge finanziaria 23 dicembre 1996, n. 662 i diversi strumenti programmatori vengono gerarchizzati funzionalmente. Principali attori: CNEL - Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro / Ministero del Tesoro - CIPE / parti sociali / Unione Europea . Parole chiave: criteri, indirizzi e procedure per il coordinamento nelle aree depresse / risanamento finanziario / emergenza occupazione / concertazione nazionale.

� Protagonismo attivo del ‘centro’ e la nuova disciplina (1997-1998)

Principali eventi: delibera organica del Cipe del 21 marzo ’97 sulla ‘disciplina della programmazione negoziata’ che innova sostanzialmente le procedure previste nelle deliberazioni precedenti rafforzando il ruolo del Ministero del bilancio e del tesoro come autorità centrale di gestione della programmazione negoziata (a cui ora spetta la costituzione di un albo di società di consulenza e un albo di banche incaricate di seguire la progettazione e poi l’istruttoria finanziaria dei singoli patti) / indebolimento di compiti del Cnel al quale spetta ora il solo ruolo di accompagnatore della concertazione iniziale e di relativa certificazione / definitiva unificazione dei Ministeri del Bilancio e del Tesoro / nuova metodologia per l’assegnazione dei finanziamenti ai patti territoriali / proliferazione dei patti territoriali anche nelle regioni centro-settentrionali del Paese / costituzione del DPS - Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione diretto da Fabrizio Barca, con competenze specifiche sull’insieme della programmazione negoziata / si sperimentano le prime Intese istituzionali di programma in Umbria e nelle Marche / legge 59/1997, ‘Bassanini 1’ dulla riforma della pubblica amministrazione, e successiva fase di attuazione delle deleghe attraverso decreti legislativi (ad es. D.LEG. 112/98, Conferimento compiti e funzioni a Regioni ed Enti Locali) e Legge 127/1997, ‘Bassanini 2’, sulla semplificazione amministrativa / 2-4 dicembre, Convegno di Catania Cento idee per lo sviluppo, organizzato dal DPS - Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione.

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Principali attori: Ministero del bilancio e del tesoro, CIPE, DPS - dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione / sistemi locali / Unione Europea. Parole chiave: istruttoria finanziaria dei patti / efficienza / valutazione / monitoraggio.

� Nuova architettura di governance e regionalizzazione in corso (1999-2000)

Principali eventi: riforma dei fondi strutturali dell’Unione Europea / rafforzamento del ruolo del DPS - Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione con responsabilità diretta dei fondi strutturali comunitari, la gestione di specifici strumenti di intervento, l’esercizio di una funzione di valutazione (ex ante, in itinere, ex post), la formulazione al Cipe di proposte in merito agli obiettivi prioritari di sviluppo economico e sociale e la partecipazione alla definzione delle politiche comunitarie in materia di sviluppo e coesione / nuovo sistema di programmazione dei fondi strutturali 2000-2006 sia nel modello di programmazione, sia nelle procedure tecniche previste nelle proposte dei nuovi regolamenti per la formulazione e l’attuazione del QCS-Quadro comunitario di sostegno, dei DOCUP-Documenti unici di programmazione e dei PO-Programmi operativi / Fabrizio Barca lascia la direzione del Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione / vengono siglate le prime Intese istituzionali di programma tra stato e Regioni / la Conferenza Stato-Regioni lavora per il decentramento della programmazione negoziata a scala regionale / le Regioni recepiscono la legislazione Bassanini di riforma della pubblica amministrazione. Principali attori: DPS - Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione / sistemi locali / Regioni / Unione Europea. Parole chiave: governance multilivello / sussidiarietà / partenariato sociale / concertazione territoriale.

La schematica ricostruzione ora proposta sembra, nel suo complesso, tracciare una traiettoria che mettendo in radicale discussione l’intervento centralizzato per lo sviluppo territoriale (vedremo se in forma definitiva e irreversibile), procede lungo un ciclo che possiamo descrivere: dalla mobilitazione crescente delle comunità locali - a un ruolo attivo dell’amministrazione centrale - a un ritorno decentrato, che chiama in causa le istituzioni regionali. Questa parabola può essere meno paradossale di quanto appaia, in particolare se mettiamo l’accento sulle arretratezze e le difficoltà nella nuova azione amministrativa (oggi sollecitata da diversi provvedimenti legislativi) e sul difficile percorso intrapreso per una sua modernizzazione. Inoltre, questo tragitto ciclico (dal ‘periferico’ al ‘centrale’, per tornare ai territori regionali) mostra anche la necessità di non sottovalutare un progressivo adattamento delle diverse istituzioni al nuovo contesto decisionale e un apprendimento delle capacità a progettare negoziando da parte dell’insieme degli attori. Quanto tale direzione di marcia conduca ottimisticamente nella direzione indicata di recente dal Cnel, verso un modello in grado di coniugare virtuosamente un approccio top down (di tipo “discendente”), che centralizza le attività connesse al risanamento delle aree

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meno sviluppate, con un approccio bottom up, capace di mobilitare le classi dirigenti locali in progetti di sviluppo socialmente condivisi (cfr. Cnel, 1999), sarà un elemento da misurare con attenzione nei prossimi anni. Ma sembrano già oggi sussistere diverse evidenze a testimoniare quanto lo sviluppo locale rappresenti uno dei campi di maggior interesse per valutare i mutamenti in corso nei meccanismi della governance.

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2. LA CONCERTAZIONE TERRITORIALE E LO SVILUPPO LOCALE 2.1 Una nuova stagione delle politiche per lo sviluppo locale L’interesse per i temi dello sviluppo locale e delle politiche di sostegno, promozione e accompagnamento dello sviluppo a scala territoriale, entro le quali si collocano le azioni di concertazione e programmazione territoriale, è cresciuto in Italia, nel corso degli anni ’90, a partire da una pluralità di sollecitazioni (cfr. Pasqui, 1999): ��il rilievo crescente assunto dalle politiche locality oriented promosse dall’Unione

Europea, che ha ispirato in modo via via crescente a principi di sostenibilità “locale” dello sviluppo la programmazione e l’implementazione delle proprie politiche e soprattutto degli interventi volti a promuovere la coesione tra le diverse aree dell’Unione;

��la “regionalizzazione” delle politiche economiche che ha coinvolto molti paesi

europei, ridefinendo le forme d’azione per il sostegno allo sviluppo regionale in un quadro di crescente competizione territoriale e in un generale interesse per la ridefinizione degli assetti istituzionali e delle forme e pratiche di governo a scala sub-nazionale;

��la sperimentazione della riforma dell’assetto della pubblica amministrazione e del

ruolo degli Enti locali, in atto a partire dalle leggi e dai decreti Bassanini, che ridisegna nel concreto le modalità dell’agire amministrativo anche nel segmento delle politiche di promozione e sostegno dei territori;

��il rinnovato interesse da parte dei governi succedutisi in Italia negli anni ’90, ma più

in generale di istituzioni, agenzie ed enti pubblici, per la progettazione e implementazione di politiche economiche e di coesione sociale e territoriale diverse dalle tradizionali politiche deficit spending, capaci cioè di coinvolgere le risorse autonome delle società locali (di carattere finanziario, ama anche sociale e progettuale) senza drenare ingenti quantità di spesa pubblica e sperimentando nuove forme di welfare locale finanziariamente sostenibile e basato sul diretto coinvolgimento delle società locali;

��l’azione di promozione e sperimentazione svolta da soggetti (in Italia primo fra tutti il

CNEL) che hanno rilanciato la scommessa sull’efficacia di progetti di sviluppo basati sulla mobilitazione locale delle risorse economiche, sociali e territoriali riprendendo e rilanciando una tradizione minoritaria, e tuttavia presente già a partire dai primi anni del secondo dopoguerra, dell’analisi sociale e territoriale.

Questi elementi hanno prodotto, nel corso degli anni ‘90, una vera e propria proliferazione di iniziative orientate a sperimentare “sul campo” la progettazione e la messa in opera di politiche multidimensionali e integrate di sviluppo a scala locale, a partire dalle pratiche di concertazione territoriale entro le quali è possibile collocare gli strumenti istituzionali della programmazione negoziata. Nel campo delle iniziative per lo sviluppo locale è tuttavia possibile collocare un gran numero di iniziative, dalle politiche attive del lavoro a scala territoriale alle iniziative per la promozione dell’innovazione e per la riqualificazione dei tessuti produttivi; dalle azioni volte a fare crescere le economie

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esterne e in generale la “qualità di sistema” dei territori nell’ottica della competizione tra città, aree e regioni alle politiche di coesione e riequilibrio territoriale in aree di crisi industriale o in ritardo di sviluppo. Oggi lo scenario è in via di rapido mutamento: la fase della “sperimentazione” è ancora in corso, ma vanno emergendo modelli di istituzionalizzazione delle diverse esperienze e di definizione di un quadro legislativo e amministrativo stabile in cui ordinare e valutare le azioni promosse e implementate. Il tema delle forme di istituzionalizzazione dello sviluppo locale è per più ragioni decisivo e può essere declinato in due direzioni; da un lato, lungo la linea di Huntington (1975), l’istituzionalizzazione può essere considerata come la strutturazione di una pratica attraverso processi di ripetizione e diffusione; dall’altro lato, seguendo Selznick (1976), l’istituzionalizzazione può essere posta in relazione a processi di crescente dipendenza da risorse esterne all’ambiente, processi che dipendono dal consolidamento di norme. Questa oscillazione di senso intorno al tema dell’istituzionalizzazione, intesa in generale come “strutturazione normativa delle forme sociali” (Donolo, 1997), è molto interessante nell’ottica della lettura e dell’interpretazione delle difficoltà di implementazione sovente presenti nelle azioni e nelle politiche di sviluppo locale, e in particolare nelle pratiche di programmazione negoziata. L’ambiguità del concetto di istituzionalizzazione rappresenta in questa prospettiva una risorsa analitica per la lettura del campo delle esperienze e delle politiche di sviluppo. 2.2 Come “funziona” lo sviluppo locale Non è facile fornire definizioni univoche dello sviluppo locale. Esso ha a che vedere con un insieme di fenomeni economici, sociali, politici e culturali, tra loro connessi secondo combinazioni che sono profondamente differenziate a livello territoriale. La letteratura, ormai molto ampia9, sottolinea come lo sviluppo locale (e con esso le politiche di sostegno e promozione) sia costruito intorno ad alcuni processi fondamentali, veri e propri “motori” delle dinamiche locali di sviluppo. L’analisi di questi processi, realizzata sia nell’ambito delle scienze sociali, sia nel quadro di iniziative e programmi pubbliche, ha posto all’attenzione degli studiosi e degli operatori di politiche alcuni assi interpretativi: ��un primo asse interpretativo è centrato sulle relazioni sociali e politiche

caratterizzanti i diversi percorsi di sviluppo locale. Lungo questo asse lo sviluppo locale non sarebbe possibile se che al capitale fisso (infrastrutturale) e al capitale finanziario non si accompagnano un’adeguata dotazione di capitale umano e soprattutto una ampia disponibilità di capitale sociale. Secondo questa interpretazione, per spiegare lo sviluppo locale è decisivo il ruolo di processi quali la ricchezza delle relazioni sociali, anche di carattere comunitario, che generano forme di social learning; l’affermazione di pratiche di interazione sociale non mediate dal mercato e a bassa istituzionalizzazione, la condivisione di valori e subculture, l’integrazione e la bassa conflittualità sociale, l’affermazione di modalità efficaci di regolazione politica locale. La “costruzione sociale del mercato”, per usare l’espressione di Bagnasco, insieme alla specificità delle pratiche di scambio politico e

9. Per un primo panorama della ampia letteratura relativa allo sviluppo locale si rinvia agli articoli della rivista Sviluppo Locale, al numero speciale della rivista Archivio di Studi Urbani e Regionali (Bolocan Goldstein, Pasqui, a cura di, 1999), ai materiali prodotti negli ultimi anni negli “Incontri sullo sviluppo locale” organizzati sotto la guida di Giacomo Becattini.

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di regolazione sociale, delineano pattern locali di sviluppo specifici, che non potrebbero manifestare tutta la loro forza (anche dal punto di vista della capacità di penetrazione nei mercati) senza una mobilitazione complessiva delle risorse sociali locali;

��un secondo asse interpretativo privilegia la dimensione economica dello sviluppo

locale e dunque i rapporti delle impresa tra loro, con i mercati e con l’ambiente competitivo. In questa prospettiva lo sviluppo locale ha a che fare con forme peculiari delle interazioni e delle reti tra le singole imprese, e di queste con i mercati dei clienti e dei fornitori. Lo sviluppo locale avrebbe dunque a che vedere con la riduzione dei costi di transazione e con la crescita delle forme di cooperazione tra imprese. L’attenzione è rivolta in questo caso alle relazioni che specifiche tipologie di impresa, con il loro assetto tecnologico e produttivo, hanno con i mercati delle materie prime e dei beni intermedi, del lavoro e dei prodotti finiti, a livello locale e globale, ma anche alla dimensione dell’organizzazione interna delle imprese, alle forme reticolari di relazione tra imprese e alle interazioni tra imprese, istituzioni e “ambiente” competitivo. Lungo questo asse di ragionamento, e in una prospettiva neoistituzionalista, emerge anche il tema del rapporto tra le forme territoriali dello sviluppo locale e gli assetti istituzionali ad esse relativi;

��un terzo asse è propenso a interpretare lo sviluppo locale come fenomeno

strettamente intrecciato alle caratteristiche dei territori e alle specificità dei luoghi. Lungo questa linea di riflessione, fortemente intrecciata con i temi della “sostenibilità” dei modelli locali di sviluppo, il territorio non soltanto è irriducibile a contesto neutro della produzione e delle dinamiche economiche, ma afferisce più profondamente alla specificità dei luoghi, intesi come risorse ambientali e sociali straordinarie e non riproducibili, fattori determinanti di pratiche di sviluppo endogeno e autocentrato, legato anche all’affermazione di modelli sociali di carattere comunitario e radicato, intrecciate anche a processi sociali di empowerment e a forme partecipative di costruzione dei percorsi di sviluppo.

A partire da questi elementi è possibile pensare che la “cassetta degli attrezzi” per l’interpretazione delle pratiche di concertazione territoriale dello sviluppo locale debba contenere almeno tre elementi e una serie di modalità (di meccanismo di spiegazione) che consentano di comprendere come questi meccanismi giocano tra loro: ��un primo, attinente alle forme di regolazione dei percorsi locali di sviluppo, dovrà

leggere i processi e le pratiche sociali proprie dello sviluppo locale a partire da un mix peculiare di forme di regolazione;

��un secondo, riguardante la relazioni tra attori, dovrà interrogarsi intorno ai rapporti di cooperazione/conflitto che definiscono lo sfondo a partire dal quale possono essere efficaci politiche di concertazione territoriale dello sviluppo;

��un terzo, orientato a studiare i processi di istituzionalizzazione, nell’accezione precedentemente richiamata, e in generale le pratiche istituzionali che si delineano nell’ambito delle politiche locali di sviluppo, dovrà analizzare il ruolo dei processi coalizionali nella costruzione del consenso intorno a politiche concertate di sviluppo territoriale

2.3 Le forme di regolazione dello sviluppo locale

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Lo sviluppo locale, nella letteratura, viene sovente caratterizzato come un insieme di processi economici, sociali, culturali e territoriali che evidenzia un originale mix tra forme e principi di regolazione. A partire dalla riflessione sociologica e politologica sviluppata nella tradizione della new political economy e dalle teorie della regolazione10, le ricerche e gli approcci ai temi dello sviluppo locale hanno orientato l’attenzione sul ruolo trainante di uno dei (o di una combinazione tra i) principi di regolazione (stato, mercato, comunità, associazioni) che strutturano le pratiche sociali attivate nei contesti locali per promuovere originali sentieri di sviluppo. Nella lettura delle pratiche di costruzione “negoziale” dello sviluppo territoriale, e quindi degli strumenti di concertazione sperimentati nel contesto italiano e in particolare lombardo, è dunque possibile fare riferimento ad alcuni nessi tra principi di regolazione: ��il mix tra mercato e comunità. L’intreccio tra regolazione di mercato (centrata sullo

scambio) e regolazione comunitaria (centrata sulla condivisione fiduciaria di valori, tradizioni e “miti”) è infatti un terreno centrale per la lettura delle caratteristiche dello sviluppo locale. I processi locali di sviluppo si collocherebbero dunque all’intersezione tra scambio monetario e scambio simbolico, tra competizione economica e cooperazione sociale. In questa prospettiva le risorse sociali di carattere comunitario trovano una esplicita utilizzazione nel consolidamento delle relazioni di mercato, riducendo i costi di transazione e accrescendo i benefici della cooperazione;

��il mix tra stato e associazioni. La centralità della dimensione istituzionale e dunque il

rapporto tra stato, costruzione dei mercati e dinamiche sociali dei processi di sviluppo è stata evidenziata dagli studi che hanno sottolineato il ruolo esercitato dal pubblico (dagli enti locali e dallo Stato, ma anche da altri attori istituzionali del nuovo Stato-rete) nella strutturazione delle forme di regolazione sociale e politica. L’attenzione alla dimensione istituzionale si è poi accompagnata a un crescente interesse per le forme “intermedie”, non di tipo comunitario, di strutturazione del legame sociale (le associazioni di categoria, le associazioni camerali, gli enti funzionali e in generale i “corpi intermedi”) che ispessiscono le reti e le relazioni sociali a livello locale, diventando spesso motori centrali dello sviluppo. Il ruolo della “società di mezzo”, così frequentemente sottolineato nelle letture del CENSIS, sarebbe dunque determinante nella strutturazione dei processi sociali e istituzionali che hanno qualificato i diversi sentieri di sviluppo in Italia.

2.4 Capitale sociale, beni comuni e sviluppo locale In questo quadro un tema decisivo per l’interpretazione delle forme e delle pratiche concrete entro le quali si determinano i processi di sviluppo a scala locale è quello del capitale sociale11. L’interesse per il tema del capitale sociale è legato anche all’ambiguità e al carattere polisemico del concetto, al suo rapporto con altre nozioni (relazioni comunitarie, fiducia, civismo, …) che sono state sovente mobilitate per dar conto delle

10 Per una ricca presentazione delle teorie della regolazione nella prospettiva della sociologia economica si rinvia a Trigilia (1998). 11. Per una prima introduzione ai temi del capitale sociale si rinvia ai recenti scritti di Bagnasco (1999); Mutti (1998), Trigilia (1999) e in generale al numero 3/1999 della rivista Stato e Mercato.

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condizioni di possibilità e di attivazione di attori e risorse nei processi di sviluppo territoriale. Una definizione sufficientemente ricca del concetto è offerta da Trigilia, secondo il quale il capitale sociale sarebbe “l’insieme delle relazioni sociali di cui un soggetto individuale (…) o collettivo (pubblico o privato) dispone in un determinato momento. Attraverso il capitale di relazioni si rendono disponibili risorse cognitive, come le informazioni, o normative, come la fiducia, che permettono ai soggetti di realizzare obiettivi che non sarebbero altrimenti raggiungibili, o lo sarebbero a costi molto più alti” (Trigilia, 1999). Le ragioni per le quali il capitale sociale può essere considerato un vero e proprio “fattore produttivo” nei processi di sviluppo locale sono dunque molteplici. Se il capitale sociale, secondo la definizione di Coleman può essere inteso come “insieme di relazioni fiduciarie atte a favorire, tra i partecipanti, la capacità di riconoscersi e di intendersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente e di cooperare a fini comuni” (Mutti, 1998), è evidente che il concetto ha una natura innanzitutto relazionale. Il capitale sociale circola in reti, le genera e le riproduce, ne costituisce l’orizzonte di riferimento. Più che una dotazione (una infrastruttura), il capitale sociale è capitale “circolante”, che si rafforza nell’addensamento e nella costruzione di network localizzati. Si tratta, in altre parole, di un insieme di relazioni che generano effetti intenzionali e ininitenzionali, strategiche in quanto “orientate alla produzione e riproduzione di relazioni sociali utilizzabili nel tempo” (Mutti, 1998). La prospettiva di Coleman, che significativamente muove da una rigorosa impostazione individualistica ma finisce per misurarsi con temi propri delle prospettive neocomunitarie, evidenzia come il capitale sociale possa essere inteso come “fattori di produzione” in quanto è insieme effetto e causa della produzione di beni come la fiducia, le reti relazionali di carattere informale, i frame condivisi entro i quali collocare anche le pratiche conflittuali, il civismo e il “municipalismo”. La costruzione di pratiche di concertazione territoriale, in questa prospettiva, trova nel capitale sociale non solamente una risorsa atta ad accrescere l’orientamento alla cooperazione degli attori, ma anche un terreno possibile per interrogare la capacità delle politiche di generare “beni comuni”, ivi compresi quei beni “materiali”, fisicamente riconoscibili, che costituiscono, secondo Donolo (1997), parte integrante della “dotazione” di una società democratica. La dimensione territoriale dei “beni comuni” prodotti nelle politiche di sviluppo e in particolare nelle pratiche di concertazione territoriale può essere ricondotta a tre linee di ragionamento: ��una prima riconduce i beni comuni (al plurale) alla categoria dei beni pubblici di

carattere “infrastrutturale” (hard e soft): dal capitale fisso sociale alle reti comunicative, dalla qualità della pubblica amministrazione ai servizi al sistema dei servizi alle imprese, in una logica centrata sulle economie esterne, sulla “qualità di sistema” e oggi, in definitiva, sulla retorica della competizione urbana e territoriale;

��una seconda, di tipo microsociologico, prende in considerazione la dimensione

spaziale delle relazioni come un campo relazionale (la prossimità è un campo nel

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quale sono possibili i filtraggi di senso propri delle relazioni faccia a faccia, e degli scambi fiduciari che riducono i costi transazionali);

��una terza, complementare alla seconda, assume la natura territoriale dei beni comuni

in un’accezione “politica”, ossia come appartenenza delle forme di generazione di tali beni al campo della città (e del territorio antropizzato), come sedimento materiale di culture e quadri di senso (la civic culture si sostanzia e si riconosce in luoghi a cui vengono attribuite funzioni di luoghi “in comune”).

In tutte queste interpretazioni la produzione di capitale sociale “via” politiche accresce insieme la possibilità di generare “beni comuni” che rafforzano a loro volta il capitale sociale e che costituiscono i principali “by-products” delle politiche di concertazione territoriale (Crosta, 1998; Pasqui, 2000). 2.5 La dimensione territoriale della concertazione La centralità del tema della concertazione territoriale nelle politiche pubbliche regionali e più complessivamente nelle politiche di sviluppo è sotto gli occhi di tutti. Questa centralità non è soltanto l’esito della crescita di esperienze istituzionali di concertazione che riflettono la proliferazione (anche legislativa) di nuovi strumenti di carattere pattizio e negoziale (dall’affermarsi degli accordi di programma ex lege 142/1990 come forma “normale” dell’attuazione di politiche complesse alle esperienze di programmazione negoziata), ma è soprattutto un effetto dell’avvio della sperimentazione di nuove pratiche di autogoverno delle società locali. Il caso italiano presenta da questo punto di vista alcuni aspetti peculiari nella costruzione e nell’emergenza concreta di pratiche di concertazione: ��la matrice del tema della concertazione in Italia è rinvenibile innanzitutto nell’ambito

della regolazione del conflitto tra le parti sociali, nell’ottica del “patto sociale” tra rappresentanze istituzionali intorno a obiettivi di stabilizzazione e risanamento economico-finanziario e di governo dei conflitti sociali e in particolare distributivi, che ha costituito il cardine delle politiche economiche degli anni ’90 e che ha consentito l’accesso alla moneta unica. Si tratta di un modello che nel corso del tempo ha assunto sempre più un carattere “pervasivo” (Ciampi ha parlato qualche anno fa della concertazione come “metodo per governare”), influenzando potentemente le retoriche dei policy makers e mutando i comportamenti e gli “stili” dei diversi attori (Regini, Regalia, 1996), riducendo di fatto gli spazi di conflitto alla scala aziendale e introducendo il principio della “triangolazione ” tra parti sociali e attore pubblico (in veste di “mediatore” e regolatore) anche in ambiti lontani da quelli della contrattazione sindacale;

��il tema della concertazione si è intrecciato con le pratiche e le esperienze di riforma

amministrativa condotte negli ultimi anni (a partire dai decreti e dalle leggi Bassanini, per arrivare alle diverse e sovente ambigue leggi regionali di recepimento) che hanno prodotto da un lato il riconoscimento della rilevanza di pratiche negoziali e pattizie (si pensi al ruolo crescente degli accordi di programma, a cui si è già fatto cenno, ma anche alla proliferazione di tavoli di concertazione sociale, forum territoriali e “patti” sociali a scala locale) e dall’altro lato la crescente affermazione di

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nuove culture amministrative che ridefiniscono radicalmente il ruolo (e i poteri) degli Enti pubblici territoriali;

��la sperimentazione della concertazione territoriale si è intrecciata alla vicenda assai

complessa dell’emergenza e del mutamento anche repentino degli strumenti della programmazione negoziata dello sviluppo territoriale, intorno alla quale negli ultimi anni si sono scontrati (anche radicalmente) modelli diversi, nei quali sono in qualche caso prevalse declinazioni neocentraliste e neocorporative.

Queste specificità della declinazione del modello concertativo nel caso italiano rendono assai articolata e ambigua l’assunzione del tema della concertazione territoriale. Alcuni attori importanti nelle vicende recenti della ridefinizione del campo delle azioni a sostegno dello sviluppo dei territori (ad esempio il CNEL di De Rita: cfr. De Rita, Bonomi, 1998), hanno sottolineato a più riprese il carattere specifico della concertazione territoriale, intesa come pratica di “accompagnamento” e supporto a coalizioni sociali che operano per obiettivi condivisi (CNEL, 1999), proponendo di distinguere in modo netto il modello concertativo “nazionale” dalle sperimentazioni in corso nei territori. Dal punto di vista analitico si potrebbe parlare, per la concertazione territoriale, di un “pendolo” tra un modello di concertazione come “stile” di governo che assume e valorizza l’affermarsi di forme di regolazione pluralistiche e un modello di concertazione come pratica istituzionalizzata di strutturazione del campo delle decisioni collettive e dei conflitti territoriali. Se si guarda in particolare alle aree del Nord del paese, nelle quali le pratiche di concertazione non sono state generate necessariamente nel quadro dell’attuazione di strumenti e politiche di natura distributiva, il carattere ambiguo del trattamento del tema della concertazione emerge con maggiore evidenza, così come emerge lo scarto tra il modello della concertazione centralizzata tra le parti sociali e le esperienze di concertazione locale (dal basso), costruite a partire dalla valorizzazione dell’autonomia dei territori. La distinzione tra i due modelli concertativi riguarda una pluralità di dimensioni: ��la natura diversa dei soggetti in gioco e delle forme di rappresentanza che essi

incarnano (con una più netta prevalenza, nella concertazione territoriale, degli attori sociali rispetto a quelli istituzionali e di attori costruiti “su missione” e all’interno dei processi rispetto agli attori che giocano ruoli definiti);

��i contesti decisionali e le arene nelle quali si muovo gli attori (con una compresenza

di dimensioni orizzontali e verticali, di reti “lunghe” e “corte” nella concertazione territoriale a fronte di un carattere più fortemente gerarchico e autoritativo della concertazione nazionale);

��le poste e le tipologie di processi e politiche entro le quali tali poste vengono generate

e ridefinite (con una tendenza delle politiche di concertazione nazionale verso processi orientati alla “neutralizzazione” del conflitto, piuttosto che alla sua gestione);

��le risorse mobilitate nelle diverse arene e messe in campo dai diversi attori (con un

ruolo decisivo della generazione e dello scambio di capitale sociale nella costruzione di strategie concertative a scala locale, rispetto alla prevalenza di risorse autoritative e

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finanziarie alla scala nazionale). L’opposizione tra i due modelli a naturalmente soprattutto un valore analitico. Essa rivela tuttavia come la concertazione territoriale metta in gioco un mix di attori, strumenti e risorse irriducibile al modello della concertazione centralizzata. Le possibili implicazioni normative di una declinazione pluralistica e “territoriale” del modello della concertazione sono infatti molteplici: ��la valorizzazione della pluralità di attori e risorse emergenti nei territori attraverso la

sperimentazione di concrete forme di co-progettazione delle politiche (del lavoro e dell’impresa, dell’ambiente e del territorio, delle infrastrutture materiali e immateriali) che coinvolgano gli enti locali, le autonomie funzionali le parti sociali, le società locali nelle loro forme plurime di rappresentanza;

��la sperimentazione di nuove forme e pratiche di rappresentanza territoriale, che

assumano il carattere radicale della crisi della rappresentanza tradizionale e indichino vie nuove di ridefinizione delle pratiche di regolazione locale, assumendo anche il conflitto e la pluralità di interessi come risorse possibili per la definizione di nuovi quadri per l’azione;

��l’assunzione di uno stile di governo opposto a quello neo-centralistico fatto proprio

da alcune regioni (tra le quali la Lombardia), fortemente aperto ai territori, centrato sull’attivazione e sull’accompagnamento delle iniziative di concertazione che emergono dai territori più che sul “controllo” (soprattutto dei canali di spesa) rispetto alle iniziative locali.

Da questo punto di vista l’esperienza lombarda è per più ragioni di grande interesse. E’ infatti significativo che in un contesto nel quale il ruolo della Regione è stato in realtà di freno alla concertazione territoriale “verso il basso” e di continua conflittualità lungo la filiera della concertazione territoriale verso l’alto, la società lombarda e l’articolazione dei suoi territori hanno fatto crescere interessanti esperienze di concertazione territoriale, che hanno visto come protagonisti una pluralità di attori pubblici e privati.

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2.6 Le pratiche di istituzionalizzazione dello sviluppo locale: la costruzione di coalizioni Come si è sottolineato, il tema delle forme di istituzionalizzazione ha assunto un peso crescente nel dibattito sullo sviluppo locale. In questo quadro un ruolo importante assume il tema della costruzione di coalizioni e le sue possibili diverse declinazioni. Il termine coalizione così come il termine concertazione, presenta una decisa ambiguità sul piano definitorio accompagnata a una marcata flessibili nei suoi modi d’uso (Bolocan Goldstein, 2000). L’espressione gioca un ruolo nell’interpretazione dei fenomeni indagati dalla scienza politica (coalizione di governo, coalizione elettorale, coalizioni lobbystiche etc.) e in quelli propri della regolazione sociale ed economica (si è parlato di recente anche del modello di capitalismo coalizionale); ma il richiamo all’esistenza e all’importanza delle coalizioni è stato sottolineato pure per l’ambito locale, in riferimento alla dimensione urbana e più recentemente alla costruzione del consenso intorno a strategie di sviluppo territoriale. In termini molto generali è ricondurre il nesso tra concertazione territoriale e costruzione di coalizioni territoriali ad alcuni temi: ��la questione del consensus building e della costruzione di una alleanza stabile tra

attori intorno a obiettivi condivisi. Questo tema è intrecciato a quello della stabilità e della “coerenza temporale” delle coalizioni di sviluppo, e dunque all’accentuazione ora della natura policy specific e pluralisticamente instabile, ora del carattere stabile e tendenzialmente neocoroporativo dei processi di costruzione e consolidamento delle coalizioni locali. Una interpretazione in chiave radicalmente pluralista delle coalizioni locali di sviluppo è infatti correlata a un approccio al tema della concertazione territoriale di tipo “bottom-up”, aperto alle pratiche di innovazione sociale e a bassa istituzionalizzazione. Viceversa, una interpretazione in senso neo-elitista della generazione delle coalizioni è correlata a un approccio fortemente istituzionalizzante alle pratiche di concertazione territoriale;

��il grado di flessibilità delle forme di istituzionalizzazione del consenso intorno alle

strategie di sviluppo territoriale. Questo tema ha a che fare con la maggiore o minore permeabilità delle pratiche di concertazione alle innovazioni e ai processi di apprendimento interni all’interazione. In contesti come quelli delle regioni settentrionali, e in particolare della Lombardia, il ruolo delle coalizioni locali di sviluppo può essere collocato nel continuum tra lobbyismo territoriale e definizione di tavoli permanenti di concertazione e negoziazione intorno alle politiche pubbliche;

��il grado di apertura dei tavoli coalizionali, inteso come segnale dell’apertura

complessiva dei processi decisionali e concertativi e dell’assunzione di strategie di carattere inclusivo nella gestione e nel governo dei conflitti. In un quadro di istituzionalizzazione “leggera” dei processi di sviluppo, strategie inclusive appaiono più efficaci nella gestione dei conflitti territoriali e soprattutto nella mobilitazione delle società locali intorno alla condivisione di obiettivi di carattere “pubblico”.

In alcune delle prospettive più aperte ai temi della concertazione territoriale come processo sociale è stato evidenziato il ruolo delle coalizioni sociali a supporto dell’azione ‘dal basso’ (CNEL, 1999) come forme di relazione tra attori che possano arginare i rischi di un local corporatism che potrebbe minare alla base la progettualità territoriale e

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condizionare la stessa assunzione di responsabilità dei diversi attori nei territori (in primo luogo i nuovi sindaci e le autonomie locali). In questa prospettiva, il ‘fare coalizione’ insistentemente richiamato dal CENSIS e dal CNEL è in stretta relazione con le nuove espressioni della leadership e della soggettività dei sistemi locali, in evidente tensione con il sistema delle rappresentanze tradizionali ancora prevalentemente strutturato in modo verticale. La costruzione di coalizioni locali di sviluppo “via” concertazione territoriale può dunque essere interpretata esplicitamente come una modalità di governo che assume la prospettiva della governance.

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3. LA GOVERNANCE MULTILIVELLO. Rispetto alla "vecchia programmazione" degli anni '60-'70, nella "nuova programmazione" degli anni '90 l'attore pubblico rinuncia a prescrivere/decidere per via gerarchica e introduce un nuovo stile di policy basato sul dialogo che anticipa la decisione. E' in questa differenza profonda che si costruisce il passaggio dal "governo" alla "governance". Nella governance, autorità multiple influenzano reciprocamente mercati anch'essi multipli producendo un esito in cui valori variabili sono allocati in società rappresentative di molti raggruppamenti sociali trasversali e sovrapposti. La governance a molti livelli nasce dalla dissoluzione del vecchio modello centrato sullo stato e di tipo gerarchico (top-down); dalla dispersione del potere/autorità in molte direzioni, verso l'alto e verso il basso; dalla diffusione delle fonti di obbedienza, lealtà e identità. 3.1 Il gioco della governance Possiamo analizzare la governance come un "gioco" tra una pluralità di attori. Se prendiamo un livello di governance locale (ad esempio una città o una regione) troveremo in gioco un set di attori che comprende istituzioni (locali e sovra-locali), imprese, associazioni, cittadini e gruppi sociali. Tutti partecipano a vario titolo alla governance locale, gestendo, spendendo, investendo, votando, negoziando ecc. Ciascun attore è più o meno "localizzato", nel senso che appartiene o meno anche ad altri setting esterni a quello locale. Ad esempio le imprese che operano in una città o in una regione apparterranno o meno anche ad altri ambienti locali, a seconda che siano imprese multinazionali, multilocalizzate o esclusivamente locali. Le associazioni potranno essere parte di più ampie federazioni che agiscono contemporaneamente a diversi livelli. I cittadini stessi potranno essere più o meno dipendenti dal locale o più o meno appartenenti anche ad altri livelli, diversificando così il loro portafoglio. Paradossalmente solo le istituzioni locali - che pure dovrebbero avere la visuale più ampia- posseggono una razionalità confinata al locale. Per questo i diversi attori partecipano alla governance locale giocando diversamente in termini di rischio e di incertezza. Nelle loro relazioni vi sono spesso asimmetrie. Ma la governance locale può anche essere vista come un "gioco" per l'allargamento delle poste e per la creazione di nuove risorse. In questo caso, pur permanendo com'è ovvio le asimmetrie posizionali prima ricordate, vi sono maggiori incentivi a partecipare all'azione collettiva. Continuano ad esserci attori che possono entrare e uscire più liberamente dal gioco, mentre altri sono costretti a partecipare. Ma la moltiplicazione delle poste e la creazione di nuove risorse dovrebbero modificare i calcoli di convenienza di tutti i giocatori. Sembra più utile quindi vedere a quali condizioni e con quali incentivi si possa realizzare un'azione collettiva di quella città o di quella regione avviando un processo in cui molteplici poste siano messe in gioco e nuove risorse siano create (e non semplicemente quelle esistenti redistribuite).

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3.2. La governance multilivello Nella governance, ciascun attore è collocato entro una griglia di azione che è definita da un lato dalle forme di integrazione (stato, mercato, reciprocità) cui esso prende parte e dall'altro dai livelli di governance (locale, regionale, nazionale, europea) cui esso concorre. Ne risulta una variabile miscela regolativa e di governance che rende possibili diversi sentieri. In questo schema istituzionale "aperto" la collocazione nello spazio della governance è frutto di un confronto tra diversi punti di vista, ciascuno dei quali cerca di situarsi più favorevolmente e di aumentare il proprio controllo della situazione data. Fig.1. L' impresa.

FORME DI LIVELLI DI GOVERNANCE INTEGRAZIONE Locale/Regionale Nazionale Europea Mercato * Stato * Reciprocità * Consideriamo una tipica impresa locale, quale si ritrova in qualsiasi realtà del tipo distretto industriale o sistema socioeconomico locale. Essa è solidamente incastrata entro rapporti di reciprocità nella governance locale, nel senso che trae dal reticolo di relazioni con altre imprese, famiglie, mercati, istituzioni sociali le proprie armi competitive. Ma nel contempo essa è presente entro la governance nazionale: poichè molte variabili - prezzi, tariffe, regolazioni, incentivi ecc. sono allocate a quel livello. L'impresa direttamente o mediante le proprie rappresentanze istituzionali, trae vantaggio dai beni collettivi che vengono prodotti nell'ambito locale e in quello nazionale. La governance nazionale resta importante, ma sempre più distribuisce le proprie competenze ai livelli sub e sopranazionali. Possiamo parlare di un'impresa che trae beneficio da "beni pubblici locali" e da "beni pubblici globali". Quella stessa impresa potrà infatti trovarsi coinvolta in ambiti di governance sopranazionale: ad esempio nel mercato unico europeo si fissano standards cui dovrà attenersi, si definiscono programmi e si finanziano incentivi cui essa può aspirare. Siamo lontani dai modelli di impresa impegnata nel suo calcolo massimizzante, e dipendente dallo stato per politiche di tassazione e di regolazione. In quei modelli l'analisi dell'impresa è sganciata da quella delle istituzioni. Qui invece l'impresa è parte di una azione di governance a più livelli : essa stessa partecipa, direttamente ma sopratutto per via indiretta, associativa e nell'ambito delle istituzioni collettive di cui è parte, alla produzione congiunta di beni pubblici. Se questo cambiamento è forte nel caso dell'impresa, esso è ancora più rilevante nel caso delle istituzioni pubbliche. Nei modelli classici, lo stato si articola in livelli di governo conservando in ogni momento la decisione ultima di politica economica come di coordinamento istituzionale. Il passaggio alla governance multilivello esprime il superamento di questa concezione unitaria dello stato, in cui si è tradotta la superiorità dello stato moderno sulla società

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civile. Vediamo dove si situa la sua crisi. Si tratta della crisi di legittimità "orientata all'input" in cui incorre lo stato moderno, fondata sulla retorica della partecipazione e del consenso. Gli alti livelli di identità collettiva e il sentimento di comune appartenenza che ne sono presupposti rendono legittimi i provvedimenti statali di redistribuzione tra le persone e tra i territori. L'erosione di entrambi i livelli apre ai sistemi statali la via della legittimità "orientata all'output", una legittimità più limitata e contingente in cui coesistono identità collettive multiple, intrecciate o sovrapposte in base a specifiche classi di problemi e organizzate secondo criteri sia territoriali che funzionali. Questa legittimità basata sugli interessi piuttosto che sull'appartenenza è il campo di operazione dei policy networks pluralisti. Come ha mostrato L. Bobbio, le politiche pubbliche appaiono in tensione tra i principi concorrenti della logica legale-formale (eseguire le leggi), quelli della performance (produrre risultati soddisfacenti), e quelli della logica negoziale ( produrre il consenso dei partners pubblici e privati). Dopo aver analizzato l'impresa, passiamo a considerare l'attore collettivo. Qui si assume che attori collettivi possano essere un distretto, o una città, o una regione, entità spaziali che l'economia ha considerato a lungo come "ambienti" dell'impresa e la politica come "sotto-livelli" periferici. Fig.2 L’attore collettivo.

FORME DI LIVELLI DI GOVERNANCE INTEGRAZIONE Locale/Regionale Nazionale Europea Mercato $ (città) *$ Stato *$ *$ Reciprocità * (distretto) Gli esempi del distretto e della città propongono queste entità in quanto attori collettivi che partecipano all'azione di governance. Sia il distretto che la città sono i soggetti della governance locale: sono cioè a loro volta dei reticoli di relazioni e di azioni. Nel caso idealtipico del distretto industriale la densità del reticolo si basa su meccanismi di reciprocità, mentre nel caso della città prevale la regolazione di mercato. Entrambi partecipano alla governance multilivello incrociando il livello regionale verso cui convergono reti di cooperazione e forme di coordinamento locali. Per molti versi è stata la riemergenza della regione a favorire la rinascita delle città e dei distretti, che erano stati invece neutralizzati dagli stati nazionali. In certi casi le regioni sono anche stati, come in Germania, in altri come l'Italia, la Spagna e il Regno Unito le società regionali sono fondamentali unità sociali quanto le società nazionali. E forse -come ha proposto C. Crouch- si potrebbe riarticolare un discorso sulla società europea a partire da dati e unità di analisi regionali piuttosto che nazionali. O si potrebbe analizzare gli effetti che le politiche economiche e monetarie dell'Unione europea hanno avuto sulle regioni anzichè sulle nazioni. Indubbiamente la dimensione europea della governance ha teso a privilegiare politiche e azioni a scala interregionale, sempre meno "dipendenti dallo stato". La governance multilivello opera mediante reti di attori sia territoriali che funzionali,

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policy networks trasversali, proliferazione di organismi tecnici, coalizioni distributive e gruppi economici organizzati, "costellazioni postnazionali"-nell'efficace formula di Habermas- entro un quadro di crescente interdipendenza e competizione. Il paradosso della governance multilivello è di sviluppare una capacità di soluzione dei problemi pur essendo un "campo organizzativo"di conflitti. 3.3. I conflitti In una fase di dispersione del potere, i conflitti tra livelli di governance si sommano ai conflitti interni a ciascun livello. Il risultato potrebbe essere una diffusa perdita di governabilità, maggiore di quella in cui ciascun livello - in particolare quello dello stato nazionale- era relativamente immunizzato da incursioni esterne. Fortunatamente le società democratiche hanno sviluppato una capacità, per alcuni versi misteriosa, di gestire i conflitti positivamente - cioé traducendoli in occasioni di ulteriore crescita e perfino di coesione. Le società imparano a tenere a bada i conflitti anche quando questi sono particolarmente dirompenti: anzi sembrerebbe che dall'avvicinarsi a stati profondi di crisi si sviluppino risposte che finiscono per rafforzare le società. Come sottolinea Hirschman, i conflitti si sviluppano come l'altra faccia di fenomeni di crescita e questo è tipico di situazioni in cui si creano diseguaglianze crescenti e nuove forme di declino, regionali o settoriali. Nella gara competitiva possiamo dire che a ogni storia di successo corrispondono nuove aree di crisi, come nel caso delle regioni che vincono rispetto a quelle che perdono. Uno dei modi di gestire i conflitti posizionali di questo tipo deriva dal trasferimento delle politiche messo in atto dai diversi livelli di governance. Ad esempio si tende a ispirarsi, a copiare, a imitare politiche che hanno avuto successo in altri paesi; si tendono a diffondere le pratiche migliori sotto lo stimolo e la vigilanza di livelli di governance superiori (è il caso dell' l'Unione europea). Nuove forme di perfezionamento della macchina si sperimentano. Una parte importante di questo processo consiste nel trasformare la competizione tra livelli di governance in occasioni di cooperazione, sia orizzontale (mediante la messa in rete di amministrazioni pubbliche e di imprese) sia verticale (cooperazione tra livelli locali, regionali ed europei nella progettazione di politiche). Oggi certamente prevale nella letteratura specialistica non meno che nell'immaginario collettivo, una visione competitiva. Quando un'impresa globale deve scegliere una località ad es. in Europa, si rende evidente sopratutto il conflitto tra regioni e città "rivali" che offrono paccchetti di incentivi fatti su misura per attrarre l'investimento desiderato. O se un nuovo aeroporto nasce, o una fiera o agenzia internazionale, subito è la competizione con i competitori che ci colpisce: una guerra tra rivali per controllare risorse, flussi di traffico, occasioni di profitto e di speculazione. Eppure non si vede che lo stesso processo è già avvenuto in forme diverse nel passato, e la storia dello sviluppo economico ne è piena. Esso consiste in un allargamento del mercato, nella creazione di nuovi prodotti o processi o di nuove organizzazioni, in un circuito "schumpeteriano" in cui certo vi sono perdenti e vincitori. Ma in questa messa in prospettiva va considerata anche la cooperazione che nasce da progetti congiunti, dal reciproco vantaggio in termini di apprendimento che se ne trae. In molti campi come quelli dei servizi e delle utilities i

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favoriti dalla competizione possono essere comunità locali di utenti, purchè vigilino attentamente autorità di regolamentazione e di controllo dei risultati. Un campo di creazione di miglior valore nei servizi sembra aperto, dopo una fase tutta orientata alle privatizzazioni e ai tagli della spesa pubblica. In questo processo occasioni di cooperazione tra comunità possono emergere continuamente entro la gara competitiva, in una combinazione indistricabile. Un altro modo di gestire i conflitti è rappresentato dalla funzione che hanno le politiche di re-framing, di reinquadramento dei problemi a un livello superiore e più comprensivo, in cui si traduce frequentemente l'azione di governance. Ad esempio, la pianificazione strategica di una città può essere vista come una azione ricorsiva di reinquadramento dei conflitti distributivi tra diversi gruppi sociali urbani usando la visione del futuro per manipolare gli interessi a breve dei soggetti e trasformarne il segno da interessi in conflitto a potenziali alleati. Un altro modo di gestire i conflitti è di insistere sulla generazione spontanea di spirito comunitario facendo ricorso al capitale sociale inteso come fondamento comune di una società sia pur divisa. E' interessante al proposito ricordare che in molti distretti industriali, spesso presentati come campioni di solidarietà e di coesione sociale, in realtà operano costantemente anche forme di dura competizione di mercato. Ma insistere sulla matrice della coesione comunitaria -magari riferita a un passato remoto del distretto, alla forza della tradizione- è appunto un modo di passare attraverso i conflitti di oggi. Un ulteriore aspetto della gestione dei conflitti consiste infine nel cambiamento di scala come modo di affrontare meglio i conflitti. Trasferendoli a una scala superiore (ad esempio a Bruxelles) certi conflitti intrattabili nell'ottica locale appaiono meno distruttivi e si rende necessaria la ricerca di un punto focale. Questo è avvenuto nei casi di gestione del declino industriale di intere comunità locali, quando città e regioni monospecializzate hanno affrontato le asprezze della deindustrializzazione. E' stato allora più facile fare accettare quote di produzione decise a livello europeo anche quando ciò ha significato il ridimensionamento per intere comunità locali. Viceversa può esser utile per lo stato affidare al livello subnazionale il trattamento di poste che a livello nazionale sono prive di ricette, come nel caso delle politiche per il lavoro o delle intricate questioni di solidarietà fiscale tra regioni. Qui lo stato si riduce a garante di patti stipulati da soggetti in reciproca competizione che dovrebbero assicurare un beneficio collettivo. 3.4 Apprendimento La governance potrebbe essere ridefinita "governo senza forza". Non nel senso che debba essere "governo debole", ma nel senso che i netti confini entro cui lo stato ha esercitato la sua funzione di dominio in forma istituzionale sono costantemente rinegoziati. Lo sono i confini territoriali, nella continua devoluzione verso l'alto e verso il basso tra livelli di governance locale, regionale, nazionale, europea. Nessun attore può fare a meno dell'altro nella rete delle competenze incrociate in cui si traduce ormai il mosaico delle istituzioni e delle politiche. Lo sono i confini tra pubblico e privato, per la opacità della sfera pubblica e per la pervasiva presenza degli interessi privati organizzati in ogni sfera della decisione politica. Al punto che lo stato appare ora come agli stessi giuristi un organizzatore di networks

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nella veste di attore privato-collettivo. Lo sono i confini tra pubblico e pubblico per la complessità raggiunta dalle sfere entro le quali le amministrazioni sono chiamate a operare. Vi sono qui due letture della governance entrambe possibili. La prima è vicina all'idea che si stiano affermando come possibili "ordini locali", in cui si realizza una composizione sempre contingente e provvisoria di sfere autonome. La seconda è l'estrema versione pluralista, in cui chi governa è il mercato e il ritrarsi dell'autorità dello stato ha lasciato il campo al silenzioso predominio delle strutture economiche e sociali. Sia l'una che l'altra concezione sottolineano le discontinuità che si sarebbero affermate nelle istituzioni politiche. La prima tende a evidenziare una dislocazione dei poteri in corso a favore del locale e del globale e a spese del soggetto statale. Essa mette in evidenza le spinte alla decentralizzazione e alla devoluzione dei poteri, e la desiderabilità di riforme istituzionali e amministrative in questa direzione. La seconda sottolinea la crisi della governabilità pubblica e l'affermazione di strategie e di strumenti basati sull'efficienza, sulla performance, sulla contendibilità e sulla deregolazione. Entrambe costituiscono delle rappresentazioni della governance democratica, nel senso che tendono ad accreditare una certa visione e rappresentazione legittime del campo politico. Entrambe si basano su profezie e previsioni. Entrambe urgono per cambiamenti della macchina. Si consideri la pianificazione strategica. Essa è un singolare caso di trasmigrazione dall'uno all'altro versante, dal mercato alla politica. Nasce infatti come strumento di visione e previsione dell' impresa sul mercato e viene successivamente importato e utilizzato nella pianificazione pubblica locale. Implica quindi che le politiche pubbliche, ad esempio di una città, possano adottare una modalità di azione simile a quella dell'impresa: calcolo razionale, valutazione della concorrenza, posizionamento sul mercato, adozione di strategie, sistemi di controllo di gestione. La pianificazione strategica costituisce un caso di azione condotta per realizzare e imporre una visione e una rappresentazione legittime dello spazio nei confronti di altri soggetti in competizione. Questa competizione coinvolgerà altre città e altri territori nei cui confronti si esercita una sfida per il controllo di quote di mercato, di investimenti pubblici e privati, per l'attrazione di risorse scarse, per la conquista di un rango e di una posizione superiori. L'azione della pianificazione strategica è rivolta a realizzare, attraverso strumenti di mercato e non di autorità, una nuova visione legittima della città o del territorio nello spazio sociale. Essa è uno strumento di ridefinizione simbolica dello spazio pubblico e dell'azione pubblica rivolta a convincere sia i soggetti interni che i rivali esterni della legittimità di tale nuova rappresentazione. E non a caso allora la pianificazione strategica è un'azione di tipo retorico, pedagogico e perfino di marketing: poichè si rivolge sia ai soggetti costituenti la città per convincerli ad uniformarsi alle nuove mete che essa indica, sia ai soggetti esterni (investitori, utenti, competitori, altri livelli di governo) chiamati a prendere atto della rivendicazione di rango espressa dalla città o a sostenerla. Confrontiamo ora questa innovazione nella governance, rappresentata dalla pianificazione strategica, centauro metà impresa e metà politica pubblica, con le teorie dell' apprendimento delle istituzioni.

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Possiamo ricordare che una delle caratteristiche del processo politico democratico è la miopia. Le istituzioni democratiche - ci dicono March e Olsen- vedono meglio ciò che è vicino e immediato mentre non riescono a prevedere costi e benefici troppo lontani. La ragione sta nella necessità di rispondere a pressioni attuali e ben localizzate piuttosto che a pressioni distanti e future. A ciò porta anche la natura del ciclo politico, la cui brevità spinge gli attori politici a investire in risultati visibili e immediatamente spendibili ai fini del consenso piuttosto che in programmi futuri e per definizione incerti e rischiosi. Ma la miopia del processo democratico si traduce in imprevidenza, che si tratti dello squilibrio dei sistemi di previdenza sociale o dell' accumulo del debito pubblico o dei danni irreversibili all'ambiente ecc. Compito della governance democratica è di riequilibrare lo scarto tra presente e futuro. Ma a ciò non è adatta una concezione basata sullo scambio e sulla negoziazione tra attori auto-interessati. D'altra parte una petizione di principio in favore delle generazioni future non appare realistica. Occorrerebbe costruire un ponte che permetta agli interessi immediati - i soli che la democrazia rappresenti- di transitare sull'altra sponda, quella dei benefici futuri. L'interesse della pianificazione strategica sta proprio nel proiettare a beneficio dei cittadini attuali una "visione" della città - intesa come comunità politica- futura, ancora da realizzare e che essi possono contribuire a creare. E' quindi un processo in cui entrano in gioco molte dimensioni. La più importante di esse sembra essere l'apprendimento, inteso come capacità delle istituzioni di gestire un cambiamento intelligente. L'aspetto processuale è importante poichè si tratta - a differenza di tanta razionalità anticipatoria e di tanta programmazione fallita- di attivare intelligenze presenti nelle istituzioni e negli attori, di mettere in rete attori portatori di interessi, di innescare occasioni e di mobilitare risorse in parte nascoste. Come si vede, nella pianificazione strategica è più importante il mezzo del fine, il percorso dell'esito. Essa innesca forme di cooperazione e crea relazioni tra gli attori (come le reti interorganizzative) che sono luoghi di apprendimento reciproco e di condivisione dei punti di vista. Ma, così fissata la cornice, occorre ora metterci dentro gli attori, le "persone della rappresentazione". Nella pianificazione regionale, nella "nuova programmazione", nella concertazione locale come si muovono gli attori, pubblici e privati? nel caso di una regione come la Lombardia, di quali "visioni" sono portatrici le politiche pubbliche e la pianificazione regionale e locale? quali concrete forme assume qui la governance dell' economia regionale?

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4. PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA: IN QUALE "CLASSE" DI POLITICHE? Benchè la programmazione negoziata si sia affermata nelle politiche pubbliche da circa un decennio, manca a tutt'oggi una soddisfacente sistemazione teorica della programmazione negoziata nel campo dell' analisi delle politiche pubbliche. In questo paragrafo si cercherà di avviare un lavoro di questo tipo. 4.1 Quattro classi di teorie Il punto di partenza può essere rappresentato da questa domanda: entro quali teorie dei rapporti tra lo stato e i fattori sociali nello sviluppo delle politiche pubbliche si colloca la programmazione negoziata? Rielaborando Nordlinger (1981) possiamo distinguere tra quattro principali teorie: La teoria pluralista è centrata sui rapporti tra stato e "gruppi di pressione" secondo una logica di mercato politico

La teoria neo-pluralista è centrata sul ruolo di pochi gruppi di interesse organizzati o "élites"

La teoria post-fordista è centrata sullo "svuotamento" e sulla "esternalizzazione" delle capacità dello stato

La teria neo-corporativa è centrata sul gioco tra stato e "organizzazioni degli interessi" oggi in profonda ristrutturazione

Le quattro principali teorie hanno in comune il fatto di spiegare le politiche pubbliche attraverso risposte "centrate sulla società" anzichè "centrate sullo stato". Sono cioè i diversi gradi e tipi di influenza della società sullo stato a spiegare le politiche pubbliche. La pervasività di questa influenza, la relativa autonomia dello stato da questa influenza e la diversa distribuzione del potere di influenza fanno la differenza. Nella teoria pluralista l'influenza è esercitata da gruppi di pressione nessuno dei quali è dominante: è l'immagine della poliarchia di Dahl. Anche se i gruppi di pressione sono innanzitutto espressione degli interessi privati, tra essi rientrano le stesse agenzie amministrative: che non sono quindi organi neutrali ma articolano esse stesse propri interessi entro il processo di policy making. Nell'approccio alla governance basato sullo scambio nel "mercato politico", poichè nessun gruppo è dominante ciò che conta è la formazione di coalizioni. Secondo gli studiosi del processo di decision-making esistono tre tipi di politiche per la formazione di coalizioni (March 1994).

a) Il primo è tipico di gruppi che condividono orientamenti simili, quindi è proprio di un profilo della politica come "comunità".

b) Il secondo è proprio di situazioni in cui le diverse perferenze vengono "aggregate" riflettendo la media delle preferenze della coalizione vincente.

c) Il terzo è tipico di gruppi in cui ciascuno è indifferente alle preferenze altrui e si coalizza con gli altri secondo una logica di scambio di favori e di voti (logrolling).

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Se applichiamo questi schemi pluralisti alla programmazione negoziata -come lascia intendere il ricorso al termine poliarchia da parte di De Rita e Bonomi (1998) in un lavoro peraltro privo di riferimenti teorici sufficienti- le alternative che abbiamo di fronte sono le seguenti: a) la programmazione negoziata è una politica di coalizione di una policy community omogenea che condivide orientamenti e valori. Un territorio, ad esempio una città o un distretto, possiede una visione condivisa del proprio futuro al punto che è in grado di articolare congiuntamente le proprie istanze. Pur non potendo escludere la correttezza teorica di questa ipotesi, essa si scontra con l'evidente divergenza negli orientamenti e nei valori da parte dei partecipanti al processo, i quali attraverso la programmazione negoziata esprimono un accordo procedurale o al più un accordo di ricercare un'accordo ("plan for planning" secondo la letteratura sulla pianificazione strategica, Bryson 1987). La visione condivisa non è altro che il punto di arrivo del processo, e non può essere assunta ex-ante. b) la programmazione negoziata è il risultato dell'aggregazione delle preferenze di una coalizione vincente. Ma - come avvertono March e Olsen (1997)- una coalizione vincente in un'arena può perdere in un'altra arena, o può vincere ora ma perdere in un altro momento. Inoltre non è detto che le preferenze emergano chiaramente; spesso l'incertezza sulle preferenze degli interlocutori è causa di paralisi del processo decisionale (Bobbio 1997). Le politiche pubbliche possono essere adottate ma non attuate, o adottate ma essere incoerenti. Il modello è altamente instabile. c) la programmazione negoziata si avvicina alla "coalizione tra opportunisti" in cui ciascuno persegue il proprio interesse e su questa base si accorda con l'altro. Questa immagine può ricordare in effetti molti casi in cui l'assemblaggio di progetti portati avanti separatamente da ciascun partner è il vero collante dei patti territoriali o dei contratti d'area. Ma l' incapacità di reggere alla distanza e di affrontare situazioni di incertezza che sono proprie dei processi di policy è una delle conseguenze più vistose di questo modello. La principale debolezza delle teorie pluraliste è di assumere che gli attori partecipanti al processo abbiano gradi di influenza diversi ma che ogni attore possa essere rappresentato e dire la sua nel policy- making. Questa assunzione è stata criticata dalle teorie neo-pluraliste, che sostengono che la distribuzione del potere può essere assai meno pluralista. Infatti nel processo decisionale entrano solo le questioni sulle quali vi è stata una "mobilitazione delle preferenze" da parte di chi detiene il potere; questa mobilitazione delle preferenze avviene attraverso la manipolazione di valori collettivi, miti, istituzioni e procedure politiche. Ciò significa che altre preferenze non mobilitate resteranno allo stato latente e non entreranno mai nel processo di decision- making. Anche se evidenze empiriche andrebbero raccolte ed analizzate in questa chiave, è possibile che la programmazione negoziata rappresenti un processo di mobilitazione selettiva delle preferenze da parte di alcuni attori, sopratutto gli attori collettivi organizzati, mentre altri interessi non riescono a trovare voce nel processo stesso. E ' anche possibile che l'accesso all' arena decisionale da parte di certi attori sociali vari a seconda dei contesti; ad esempio una ricerca sui processi decisionali nei comuni italiani ha messo in evidenza come la presenza nel decision-making di "comitati di cittadini" o altre associazioni che raggruppano interessi diffusi sia più forte nel Nord che nel

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Mezzogiorno. Qualcosa di importante viene dalle teorie post-fordiste dello stato in particolare da C. Offe e B. Jessop. Entrambi si concentrano sulla crisi di legittimità dello stato nazionale postfordista. Offe ha indicato la tendenza al passaggio da una legittimità orientata all'imput (basata su identità comuni) a una orientata all'output(cioè misurata sui risultati). Jessop ha sostenuto che lo svuotamento ( hollowing-out) dello stato ha un parallelismo con l'analogo processo in corso nell'impresa. Lo stato-cavo come l'impresa-cava decentrano ed esternalizzano, in un processo di permanente outsourcing, le proprie capacità; nel caso dello stato queste capacità sono devolute a organismi pan-regionali, plurinazionali, o internazionali da un lato, e dall'altro a livelli ristrutturati di governance locale e regionale; altre capacità ancora sono "usurpate" da networks orizzontali di potere-locali e regionali- che by-passano lo stato centrale e connettono località e regioni di più nazioni. A prima vista in questa lettura può essere agevolmente iscritta la tendenza rappresentata dalla devoluzione che è propria della programmazione negoziata; così pure una tendenza dei livelli locali di governance a auto-organizzarsi e a mettersi in proprio. Questa tendenza può essere attivamente promossa e non solo "subita" dallo stato; ad esempio costruendo le condizioni di contesto favorevole perchè gli investimenti privati possano essere sviluppati-mediante la provvista di beni pubblici o la produzione congiunta di tali beni da parte delle politiche pubbliche e di partnership pubblico-private. Qui avviene la più forte intersezione del discorso con le teorie neocorporative. Nelle versioni ormai classiche esse presupponevano una delegazione di poteri dallo stato a "governi privati", cui era concesso il monopolio della rappresentanza degli interessi. Versioni più recenti mettono in evidenza che il "ritorno" neocorporativo sta assumendo una maggior connotazione di quanto si potesse ritenere in un' epoca di globalizzazione, americanizzazione e privatizzazione (Crouch 1998, Schmitter in corso di pubbl.) mediante la permanenza o la ristrutturazione di assetti istituzionali specie nelle relazioni industriali. Ma questo sta avvenendo non più in una cornice nazionale-centralizzata, ma in un quandro di frammentazione e di governance multi-livello. In questo nuovo quadro gli interessi organizzati sono chiamati a una ristrutturazione e a una riforma in quanto anch'essi, non solo lo stato, devono cambiare pelle e assumere un più forte orientamento al mercato e alla competizione anzichè alla conservazione di posizioni di monopolio o di oligopolio protetto (Schmitter 1999). 4.2. Quattro tipi di politiche Il modello di T. Lowi (1972) è tuttora il più influente schema di lettura delle politiche pubbliche. Esso classifica le politiche in quattro tipi: a) Distributive

c) Costitutive

b) Regolative

d) Redistributive

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a) Distibutive sono le politiche rivolte ai singoli individui, imprese ecc. senza che tra essi vi sia alcuna interferenza. Le loro coalizioni corrispondono quindi al logrolling delle teorie pluraliste. Le relazioni principali tra gli attori sono di scambio particolaristico. Esempi classici sono l' assistenza sociale, i sussidi, le tariffe (così come venivano praticate nel passato): tutti casi di politiche individualizzate in cui si agisce "ognuno per sè" . L'implementazione è affidata ad agenzie centrali dotate di uffici periferici. b) Regolative sono le politiche -rivolte a gruppi- che intervengono con normative nelle loro relazioni di contrattazione e coalizione di interessi. L'universo di riferimento è qui pluralistico-policentrico. Esempi classici sono le politiche regolatorie di settore, i piani regolatori urbanistici, le politiche di fissazione di standards. L'implementazione è affidata ad agenzie decentralizzate. c) Costitutive sono le politiche rivolte a creare una nuova "classe di comportamenti" in un vasto pubblico, come nel caso di riforme elettorali, di riforme amministrative, di creazione di agenzie ecc. d) Redistributive sono le politiche rivolte a intere categorie divise da confini sociali e ideologici. Il campo più evidente è quello delle politiche fiscali progressive e della previdenza sociale. Il ruolo-chiave è giocato qui dalle associazioni "verticali" di rappresentanza in rapporti di incontro-scontro. Volendo ora riflettere sulla possibile applicazione della tipologia alla programmazione negoziata, occorre vedere i rapporti tra le politiche pubbliche e gli interessi territoriali, a seconda che prevalgano a) scambi particolaristici c) formazione di istituzioni b) contrattazione/ d) concertazione/

coalizioni partnership di interessi

Si tratta di sistemi di politiche o di "arene" non esclusive tra loro, ma semmai prevalenti a seconda dei contesti. Inoltre le politiche possono transitare da un'arena all'altra. Si può dire che una componente "distributiva" sia presente fortemente nella programmazione negoziata? Si tratta del rapporto "centro-periferie" in cui il centro eroga e le periferie ricevono sussidi, senza che esista competizione tra le diverse periferie nè valutazione/controllo da parte del centro. Certamente questo è stato a lungo l'intervento della Cassa e poi dell'Agenzia per il Mezzogiorno: quindi la stagione della programmazione negoziata dovrebbe aver innovato rispetto a questo modello. Tuttavia una riconsiderazione sotto questa luce dei Patti territoriali di prima generazione (la fase uno del ciclo ricostruito nella prima parte di questa ricerca) potrebbe indurre a ritrovare elementi di continuità: una logica "distributiva a pioggia", un agire dei territori "ognuno per sè" ecc. E ciò a prescindere dal fatto che l'erogazione effettiva si sia fatta attendere per anni. Ma c'è di più. Ogni proposta di velocizzare il meccanismo erogatorio e di ricondurre la futura programmazione negoziata a una distribuzione automatica di sussidi alle singole imprese, come è ad es. nella proposta di alcune lobbies per l' estensione dei meccanismi della legge 488/94 dall'incentivazione alle imprese ai territori beneficiari,

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consiste inevitabilmente nel riproporre una politica "distributiva". La componente regolativa della programmazione negoziata si riferisce invece alle norme che vengano prodotte, agli standards che vengano fissati, alle procedure attuative etc. Per il momento questo aspetto è stato centrato sulla produzione normativa nazionale; ma quello che si apre con il D.l. 112/98 è un trasferimento alle Regioni dell'intero pacchetto normativo. Quindi si apre la possibilità almeno teorica ( in quanto il ruolo del centro non sembra destinato a sparire del tutto) di una proliferazione di norme su base regionale e locale. La conseguenza, voluta o meno, potrebbe essere di "competizione tra regimi normativi" su base regionale e quindi di abbandono -forse per la prima volta- di un regime nazionale regolazione a favore di regimi regionali di regolazione. Le politiche pubbliche anzichè erogare risorse -che invece potranno essere in larga parte private- dovranno "programmare la destinazione dei territori, mettere a gara la loro infrastrutturazione materiale e immateriale, fare da regolatori del traffico delle idee" come ha efficacemente scritto Fabrizio Barca12. Possibilità di enorme interesse che vale la pena esplorare, anche se potrebbe produrre disparità, concorrenza e perfino dumping tra regimi regionali. Ma qui appunto si collocherebbe il ritrovato ruolo del centro -e in questo senso anche dell'Ue- nel prevenire e regolare rischi di competizione rovinosa e nell'imporre in modo anche sanzionatorio (con l' interruzione dei flussi finanziari) la diffusione di best practices. La programmazione negoziata come politica costitutiva si riferisce al capitolo della "creazione di istituzioni". In questo rientrano tutte le innovazioni istituzionali che favoriscano la creazione di un contesto favorevole allo sviluppo degli investimenti nel territorio sotto forma di: agenzie di sviluppo, agenzie di protezione e sostenibilità ambientale, agenzie di marketing territoriale, sportello unico per le imprese ecc. Un bilancio di tali aspetti di institution building potrebbe essere un buon modo empirico per dare sostegno, almeno per alcune regioni, all'ipotesi costitutitiva della programmazione negoziata. In fin dei conti potrebbe rivelarsi questa la strada giusta per costruire -senza bisogno di riforme istituzionali pur auspicabili- un federalismo competitivo alla Hirschman, mediante mobilitazione di potenziali e di risorse nascoste nelle pieghe dei tessuti locali. Infine l'approccio più ovvio, quello della programmazione negoziata come politica redistributiva. Un ruolo forte dei vertici associativi e delle linee di scontro/incontro di tipo ideologico ( in una parola il ruolo centrale delle organizzazioni verticali di rappresentanza degli interessi) sembra far coincidere questa dimensione con la stagione istitutiva della programmazione negoziata "al centro"(la fase due nel ciclo ricostruito da questa ricerca). E quindi appare probabile che questa dimensione sia almeno in prospettiva destinata ad essere archiviata, nel momento in cui il ruolo del centro si qualifichi sempre più come stimolazione centrale di una necessaria attivazione locale. Resta da capire quanto di "redistributivo" potrà rimanere a favore dei territori deboli nel ciclo 2000-2006 delle politiche comunitarie; quanto di "redistributivo" - nel senso stavolta di federalismo solidale a favore delle regioni deboli- nel ciclo delle politiche di "federalismo fiscale" regionale a partire dal 2001.

12 Corriere della sera, 25 febbraio 2000.

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5. VERSO L’ALTO: REGIONI E STATO 5.1. La concertazione Regioni - Stato: le pratiche ‘al centro’ Le nuove condizioni istituzionali che definiscono i rapporti tra l’amministrazione centrale dello stato e le regioni, sono state delineate dalla legge collegata alla finanziaria del 1996 (legge n. 662/1996) e successivamente regolamentate dalla delibera Cipe del 21 marzo 1997 nell’ambito della programmazione negoziata. L’istituto dell’Intesa Istituzionale di programma (insieme a quello dell’Accordo di programma quadro che ne rappresenta la specificazione) afferma il livello ‘alto’ della concertazione, volendo ricomprende l’insieme degli istituti della concertazione pubblica entro una logica unitaria. In Europa esiste un’articolazione di esperienze in relazione alla posizione della concertazione interistituzionale rispetto ai rispettivi ordinamenti legislativi. I patti tra lo stato e le amministrazioni locali ‘intermedie’ hanno ad esempio un valore di livello costituzionale in Austria, con effetti preminenti sulle leggi ordinarie; hanno invece un valore puramente amministrativo in Germania, diversamente in Francia (con i Contratti di piano) hanno un significativo potere di obbbligazione reciproca, sebbene in modo subordinato ai vincoli delle leggi di bilancio. In Italia il percorso di maturazione di una logica ‘pattizia’ nella dimensione della cooperazione tra le diverse amministrazioni pubbliche, trova una prima applicazione nell’istituto dell’Accordo di programma comparso in riferimento alla realizzazione di opere ferroviarie (legge 210/1985). Da allora, l’evoluzione della normativa riguardante il livello ‘alto’ della concertazione interistituzionale è rimasta di fatto ancorata al modello dell’Accordo di programma, più volte ritoccato fino alla sanzione definitiva avvenuta nella legislazione sull’ordinamento delle autonomie locali (legge 142/1990). Intesa istituzionale di programma e Accordo di programma quadro La recente introduzione dell’Intesa istituzionale di programma nel quadro degli strumenti della programmazione negoziata (cfr. del. Cipe, 21 marzo 1997) rappresenta un salto di qualità, delineando un istituto finalizzato a: « .....l’ordinaria modalità del rapporto tra Governo nazionale e Giunta di ciascuna Regione e Provincia Autonoma per favorire lo sviluppo in coerenza con la prospettiva di una progressiva trasformazione dello stato in senso federalista » Operativamente, l’Intesa (di valenza triennale) è lo strumento dell’azione congiunta tra Stato e Regioni - l’enfasi è posta sugli organi esecutivi, Governo e Giunta - attraverso il quale viene concordata la “realizzazione di un piano pluriennale di interventi di interesse comune e funzionalmente collegati da realizzarsi nel territorio della singola Regione o Provincia autonoma e nel quadro della programmazione statale e regionale” (del. Cipe, 21 marzo 1997). Il Cipe - Comitato interministeriale per la programmazione economica, sentita la Conferenza Stato-Regioni, adotta le Intese istituzionali di programma con propria deliberazione, su proposta del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.

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Tale definizione ampia, fa sì che l’Intesa istituzionale di programma possa ambire a diventare il quadro di riferimento per tutti gli atti di programmazione negoziata a livello ‘alto’. Assume quindi forma uno stile programmatorio nei rapporti Stato - Regioni che affiancandosi alle forme ordinarie di ripartizione e allocazione delle risorse finanziarie statali, si propone anche come soluzione alternativa alla consueta logica, verticale e segmentata, dei piani di riparto e delle leggi di settore. Appare, dunque, rilevante la prospettiva secondo cui l’Intesa si costituisca progressivamente come modalità principale - se non esclusiva - di regolazione dei flussi di risorse tra i diversi livelli istituzionali. Come ‘snodo’ centrale della filiera verticale e orizzontale delle istituzioni: nei rapporti con lo Stato e l’Unione Europea, così come nei rapporti con il sistema delle autonomie locali. In sostanza, un tavolo unico sul quale negoziare la consistenza e la destinazione del fabbisogno di investimenti locali, opportunamente tradotti in un pacchetto di Accordi di programma quadro relativi alle principali aree/obiettivo della programmazione regionale. Questo pare il ruolo potenzialmente forte delle Intese, nel modello prefigurato di una programmazione negoziata che si misuri con i processi in corso nell’affermazione di una governance multilivello. La pratica delle Intese In via sperimentale, lo strumento dell’Intesa è stato impiegato nel rapporto con le Regioni Umbria e Marche per la programmazione degli interventi di ricostruzione e sviluppo dei territori interessati dalla catastrofe sismica. Sucessivamente, nella Conferenza Stato-Regioni del febbraio 1999 sono stati approvati i primi 4 schemi di Intese con la Lombardia, la Toscana, l’Umbria e la Sardegna. I relativi Accordi di programma quadro, riguardavano:

- per la Lombardia: sanità, beni culturali, trasporti, con particolare riferimento ai collegamenti di servizio all’aereoporto Malpensa; - per la Toscana: sanità e difesa del suolo - per l’Umbria: viabilità, ricostruzione e studi di fattibilità - per la Sardegna: energia, viabilità e formazione.

Oltre alle prime quattro Intese richiamate, al marzo 2000 risultano stipulate le Intese riferite a: Marche, Sicilia, Calabria, Basilicata, Molise, Abruzzo, Puglia, Campania, Lazio, Liguria, Piemonte ed Emilia Romagna. Le ultime quattro sono state approvate nella Conferenza Stato-Regioni dei primi di marzo (cfr. Caprio, 2000) Se quello fotografato è il primo sintetico bilancio nell’impiego di uno strumento che sembra suscettibile di un’importante evoluzione del quadro dei rapporti concertativi tra stato e territori, è importante richiamare che lo strumento dell’Intesa è in stretta relazione con altre pratiche di concertazione ‘al centro’. La pratica delle Conferenze permanenti

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Tali pratiche trovano momenti importanti con la costituzione delle sedi permanenti di confronto e di raccordo tra il Governo e il sistema degli enti territoriali: la Conferenza Stato-Regioni, la Conferenza Stato-Città ed Autonomie locali e la Conferenza Unificata. � Conferenza Stato-Regioni. E’ la prima Conferenza, istituita dalla legge 400/1988.

Inizialmente, essa era chiamata a svolgere quasi esclusivamente ruoli di informazione, consultazione e raccordo in relazione agli indirizzi di politica generale incidenti nelle materie di competenza regionale, esclusi gli indirizzi relativi alla politica estera, alla difesa, alla sicurezza nazionale, alla giustizia. Questo ruolo, in gran parte relegato a semplice sede di confronto tecnico, è stato di recente ampliato nell’ambito delle ‘riforme Bassanini’. Il D.lgs 281/97 stabilisce, tra l’altro, che la Conferenza: - è “obbligatoriamente sentita in ordine a schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento del Governo nelle materie di competenza delle Regioni o delle Province Autonome di Trento e Bolzano e si pronunzia entro 20 giorni...” - disciplina le Intese e gli Accordi tra Governo e Regioni - funge da raccordo sulle normative di attuazione e recepimento delle direttive dell’Unione Europea - sostituisce organismi a composizione mista Stato-Regioni precedentemente istituiti - istituisce la Conferenza Unificata, Stato-Regioni-Città e Autonomie Locali, con esercizio di pareri obbligatori: sulla legge finanziaria, sul DPEF, su schemi di decreti legislativi di attuazione della legge 59/1997 (‘Bassanini 1’).

� Conferenza Stato-Città-Autonomie locali. Istituita nel 1996 (DPCM, 2 luglio

1996) essa è composta per lo Stato: dal presidente del Consiglio, dal ministro dell’Interno e da quello degli Affari regionali, oltre ad altri ministri invitati e ai presidenti delle Regioni; sul fronte delle Autonomie locali: dai presidenti di Anci, Upi e Uncem, da 14 sindaci dei quali 5 rappresentanti le città metropolitane e 6 presidenti di Provincia che sono designati rispettivamente da Anci e Upi. La Conferenza deve in particolare discutere ed esaminare: - i problemi relativi all’ordinamento ed al funzionamento degli enti locali (comprese politiche finanziarie, di bilancio e del personale) - i problemi relativi all’attività di gestione e di erogazione dei servizi pubblici. Deve inoltre: - promuovere l’informazione e le iniziative per il miglioramento del livello di efficienza dei servizi pubblici locali; - promuovere gli accordi o i contratti di programma - promuovere attività relative all’organizzazione di manifestazioni che coinvolgono più comuni o province.

� Conferenza Unificata. Istituita con D.lgs n. 281 / 1997 (su delega della legge n.

59 /1997, ‘Bassanini 1’) per unificare le due Conferenze appena illustrate, per affrontare le materie che riguardano contestualmente l’insieme delle amministrazioni ai diversi livelli. Essa è convocata e presieduta dal presidente del Consiglio o, su sua delega, dal ministro per gli Affari regionali o da quello dell’Interno. Tra le diverse attività di assunzione di deliberazioni e di espressione di pareri, essa:

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- esprime parere sul disegno di legge finanziaria e sui disegni collegati, sul DPEF, sugli schemi di D.lgs adottati in base all’art. 1 della legge n. 59 /1997 - viene consultata sulle linee generali delle politiche del personale pubblico e sui processi di riorganizzazione e mobilità del personale connessi al conferimento di funzioni e compiti alle Regioni e agli Enti locali.

Come si vede, le pratiche che riguardano la concertazione ‘verso l’alto’ tra Regioni e Stato, e tra questi livelli statuali e l’intero sistema delle autonomie locali, hanno trovato una certa articolazione di sedi e di istituti. Nel solo 1999, anche in ragione della forte sollecitazione impressa dal decentramento amministrativo delineato dalle ‘leggi Bassanini’, la Conferenza Stato-Regioni si è riunita 27 volte, quella Stato-Città ed Autonomie Locali 13 volte e la Conferenza Unificata ha svolto 23 incontri. In attesa che tale sperimentazione delle Conferenze possa trovare sbocchi costituzionali più stabili, ad esempio dando vita ad una riforma del sistema parlamentare con l’introduzione di una Camera delle Regioni e delle Autonomie, si assiste in questi mesi ad una loro declinazione nell’ambito delle diverse Regioni, impegnate a rimodellare il sistema della rapresentanza territoriale e del decentramento di funzioni in ordine ai diversi decreti legislativi successivi alla legge 15 marzo 1997 n. 59 (‘Bassanini 1’). Il recepimento del D.lgs. 112/1998 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato a Regioni ed Enti Locali) ha visto un’ulteriore spinta alla sperimentazione di una molteplicità di organismi stabili di rappresentanza e raccordo tra le diverse Regioni in relazione al proprio sistema delle Autonomie Locali e funzionali 13. Questo quadro in movimento indica una decisa articolazione dei livelli (ma anche delle forme e degli istituti concreti) della concertazione territoriale. La centralità che va assumendo lo strumento delle Intese istituzionali di programma tra stato e regioni, insieme all’azione sempre più intensa delle Conferenze, sottolinea quanto la costituzione materiale dei rapporti tra territori e istituzioni stia evolvendo con grande rapidità, verificando in concreto la stessa capacità di risposta e di azione delle diverse amministrazioni. Il recupero di un ruolo regionale Come abbiamo potuto evidenziare presentando l’istituzionalizzarsi della programmazione negoziata e delle prime esperienze nei territori, per alcuni anni gli strumenti a disposizione dello sviluppo locale (in primo luogo, i patti territoriali) sono stati impiegati in un rapporto diretto tra i sistemi locali (province, gruppi di comuni, comunità montane, camere di commercio...) e l’amministrazione centrale dello stato, a sua volta sollecitata a riorganizzarsi con la costituzione del nuovo Dipartimento presso il Ministero del bilancio e tesoro, per rispondere al proliferare di domande da parte dei territori ‘periferici’. Questo rapporto diretto tra il ‘centro’ e i sistemi locali ‘periferici’ ha certamente rappresentato una complicazione. Se, infatti, nella grande nebulosa di ‘domande’ territoriali che hanno trovato sponda nello strumento del ‘patto’ è possibile individuare un tratto comune, esso sembra proprio risiedere nel passaggio obbligato verso il ‘centro’. In 13 Diversamente dalla Lombardia, che ha per ora praticato soltanto un Tavolo di concertazione delle Autonomie locali quale sede di confronto al massimo livello con i rappresentanti degli enti locali, il modello delle Conferenze permanenti ha avuto già un’ampia sperimentazioni in diverse regioni italiane. Per una panoramica si veda il sito www.regioni.it.

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quel sovraccarico di richieste di riconoscimento rivolte dai sistemi locali verso le istanze centrali dell’amministrazione dello stato, che - come abbiamo evidenziato - hanno progressivamente monopolizzato la scena. Le più disparate situazioni territoriali e le coalizioni locali di interessi di volta in volta emerse con gradi disomogenei di coesione e di progettualità innovativa, si sono rivolte direttamente al ‘centro’, in un gioco confuso di domande e pressioni che rivela modalità ancora incerte di autocostruzione della rappresentanza degli interessi su base locale. Probabilmente, il prezzo di questo dialogo fuorviante tra ‘centro’ e ‘periferie’ era per molti versi inevitabile, in un Paese giunto solo negli anni ’70 a dar vita alle regioni (istituzioni rimaste sostanzialmente inadeguate), e in attesa - per altri vent’anni - del pieno riconoscimento dell’autonomia statutaria degli enti locali territoriali. Tuttavia, anche questa fase di mobilitazione sconnessa degli interessi su base territoriale sembra aver contribuito a evidenziare il profilo altamente contraddittorio e conflittuale del campo dello sviluppo locale, producendo alcuni importanti effetti di apprendimento selettivo dei diversi soggetti (‘istituzionali’, ma anche sociali) motivati - ora - a un riposizionamento strategico. Un recupero di ruolo da parte della dimensione politica e istituzionale delle Regioni sembra, oggi, all’ordine del giorno. E la stessa architettura di governace prefigurata dagli strumenti della programmazione negoziata e dalla loro concreta sperimentazione sembra richiedere un pieno coinvolgimento di ogni attore istituzionale, in un gioco di cooperazione e insieme di conflitti, in grado di qualificare i diversi profili progettuali e le diverse capacità operative. 5.2. L’esperienza lombarda e l’Intesa istituzionale di programma Abbiamo detto quanto, negli ultimi anni, le Regioni siano state sostanzialmente estranee sia alle dinamiche proprie della concertazione territoriale (patti e strumenti dello sviluppo locale), sia agli accordi e ai patti siglati a scala nazionale tra Governo e parti sociali. Proprio la definizione delle Intese istituzionali di programma con il Governo è divenuta, così, l’occasione per un recupero di ruolo regionale nella definizione in corso dell’intera architettura della programmazione negoziata. L’esperienza Lombarda conferma questo ritardo, ma soprattutto sembra indicare una certa diffidenza della Regione a riconoscere e rendere stabile la rappresentanza dei territori e il ruolo del sistema delle autonomie sociali e istituzionali nei processi di governo. Anche nel caso lombardo, tuttavia, non mancano segnali d’azione e iniziativa regionale di qualche rilievo: • fin dal 1998 viene istituito un tavolo di intesa Regione-Enti locali, composto da

rappresentanti della Regione (Presidente e vicepresidente della Giunta regionale e tre consiglieri), e degli Enti Locali (Presidente delle Province, Sindaci dei capoluoghi, tre rappresentanti dell’Anci e dell’Uncem);

• nel gennaio 1998, la Regione istituisce un apposito Tavolo di concertazione con le

autonomie locali per rilanciare - attraverso intese politico-amministrative - il rapporto tra Regione e gli altri livelli di governo locale (il tavolo si è riunito una decina di volte

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per esaminare ed esprimre pareri sui disegni di legge regionale attuativi dei decreti legislativi ‘Bassanini’);

• il 19 maggio 1998 viene siglato il Patto per lo sviluppo dell’economia e del lavoro in

Lombardia nel quale la Regione, le parti sociali e una pluralità di ‘corpi intermedi’ sottoscrivono un documento che delinea un quadro delle scelte strategiche e delle priorità condivise per lo sviluppo civile e produttivo della Lombardia (il Patto è approvato con Deliberazione di Giunta n. VI/36838 del 12 giugno 1998). Il documento si articola in sette capitoli, riguardanti: - Finalità e gestione del Patto per lo sviluppo - La riforma del livello di governo regionale - Programmazione regionale, programmazione negoziata, utilizzo fondi comunitari - Orientamenti per lo sviluppo del sistema regionale - Sviluppo economico, crescita e competitività dell’economia lombarda - Valorizzazione delle risorse umane - politiche della formazione e del lavoro - Linee guida per uno sviluppo sostenibile: infrastrutture, ambiente e territorio (cfr. Regione Lombardia, 1998)

• la sigla del Patto delinea e sostanzia sia il ruolo di quegli Stati Generali prefigurati da

un primo incontro del 23 luglio del 1997, e da successivi tre incontri (del 19/05/1998 con la sigla dello stesso Patto; del 16/06/1999 e del 7/02/2000 con la presentazione di un resoconto complessivo delle attività), sia il ruolo del Tavolo di Segreteria del Patto per lo Sviluppo. Tale Tavolo, è chiamato a supportare sotto il profilo tecnico le attività degli Stati Generali, mediante la realizzazione dell’istruttoria e dell’approfondimento dei temi all’ordine del giorno rapportandosi alle attività dei singoli Assessorati interessati. E’ coordinato dalla Direzione Generale Presidenza ed è composto da rappresentanti designati dai livelli regionali delle principali associazioni imprenditoriali e sindacali lombarde. Tra le attività del tavolo: - attuazione dei Decreti legislativi per il trasferimento di competenze dallo Stato alla Regione - il percorso che ha portato alla sigla dell’Intesa istituzionale di programma con il Governo nazionale, e i relativi Accordi di programma quadro - adempimenti relativi alla nuova programmazione dei Fondi comunitari e il confronto successivo - iniziative e provvedimenti specifici, come quelli relativi al commercio e alla sicurezza (cfr. Regione Lombardia - Direzione Generale Presidenza, 2000)

Come si evince dal quadro di iniziative sinteticamente richiamato, l’attivismo regionale viene giocato prevalentemente ‘in autonomia’, coerentemente al profilo dinamico di un Presidente uscente (Roberto Formigoni) che in questo tratto sembra anticipare quella centralità istituzionale della sua carica così come sancita dalla nuova legge elettorale, attraverso l’elezione diretta. La “nuova legislatura - afferma Formigoni - sarà presidenzialista, e questo certamente potrà dare nuovo impulso allo stesso metodo di concertazione e di programmazione comune che abbiamo già avviato in questi anni” (Formigoni, 2000). Se si pone attenzione all’intenso lavoro svolto dal tavolo di Segreteria del Patto per lo sviluppo, dal febbraio 1998 al febbraio 2000 (Tab. 1), è possibile ricavare qualche

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elemento di valutazione in più, oltre a quello relativo alla partecipazione delle diverse componenti.

Numero incontri

presenze media esponenti giunta

presenza media dirigenti regionali

presenza media soggetti esterni

27

0,4

6,5

22,2

Tab. 1 Per quanto riguarda le tematiche affrontate nei vari OdG - ordini del giorno (Tab 2), ad esempio, è possibile osservare che nelle numerose sedute, la netta prevalenza dei temi trattati si riferisce al recepimento delle riforme ‘Bassanini’ (21 punti) e al confronto per la programmazione dei fondi strutturali europei (10 punti). Due temi fondamentali ma, se volete, ‘esogeni’ rispetto al lavoro del Tavolo lombardo, definiti da un’agenda esterna a quella propria della Regione Lombardia. Temi, tra l’altro sui quali la Regione Lombardia sceglie di mantenere alta la dialettica conflittuale con il Governo nazionale. Totale punti all’OdG trattati nelle 27 sedute

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- recepimento dei provedimenti ‘Bassanini’ 21 - Unione Europea (programmazione fondi strutturali) 10 - amministrazione centrale (Intese e Accordi) 8 - Dpefr - manovre di bilancio regionale 7 - Patto per lo Sviluppo 5 - Programmazione negoziata territoriale 1 - Varie 19

Tab 2 Per quanto riguarda i temi al centro del nostro rapporto, risulta evidente l’attenzione posta alle nuove dinamiche del rapporto tra Regione e amministrazione centrale dello stato, attraverso la lunga fase di prefigurazione e successiva definizione dell’Intesa e dei suoi Accordi di programma quadro (8 punti specifici, ma alcuni dei 19 punti catalogati come ‘Varie’ sembrano riferirsi ad approfondimenti tematici relativi ai diversi Accordi di programma quadro dell’Intesa). La programmazione negoziata territoriale trova, invece, poca attenzione; a testimonianza di quanto, il modello complessivo della programmazione negoziata abbia ancora bisogno di una messa a regime ‘verso il basso’, in grado non solo di dare pieno riconoscimento all’insieme dei soggetti territoriali operanti, ma di prefigurare un modello di funzionamento di questi luoghi permanenti della rappresentanza (accenneremo tra poco alla Conferenza delle autonomie, definita dalla l.r. 1 /2000) in grado di anticipare e istruire un’agenda di politiche regionali e non solo di reagire alle sollecitazioni provenienti dall’esterno. L’Intesa istituzionale di programma del marzo 1999 Come accennavamo, le iniziative ora richiamate, in specie la sigla del Patto per lo sviluppo, vengono primariamente giocate dalla Presidenza regionale nella dialettica con il

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Governo nazionale. Una dialettica conflittuale permanente che ha caratterizzato l’intero arco della legislatura, nella quale anche la sigla del Patto è stata esibita a dimostrazione di una Lombardia “unita nei confronti del Governo, anche in vista della stesura della Intesa istituzionale di programma fra Stato e Regione”, con l’intenzione “che anche in questa sede il Governo sappia che sta trattando con una Regione che esprime progettualità condivise da tutti i pricipali attori del sistema economico e del lavoro” (cfr. Presentazione, in Regione Lombardia, 1998). • Il 3 marzo 1999 viene sottoscritta l’Intesa istituzionale di programma tra la Regione

Lombardia e il Governo nazionale dopo più di un anno di intenso confronto con il Ministero del tesoro, bilancio e programazione economica. Da parte regionale, questa occasione viene assunta come “importante opportunità attuativa del PRS - Programma Regionale di Sviluppo della VI legislatura;

L’investimento finanziario complessivamente previsto è di 10.400 milardi, di cui 7.794 già contrattualizzati attraverso la sottoscrizione di specifici Accordi di programma quadro, che attuano l’Intesa in materia di: • sanità: sono previsti 65 interventi dei quali 7 relativi a edilizia ospedaliera e 58

relativi a RSA. I tempi previsti sono di 76 mesi per le strutture ospedaliere e di 48 mesi per le RSA. Costi complessivi della prima fase dell’Accordo e di 1.392,149 miliardi, di cui 1.124,131 mld per l’edilizia sanitaria e 268,018 mld per le RSA;

• trasporti: sono previsti 25 interventi ferroviari e 7 interventi stradali. Gli interventi previsiti riguardano sia la realizzazione di opere, sia la progettazione a vari stadi di avanzamento (cui seguirà la relativa realizzazione); è previsto il completamento dell’intero programma in un periodo non inferiore ai 7-8 anni. Costi complessivi previsti: 5,370,044 mld (Lit. 1.500,000 accessibilità stradale e Lit. 3.870,044 per quella ferroviaria);

• beni culturali: sono previsti 16 interventi e relativa implementazione del programma, per un costo complessivo di Lit. 174,008 mld.

• ambiente ed energia, interventi di risanamento e salvaguardia del territorio: gli interventi sviluppano due assi: 1) la produzione di energia con riduzione delle emissioni climaalteranti (impianti alimentati da biomasse legnose, distribuzione dell’energia tramite reti di teleriscaldamento); 2) il risanamento e la riqualificazione dell’ambiente. Costo complessivo 823,135 mld di cui: 666,000 mld per la produzione di energia; 5,500 mld per il monitoraggio della qualità dell’aria; 48,520 mld per gli interventi straordinari per i parchi regionali; 7,950 mld per il ripristino ambientale nelle aree protette; 3,000 mld per il monitoraggio e la prevenzione del rumore aereoportuale; 92,165 mld per la bonifica dei siti inquinati; 9,000 mld per la ricerca, la produzione e l’utilizzo di nuovi combustibili.

Oltre ai quattro Accordi di programma quadro richiamati, al 7 febbraio 2000 risultano in corso di sottoscrizione, gli Accordi in materia di:

• trasporti, riqualificazione e potenziamento del sistema autostradale e della grande viabilità: di tipo prevalentemente ‘procedimentale’, per definire il quadro generale delle necessità di riqualificazione e di potenziamento del sistema autostradale nonchè della grande viabilità della regione. Gli interventi prioritari individuati sono riconducibili al sistema tangenziali e ai collegamenti autostradali delle (e tra) le principali città lombarde, il completamento del sistema della grande viabilità;

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• trasporti, sistema dell’intermodalità e della logistica: finalizzato a definire il quadro generale delle necessità di adeguamento e potenziamento della rete di impianti per l’interscambio modale delle merci in Lombardia. Gli interventi prioritari, per un costo complessivo di 1200,7 mld, riguardano: impianti di interscambio merci (994,7 mld per interporti, terminal intermodali, poli logistici raccordati, scali merci specializzati); 122 mld per gli interventi riguardanti linee e nodi ferroviari; 84 mld per opere di accessibilità e mitigazione impatti locali;

• delocalizzazione degli insediamenti residenziali adiacenti il sedime dell’Aereoporto intercontinentale di Malpensa 2000: finalizzato alla risoluzione dei problemi causati dal’inquinamento acustico ed atmosferico, indotti dall’attività del traffico di Malpensa, agli attuali insediamenti residenziali adiacenti al sedime aereoportuale, con riguardo particolare ai territori dei comuni di Somma Lombardo, Lonate Pozzolo e Ferno (per un costo totale di 340 mld da impiegare in interventi che vanno dalla mitigazione ambientale per l’insonorizzazione, alla delocalizzazione di alcuni nuclei residenziali).

Infine, altri quattro Accordi di programma quadro risultano in corso di istruttoria, in materia di:

• trasporti, sistema relazionale della Valtellina: finalizzato al completamento degli interventi previsti e solo parzialmente realizzati in attuazione dell’art. 5 della legge 2 maggio 1990 n. 102 e del ‘Piano di ricostruzione e sviluppo della Valtellina e delle adiacenti zone delle province di Bergamo, Brescia e Como’ approvato dalla Regione Lombardia in data 19 marzo 1992 e successivamente approvato con DCPM del 4 dicembre 1992. Tra gli interventi: infrastrutture dei centri urbani, sistemi di accesso, viabilità e trasporto con priorità al sistema ferroviario; la riattivazione e il sostegno delle attività produttive e la distribuzione articolata dei servizi sociali;

• ricerca e innovazione tecnologica: riguardante un quadro di azioni comuni tra Regione e Murst in materia di R&S, con il coinvolgimento di enti locali e degli atenei lombardi. L’attenzione sarà posta sul tema delle tecnologie informatiche, della telecomunicazione e del commercio elettronico; dell’automazione industriale (meccatronica) e delle biotecnologie.

Se l’Intesa istituzionale di programma, con il suo pacchetto di Accordi quadro, mostra il concreto evolversi dei rapporti tra la Regione e l’amministrazione centrale, essa richiama anche la necessità che attori centrali e Regioni accettino pienamente la sfida, adeguandosi progressivamente ad un modello che prefigura la gestione unitaria e condivisa dell’insieme delle risorse ordinarie (e non più il ricorso a risorse aggiuntive e straordinarie). Una sfida per il ‘centro’, a riformare le modalità di costruzione del bilancio (attraverso un esercizio regionalizzato) e a riformare le strutture organizzative e operative dei suoi ministeri; ma, anche, una sfida per le Regioni ad appropriarsi della programmazione negoziata come metodo di relazione sistematica verso lo stato e verso i territori, costruendo in modo territorializzato i propri strumenti di programmazione finanziaria e di programmazione dello sviluppo. Il vero salto di qualità sembra giocarsi proprio nelle forme e nelle modalità di riconoscimento dell’articolazione sociale e territoriale regionale, in un confronto da affrontare aggiornando analisi e valutazioni tecniche, insieme agli strumenti operativi di governo.

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Da questa prospettiva, sembra ancora sussistere una debolezza di sensibilità e strategie; e la cooperazione interistuzionale giocata dalla Regione a tutti i livelli (verso lo stato, ma ancor più verso le società locali) sembra mancare di adeguate ‘infrastrutture istituzionali’ di accompagnamento, ma anche di una particolare attenzione alla strumentazione di sostegno. 5.3. Regione e territori, tra autonomia e centralismo Fin dalla stesura del PRS - Programma regionale di sviluppo della VI legislatura 1995-2000, l’obiettivo di riattivare il ruolo programmatorio regionale sembra sostanziarsi in una stile definito di “programmazione strategica per progetti” (cfr. Regione Lombardia, 1996). Non abbiamo qui modo di discutere l’approccio avanzato e i risultati conseguiti nel corso della legislatura, ma vogliamo sottolineare quanto la retorica che accompagna la stesura del Programma mostri una particolare attenzione verso una “logica progettuale e innovativa” imperniata - tra l’altro - sulla concertazione, la contrattazione e l’integrazione 14, in grado di garantire il coordinamento interistituzionale “anche attraverso il metodo della contrattazione libera e paritaria tra soggetti diversi, mediante protocolli d’accordo e accordi di programma” (cfr. Regione Lombardia, 1996) Certamente, dal 1996 ad oggi le pratiche di coordinamento interistituzionale e di programmazione concertata si sono notevolmente arricchite di esperienze e di nuovi istituti, ma l’atteggiamento lombardo non sembra aver del tutto colto l’occasione per una più marcata affermazione ‘territoriale’ delle proprie linee di sviluppo. Nel rendicontare l’insieme degli Accordi di programma quadro, nell’ambito degli strumenti di programmazione negoziata (cfr. Regione Lombardia - Direzione Generale Presidenza, 2000b), la consapevolezza del tragitto ancora da compiere sembra emergere in diversi momenti. Nel documento, si fa riferimento ad uno scenario in mutamento nel quale la Lombardia intende rafforzare alcuni orientamenti tra i quali - significativamente - l’estensione e l’articolazione della programmazione negoziata nel territorio come “fattore complementare di sussidiarietà, decentramento e federalismo” (cfr. Regione Lombardia - Direzione Generale Presidenza, 2000b). D’altronde, proprio il rapporto con le dinamiche e le progettualità dei territori sembra essere l’anello mancante nell’intera impalcatura della programmazione negoziata lombarda. Sebbene nel Dpefr - Documento di programmazione economico-finanziaria regionale dell’ottobre 1998, si affermi che il partenariato pubblico-privato “bene di adatta con la programmazione strategica adottata dalla Regione Lombardia con il PRS, la cui flessibilità e attenzione nei confronti della progettualità che viene ‘dal basso’ consente di 14 “Mentre gli obiettivi strategici dei progetti nascono dalle istanze politiche della Regione i programmi di intervento e le singole attività previste dai progetti strategici sono il momento in cui realizzare la programmazione integrata con gli altri soggetti istituzionali previsti dalla 142/90 - Province, Comuni e Comunità montane - e con gli attori socio-economici interessati” (cfr. “Il ruolo e le caratteristiche della programmazione regionale”, in Regione Lombardia, 1996).

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valorizzare le iniziative dei diversi attori dello sviluppo locale” (Regione Lombardia - Dpefr, 1998), il riconoscimento dei territori e delle diverse politiche di sviluppo in fase di definizione non ha ancora trovato sedi stabili di confronto, verifica e monitoraggio. Tale urgenza di dar rilievo al “rapporto tra confronto generale e dimensione territoriale” viene ribadita negli allegati al Dpefr - Documento di programmazione economico-finanziaria regionale del 1999. Annunciando che questa “evoluzione rende attuale il problema di una articolazione territoriale del patto per lo sviluppo anche in relazione all’esperienza in corso delle cosiddette Giunte in Provincia’” (Regione Lombardia - Dpefr 1999). Un’iniziativa quest’ultima, dal carattere spiccatamente dimostrativo e simbolico che ha visto la Giunta Lombarda impegnata, tra la primavera e l’autunno del 1999, in incontri decentrati nelle diverse realtà provinciali 15. Un riconoscimento della necessità di istituzionalizzare sedi di confronto proprie tra Regione e sistema delle autonomie locali e funzionali, prefigurando, inoltre, una specifica declinazione lombarda degli strumenti della programmazione negoziata territoriale, avviene - in ultimo - con l’approvazione della legge 5 gennaio 2000, n. 1 Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs 31 marzo 1998, n. 112 (conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59). Nella nuova legge trovano spazio, da un lato, la costituzione di una “Conferenza regionale delle autonomie quale sede permenente di partecipazione degli enti locali della comunità lombarda alla definizione delle politiche regionali” (art. 1, c. 16); dall’altro, la definizione di nuovi strumenti di programmazione negoziata dello sviluppo locale (art. 2, c. 68). La Conferenza regionale delle autonomie esprimerà pareri obbligatori ai competenti organi regionali, in merito a: modifiche dello Statuto regionale, bilancio di previsione e legge finanziaria regionale; progetti di legge in materia di ordinamento e di funzioni in materia territoriale, e in materia di ripartizione delle risorse e dei trasferimenti regionali; proposte riguardanti intese istituzionali di programma e accordi di programma quadro tra Regione e Governo. Esprimerà, inoltre, parere sulle politiche regionali di programmazione e sviluppo economico e sui provvedimenti regionali di trasferimento e delega disposti con legge 59/1997. Ma, anche, parere sul Dpefr adottato dalla Giunta e sugli accordi di programma tra la Regione e le autonomie locali e funzionali (art. 1, cc. 19 e 20). Per quanto riguarda la declinazione lombarda degli strumenti di programmazione negoziata per lo sviluppo locale, la legge 1/2000 prevede l’introduzione di due specifici strumenti, “per creare e favorire nelle diverse aree territoriali le condizioni funzionali alla crescita economica ed occupazionale” (art. 2, c. 67), quali: • il contratto di sviluppo, inteso come “accordo tra Regione, enti locali, associazioni

imprenditoriali e sindacali, altri soggetti pubblici e privati interessati alla realizzazione di programmi finalizzati allo sviluppo delle attività produttive e alla creazione di nuova occupazione per la realizzazione di progetti di investimento che accrescano il patrimonio produttivo dell’area interessata per l’elevato contenuto tecnologico o per la

15 Gli incontri prevedevano, solitamente, tre diversi momenti: nella mattinata, il confronto con gli amministratori provinciali, i sindaci, gli amministratori di comunità montane e di consorzi; nel pomeriggio, un incontro con le parti sociali e le camere di commercio; in serata, un confronto tra il Presidente e alcuni testimoni eccellenti, trasmesso dalle televisioni locali.

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qualificazione infrastrutturale e per il conseguente significativo incremento occupazionale” (art. 2, c. 69) 16;

• il contratto di recupero produttivo, inteso come “ accordo tra Regione, enti locali e funzionali, imprese, singole o associate, rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro ed altri soggetti pubblici o privati, per la realizzazione di progetti di recupero produttivo di rilevante impatto sociale nell’ambito regionale, in relazione al numero di lavoratori coinvolti” (art. 2, c. 70) 17.

Una regionalizzazione incerta Questi sono alcuni dei contenuti rilevanti del recente provvedimento di legge lombardo di recepimento del D.lgs. 112. Ma è utile richiamare che la Regione Lombardia non è la sola regione a muoversi. Abbiamo accennato alla sperimentazione già in corso in alcune regioni di luoghi e momenti specifici di confronto permanente con il sistema delle autonomie; ma è opportuno aggiungere che, talvolta, si è sperimentata anche una declinazione regionale degli strumenti di programmazione negoziata territoriale. In una recente rassegna curata dall’Ufficio Programmazione e Sviluppo della Regione Lombardia (cfr. Forti, 1999) si compie un’interessante ricognizione della situazione per quanto riguarda le regioni del Centro-nord e le due Province autonome di Trento e Bolzano. I programmi speciali d’area dell’Emilia Romagna (L.r. 19 agosto, n. 30), i programmi locali di sviluppo della Toscana (L.r. 11 agosto 1999, n. 49), piuttosto che l’attenzione portata al sostegno dei patti territoriali in altre situazioni come: il Veneto (L.r. 6 aprile 1999, n. 13), la Provincia di Trento o il Lazio (L.r. 18 maggio 1998, n. 14); mostrano un’articolazione di politiche sulle quali sembrerebbe opportuno avanzare qualche bilancio in termini operativi. Proprio, l’articolazione di politiche e scelte a livello regionale diviene, infatti, il campo privilegiato per valutare e accompagnare l’incerto processo di regionalizzazione delle politiche di sviluppo locale. Come abbiamo avuto modo di sintetizzare nel capitolo 1, il ciclo che riguarda le politiche di sviluppo locale e - in esso - la dinamica dei rapporti tra i livelli di governo centrali e territoriali, sembra maturare in direzione di un decentramento regionale che avvicini i sistemi locali e i centri di allocazione delle risorse e di concertazione delle scelte di sviluppo. Pur tra varie difficoltà 18, sembra essere questa l’intenzione che spinge il DPS del Ministero del tesoro ad una messa a regime dell’esperienza dei ‘patti’ (e più in generale della programmazione negoziata), attraverso quella che Fabrizio Barca ha definito una

16 Il contratto di sviluppo può essere promosso dalla Regione, da enti locali e funzionali, da altri soggetti pubblici o società di intervento a partecipazione pubblica; da soggetti privati (art. 2, c. 69) 17 Il contratto di recupero produttivo può essere promosso dalle rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro, d’intesa con i rappresentanti delle amministrazioni comunali interessate. Esso può essere attivato nelle “aree colpite da eventi di dismissione totale o parziale di unità produttive” e in caso di “realizzazione di progetti di investimento che generino una pluralità di nuove iniziative imprenditoriali con immediato effetto di riassorbimento occupazionale” (art. 2, c. 70). 18 All’interno della Conferenza Stato - Regioni è aperto un confronto non semplice tra Ministero del bilnacio, tesoro e programmazione economica e amministrazioni regionali attorno al profilo complessivo del decentramento della partita della programmazione negoziata.

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nuova architettura di governance (Barca, 1999). Infatti, l’articolazione dei conflitti alimentati proprio dalle vicende degli ultimi anni ha convinto il Governo e il DPS a muoversi verso una piena investitura delle regioni. Un passo ulteriore verso il decentramento regionale già in corso con le ‘leggi Bassanini’, motivato ulteriormente dalla necessità di ridefinire le relazioni centro/periferia nella allocazione delle risorse a sostegno dello sviluppo locale. All’ordine del giorno è ora una diversa ripartizione delle responsabilità, secondo la quale alle province e ai comuni spetterebbero la definizione dei progetti integrati (individuazione e attuazione), mentre alle regioni, attraverso una finanza certa e la ripartizione delle risorse dell’Unione Europea a medio lungo termine (2000/2006), verrebbe attribuito un compito di ‘allocazione competitiva’ verso i sistemi locali. In questo ridisegno della politica economica a livello territoriale, dove alle regioni potrebbe passare il 90 % circa delle risorse, il sistema della valutazione rimane per il momento al ‘centro’, con un ruolo del dipartimento del Ministero del tesoro sia sul fronte dei metodi valutativi ex ante, sia per quanto riguarda l’assistenza tecnica e il successivo monitoraggio delle diverse esperienze. Far crescere e rafforzare un processo di valutazione efficiente ‘al centro’, viene considerato il passo necessario anche per ogni futura articolazione di unità a livello regionale, definendo un vero e proprio sistema di valutazione. Anche le attuali difficoltà a praticare efficaci politiche di programmazione economica territorializzata sembrano derivare proprio dalle tensioni interne ai processi neoregionalisti richiamati, e più in generale all’evoluzione del problema regionale (cfr. Dipartimento degli Affari Regionali, 2000). Da questo punto di vista, le debolezze evidenziate sembrano rimandare all’incerta cultura regionalista che condiziona le mosse di tutti gli attori in campo, quelli ‘centrali’, ma anche il mondo delle autonomie locali e sociali nei territori e gli stessi operatori regionali. Ogni innovazione dell’agire politico-amministrativo nella dimensione territoriale dovrà misurarsi con una cultura regionale ancora incerta e per molti versi in ritardo.

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6. VERSO IL BASSO: REGIONE E SISTEMI LOCALI 6.1 Le esperienze di concertazione territoriale: le condizioni istituzionali e la geografia Le esperienze di concertazione territoriale “dal basso”, nel contesto lombardo, rappresentano un campione interessante dell’articolazione di attori, strategie, risorse e strumenti d’azione che si compongono nelle pratiche concrete di costruzione di coalizioni locali di sviluppo e di azioni di promozione e sostegno dei contesti locali. Nel panorama lombardo, infatti, possono essere ascritte al campo delle politiche di sviluppo del territorio, costruite attraverso forme di cooperazione locale multiattoriale, non solamente le sperimentazioni relative all’attivazione degli strumenti previsti dalla legislazione nazionale e generalmente indicati come strumenti della programmazione negoziata (patti territoriali e contratti d’area, ma anche accordi di programma), ma più generalmente le azioni concertate a scala territoriale e orientate a promuovere lo sviluppo locale, da un lato favorendo e sostenendo prioritariamente le condizioni ambientali e contestuali dello sviluppo; dall’altro lato valorizzando il ruolo delle diverse istituzioni e degli attori sociali come protagonisti della progettazione e dell’implementazione di azioni e politiche. Un quadro (per quanto non esaustivo) delle esperienze di concertazione territoriale in corso il Lombardia non può dunque accontentarsi di indagare empiricamente le esperienze di programmazione negoziata attivate attraverso il ricorso ai patti territoriali o ad altri strumenti istituzionalizzati; deve considerare anche iniziative promosse da attori pubblici e privati che, pur non avvalendosi delle procedure formali previste dalla legislazione, si propongono esplicitamente di attivare strategie cooperative di programmazione dello sviluppo in contesti specifici, anche attraverso l’azione di soggetti costruiti “su missione” (agenzie e società di sviluppo). Per fornire un quadro coerente delle esperienze è necessario discutere alcune tra le condizioni contestuali che hanno portato alla attivazione delle azioni di concertazione che verranno successivamente considerate. Queste condizioni attengono al frame istituzionale delle politiche di sviluppo locale nel contesto lombardo, frame che in molti casi ha delineato le precondizioni per l’attivazione di esperienze di concertazione territoriale: ��Le politiche europee e la programmazione 1994-1999: aree Ob. 2 e 5b

Ai sensi della programmazione dei Fondi strutturali per il periodo 1994-1999 in Lombardia sono state riconosciute e perimetrate alcune aree che ricadevano nelle condizioni delle regioni Obiettivo 2 (riconversione di regioni, regioni frontaliere o parti di regioni colpite dal declino industriale) e Obiettivo 5b (promozione dello sviluppo rurale attraverso l’agevolazione dello sviluppo e l’adeguamento strutturale di zone rurali). Queste aree, relativamente limitate (cfr. Tavola 1) e localizzate con qualche eccezione (per esempio: l’area del Sempione, unica riconosciuta come zona Ob. 2) in zone marginali e periferiche della regione, hanno tuttavia rappresentato un forte canale di finanziamento, stimolando l’attivazione dei diversi contesti locali per la costruzione di programmi strategici integrati di sviluppo territoriale. Oltre alla programmazione dei Fondi europei, un forte elemento di “strutturazione” di alcuni contesti locali è stato fornito dalla possibilità di accesso ai finanziamenti

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previsti da alcuni programmi comunitari specifici, in particolare di sostegno alla riconversione di alcuni settori industriali (Resider per la siderurgia, che ha coinvolto i bacini di Sesto San Giovanni e della Valtrompia; Konver per l’industria bellica; Retex per il settore tessile), che hanno garantito l’accesso a risorse significative anche per territori esterni alle aree Ob. 2 e 5b. Attualmente è in corso di definizione il quadro della programmazione 2000-2006 (Unione Europea, 1999), e in particolare non è ancora stata definita a livello nazionale, e dunque anche per la Lombardia, la perimetrazione delle aree del nuovo Obiettivo 2, che comprende le aree di riconversione (ex Ob. 2 e 5b). Sarà fondamentale verificare se saranno confermate tutte le aree precedentemente considerate dai due obiettivi comunitari, e quale sarà il volume di risorse disponibile per i territori selezionati;

��Le aree di crisi industriale ex lege 236/1993.

Un altro forte incentivo alla strutturazione di progetti territoriali e alla definizione di pratiche di concertazione territoriale è stato fornito dalla Legge 236/1993, che ha convertito in legge il decreto 20 maggio 1993, recante interventi urgenti a sostegno dell’occupazione. Sulla base della legge il decreto 14 marzo 1995 ha identificato le aree che, presentando un rilevante squilibrio locale tra domanda e offerta di lavoro, hanno potuto usufruire delle risorse del Fondo per lo sviluppo istituito con la legge 236 per l’attivazione di misure straordinarie di politica attiva del lavoro intese a sostenere i livelli occupazionali e a consentire la realizzazione di nuovi programmi di reindustrializzazione, di interventi per la creazione di nuove iniziative produttive e di riconversione dell’apparato produttivo esistente. Per la Lombardia queste zone (cfr. tavola 2) sono limitate esclusivamente all’area territoriale Sebino-Valcamonica-Valcavallina (nella quale è stata avviata la procedura per un patto territoriale), all’area di riferimento della sezione circoscrizionale per l’impiego di Crema (che ha attivato le procedure per un contratto d’area), all’area territoriale dell’asse del Sempione (coincidente con l’area definita dall’Ob. 2) e dell’area di riferimento della sezione circoscrizionale per l’impiego di Sesto San Giovanni (che ha avviato su iniziativa dell’Agenzia Sviluppo Nord Milano una attività di sviluppo, reindustrializzazione e pianificazione strategica);

��L’azione di promozione territoriale degli enti locali

In alcune provincie lombarde, soprattutto su iniziativa di Amministrazioni provinciali che hanno trovato nelle politiche di sviluppo e sostegno dei sistemi produttivi locali un terreno importante di azione e un ambito di riconoscibilità del loro ruolo, sono stati avviati programmi complessi che a partire da una valutazione del mutato quadro dei caratteri e delle forme dello sviluppo economico-produttivo nei diversi territori della regione, hanno messo a fuoco politiche volte a costruire condizioni migliori per gli attori economici (a partire dai lavoratori e dalle imprese), oltre che per i sistemi territoriale nel loro insieme, avanzando proposte e sviluppando azioni sui terreni, distinti ma fortemente intrecciati, delle politiche attive del lavoro, delle iniziative per il rafforzamento della competitività e dell’innovatività delle imprese e dei sistemi produttivi locali, della formazione professionale. Queste attività degli Enti locali e soprattutto delle Provincie hanno trovato linfa vitale nel percorso di innovazione amministrativa e di ridefinizione delle competenze degli Enti locali avviato con le leggi e i decreti Bassanini e solo parzialmente recepito dalla nuova L.R. 1/2000. Il caso forse più articolato è quello dell’azione svolta dalla Provincia di Milano, e in particolare dall’Assessorato all’Economia, Lavoro e Formazione professionale,

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durante la legislatura 19951999 (cfr. Provincia di Milano, 1998). Tale azione si è concretizzata nella costruzione di relazione molto strette con altri partner istituzionali e con le parti sociali e nell’integrazione tra progetti rivolti alle imprese (attivazione del programma comunitario RITTS per la diffusione dell’innovazione, sostegno all’attivazione dello Sportello unico ex Dlgs. 112/1998), al sostegno dei territori (creazione di agenzie di sviluppo e di strutture di promozione territoriale), alla qualificazione del mercato del lavoro (politiche attive del lavoro e della formazione professionale, creazione dei Centri Lavoro);

��Le forme di istituzionalizzazione dello sviluppo: gli accordi di programma

Nel contesto lombardo lo strumento dell’accordo di programma, così come previsto dalla L. 142/1990, ha rappresentano un importante canale di costruzione di reti orizzontali e verticali, sia interistituzionali, sia coinvolgenti attori pubblici, autonomie funzionali, soggetti privati. I dati forniti da una recente ricerca dell’IreR (2000) evidenziano la rilevanza, anche quantitativa, di questo strumento. A fine 1999 risultavano infatti attivati 210 accordi di programma che coinvolgono, oltre alla Regione, 166 Comuni, 11 Province e 7 Comunità Montane. I temi prevalenti riguardano le materie urbanistico-territoriali, economiche e sociali. L’approfondimento realizzato dall’IreR su un campione significativo di accordi, ha evidenziato che tra le condizioni necessarie alla riuscita del processo di attuazione delle intese hanno particolare significato le modalità di interazione tra i soggetti coinvolti e quindi le forme di concertazione territoriale che gli accordi di programma sono stati in grado di mobilitare. In alcune situazioni (per esempio quelle relative all’attuazione della L.R. 30/94 sulla reindustrializzazione di aree e impianti industriali dismessi) gli accordi di programma si sono rivelati un canale importante per strutturare relazioni inter-istituzionali stabili a livello locale;

��Le forme di istituzionalizzazione dello sviluppo: i distretti industriali

La L.R. 7/1993 (art. 3) ha disciplinato le procedure per la delimitazione geografica dei distretti industriali in Lombardia (sulla base delle indicazioni della L. 317/1991, art. 36) e la deliberazione della Giunta regionale del 17.11.93 ha individuato 21 aree con caratteristiche distrettuali sul territorio lombardo (cfr. Tavola 3), per un totale di quasi tre milioni di abitanti (un terzo dell’intera popolazione lombarda). Per quanto ampiamente criticabile dal punto di vista metodologico e nella sostanza, la delimitazione ha permesso l’avvio, almeno in alcuni dei distretti delimitati dalla legge, di programmi di sviluppo e progetti di intervento, che hanno in qualche situazione promosso azioni di concertazione territoriale e di coordinamento interistituzionale;

Le forme di istituzionalizzazione dello sviluppo: le agenzie di sviluppo locale

Un altro fattore di organizzazione e strutturazione della cooperazione territoriale, oltre che di stimolo all’avvio di azioni di concertazione, è rappresentato dalla proliferazione di esperienze di soggetti (società a capitale misto, agenzie e consorzi) per la promozione dello sviluppo del territorio e delle imprese (cfr. Balducci, 1999). In Lombardia, ormai, il numero di soggetti operanti sul territorio con l’esplicita “missione” della promozione e dello sviluppo è crescente, anche escludendo dal novero delle agenzie di sviluppo i Centri servizi per le imprese e i centri per

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l’innovazione (per esempio: i centri che appartengono alla rete europea dei BIC - Business Innovation Centre). Alcune esperienze di agenzie di sviluppo (ad esempio: ASNM nel Nord Milano; Euroimpresa nell’Alto Milanese; SECAS SpA nell’area Sebino-Valcamonica-Valcavallina; il Consorzio di sviluppo dell’area di Sermide per il Destra Secchia-Ostigliese in provincia di Mantova), sono direttamente protagoniste dell’attivazione di tavoli e pratiche di concertazione territoriale.

Nel loro insieme questi strumenti, tra loro assai diversi, hanno contribuito a creare le condizioni di possibilità e i frame per l’avvio di esperienze di concertazione territoriale nel contesto lombardo. Fattori e condizioni esterne hanno in molte situazioni creato le opportunità concrete per l’avvio di esperienze di concertazione, che in assenza di occasioni “esogene” (soprattutto di finanziamento) non si sarebbero avviate o non sarebbe cresciute. D’altra parte, il sintetico panorama del quadro istituzionale che ha definito il campo delle “occasioni” e delle precondizioni per l’avvio di politiche di concertazione territoriale, consente anche di riconoscere l’articolazione geografica delle azioni e delle iniziative. E’ interessante notare come tale articolazione in taluni casi coincida con una “geografia della crisi” (aree Obiettivo 2, aree di antica industrializzazione oggi in fase di declino industriale), in altri con una “geografia delle eccellenze” (distretti industriali, aree nelle quali sono previsti grandi interventi sui quali vengono attivati accordi di programma). In entrambi i casi le situazioni, i contesti in cui le condizioni esterne (finanziamenti comunitari e nazionali, attivazione di accordi, promozione di agenzie e società si sviluppo) sono più accentuate coincidono anche con situazioni caratterizzate da una buona vivacità delle società locali, in termini di rappresentanza territoriale, di presenza organizzata delle parti sociali, di leadership locali affermate, da culture consolidate del lavoro e dell’impresa, da una dotazione consistente di capitale sociale. La “geografia della crisi” e la “geografia dell’eccellenza” escludono da un lato contesti marginali (aree periferiche della regione, sia dell’agricoltura più povera, sia della montagna: cfr. Bonomi, 1997), dall’altro situazioni di tipo urbano e metropolitano (si pensi alla fascia periurbana del Sud Milano), caratterizzate da un tessuto di rappresentanza molto modesto e da dotazioni ridotte di capitale sociale. 6.2 Le esperienze in corso Dopo queste considerazioni introduttive possiamo provare a fornire un quadro (certamente non esaustivo) di alcune tra le più significative esperienze di concertazione territoriale nel contesto lombardo. Dopo aver fornito un primo elenco organizzato sulla base di un criterio geografico, le esperienze saranno schedate evidenziando per ciascuna il territorio di riferimento, gli attori promotori, gli altri attori coinvolti nella concertazione, gli strumenti istituzionali e le risorse mobilitate (se ve ne sono), l’eventuale “produzione” nel processo di nuovi assetti istituzionali, gli obiettivi strategici dell’azione di concertazione, le azioni previste, la situazione sotto il profilo del processo decisionale. (vedi tavole 1,2,3 in appendice)

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Tabella 1 ALCUNE ESPERIENZE DI CONCERTAZIONE TERRITORIALE IN LOMBARDIA Provincia di Bergamo Patto territoriale Val Brembana Provincie di Bergamo e Brescia

Patto territoriale Sebino-Valcamonica-Valcavallina

Provincie di Como, Lecco e Sondrio

Patto territoriale Alto Lago, Bassa Valtellina e Valchiavenna

Provincia di Cremona Contratto d’area comprensorio di Crema Provincia di Lecco Patto territoriale Valassina Provincia di Lodi Patto territoriale provincia di Lodi Provincia di Mantova Patto territoriale per Mantova – zona destra Secchia Provincia di Milano Patto territoriale Alto Milanese Piano strategico Nord Milano Concertazione territoriale comuni della Brianza Provincia di Pavia Patto territoriale Oltrepò pavese Patto per lo sviluppo e l’occupazione in provincia di Pavia Provincia di Varese Patto territoriale OGMA (Malpensa-Sempione-Valle Olona-Medio

Verbano) Piano strategico del comune di Varese/area varesina Patto territoriale del Luinese La Tavola 4 mostra la collocazione geografica sul territorio lombardo di queste esperienze. Queste esperienze sono tra loro molto differenziate per grado di maturazione e di istituzionalizzazione, obiettivi e strategie perseguite, attori coinvolti, strumenti mobilitati. In prima istanza (una classificazione più articolata sarà presentata nel successivo paragrafo) è possibile distinguere tra ��iniziative formali di programmazione negoziata che attivano gli strumenti e le

procedure previste dalla legislazione nazionale. Si tratta dei patti territoriali avviati a partire dal 1997 in alcune provincie lombarde e del contratto d’area per il comprensorio di Crema. Anche in questa sotto-famiglia sono comprese azioni e iniziative molto diverse tra loro, che presentano gradi di maturità variabili, e che assumono in forme diverse i vincoli e le opportunità offerte dalla legislazione nazionale sulla programmazione negoziata;

��azioni strategiche di sviluppo territoriale costruite a partire dall’azione di agenzie,

società e consorzi di sviluppo locale. Si tratta di esperienze molto differenziate,

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accomunate dalla presenza in veste di promotori delle azioni di programmazione territoriale di soggetti costruiti a questo fine, sovente di natura mista, che costituiscono le strutture di progettazione e implementazione delle politiche e delle azioni concertate di sviluppo. Alcuni casi significativi sono rappresentati da società miste di sviluppo nell’area milanese (Agenzia Sviluppo Nord Milano a Sesto San Giovanni; Euroimpresa a Legnano), ma anche in altri contesti territoriali (ad esempio Reindustria S.c.r.l. nel cremasco; Secas SpA in Valcavallina-Valcamonica); e da alcune delle società costruite in relazione all’azione dei distretti industriali riconosciuti dalla legislazione regionale;

��azioni di programmazione e coordinamento strategico dello sviluppo attivate su

iniziativa di enti locali (soprattutto amministrazioni provinciali, ma in qualche caso anche Comuni), a partire dalla definizione di tavoli locali di concertazione e di strumenti di coordinamento quali accordi di programma e conferenze dei servizi. Si tratta in taluni casi di iniziative riconducibili ad attività di pianificazione strategica (comune di Varese, Nord Milano), orientate a delineare obiettivi concertati per lo sviluppo territoriale; in altri casi della costruzione di tavoli di concertazione (provincia di Pavia, Brianza milanese).

Di seguito saranno presentate schede sintetiche19 relative a un numero ristretto di queste esperienze, selezionate innanzitutto in base al grado di maturità e alla possibilità di accesso alle informazioni. In particolare, verranno schedate le seguenti esperienze: ��Patto territoriale Sebino-Valcamonica-Valcavallina ��Patto territoriale Alto Lago, Bassa Valtellina e Valchiavenna ��Patto territoriale OGMA (Malpensa-Sempione-Valle Olona-Medio Verbano) ��Contratto d’area per lo sviluppo del territorio cremasco ��Attività di pianificazione strategica del Nord Milano ��Attività di concertazione territoriale della Brianza milanese ��Patto per lo sviluppo e l’occupazione della provincia di Pavia Nel paragrafo successivo saranno invece ipotizzate una prima lettura e una classificazione di queste diverse pratiche di concertazione territoriale. (Vedi in appendice tavola 4)

19. Le schede che seguono sono state realizzate sulla base di materiali e documenti ufficiali, rapporti di ricerca, interviste ad alcuni testimoni privilegiati.

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Patto territoriale Sebino-Valcamonica-Valcavallina Territorio di riferimento Comprensorio Camuno Sebino Valcavallina, comprensivo di Comuni appartenenti alle provincie di Bergamo e Brescia Condizioni contestuali e “occasioni” offerte al processo concertativo Il comprensorio è stato riconosciuto come area di crisi ai sensi della L. 236/93 in ragione dei processi di deindustrializzazione e di aumento della disoccupazione che lo hanno caratterizzato e come area di crisi siderurgica ai sensi della L. 181/89. Inoltre, 38 comuni della Valcamonica sono stati inseriti nelle aree soggette all’agevolazione dei Fondi strutturali UE (aree Obiettivo 5b). La media e alta Valcamonica hanno usufruito di finanziamenti nel quadro del programma comunitario Leader II Attori promotori Provincia di Brescia (richiesta al CNEL in data 14/06/96 di accompagnamento alla concertazione per l’attivazione di patti territoriali) e Comunità Montana di Valle Camonica a cui la Provincia di Brescia ha affidato la gestione delle procedure di attivazione del patto Altri attori coinvolti Il protocollo d’intesa per la stipulazione del Patto territoriale per lo sviluppo del comprensorio Camuno-Sebino-Valvacalllina è stato sottoscritto da: Regione Lombardia, Provincie di Bergamo e Brescia, Comunità montane Vallecamonica, Sebino Bresciana, Alto Sebino, Valcavallina, Consorzio Bim Vallecamonica, Agenzia per l’Impiego della Lombardia, CCIIA Bergamo e Brescia, AIB Brescia, UIB Brescia, UIB Bergamo, API di Bergamo e Brescia, Associazione artigiani di Bergamo e Brescia, Unione provinciale artigianato di Brescia, Unione artigiani di Bergamo, CGIL, CISL, UIL di Bergamo e Brescia, Lega Cooperative Brescia, Lega Cooperative e Mutue Bergamo, Confcooperative – Unione provinciale Brescia, Associazioni Commerciali Brescia, Confesercenti, Assocamuna, Confcooperative – Unione Provincia di Bergamo, Compagnia delle Opera. Strumenti istituzionali e risorse mobilitate Lo strumento attivato è un patto territoriale che propone di finanziare una parte limitata delle azioni previste, a valere sui fondi CIPE specifici, per le iniziative imprenditoriali comprese in aree Obiettivo 5b. Forme di istituzionalizzazione della concertazione La Comunità Montana di Valle Camonica ha attivato un tavolo di concertazione locale rappresentato dall’Osservatorio permanente per l’economia e l’occupazione, che ha visto il coinvolgimento delle Comunità montane del comprensorio, delle Provincie di Bergamo e Brescia, dell’Agenzia per l’Impiego della Lombardia, delle organizzazioni sindacali e delle associazioni datoriali degli industriali di Bergamo e Brescia, degli artigiani, dei commercianti. Il tavolo di concertazione ha incaricato una società di promozione e sviluppo (SECAS, società di sviluppo per il comprensorio Camuno-Sebino-Valcavallina partecipata dalle Provincie di Brescia e Bergamo, dalle Comunità montane, dal Bim di Vallecamonica, dalla SPI e da altri operatori pubblici e privati, che aveva già operato nell’ambito del programma RESIDER) di attivare un processo di animazione finalizzata alla raccolta e alla promozione dei progetti.

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Obiettivi e strategie Gli obiettivi individuati sono i seguenti: ��sviluppo turistico del territorio; ��sviluppo eco-compatibile del territorio, con riferimento al recupero di aree industriali

dismesse, alla valorizzazione di risorse naturali, ad iniziative del settore ecologico; ��interventi infrastrutturali per accrescere la competitività del territorio; ��sostegno e consolidamento alle iniziative imprenditoriali e promozione di nuova

imprenditorialità, soprattutto nei settori ad alto contenuto tecnologico; ��promozione di iniziative di formazione; ��creazione di strumenti di incentivazione finanziaria.

Azioni previste La fase di animazione e concertazione ha individuato circa 160 progetti imprenditoriali per un investimento complessivo di £ 677.524.000, con una nuova occupazione stimata di oltre 2.000 addetti. A sostegno degli investimenti imprenditoriali è stata prevista la realizzazione di investimenti infrastrutturali per oltre 42 miliardi (nei settori della gestione e depurazione delle acque, delle infrastrutture viabilistiche e telematiche, dei servizi e delle infrastrutture ricettive in campo turistico) Maturazione del processo decisionale La procedura, avviata secondo il modello della delibera CIPE del luglio 1996 è stata riorientata in considerazione della delibera CIPE del marzo 1997. Nel marzo del 1998 è stato sottoscritto il protocollo d’intesa tra gli attori istituzionali e le parti sociali e nel febbraio 1999, a seguito della raccolta delle iniziative, è stata trasmessa la documentazione al CIPE in relazione alla richiesta di finanziamento a valere sui fondi del patto __________________________________________________________________ Patto territoriale Alto Lago Bassa Valtellina e Valchiavenna (ALBAVAL)

Territorio di riferimento L’area comprende ��per la provincia di Como comuni del Ceresio, del Centro e dell’Alto Lago comasco

appartenenti alle Comunità montane Lario Intelvese, Alpi Leopontine, Alto lario Occidentale, per un totale di 41 comuni e 44.000 abitanti;

��per la provincia di Lecco i Comuni di Oliveto Lario, Mandello del Lario, Lierna, Abbadia Lariana, per una popolazione di 16.000 abitanti;

��per la provincia di Sondrio comuni dell’alto Lario-Valchiavenna e della Bassa Valtellina, appartenenti alle Comunità Montane della Valchiavenna e di Moregno, per un totale di 38 comuni e 66.000 abitanti.

Condizioni contestuali e “occasioni” offerte al processo concertativo Il territorio presenta spiccati caratteri di area montana, nella quale è forte la vocazione turistica, che potrebbe essere declinata nella direzione dello sviluppo di iniziative turistiche di qualità nel settore dell’arte e della cultura. Alcuni comuni della provincia di Como sono compresi nelle aree Obiettivo 2. Inoltre, gran parte dell’area è stata interessata in precedenza dai finanziamenti della legge Valtellina (L. 102/90), attivata a seguito della situazione di emergenza alluvionale determinatesi nelle zone dell’Alto Lago e della Bassa Valtellina.

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Attori promotori Amministrazioni provinciali di Como, Lecco e Sondrio, Comuni interessati al patto, Comunità montane di Morbegno e Valchiavenna, CCIAA di Como, Lecco e Sondrio, associazioni imprenditoriali dell’industria, dell’artigianato, dell’agricoltura e del commercio di Como, Lecco e Sondrio, organizzazioni sindacali di Como, Lecco e Sondrio. Altri attori coinvolti Il Documento preliminare del tavolo di concertazione prevede il coinvolgimento di altri Enti locali, enti di ricerca e formazione, centri di servizio alle imprese, istituti bancari e di credito, imprese, enti no profit. Strumenti istituzionali e risorse mobilitate L’ipotesi di patto muove dalla necessità di coordinare tra loro le iniziative relative ad alcuni progetti comunitari (INTEREG III e LEADER II), e alla legge nazionale Valtellina, oltre che le azioni programmate per i Comuni compresi nell’obiettivo 5b. In questo caso il patto rappresenta soprattutto un frame di coordinamento tra iniziative, più che un diretto strumento di finanziamento. Forme di istituzionalizzazione della concertazione Allo stato attuale non è stato individuato un soggetto responsabile del patto. Il coordinamento del patto è svolto dalla provincia di Como in collaborazione con una società esterna (Eur&ca). Obiettivi e strategie Nel Documento preliminare del Tavolo di concertazione sono state individuate come prioritarie sei aree di intervento: ��valorizzazione e potenziamento delle risorse territoriali; ��promozione dei settori dell’ambiente e del turismo; ��interventi per la manutenzione del territorio agricolo e per la valorizzazione delle

produzioni locali; ��sostegno e riqualificazione della struttura produttiva esistente; ��interventi di qualificazione del sistema formativo e politiche attive del lavoro. Maturazione del processo decisionale Nel marzo del 1998 la Provincia di Como ha sottoscritto con la CCIAA di Como un protocollo di intesa sulla promozione dello sviluppo territoriale e nel giugno dello stesso anno le tre provincie hanno avviato un processo di concertazione, attraverso l’avvio di un tavolo istituzionale, coordinato dalla società Eur&ca, al fine di verificare l’applicabilità dello strumento del patto territoriale. Il lavoro del tavolo ha portato all’elaborazione di una prima ipotesi di intervento e alla definizione di un protocollo di intesa, sulla base del quale il tavolo istituzionale si è trasformato in tavolo di concertazione. Il tavolo di concertazione ha prodotto un documento preliminare che indica obiettivi e strategie del patto, ipotesi di intervento censite durante l’attività di animazione territoriale e una ipotesi di protocollo, nel novembre del 1999. __________________________________________________________________

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Patto territoriale OGMA Malpensa-Sempione-Valle Olona-Medio Verbano Territorio di riferimento Il territorio comprende 53 comuni della provincia di Varese con una popolazione complessiva di 520.000 abitanti circa, collocati nella zona meridionale (area di Malpensa e asse del Sempione), occidentale e settentrionale (Medio Verbano) della provincia. I comuni di maggiori dimensioni sono, oltre a Varese, Busto Arsizio e Gallarate. Condizioni contestuali e “occasioni” offerte al processo concertativo Alcuni comuni del patto appartengono alla zona Obiettivo 2 dell’Asse del Sempione. Nell’area, inoltre, è stata realizzata la nuova aerostazione Malpensa 2000, che ha rappresentato l’evento “esterno” più forte e motivante alla mobilitazione degli attori. Attori promotori Il patto è stato promosso dalla Provincia di Varese, che è anche il soggetto responsabile. Gli altri soggetti promotori sono: CCIAA di Varese, Unione degli industriali della Provincia; API Varese, Associazione Artigiani della provincia, CNA provinciale, Associazione Cristiana Artigiani Italiani Varese, UNIASCOM Varese, Confesercenti varesina, CGIL, CISL, UIL. Questi attori partecipano stabilmente al tavolo di concertazione del patto. Altri attori coinvolti Imprese private e operatori pubblici e privati coinvolti nei progetti imprenditoriali e infrastrutturali. Strumenti istituzionali e risorse mobilitate Il Patto attiva risorse per i comuni inseriti in aree Obiettivo 2, utilizzando dunque risorse comunitarie. Al tempo stesso è previsto che alcune delle iniziative infrastrutturali siano finanziate con altri strumenti e utilizzando diversi canali di finanziamento (a partire da quelli attivati con il Piano d’Area Malpensa) Forme di istituzionalizzazione della concertazione Lo strumento di istituzionale di gestione del processo è stato individuato nel tavolo di concertazione del patto territoriale, definito “soggetto rappresentativo degli interessi locali”. Il tavolo definisce gli obiettivi generali dell’azione del soggetto responsabile, formula proposte per l’attivazione di ulteriori azioni, approva il programma annuale delle attività, verifica la corrispondenza tra azioni e obiettivi. Il Soggetto responsabile è in questo caso l’Amministrazione provinciale e non un soggetto esterno. Obiettivi e strategie Formazione di un quadro territoriale unitario, ricerca di compatibilità e sinergie e individuazione di linee d’azione e di progetti di rilevanza strategica per l’ambito interessato dagli effetti diretti e indiretti di Malpensa 2000, nel quadro di una più complessiva strategia di rilancio del sistema produttivo locale. Gli ambiti d’azione strategica individuati sono quattro: ��l’affermazione di un modello organizzativo per la promozione dello sviluppo centrato

su trasparenza, comunicazione, programmazione negoziata; ��la promozione del territorio e in particolare delle risorse ambientali e storico culturali,

delle attrezzature e dei servizi, dell’accessibilità e della mobilità in relazione anche a

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Malpensa 2000; ��il sostegno del sistema produttivo (artigianato, innovazione tecnologica,

internazionalizzazione, competitività, turismo, cooperazione, accesso al credito, accesso all’informazione);

��la promozione del mercato del lavoro con iniziative sul fronte dell’alta formazione e della formazione professionale e delle politiche attive del lavoro.

Azioni previste L’attività di valutazione delle ipotesi imprenditoriali presentate nell’ambito del patto ha portato all’individuazione di 74 iniziative potenzialmente ammissibili all’istruttoria bancaria, per un ammontare complessivo di 236.737 milioni. I progetti ammessi prevedono un onere a carico dello stato di 61.830 milioni. I progetti imprenditoriali ammessi alla valutazione compresi in comuni Obiettivo 2, e riguardano prevalentemente i settori del tessile-abbigliamento e della meccanica. Vi sono inoltre 16 iniziative imprenditoriali che non ricadono in aree Obiettivo 2. Le opere infrastrutturali eleggibili al patto sono 26 e riguardano mobilità e accessibilità, tutela e valorizzazione ambientale e paesaggistica, infrastrutture e servizi per il sistema produttivo, per un totale di 100 miliardi circa, oltre a 42 progetti che non gravano sulla finanza del patto. Maturazione del processo decisionale L’avvio del processo risale a una dichiarazione di intenti delle parti sociali della provincia di Varese del gennaio 1998. A partire da questa intesa la Provincia di Varese ha attivato un tavolo di concertazione che ha condotto del dicembre del 1998 alla sottoscrizione del Protocollo d’intesa per il patto Territoriale OGMA. Le procedure di assistenza del patto sono state definite in un Programma operativo, ai sensi della convenzione tra Ministero del tesoro ed Ecosfera, relativa all’assistenza tecnica per i patti territoriali. Il Programma operativo viene inviato da Ecosfera al Ministero nel marzo del 1993. Nel dicembre del 1999 viene approvata una versione modificata del Programma operativo che prevede tre fasi: ��predisposizione dei documenti utili alla presentazione dei progetti ��valutazione dei progetti imprenditoriali e infrastrutturali ��adempimenti formali e costituzione del soggetto responsabile. Nel gennaio 2000 è stata presentata la relazione finale sulle attività di assistenza tecnica, redatto secondo le indicazioni del Ministero del Tesoro. __________________________________________________________________ Contratto d’area per lo sviluppo del territorio cremasco Territorio di riferimento Il territorio comprende i comuni della sezione circoscrizionale per l’impiego di Crema per un totale di circa 120.000 abitanti. Condizioni contestuali e “occasioni” offerte al processo concertativo I comuni della sezione circoscrizionale per l’impiego di Crema sono stati dichiarati area di rilevante squilibrio locale tra domanda e offerta di lavoro ai sensi della L. 236/93 con

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decreto ministeriale del 14 marzo 1995. Il principale stimolo all’avvio di una procedura di concertazione territoriale nell’area è venuto dalla crisi industriale della principale grande azienda localizzata sul territorio: il comprensorio Olivetti di Crema. Attori promotori Il Contratto d’area è stato avviato su iniziativa delle Amministrazioni locali (Comune di Crema e Provincia di Cremona) e delle autonomie funzionali (CCIAA di Cremona) e con un ruolo di promozione importante da parte di Reindustria Scrl, società consortile nata su iniziativa della CCIAA e del Comune di Crema con lo scopo di gestire la reindustrializzazione dell’area Olivetti. Altri attori coinvolti I sottoscrittori del Contratto d’area sono stati: Associazione Industriali di Cremona, API Cremona, Libera Associazione Artigiani Crema, Associazione Autonoma Artigiani Crema, CNA Crema, ASCOM Crema, Confesercenti Cremona, Coldiretti Cremona, CIA Cremona, Liberi Agricoltori Cremona, CGIL, Cisl, Uil provinciali, Confcooperative Unione provinciale, Lega Cooperative Cremona, CCIAA, Provincia di Cremona, Comune di Crema, altri comuni del comprensorio, Società Reindustria Scrl, banche cremasche. Strumenti istituzionali e risorse mobilitate Lo strumento previsto per l’intervento di reindustrializzazione è un contratto d’area realizzato ai sensi della delibera CIPE del marzo 1997, di durata triennale, con scadenza il 31.12.2000. L’ammontare degli investimenti del Contratto d’area è rappresentato da capitale di rischio privato. I soggetti sottoscrittori si sono impegnati nell’attivazione di altre risorse. Oltre alle risorse attivate dal contratto d’area, Reindustria ha ottenuto finanziamenti a valere sul Fondo per lo Sviluppo della L. 236/93. Forme di istituzionalizzazione della concertazione Lo strumento di attivazione del Contratto e di concertazione territoriale è un Comitato di coordinamento per l’azione e il monitoraggio dello sviluppo locale, che vede la partecipazione dei firmatari del Contratto, affiancato dal soggetto responsabille del contratto: Reindustria Scrl, società consortile a prevalente capitale pubblico con un capitale sociale di 100 milioni, partecipata dagli stessi soggetti firmatari del contratto e da SVI lombardia. Obiettivi e strategie I principali provvedimenti previsti dal Contratto d’area riguardano ��la qualificazione delle infrastrutture viarie; ��la promozione di azioni di riuso delle aree dismesse (a partire dall’area ex-Olivetti),

la realizzazione di nuove aree per PMI, il coordinamento delle procedure amministrative;

��l’attivazione di servizi al lavoro, in termini di orientamento e sostegno all’incontro tra domanda e offerta di lavoro;

��l’attivazione di servizi per le imprese (costituzione di un Centro per l’innovazione e il trasferimento tecnologico presso l’Università di Crema, qualità, accesso alle risorse nazionali e comunitarie, cooperazione con il sistema dell’università e della formazione).

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Azioni previste Il Contratto d’area ha individuato una serie di iniziative imprenditoriali considerate fattibili e un insieme di progetti di carattere infrastrutturale (lavori di ammodernamento della SS 415 “Paullese” e della SS 591 “Cremasca”, oltre che di tre strade provinciali, studio di un sistema di traporto pubblico alternativo lungo la direttrice Paullese) e di servizio per le imprese (costituzione di un fondo di venture capital, sostegno ai consorzi e alle cooperative fidi, costituzione di un Fondo per lo sviluppo delle Pmi, attivazione di una Associazione per gli studi universitari che ha consentito l’insediamento nell’area ex-Olivetti dell’Università.. Maturazione del processo decisionale L’avvio del processo è legato alla dismissione della Olivetti nei primi anni ’90 (chiusura dello stabilimento: 1991). Nel 1995 viene attivata la procedura per il riconoscimento del territorio cremasco come area di crisi secondo la L. 236/93 e vengono attivati finanziamenti a valere sulla L.R. 30/94. Nel maggio del 1997 viene sottoscritto un protocollo di intesa tra le parti sociali. Nel giugno del 1997 si è costituita Reindustria Scrl. Nel dicembre del 1997 viene sottoscritto il Contratto d’area. __________________________________________________________________ Piano strategico Nord Milano Territorio di riferimento Comuni dell’area circoscrizionale dell’impiego di Sesto San Giovanni (Bresso, Cinisello Balsamo, Cologno Monzese, Sesto San Giovanni) Condizioni contestuali e “occasioni” offerte al processo concertativo Area di crisi ai sensi della L. 236/1993 e area di crisi siderurgica (in ragione della dismissione di grandi stabilimenti della Falck e della Breda), il Nord Milano ha avviato un processo di transizione del modello di sviluppo locale dalla fase della regolazione fordista alla definizione di una nuova identità territoriale, sociale, produttiva e ambientale, scarsa qualità urbana. L’area presenta oggi un mix articolato di opportunità (235000 abitanti, 15.000 imprese di cui il 95% con meno di 10 addetti, 3 milioni di mq di aree dismesse di cui un terzo in via di trasformazione, una infrastrutturazione e una accessibilità notevoli) e di problemi (mancanza d una chiara “missione” e identità, congestione del traffico, degrado dell’ambiente). Attori promotori Agenzia Sviluppo Nord Milano, società mista di diritto privato partecipata da enti locali (i quattro Comuni e la Provincia di Milano, con quote di maggioranza), autonomie funzionali (CCIAA di Milano), altri attori pubblici (SVI, Finlombrada) e privati (Falck, ABB, Brollo Marcegaglia, Banca di Credito Cooperativo di Sesto, Edilmarelli). L’attività di pianificazione strategica rappresenta una delle molte attività dell’Agenzia, che è nata su missione per promuovere la reindustrializzazione e lo sviluppo sostenibile dei comuni del Nord Milano e in particolare di Sesto San Giovanni. Il Piano strategico è stato promosso su mandato politico dei quattro Sindaci dell’area.

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Altri attori coinvolti Regione Lombardia e Provincia di Milano, altri attori istituzionali, imprese e associazioni di categoria, organizzazioni sindacali. Strumenti istituzionali e risorse mobilitate Dopo il tramonto dell’ipotesi di un contratto d’area, ASNM e i quattro Comuni hanno deciso di promuovere uno strumento di carattere informale quale il Piano strategico al fine di creare le condizioni per la costruzione di una coalizione locale per lo sviluppo e per la definizione di un patto tra attori pubblici e privati per lo sviluppo del Nord Milano. Le risorse mobilitate da ASNM per l’avvio di iniziative di reindustrializzazione e sostegno alle imprese sono state finora molteplici: dall’attivazione di programmi comunitari (RESIDER, Adapt) e di leggi nazionali (L. 236/93, L. 181/89, deecreto Sesto-Bagnoli) e regionali (L.R. 30/94; L. 35/96) allo sviluppo di azioni strategiche (oltre al Piano strategiche una Agenda 21 locale sui temi della sostenibilità dello sviluppo) fino alla creazione di specifici servizi alle imprese (un BIC denominato “La Fucina”; il CRIS, un centro servizio per le imprese sociali; Proxima, un centro per la formazione sulle ICT). Le risorse attivate da ASNM si aggiungono alle molte altre risorse mobilitate dai Comuni e da attori privati su progetti infrastrutturali e insediativi, spesso di grandi dimensioni. Forme di istituzionalizzazione della concertazione La concertazione territoriale nel Nord Milano ha trovato un luogo stabile nel Forum per lo Sviluppo, tavolo delle parti sociali promosso dalla Provincia e gestito da ASNM con il compito di promuovere la cooperazione tra attori pubblici e parti sociali intorno alla definizione di obiettivi condivisi. Obiettivi e strategie L’idea di un patto costruito a partire dall’attività di pianificazione strategica è centrata innanzitutto sul tentativo di governare la transizione dalla società e dall’economia fordista, che ha segnato lo sviluppo storico di questo territorio a un nuovo assetto economico-sociale, territoriale e ambientale fortemente innovativo, attraverso la costruzione di un progetto condiviso di sviluppo sostenibile, da definire attraverso la mobilitazione innanzitutto delle risorse endogene della società locale del Nord Milano. Il Piano è mosso da due intenzioni principali: ��l’intenzione di vincere la sfida richiamata elevando la cooperazione territoriale, a

partire dall’azione congiunta delle amministrazioni locali, ma con il coinvolgimento attivo di tutti i soggetti economici e sociali interessati;

��l’intenzione di disegnare un nuovo sentiero di sviluppo oltre il modello fordista delle grandi fabbriche, governando un processo innovativo che coniughi lo sviluppo di impresa con il profilo sociale e ambientale dell’area secondo criteri di qualità ed eccellenza.

Azioni previste L’attività di pianificazione strategica ha avviato quattro tavoli operativi che coinvolgono gli attori nella definizione di iniziative comuni sui seguenti temi: ��innovazione tecnologica e promozione territoriale ��ambiente e sviluppo sostenibile ��politiche del lavoro e della formazione ��infrastrutture. A conclusione del percorso di pianificazione strategica non viene escluso il ricorso a uno

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degli strumenti di programmazione negoziata previsti dalla L.R. 1/2000. Maturazione del processo decisionale L’attività di pianificazione strategica è stata avviata nel marzo del 1999 su mandato dei Comuni di Bresso, Cinisello Balsamo, Cologno Monzese e Sesto San Giovanni e con il coordinamento dall’Agenzia Sviluppo Nord Milano , attraverso un percorso articolato di interazione con una pluralità di attori. La prima fase si è conclusa nel novembre 1999 con l’elaborazione di una Agenda strategica, che ha individuato strategie e azioni possibili e di un Atlante delle politiche e dei progetti che restituisce l’addensamento progettuale nell’area. La seconda fase del Piano è in corso. Essa ha i seguenti obiettivi: ��socializzare agli attori interessati, ma più complessivamente ai cittadini del Nord

Milano, il percorso già compiuto, rendendo il più possibile aperto e trasparente il percorso di pianificazione;

��ampliare la rete degli attori direttamente coinvolti su obiettivi di carattere strategico, con particolare attenzione alla capacità di attivazione di soggetti privati, anche al fine di accrescere il profilo dell’attenzione nei confronti dell’operazione che i Comuni del Nord Milano stanno compiendo;

��avviare concretamente azioni e iniziative, istruendo e accompagnando un percorso di interazione multiattoriale intorno a obiettivi strategici chiari e condivisi;

��produrre un documento finale, il Piano strategico del Nord Milano, che costituirebbe il primo esempio in Italia di piano strategico sovracomunale e che dovrebbe definire strumenti di programmazione territoriale sulla base di un Patto per lo sviluppo dell’area.

__________________________________________________________________ Attività di concertazione territoriale nella Brianza milanese Territorio di riferimento Comuni della Brianza milanese (aree di Cesano Maderno, Seregno, Monza, Vimercate), per un totale di una cinquantina di comuni circa. Condizioni contestuali e “occasioni” offerte al processo concertativo Presenza sul territorio brianteo di una pluralità di processi evolutivi di segno diverso: crisi e ristrutturazione di alcuni comparti industriali e artigianali (dismissione di grandi imprese, ridefinizione dell’assetto di settori-guida come il legno-arredo); progressivo aumento dei problemi di carattere infrastrutturale, a partire da quelli dei collegamenti est-oveste dalla presenza di alcuni grandi progetti (tra cui la discussa “pedegronda”); crescita del protagonismo locale, con la forte richiesta di costituzione di una nuova Provincia. Attori promotori I Sindaci dei Comuni, che hanno attivato una pluralità di iniziative di cooperazione, alcune delle quali con il sostegno, nella progettazione e nella realizzazione, della Provincia di Milano. Altri attori coinvolti Associazione Imprenditori Monza e Brianza, organizzazioni degli artigiani (APA, CNA) e delle piccole e medie imprese (API), organizzazioni sindacali, attori coinvolti in progetti infrastrutturali (Ferrovie dello Stato, Ferrovie Nord), autonomie funzionali

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(Università, CCIAA), grandi imprese private. Strumenti istituzionali e risorse mobilitate Gli strumenti mobilitati per rafforzare la capacità operativa sono legati essenzialmente alla creazione di strumenti di azione autonomi dai Comuni e dalle parti sociali, nella forma di Agenzie di sviluppo. Sul territorio sono così sorte: ��l’Agenzia per la Brianza, società per azioni partecipata dall’Assoindustria di Monza e

Brianza, dalle CCIAA di Milano e Como, dalle Associazioni degli artigiani e delle piccole e medie imprese, dalla Provincia d Milano, creata al fine di definire le strategie di medio periodo per la qualificazione del territorio brianteo;

��la società Sviluppo Brianza, società intercomunale avviata dai Comuni di Desio, Seregno e Lissone per sostenere un progetto di insediamento universitario e di riuso sulle aree ex-Autobianchi di Desio;

��AGINTEC, Agenzia per lo sviluppo imprenditoriale, professionale e per il trasferimento tecnologico nell’area di Agrate, Arcore e Vimercate, con capitale in maggioranza pubblico, avviata per promuovere azioni di marketing territoriale, trasferimento tecnologico e formazione in un contesto che vede la presenza di grandi imprese multinazionali nei settori delle ICT.

Forme di istituzionalizzazione della concertazione I Sindaci hanno promosso un tavolo di concertazione informale inter-istituzionale permanente: la Conferenza dei Sindaci della Brianza, che si è dotata anche di un coordinamento operativo, gestito a rotazione da uno dei sindaci aderenti. La Conferenza ha rappresentato un tavolo di concertazione molto rilevante su specifiche filiere di politiche, consentendo la costruzione di posizioni comuni su temi di grande rilievo nell’agenda pubblica. Obiettivi e strategie I terreni sui quali si è sviluppata la concertazione sono stati: ��la riqualificazione del sistema delle infrastrutture su ferro e su gomma e dei grandi

servizi per il sistema produttivo (fiere, nodi di interscambio, infrastrutture tecnologiche);

��la programmazione partecipata del riuso di grandi aree industriali dismesse; ��i servizi alle imprese e il sostegno, attraverso la promozione del trasferimento

tecnologico, soprattutto per le Pmi; ��le politiche attive del lavoro e della formazione professionale; ��la qualificazione dell’intervento pubblico e il miglioramento dell’efficacia delle

amministrazioni locali. Maturazione del processo decisionale Il processo di concertazione è stato avviato nel 1997 e si è concretizzato nella realizzazione della Conferenza e nell’attivazione delle diverse Agenzie di sviluppo. La fase successiva dei processi di concertazione dipende in modo strategico dal compimento del processo per al costituzione della Provincia di Monza e Brianza. __________________________________________________________________ Patto per lo sviluppo e l’occupazione della provincia di Pavia Territorio di riferimento

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L’intero territorio della provincia di Pavia Condizioni contestuali e “occasioni” offerte al processo concertativo La provincia di Pavia, caratterizzata dalla presenza di subsistemi territoriali consolidati (Lomellina, Oltrepò e Pavese), vive una fase di ridefinizione profonda della propria identità, per quanto riguarda la città capoluogo, le aree dinamiche dei distretti industriali, le zone a forte prevalenza agraria e le aree marginali della collina. La provincia presenta dunque forti problemi di armonizzazione delle politiche di sviluppo e di coordinamento tra politiche subprovinciali, provinciali e regionali. Ciò implica anche il ridisegno ridisegnino del ruolo e della funzione della dimensione provinciale nella costruzione e nell’accompagnamento di politiche di sviluppo locale. Attori promotori Il promotore dell’iniziativa è la Provincia di Pavia, che ha affidato il percorso di animazione al Consorzio Aaster e ha coordinato le attività della cabina di regia. Altri attori coinvolti Hanno sottoscritto il Protocollo di intesa denominato “Patto per lo sviluppo e l’occupazione della provincia di Pavia”: il Comune di Pavia, la CCIAA, CNA, Unione Liberi Artigiani, Cioldiretti, Confagricoltura, Unione Agricoltori, Assindustria Vigevano, il Consorzio pavia Export, l’Unione industriali della Provincia, CGIL, CISL, UIL provinciali, i sindaci di alcuni dei più importanti comuni della provincia (tra cui Mortara e Vigevano). Strumenti istituzionali e risorse mobilitate Lo strumento è quello del Patto, costruito indipendentemente dagli strumenti formali di programmazione negoziata e definito a partire da modalità di costruzione “dal basso” delle esigenze, dei progetti e delle strategie dei territori secondo il modello proprio della prima fase dei patti territoriali CNEL. Forme di istituzionalizzazione della concertazione Lo strumento individuato per “fare patto” è la Cabina di regia, intesa come ambito di confronto permanente tra autonomie locali, autonomie funzionali e parti sociali sui problemi dello sviluppo della provincia di Pavia. La cabina di regia è intesa come organo “politico-consultivo” di indirizzo generale della coalizione di sviluppo, ed è composta dai soggetti promotori e sottoscrittore del patto. Essa definisce gli orientamenti generali dello sviluppo, indirizza e accompagna l’azione di animazione territoriale, seleziona le priorità nella progettualità locale, procede all’individuazione delle risorse locali mobilitabili. Essa si avvale di una Segreteria tecnica e operativa. Obiettivi e strategie Gli obiettivi strategici individuati dal Protocollo di intesa sono i seguenti: ��rilancio produttivo e riqualificazione urbana; ��ridefinizione e rafforzamento dei distretti industriali; ��sviluppo del sistema agroindustriale; ��integrazione tra agricoltura, ambiente e turismo; ��controllo delle dinamiche insediative e della qualità del territorio. Azioni previste

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Gli assi prioritari per gli interventi previsti dal Patto sono i seguenti: ��sostegno alla definizione e attuazione del PRUSST di Pavia; ��inoltro dell’istanza di riconoscimento del distretto industriale di Pavia ��attivazione di un Patto sul sistema moda a sostegno dei comparti calzaturiero, orafo e

dell’abbigliamento; ��attivazione di un Patto per lo spazio rurale e per il settore agroalimentare ��progettazione, nel quadro della programmazione regionale 2000-20006, di azioni per

le aree del nuovo Obiettivo 2, con particolare attenzione all’Oltrepò pavese. Maturazione del processo decisionale L’iniziativa coalizionale nasce per volontà dell’Amministrazione provinciale nel dicembre 1997, con l’avvio di un intervento di animazione territoriale finalizzato a stimolare l’elaborazione di progetti di sviluppo locale. Nel marzo del 1998 si costituisce una Cabina di regia a livello provinciale, che ha attivato un lavoro di animazione che ha coinvolto i 190 Sindaci e che è stato sintetizzato nel “Rapporto sull’attività di ricerca azione a livello locale” redatto dal Consorzio Aaster. Sulla base di questo rapporto sono stati organizzati ulteriori momenti di concertazione e discussione attraverso l’attivazione di focus group e tavoli di settore sulle politiche infrastrutturali, del lavoro, dell’agricoltura e dell’ambiente, dei distretti e dei servizi alle PMI. La sintesi del lavoro dei diversi tavoli è stata presentata alla Regione Lombardia in un “Documento di programmazione negoziata della provincia di Pavia”. Sulla base del Documento sono state definite nella Cabina di Regia le priorità contenute in un Protocollo di intesa sottoscritto dalle parti sociali nel dicembre del 1999.

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6.3 Spunti per una classificazione: formale/informale; particolaristico/ strategico Le esperienze di concertazione territoriale restituite sinteticamente nel paragrafo precedente e più in generale quelle elencate nella Tabella 1, costituiscono un campione rappresentativo, per varietà e articolazione territoriale, delle esperienze “dal basso” attivate nel contesto regionale lombardo. Come già accennato, si tratta di esperienze molto diverse per grado di maturazione del processo decisionale, intenzioni e strategie degli attori, affetti attesi e inattesi, potenziali e reali. Non è possibile in questo contesto proporre una analisi approfondita delle singole esperienze e della loro efficacia. L’analisi svolta consente in questa fase di proporre alcune ipotesi di ordinamento delle diverse esperienze in base a una serie di variabili concettuali, che evidenziano in forma polarizzata (e dunque necessariamente estremizzata) i confini del campo di queste pratiche concertative. Ciascuna delle coppie concettuali proposte più sotto va intesa come un continuum, entro il quale collocare le esperienze concrete. La “spinta”: occasioni esogene vs promozione “endogena” In molti casi l’avvio del processo concertativo è determinato dalla presenza di “occasioni” legate alla possibilità di attivare risorse comunitarie o nazionali, legate a situazioni di crisi e/o ristrutturazione dei tessuti produttivi locali (crisi di grandi imprese e presenza di grandi aree industriali dismesse; attivazione di grandi progetti infrastrutturali quali Malpensa 2000; presenza di aree Obiettivo 2 e Obiettivo 5b; di aree di crisi ex lege 236/1993; di aree nelle quali è possibile attivare specifici programmi comunitari di sostegno a settori produttivi in crisi, etc..). La “spinta” esogena costituisce un forte principio di mobilitazione sia da parte degli attori pubblici (e in particolare di enti locali sempre meno autonomi dal punto di vista finanziario), sia da parte degli attori privati. La “spinta” esogena sembra presente nella maggior parte dei casi considerati, sia nelle aree “marginali” (le comunità e i contesti montani), sia nelle zone di antica industrializzazione (asse del Sempione, Nord Milano, Crema, Valsassina). In qualche situazione, tuttavia, la concertazione sembra emergere da una forte promozione “endogena”, legata alla necessità di affermazione della propria identità territoriale (è il caso della Brianza milanese) o di un ruolo di coordinamento tra azioni e contesti differenziati (è il caso della concertazione provinciale a Pavia). La promozione: ente pubblico vs promotore privato In una varietà di situazioni il promotore è un Ente locale (è il caso delle Provincie di Pavia, Como, Brescia, Varese, della stessa provincia di Milano, di alcune Comunità montane e di alcuni comuni leader: Sesto San Giovanni, Crema, Varese, i principali comuni della Brianza). Limitato appare il ruolo di promozione diretta delle CCIAA, che non sembrano rivestire un ruolo centrale in questi processi (con l’eccezione parziale del caso cremasco). Vi sono poi aree in cui un ruolo di promozione molto forte è assunto dalle parti sociali: organizzazioni sindacali (Brianza, Crema, Alto Milanese) e associazioni imprenditoriali, soprattutto dell’industria, della Pmi e dell’artigianato (esperienze localizzate nella provincia di Varese, ancora la Brianza). Non sembrano esservi differenze radicali nei casi in cui il promotore è un ente locale da quelle in cui un ruolo centrale è svolto dalle parti sociali, soprattutto quando le pratiche di concertazione assumono le regole e i vincoli delle procedure previste per la

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programmazione negoziata. In qualche contesto (per esempio il Nord Milano), la promozione dell’iniziativa di concertazione è assunta dalle stesse Agenzie di sviluppo che sono in parte risultato di politiche e programmi di sviluppo locale. La leadership: già esistente o in via di costruzione Il problema della leadership è decisivo nella definizione di pratiche di concertazione, soprattutto per dare corpo in termini di azioni operative alle decisioni concertate. Alcune esperienze evidenziano la presenza di leadership forti, riconosciute , già presenti prima dell’avvio del processo, che in molti casi coincidono con l’attivatore della concertazione (è il caso di amministrazioni, ma anche di parti sociali). Nella maggioranza delle realtà (Varese, provincia di Pavia, Alto Milanese Como-Valtellina), tuttavia, l’affermazione di una leadership riconosciuta e legittimata nel processo è un esito (eventuale) del processo stesso. Non è un caso che molto spesso i tavoli di concertazione presentano una operatività ridotta e una forte conflittualità: l’assunzione di un ruolo di leader di una coalizione stabile di sviluppo può essere una posta in gioco. La gestione: tavoli di concertazione vs agenzie Un ulteriore elemento di differenziazione tra i casi è relativo alla gestione effettiva del processo concertativo e delle politiche concordate, gestione che è in parte indipendente (ma ovviamente influenzata) da quanto previsto dalle deliberazioni del CNEL relative all’animazione dei patti territoriali e all’individuazione del soggetto attuatore. In una varietà di situazioni (patto territoriale ALBAVAL, concertazione nella Brianza milanese, patto provinciale a Pavia, patto OGMA) il tavolo di concertazione ha assunto un ruolo di gestione diretta delle politiche e del processo. In molti altri casi gli attori che hanno svolto un ruolo di gestione operativa e di fine tuning tra le strategie e i progetti dei diversi attori sono state invece le Agenzie preesistenti (Secas in Valcamonica, Euroimpresa nell’Alto milanese, ASNM nel Nord Milano) o costruite in relazione al processo di concertazione (Reindustria a Crema). Laddove hanno prevalso i tavoli si è spesso invocata la definizione di strumenti operativi e gestionali più efficaci; laddove il ruolo assunto dalle Agenzie è stato prioritario, spesso sono emerse critiche di legittimazione e rappresentatività da parte degli attori sociali e degli stessi enti locali (anche quando direttamente soci delle società di sviluppo). La missione: accesso ai finanziamenti vs strutturazione del policy network locale Dal punto di vista della missione prioritaria, sono stati prevalenti i processi concertativi che si sono proposti l’accesso a fonti di finanziamento, sia attraverso l’acquisizione direttamente legata allo strumento di concertazione e programmazione attivato, sia attraverso la messa a fuoco di progetti credibili su cui indirettamente trovare ulteriori risorse e finanziamenti. Ciò è accaduto anche se in Lombardia le possibilità di accesso ai fondi della programmazione negoziata sono estremamente limitati, e comunque posti dipendenti dalla presenza di altre fonti finanziarie italiane e internazionali. In un numero limitato di casi (certamente nel Piano strategico del Nord Milano, ma anche in situazioni come il Patto territoriale OGMA), il processo si è invece esplicitamente proposto di “porre a sistema” attori, progetti e politiche e strutturare il policy network locale, secondo un approccio più legato alla definizione di quadri di significato condivisi e alla costruzione di una coalizione locale di sviluppo.

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I confini: costruzione di identità territoriale vs riconoscimento di identità già precostituite La perimetrazione delle iniziative di concertazione è stata orientata da logiche assai diverse. In molte situazioni i confini sono stati determinati dalla necessità di riconoscere e valorizzare una identità non assunta dai confini amministrativi (è il caso dei Patti in aree montane o della Brianza milanese). In altre, il processo di costruzione di confini è stato più esplicitamente influenzato dalle politiche pubbliche e dalle loro perimetrazioni (Crema, Nord Milano). Tuttavia, anche in queste situazioni , soltanto alcune esperienze si sono esplicitamente poste l’obiettivo di costruire identità territoriali riconoscibili, e dunque anche sistemi di relazioni cooperative e competitive con altri sistemi territoriali. In qualche caso, le perimetrazioni amministrative (provincia di Pavia) o costruite “via politiche” non sono state assunte come opportunità per costruire quadri di senso per l’azione, ma come vincoli che hanno reso più faticoso il processo concertativo. Le forme di istituzionalizzazione: assetti istituzionali “stretti” o “larghi” Le forme di istituzionalizzazione delle diverse esperienze sono state le più diverse, collocandosi lungo un continuum che va dalla informalità del tavolo di concertazione della Brianza alla formalizzazione delle procedure fissate per legge e previste dalle Delibere CIPE sui patti territoriali. Al di là del grado di formalizzazione, le pratiche di istituzionalizzazione sono state in alcuni casi molto aperte, sia nella permeabilità ai processi sociali in atto, sia nel grado di partecipazione al tavolo concertativo; in altri casi assai chiuse, concentrando l’attenzione su un numero limitato di problemi e dunque di attori. Le azioni: il parco progetti già esistente vs il “progetto strategico” La definizione e l’implementazione delle concrete azioni intraprese sulla base dei processi di concertazione territoriale hanno nei diversi contesti gradi di maturazione così differenziati da rendere difficile una comparazione. In termini generali si può distinguere tra situazioni nelle quali la concertazione territoriale propone (e spesso ripropone “tirandoli fuori dal cassetto”) progetti (soprattutto di natura infrastrutturale) appartenenti a un parco già esistente, con l’esplicito obiettivo di trovare finanziamenti a programmi già in precedenza individuati dai diversi attori, e quelle (molto più rare) in cui le azioni sono prevalentemente nuove o comunque riprogettate nel quadro di un unico progetto di carattere strategico. Nel primo caso (si assuma come esempio l’elenco dei progetti viabilistici presentati nei diversi patti territoriali) la capacità di innovazione e apprendimento è certamente più limitata, in quanto la concertazione propone semplicemente di accostare ed eventualmente coordinare iniziative già presenti sul tavolo. Nel secondo caso la progettualità locale è sfidata e messa alla prova in un quadro di coerenze e a partire da alcune idee che assumono il carattere del frame startegico. Per tentare di riassumere in un unico schema l’insieme delle coppie concettuali precedentemente utilizzate per ordinare e interpretare le diverse esperienze in corso, è forse possibile provare a collocare i singoli casi lungo due assi: ��lungo il primo asse viene rappresentato il grado di “orientamento strategico”

dell’esperienza, sotto il profilo della capacità di assumere come missione non solo l’acquisizione di finanziamenti, ma anche la strutturazione di una coalizione locale di sviluppo e dunque di assumere un atteggiamento coerentemente progettuale. In questo

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asse il continuum andrà da esperienze “reattive” e costruite in relazione a specifiche “occasioni”, caratterizzate in senso particolaristico, che privilegiano filiere “verticali” di relazione (con i livelli istituzionali più elevati, soprattutto in termini di richieste di fondi e risorse) ad esperienze di tipo “strategico”, più orientate in termini di costruzione di leadership locali e di legami “orizzontali” tra attori;

��lungo il secondo asse viene rappresentato il grado di istituzionalizzazione

dell’esperienza, sia dal punto di vista dell’assunzione delle procedure previste dalla legislazione per l’attivazione di strumenti di programmazione negoziata, sia sotto il profilo dell’apertura del processo decisionale e dunque della flessibilità e della capacità di apprendimento dal punto di vista delle pratiche istituzionali di coordinamento e gestione della concertazione. In questo asse il continuum andrà da livelli bassi di istituzionalizzazione (ma alti di “apertura “ e flessibilità) a livelli alti di istituzionalizzazione (ma bassi di “apertura” e flessibilità).

Una possibile collocazione di alcune delle esperienze lungo il sistema di assi individuato è rappresentato nella successiva Tabella 2. Naturalmente si tratta soltanto di un esercizio, che dovrebbe essere sostenuto e verificato a partire da più approfondite analisi empiriche.

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Tavola 2 –Un criterio di ordinamento per i casi di concertazione territoriale in Lombardia Patto per lo sviluppo Pavia

Istituzionalizzazione “flessibile” (aperta) Piano Strategico Concertazione territoriale Brian

Orientamento particolaristico “verticale” PT ALBAVAL PT Sebino-Valcamonica-Valcavallina

PT OGMA PT Alto Milanese CoIstituzionalizzazione “forte” (chiusura)

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7. CONCLUSIONI 7.1. Una nuova arena per le politiche pubbliche. La ricerca ha messo in rilievo come la programmazione negoziata e i suoi strumenti abbiano rappresentato la principale novità negli assetti istituzionali e nelle politiche pubbliche nell’ Italia degli anni Novanta. Solo in parte questo esito è stato il risultato di scelte intenzionali condotte da alcuni attori ( governo, parti sociali, istituzioni intermedie, Unione europea) nei rispettivi campi di azione. In particolare essa è stata sollecitata dalla crisi dei precedenti assetti politico-istituzionali, dalla necessità di concertazione consensuale per economizzare le risorse politiche e finanziarie, dal bisogno di rispondere a una domanda di autonomia e protagonismo proveniente - in modo spesso confuso- dai livelli di governo e dagli attori intermedi. Un ruolo importante di riconoscimento e legittimazione è venuto dall’Ue anch’essa alla ricerca di nuove forme di rappresentazione territoriale degli interessi e di nuove politiche che rispondessero all’ usura evidente delle tradizionali politiche regionali europee. Oggi comunque la programmazione negoziata non è più una delle diverse opzioni in campo, ma tende ad essere la nuova architettura di governance territoriale entro cui si inscrivono le azioni dei diversi attori. E’ un campo di azione entro il quale diversi attori - ciascuno dotato di propri interessi e risorse non meno che obbligato da vincoli- strutturano le proprie interazioni in vista di risultati attesi. Più in breve, si tratta del principale campo di interazione entro lo spazio locale. Ciascun attore partecipante dispone di un proprio "capitale", non solo economico ma simbolico e culturale, che tende a strutturarne la posizione e la disposizione in campo. La strategia degli attori non significa qui "avere un piano" o "avere un progetto" come fine da raggiungere esplicitamente. Ciò può avvenire, ma solo raramente. Anzi più spesso gli attori hanno strategie che non hanno al principio una vera "intenzione strategica", ma una anticipazione, protensione o preoccupazione20 che li spinge ad agire. Sono queste - non collocate in un futuro astratto ma in un "quasi presente"- le ragioni pratiche degli attori. La ricerca ha permesso di ricostruire nel caso della Lombardia una concreta mappa di attori e gli "interessi al patto" che li spingono ad agire. 7.2 La costruzione della visione territoriale: un problema irrisolto. La principale istituzione intermedia, quella regionale, è comparsa come ultimo attore sulla scena della programmazione negoziata. Paradosso solo apparente, se si considera che nelle nuove articolazioni della governance territoriale lo sviluppo competitivo sembra essere largamente segnato da attori, sia pubblici che privati, di livello essenzialmente sub-regionale. Città e sistemi urbani, distretti industriali, sistemi locali di sviluppo sono stati i veri protagonisti della “riemergenza delle economie regionali” degli anni Novanta: molto più che le “Regioni amministrative”. Anche in Italia, ma non solo in Italia: si pensi al vicino caso francese, a quello spagnolo, a quello stesso caso tedesco in cui pure il Land, vero stato regionale, rappresenta un modello di federalismo competitivo non meno che cooperativo. 20P. Bourdieu, Ragioni pratiche, Il Mulino 1995.

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Questo ritardo nella comparsa della Regione sulla scena della nuova programmazione risulta confermata dal caso lombardo. Di questo ritardo occorre dare qui una valutazione che sfugga alle mere considerazioni contingenti di ordine politico - ad esempio riconducibili alla diffidenza verso la programmazione negoziata da parte di una Regione amministrata da forze politiche che sono all’opposizione del governo nazionale. La programmazione regionale ha in primo luogo accumulato ritardi nella stessa definizione degli strumenti di governance territoriale. Il principale di essi, rappresentato dai piani regionali di sviluppo, non ha quasi mai rappresentato molto di più che un artificio programmatorio, del tutto privo di visione territoriale prima ancora che di strumenti di implementazione. La stessa possibilità di fare del PRS un piano strategico - sostenuta anche in Lombardia da alcuni documenti pur di buona qualità come lo studio IRER dei primi anni Novanta- è stata archiviata prima ancora di poter essere discussa ed è rimasta una pura opzione di principio da parte di alcuni esperti. All’opposto quello che è emerso nel corso degli anni Novanta è stata una concezione della “progettazione strategica” regionale come esercizio esclusivamente “settoriale” e “verticale” di policy. Una chiara esplicitazione della progettazione strategica settoriale è presente nei documenti elaborati dalla Presidenza della Giunta Regionale, sottoposti alle sedi di concertazione a partire dal 1998. Come appare dalla ricerca, si è trattato di discussioni relative a issues sempre e solo di natura settoriale; una articolata ricostruzione del funzionamento del Patto per lo Sviluppo, condotta nel § 5, sta a evidenziare come la categoria più pertinente per valutare questa prassi sia (lindblomianamente) quella di incertementalismo sconnesso. La fissazione dell’agenda segue puntualmente uno schema settoriale, come è d’altra parte proprio della tradizione di policy making sia nelle relazioni con lo Stato centrale - negoziazione delle poste in gioco tra Regioni e singoli ministeri ancorata a issues conflittuali di tipo largamente distributivo - che con le realtà territoriali locali - come risposta a mobilitazioni particolaristiche e sconnesse degli interessi di livello territoriale. La incapacità di costruzione della visione territoriale fa riferimento qui alla incapacità di definizione dell'obiettivo comune che rappresentava la nostra seconda variabile di ricerca. La ricerca si proponeva di verificare se l'obiettivo comune -inteso come un certo bene collettivo atteso da parte di una comunità regionale- fosse più o meno l'esito di una somma di punti di vista e di interessi di ciascun attore o di una visione territoriale comune prodotta dall'interazione (e in certi casi favorita da preesistenti culture condivise). Una ricostruzione storico-empirica del territorio lombardo, secondo le categorie della "comunità di policy" o del sistema "market-led", più o meno caratterizzato da fattori di reciprocità, densità di relazioni e tracce di comunità21 che ne cementano la identità comune o al contrario segnato dalla prevalenza di interazioni di mercato - nel senso di mercato sia “economico” che “politico”- non era oggetto della presente ricerca. Basterà però ricordare che la questione della costruzione della visione territoriale è oggi caratterizzata nelle regioni europee dalla ricerca attenta della costruzione di identità condivise (come è evidente in regioni “partners” della Lombardia come la Catalogna , la Rhone-Alpes o il Baden Wuerttemberg; tutti casi in cui la forza delle politiche di pianificazione strategica è associabile a identità regionali forti sia naturali che costruite artificialmente). Ma la ricostruzione condotta nel § 6 sembra confermare nel caso della Lombardia la prevalenza di orientamenti e stili di policy di tipo reattivo (cioè di reazione a spinte e sollecitazioni occasionali e frammentate) rispetto a quelle di tipo strategico (che 21A. Bagnasco, Tracce di comunità, Il Mulino 1999.

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sono caratterizzate da approcci e stili anticipativi e orientati da “rational problem solving”). 7.3. Un’agenda per la programmazione negoziata regionale e sub-regionale. La ricerca ha potuto così mostrare come la programmazione negoziata sia stata sollecitata in Lombardia o da variabili “esogene” (essenzialmente la definizione di una cornice intersettoriale e intergovernativa proposta dalla intesa istituzionale di programma con il governo nazionale); o da fattori “endogeni” ( nel senso che sistemi locali sub-regionali possono aver innescato innovazioni condivise dagli attori e di qui -seguendo una spirale- una visione comune). La ricostruzione del processo di programmazione negoziata si intreccia qui con l'ipotesi che un processo di istituzionalizzazione sia in corso: cioè22 il processo tramite il quale organizzazioni e procedure acquistano validità e stabilità. L'ipotesi che la programmazione negoziata inneschi un processo di istituzionalizzazione di questo tipo può essere discussa usando alcuni indicatori quali:

• numero e frequenza delle riunioni tra gli attori della programmazione negoziata • tipo di problemi e obiettivi trattati quali emergono dall'agenda • numero e tipi di attori presenti, esistenza o meno di un "regista", livello degli

attori rappresentati • creazione o meno di strutture ad hoc per la programmazione • creazione o meno (in alcuni casi come eredità e rifunzionalizzazione di strutture

preesistenti) di strutture di gestione territoriali del tipo società di gestione partenariale, società per azioni, consorzi, fondazioni o altri enti no-profit, agenzie di sviluppo e marketing territoriale

• creazione di procedure, cioè di nuove routines e regole tecniche per il trattamento di problemi, che pur non configurando l'emergere di nuove istituzioni possono indicare un grado di istituzionalizzazione anche formale della programmazione negoziata

• creazione di occasioni di comunicazione e di confronto con il territorio, quali forums, assemblee o altre sedi di ascolto, che possono svolgere un ruolo importante di marketing interno e di diffusione delle strategie condivise

• creazione di occasioni di apprendimento, dalla semplice interazione cha ha come sotto-prodotto una miglior reciproca conoscenza e di qui una più facile propensione al reciproco adattamento, sino a forme più complesse di “mutual learning” (apprendimento reciproco collettivo) e perfino di “learning by monitoring” ( l'apprendimento mediante monitoraggio da parte di certi livelli istituzionali sui comportamenti di altri attori, che permette ai primi la conoscenza dei saperi che tali attori detengono).

Un capitolo importante della programmazione negoziata è naturalmente, escludendo ogni visione armonica, quello dei conflitti come fattori essenziali di strutturazione del campo23. I conflitti che si siano verificati nel processo, le forme da essi assunte, il trattamento cui

22S. Huntington, Ordinamento politico e mutamento sociale, Il Mulino 1975. 23A.O. Hirschman, I conflitti come pilastri della società democratica a economia di mercato, "Stato e mercato", 2, 1994.

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siano stati sottoposti, gli esiti che possano aver interagito sulla situazione strutturale di partenza fanno parte di questo discorso. Nel corso della programmazione negoziata si assume che gli obiettivi siano costantemente definiti e ridefiniti. Al centro della programmazione negoziata sta infatti l’idea che l’amministrazione e le politiche pubbliche rinuncino (per così dire) a predefinire sia i problemi che le soluzioni, e li sottopongano a un processo di costruzione congiunta con gli altri attori. Ciò avviene sia perchè la programmazione negoziata è un campo negoziale entro cui processi di avvicinamento, di elisione, di compromesso e di messa a fuoco degli obiettivi si succederanno in base alle dinamiche dell'azione organizzata; sia perchè nuove issues (questioni controverse) strategiche possono essere poste in gioco; sia perchè eventi esogeni possono entrare a modificare il quadro di partenza, imporre trade-off ecc. Una definizione degli obiettivi sarà comunque l'esito- eventualmente provvisorio- del processo negoziale stesso. Tali obiettivi potranno essere classificati sulla base di una tipologia che includa almeno:

• il grado di complessità • i costi • la natura di ciascun obiettivo.

Il finanziamento e la messa in opera rappresentano due capitoli essenziali da esplorare nell’ottica della istituzionalizzazione della programmazione negoziata. Dalla nostra ricerca emerge una evidente sperequazione tra eccesso di dipendenza da risorse esterne e debolezza dei processi di implementazione. In altri termini gli attori sono mossi dalla ricerca di occasioni di finanziamento esterno ( statale, europeo, regionale) mentre si preoccupano assai poco della messa in opera dei progetti. Il concorso di diverse fonti di finanziamento, pubbliche e private, l'entità, le procedute tecniche, il ruolo delle istituzioni creditizie e degli organi tecnici (cd. bancabilità dei progetti) sono perciò elementi da indagare per comprendere la dislocazione degli attori, i loro gradi di opportunismo, il tipo di coerenza con il "bene collettivo". Ad esempio un concorso significativo del capitale privato anzichè una evidente e piena dipendenza dall’attrazione di risorse esterne, una forte concentrazione su alcuni progetti-chiave o viceversa una loro accentuata frammentazione, la prevalenza di fattori hard o soft nella promozione dello sviluppo locale, sono tutti indicatori che permettono di valutare più accuratamente la natura della programmazione negoziata. La messa in opera rappresenta un capitolo a sè, in quanto dal momento in cui la decisione è presa si apre una nuova fase del processo, quella delle strutture di implementazione, di cui sono noti i dilemmi, i problemi sia vecchi che nuovi, le incoerenze rispetto alla fase di progettazione. In questa fase entrano in campo più decisamente gli attori del "campo burocratico" -statale e regionale- ciascuno con proprie logiche di azione, sistemi di interesse ecc. e i relativi conflitti. La durata del processo, la sua complessità, la eventuale retroazione sugli obiettivi definiti, sui progetti esecutivi, ecc. rendono questa fase altamente problematica. Emergono qui anche le contraddizioni tra programmazione negoziata e assetto istituzionale - centrale e

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locale- e i prevedibili conflitti tra interessi e visioni dell'assetto istituzionale dato e quelli “nuovi” introdotti dalla programmazione negoziata. Si tratta non solo di conflitti centro-periferia, ma di conflitti tra i diversi attori centrali ( attori governativi e istituzionali, attori sociali) e tra diversi attori locali (Regione, attori d'area, agenzie di sviluppo, associazioni degli interessi ecc.). In altri termini si tratta di conflitti tipici della governance multi-livello24 in cui le politiche di programmazione negoziata sono inscritte. E' questo un aspetto per nulla secondario del processo che abbiamo prima definito di "istituzionalizzazione". Una ricerca futura potrà essere così orientata in due direzioni: - una di tipo comparativo, che metta a confronto Lombardia e altre regioni italiane ed europee lungo le linee qui richiamate e consenta di ipotizzare momenti di confronto, di assimilazione di buone pratiche altrove sperimentate anche tenendo conto degli effetti di isomorfismo istituzionale - una di tipo valutativo, che permetta di effettuare un monitoraggio in itinere dei principali assi della programmazione negoziata e che accompagni criticamente gli attori nella difficile ricerca della costruzione di una nuova architettura di governance territoriale.

24F. Scharpf, The Problem-Solving Capacity of Multilevel Governance,IUE 1997, trad.it. Governare l'Europa, Il Mulino 1999.

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