Ordinanze della Corte Costituzionale sull’applicazione del Titolo V...

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Ordinanze della Corte Costituzionale sull’applicazione del Titolo V della Costituzione così come modificato dalla Legge Costituzionale n.3 del 2001. Ord 11-07-2002, n. 420 Ord 10-07-2002, n. 412 Ord 10-07-2002, n. 386 Ord 10-07-2002, n. 383 Ord 10-07-2002, n. 382 Ord 10-07-2002, n. 380 Ord 10-07-2002, n. 377 Ord 10-07-2002, n. 358 Ord 08-07-2002, n. 352 Ord 08-07-2002, n. 351 Ord 08-07-2002, n. 339 Ord 19-06-2002, n. 302 Ord 05-06-2002, n. 248 Ord 05-06-2002, n. 247 Ord 05-06-2002, n. 246 Ord 05-06-2002, n. 245 Ord 03-06-2002, n. 235 Ord 03-06-2002, n. 230 Ord 22-05-2002, n. 228 Ord 06-05-2002, n. 182 Ord 06-05-2002, n. 179 Ord 24-04-2002, n. 166 Ord 24-04-2002, n. 165 Ord 24-04-2002, n. 162 Ord 24-04-2002, n. 157 Ord 11-04-2002, n. 144 Ord 11-04-2002, n. 141 Ord 10-04-2002, n. 117 Ord 08-04-2002, n. 96 Ord 01-03-2002, n. 85 Ord 01-03-2002, n. 80 Ord 28-02-2002, n. 76 Ord 28-02-2002, n. 73 Ord 28-02-2002, n. 72 Ord 28-02-2002, n. 65 Ord 27-02-2002, n. 60 1

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Ordinanze della Corte Costituzionale sull’applicazione del Titolo V della Costituzione così come modificato dalla Legge Costituzionale n.3 del 2001.

Ord 11-07-2002, n. 420 Ord 10-07-2002, n. 412 Ord 10-07-2002, n. 386 Ord 10-07-2002, n. 383 Ord 10-07-2002, n. 382 Ord 10-07-2002, n. 380 Ord 10-07-2002, n. 377 Ord 10-07-2002, n. 358 Ord 08-07-2002, n. 352 Ord 08-07-2002, n. 351 Ord 08-07-2002, n. 339 Ord 19-06-2002, n. 302 Ord 05-06-2002, n. 248 Ord 05-06-2002, n. 247 Ord 05-06-2002, n. 246 Ord 05-06-2002, n. 245 Ord 03-06-2002, n. 235 Ord 03-06-2002, n. 230 Ord 22-05-2002, n. 228 Ord 06-05-2002, n. 182 Ord 06-05-2002, n. 179 Ord 24-04-2002, n. 166 Ord 24-04-2002, n. 165 Ord 24-04-2002, n. 162 Ord 24-04-2002, n. 157 Ord 11-04-2002, n. 144 Ord 11-04-2002, n. 141 Ord 10-04-2002, n. 117 Ord 08-04-2002, n. 96 Ord 01-03-2002, n. 85 Ord 01-03-2002, n. 80 Ord 28-02-2002, n. 76 Ord 28-02-2002, n. 73 Ord 28-02-2002, n. 72 Ord 28-02-2002, n. 65 Ord 27-02-2002, n. 60

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Ord 27-02-2002, n. 60 Ord 11-02-2002, n. 26 Ord 16-01-2002, n. 14 Ord 16-01-2002, n. 13 Ord 16-01-2002, n. 9 Ord 19-12-2001, n. 444 Ord 03-12-2001, n. 416 Ord 03-12-2001, n. 397 Ord 22-11-2001, n. 382 Ord 06-11-2001, n. 362

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Ord. 11 luglio 2002, n. 420

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 1 febbraio 2000, n. 4 (Norme per la disciplina delle attività turistiche di accompagnamento), promosso con ordinanza emessa il 19 dicembre 2001 dal T.A.R. per l'Emilia-Romagna sul ricorso proposto da Aldrovandi Andrea ed altri contro la Regione Emilia-Romagna, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2002. Visti gli atti di costituzione di Aldrovandi Andrea ed altri e della Regione Emilia-Romagna; udito nell'udienza pubblica del 9 luglio 2002 il Giudice relatore Fernanda Contri; uditi l'avvocato Francesco Fabbri per Aldrovandi Andrea ed altri e l'avvocato Franco Mastragostino per la Regione Emilia-Romagna. Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, sede di Bologna, sezione seconda, con ordinanza che dagli atti risulta deliberata nella camera di consiglio del 29 marzo 2001 ma depositata il 19 dicembre 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione - nella formulazione antecedente la sostituzione di detto articolo, operata con l'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 -, dell'art. 2, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 1 febbraio 2000, n. 4 (Norme per la disciplina delle attività turistiche di accompagnamento), limitatamente all'inciso "ambienti montani"; che il giudice a quo - investito dell'esame di un ricorso per l'annullamento della delibera della Giunta regionale dell'Emilia-Romagna avente ad oggetto l'organizzazione di una sessione speciale di esami per conseguire l'abilitazione di guida ambientale-escursionistica nella Regione, nonché del relativo bando di concorso - dubita della legittimità costituzionale della norma censurata che consente alla nuova figura professionale della guida ambientale-escursionistica di condurre persone singole o gruppi in visita anche ad "ambienti montani", sebbene con l'esclusione di percorsi di particolare difficoltà, in quanto detta norma si porrebbe in contrasto con i principi fondamentali posti nella legge statale 2 gennaio 1989, n. 6, che, all'art. 2, riserva alle sole guide alpine l'attività di accompagnamento di persone in escursioni di montagna; che il giudice rimettente sottolinea che la legge statale n. 6 del 1989, nello stabilire i principi fondamentali per la legislazione regionale in materia di ordinamento della professione di guida alpina, prescrive, all'art. 2, comma 1, che essa "svolge professionalmente (~) le seguenti attività: a) accompagnamento di persone in ascensioni sia su roccia che su ghiaccio o in escursioni di montagna (~)" e, all'art. 2, comma 2, che "lo svolgimento a titolo professionale delle attività di cui al comma 1, su qualsiasi terreno e senza limiti di difficoltà (~) è riservato alle guide alpine abilitate all'esercizio professionale e iscritte nell'albo professionale delle guide alpine (~) salvo quanto disposto dagli artt. 3 e 21"; che la normativa statale-quadro sancirebbe, dunque, una riserva in favore della figura professionale predetta per le attività di accompagnamento negli ambienti naturali sopra indicati; che nel giudizio davanti a questa Corte si è costituita la parte ricorrente, per chiedere la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata;

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che la difesa della parte privata insiste per l'accoglimento della questione rilevando, fra l'altro, che la guida ambientale-escursionistica, alla quale la norma censurata riconosce la possibilità di accompagnamento "in ambienti montani" di persone singole o gruppi, esula dal novero dei professionisti abilitati a tale tipo di accompagnamento; che la norma censurata consentirebbe di fatto alle guide ambientali escursionistiche di praticare attività che integrano l'esercizio della professione di guida alpina, attività per le quali è prevista, in mancanza di idonea abilitazione, l'applicazione dell'art. 18 della legge n. 6 del 1989 che richiama l'art. 348 del codice penale, in tema di esercizio abusivo della professione di guida alpina; che si è costituita altresì la Regione Emilia-Romagna, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata; che, nella memoria presentata in prossimità dell'udienza, la Regione Emilia-Romagna ha rilevato, anzitutto, che la intervenuta revisione dell'art. 117 della Costituzione ad opera della legge costituzionale n. 3 del 2001 rende inevitabile la restituzione degli atti al giudice a quo, affinché valuti nuovamente la non manifesta infondatezza e la rilevanza della questione; che la Regione sostiene inoltre che l'individuazione e la fissazione dei criteri e requisiti riguardanti le figure professionali che intendono operare nel settore del turismo rientrino nell'ambito della disciplina attinente alle attività turistiche, che sarebbe oggi di "sicura e compiuta spettanza regionale", alla luce della nuova formulazione dell'art. 117 della Costituzione; che il termine di paragone sarebbe, quindi, radicalmente mutato e non più rappresentato dal "principio di ripartizione tra legislazione statale-quadro e legislazione regionale" posto dall'art. 117, primo comma, della Costituzione nella formulazione antecedente la revisione operata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, con la conseguenza che la questione dovrebbe essere ritenuta, allo stato, inammissibile; che, in ogni caso, la questione sarebbe, a giudizio della Regione, palesemente infondata, in quanto la legge regionale censurata garantirebbe il rispetto dei distinti ambiti di competenza in cui è previsto debbano operare le guide alpine, essendo precluso alla guida ambientale-escursionistica l'accompagnamento di persone singole o gruppi con riferimento a "percorsi di particolare difficoltà, posti su terreni innevati e rocciosi di elevata acclività" ed in ogni caso a percorsi "che richiedono l'uso di attrezzature e tecniche alpinistiche, con l'utilizzo di corda, piccozza e ramponi"; che la suddetta preclusione garantirebbe il rispetto della riserva posta dalla legge statale n. 6 del 1989 a favore delle guide alpine, legata all'esigenza di "prevedere adeguate garanzie di preparazione tecnica e professionale a tutela dell'incolumità degli alpinisti"; che, viceversa, la figura della guida ambientale-escursionistica, orientata all'approfondimento dell'aspetto naturalistico e didattico di supporto alla scuola, rientrerebbe tra le figure professionali del turismo, senza che si abbia alcuna sovrapposizione con l'ambito riservato a chi è professionalmente preposto a tutelare la predetta esigenza di sicurezza degli alpinisti; che la questione proposta sarebbe oltretutto infondata sotto un altro profilo, in quanto in caso di accoglimento si consentirebbe ad un limitato gruppo di soggetti abilitati di conservare una posizione di monopolio per le visite in "ambiente montano", senza che ciò trovi giustificazione alcuna in relazione alle ben diverse esigenze rappresentate dalla legge regionale, e, peraltro, con riferimento ad un territorio regionale caratterizzato da limitate peculiarità montane in senso stretto, essendo il paesaggio appenninico connotato da prevalenti caratteri di dolcezza e da sicura percorribilità degli itinerari. Considerato che la questione di legittimità costituzionale relativa all'art. 2, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 1 febbraio 2000, n. 4 (Norme per la disciplina delle attività turistiche di accompagnamento), è stata sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, sede di Bologna, sezione seconda, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, nella formulazione

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antecedente la sostituzione di detto articolo, operata con l'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3; che l'ordinanza di rimessione, pur essendo stata deliberata in una data anteriore (29 marzo 2001) all'entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, è stata depositata il 19 dicembre 2001, ovvero dopo l'entrata in vigore della suddetta legge costituzionale; che, nonostante la suddetta legge costituzionale sia entrata in vigore anteriormente alla data dell'ordinanza di rimessione, essa non risulta presa in considerazione dal giudice rimettente; che in mancanza di ogni argomentazione al riguardo nell'ordinanza di rimessione la questione sollevata deve pertanto essere dichiarata manifestamente inammissibile. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 1 febbraio 2000, n. 4 (Norme per la disciplina delle attività turistiche di accompagnamento), sollevata, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione - nella formulazione antecedente la sostituzione di detto articolo, operata con l'art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 -, dal Tribunale amministrativo per l'Emilia- Romagna, sede di Bologna, sezione seconda, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2002.

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Ord. 10 luglio 2002, n. 412

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art.56, commi 1 e 6, della legge della Regione Calabria 3 ottobre 1997, n. 10 (Norme in materia di valorizzazione e razionale utilizzazione delle risorse idriche e di tutela delle acque dall'inquinamento. Delimitazione degli ambiti territoriali ottimali (A.T.O.) per la gestione del servizio idrico integrato), promosso con ordinanza datata 10 ottobre 2001 e depositata il 28 novembre 2001 dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria - sezione staccata di Reggio Calabria sul ricorso proposto da Latella Santo ed altri contro il Comune di Reggio Calabria ed altre, iscritta al n. 75 del registro delle ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell'anno 2002. Visti gli atti di costituzione di Telecom Italia S.p.a. ed altra; Udito nell'udienza pubblica del 9 luglio 2002 il Giudice relatore Riccardo Chieppa; Ritenuto che, nel corso di un giudizio promosso per ottenere l'annullamento dell'autorizzazione rilasciata il 30 aprile 1998 dal dirigente dell'Ufficio pianificazione territoriale del Comune di Reggio Calabria alla S.p.a. Telecom Italia per l'installazione di «un palo metallico con annesso container per il servizio radiomobile», il Tribunale amministrativo regionale della Calabria - sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza datata 10 ottobre 2001 e depositata il 28 novembre 2001, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 9 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 56, commi 1 e 6, della legge della Regione Calabria 3 ottobre 1997, n. 10 (Norme in materia di valorizzazione e razionale utilizzazione delle risorse idriche e di tutela delle acque dall'inquinamento. Delimitazione degli ambiti territoriali ottimali (A.T.O.) per la gestione del servizio idrico integrato); che la questione era già stata sollevata dallo stesso Tar nel corso del medesimo giudizio, ma, con ordinanza n. 553 del 2000, questa Corte aveva ordinato la restituzione degli atti al giudice rimettente, per una nuova valutazione della rilevanza alla luce della sopravvenuta legge della Regione Calabria 24 maggio 1999, n. 14 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 1999 e pluriennale 1999/2001 della Regione Calabria - legge finanziaria), pubblicata nel Bollettino Ufficiale n. 54 del 24 maggio 1999, contenente modifiche alle norme denunciate (con soppressione, tra l'altro, della parola «telecomunicazioni»); che il giudice a quo ha riproposto la questione, ritenendone la perdurante rilevanza, in quanto il predetto ius superveniens, privo di efficacia retroattiva, non sarebbe applicabile nel giudizio, essendo entrato in vigore il 24 maggio 1999, in data successiva al provvedimento impugnato, che pertanto resterebbe disciplinato dalla norma censurata, nella sua formulazione originaria; che il Tar - richiamando la precedente ordinanza di rimessione - sottolinea, in particolare, la rilevanza della già sollevata questione di legittimità costituzionale, dovendosi fare applicazione in giudizio della norma denunciata ed essendo stati rigettati gli altri motivi del ricorso; che, nel merito, il Tribunale rimettente, sempre citando la precedente ordinanza, afferma che la norma censurata - nel consentire la realizzazione di antenne di rilevante impatto edilizio, urbanistico e funzionale con una mera autorizzazione e senza tenere conto della destinazione di zona prevista dal piano regolatore generale - porrebbe «una deroga, del tutto arbitraria, ai principi affermati dalla legislazione statale in materia di pianificazione urbanistico-ambientale e di governo del territorio», che impongono, invece, il rilascio di una concessione edilizia ed il rispetto della destinazione urbanistica; tanto più che, nella fattispecie (avente

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ad oggetto una antenna per la telefonia mobile, costituita da un traliccio alto 37 metri, connesso ad un container di metri 2,5 per 6 per 3 di altezza), sarebbero «potenzialmente incisi beni che godono di una speciale tutela nell'ordinamento, quali l'ambiente e le condizioni di vita dei cittadini»; che si sono costituite la S.p.a. Telecom Italia e la S.p.a. TIM - Telecom Italia Mobile, parti nel giudizio a quo, con due memorie di identico contenuto, chiedendo la declaratoria di inammissibilità o, in subordine, di infondatezza della questione, da un lato, in quanto l'invocata pronuncia di illegittimità costituzionale non potrebbe più incidere sul rapporto - sorto e disciplinato in base alla (abrogata) norma denunciata -, perché ormai definito con il rilascio dell'autorizzazione edilizia e con la materiale realizzazione dell'opera, e, d'altro lato, in quanto il rimettente non avrebbe motivato sulla permanente rilevanza della questione, a séguito dell'abrogazione della norma censurata. Considerato che la questione di legittimità costituzionale investe l'art. 56, commi 1 e 6, della legge della Regione Calabria 3 ottobre 1997, n. 10 (Norme in materia di valorizzazione e razionale utilizzazione delle risorse idriche e di tutela delle acque dall'inquinamento. Delimitazione degli ambiti territoriali ottimali (A.T.O.) per la gestione del servizio idrico integrato), nel testo anteriore alla modifica apportata dalla legge della Regione Calabria 24 maggio 1999, n. 14 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 1999 e pluriennale 1999/2001 della Regione Calabria - legge finanziaria); che le norme impugnate vengono censurate dal giudice a quo, in riferimento agli artt. 3, 9 e 117 della Costituzione, nella parte in cui consentono la realizzazione di opere pubbliche o di pubblico interesse relative a reti di telecomunicazioni di rilevante impatto edilizio, urbanistico e funzionale con una mera autorizzazione e senza tenere conto della destinazione di zona prevista dal piano regolatore generale; che, anteriormente al deposito dell'ordinanza di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione», il cui art. 3, tra l'altro, ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che il Tribunale rimettente, nonostante la vigenza della nuova disciplina al momento del deposito del provvedimento di rimessione, non ha motivato in ordine all'incidenza, sui termini della sollevata questione, dell'intervenuto mutamento di uno dei parametri costituzionali evocati (ordinanza n. 351 del 2002) ed ha anzi indicato quale momento della propria decisione una data anteriore all'entrata in vigore della citata legge costituzionale, richiamando altresì testualmente, per la concreta prospettazione delle censure, il contenuto di una sua precedente ordinanza di rimessione; che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale deve essere dichiarata manifestamente inammissibile. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 56, commi 1 e 6, della legge della Regione Calabria 3 ottobre 1997, n. 10 (Norme in materia di valorizzazione e razionale utilizzazione delle risorse idriche e di tutela delle acque dall'inquinamento. Delimitazione degli ambiti territoriali ottimali (A.T.O.) per la gestione del servizio idrico integrato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 9 e 117 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria - sezione staccata di Reggio Calabria, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Ord. 10 luglio 2002, n. 386

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 31 della legge della Regione Umbria 3 agosto 1999, n. 24 (Disposizioni in materia di commercio in attuazione del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114), promosso con ordinanza del 25 ottobre 2001 dal Giudice di pace di Foligno nel procedimento civile vertente tra la S.a.s. Brunozzi Angela e il Comune di Foligno, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2002. Visto l'atto di intervento della Regione Umbria; udito nella camera di consiglio del 19 giugno 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che nel corso di un giudizio di opposizione avverso un'ordinanza-ingiunzione proposto in base alla legge 24 novembre 1981, n. 689, il Giudice di pace di Foligno ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 41 e 117 della Costituzione, dell'art. 31 della legge della Regione Umbria 3 agosto 1999, n. 24 (Disposizioni in materia di commercio in attuazione del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114); che il giudice remittente - dopo aver osservato che la questione è rilevante perché «dalla sua soluzione dipende direttamente la legittimità del potere impositivo in forza del quale è stato emesso l'impugnato provvedimento» - rileva che l'art. 15 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, distingue le vendite straordinarie in vendite di liquidazione, vendite di fine stagione e vendite promozionali, delegando alla potestà normativa delle Regioni soltanto la regolazione dei primi due tipi di vendite, con esclusione di quelle promozionali; che, pertanto, essendo indiscutibilmente in corso una vendita promozionale, a suo dire non appare infondato il dubbio di legittimità costituzionale della norma impugnata, dovendosi ritenere che la regolazione di tale forma commerciale sia rimasta di competenza normativa dello Stato, sicché la norma regionale in questione andrebbe a violare entrambi i parametri costituzionali richiamati; che è intervenuta in giudizio la Regione Umbria, con articolata memoria difensiva, rilevando in rito l'inammissibilità e nel merito l'infondatezza della prospettata questione. Considerato che, successivamente alla proposizione della presente questione di legittimità costituzionale, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui articolo 3 ha totalmente modificato l'art. 117 Cost., invocato come parametro nel giudizio a quo; che, in considerazione di tale modifica che va ad innovare l'intero quadro normativo, si rende preliminarmente necessaria la restituzione degli atti al giudice remittente perché riesamini i termini della questione a suo tempo sollevata. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Giudice di pace di Foligno. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Ord. 10 luglio 2002, n. 383

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 65 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), e dell'art. 4 della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), promosso con ordinanza del 5 ottobre 2001 dal Tribunale di Roma, iscritta al n. 83 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 2002. Visti gli atti di costituzione di Ugo Sodano, di Simone Gargano, del Comune di Roma e della Regione Lazio nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 18 giugno 2002 il Giudice relatore Valerio Onida; uditi gli avvocati Andrea Guarino per Ugo Sodano, Federico Tedeschini e Piero Sandulli per Simone Gargano, Achille Chiappetti e Aldo Rivela per la Regione Lazio. Ritenuto che - nel corso di un giudizio promosso dal primo dei non eletti per sentire dichiarare la decadenza per incompatibilità dalla carica di un consigliere della Regione Lazio, candidatosi nella stessa lista elettorale del ricorrente, in quanto successivamente nominato assessore del Comune di Roma - il Tribunale di Roma, con ordinanza del 5 ottobre 2001, pervenuta a questa Corte il 29 gennaio 2002, ha sollevato, in riferimento agli articoli 5, 76 (quest'ultimo deducibile, anche se solo in maniera implicita, dal contesto della motivazione), 122 e 123 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 65 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), e dell'art. 4 della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale); che il remittente, esposto lo svolgimento del processo dinanzi a lui pendente, osserva che le norme denunciate prevederebbero l'incompatibilità della carica di consigliere regionale con quella di assessore di un Comune compreso nel territorio della Regione; che il giudice a quo ritiene l'art. 65 del D.Lgs. n. 267 del 2000, interpretato come norma di disciplina delle situazioni di incompatibilità ed ineleggibilità dei consiglieri regionali, costituzionalmente illegittimo, sia per invasione della sfera di autonomia riservata alle Regioni dall'art. 122 della Costituzione (il quale, nel testo risultante dalle modificazioni introdotte dall'art. 2 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, attribuisce alla legge regionale, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, la disciplina del sistema di elezione e dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali), sia per superamento dei limiti della delega legislativa conferita al Governo con l'art. 31 della legge 3 agosto 1999, n. 265 (in contrasto quindi con l'art. 76 della Costituzione); che anche l'art. 4 della legge n. 154 del 1981 violerebbe l'art. 122 della Costituzione; che nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti Ugo Sodano, ricorrente nel giudizio a quo, nonché Simone Gargano e la Regione Lazio, parti convenute nel giudizio medesimo, ed è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri;

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che la difesa di Ugo Sodano ha chiesto che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o (manifestamente) infondata; che la questione di costituzionalità avente ad oggetto l'art. 65 del D.Lgs. n. 267 del 2000 sarebbe inammissibile per irrilevanza, dato che questa norma, inserita nel testo unico sull'ordinamento degli enti locali, disciplinerebbe soltanto l'incompatibilità alla carica di consigliere comunale e provinciale; che l'unica disposizione applicabile sarebbe l'art. 4 della legge n. 154 del 1981, ma rispetto a quest'ultima disposizione il giudice remittente non avrebbe motivato le ragioni del presunto contrasto con l'art. 122 della Costituzione, contravvenendo all'obbligo di motivazione delle ragioni di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale; che, in ogni caso, la questione avente ad oggetto l'art. 4 della legge n. 154 del 1981 sarebbe manifestamente infondata: in primo luogo perché dalla norma transitoria dettata dall'art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999 si ricaverebbe che il legislatore costituzionale ha disposto il mantenimento in vita della legislazione statale vigente finché la Regione non abbia esercitato il potere normativo ad essa attribuito dal nuovo art. 122 della Costituzione; in secondo luogo perché nelle materie riservate alla potestà concorrente di Stato e Regioni le disposizioni statali di dettaglio continuerebbero ad applicarsi fino a quando la Regione non abbia provveduto ad adeguare la disciplina normativa di sua competenza ai principi posti dal legislatore statale; in terzo luogo perché l'art. 4 della legge n. 154 del 1981 sarebbe norma di principio, posta a tutela del buon andamento e dell'imparzialità dell'amministrazione degli enti locali, essendo volta a garantire il libero espletamento delle cariche elettive; che la difesa di Simone Gargano - dopo aver ricordato che il Consiglio regionale del Lazio, nella seduta del 4 luglio 2001, ha approvato una modifica del proprio regolamento interno, dettando, all'art. 116, una "misura di salvaguardia" che sospende qualsiasi procedimento volto all'accertamento delle cause di incompatibilità dei consiglieri regionali - ha chiesto che la questione di legittimità costituzionale sia accolta, in particolare osservando che l'art. 65 del D.Lgs. n. 267 del 2000 sarebbe incostituzionale, perché la legislazione statale che continua a dettare la disciplina di una materia riservata alla competenza della Regione si porrebbe in contrasto con l'art. 122 della Costituzione (anche alla luce della modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione conseguente alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3); e che l'incostituzionalità dell'art. 65 del D.Lgs. n. 267 del 2000 non determinerebbe la reviviscenza dell'art. 4 della legge n. 154 del 1981, non essendo configurabile una rinnovata vigenza di una norma ormai abrogata e contrastante con una norma di rango costituzionale; che la Regione Lazio, premesso che, nelle more della pubblicazione dell'ordinanza di rimessione, il Sindaco del Comune di Roma ha accolto le dimissioni del Gargano, il quale non riveste più la carica di assessore, ha concluso perché la questione sia dichiarata inammissibile per difetto sopravvenuto di rilevanza, e in subordine sia accolta; che il Presidente del Consiglio dei ministri ha concluso per il rigetto dei dubbi di legittimità costituzionale, sul rilievo che il novellato art. 122 della Costituzione non precluderebbe l'applicazione della normativa statale vigente là dove la Regione non abbia ancora esercitato la propria potestà legislativa; e perché non sussisterebbe il denunciato vizio di eccesso di delega riguardante l'art. 65 del D.Lgs. n. 267 del 2000, dato che la norma si riferirebbe esclusivamente all'ordinamento degli enti locali; che, nella memoria depositata in prossimità dell'udienza, la Regione Lazio ha articolato le proprie difese ribadendo in via preliminare che la cessazione dalla carica di assessore determinerebbe il sopravvenuto difetto di rilevanza della questione ed osservando che la disposta modifica del regolamento interno del Consiglio regionale avrebbe "congelato" ogni procedimento diretto all'accertamento di situazioni di incompatibilità fino all'adozione della nuova disciplina regionale in materia elettorale; e nel merito sostenendo che l'art. 65 del D.Lgs. n. 267 del 2000 si presterebbe ad una lettura restrittiva, conforme a Costituzione, nel senso che esso riguardi esclusivamente amministratori comunali e provinciali e consiglieri di questi enti locali, mentre l'art. 4 della legge n. 154 del 1981 sarebbe in contrasto con l'art. 122 della Costituzione, non potendosi, in mancanza di un'apposita legge di principio, assegnare valore cogente ai casi

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di incompatibilità indicati dalle leggi statali vigenti, emanate quando la competenza legislativa statale in materia era piena; che anche Ugo Sodano ha depositato, in prossimità dell'udienza, una memoria illustrativa, nella quale si esclude che la questione di costituzionalità sia divenuta irrilevante per effetto della rimozione del Gargano dall'incarico di assessore comunale, in quanto detta rimozione sarebbe tardiva e non idonea a sanare la causa di incompatibilità, atteso che con l'inizio del procedimento amministrativo contemplato dall'art. 7 della legge n. 154 del 1981 o con la proposizione del ricorso al tribunale civile la situazione di incompatibilità da accertare si "cristallizzerebbe" a quel momento; che in data 5 giugno 2002 si è costituito il Comune di Roma, chiedendo che sia disposta la restituzione degli atti al giudice remittente per una nuova valutazione della rilevanza della questione. Considerato che deve essere preliminarmente dichiarato inammissibile l'atto di costituzione del Comune di Roma, in quanto depositato dopo che era trascorso il termine perentorio, stabilito dall'art. 25, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e dall'art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale, di venti giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale (tra le molte, ordinanza n. 309 del 2002); che l'accettazione, da parte del Sindaco del Comune di Roma, delle sopravvenute dimissioni di Simone Gargano dall'incarico di assessore comunale - a prescindere dall'idoneità della stessa a rimuovere la denunciata situazione di incompatibilità - non impone la restituzione degli atti al Tribunale remittente, giacché il giudizio di legittimità costituzionale, una volta iniziato in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice a quo, non è suscettibile di essere influenzato da successive vicende di fatto concernenti il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato (art. 22 delle norme integrative: cfr., da ultimo, ordinanza n. 110 del 2000); che la questione concernente l'art. 65 del D.Lgs. n. 267 del 2000 è irrilevante: la norma denunciata, inserita nel testo unico sull'ordinamento degli enti locali, si riferisce infatti alle cause ostative alla carica di (sindaco o di) assessore di un Comune compreso nel territorio della Regione (nonché di presidente della Provincia o di assessore provinciale), mentre nel giudizio a quo si controverte di una causa di incompatibilità alla carica di consigliere regionale, ipotesi che continua ad essere disciplinata dall'art. 4 della legge n. 154 del 1981, considerato che l'art. 274, comma 1, lettera l, del citato testo unico, nel disporre l'abrogazione di quest'ultima legge, fa espressamente salve "le disposizioni ivi previste per i consiglieri regionali"; che il dubbio di legittimità costituzionale avente ad oggetto l'art. 4 della legge n. 154 del 1981, sollevato in riferimento all'art. 122 della Costituzione (e agli artt. 5 e 123 della Costituzione, questi ultimi tuttavia richiamati soltanto nel dispositivo dell'ordinanza di remissione, senza alcuna specifica motivazione), è manifestamente infondato; che, infatti, il nuovo testo dell'art. 122 della Costituzione, come sostituito dalla legge costituzionale n. 1 del 1999 - che riserva alla Regione la competenza legislativa in materia, tra l'altro, di incompatibilità dei consiglieri regionali (con il rispetto dei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica) - dà luogo solo a nuove e diverse possibilità di intervento legislativo della Regione, senza che però venga meno, nel frattempo, in forza del principio di continuità (cfr. sentenza n. 13 del 1974 e ordinanza n. 269 del 1974), l'efficacia della normativa statale preesistente conforme al quadro costituzionale in vigore all'epoca della sua emanazione; che l'intervenuta modifica del regolamento interno del Consiglio regionale, con cui si dispone la sospensione delle procedure di esame delle cause di incompatibilità fino all'entrata in vigore della legge regionale in materia, non integra una disciplina regionale delle cause di incompatibilità medesime, suscettibile di sostituirsi a quella della legge statale in vigore. Per questi motivi

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La Corte Costituzionale dichiara: a) la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 65 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), sollevata, in riferimento agli articoli 5, 76, 122 e 123 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe; b) la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale), sollevata, in riferimento agli articoli 5, 122 e 123 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Ord. 10 luglio 2002, n. 382

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale delle leggi regionali del Trentino-Alto Adige 9 novembre 1983, n. 15 (Ordinamento degli uffici regionali e norme sullo stato giuridico e trattamento economico del personale); 11 gennaio [recte: giugno] 1987, n. 5 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 9 novembre 1983, n. 15, «Ordinamento degli uffici regionali, e norme sullo stato giuridico e sul trattamento economico del personale»); 21 febbraio 1991, n. 5 (Norme per potenziare il servizio di traduzioni nell'amministrazione regionale, norme urgenti in materia di personale nonché norme sul personale delle Camere di commercio, industria artigianato e agricoltura di Trento e di Bolzano e norme per l'uso della lingua ladina per i dipendenti dei comuni ladini della Provincia di Bolzano); 5 marzo 1993, n. 4 (Nuove norme sullo stato giuridico ed il trattamento economico dei dipendenti dei Comuni e dei segretari comunali), e 6 dicembre 1993, n. 22 (Adeguamento normativo della dirigenza e disposizioni urgenti in materia di personale), per mancato adeguamento, a norma dell'art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), alle disposizioni di riforma del pubblico impiego di cui alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), e ai decreti legislativi 10 novembre 1993, n. 470 (Disposizioni correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), e 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 18 agosto 1994, depositato in cancelleria il 26 successivo e iscritto al n. 57 del registro ricorsi 1994. Visto l'atto di costituzione della Regione Trentino-Alto Adige; udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky. Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 18 agosto 1994 e depositato il successivo 26 agosto, ha sollevato, a norma dell'art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), e in relazione agli artt. 4 e 8, numero 1), del D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), questione di legittimità costituzionale di numerose norme contenute nella legislazione regionale del Trentino-Alto Adige, perché non adeguate ai nuovi principi in materia di pubblico impiego dettati dalla legislazione statale, in particolare dall'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), e dalle «relative norme di attuazione»; che il ricorrente ricorda di avere proposto un precedente ricorso per «mancato adeguamento» - in riferimento alle medesime norme oggi in discussione e in relazione ai principi della legislazione statale contenuti sia nel citato art. 2 della legge n. 421 del 1992 sia nel decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego) - dichiarato peraltro inammissibile dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 256 del 1994) per genericità della delibera di impugnazione del Consiglio dei ministri, che non specificava né le disposizioni

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delle leggi regionali il cui mancato adeguamento veniva censurato, né i principi della legislazione statale cui quelle stesse disposizioni avrebbero dovuto essere adeguate; che, afferma il ricorrente, ciò non ha peraltro effetto sulla proposizione del ricorso attuale, poiché nel frattempo sono intervenuti decreti legislativi correttivi del decreto n. 29 del 1993 - il decreto legislativo 10 dicembre 1993, n. 470 (Disposizioni correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), e il decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego) -, emanati in attuazione dei criteri indicati nell'art. 2 della legge n. 421 del 1992 per la razionalizzazione e riorganizzazione del pubblico impiego, i quali partecipano della stessa natura del decreto oggetto di correzione e dunque si qualificano anch'essi come norme fondamentali di riforma economico-sociale, rilevanti agli effetti dell'obbligo di adeguamento della legislazione del Trentino-Alto Adige entro il termine prescritto, a norma dell'art. 2 del decreto legislativo n. 266 del 1992; che, in particolare, il Governo ricorrente formula numerose censure relativamente alle seguenti leggi regionali del Trentino-Alto Adige: 9 novembre 1983, n. 15 (Ordinamento degli uffici regionali e norme sullo stato giuridico e trattamento economico del personale); 11 giugno 1987, n. 5 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 9 novembre 1983, n. 15, «Ordinamento degli uffici regionali e norme sullo stato giuridico e sul trattamento economico del personale»); 21 febbraio 1991, n. 5 (Norme per potenziare il servizio di traduzioni nell'amministrazione regionale, norme urgenti in materia di personale nonché norme sul personale delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Trento e di Bolzano e norme per l'uso della lingua ladina per i dipendenti dei comuni ladini della Provincia di Bolzano); 5 marzo 1993, n. 4 (Nuove norme sullo stato giuridico ed il trattamento economico dei dipendenti dei Comuni e dei segretari comunali), e 6 dicembre 1993, n. 22 (Adeguamento normativo della dirigenza e disposizioni urgenti in materia di personale), con argomentazioni e rilievi sia di ordine generale - perché le leggi regionali sopra indicate, eccetto l'ultima, sarebbero «globalmente» in contrasto con i principi della normativa statale, la quale stabilisce che il rapporto di lavoro dei dipendenti della Regione e dei relativi enti strumentali avrebbe dovuto essere disciplinato in base alle norme del diritto civile e della disciplina privatistica sul rapporto di lavoro subordinato, anche in relazione ai rapporti tra le fonti che regolano questa materia (contratti collettivi e leggi a essi sopravvenute) - sia di ordine particolare, su disposizioni delle citate leggi puntualmente indicate di volta in volta nel ricorso, in tema di impegni e di limiti di spesa, di assistenza della parte pubblica in sede di negoziazione collettiva, di delegazioni sindacali, di composizione delle commissioni giudicatrici di concorsi, di poteri dei dirigenti e relativi ruoli, nonché di specifici aspetti di svolgimento dei rapporti di lavoro e sindacali, di reclutamento dei dipendenti e di profili organizzativi; che nel giudizio così promosso è intervenuta la Regione Trentino-Alto Adige, (a) deducendo che il legislatore regionale non sarebbe vincolato dalle disposizioni del decreto legislativo n. 29 del 1993 né da quelle correttive dello stesso, ma solo dai principi posti dalla legge di delegazione n. 421 del 1992, onde il ricorso del Governo, in quanto rivolto a far valere i vincoli derivanti dalla legge n. 421, sarebbe inammissibile perché proposto tardivamente e, in quanto riferito ai decreti legislativi n. 470 e n. 546 del 1993, sarebbe infondato perché riferito a norme non aventi carattere di parametro del giudizio, e (b) svolgendo numerose puntuali osservazioni sul merito di ciascuna censura dedotta dal ricorrente, per concludere nel senso dell'infondatezza del ricorso statale; che, dopo numerosi rinvii a nuovo ruolo del giudizio in questione, disposti su istanza della Regione resistente, quest'ultima ha depositato, in data 9 marzo 1999, una memoria, per dedurre che con una legge regionale emanata in pendenza del giudizio (23 ottobre 1998, n. 10) la normativa concernente il personale degli enti locali nella Regione sarebbe stata adeguata ai principi posti dalla legge-delega n. 421 del 1992, con la previsione di norme in larga parte corrispondenti a quelle dei decreti legislativi attuativi invocate dal Governo, concludendo pertanto, sotto questo profilo, per una dichiarazione di parziale cessazione della materia del contendere, in particolare in relazione all'impugnazione della legge regionale n. 4 del 1993; che successivamente, con atto depositato il 9 aprile 2002, l'Avvocatura generale dello Stato - rilevando che con la modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione disposta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), è profondamente mutato il

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rapporto tra potestà legislativa regionale e vincoli della legislazione statale, in particolare nel senso che l'interesse nazionale non costituisce più un limite generale all'esercizio delle competenze legislative regionali, e che per questo il ricorso per «mancato adeguamento» della legislazione della Regione Trentino-Alto Adige ha perso interesse - ha dichiarato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, di rinunciare al ricorso stesso; che la Regione Trentino-Alto Adige ha a sua volta depositato in data 31 maggio 2002, su conforme delibera della Giunta regionale del 17 aprile 2002, atto di accettazione della rinuncia. Considerato che, a norma dell'art. 25 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita dalla relativa accettazione della controparte, produce l'effetto di estinguere il processo. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara estinto il processo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Ord. 10 luglio 2002, n. 380

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della deliberazione della Giunta della Regione Trentino-Alto Adige n. 2327 del 27 ottobre 1994, recante «Recepimento normativa risultante dall'accordo sindacale di data 20 ottobre 1994 riguardante il personale non dirigente della Regione e delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Trento e di Bolzano e contenente prime misure di omogeneizzazione interna al comparto in attuazione dell'articolo 6 dell'accordo sindacale 3 febbraio 1994 in attesa della futura contrattazione», promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 28 gennaio 1995, depositato in cancelleria il 3 febbraio 1995 e iscritto al n. 3 del registro conflitti 1995. Visto l'atto di costituzione della Regione Trentino-Alto Adige; udito nell'udienza pubblica del 4 giugno 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky; uditi l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Regione Trentino-Alto Adige. Ritenuto che con ricorso notificato il 28 gennaio 1995 e depositato il successivo 3 febbraio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato conflitto di attribuzioni nei confronti della Regione Trentino-Alto Adige, in relazione alla deliberazione della Giunta regionale 27 ottobre 1994, n. 2327 (Recepimento normativa risultante dall'accordo sindacale di data 20 ottobre 1994 riguardante il personale non dirigente della Regione e delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Trento e di Bolzano e contenente prime misure di omogeneizzazione interna al comparto in attuazione dell'articolo 6 dell'accordo sindacale 3 febbraio 1994 in attesa della futura contrattazione), assumendo il contrasto di detta delibera con gli artt. 15, 17, 18 e 19 del decreto legislativo 10 novembre 1993, n. 470 (Disposizioni correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), e chiedendone, conseguentemente, l'annullamento; che il Governo rileva che il provvedimento per il quale è insorto il conflitto è stato emanato sulla base di una legislazione della Regione Trentino-Alto Adige in materia di ordinamento e stato giuridico ed economico del personale regionale che non è stata adeguata, nei modi e nei termini prescritti dal decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), alla legislazione nazionale di principio, costituita (a) dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), (b) dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), nonché (c) dai decreti legislativi, correttivi del precedente, n. 470 del 1993 e 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego); che, in particolare, il ricorrente, richiamata la procedura prevista per la contrattazione collettiva nel pubblico impiego con l'intervento della Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 15 del decreto legislativo n. 470 del 1993 - che prevede che i contratti concernenti i «comparti» del personale regionale, provinciale e comunale devono essere preceduti da un contratto collettivo nazionale stipulato tra l'Agenzia e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, secondo uno schema il cui fine principale è quello del contenimento della spesa pubblica del personale regionale e degli enti locali,

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con la riserva allo Stato della competenza alla definizione del trattamento economico uniforme di detto personale su tutto il territorio nazionale - e rilevato che tra le parti è stato stipulato un protocollo d'intesa, approvato con D.P.C.M. 28 aprile 1994, osserva (a) che la delibera per cui è promosso il conflitto rende evidente che la contrattazione in essa considerata è disciplinata da atti amministrativi attuativi della legislazione regionale, la quale però non è stata adeguata ai principi della legislazione statale in materia, (b) che per questo mancato adeguamento è stato in precedenza promosso, dallo stesso Governo, separato ricorso (iscritto al reg. ricorsi n. 57 del 1994), a norma del citato art. 2 del decreto legislativo n. 266 del 1992, (c) che l'«esito scontato» del giudizio per mancato adeguamento renderebbe «evidente» come la Regione Trentino-Alto Adige, con l'adozione del decreto impugnato, abbia travalicato i limiti della propria competenza, con il recepimento delle clausole di un accordo stipulato in sede locale al quale la Giunta regionale avrebbe piuttosto dovuto negare efficacia, (d) che, inoltre, l'atto per cui è insorto il conflitto viola l'art. 3 della Costituzione, introducendo un'ingiustificata disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici, l'art. 2 della Costituzione, sottraendo una categoria di dipendenti al dovere di concorrere all'interesse generale, e l'art. 95 della Costituzione, interferendo gravemente con la direzione politica generale del Paese assegnata al Governo, (e) che per le suddette ragioni l'atto in questione deve essere annullato; che nel giudizio così promosso si è costituita la Regione Trentino-Alto Adige, chiedendo il rigetto del ricorso, perché inammissibile e infondato, osservando, in una memoria successivamente depositata, che, secondo l'art. 2 della legge n. 421 del 1992, i principi e criteri direttivi posti al legislatore delegato costituiscono, per le Regioni e le Province autonome, «norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica», e che la medesima formulazione è ripetuta anche nell'art. 1, comma 3, del decreto legislativo n. 29 del 1993, con la conseguenza, secondo la resistente, che in nessun momento il legislatore statale ha pensato che si dovesse arrivare a una normativa uniforme dell'impiego statale e dell'impiego nelle regioni ad autonomia differenziata, dovendosi piuttosto ragionare in termini di discipline autonome, nei limiti dei principi di riforma contenuti nella legge di delega, e con l'ulteriore conseguenza che la costituzionalità del sistema di contrattazione collettiva istituito in Trentino-Alto Adige deve essere valutata con esclusivo riferimento a quanto stabilito nella legge n. 421 del 1992, restando estraneo - perché inoperante nei confronti della Regione resistente - il contenuto del decreto legislativo n. 29 del 1993 e relative integrazioni; che, secondo le suddette argomentazioni, la Regione Trentino-Alto Adige non potrebbe dunque essere ricompresa nell'area di disciplina del sistema di contrattazione in tema di pubblico impiego delineato dalla legislazione statale, poiché le regioni a statuto speciale, sostiene la resistente, possono - non debbono - avvalersi, nella contrattazione, dell'attività dell'Agenzia; che la difesa della Regione Trentino-Alto Adige conclude osservando che l'atto regionale nel suo complesso non potrebbe dirsi in contrasto con alcun principio di riforma desumibile dalle norme statali, avendo essa «semplicemente preferito, nell'ambito della propria autonomia costituzionale, una diversa via per dare disciplina provvisoria a taluni aspetti economici del rapporto con il personale, nell'attesa della disciplina definitiva»; che con successiva memoria, depositata il 15 maggio 2002, la Regione resistente ha rilevato che nel citato giudizio in via principale per «mancato adeguamento» di cui al ricorso n. 57 del 1994, obiettivamente connesso al conflitto in quanto avente a oggetto la legislazione regionale sulla base della quale è stata adottata la delibera della Giunta oggetto del conflitto medesimo, il ricorrente Presidente del Consiglio dei ministri ha formulato atto di rinuncia, con il che il giudizio di legittimità costituzionale per mancato adeguamento è comunque destinato a estinguersi, anche se - precisa la Regione - la materia del contendere dovrebbe dirsi già cessata a seguito della approvazione della legge regionale del Trentino-Alto Adige 21 luglio 2000, n. 3 (Norme urgenti in materia di personale), con la quale è stata dettata una normativa adeguata ai principi della legge statale n. 421 del 1992; che con atto depositato il 20 maggio 2002, l'Avvocatura dello Stato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha rilevato che la modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione disposta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), ha mutato il rapporto tra la potestà legislativa dello Stato e quella delle Regioni, in particolare nel senso che l'interesse nazionale non costituisce più un limite generale all'esercizio delle competenze legislative regionali, e che per

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questo il ricorso per conflitto di attribuzioni, in quanto «conseguenza immediata del ricorso per il mancato adeguamento della legislazione regionale a quella statale» fondato sul ricordato principio, «ha perso interesse»; che pertanto l'Avvocatura dello Stato ha dichiarato per il Presidente del Consiglio dei ministri, previa conforme delibera di quest'ultimo adottata in data 3 maggio 2002, di rinunciare al ricorso per conflitto di attribuzioni; che in prossimità dell'udienza la difesa della Regione Trentino-Alto Adige ha a sua volta depositato, su conforme delibera della Giunta regionale del 17 aprile 2002, atto di accettazione della rinuncia. Considerato che, a norma dell'art. 27, ultimo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita dalla relativa accettazione della controparte, produce l'effetto di estinguere il processo. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara estinto il processo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Ord. 10 luglio 2002, n. 377

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale della delibera legislativa della Regione autonoma Valle d'Aosta concernente «Integrazione regionale al trattamento pensionistico degli ex combattenti», riapprovata il 17 ottobre 2001, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 6 novembre 2001, depositato in cancelleria il 15 successivo e iscritto al n. 42 del registro ricorsi 2001. Visto l'atto di costituzione della Regione autonoma Valle d'Aosta; udito nell'udienza pubblica del 7 maggio 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky; uditi l'avvocato dello Stato Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Gustavo Romanelli per la Regione autonoma Valle d'Aosta. Ritenuto che, con ricorso regolarmente notificato e depositato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale della delibera legislativa riapprovata dal Consiglio regionale della Regione autonoma Valle d'Aosta nella seduta del 17 ottobre 2001 (Integrazione regionale al trattamento pensionistico degli ex combattenti), in relazione all'art. 3 della Costituzione; che, secondo quanto premette il ricorrente, la delibera - con la quale si riconosce agli ex combattenti, residenti in Valle d'Aosta, di cui alle leggi 24 maggio 1970, n. 336 (Norme a favore dei dipendenti civili dello Stato ed Enti pubblici ex combattenti ed assimilati), e successive integrazioni e modificazioni, e 15 aprile 1985, n. 140 (Miglioramento e perequazione di trattamenti pensionistici e aumenti della pensione sociale), un «assegno integrativo reversibile regionale mensile» in misura pari alla maggiorazione del trattamento pensionistico per gli ex combattenti stabilita dall'art. 6 della citata legge n. 140 del 1985 - è stata approvata il 20 giugno 2001 e rinviata dalla Commissione di coordinamento per la Valle d'Aosta il successivo 25 luglio, sulla base di due ordini di rilievi: a) il provvedimento legislativo violerebbe il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione nei confronti dei cittadini italiani residenti nelle altre regioni, poiché i meriti militari e morali degli ex combattenti non sono diversi a seconda dell'appartenenza regionale; b) non sarebbe coerente con le competenze regionali in materia di previdenza e assicurazioni sociali l'attribuzione di un beneficio ad una categoria per vicende accadute in passato, tali da non giustificare una tutela differenziata; che il ricorrente riassume le considerazioni svolte, nella relazione di accompagnamento alla delibera legislativa riapprovata, dalla Regione autonoma Valle d'Aosta, la quale ritiene che la delibera legislativa impugnata costituisca espressione della potestà legislativa integrativo-attuativa riconosciuta alla Regione dall'art. 3, primo comma, lettera h), dello statuto speciale di autonomia (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4) e dagli artt. 1 e 2 del decreto legislativo 28 dicembre 1989, n. 430 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Valle d'Aosta in materia di previdenza ed assicurazioni sociali), e che l'organo di controllo non abbia rilevato un difetto di competenza legislativa regionale nella materia, ma ne abbia solo contestato le modalità di esercizio; che il ricorrente, in particolare, ritiene non pertinente l'affermazione della Regione, secondo la quale la valutazione in ordine al rispetto del principio di uguaglianza da parte del legislatore deve svolgersi con

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riferimento agli oggetti, localizzati sul territorio, rispetto ai quali il legislatore regionale esercita la propria competenza, poiché la discriminazione censurata nel caso di specie atterrebbe ai soggetti, non a circostanze oggettive locali; che, secondo l'Avvocatura dello Stato, la disciplina integrativa del trattamento pensionistico disposta dal legislatore della Valle d'Aosta non risponde ad alcuna esigenza, giustificabile con la particolarità della situazione, correlata al riconoscimento costituzionale dell'autonomia regionale; che si è costituita in giudizio la Regione autonoma Valle d'Aosta chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o infondato, in quanto formulato in modo generico e insufficientemente motivato, risultando privo dell'indicazione puntuale del contrasto tra la delibera legislativa impugnata, o di sue singole disposizioni, e il principio costituzionale di cui si prospetta la violazione; che la difesa regionale osserva inoltre che il ricorrente, pur non contestando che il provvedimento impugnato costituisca espressione delle competenze legislative integrativo-attuative della Regione autonoma Valle d'Aosta in materia di previdenza e assicurazioni sociali, intende sottoporre il concreto esercizio della potestà normativa primaria ad «un giudizio di opportunità da parte dell'autorità statale» tale da costituire una grave ingerenza nella sfera di autonomia della resistente; che nel merito, secondo la Regione, ove si ritenesse discendere dal principio costituzionale di uguaglianza il divieto di disporre in ambito regionale trattamenti integrativi in materia di previdenza e di assicurazioni sociali, risulterebbe «totalmente svuotata del suo contenuto» la competenza prevista dall'art. 3, primo comma, lettera h), dello statuto speciale per la Valle d'Aosta e dalle norme di attuazione dettate dal decreto legislativo n. 430 del 1989, poiché - seguendo una simile impostazione - ogni intervento legislativo disposto su base territoriale sarebbe destinato a tradursi in una disparità di trattamento a danno di coloro che, non risiedendo nella Regione, non potrebbero avvalersi della disciplina regionale; che la valutazione riguardo alla natura discriminatoria delle norme impugnate dovrebbe invece, ad avviso della resistente, compiersi con esclusivo riferimento all'unico ambito - quello regionale - nel quale il legislatore può dettare norme: poiché in tale ambito il beneficio, nel caso in esame, è corrisposto a tutti coloro che si trovano nelle condizioni previste, non sarebbe ravvisabile alcuna discriminazione; che, a sostegno delle proprie argomentazioni, la Regione riporta infine l'esempio della legge della Regione Trentino-Alto Adige 21 luglio 1991, n. 13 (Estensione di benefici previsti in favore dei combattenti e reduci ai trentini che hanno prestato servizio di guerra nelle forze armate tedesche), mediante la quale sono stati estesi ai cittadini residenti nella Provincia di Trento che hanno prestato servizio nelle forze armate tedesche durante la seconda guerra mondiale i benefici accordati ai soli altoatesini dalla legge 2 aprile 1958, n. 364; che, in prossimità dell'udienza, entrambe le parti hanno depositato memorie nelle quali ribadiscono le considerazioni svolte rispettivamente nel ricorso e nell'atto di costituzione in giudizio. Considerato che il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale in via principale, in relazione all'art. 3 della Costituzione, della delibera legislativa riapprovata dal Consiglio regionale della Regione autonoma Valle d'Aosta nella seduta del 17 ottobre 2001 (Integrazione regionale al trattamento pensionistico degli ex combattenti); che il procedimento di impugnazione delle delibere legislative della Regione autonoma Valle d'Aosta è regolato dall'art. 31 dello statuto speciale in modo analogo a quello previsto, per le regioni a statuto ordinario, dall'originaria formulazione dell'art. 127 della Costituzione; che, per effetto della modificazione dell'art. 127 della Costituzione, introdotta dall'art. 8 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), è stato soppresso il controllo di costituzionalità che, in base al testo originario dello stesso art. 127, il Governo poteva chiedere alla Corte nei confronti della delibera legislativa regionale prima della promulgazione;

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che l'art. 10 della citata legge costituzionale n. 3 del 2001 prevede che, sino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni di essa si applicano anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano «per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite»; che, come già ha rilevato in passato e in linea generale questa Corte (sentenza n. 38 del 1957), vi è una stretta correlazione tra le particolari forme e condizioni di autonomia di cui godono le Regioni a statuto speciale e le Province autonome e le modalità di impugnazione delle leggi regionali; che la soppressione del meccanismo di controllo preventivo delle leggi regionali, in quanto consente la promulgazione e l'entrata in vigore della legge regionale, anche in pendenza di un giudizio di legittimità costituzionale in via principale promosso prima della citata riforma costituzionale, si traduce in un ampliamento delle garanzie di autonomia rispetto a quanto previsto dall'art. 31 dello statuto speciale della Valle d'Aosta; che, di conseguenza, la nuova anzidetta disciplina posta dall'art. 127 della Costituzione è applicabile, a norma dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, anche al procedimento di impugnazione in via principale delle leggi della Regione autonoma Valle d'Aosta; che pertanto il presente giudizio non può avere ulteriore seguito, non potendo più il controllo di costituzionalità della Corte esercitarsi sulla delibera legislativa regionale prima che quest'ultima sia stata promulgata e pubblicata, salva la facoltà del Governo di impugnare successivamente la legge regionale, nei termini e nei modi di cui al nuovo testo dell'art. 127 della Costituzione (sentenza n. 17 e ordinanza n. 65 del 2002); che il ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri deve quindi essere dichiarato improcedibile. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara l'improcedibilità del ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Ord. 10 luglio 2002, n. 358

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 3, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 27 novembre 2001, n. 28 (Attuazione del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di deflusso minimo vitale delle derivazioni d'acqua), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 30 gennaio 2002, depositato in cancelleria l'8 febbraio 2002 ed iscritto al n. 7 del registro ricorsi 2002. Visto l'atto di costituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia; udito nell'udienza pubblica del 21 maggio 2002 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte; uditi l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia. Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 3, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 27 novembre 2001, n. 28 (Attuazione del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di deflusso minimo vitale delle derivazioni d'acqua), denunciandone il contrasto con l'art. 117, primo e secondo comma, lettera l) (recte: lettera s), della Costituzione; che la disposizione impugnata dichiara di voler dare attuazione all'art. 22, comma 3, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole), il quale dispone che le Regioni possono definire obblighi di installazione e manutenzione dei dispositivi per la misurazione dei volumi di acqua pubblica derivati sulla base delle linee-guida per la predisposizione del bilancio idrico di bacino (definite dal Ministro dei lavori pubblici, di concerto con gli altri Ministri competenti e previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano) e dei criteri adottati dai comitati istituzionali delle autorità di bacino; che secondo l'Avvocatura dello Stato, non essendo ancora state adottate le linee-guida ministeriali, la disposizione oggetto di impugnativa si porrebbe in contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione; che inoltre, continua il ricorrente Presidente del Consiglio dei ministri, l'art. 3, comma 2, del D.Lgs. 25 maggio 2001, n. 265 (Norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia per il trasferimento dei beni del demanio idrico e marittimo, nonché di funzioni in materia di risorse idriche e di difesa del suolo) prevede che le direttive sulla gestione del demanio idrico, ricomprese tra i compiti di rilievo nazionale riservati allo Stato ai sensi dell'art. 88, comma 1, lettera p), del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), siano definite d'intesa con la Regione; che perciò, per questi profili, la materia, riguardando la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, sarebbe di esclusiva competenza statale, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione; che si è costituito in giudizio, per la Regione Friuli-Venezia Giulia, il Presidente della Giunta regionale, e ha chiesto a questa Corte di dichiarare il ricorso statale inammissibile e comunque infondato;

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che la Regione sostiene in primo luogo che il ricorso statale derivi da una inesatta individuazione del parametro costituzionale asseritamente violato, in quanto il ricorrente denuncia la lesione dell'art. 117 della Costituzione, che non troverebbe applicazione alle Regioni ad autonomia speciale, qual è la Regione Friuli-Venezia Giulia; che, prosegue la difesa della Regione, alla luce dell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il quale stabilisce che, fino all'adeguamento dei rispettivi statuti, le modifiche apportate al Titolo V, Parte II, della Costituzione si applicano anche alle Regioni ad autonomia differenziata «per le parti in cui prevedono forme più ampie di autonomia rispetto a quelle già attribuite», risulterebbe arbitrario far valere quale parametro di valutazione della legittimità costituzionale di una legge di una Regione speciale i limiti che l'art. 117 Cost. pone alla potestà legislativa delle Regioni ordinarie; che pertanto la Regione chiede che la questione di legittimità costituzionale, incardinata su un parametro inapplicabile alla legge impugnata, sia dichiarata, per questo profilo, inammissibile; che, quanto al motivo di ricorso con il quale si denuncia il contrasto della legge regionale n. 28 del 2001 con la normativa comunitaria, la difesa regionale, premesso che l'assenza di una specifica illustrazione della censura dovrebbe renderla inammissibile, sostiene comunque che essa sia infondata; che infatti la legge regionale impugnata, lungi dal disattendere obblighi comunitari, sarebbe rivolta a favorire la piena operatività della disciplina di fonte europea, la quale risulterebbe altrimenti impedita dall'inerzia del Governo nella emanazione delle linee-guida per la predisposizione del bilancio idrico di bacino; che d'altro canto il dovere di conformarsi alle linee-guida, che la Regione friulana non nega, non escluderebbe che, quando lo Stato rimanga inerte, le Regioni possano e anzi debbano attivarsi per assicurare gli interessi ambientali che la legislazione statale dichiara di voler tutelare; che dunque l'inadempimento di obblighi comunitari che lo Stato denuncia non sarebbe imputabile alla legge regionale, ma alla mancata emanazione, da parte dello Stato, delle linee-guida di cui all'art. 22, comma 4, del D.Lgs. n. 152 del 1999. Considerato che il ricorrente, nel prospettare la questione di legittimità costituzionale in riferimento all'articolo 117 della Costituzione, omette del tutto di considerare che tale disposizione disciplina il riparto dei poteri legislativi tra lo Stato e le Regioni a statuto ordinario e non spende argomenti per dimostrare se e in quali termini essa si applichi nei confronti della Regione Friuli-Venezia Giulia, che è retta, come noto, da uno statuto di autonomia speciale; che per tale profilo la questione deve essere dichiarata inammissibile, i ricorsi che promuovono le questioni di legittimità costituzionale in via di azione dovendo indicare, ai sensi dell'art. 34 della legge 11 marzo 1953, n. 87, le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate; che, inoltre, quanto alla denunciata violazione, da parte della legge regionale impugnata, di obblighi derivanti dalla normazione di fonte europea, con conseguente lesione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, la censura è formulata in termini del tutto generici, mancando ogni indicazione relativa alle disposizioni delle direttive 91/271/CEE e 91/676/CEE con le quali la legge regionale impugnata si porrebbe in contrasto e lamentandosi solo il mancato rispetto di "orientamenti comunitari" non meglio specificati; che dunque, in quanto formulato in maniera generica e sulla base di un parametro costituzionale non applicabile alla disposizione oggetto di impugnativa, il ricorso deve dichiararsi manifestamente inammissibile. Per questi motivi

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La Corte Costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 3, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 27 novembre 2001, n. 28 (Attuazione del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di deflusso minimo vitale delle derivazioni d'acqua), proposta, in riferimento all'articolo 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

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Ord. 8 luglio 2002, n. 352

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26 (Estinzione delle gestioni liquidatorie in campo sanitario costituite ai sensi dell'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549), promosso con ordinanza emessa il 18 aprile 2001 dal Tribunale di Genova nel procedimento civile vertente tra la Regione Liguria e la Figli di Pinin Piero e C. s.p.a., iscritta al n. 50 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2002. Udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che il Tribunale di Genova, con ordinanza del 18 aprile 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26 (Estinzione delle gestioni liquidatorie in campo sanitario costituite ai sensi dell'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549), in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione; che l'ordinanza censura gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26, nella parte in cui hanno trasferito alle aziende unità sanitarie locali, invece che alla Regione, la titolarità e la legittimazione, sostanziale e processuale, in ordine ai debiti delle soppresse unità sanitarie locali; che il giudice a quo rileva che gli artt. 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 - nell'ambito del riordino del Servizio sanitario nazionale disposto dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 - vietano alle regioni di far gravare sulle neoistituite aziende sanitarie locali i debiti ed i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unità sanitarie locali, e prevedono a tal fine l'istituzione di gestioni a stralcio, successivamente trasformate in gestioni liquidatorie; che, al riguardo, il rimettente richiama il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui le predette disposizioni avrebbero determinato una successione ex lege a titolo particolare delle regioni nei rapporti di credito e di debito già facenti capo alle unità sanitarie locali; che, peraltro, nel corso del giudizio sono entrate in vigore le norme regionali impugnate, le quali hanno disposto la cessazione delle gestioni liquidatorie ed hanno previsto che i rapporti giuridici già facenti capo alle unità sanitarie locali ed agli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ancorché oggetto di giudizi in qualsiasi sede e grado, si intendono di diritto trasferiti alle aziende unità sanitarie locali ed ai predetti istituti, ai quali restano attribuite la titolarità e la legittimazione, sostanziale e processuale, attiva e passiva; che, ad avviso del giudice rimettente, detto trasferimento altererebbe l'eguaglianza delle parti «sia nella sostanza obbligatoria che nel processo», in quanto, relativamente ad un'obbligazione di diritto comune, viene sostituito d'imperio il soggetto debitore senza il consenso della parte creditrice, di fatto istituendosi «una forma di liberazione del debitore diversa dall'adempimento, non prevista dalla disciplina civilistica»; che sarebbe altresì violato il diritto alla difesa, il quale esige un'effettiva eguaglianza delle parti nel processo, in quanto, a lite iniziata, la Regione sottrae sè stessa «alla soggettività processuale (legittimazione passiva) alla quale era ed è tenuta come parte sostanziale del rapporto obbligatorio»; che infine le norme regionali ostacolerebbero la riforma del Servizio sanitario nazionale, in quanto, onerando le aziende sanitarie locali di quei debiti pregressi che il legislatore statale aveva inteso porre a carico delle

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regioni, contrasterebbero con il principio secondo il quale i nuovi organismi dovevano essere liberi da passività che ne potessero frenare od ostacolare l'attività; Considerato che la questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria n. 26 del 2000, che prevedono la cessazione delle gestioni liquidatorie delle unità sanitarie locali ed il trasferimento dei relativi rapporti giuridici alle aziende sanitarie locali istituite a norma del decreto legislativo n. 502 del 1992; che le norme impugnate sono state censurate dal giudice a quo in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione; che, successivamente alla pronuncia dell'ordinanza di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione», la quale, tra l'altro, all'art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che pertanto, essendo stata modificata una delle norme costituzionali invocate come parametro di giudizio, si impone la restituzione degli atti al giudice a quo, affinché riesamini i termini della questione alla luce dell'intervenuto mutamento del quadro normativo (cfr. ordinanze n. 382 del 2001, n. 72, n. 76, 117 e 164 del 2002). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Genova. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2002.

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Ord. 8 luglio 2002, n. 351

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26 (Estinzione delle gestioni liquidatorie in campo sanitario costituite ai sensi dell'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549), promosso con ordinanza emessa il 31 ottobre 2001 dalla Corte di Appello di Genova nel procedimento civile vertente tra la Regione Liguria e la Opam Oils s.p.a., iscritta al n. 47 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2002. Udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che la Corte di Appello di Genova, con ordinanza in data 31 ottobre 2001 e depositata il 12 novembre 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26 (Estinzione delle gestioni liquidatorie in campo sanitario costituite ai sensi dell'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549), in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione; che l'ordinanza censura gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26, nella parte in cui hanno trasferito alle aziende unità sanitarie locali, invece che alla Regione, la titolarità e la legittimazione, sostanziale e processuale, in ordine ai debiti delle soppresse unità sanitarie locali; che il giudice a quo rileva che gli artt. 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 - nell'ambito del riordino del Servizio sanitario nazionale disposto dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 - vietano alle regioni di far gravare sulle neoistituite aziende sanitarie locali i debiti ed i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unità sanitarie locali, e prevedono a tal fine l'istituzione di gestioni a stralcio, successivamente trasformate in gestioni liquidatorie; che, al riguardo, il rimettente richiama il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui le predette disposizioni avrebbero determinato una successione ex lege a titolo particolare delle regioni nei rapporti di credito e di debito già facenti capo alle unità sanitarie locali; che, peraltro, nel corso del giudizio sono entrate in vigore le norme regionali impugnate, le quali hanno disposto la cessazione delle gestioni liquidatorie ed hanno previsto che i rapporti giuridici già facenti capo alle unità sanitarie locali ed agli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ancorché oggetto di giudizi in qualsiasi sede e grado, si intendono di diritto trasferiti alle aziende unità sanitarie locali ed ai predetti istituti, ai quali restano attribuite la titolarità e la legittimazione, sostanziale e processuale, attiva e passiva; che, ad avviso del giudice rimettente, detto trasferimento altererebbe l'eguaglianza delle parti «sia nella sostanza obbligatoria che nel processo», in quanto, relativamente ad un'obbligazione di diritto comune, viene sostituito d'imperio il soggetto debitore senza il consenso della parte creditrice, di fatto istituendosi «una forma di liberazione del debitore diversa dall'adempimento, non prevista dalla disciplina civilistica»; che sarebbe altresì violato il diritto alla difesa, il quale esige un'effettiva eguaglianza delle parti nel processo, in quanto, a lite iniziata, la Regione sottrae sé stessa «alla soggettività processuale (legittimazione passiva) alla quale era ed è tenuta come parte sostanziale del rapporto obbligatorio»;

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che infine le norme regionali ostacolerebbero la riforma del Servizio sanitario nazionale, in quanto, onerando le aziende sanitarie locali di quei debiti pregressi che il legislatore statale aveva inteso porre a carico delle regioni, contrasterebbero con il principio secondo il quale i nuovi organismi dovevano essere liberi da passività che ne potessero frenare od ostacolare l'attività. Considerato che la questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto gli artt.1 e 2 della legge della Regione Liguria n. 26 del 2000, che prevedono la cessazione delle gestioni liquidatorie delle unità sanitarie locali ed il trasferimento dei relativi rapporti giuridici alle aziende sanitarie locali istituite a norma del decreto legislativo n. 502 del 1992; che le norme impugnate sono state censurate dal giudice a quo in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione; che, anteriormente alla pronuncia di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione», la quale, tra l'altro, all'art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che, nonostante la nuova disciplina sia entrata in vigore in data anteriore a quella di deposito dell'ordinanza di rimessione, il giudice a quo non ha motivato se il mutamento di uno dei parametri costituzionali indicati incida sui termini della questione sollevata; che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale deve essere dichiarata manifestamente inammissibile (cfr. ordinanza n.523 del 2000). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26 (Estinzione delle gestioni liquidatorie in campo sanitario costituite ai sensi dell'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549), sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione, dalla Corte di Appello di Genova, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2002.

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Ord. 8 luglio 2002, n. 339

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 37, punto 3, e 31, punto 2, della legge della Regione Toscana del 14 ottobre 1999, n. 52 (Norme sulle concessioni, le autorizzazioni e le denuncie d'inizio delle attività edilizie - Disciplina dei controlli nelle zone soggette al rischio sismico - Disciplina del contributo di concessione - Sanzioni e vigilanza sull'attività urbanistico/edilizia - Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 maggio 1994, n. 39 e modifica della legge regionale 17 ottobre 1983, n. 69), promossi con ordinanze emesse il 19 dicembre 2000 e il 7 marzo 2001 dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana sui ricorsi proposti da Vinchesi Leonardo ed altro contro il Comune di Bibbona ed altri e da Forti Marco ed altro contro il Comune di Porto Azzurro, iscritte ai nn. 638 e 671 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 35 e 37, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visti gli atti di costituzione di Marconi Giorgio e del Comune di Bibbona, nonché gli atti di intervento della Regione Toscana; udito nella Camera di consiglio del 22 maggio 2002 il Giudice relatore Riccardo Chieppa. Ritenuto che con due ordinanze, emesse il 19 dicembre 2000 e il 7 marzo 2001 e depositate rispettivamente il 15 febbraio 2001 e l'8 marzo 2001, il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 37, punto 3 (primo giudizio, r.o. n. 638 del 2001) e 31, punto 2 (secondo giudizio, r.o. n. 671 del 2001) della legge della Regione Toscana del 14 ottobre 1999, n. 52 (Norme sulle concessioni, le autorizzazioni e le denuncie d'inizio delle attività edilizie - Disciplina dei controlli nelle zone soggette al rischio sismico - Disciplina del contributo di concessione - Sanzioni e vigilanza sull'attività urbanistico/edilizia - Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 23 maggio 1994, n. 39 e modifica della legge regionale 17 ottobre 1983, n. 69) nella parte in cui attribuiscono al sindaco e non ai dirigenti la competenza ad emanare atti di gestione in materia edilizia, per contrasto con gli artt. 97 e 128 della Costituzione; che nel primo giudizio erano stati impugnati provvedimenti amministrativi: a) di rigetto di tre domande di concessione edilizia in sanatoria relative ad uno stabilimento balneare, nonché di revoca delle autorizzazioni all'esercizio di un bar-ristorante presso lo stabilimento stesso, emanati rispettivamente dal responsabile dell'area tecnica e dal responsabile dell'area di vigilanza-corpo di polizia municipale del Comune di Bibbona; b) di due dinieghi di rinnovo - il primo richiesto in via definitiva, il secondo in via temporanea - delle concessioni demaniali marittime per l'utilizzazione di un tratto di arenile, emanati dal dirigente del dipartimento delle politiche territoriali e ambientali, area porti, aeroporti e centri intermodali della Regione Toscana; che nel secondo giudizio (in fase cautelare) era, invece, stato impugnato l'atto di ingiunzione di demolizione di opere ritenute abusive perché eseguite in difformità dalla concessione edilizia, emanato da un dirigente del Comune di Porto Azzurro; che in entrambi i giudizi a quibus si deduce, tra gli altri motivi di censura, l'illegittimità dei provvedimenti impugnati per incompetenza, perché adottati da dirigenti (rectius: nonché, per alcuni di essi, da responsabili comunali di settore) e non dal sindaco, secondo quanto previsto dalla normativa regionale denunciata (che, in punto di rilevanza, dovrebbe trovare applicazione nei processi, atteso che gli atti impugnati sarebbero stati adottati successivamente all'entrata in vigore della legge stessa);

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che le norme denunciate, secondo i giudici rimettenti, si porrebbero in contrasto con gli artt. 97 e 128 della Costituzione; che, sotto il primo profilo, si osserva che la legge statale 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) ha fissato il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo - anche nella materia oggetto dei giudizi a quibus - spettano agli organi politici, mentre l'attività propriamente gestionale compete ai dirigenti (art. 51, commi 2 e 3 lettera f); che la suddetta separazione tra politica e amministrazione sarebbe stata confermata e precisata da successivi interventi legislativi (decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante "Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421"; legge 15 maggio 1997, n. 127, recante "Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo"; decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, recante "Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59"; legge 16 giugno 1998, n. 191, recante "Modifiche ed integrazioni alle leggi 15 marzo 1997, n. 59 e 15 maggio 1997, n. 127, nonché norme in materia di formazione del personale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in materia di edilizia scolastica"); che le norme impugnate - attribuendo, di converso, poteri gestionali ad organi politici (il sindaco) - violerebbero il principio di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione, il cui rispetto imporrebbe, nella prospettiva dei giudici rimettenti, il mantenimento della distinzione tra competenze tecnico-gestionali e di indirizzo politico; che, sotto il secondo profilo, il Tar per la Toscana osserva che compete al legislatore statale dettare con leggi generali i principi nel cui ambito può esplicarsi l'autonomia degli enti locali; che le norme regionali censurate - contenendo regole relative alla struttura degli uffici e alla definizione e ripartizione delle funzioni - avrebbero, pertanto, inciso sull'autonomia organizzatoria dell'ente locale attuando una "indebita ingerenza nell'esercizio di un potere normativo che in subiecta materia spetta unicamente allo Stato"; che in entrambi i giudizi si è costituita la Regione Toscana chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e infondata; che nel primo giudizio (r.o. n. 638 del 2001) si è costituito il resistente del processo a quo chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata; che in detto giudizio si è costituito anche l'ente comunale che, pur ritenendo nel merito la questione di incostituzionalità fondata, dubita della rilevanza della questione stessa poiché, nel caso di specie, sussisterebbe la competenza del sindaco che - in mancanza di personale con qualifica dirigenziale - avrebbe delegato un funzionario dell'ufficio preposto alla gestione dell'area tecnica secondo quanto consentito dall'art. 51, comma 3-bis, della legge n. 142 del 1990; che nel secondo giudizio (r.o. n. 671 del 2001) si è costituita la Regione Toscana chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e infondata; che con due memorie depositate nell'imminenza della camera di consiglio, la Regione Toscana ha chiesto che vengano restituiti gli atti ai giudici rimettenti - per la sopravvenuta entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione) che ha abrogato l'art. 128 della Costituzione - affinché la questione possa essere riesaminata in base al mutato quadro costituzionale intervenuto.

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Considerato che, successivamente all'emanazione della ordinanza di rimessione, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione); che, pertanto, in via del tutto preliminare, stante l'intervenuta abrogazione di una delle norme invocate come parametro ( art. 128 della Costituzione) e la sopravvenuta innovazione anche nella ripartizione delle competenze non solo nel settore urbanistico-governo del territorio, ma anche in quello delle funzioni e degli aspetti organizzativi e ordinamentali dei Comuni e dei relativi poteri regolamentari ( artt. 117 e 118 della Costituzione), si rende necessario disporre la restituzione degli atti ai giudici rimettenti per un nuovo esame dei termini della questione (cfr. ordinanze n. 166, n. 14 e n. 9 del 2002; n. 382, n. 397 e n. 416 del 2001). Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti ai giudici a quibus. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2002.

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Ord. 19 giugno 2002, n. 302

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3-octies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nel testo introdotto dall'art. 3, comma 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, e dell'art. 1, comma 2, seconda parte, della legge 26 febbraio 1999, n. 42 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie), promosso con ordinanza emessa il 12 luglio 2001 dalla Corte dei Conti, sezione centrale di controllo, in sede di esame e pronuncia sul visto e conseguente registrazione del decreto interministeriale 18 febbraio 2000, iscritta al n. 890 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'8 maggio 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che la Corte dei Conti, sezione centrale di controllo, con ordinanza del 12 luglio 2001 (depositata il successivo 5 ottobre), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'articolo 117 della Costituzione, dell'art. 3-octies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nel testo introdotto dall'art. 3, comma 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, e dell'art. 1, comma 2, seconda parte, della legge 26 febbraio 1999, n. 42 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie); che in punto di fatto il giudice a quo premette che, in esito alla procedura di controllo preventivo di legittimità sul decreto interministeriale 18 febbraio 2000 (Figura professionale dell'operatore socio-sanitario e ordinamento didattico dei relativi corsi di formazione), essa sezione aveva già sollevato questione di legittimità costituzionale delle medesime norme, per sospetta violazione degli artt. 76 e 117 della Costituzione, questione decisa da questa Corte, con l'ordinanza n. 203 del 2001, nel senso della restituzione degli atti al giudice remittente, in considerazione dello ius superveniens costituito dall'art. 9 della legge 24 ottobre 2000, n. 323, e dall'art. 12 della legge 8 novembre 2000, n. 328; che la Corte dei Conti, nel procedere ad un nuovo esame della questione, rileva che le due norme in ultimo citate - prevedendo in via di normazione primaria il ricorso ad un regolamento cui l'impugnato art. 3-octies, comma 5, del D.Lgs. n. 502 del 1992 fa riferimento in assenza di un'apposita disposizione nella legge delega 30 novembre 1998, n. 419 - implicano che la censura a suo tempo proposta per violazione dell'art. 76 Cost. debba ritenersi venuta meno; che per il remittente altrettanto non può dirsi, invece, in relazione a quella concernente l'art. 117 Cost., perché affidare ad un decreto interministeriale il compito di definire gli ordinamenti didattici delle figure professionali operanti nell'area socio-sanitaria si risolve in una lesione delle competenze tra Stato e Regione di cui al menzionato parametro; che lo strumento regolamentare sarebbe, in presenza di una riserva di legge, assolutamente insufficiente, a tal punto che la Corte dei Conti ritiene che potrebbe eventualmente essere oggetto di ulteriore dubbio di legittimità costituzionale, peraltro non esplicitamente proposto a questa Corte, anche l'art. 12, comma 4, della legge 8 novembre 2000, n. 328, il quale fa salve le disposizioni contenute nell'art. 3-octies del d. lgs. n. 502 del 1992, e perciò anche quelle di cui al comma 5 impugnato;

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che in relazione, poi, ai dubbi di legittimità costituzionale riguardanti l'art. 1, comma 2, seconda parte, della legge n. 42 del 1999, il giudice a quo si limita ad osservare che «rimane impregiudicato il quesito posto con la precedente ordinanza»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni vengano ritenute l'una manifestamente inammissibile e l'altra manifestamente infondata, ovvero che la Corte provveda preliminarmente alla restituzione degli atti in relazione alla modifica dell'art. 117 Cost. disposta dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Considerato che, successivamente alla proposizione della presente questione di legittimità costituzionale, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui articolo 3 ha totalmente modificato l'art. 117 Cost., invocato come parametro nel giudizio a quo; che in considerazione di tale modifica, che va ad innovare l'intero quadro normativo, si rende preliminarmente necessaria la restituzione degli atti al giudice rimettente perché riesamini i termini della questione a suo tempo sollevata. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti alla Corte dei conti, sezione centrale di controllo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2002.

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Ord. 5 giugno 2002, n. 248

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Liguria, riapprovata il 10 ottobre 2000, recante «Modifiche alla legge regionale 22 febbraio 1995, n. 12 e successive modifiche e integrazioni e individuazione di ulteriori forme di tutela del territorio», promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 27 ottobre 2000, depositato in Cancelleria il 6 novembre 2000 ed iscritto al n. 19 del registro ricorsi 2000. Visto l'atto di costituzione della Regione Liguria; udito nella camera di consiglio del 10 aprile 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 27 ottobre 2000, depositato il successivo 6 novembre, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della delibera legislativa della Regione Liguria approvata dal Consiglio regionale l'11 agosto 2000, riapprovata a maggioranza assoluta, a seguito di rinvio governativo, il 10 ottobre 2000, recante «Modifiche alla legge regionale 22 febbraio 1995, n. 12 e successive modifiche e integrazioni e individuazione di ulteriori forme di tutela del territorio», in riferimento alla legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette); che, secondo la difesa erariale, la delibera legislativa, unitamente ad altra pure impugnata dal Governo, realizzerebbe un «assetto normativo regionale in materia di tutela del territorio» in contrasto con l'art. 9 della Costituzione; che, in particolare, ad avviso dell'Avvocatura, l'istituzione - con il comma 1-bis dell'art. 3 della legge regionale n. 12 del 1995 - di una area tutelata denominata "paesaggio protetto" si porrebbe in contrasto con gli artt. 2 e 12 della legge n. 394 del 1991, in quanto sottrarrebbe alla protezione ambientale una parte del territorio che dovrebbe invece goderne; che, secondo il ricorrente, le aree che ricadono nella categoria del "paesaggio protetto" sarebbero già comprese nelle "aree protette" di cui al comma 1, cosicché il termine servirebbe a «dare una dignità alla volontà legislativa enunciata nella rubrica ("altre forme di tutela del territorio"), ma costituirebbe solo un'operazione di cosmesi legislativa, in quanto, sostanzialmente, il requisito costituisce un'eco della finalità della tutela delle aree specificata nel comma 3, lettera b), dell'art. 1 della legge n. 294 del 1991» e confermerebbe l'intento elusivo della legge-quadro; che, ad avviso della difesa erariale, il riferimento contenuto nel comma 1-bis dell'art. 3 della legge regionale n. 12 del 1995 - introdotto dalla delibera legislativa impugnata - alle Linee guida per le categorie di gestione delle aree protette elaborate dall'IUCN (The World Conservation Union) realizzerebbe una elusione delle norme di salvaguardia recate dalla legge n. 394 del 1991, giacché dette Linee guida non potrebbero costituire parametri per la tutela ambientale e paesaggistica delle aree protette; che, secondo il ricorrente, la delibera legislativa diminuirebbe la soglia di tutela ambientale, sottraendo alla stessa aree altrimenti riconducibili all'art. 3, comma 1, della legge regionale n. 12 del 1995, mentre «l'art. 1, comma 3», introducendo «il comma 6-bis dell'art. 47» della legge regionale n. 12 del 1995 farebbe sì che l'elenco ufficiale delle aree protette possa derogare ai principi fissati nel titolo III della legge n. 394 del 1991,

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mediante la sottrazione al regime di protezione di aree classificate come "parco naturale" in base alla precedente legge; che, inoltre, il divieto di caccia nelle aree protette, stabilito dalle leggi n. 394 del 1991 e 11 febbraio 1992, n. 157, sarebbe eluso dall'art. 1, comma 7, e la «nuova formulazione del comma 6 dell'art. 47» della legge regionale n. 12 del 1995, stabilendo che alcuni parchi sono classificati come "parchi naturali regionali" ad ogni effetto a decorrere dal 1° luglio 2001 e sino all'approvazione dei relativi piani, priverebbe queste aree di ogni tutela ambientale per un tempo indefinito, permettendo l'attività venatoria all'interno di aree protette; che, infine, ad avviso della difesa erariale, l'art. 1, comma 4, disponendo che il piano del parco può prevedere una nuova perimetrazione del parco naturale regionale e del paesaggio protetto, vincolando la pianificazione territoriale di livello regionale, provinciale e comunale, integrandola, violerebbe gli artt. 22 e seguenti della legge n. 394 del 1991, in virtù dei quali il piano del parco ha valore di piano paesistico e di piano urbanistico e sostituisce i piani paesistici ed i piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello; che nel giudizio si è costituita la Regione Liguria, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata; che, secondo la resistente, l'istituzione della categoria del "paesaggio protetto" non violerebbe gli artt. 2 e 12 della legge n. 394 del 1991, in quanto, ferma restando la classificazione delle aree naturali protette indicate nella legge-quadro, la delibera legislativa sarebbe strumentale rispetto allo scopo di garantire la tutela di valori ulteriori, tra essi quelli che costituiscono «testimonianze dell'interazione tra attività umane e valori ambientali posti in relazione con l'area-parco vera e propria»; che, ad avviso della Regione, la censura riferita all'art. 1, comma 3, nella parte in cui ha introdotto nell'art. 47 della legge regionale n. 12 del 1995 il comma 6-bis, a suo avviso, sarebbe frutto di un errore materiale, in quanto riguarderebbe la delibera legislativa impugnata con un diverso ricorso, mentre l'identificazione di ambiti classificati come "paesaggio protetto" escluderebbe l'applicabilità del divieto di caccia soltanto in quanto i valori protetti non sarebbero di tipo naturalistico e, proprio per questo, non sussisterebbe una violazione degli artt. 22 della legge n. 394 del 1991 e 21 della legge n. 157 del 1992; che, infine, secondo la resistente, l'art. 1, comma 4, non violerebbe l'art. 25, comma 2, della legge n. 394 del 1991, poiché al piano dell'area protetta sarebbe stata riconosciuta la sovraordinazione rispetto agli altri strumenti di pianificazione territoriale, sia pure mediante una formulazione propria del sistema pianificatorio regionale ligure, mutuata dall'art. 2, comma 5, della legge urbanistica regionale 4 settembre 1997, n. 36; che l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato atto di rinuncia al ricorso, in considerazione della sopravvenuta modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione, ma che non è pervenuta, da parte della Regione, accettazione della rinuncia. Considerato che, nel corso del giudizio, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che, tra l'altro, ha abolito il procedimento di controllo della costituzionalità delle leggi regionali promosso, anteriormente alla promulgazione ed alla pubblicazione, dal Governo; che il nuovo testo dell'art.127 della Costituzione, come riformulato dall'art. 8 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ora stabilisce che «il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione»; che, secondo quanto affermato da questa Corte, il ricorso già proposto dal Governo contro la delibera legislativa regionale nell'osservanza della sequenza procedimentale stabilita dall'originario testo dell'art. 127 della Costituzione, è divenuto improcedibile, poiché non è più previsto che il sindacato di costituzionalità sia esercitato sulla delibera legislativa regionale prima che quest'ultima sia stata promulgata e pubblicata e, quindi, sia divenuta legge in senso proprio (tra le molte, sentenza n. 17 del 2002; ordinanza n. 228 del 2002);

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che, conseguentemente, il ricorso, proposto ai sensi del testo originario dell'art. 127 della Costituzione, deve essere dichiarato improcedibile. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara improcedibile il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2002.

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Ord. 5 giugno 2002, n. 247

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Liguria, riapprovata il 10 ottobre 2000, recante «Modificazioni ed integrazioni urgenti alla legge regionale 22 febbraio 1995, n. 12 (Riordino delle aree protette) come modificata con legge regionale 21 aprile 1995, n. 32», promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 27 ottobre 2000, depositato in Cancelleria il 6 novembre 2000 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2000. Visto l'atto di costituzione della Regione Liguria; udito nella camera di consiglio del 10 aprile 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 27 ottobre 2000, depositato il successivo 6 novembre, solleva questione di legittimità costituzionale della delibera legislativa della Regione Liguria approvata l'11 agosto 2000, riapprovata, a seguito di rinvio governativo, il 10 ottobre 2000, recante «Modificazioni ed integrazioni urgenti alla legge regionale 22 febbraio 1995, n. 12 (Riordino delle aree protette) come modificata con legge regionale 21 aprile 1995, n. 32» e, in particolare, dell'art. 1, commi 2 e 3, in riferimento alla legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), alla legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) ed al D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della L. 8 ottobre 1997, n. 352); che, ad avviso della difesa erariale, la delibera legislativa impugnata sarebbe viziata «nel suo complesso, in quanto espressione di un intento dilatorio della Regione nell'applicazione a determinate aree, comprese tra i parchi naturali regionali, della disciplina tipica delle aree protette ed in particolare del divieto di attività venatoria» e, in contrasto con le leggi n. 394 del 1991 e n. 157 del 1992, realizzerebbe «di fatto una deroga al divieto di caccia in parti di territori di parchi regionali che sono state già classificate dalla regione quali "parchi naturali regionali" e sono tuttora destinate ad essere disciplinate dal piano di parco»; che, secondo l'Avvocatura, l'art. 1, comma 2, nella parte in cui sostituisce il comma 6 dell'art. 47 della legge regionale n. 12 del 1995, disponendo che, a far data dal 1 luglio 2001 e fino all'approvazione dei relativi piani, alcuni parchi sono classificati ad ogni effetto come parchi naturali regionali, violerebbe sia gli artt. 6, comma 4, e 22, comma 6, della legge n. 394 del 1991, sia il D.Lgs. n. 490 del 1999, dato che il territorio, sino alla data del 1 luglio 2001, rimarrebbe privo della tutela paesistica; che, ad avviso del ricorrente, l'art. 1, comma 3, prevedendo che, fino all'entrata in vigore dei relativi piani, sono in via transitoria classificate come parco naturale regionale le parti del territorio dei parchi regionali alle quali sia applicabile un regime di tutela conforme alla legge n. 394 del 1991, riconosciute nell'elenco ufficiale delle aree protette, violerebbe gli artt. 22 e seguenti della legge n. 394 del 1991 e l'art. 21, comma 1 lettera b), della legge n. 157 del 1992, in quanto la disciplina escluderebbe l'operatività del «regime di tutela e di divieti» stabiliti per le aree protette e, soprattutto, del divieto di caccia; che nel giudizio si è costituita la Regione Liguria, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata; che, secondo la resistente, la legge regionale n. 12 del 1995, nel riordinare le aree protette esistenti, aveva stabilito che per le stesse la qualificazione di "parco naturale" sarebbe decorsa dal 1° febbraio 1996,

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posticipando tuttavia l'entrata in vigore del divieto di esercizio di caccia alla data di adozione del piano dell'area protetta, ovvero, in mancanza, al decorso di trenta mesi dall'insediamento dei consigli degli enti di gestione; che, ad avviso della Regione, anche a seguito della sentenza della Corte n. 20 del 2000, la delibera legislativa in esame ha modificato l'art. 47 della legge regionale n. 12 del 1995, sostituendo il comma 6 ed inserendo il comma 6-bis, i quali fissano il termine per l'approvazione dei piani di parco al 30 giugno 2001, individuano il territorio dei parchi regionali nelle sole porzioni di essi inserite nell'elenco ufficiale delle aree protette e, in tal modo, rendono più rigoroso il regime di tutela da applicarsi ai parchi che, dopo il 30 giugno 2001, siano ancora privi di piano; che, secondo la resistente, la legge impugnata non sarebbe caratterizzata da un intento dilatorio nell'applicazione a determinate aree del divieto di caccia e garantirebbe il rispetto dei limiti e divieti previsti dalle norme statali, mentre la censura dell'art. 1, comma 2, riferita all'art. 6 della legge n. 394 del 1991, sarebbe infondata, in quanto quest'ultima norma non riguarderebbe le aree regionali protette, bensì quelle nazionali e non costituirebbe norma di principio; che, infine, ad avviso della Regione, l'art. 1, comma 3, sarebbe diretto esclusivamente a perimetrare i "parchi naturali regionali", fermo restando il rispetto delle norme statali, cosicché non violerebbe gli artt. 22 della legge n. 394 del 1991 e 21, comma 1 lettera b), della legge n. 157 del 1992; che l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato atto di rinuncia al ricorso, in considerazione della sopravvenuta modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione, ma che non è pervenuta, da parte della Regione, accettazione della rinuncia. Considerato che, nel corso del giudizio, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che, tra l'altro, ha abolito il procedimento di controllo della costituzionalità delle leggi regionali promosso, anteriormente alla promulgazione ed alla pubblicazione, dal Governo; che il nuovo testo dell'art.127 della Costituzione, come riformulato dall'art. 8 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ora stabilisce che «il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione»; che, secondo quanto affermato da questa Corte, il ricorso già proposto dal Governo contro la delibera legislativa regionale nell'osservanza della sequenza procedimentale stabilita dall'originario testo dell'art. 127 della Costituzione, è divenuto improcedibile, poiché non è più previsto che il sindacato di costituzionalità sia esercitato sulla delibera legislativa regionale prima che quest'ultima sia stata promulgata e pubblicata e, quindi, sia divenuta legge in senso proprio (tra le molte, sentenza n. 17 del 2002; ordinanza n. 228 del 2002); che, conseguentemente, il ricorso, proposto ai sensi del testo originario dell'art. 127 della Costituzione, deve essere dichiarato improcedibile. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara improcedibile il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2002.

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Ord. 5 giugno 2002, n. 246

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Toscana, riapprovata il 4 luglio 2001, concernente «Modifiche alla legge regionale 26 gennaio 2001, n. 3 (Disposizioni per il finanziamento di provvedimenti di spesa per il periodo 2001-2003)», promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 23 luglio 2001, depositato in cancelleria il 2 agosto 2001 e iscritto al n. 36 del registro ricorsi 2001. Visto l'atto di costituzione della Regione Toscana; udito nella camera di consiglio del 10 aprile 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky. Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso del 2 agosto 2001, ha promosso questione di legittimità costituzionale della delibera legislativa della Regione Toscana riapprovata dal Consiglio regionale nella seduta del 4 luglio 2001 [Modifiche alla legge regionale 26 gennaio 2001, n. 3 (Disposizioni per il finanziamento di provvedimenti di spesa per il periodo 2001-2003)], in relazione al principio enunciato dall'art. 2 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell'art. 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419); che il ricorrente premette che: a) il Consiglio regionale della Toscana, nella seduta del 28 febbraio 2001, ha approvato una delibera legislativa, con la quale ha introdotto l'art. 13-bis nella legge regionale 26 gennaio 2001, n. 3 (Disposizioni per il finanziamento di provvedimenti di spesa per il periodo 2001-2003); b) il Governo ha rinviato, ai sensi dell'art. 127 della Costituzione, la delibera al Consiglio regionale, rilevando che la previsione, in essa contenuta, dell'attribuzione alle aziende sanitarie di «ordinari flussi di cassa tramite anticipazioni straordinarie» nella misura massima del 15% della quota annua assegnata dalla Regione a ciascuna azienda, contrasterebbe con l'art. 2 del decreto legislativo n. 229 del 1999, che limita tali anticipazioni ad «un dodicesimo dell'ammontare annuo del valore dei ricavi, inclusi i trasferimenti, iscritti nel bilancio preventivo annuale» dell'azienda; c) il 4 luglio 2001 il Consiglio regionale ha riapprovato a maggioranza assoluta la delibera legislativa rinviata, con l'aggiunta, nel primo comma, di una precisazione - l'essere le anticipazioni straordinarie subordinate all'esaurimento delle ordinarie risorse disponibili - che però al ricorrente «non appare idonea a superare le censure governative»; che, secondo il ricorrente, l'art. 2, comma 2-sexies, lettera g), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 2 del citato decreto legislativo n. 229 del 1999, stabilisce il principio in base al quale l'anticipazione disposta dal tesoriere alle unità sanitarie locali è ammessa nel limite di un dodicesimo dell'ammontare annuo del valore dei ricavi, inclusi i trasferimenti, iscritti nel bilancio preventivo annuale; principio che sarebbe «palesemente violato» dalla delibera legislativa impugnata; che - prosegue il ricorrente - non vale a superare la censura la precisazione, introdotta dal Consiglio regionale in sede di riapprovazione, che subordina le anticipazioni straordinarie all'avvenuto esaurimento

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delle risorse disponibili, perché in essa si affermerebbe «una cosa ovvia», dato il carattere straordinario delle anticipazioni in questione; che inoltre non sarebbero idonei a legittimare la delibera impugnata né la limitazione temporale della misura prevista (che cessa di produrre effetti con l'emanazione dei provvedimenti statali necessari alla completa attuazione del sistema di erogazione alle Regioni delle risorse finanziarie destinate al pagamento della spesa sanitaria), né lo stato di «emergenza sanitaria» determinato «dalla soppressione del Servizio sanitario nazionale», mentre la circostanza che la stessa normativa regionale censurata stabilisce un tetto alle anticipazioni di cassa smentirebbe l'affermata esigenza di fronteggiare un'emergenza finanziaria non definibile a priori; che si è costituita in giudizio la Regione Toscana, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o infondata; che, in una memoria depositata in prossimità dell'udienza, la Regione resistente, richiamando la recente giurisprudenza costituzionale, ha chiesto che il ricorso sia dichiarato improcedibile. Considerato che, per effetto della modificazione dell'art. 127 della Costituzione, introdotta dall'art. 8 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), e in particolare della soppressione del controllo di costituzionalità che, in base al testo originario dello stesso art. 127, il Governo poteva chiedere alla Corte nei confronti della delibera legislativa regionale prima della promulgazione, il presente giudizio non può avere ulteriore seguito, non essendo più previsto che il controllo di costituzionalità della Corte si eserciti sulla delibera legislativa regionale prima che quest'ultima sia, con la promulgazione e la pubblicazione, divenuta legge in senso proprio; che, in conseguenza della nuova anzidetta disciplina, il ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi del testo originario dell'art. 127 della Costituzione deve essere dichiarato improcedibile, salva la facoltà del Governo di impugnare successivamente la legge regionale, una volta che questa sia promulgata e pubblicata, nei termini e nei modi di cui al nuovo testo dell'art. 127 della Costituzione (sentenza n. 17 del 2002; ordinanze n. 228 e n. 182 del 2002). Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara l'improcedibilità del ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2002.

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Ord. 5 giugno 2002, n. 245

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera c) della legge della Regione Piemonte 28 marzo 1995, n. 46 (Nuove norme per le assegnazioni e per la determinazione dei canoni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica), promossi con due ordinanze emesse il 5 giugno 2001 dal Tribunale di Torino iscritte ai nn. 887 e 888 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2001. Udito nella camera di consiglio del 10 aprile 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che il Tribunale di Torino, sezione VIII civile, con due distinte ordinanze, entrambe del 5 giugno 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera c) della legge della Regione Piemonte 28 marzo 1995, n. 46 (Nuove norme per le assegnazioni e per la determinazione dei canoni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica), in riferimento agli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione; che, ad avviso del giudice a quo, la norma impugnata - nella parte in cui prevede, tra i requisiti per conseguire l'assegnazione di alloggio di edilizia residenziale pubblica e per conservarne il diritto al godimento, la "non titolarità del diritto di proprietà, usufrutto, uso e abitazione su uno o più immobili ubicati in qualsiasi località, la cui rendita catastale rivalutata sia superiore a 3 volte la tariffa della categoria A/2 classe I del Comune o della zona censuaria in cui è ubicato l'immobile o la quota prevalente degli immobili" - si porrebbe in contrasto con l'art.117 della Costituzione, poiché recherebbe disciplina difforme rispetto alla legislazione statale di principio (delibera del CIPE del 13 marzo 1995, attuativa dell'art. 88 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 contenente "Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382"); che, secondo il rimettente, la norma denunziata violerebbe altresì l'art. 3 della Costituzione, realizzando un'ingiustificata disparità di trattamento, in ordine all'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, tra chi non abbia la disponibilità di alcun immobile e chi risulti invece titolare di un immobile la cui rendita catastale, pur soddisfacendo i requisiti richiesti dalla disposizione, non attesti alcuna idoneità abitativa per il nucleo familiare del richiedente; che, infine, la disposizione censurata violerebbe anche l'art. 97 della Costituzione, "in quanto l'adozione, da parte delle amministrazioni, di provvedimenti in attuazione del criterio denunciato si porrebbe in contrasto con i principi di imparzialità e buon andamento ivi previsti". Considerato che l'identità delle norme impugnate e dei parametri costituzionali evocati rende opportuna la riunione dei giudizi; che il Tribunale di Torino solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lett. c) della legge della Regione Piemonte 28 marzo 1995, n. 46, in riferimento, tra gli altri, all'art. 117 della Costituzione sotto il profilo del contrasto con i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale in materia (art. 88 del D.P.R. 28 luglio 1977, n. 616; delibera del CIPE del 13 marzo 1995); che, successivamente alla pronuncia delle ordinanze di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione;

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che, pertanto, essendo stata modificata una delle norme costituzionali invocate come parametro di giudizio, si impone, come più volte affermato da questa Corte, la restituzione degli atti al giudice a quo, affinché riesamini i termini della questione alla luce del sopravvenuto mutamento del quadro normativo (ex plurimis, ordinanze n. 166 del 2002, n.165 del 2002 e n. 117 del 2002). Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Torino, sezione VIII civile. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2002.

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Ord. 3 giugno 2002, n. 235

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 31 e 33 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), promosso con ordinanza dell'11 aprile 2001 dal Tribunale amministrativo per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sui ricorsi riuniti proposti da Legambiente Puglia ed altri contro Comune di Ostuni ed altri, iscritta al n. 45 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2002. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'8 maggio 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, solleva, con ordinanza dell'11 aprile 2001, questione di legittimità costituzionale degli artt. 31 e 33 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), in riferimento agli artt. 3, 5, 11, 118 e 128 della Costituzione; che nel giudizio a quo sono stati impugnati atti concernenti la realizzazione di una centrale termoelettrica per la quale è stata presentata domanda di autorizzazione ex art. 17 del D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, ed è stata chiesta la dichiarazione di assimilabilità del combustibile impiegato (C.d.r.) ai rifiuti solidi urbani (R.s.u.); che, ad avviso del Tar, nel caso sottoposto al suo esame non sarebbero applicabili le norme che disciplinano il procedimento per la valutazione di impatto ambientale (V.i.a.), bensì gli artt. 31 e 33 del D.Lgs. n. 22 del 1997, i quali stabiliscono un procedimento semplificato che, tra l'altro, si caratterizzerebbe per la mancata previsione sia delle «osservazioni da parte dei soggetti territorialmente interessati», sia del referendum consultivo dei cittadini che risiedono nella zona dove è realizzato l'impianto; che, secondo il rimettente, l'applicabilità di quest'ultimo procedimento non sarebbe ragionevole, dato che esso non prevede la partecipazione dei cittadini interessati e l'intervento degli enti locali e, proprio per questo, si porrebbe in contrasto con gli artt. 5, 11, 118 e 128 della Costituzione, violando il principio di sussidiarietà, di derivazione comunitaria, da ritenersi costituzionalizzato ai sensi dell'art. 11 della Costituzione, in virtù del recepimento nel nostro ordinamento, con legge 30 dicembre 1986 (recte, 1989) n. 439, della Carta europea dell'autonomia locale; che, nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata. che, ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe stata sollevata «in via meramente eventuale ed ipotetica», non avendo il rimettente indicato le ragioni che ne dimostrerebbero la pregiudizialità rispetto alla decisione delle domande; che, secondo l'interveniente, l'ordinanza di rimessione non conterrebbe neppure le indicazioni indispensabili per ritenere che la realizzazione dell'impianto possa essere autorizzata all'esito del procedimento disciplinato dagli artt. 31 e 33 del D.Lgs. n. 22 del 1997, norme entrambe inapplicabili anche perché oggetto del giudizio principale sarebbe esclusivamente la legittimità della concessione edilizia;

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che, ad avviso dell'Avvocatura, la questione sarebbe, inoltre, manifestamente inammissibile e comunque infondata, dato che la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha modificato l'art. 118 Cost., ed ha abrogato l'art. 128 Cost., norme entrambe indicate quali parametri costituzionali. Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 31 e 33 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, in riferimento agli artt. 3, 5, 11, 118 e 128 della Costituzione; che, successivamente all'ordinanza di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), che, tra l'altro, con gli art. 4 e 9, comma 2, ha rispettivamente sostituito il testo dell'art. 118 Cost. ed abrogato l'art. 128 Cost.; che, pertanto, essendo intervenuto un mutamento di due delle norme costituzionali invocate come parametro di giudizio, occorre disporre, secondo un principio più volte affermato da questa Corte, la restituzione degli atti al giudice rimettente, affinché riesamini, sotto ogni profilo, i termini della questione alla luce dell'intervenuto mutamento del quadro normativo (per tutte, ordinanze n. 166 e n. 165 del 2002). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 giugno 2002.

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Ord. 3 giugno 2002, n. 230

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge della Regione Veneto 2 aprile 1996, n. 10 (Disciplina per l'assegnazione e fissazione dei canoni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica), come modificato dalla legge della Regione Veneto 16 maggio 1997, n. 14 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 2 aprile 1996, n. 10 "Disciplina per l'assegnazione e la fissazione dei canoni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica"), promosso con ordinanza emessa il 24 febbraio 2001 dal Tribunale di Padova nel procedimento civile vertente tra B. S. ed altri e l'Azienda Territoriale Edilizia Residenziale, iscritta al n. 403 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visti l'atto di costituzione di B. S. ed altri nonché l'atto di intervento della Regione Veneto; udito nella camera di consiglio del 13 marzo 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che, con ordinanza del 24 febbraio 2001, il Tribunale di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge della Regione Veneto 2 aprile 1996, n. 10 (Disciplina per l'assegnazione e fissazione dei canoni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica), come modificato dalla legge della Regione Veneto 16 maggio 1997, n. 14 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 2 aprile 1996, n. 10 "Disciplina per l'assegnazione e la fissazione dei canoni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica"), in riferimento agli artt. 3, 70, 115 e 117 della Costituzione; che, ad avviso del giudice a quo, la norma impugnata - nella parte in cui prevede la possibilità che, per la cd. area sociale e per la cd. area di decadenza, il canone di locazione degli alloggi di edilizia residenziale sia fissato, in conformità alle delibere del CIPE, in misura superiore a quello cd. equo fissato dalla legge 27 luglio 1978, n. 392 - recherebbe vulnus agli artt. 70, 115 e 117 della Costituzione, poiché la Regione, priva di competenza legislativa nella materia, non potrebbe "modificare mediante la deliberazione del CIPE una situazione normativa statuita con legge ordinaria"; che, secondo il rimettente, la norma denunziata, stabilendo che il canone di locazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica possa essere fissato, per l'area sociale, in misura superiore a quello "equo", violerebbe anche l'art. 3 della Costituzione, poiché, in riferimento a detta area, non sussisterebbe l'esigenza di stabilire un canone in una misura tale da indurre gli occupanti a liberare gli immobili; che, ad avviso del Tribunale, le norme statali entrate in vigore successivamente alla legge regionale n. 10 del 1996, concernenti la disciplina dei criteri per la determinazione dei canoni relativi agli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 60, comma 1, del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 recante "Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59"; artt. 4, comma 4, e 14 della legge 9 dicembre 1998, n. 431 contenente la "Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo"), non influirebbero sull'applicabilità e sulla legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge regionale n. 10 del 1996; che, pertanto, secondo il giudice a quo, nonostante l'accennato mutamento del quadro normativo di riferimento, la questione sarebbe rilevante e non manifestamente infondata; che nel giudizio è intervenuto il Presidente della Giunta della Regione Veneto chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o comunque infondata, sia in quanto la norma regionale si sarebbe

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conformata alle delibere del CIPE, sia in quanto le sopravvenute modifiche del quadro normativo di riferimento avrebbero confermato la competenza legislativa regionale in materia, non essendo più possibile assumere le norme della legge n. 392 del 1978 quale valido tertium comparationis; che nel giudizio si sono costituiti i ricorrenti nel processo principale, i quali, nell'atto di costituzione e nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, hanno chiesto l'accoglimento della questione. Considerato che il Tribunale di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge della Regione Veneto n. 10 del 1996, come modificato dalla legge regionale n. 14 del 1997, in riferimento agli artt. 3, 70, 115 e 117 della Costituzione; che, successivamente all'ordinanza di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione ed il cui art. 9 ha abrogato l'art.115 della Costituzione; che, pertanto, essendo intervenuto un mutamento di due delle norme costituzionali invocate come parametro di giudizio, occorre disporre, secondo un principio più volte affermato da questa Corte, la restituzione degli atti al giudice a quo, affinché riesamini i termini della questione alla luce del sopravvenuto mutamento del quadro normativo (ex plurimis: ordinanze n. 117, n. 96 e n. 76 del 2002). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Padova. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 giugno 2002.

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Ord. 22 maggio 2002, n. 228

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale della delibera legislativa della Regione Piemonte, riapprovata il 29 febbraio 2000, recante "Regolamentazione sull'applicazione della terapia elettroconvulsivante, la lobotomia prefrontale e transorbitale ed altri interventi di psicochirurgia", promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 17 marzo 2000, depositato in cancelleria il 25 successivo ed iscritto al n. 11 del registro ricorsi 2000. Visto l'atto di costituzione della Regione Piemonte nonché l'atto di intervento del Comitato dei cittadini per i diritti dell'uomo (C.C.D.U.) di Milano; udito nella camera di consiglio del 10 aprile 2002 il Giudice relatore Valerio Onida. Ritenuto che, con ricorso notificato il 17 marzo 2000 e depositato in cancelleria il successivo 25 marzo, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale nei confronti della delibera legislativa della Regione Piemonte recante "Regolamentazione sull'applicazione della terapia elettroconvulsivante, la lobotomia prefrontale e transorbitale ed altri interventi di psicochirurgia", già approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 30 dicembre 1999 e - a seguito di rinvio governativo - riapprovata, a maggioranza assoluta e senza modificazioni, nella seduta del 29 febbraio 2000; che nel ricorso si sostiene che tale delibera, introducendo nella sola Regione Piemonte disposizioni limitative di alcune pratiche terapeutiche, contrasterebbe con gli artt. 2, 32 e 117 della Costituzione, e con le norme interposte contenute negli artt. 1, 2, 3 e 5 della legge 13 maggio 1978, n. 180 (Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori), negli artt. 33, 34 e 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), negli artt. 1 e 14 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), e negli artt. 112, 113, 114 e 115 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59); che le disposizioni in essa contenute, ed in particolare gli artt. 4 (Limiti di utilizzo) e 5 (Deontologia medica), comprimerebbero in modo "dirigistico" l'autonomia scientifica e professionale dei sanitari e delle strutture preposti alla cura della salute, contrasterebbero con il principio secondo cui i trattamenti sanitari sono volontari salvo tassative eccezioni consentite dalla legge, e comunque sarebbero invasive della competenza statale da ultimo puntualizzata dall'art. 115, comma 1, lett. b, d ed e del decreto legislativo n. 112 del 1998; che le medesime disposizioni contenute negli artt. 4 e 5 della delibera regionale atterrebbero alla preferibilità, qualità ed "appropriatezza" di alcune cure (così nell'art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 502 del 1992, come sostituito dal D.Lgs. n. 229 del 1999), e quindi al diritto sostanziale alla salute dell'individuo, e non agli aspetti strumentali quali l'organizzazione e la gestione di presidi e strutture sanitari e più in generale del servizio sanitario; che, invece, i compiti conferiti alle Regioni in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera riguarderebbero la concreta prestazione dell'assistenza, e quindi "verrebbero dopo" quelli relativi all'area concettuale dei diritti fondamentali della persona paziente e alla contigua area delle responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie e della ricerca medica, che invece spetterebbe allo Stato disciplinare in modo uniforme;

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che si è costituita la Regione Piemonte, la quale, riservate ulteriori deduzioni e memorie, chiede alla Corte di dichiarare inammissibile e infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Presidente del Consiglio, rigettando il ricorso; che, dopo avere notato che non vi sarebbe corrispondenza tra i motivi del rinvio e quelli dell'impugnazione, poiché nel ricorso governativo è presente, in aggiunta al rilievo già formulato nell'atto di rinvio, il riferimento alle norme interposte di cui agli artt. 1, 2, 3 e 5 della legge n. 180 del 1978, la Regione rileva che l'assunto del ricorrente appare basato su una visione riduttiva dell'autonomia legislativa regionale nella materia dell'assistenza sanitaria e ospedaliera, che non corrisponderebbe né al dettato costituzionale né all'assetto complessivo delle attribuzioni spettanti allo Stato e alle Regioni; che, secondo la resistente, non vi sarebbe nessun contrasto con le norme costituzionali ed interposte invocate nel ricorso, che sarebbero anzi pienamente attuate dalla regolamentazione voluta dal Consiglio regionale piemontese, la quale non atterrebbe al contenuto tecnico di determinate attività sanitarie, bensì si prefiggerebbe di rafforzare la tutela dell'individuo soggetto al trattamento mediante il consenso informato, e, quanto al divieto di utilizzo della terapia elettroconvulsivante su bambini ed anziani e di utilizzo degli interventi di lobotomia prefrontale e transorbitale, costituirebbe attuazione della legge n. 180 del 1978; che con "comparsa di intervento" depositata il 24 settembre 2001, e quindi oltre il termine previsto dall'art. 23 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale, ha depositato domanda di intervento il Comitato dei cittadini per i diritti dell'uomo (C.C.D.U.) di Milano, chiedendo il rigetto del ricorso governativo; che, nell'imminenza dell'udienza pubblica del 9 ottobre 2001, ha presentato memoria il Presidente del Consiglio ricorrente, segnalando, fra l'altro, che con l'art. 11 del decreto legge n. 217 del 2001, convertito nella legge n. 317 del 2001, è stato nuovamente istituito il Ministero ora denominato della salute, e che l'art. 47-ter, così inserito nel decreto legislativo n. 300 del 1999, conferma il permanere della competenza statale in materia di "prevenzione diagnosi cura e riabilitazione delle malattie umane"; e osservando che, per quanto non disposto dallo Stato, in ordine agli interventi terapeutici devono valere solo le regole dell'arte medica, eventualmente evidenziate e convalidate da documenti ufficiali delle autorità sanitarie; che ha presentato memoria anche la Regione Piemonte, depositando alcuni documenti e insistendo innanzitutto per la declaratoria di inammissibilità della questione per la genericità delle censure e per la mancata corrispondenza tra i motivi del rinvio e quelli dell'impugnazione; che, nel merito, la difesa regionale sostiene che gli artt. 2 e 32 della Costituzione sarebbero pienamente attuati dalla legge impugnata e, in relazione all'art. 117 della Costituzione, che tutti gli articoli della legge atterrebbero alla materia "assistenza sanitaria ed ospedaliera", nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, senza alcuna interferenza con la ricerca scientifica e medica, ma anzi con intento di specifico ausilio per gli studi clinici e in consonanza con le indicazioni del Ministro della sanità fornite con circolare 15 febbraio 1999; e, ancora, che la delibera legislativa regionale non interferirebbe con le funzioni mediche diagnostiche e curative, ma stabilirebbe particolari e legali cautele, indispensabili anche per evitare responsabilità risarcitorie a carico dell'ente pubblico per interventi lesivi; che, a seguito dell'udienza del 9 ottobre 2001, con ordinanza del 28 novembre 2001, è stato disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo; che, con atto del 28 febbraio 2002, notificato alla Regione Piemonte, il Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato di rinunciare al ricorso in considerazione della sopravvenuta modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione, ma che non è pervenuta, da parte della Regione, accettazione della rinuncia. Considerato che l'art. 8 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), ha sostituito l'art. 127 della Costituzione, il quale ora stabilisce, al primo comma, che "il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione";

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che è stata dunque soppressa la fase del controllo governativo sulla legge regionale deliberata ma non ancora promulgata, che si esplicava mediante il rinvio della legge stessa al Consiglio regionale e la successiva eventuale impugnazione della stessa davanti a questa Corte, sulla base di motivi già enunciati nel rinvio, con effetto preclusivo della promulgazione fino all'esito del giudizio: onde oggi l'unica ipotesi, prevista dalla Costituzione, di giudizio di legittimità costituzionale promosso in via principale nei confronti della legge regionale è quella del giudizio instaurato dal Governo con l'impugnazione della legge già promulgata e pubblicata; che, pertanto, per effetto della indicata modificazione della norma costituzionale, come questa Corte ha già statuito, i ricorsi in precedenza introdotti, ai sensi del testo originario dell'art. 127 della Costituzione, nei confronti di deliberazioni legislative regionali, sono divenuti improcedibili, mentre resta salva la facoltà del Governo di promuovere nei confronti della legge regionale, una volta promulgata e pubblicata, questione di legittimità costituzionale nei termini previsti dal nuovo testo del medesimo art. 127 (sentenza n. 17 del 2002; ordinanza n. 65 del 2002; ordinanza n. 182 del 2002); che, conseguentemente, il ricorso in epigrafe, proposto ai sensi del testo originario dell'art. 127 della Costituzione, deve essere dichiarato improcedibile. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara improcedibile il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 2002.

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Ord 06 maggio 2002, n. 182

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza Il Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 1, 5, comma 1, lettera c, e 12, comma 1, della delibera legislativa della Regione Umbria "Tutela sanitaria e ambientale dall'esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici", già approvata dal Consiglio regionale nella seduta del 21 maggio 2001 e - a seguito di rinvio governativo - riapprovata, a maggioranza assoluta, con modificazioni, nella seduta del 30 luglio 2001; che l'art. 2, comma 1, della delibera legislativa - il quale introduce il "principio di giustificazione", richiedendo ai gestori ed ai concessionari la dimostrazione delle ragioni obiettive della indispensabilità degli impianti che producono emissioni elettromagnetiche ai fini della operatività del servizio - violerebbe, ad avviso dell'Avvocatura, l'art. 97 della Costituzione e il principio generale di ragionevolezza, giacché, non avendo la Regione il potere di valutare l'indispensabilità degli impianti né il carattere obiettivo delle ragioni addotte, la previsione normativa sarebbe del tutto inutile, risolvendosi nella imposizione al privato di formalità onerose che non preludono a nessun controllo o ad interventi da parte dell'amministrazione competente; che l'art. 5, comma 1, lettera c, della delibera legislativa, là dove attribuisce alla Giunta regionale il potere di fissare, con regolamento, i criteri per l'elaborazione e l'attuazione dei piani di risanamento degli impianti radioelettrici, di telefonia mobile e di radiodiffusione, sarebbe incostituzionale perché la materia è riservata allo Stato: siccome l'art. 4, comma 4, della legge 22 febbraio 2001, n. 36 demanda ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri la determinazione dei criteri di elaborazione dei piani di risanamento, eventuali spazi di attribuzione regionale potrebbero essere desunti solo dall'emanando d.P.C.m., mentre non sarebbe consentito che la Regione provveda prima che lo Stato abbia fissato i livelli consentiti di inquinamento ed i criteri per porvi rimedio; e ciò in quanto si versa in una materia - osserva l'Avvocatura - che richiede necessariamente una disciplina uniforme su tutto il territorio dello Stato, in modo che sia adeguatamente tutelato l'interesse nazionale che l'art. 127, terzo comma, della Costituzione pone come limite al potere legislativo delle Regioni; che l'art. 12, comma 1, della delibera legislativa oggetto di impugnativa impone la procedura di valutazione di impatto ambientale "nei casi previsti dal regolamento di cui all'art. 5"; e che, ad avviso del ricorrente, la fonte dell'attribuzione regionale non può essere il regolamento richiamato, perché sulla valutazione d'impatto ambientale la competenza apparterrebbe allo Stato, anche ai sensi dell'art. 2, comma 6, lettera a, della legge 31 luglio 1997, n. 249, che attribuisce all'Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni il potere, sentite le Regioni, di fissare la localizzazione degli impianti con un piano articolato che consenta di realizzare i molteplici obiettivi fissati nella stessa norma: sarebbe escluso, pertanto, che ogni Regione possa valutare autonomamente le determinazioni del piano con la possibilità che ne derivi un danno anche ad altre Regioni; che nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituita la Regione Umbria, chiedendo che le sollevate questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate manifestamente infondate, in particolare osservando che la delibera legislativa impugnata persegue essenzialmente due obiettivi: da un lato, quello della tutela della salute della popolazione dagli effetti della esposizione ai campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, dall'altro, quello della salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio, nel rispetto del principio comunitario di precauzione e dei principi fondamentali dettati dalla legge 22 febbraio 2001, n. 36. In questa prospettiva si giustificherebbe l'art. 2 della delibera legislativa impugnata, il quale mira ad una maggiore responsabilizzazione dell'imprenditore, tendendo a raccogliere elementi conoscitivi non soltanto sull'adeguatezza dell'impianto, ma anche sulla sua necessità rispetto allo scopo perseguito;

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che infondata sarebbe anche la censura rivolta all'art. 5: sia perché dal combinato disposto degli artt. 4, comma 1, lettera d, e 9, comma 2, della legge n. 36 del 2001 risulterebbe che la riserva allo Stato della determinazione dei criteri si riferisce esclusivamente ai piani di risanamento degli elettrodotti; sia perché l'intervento regionale non potrebbe essere subordinato alla preventiva emanazione del previsto d.P.C.m., posto che altrimenti si riconoscerebbe allo Stato il potere di rinviare sine die l'emanazione di una disciplina di rilevante importanza per la materia cui si riferisce, così precludendosi alle Regioni di esercitare il proprio potere normativo; che, infine, la questione di costituzionalità avente ad oggetto l'art. 12 muoverebbe da un'inesatta ricostruzione del sistema, giacché non terrebbe conto né dell'art. 2-bis, comma 2, del decreto legge 1° maggio 1997, n. 115, né del fatto che la procedura di valutazione di impatto ambientale, essendo diretta alla corretta gestione del territorio, appartiene alla materia urbanistica nella sua accezione più ampia; che, in prossimità della camera di consiglio, la difesa della Regione Umbria ha depositato una memoria, nella quale, oltre a ribadire le precedenti conclusioni di merito, eccepisce l'improcedibilità del ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri alla luce dell'intervenuta modificazione dell'art. 127 della Costituzione. Considerato che l'art. 8 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) ha sostituito interamente l'art. 127 della Costituzione, il quale stabilisce, ora, al primo comma, che "il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte Costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione"; che è stata dunque soppressa la fase del controllo governativo sulla legge regionale deliberata ma non ancora promulgata, che si esplicava mediante il rinvio della legge al Consiglio regionale e la successiva eventuale impugnazione della stessa davanti a questa Corte, sulla base di motivi già enunciati nel rinvio, con effetto preclusivo della promulgazione fino all'esito del giudizio: onde oggi l'unica ipotesi, prevista dalla Costituzione, di giudizio di legittimità costituzionale promosso in via principale nei confronti della legge regionale è quella del giudizio instaurato dal Governo con l'impugnazione della legge già promulgata e pubblicata; che, pertanto, per effetto della indicata modificazione della norma costituzionale, come questa Corte ha già statuito, i ricorsi in precedenza introdotti, ai sensi del testo originario dell'art. 127 della Costituzione, nei confronti di deliberazioni legislative regionali, sono divenuti improcedibili, mentre resta salva la facoltà del Governo di promuovere nei confronti della legge regionale, una volta promulgata e pubblicata, questione di legittimità costituzionale nei termini previsti dal nuovo testo del medesimo art. 127 (sentenza n. 17 del 2002; ordinanza n. 65 del 2002): così consentendosi, fra l'altro, la prospettazione della questione, se del caso, alla luce anche dei nuovi parametri costituiti dalle altre disposizioni del titolo V, parte seconda, della Costituzione, a loro volta modificate dalla legge costituzionale n. 3 del 2001; che, conseguentemente, il ricorso in epigrafe, proposto ai sensi del testo originario dell'art. 127 della Costituzione, deve essere dichiarato improcedibile. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara improcedibile il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 maggio 2002.

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Ord. 6 maggio 2002, n. 179 La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), come novellato dalla legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa) e dell'art. 700 del codice di procedura civile, promosso con ordinanza emessa il 15 febbraio 2001 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia sul ricorso promosso dalla Casa di cura "Villa Letizia" S.r.l. contro la Regione Lombardia, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 2001, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale dell'anno 2001. Visto l'atto di costituzione della Casa di cura "Villa Letizia" S.r.l., nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 26 febbraio 2002 il Giudice relatore Riccardo Chieppa; uditi gli Avvocati Aldo Bozzi e Giuseppe Bozzi per la Casa di cura "Villa Letizia" S.r.l. e l'Avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, con ordinanza del Presidente della III Sezione in data 15 febbraio 2001, ha riproposto, in considerazione della ritenuta permanente rilevanza, la questione già oggetto dell'ordinanza (di restituzione atti a seguito della sopravvenuta legge n. 205 del 2000) della Corte n. 536 del 2000, relativa alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), come novellato dalla legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa),"nella parte in cui esclude la tutela ante causam e la conseguente applicabilità dell'art. 700 e degli artt. 669 e seguenti cod. proc. civ. davanti al giudice amministrativo"; che viene proposta una ulteriore questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dell'art. 700 cod. proc. civ. "laddove espressamente prevede che la tutela cautelare ante causam sia accordabile, nel concorso dei presupposti di legge, solo ai diritti soggettivi e non agli interessi legittimi"; che, secondo il giudice a quo, l'intervenuto art. 3, commi 1 e 2, della legge n. 205 del 2000, con sostituzione del settimo comma dell'art. 21 della legge n. 1034 del 1971, ha profondamente modificato il quadro della precedente disciplina di mera sospensione dei provvedimenti impugnati con la introduzione della possibilità di adottare misure cautelari innominate più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione del ricorso ed ha abilitato il Presidente del Tribunale amministrativo regionale, in caso di estrema gravità ed urgenza, a disporre misure cautelari provvisorie con decreto motivato anche in assenza di contraddittorio; che tuttavia - sempre secondo il giudice rimettente - le predette modifiche presuppongono sempre l'avvenuta redazione, la notifica, nonché il deposito del ricorso in sede giurisdizionale, affinché la richiesta misura cautelare provvisoria possa essere reputata ammissibile, con conseguente persistenza della rilevanza delle questioni in mancanza di possibilità di intervento ante causam; che il giudice rimettente si richiama ad una posizione processuale della pubblica amministrazione, che sarebbe privilegiata dinanzi al giudice amministrativo; alla sentenza di questa Corte n. 190 del 1985, non adeguatamente letta e valorizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza in modo da autorizzare la tutela ante causam per lo meno in sede di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; alla carenza di giustificazione della lettura restrittiva data dal Consiglio di Stato agli invocati articoli 6 e 1 della

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Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848; alla mancanza di garanzia di effettività della tutela giurisdizionale della corrente prassi del processo amministrativo; alla direttiva 89/665/CEE del Consiglio delle Comunità europee 21 dicembre 1989 in tema di procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori; alla possibilità di procedimento di infrazione da parte della Commissione europea; alle diversità di previsioni di forme di tutela ante causam avanti al giudice amministrativo in altri ordinamenti europei; alla possibilità che la Corte sollevi d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge n. 205 del 2000, qualora "non ravvisi la possibilità di una lettura secondo Costituzione di entrambe le norme sopra indicate", attingendo alla lata potestà attribuitale dall'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87; che nel giudizio ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri per il tramite dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità o la infondatezza della questione, sottolineando: a) la provenienza dell'ordinanza dal Presidente della Sezione III del Tar, al quale non sarebbe riconosciuto alcun potere giurisdizionale in via monocratica; b) l'intervenuta adozione del provvedimento di sospensione, facendosi applicazione della norma censurata nel senso auspicato dalla ordinanza di remissione; c) la instaurazione da tempo del giudizio con ricorso, con possibilità per il Tar nella sua composizione collegiale di fornire concreta tutela anche alla luce dello ius novum; d) la prospettazione di questione volta ad ottenere un pronunciato generale ed astratto da valere in futuri giudizi; che nel giudizio si è costituita la parte privata del procedimento a quo la quale, dopo aver illustrato le ragioni per cui si imponeva una tutela cautelare immediata ante causam, ha concluso per l'accoglimento delle questioni sollevate, svolgendo argomentazioni adesive a quelle prospettate nell'ordinanza di rimessione; che, in prossimità della data fissata per la pubblica udienza, la parte privata ha depositato una memoria, in cui si controdeduce ampiamente sulla rilevanza, in riferimento alla circostanza che tale questione nel procedimento cautelare ante causam si inserisce come questione incidentale interna, con la conseguenza che il giudice monocratico adito non esaurisce la sua potestà; si insiste, nel merito, nelle conclusioni già rassegnate, ponendo l'accento sia sulla nuova formulazione dell'art. 111 della Costituzione, ove viene affermato il principio del rispetto del "giusto processo", sia sul primo comma dell'art. 117 della Costituzione, come novellato con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), che imporrebbe una interpretazione conforme anche ai vincoli ed obblighi internazionali; che anche l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria in cui ribadisce le eccezioni di inammissibilità già eccepite, aggiungendo ulteriori profili di inammissibilità sul rilievo: a) della omissione di pronuncia sulla rilevanza da parte del giudice a quo; b) della sostanziale esistenza di mero contrasto interpretativo tra il giudice di primo grado ed il giudice di appello, impropriamente devoluto alla Corte Costituzionale; c) della richiesta di una pronuncia di tipo additivo, che introduca nel corpo del processo amministrativo un istituto avente carattere di sostanziale novità, compito riservato al legislatore, indirizzato, peraltro, verso un sistema differente; d) della incertezza se la questione sollevata riguardi in generale la tutela di interessi legittimi ovvero la tutela delle posizioni soggettive lese nell'ambito della giurisdizione esclusiva; e) dell'irrilevanza della questione dell'art. 700 cod. proc. civ. nel processo a quo, trattandosi di strumento cautelare previsto solo per il giudice civile.

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Considerato che, a prescindere - per motivi di economia processuale - dai molteplici profili di inammissibilità eccepiti, le questioni prospettate possono essere agevolmente dichiarate manifestamente infondate sulla base di una serie di considerazioni concorrenti; che il legislatore, nella sua discrezionalità - con il solo limite della non manifesta irragionevolezza o non palese arbitrarietà - può adottare norme processuali differenziate tra i diversi tipi di giurisdizioni e di riti procedimentali, non essendo tenuto, sul piano costituzionale, ad osservare regole uniformi rispetto al processo civile, proprio per le ragioni che possono giustificare la pluralità di giurisdizioni, le diversità processuali e le differenze delle tipologie dei riti speciali (v., da ultimo, ordinanza n. 343 del 2001 e, per l'autonomia e particolarità dei diversi sistemi processuali, ordinanze n. 30 del 2000 e n. 359 del 1998; sentenza n. 53 del 1998); che nel processo amministrativo la tempestività e la effettività della tutela anche cautelare sono ormai completamente assicurate - per i profili prospettati - dal complesso delle disposizioni processuali, che prevedono: a) la massima semplicità e flessibilità del mezzo introduttivo dei giudizi amministrativi, anche attraverso il meccanismo dei motivi aggiunti e l'impugnazione di atti sopravvenuti o conosciuti dopo la proposizione del ricorso (art. 1 della legge n. 205 del 2000, sostitutivo dell'art. 21, primo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034; combinato disposto dell'art. 19 della legge n. 1034 del 1971 e art. 6 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 recante "Regolamento di procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato"); b) la possibilità di abbreviazione dei termini, anche ai fini della instaurazione del contraddittorio (combinato disposto dell'art. 19 della legge n. 1034 del 1971 e degli artt. 20 e 36 del regio decreto n. 642 del 1907); c) la non tassatività dei mezzi per l'effettuazione delle notifiche dell'atto introduttivo, compresi quelli in tempo reale per via telematica o telefax (art. 12 della legge n. 205 del 2000, con richiamo anche all'art. 151 cod. proc. civ.); d) una ampiezza di contenuto delle misure cautelari, più idonee - secondo le circostanze - ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione del ricorso (art. 3, comma 1, della legge n. 205 del 2000, sostitutivo dell'art. 21, settimo comma, della legge n. 1034 del 1971); e) l'emanabilità, "in caso di estrema gravità ed urgenza", di misure cautelari interinali con decreto del Presidente del Tar o della Sezione, con efficacia fino alla pronuncia collegiale (art. 3, comma 1, della legge n. 205 del 2000, con introduzione del comma settimo-bis dell'art. 21 della legge n. 1034 del 1971); f) la possibilità, anche in sede di camera di consiglio per l'esame della domanda cautelare, di definire il giudizio nel merito con decisioni in forma semplificata (art. 3, comma 1, della legge n. 205 del 2000, con introduzione del comma settimo-bis dell'art. 21 della legge n. 1034 del 1971; art. 9, comma 1, della legge n. 205 del 2000, con sostituzione dell'ultimo comma dell'art. 26 della legge n. 1034 del 1971); g) la possibilità di dichiarare i ricorsi urgenti (c.d. istanza di prelazione) anche di ufficio (combinato disposto dell'art. 19 della legge n. 1034 del 1971 e artt. 51 e 53 del regio decreto n. 642 del 1907;) che l'anzidetto completo sistema di tutela, anche di urgenza e cautelare, che riguarda tutte le posizioni azionabili davanti al giudice amministrativo, senza distinzione tra interessi legittimi o diritti soggettivi tutelabili, esclude l'applicabilità di altri istituti propri del processo civile e, quindi, che si possa configurare una esigenza (rilevante sul piano costituzionale) di intervento additivo sulle norme relative ai procedimenti di urgenza della procedura civile; che il sistema di tutela cautelare provvisoria, previsto per la giustizia amministrativa, consente l'immediata pronuncia interinale del Presidente del Tar o della sezione cui il ricorso è assegnato, su richiesta del ricorrente "contestualmente alla domanda cautelare o con separata istanza notificata alle controparti" (anche con utilizzazione dei nuovi mezzi di notifica in tempo reale), presupponendosi solo l'esistenza di un ricorso giurisdizionale anche contestuale (integrabile successivamente attraverso motivi aggiunti), comunque depositato, ed anche se non sia completato con la prova di tutte le notifiche, come è confermato indirettamente dalla espressa previsione di decreto motivato, anche con contraddittorio non completo (art. 3 della legge n. 205 del 2000;) che deve escludersi una mancanza di effettività della tutela, quando il ricorrente si può avvalere dei nuovi mezzi rapidissimi di notifica (al di fuori di quelli tradizionali mediante consegna materiale a mezzo ufficiale giudiziario e suoi aiutanti) anche a mezzo telefax o per via telematica (uno dei due mezzi certamente esistenti ed utilizzabili per le pubbliche amministrazioni), accompagnati da eventuale riduzione di termini e

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contestuale decreto di fissazione sia di possibile convocazione delle parti avanti al Presidente (ove questi la ritenga opportuna), sia della successiva prima camera di consiglio collegiale utile; che la sentenza n. 190 del 1985 non ha affatto introdotto nel giudizio amministrativo una procedura autonoma di ricorso per provvedimenti di urgenza ante causam, ma ha ampliato i poteri del giudice amministrativo "nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva", incidendo solo sul contenuto del provvedimento cautelare, identificabile non più con la sola "sospensione", ma comprensivo di ogni misura cautelare (c.d. tutela cautelare innominata), che appaia più idonea ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito; che, del resto, un ampliamento interpretativo della sospensione dell'atto impugnato si è verificato, nel tempo, anche prima della invocata sentenza di questa Corte e, progressivamente, in tutti i campi del processo amministrativo ad opera della graduale evoluzione della giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato, consentendosi l'impiego delle più varie misure cautelari per quanto attiene al contenuto del provvedimento, indirizzo consolidatosi legislativamente con le surrichiamate disposizioni della legge n. 205 del 2000; che deve escludersi, sulla base delle predette considerazioni, che la pubblica amministrazione si trovi, in ordine al sistema delle misure cautelari del processo amministrativo, in una posizione privilegiata, che non contempli la possibilità di intervento, anche immediato, del giudice con misure cautelari provvisorie o che comunque limiti la effettività della tutela, sempre prevista per il sistema italiano, avanti ad un organo giurisdizionale; che non pertinente all'ambito della controversia, in cui è sorta la questione di legittimità costituzionale (sospensione per 30 giorni dell'esercizio di attività sanitaria di casa di cura privata) è il richiamo alla direttiva 89/665/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1989, riguardante le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, anche se la direttiva prescrive che gli organi di ricorso competenti (giurisdizionali o indipendenti dalle autorità aggiudicatrici) siano abilitati a prendere, nell'ambito di ricorso efficace e rapido, misure provvisorie per riparare la violazione o impedire danni ulteriori, compresi provvedimenti di sospensione della procedura di aggiudicazione dell'appalto o dell'esecuzione di decisioni dell'autorità aggiudicatrice (casi al di fuori della rilevanza della questione); che in ordine agli ulteriori aspetti invocati dalla parte privata in memoria è sufficiente osservare che l'ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale non può estendersi oltre i limiti e i profili fissati dalle questioni sollevate dal giudice nell'ordinanza di rimessione, per comprenderne altri, anche se indicati dalle parti, ma non fatti propri dal giudice rimettente (sentenza n. 49 del 1999); che ininfluente è, altresì, il richiamo contenuto nell'ordinanza di rimessione all'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, che riguarda, invece, le pronunce che la Corte può emettere in caso di accoglimento di questione di legittimità costituzionale, dichiarando "nei limiti dell'impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime" e "altresì quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata" (c.d. dichiarazione di illegittimità consequenziale), ipotesi del tutto estranee alla richiesta di sollevare d'ufficio questione di legittimità costituzionale e per di più in fattispecie in cui la decisione è di manifesta infondatezza; che sulla base delle predette considerazioni le questioni di legittimità costituzionale sollevate sono manifestamente infondate. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), così come novellato dalla legge

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21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione, anche in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, con la ordinanza indicata in epigrafe; dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 700 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, con la ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 maggio 2002.

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Ord. 24 aprile 2002, n. 166

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 3 della legge della Regione Veneto 28 dicembre 1999, n. 62 (Individuazione dei Comuni a prevalente economia turistica e delle città d'arte ai fini delle deroghe agli orari di vendita), promosso con ordinanza emessa l'11 aprile 2001 dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, iscritta al n. 677 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visti gli atti di costituzione del Comune di Cittadella, del Consorzio operatori "Grand'Affi shopping center" ed altra e Holding dei giochi s.r.l. e del Comune di Affi ed altri, nonché l'atto di intervento della Regione Veneto; udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2002 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte. Ritenuto che, nel corso di più giudizi riuniti proposti dal Comune di Cittadella nei confronti della Provincia di Padova, dal Consorzio operatori "Grand'Affi shopping center" e da numerosi operatori commerciali, nonché dai Comuni di Affi, Castelnuovo del Garda, Cavaion Veronese, Costermano, Pastrengo e Rivoli Veronese nei confronti della Provincia di Verona, e dal Comune di Soave nei confronti della medesima Provincia - avverso i provvedimenti delle Province di Padova e di Verona di diniego delle istanze con le quali i Comuni di Cittadella e di Soave chiedevano il riconoscimento quale "città d'arte" ai fini della deroga agli orari di vendita al dettaglio, e delle istanze presentate dagli altri Comuni per ottenere, ai medesimi fini, il riconoscimento di Comuni a prevalente economia turistica - il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con ordinanza in data 11 aprile 2001, ha sollevato, in riferimento agli articoli 117, 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 3 della legge regionale del Veneto 28 dicembre 1999, n. 62 (Individuazione dei Comuni a prevalente economia turistica e delle città d'arte ai fini delle deroghe agli orari di vendita); che l'art. 2 della citata legge regionale detta i criteri per la individuazione, da parte delle Province, alle quali il precedente articolo 1 delega le relative funzioni, dei Comuni a prevalente economia turistica ai fini delle deroghe agli orari degli esercizi commerciali previste dall'art. 12 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59) e che, analogamente, l'articolo 3 stabilisce i requisiti in base ai quali devono essere individuate, ai medesimi fini e sempre da parte delle Province, le città d'arte; che, ad avviso del remittente, le disposizioni censurate contrasterebbero, in primo luogo, con l'art. 117 della Costituzione, giacché la materia del commercio non rientrerebbe fra quelle per le quali le Regioni a statuto ordinario hanno potestà legislativa concorrente e il D.Lgs. n. 114 del 1998, all'art. 12, avrebbe affidato alle Regioni solo il compito amministrativo di individuare i Comuni e i periodi dell'anno ai fini della deroga all'obbligo di chiusura, non anche l'esercizio di una potestà legislativa; che, prosegue il remittente, quand'anche si volesse riconoscere alle Regioni una potestà legislativa in materia, la stessa sarebbe stata esercitata, in concreto, in modo irragionevole e privo di coerenza interna e comunque in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, dal momento che l'art. 2 attribuisce il carattere di pre-requisiti, preclusivi cioè della valutazione della sussistenza degli altri requisiti previsti dalla medesima disposizione, ad elementi, quali il numero dei posti-letto in strutture alberghiere ed extra-alberghiere e quello della ubicazione in territorio montano, litoraneo, lacuale o termale, che non sarebbero razionali, coerenti con la finalità perseguita e che irragionevolmente precluderebbero la possibilità

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del riconoscimento del carattere di comune ad economia prevalentemente turistica a comuni ubicati in pianura; che, analogamente, l'art. 3 irragionevolmente attribuirebbe rilievo preclusivo della valutazione della sussistenza delle altre condizioni ivi previste, ad un requisito, quello del numero dei posti-letto esistenti in strutture alberghiere ed extra-alberghiere, ininfluente ai fini del riconoscimento della qualità di città d'arte; che inoltre, osserva il giudice a quo, entrambe le disposizioni irragionevolmente disconoscerebbero la possibilità che il requisito dei posti-letto possa sussistere con riferimento ad un ambito più ampio del territorio di un solo Comune, omettendo di considerare la realtà dei comprensori turistici; che, infine, ad avviso del remittente, sarebbe leso il principio dell'affidamento, dal momento che l'applicazione delle disposizioni censurate, in un contesto normativo nazionale volto a favorire la liberalizzazione delle attività di commercio, avrebbe portato a negare ai Comuni ricorrenti una qualità loro riconosciuta da tempo sulla base della previgente normativa; che si sono costituiti nel presente giudizio il Comune di Cittadella, il Consorzio operatori "Grand'Affi shopping center" e due degli operatori commerciali ricorrenti nel giudizio principale, i quali, sulla base di argomentazioni largamente coincidenti con quelle del remittente, chiedono che la questione sia accolta; che anche i Comuni di Affi, Castelnuovo del Garda, Cavaion Veronese, Costermano, Pastrengo e Rivoli Veronese si sono costituiti nel presente giudizio, con una memoria nella quale, oltre a ricordare che la qualità di Comuni ad economia turistica era stata loro riconosciuta fin dal 1983 e che sulla loro istanza si era avuto il parere favorevole dell'associazione dei consumatori turismo e della locale Azienda di promozione turistica, svolgono argomentazioni adesive a quelle contenute nella ordinanza di rimessione e chiedono l'accoglimento della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge della Regione Veneto n. 62 del 1999; che è intervenuta la Regione Veneto, la quale, contestando la premessa dalla quale muove il remittente, che cioè le Regioni a statuto ordinario siano prive di potestà legislativa in materia, sia pure di attuazione, chiede che le questioni vengano dichiarate inammissibili o infondate. Considerato che la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 3 della legge della Regione Veneto 28 dicembre 1999, n. 62 (Individuazione dei Comuni a prevalente economia turistica e delle città d'arte ai fini delle deroghe agli orari di vendita), è prospettata dal giudice remittente anzitutto in relazione all'asserita insussistenza di potestà legislativa regionale, sia pure di attuazione, nella materia del commercio, invocando come parametro l'articolo 117 della Costituzione; che, successivamente all'emanazione dell'ordinanza di remissione, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che pertanto, in via del tutto preliminare, essendo stata modificata una delle disposizioni costituzionali invocate come parametro di giudizio, si impone la restituzione degli atti al giudice remittente affinché proceda ad un nuovo esame della questione alla luce del sopravvenuto mutamento del quadro normativo (cfr. ordinanze n. 80, n. 76, n. 73, n. 72, n. 60, n. 26, n. 14, n. 13 e n. 9 del 2002). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 aprile 2002.

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Ord. 24 aprile 2002, n. 165

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge della Regione Piemonte 8 luglio 1999, n. 19 (Norme in materia di edilizia e modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 "Tutela ed uso del suolo"), promosso con ordinanza emessa il 17 gennaio 2001 dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, iscritta al n. 702 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visto l'atto di intervento della Regione Piemonte; udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2002 il Giudice relatore Valerio Onida. Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale del Piemonte, nel corso di un giudizio promosso per l'annullamento del provvedimento del Comune di Domodossola che intimava alla ricorrente la riduzione in pristino della modifica di destinazione d'uso di un appartamento, da direzionale a residenziale, realizzata senza esecuzione di opere edilizie, con ordinanza emessa il 17 gennaio e pervenuta il 7 agosto 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge della Regione Piemonte 8 luglio 1999, n. 19 (Norme in materia di edilizia e modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 "Tutela ed uso del suolo"), secondo il quale "costituisce mutamento di destinazione d'uso, subordinato a concessione, il passaggio, anche senza opere edilizie", tra le altre, dalla destinazione d'uso direzionale a quella residenziale; che la questione è posta in riferimento all'art. 117 della Costituzione, in relazione al principio fondamentale della legislazione statale contenuto nell'art. 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), secondo cui la variazione della destinazione d'uso degli immobili, se eseguita senza opere edilizie, potrebbe essere soggetta al massimo a semplice autorizzazione; che il giudice a quo ricorda che analoga questione, da esso stesso sollevata nel 1992, ed avente ad oggetto la disposizione della legge regionale del 1977 allora vigente in materia, con la sentenza n. 498 del 1993 di questa Corte era stata dichiarata inammissibile, in quanto l'art. 25 della legge n. 47 del 1985, indicata come norma interposta anche nel presente giudizio, essendo successiva e gerarchicamente sovraordinata, aveva implicitamente abrogato quella regionale con essa confliggente; che nel caso in esame, però, non potrebbe farsi applicazione degli stessi principi allora enunciati, perché la legge regionale n. 19 del 1999, recante la disposizione impugnata, è successiva alla detta legge statale n. 47 del 1985; che la questione, secondo il giudice a quo, è rilevante in quanto dalla sua risoluzione dipende la legittimità del provvedimento ripristinatorio impugnato, che sarebbe precluso all'amministrazione qualora l'intervento non fosse soggetto a concessione edilizia; che nel giudizio è intervenuto il Presidente della Giunta della Regione Piemonte, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, manifestamente infondata; che, anzitutto, la Regione eccepisce il difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto la sommarietà e l'incertezza degli elementi in fatto offerti dalla ordinanza di remissione non consentirebbero di valutare la pregiudizialità della questione;

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che, secondo la Regione, la normativa dettata dallo stesso art. 8 della legge regionale denunciata attribuirebbe ai Comuni la facoltà di subordinare a semplice autorizzazione, rilasciata anche per silenzio assenso, taluni mutamenti di destinazione d'uso, ed, inoltre, non sottoporrebbe a concessione né ad autorizzazione i mutamenti di destinazione d'uso degli immobili relativi ad unità non superiori a 700 m³ che siano compatibili con le norme di attuazione del piano regolatore generale e degli strumenti esecutivi. Considerato che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge della Regione Piemonte 8 luglio 1999, n. 19, viene sollevata in riferimento all'art. 117 della Costituzione, per contrasto con un principio fondamentale della legislazione statale (peraltro ricavato da una disposizione, l'art. 25, ultimo comma, della legge n. 47 del 1985, che è stata oggetto di successive modifiche ad opera dell'art. 4, comma 20, del D.L. n. 398 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 493 del 1993, e dell'art. 2, comma 60, della legge n. 662 del 1996 - modifiche di cui il remittente non dà conto -, e da ultimo è stata abrogata dall'art. 136 del D.Lgs. 6 giugno 2001, n. 378, e trasfusa nell'art. 10, comma 2, del testo unico approvato con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380); che, successivamente all'emanazione dell'ordinanza di rimessione, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che pertanto, in via del tutto preliminare, stante il mutamento della norma costituzionale invocata come parametro di giudizio, si rende necessario disporre la restituzione degli atti al giudice remittente per un nuovo esame dei termini della questione (cfr. ordinanze n. 382 del 2001, n. 14, n. 76 e n. 117 del 2002). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale del Piemonte. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 aprile 2002.

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Ord. 24 aprile 2002, n. 162

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, 11 e 13 della legge della Regione Puglia 6 settembre 1999, n. 27 (Istituzione e disciplina del Dipartimento delle dipendenze patologiche nelle Aziende U.S.L.), promosso con ordinanza emessa il 6 giugno 2000 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Picaro Francesca contro U.S.L. TA/1, iscritta al n. 809 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visto l'atto di costituzione di Picaro Francesca; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2002 il Giudice relatore Riccardo Chieppa. Ritenuto che nel corso di un giudizio cautelare promosso avverso l'ordinanza di rigetto della sospensione dei provvedimenti impugnati in primo grado, il Consiglio di Stato - V Sezione - ha sollevato, aderendo alla denuncia di illegittimità costituzionale prospettata dalla parte ricorrente, questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, 11 e 13 della legge della Regione Puglia 6 settembre 1999, n. 27 (Istituzione e disciplina del Dipartimento delle dipendenze patologiche nelle Aziende U.S.L.), in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione; che, in ordine alla rilevanza, il giudice a quo sottolinea che le disposizioni di legge regionali presentano inequivocabilmente una preclusione circa la possibilità per l'interessata, dirigente psicologo di primo livello, responsabile del Sert ad alta utenza (Servizio tossicodipendenze) e in possesso di tutti i requisiti per l'accesso alla qualifica apicale, di partecipare ai concorsi per dirigente di II livello, per i quali l'Azienda U.S.L. TA/1 di Taranto ha stabilito di riservare i posti di dirigente dei Sert ad alta utenza al solo personale medico; che nel merito, il giudice rimettente osserva che l'art. 2 della legge 18 febbraio 1999, n. 45 (Disposizioni per il fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga e in materia di personale dei servizi per le tossicodipendenze), ponendo fine ad un prolungato periodo di incertezze caratterizzato da una serie di decreti-legge non convertiti, avrebbe previsto, a sanatoria di situazioni di fatto createsi negli anni in assenza di normative sul conferimento degli incarichi di direzione dei Sert, che la direzione dei cennati Sert ad alta utenza, o agli stessi assimilati, sia conferita entro il 31 dicembre 1999, mediante concorsi interni per titoli, riservati al personale di ruolo, che attualmente eserciti tali funzioni, ovvero le abbia esercitate dopo il primo gennaio 1990, anche in assenza di incarico formale e che abbia, comunque, prestato servizio presso i Sert o presso strutture equivalenti per almeno sei anni; che, in particolare, il giudice a quo sottolinea che i requisiti, previsti dalla anzidetta disposizione per l'accesso alla qualifica apicale sarebbero genericamente riferiti al profilo professionale di appartenenza (del ruolo sanitario, così come previsto dal D.P.R. 28 dicembre 1979, n. 761, recante "Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali", ove sono ricompresi anche gli psicologi) e non già al solo profilo professionale medici e ciò anche con riferimento al D.M. 30 novembre 1990, n. 444 (Regolamento concernente la determinazione dell'organico e delle caratteristiche organizzative e funzionali dei servizi per le tossicodipendenze da istituire presso le unità sanitarie locali); che, di fronte a tale quadro normativo, con effetti di contribuire a creare legittime aspettative del personale non medico, si contrapporrebbero - sempre secondo il giudice rimettente - le norme della legge regionale della Puglia 6 settembre 1999, n. 27, che riservano, sia a regime (artt. 5 e 11) sia in via transitoria (art. 13), cioè con riguardo ai concorsi interni, di cui all'art. 2 della legge 18 febbraio 1999, n. 45 (Disposizioni per il Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga e in materia di personale dei servizi per le tossicodipendenze), al solo personale medico la dirigenza dei Sert: ciò in contrasto con la disciplina statale;

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che il giudice a quo non dubita che la competenza, per quanto riguarda i molteplici aspetti organizzativi, sia rimessa alla competenza normativa delle Regioni nell'esercizio dell'autonomia di cui all'art. 117 della Costituzione, tuttavia essa è certamente soggetta ai limiti posti dai principi contenuti nelle leggi quadro o desumibili dalla legislazione di settore; che un limite insuperabile, sulla base della citata legge n. 45 del 1999 e della legge 28 marzo 1997, n. 86 (Sanatoria degli effetti prodotti dai decreti-legge adottati in materia di prevenzione e recupero delle tossicodipendenze e di funzionamento dei Sert) sarebbe, secondo il giudice rimettente, quello della ininfluenza del profilo professionale di appartenenza (medico o psicologo) ai fini dell'accesso ai posti di dirigente dei Sert, tenuto conto delle particolari finalità di dette strutture, ove il servizio reso non si risolve nei soli compiti di diagnosi e cura, bensì richiede anche analisi del comportamento del tossicodipendente con finalità di recupero; che - sempre secondo l'ordinanza di rimessione - la disciplina dello stato giuridico del personale addetto al Servizio sanitario nazionale, con riferimento alla giurisprudenza costituzionale, sfuggirebbe alla competenza concorrente attribuita in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera delle Regioni, essendo essa riservata, per evidenti esigenze di uniformità, allo Stato; con la conseguenza che, in tale materia, le Regioni potrebbero unicamente emanare, ai sensi dell'art. 117, ultimo comma, della Costituzione (testo anteriore alla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione), norme di attuazione della legislazione statale, le quali, come tali, non potrebbero avere contenuti innovativi; che, infine, viene denunciata la violazione dell'art. 3 della Costituzione sotto il profilo che il discrimine, operato in danno del personale psicologo, sarebbe privo di logica giustificazione nell'ambito di strutture organizzative, ove le prestazioni di carattere psicologico e socio-riabilitativo sarebbero prevalenti rispetto a quelle di carattere medico-farmacologico; che nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita la ricorrente nel giudizio a quo, la quale ha insistito per la declaratoria di illegittimità costituzionale della normativa impugnata, sottolineando come la scelta, operata dalla legge regionale a favore dei medici, impedisca definitivamente agli altri profili professionali la possibilità di accesso agli unici incarichi di II livello esistenti, in contrasto con la precedente normativa. Considerato che la questione di legittimità costituzionale degli articoli 5, 11 e 13 della legge della Regione Puglia 6 settembre 1999, n. 27 (Istituzione e disciplina del Dipartimento delle dipendenze patologiche nelle Aziende U.S.L.), è prospettata dal giudice remittente anzitutto in relazione al denunciato superamento del limite dei principi fondamentali che emergono dalla legislazione statale nella materia e che vincolano la potestà regionale, invocandosi come parametro l'art. 117 della Costituzione; che, successivamente all'emanazione della ordinanza di rimessione, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione, innovando anche la ripartizione delle competenze negli aspetti organizzativi e ordinamentali delle Regioni ed enti regionali, nonché dell'intera materia della sanità; che, pertanto, in via del tutto preliminare, stante il mutamento della norma costituzionale invocata come parametro di giudizio, si rende necessario disporre la restituzione degli atti al giudice remittente per un nuovo esame dei termini della questione (cfr. ordinanze n. 13 e n. 14 del 2002; n. 382, n. 397 e n. 416 del 2001). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al giudice a quo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 aprile 2002.

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Ord. 24 aprile 2002, n. 157

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 52, quinto comma, della legge della Regione Veneto 27 giugno 1985, n. 61, come modificato dall'art. 12 della legge della Regione Veneto 11 marzo 1986, n. 9 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 27 giugno 1985, n. 61, recante "Norme per l'assetto e l'uso del territorio"), promosso con ordinanza emessa il 15 giugno 1999 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto dall'Associazione italiana per il W.W.F. contro il Comune di Tambre d'Alpago ed altri, iscritta al n. 292 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 2000. Visti l'atto di costituzione dell'Associazione italiana per il W.W.F., nonché l'atto di intervento della Regione Veneto; udito nell'udienza pubblica del 20 novembre 2001 il Giudice relatore Riccardo Chieppa; uditi gli Avvocati Andrea Pavanini per l'Associazione italiana per il W.W.F., Mario Bertolissi e Andrea Manzi per la Regione Veneto. Ritenuto che nel corso di un giudizio per la revocazione della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 23 aprile 1998, n. 668, con cui era stato respinto l'appello promosso avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Veneto di dichiarazione di inammissibilità del ricorso da parte dell'Associazione italiana del W.W.F., dovendosi definire la fase rescissoria, lo stesso Consiglio di Stato ha sollevato, d'ufficio, questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, dell'art. 52, quinto comma, della legge della Regione Veneto 27 giugno 1985, n. 61, come modificato dall'art. 12 della legge della Regione Veneto 11 marzo 1986, n. 9 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 27 giugno 1985, n. 61, recante "Norme per l'assetto e l'uso del territorio"); che oggetto del giudizio di primo grado era stata l'approvazione tacita di una deliberazione del Consiglio comunale di Tambre d'Alpago del 14 febbraio 1987, recante "presa d'atto dell'approvazione del piano particolareggiato della Palantina"; che la configurabilità di tale approvazione tacita derivava dalla applicazione della normativa denunciata, la quale poneva un termine perentorio per l'avocazione del piano da parte dell'ente preposto al controllo urbanistico, all'inutile trascorso del quale il piano diveniva esecutivo, configurandosi così una forma di silenzio-assenso; che, in ordine alla rilevanza, il giudice a quo osserva che la disposizione sospettata di incostituzionalità, pur se successivamente abrogata, in considerazione del periodo in cui ha prodotto effetti, deve ritenersi applicabile alla fattispecie in contestazione, sia per decidere la questione della tempestività del ricorso di primo grado, sia per decidere in caso di accoglimento della censura in rito dell'appellante, sui motivi di merito incentrati sulla carenza dei presupposti per la formazione del silenzio-assenso; che sulla non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente richiama l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, secondo cui l'istituto del silenzio-assenso, se applicato a procedimenti di elevata discrezionalità, come in materia di pianificazione, inciderebbe sull'essenza stessa della competenza regionale; inoltre lo stesso giudice a quo invoca l'orientamento della Corte (sentenza n. 404 del 1997), che, nell'escludere la fondatezza della questione con riferimento agli interventi pianificatori di carattere attuativo

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ed esecutivo, ha sottolineato che detti principi non si riferiscono "alle altre forme particolari ed eccezionali di interventi pianificatori, che assumono la sostanziale valenza di strumenti urbanistici generali per la capacità di costituire variante agli strumenti stessi"; che infine, posto che il piano particolareggiato in questione riguarda immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, dovrebbe operare il principio fondamentale della necessità di pronuncia esplicita, mentre il silenzio dell'Amministrazione preposta al vincolo non può avere valore di assenso (con richiamo a sentenze n. 404 del 1997; n. 26 del 1996 e n. 302 del 1988); che nel giudizio avanti alla Corte è intervenuta la Regione Veneto, che ha concluso per la inammissibilità della questione sollevata, poiché formulata in via ipotetica ed astratta e priva di rilevanza, sia ai fini del giudizio sulla tempestività del ricorso, sia in relazione all'accertamento dei presupposti per la formazione del silenzio-assenso; nel merito conclude per la infondatezza della questione; che in particolare la Regione sottolinea come la normativa in questione costituirebbe diretta applicazione di un principio affermato da una norma statale; più specificamente, dall'art. 25, comma 1, lettera a) della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), e che essa non interferirebbe sulla materia dei vincoli ambientali, siano essi apposti ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), ovvero ai sensi dell'art. 1-bis, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431; che nel giudizio si è costituita l'Associazione italiana per il World Wide Fund for Nature - ONLUS, ricorrente nel giudizio a quo, la quale eccepisce la inammissibilità per carenza di rilevanza della questione, atteso che la procedura tacita di approvazione dei piani particolareggiati troverebbe applicazione nella sola ipotesi della approvazione di piani attuativi, che non siano in variante rispetto al piano regolatore e non, come nel caso di specie, nel caso di piano particolareggiato adottato in variante allo strumento urbanistico; che, nel merito, la predetta associazione conclude per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata, condividendo le argomentazioni del giudice rimettente; che, in prossimità della data fissata per la pubblica udienza, la Regione Veneto ha depositato una memoria, che sottolinea i profili di inammissibilità già eccepiti nell'atto di intervento e conclude per la infondatezza della questione; che in relazione alla eccepita irrilevanza della questione la Regione interveniente sottolinea un ulteriore profilo, ancorandolo all'interno di una prospettiva temporale, che inizia dalla deliberazione di presa d'atto dell'approvazione del piano particolareggiato (14 febbraio 1987) e si protrarrebbe fino ad oggi; che in tale spazio temporale la deliberazione n. 59 del 26 marzo 1985 (di adozione del piano particolareggiato) avrebbe validamente operato, producendo effetti irreversibili; che, nell'imminenza della data fissata per la pubblica udienza, anche l'Associazione italiana per il World Wide Fund for Nature - ONLUS, ha depositato una memoria in cui ribadisce l'eccezione di inammissibilità della questione per irrilevanza della stessa, concludendo, nel merito, qualora si addivenisse ad una interpretazione diversa, per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata. Considerato che la questione di legittimità costituzionale, sottoposta in via incidentale all'esame della Corte con l'ordinanza del Consiglio di Stato 15 giugno 1999, riguarda l'art. 52, quinto comma, della legge della Regione Veneto 27 giugno 1985, n. 61, come modificato dall'art. 12 della legge della Regione Veneto 11 marzo 1986, n. 9 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 27 giugno 1985, n. 61, recante "Norme per l'assetto e l'uso del territorio"); che la questione è proposta sotto il duplice profilo che la norma configura una forma di silenzio-assenso anche in ipotesi di approvazione di piano urbanistico attuativo di iniziativa pubblica, in difformità o variante di piano regolatore, ed anche se comprendente immobili sottoposti a vincolo paesaggistico-ambientale;

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che nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione è fatto riferimento al solo parametro dell'art. 117 della Costituzione, ma in realtà, nella motivazione sulla non manifesta infondatezza, si argomenta anche, con riferimento implicito al parametro dell'art. 9 della Costituzione, attraverso il richiamo alla previsione della norma denunciata riguardante immobili sottoposti a vincolo paesaggistico-ambientale e al "principio fondamentale, risultante da una serie di norme in materia ambientale, della necessità di pronuncia esplicita, mentre il silenzio dell'amministrazione preposta al vincolo non può avere valore di assenso", con richiamo alle sentenze di questa Corte n. 404 del 1997, n. 26 del 1996 e n. 302 del 1988, riguardanti, appunto, i profili del silenzio-assenso in materia paesaggistico-ambientale; che, successivamente all'emanazione della ordinanza di rimessione, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione, innovando anche la ripartizione delle competenze non solo nel settore urbanistico - governo del territorio, ma anche in quello della tutela dell'ambiente e della valorizzazione dei beni ambientali; che, pertanto, in via del tutto preliminare, stante il mutamento della norma costituzionale invocata come parametro di giudizio, si rende necessario disporre la restituzione degli atti al giudice rimettente per un nuovo esame dei termini della questione (cfr. ordinanze nn. 14 e 13 del 2002; n. 416, n. 397 e n. 382 del 2001). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al giudice a quo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 aprile 2002.

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Ord. 11 aprile 2002, n. 144

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale (a) dell'art. 17, commi 1 e 2, della legge 24 giugno 1997, n. 196 (Norme in materia di promozione dell'occupazione); dell'art. 9, commi 3, 3-bis e 4 del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell'occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236; degli artt. 7 e 142, commi 1, lettere c), e) e f), 2 e 3 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59); (b) dell'art. 20, comma 2, e dell'allegato 1, numero 96), della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa); (c) dell'art. 14, comma 3, del decreto legislativo 30 aprile 1998, n. 173 (Disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione e per il rafforzamento strutturale delle imprese agricole, a norma dell'articolo 55, commi 14 e 15, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), promosso con ordinanza emessa il 19 aprile 2001 dalla Corte dei Conti - Sezione centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato, nel corso dell'esame e pronuncia sul visto e conseguente registrazione relativo ai decreti del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1998, 3 settembre 1999 e 4 febbraio 2000, iscritta al n. 581 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky. Ritenuto che con provvedimento del 19 aprile 2001 la Corte dei Conti - Sezione centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato, in occasione dell'esame e pronuncia sul visto e sulla registrazione di tre decreti del Presidente della Repubblica adottati in date 21 dicembre 1998, 3 settembre 1999 e 4 febbraio 2000 e recanti, rispettivamente, disposizioni regolamentari (a) in materia di formazione professionale, a norma dell'art. 17, comma 1, della legge 24 giugno 1997, n. 196, e dell'art. 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59, (b) di semplificazione dei procedimenti relativi alla composizione e al funzionamento delle commissioni provinciali per l'artigianato nonché all'iscrizione, modificazione e cancellazione nell'albo delle imprese artigiane, a norma dell'art. 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e (c) per la semplificazione e l'armonizzazione delle procedure dichiarative, delle modalità di controllo e degli adempimenti nel settore vitivinicolo, a norma dell'art. 14 del decreto legislativo 30 aprile 1998, n. 173, ha sollevato questione di costituzionalità di numerose disposizioni, sulla base delle quali, o in svolgimento delle quali, i regolamenti in questione sono stati approvati, e precisamente: quanto al regolamento sopra indicato in (a), dell'art. 17, commi 1 e 2, della legge 24 giugno 1997, n. 196 (Norme in materia di promozione dell'occupazione); dell'art. 9, commi 3, 3-bis e 4 del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 (Interventi urgenti a sostegno dell'occupazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236; degli artt. 7 e 142, commi 1, lettere c), e) e f), 2 e 3 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), in riferimento agli artt. 76 - in relazione agli artt. 1, 2 e 3 della legge delega n. 59 del 1997 -, 117 e 119 della Costituzione; quanto al regolamento sopra indicato in (b), dell'art. 20, comma 2, e dell'allegato 1, numero 96), della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), in riferimento all'art. 117 della Costituzione; quanto al regolamento sopra indicato in (c), dell'art. 14, comma 3, del decreto legislativo 30 aprile 1998, n. 173 (Disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione e per il rafforzamento strutturale delle

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imprese agricole, a norma dell'articolo 55, commi 14 e 15, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), in riferimento agli artt. 70, 76, 117 e 118, primo comma, della Costituzione; che, come ricorda l'atto di rimessione, le medesime questioni erano state già sollevate dalla stessa Sezione del controllo, con tre separati provvedimenti del 10 settembre 1999, 21 ottobre 1999 e 6 aprile 2000, e che, investita dei relativi giudizi (iscritti al r.o. nn. 598/1999, 689/1999 e 290/2000), questa Corte, previa riunione dei giudizi, aveva disposto, con l'ordinanza n. 77 del 2001, la restituzione degli atti alla Corte dei Conti, alla stregua dello ius superveniens costituito dalla legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi), che, sostituendo - con il suo art. 1, comma 4, lettera a) - l'art. 20, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n. 59, oltre a mutare specificamente l'oggetto di una delle tre questioni allora sollevate, aveva, più in generale, introdotto una nuova disciplina in tema di efficacia giuridica e di «cedevolezza» dei regolamenti statali emanati nelle materie attribuite alla competenza delle regioni; che la Corte dei Conti solleva nuovamente, con unico provvedimento, le stesse questioni già rimesse all'esame di costituzionalità, soffermandosi sul profilo della persistente rilevanza di esse e in particolare sulla questione di legittimità costituzionale delle norme su cui si basa l'adozione del D.P.R. del 3 settembre 1999, recante il regolamento in materia di imprese artigiane, questione avente a oggetto specificamente la disposizione legislativa nel frattempo modificata; che sotto questo profilo, ad avviso della Sezione rimettente, la norma sopravvenuta, disponendo che i regolamenti di delegificazione, nelle materie elencate nell'art. 117 della Costituzione, si applicano solo fino a quando la regione non provveda a disciplinare direttamente la materia, si è limitata a stabilire un termine finale, oltre il quale i regolamenti statali non sono più applicabili: una norma, dunque, che da un lato sarebbe inidonea a «sanare» i regolamenti per cui è questione, e dall'altro non sarebbe rilevante ai fini del decidere, poiché le fonti secondarie oggetto del controllo sono conformi alle disposizioni legislative su cui si basano, mentre è su queste ultime soltanto che è prospettato il dubbio di costituzionalità; che la modifica legislativa, osserva ancora la Sezione del controllo, avrebbe dovuto dettare essa stessa i principi fondamentali nella materia, anziché limitarsi a disporre circa il termine finale di efficacia dei regolamenti statali, e che né il carattere «cedevole» della normativa regolamentare, né la sostanziale «acquiescenza» delle regioni ai regolamenti in discorso, pur incidendo sull'aspetto pratico, possono - conclude la rimettente - mutare la rilevanza giuridica delle questioni, che pertanto la Corte dei Conti solleva, ora, cumulativamente, con unica ordinanza di rimessione; che è intervenuto nel giudizio così promosso il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l'Avvocatura generale dello Stato, che, richiamando integralmente i contenuti degli atti di intervento e delle memorie già depositati nei tre precedenti giudizi, e osservando che la Corte dei Conti non ha impugnato la nuova formulazione dell'art. 20, comma 2, della legge n. 59 del 1997, limitandosi a darne una lettura riduttiva e omettendo ogni argomento sulla costituzionalità di detta nuova disposizione, ha concluso per una declaratoria di inammissibilità o di infondatezza delle questioni nuovamente sollevate. Considerato che la Corte dei Conti - Sezione centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato solleva nuovamente, a seguito della precedente ordinanza di questa Corte n. 77 del 2001 di restituzione degli atti per ius superveniens, questione di costituzionalità di numerose disposizioni legislative, specificate in dettaglio nella parte narrativa, sulla base delle quali sono stati adottati i regolamenti di «delegificazione» sottoposti al controllo della rimettente, prospettando diverse censure accomunate tra loro dal profilo della violazione del riparto di competenze tra Stato e regioni e dell'autonomia di queste ultime, quale delineato dagli invocati artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, per avere dette norme autorizzato il Governo a disporre, con fonti regolamentari, in materie attribuite dalla Costituzione alle competenze regionali; che, successivamente alla proposizione delle sopra dette questioni di costituzionalità, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che tra l'altro ha sostituito, con i suoi artt. 3, 4 e 5, l'intero testo degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione;

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che pertanto, in via del tutto preliminare, poiché la legge costituzionale anzidetta ha modificato le norme degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, invocati come parametri del giudizio, si rende necessario disporre la restituzione degli atti alla Sezione del controllo rimettente, per un nuovo esame dei termini delle questioni sollevate (ordinanze n. 26, n. 14, n. 13 e n. 9 del 2002; n. 416, n. 397 e n. 382 del 2001). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti alla Corte dei Conti - Sezione centrale di controllo di legittimità su atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 aprile 2002.

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Ord. 11 aprile 2002, n. 141

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale relativo al mancato adeguamento della legislazione della Provincia autonoma di Bolzano in materia di commercio ai princìpi fondamentali di riforma economico-sociale desumibili dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), e, più precisamente: (a) degli artt. 1, 2, 3, 9, 11, 12, 13, 16, 17, 18, 28, 28-bis, 28-ter, 28-quater, 29 e 33 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 24 ottobre 1978, n. 68 (Disciplina del commercio); (b) dell'art. 1 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 7 dicembre 1988, n. 55 (Modifiche alla normativa sul commercio: Legge provinciale 24 ottobre 1978, n. 68 «Disciplina del commercio»; Legge provinciale 7 gennaio 1977, n. 7 «La nuova disciplina del commercio ambulante»; Legge provinciale 13 novembre 1986, n. 27 «Credito al commercio»); (c) dell'art. 1 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 17 maggio 1991, n. 15 (Modifiche alla legge provinciale 24 ottobre 1978, n. 68, concernente la «Disciplina del commercio» e alla legge provinciale 13 novembre 1986, n. 27, concernente il «Credito al commercio»); (d) degli artt. 1, 2, comma 2, 3, 5 e 11, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 16 dicembre 1994, n. 11 (Modifiche alla disciplina del commercio e degli esercizi pubblici); (e) degli artt. 1, 2, commi 1 e 2, 3, commi 1 e 2, e 4 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 13 novembre 1995, n. 23 (Modifiche alla legge provinciale 24 ottobre 1978, n. 68, concernente «Disciplina del commercio»); (f) dell'art. 14 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 21 gennaio 1998, n. 1 [Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l'anno finanziario 1998 e per il triennio 1998-2000, e norme legislative collegate (legge finanziaria 1998)], promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 23 luglio 1999, depositato in Cancelleria il 28 successivo e iscritto al n. 25 del registro ricorsi 1999. Visto l'atto di costituzione della Provincia autonoma di Bolzano; udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2002 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky; uditi l'avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Roland Riz per la Provincia autonoma di Bolzano. Ritenuto che con ricorso notificato il 23 luglio 1999 e depositato il successivo 28 luglio il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, a norma dell'art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni della legislazione della Provincia autonoma di Bolzano in materia di commercio, e precisamente: (a) degli artt. 1, 2, 3, 9, 11, 12, 13, 16, 17, 18, 28, 28-bis, 28-ter, 28-quater, 29 e 33 della legge provinciale 24 ottobre 1978, n. 68 (Disciplina del commercio); (b) dell'art. 1 della legge provinciale 7 dicembre 1988, n. 55 (Modifiche alla normativa sul commercio: Legge provinciale 24 ottobre 1978, n. 68 «Disciplina del commercio»; Legge provinciale 7 gennaio 1977, n. 7 «La nuova disciplina del commercio ambulante»; Legge provinciale 13 novembre 1986, n. 27 «Credito al commercio»); (c) dell'art. 1 della legge provinciale 17 maggio 1991, n. 15 (Modifiche alla legge provinciale 24 ottobre 1978, n. 68, concernente la «Disciplina del commercio» e alla legge provinciale 13 novembre 1986, n. 27, concernente il «Credito al commercio»); (d) degli artt. 1, 2, comma 2, 3, 5 e 11, comma 2, della legge provinciale 16 dicembre 1994, n. 11 (Modifiche alla disciplina del commercio e degli esercizi pubblici); (e) degli artt. 1, 2, commi 1 e 2, 3, commi 1 e 2, e 4 della legge provinciale 13 novembre 1995, n. 23 (Modifiche alla legge provinciale 24 ottobre 1978, n. 68, concernente «Disciplina del commercio»); (f) dell'art. 14 della legge provinciale 21 gennaio 1998, n. 1 [Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l'anno

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finanziario 1998 e per il triennio 1998-2000, e norme legislative collegate (legge finanziaria 1998)], censurando le suddette disposizioni in riferimento agli artt. 4, 5, 9 e 97 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige (D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670); che, sulla premessa secondo cui le disposizioni statali che riordinano la disciplina del settore del commercio devono essere considerate norme fondamentali di riforma economico-sociale, cui anche le Regioni a statuto speciale (e le Province autonome) sono tenute a conformare la propria legislazione, il ricorrente svolge numerose specifiche censure di merito delle sopra elencate disposizioni normative dettate dalla Provincia autonoma di Bolzano in materia di commercio, perché non adeguate, nei termini prescritti dall'art. 2 del decreto legislativo n. 266 del 1992, ai princìpi introdotti in materia di commercio dalla legislazione statale e in particolare dagli artt. 1, 2, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 12, 13 e 15 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), chiedendo pertanto la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle stesse disposizioni provinciali; che si è costituita nel giudizio così promosso la Provincia autonoma di Bolzano, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o, nel merito, infondato; che successivamente la Provincia autonoma ha depositato una memoria nella quale si osserva che, pendente il giudizio costituzionale, sono intervenute due modifiche normative di rilievo: (a) l'entrata in vigore di una nuova disciplina legislativa provinciale della materia, costituita dalla legge della Provincia autonoma di Bolzano 17 febbraio 2000, n. 7 (Nuovo ordinamento del commercio), che ha tenuto conto dei princìpi contenuti nel decreto legislativo n. 114 del 1998, e (b) l'entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), che - con l'art. 3, recante il nuovo art. 117 della Costituzione - riserva alle Regioni la competenza esclusiva in materia di commercio, e che stabilisce (art. 10) l'applicazione delle nuove disposizioni anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano, in quanto attribuiscono forme di autonomia maggiori di quelle preesistenti; che per le suddette ragioni la Provincia ha concluso nel senso del superamento della controversia, per effetto delle nuove disposizioni costituzionali, e comunque della cessazione della materia del contendere, stante l'intervenuto adeguamento della normativa provinciale ai princìpi della legislazione statale; che in data 8 febbraio 2002 l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato atto con il quale, rilevata l'approvazione e promulgazione della nuova disciplina di cui alla legge provinciale n. 7 del 2000, su conforme deliberazione del 25 gennaio 2002 del Consiglio dei ministri, ha dichiarato di rinunciare al ricorso; che la difesa della Provincia autonoma di Bolzano ha a sua volta depositato, in data 11 febbraio 2002, atto di accettazione della rinuncia, contestualmente allegando la conforme deliberazione del 28 gennaio 2002 della Giunta provinciale di Bolzano. Considerato che, a norma dell'art. 25 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita dalla relativa accettazione della controparte, produce l'effetto di estinguere il processo. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara estinto il processo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 aprile 2002.

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Ord. 10 aprile 2002, n. 117

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 3, ultima parte, della legge della Regione Umbria 20 gennaio 1998, n. 3 (Ordinamento del sistema sanitario regionale), promosso con ordinanza emessa il 3 marzo 2001 dal Tribunale di Orvieto nel procedimento civile promosso da Giulii Capponi Gino contro la Regione Umbria e l'A.S.L. n. 4 di Terni, iscritta al n. 290 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visti gli atti di costituzione di Gino Giulii Capponi, dell'A.S.L. n. 4 di Terni e della Regione Umbria; udito nella camera di consiglio del 13 marzo 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che nel corso di una controversia di lavoro promossa da un ex direttore generale di un'azienda unità sanitaria locale nei confronti dell'azienda stessa e della Regione Umbria, il Tribunale di Orvieto ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione, dell'art. 34, comma 3, ultima parte, della legge della Regione Umbria 20 gennaio 1998, n. 3 (Ordinamento del sistema sanitario regionale), nella parte in cui prevede la risoluzione di diritto dei rapporti di lavoro in corso a quella data; che in punto di fatto il giudice a quo deduce che il ricorrente era stato nominato direttore generale dell'azienda sanitaria n. 4 della Regione Umbria, poi soppressa mediante incorporazione nell'azienda sanitaria n. 5 che aveva assunto il n. 4, e che, a seguito di tale soppressione, la Regione Umbria, avvalendosi del disposto della norma impugnata, aveva comunicato al direttore generale l'intervenuta cessazione del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità di svolgimento dell'incarico; che il ricorrente, nell'impugnare il provvedimento suddetto, aveva chiesto al giudice del lavoro di dichiarare l'insussistenza dell'impossibilità sopravvenuta, con conseguente condanna della Regione al pagamento degli importi che egli avrebbe avuto diritto a percepire in caso di normale continuazione del rapporto di lavoro; che secondo il Tribunale la questione di legittimità costituzionale della norma impugnata è comunque rilevante, benché la Regione Umbria abbia fatto esclusivo riferimento all'impossibilità sopravvenuta della prestazione ai sensi dell'art. 2228 cod. civ., poiché appare logico ricomprendere nella fattispecie di cui alla norma impugnata anche la situazione oggetto dell'art. 36 della medesima legge regionale, in quanto l'ipotesi di risoluzione "di diritto" di cui all'art. 34 si presenta più ampia della precedente; che, sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il Tribunale osserva che la norma in esame si pone in contrasto con entrambi gli invocati parametri costituzionali: con l'art. 117 Cost., perché, essendo il contratto stipulato tra il direttore generale e la Regione un contratto di natura privatistica, esso dev'essere disciplinato soltanto da norme statali, sicché la normativa regionale si è posta in contrasto con quella statale in una materia sottratta alla sua competenza; col principio di eguaglianza, perché, trattandosi di norma finalizzata all'applicazione in pochi casi concreti, la stessa difetterebbe dei necessari requisiti di generalità ed astrattezza, creando così un'ingiustificata disparità di trattamento tra i destinatari della norma e gli altri soggetti che vedono il loro rapporto di lavoro disciplinato soltanto dalla legge statale; che si è costituito in giudizio il funzionario ricorrente, chiedendo l'accoglimento della questione;

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che si sono costituite in giudizio, altresì, la Regione Umbria e l'azienda unità sanitaria locale n. 4 della medesima Regione, concludendo entrambe per l'inammissibilità o l'infondatezza della questione. Considerato che, successivamente alla proposizione della presente questione di legittimità costituzionale, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui articolo 3 ha totalmente modificato l'art. 117 Cost., invocato come parametro nel giudizio a quo; che in considerazione di tale modifica, che va ad innovare l'intero quadro normativo, si rende preliminarmente necessaria la restituzione degli atti al giudice rimettente perché riesamini i termini della questione a suo tempo sollevata. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Orvieto. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 aprile 2002.

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Ord. 8 aprile 2002, n. 96

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3 e 4 della legge della Regione Toscana 14 ottobre 1999, n. 52 (Norme sulle concessioni, le autorizzazioni e le denunce d'inizio delle attività edilizie - Disciplina dei controlli nelle zone soggette al rischio sismico - Disciplina del contributo di concessione - Sanzioni e vigilanza sull'attività urbanistico/edilizia - Modifiche ed integrazioni alla Legge regionale 23 maggio 1994, n. 39 e modifica della Legge regionale 17 ottobre 1983, n. 69), promossi con ordinanze emesse il 24 novembre 2000 dal Tribunale di Lucca, sezione distaccata di Viareggio, il 17 e il 30 gennaio 2001 dal Giudice per le indagini preliminari (Gip) del Tribunale di Firenze rispettivamente iscritte ai nn. 154, 264 e 265 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10 e 16, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visti l'atto di costituzione di Loredana Martini, nonché gli atti di intervento della Regione Toscana; udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che il Tribunale di Lucca, sezione distaccata di Viareggio, in composizione monocratica, ed il Giudice per le indagini preliminari (Gip) del Tribunale di Firenze, con tre ordinanze del 24 novembre 2000, del 17 gennaio 2001 e del 30 gennaio 2001, sollevano questione di legittimità costituzionale: il primo giudice, degli artt. 2, 3 e 4 (recte: comma 2 e comma 4), e, il secondo giudice, degli artt. 2, comma 2, e 4, comma 2 lettera d), della legge della Regione Toscana 14 ottobre 1999, n. 52 (Norme sulle concessioni, le autorizzazioni e le denunce d'inizio delle attività edilizie - Disciplina dei controlli nelle zone soggette al rischio sismico - Disciplina del contributo di concessione - Sanzioni e vigilanza sull'attività urbanistico/edilizia - Modifiche ed integrazioni alla Legge regionale 23 maggio 1994, n. 39 e modifica della Legge regionale 17 ottobre 1983, n. 69), in riferimento agli artt. 3, 5, 25 e 117 della Costituzione; che, ad avviso del Tribunale di Lucca, le norme impugnate, nella parte in cui individuano le opere e gli interventi soggetti a concessione edilizia (artt. 2 e 3), ovvero ad "attestazione di conformità con le vigenti norme degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali, delle salvaguardie regionali, provinciali e comunali", riconducendo fra questi ultimi (art. 4, comma 2 lettera d), anche quelli di "ristrutturazione edilizia", violerebbero l'art. 117 della Costituzione, in quanto si porrebbero in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall'art. 1 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli), il quale subordina a concessione ogni attività che comporta trasformazione edilizia; che, secondo il giudice a quo, le norme impugnate, sottraendo gli interventi in oggetto all'applicazione delle sanzioni penali stabilite dall'art. 20 della legge 5 agosto 1985, n. 47, violerebbero la competenza esclusiva dello Stato nella materia penale e recherebbero vulnus sia all'art. 25 della Costituzione, sia all'art. 3 della Costituzione, in quanto realizzerebbero un'ingiustificata disparità di trattamento tra identiche condotte, tenute in differenti regioni; che, ad avviso del Gip del Tribunale di Firenze, le disposizioni censurate, stabilendo una disciplina delle ristrutturazioni edilizie totalmente difforme rispetto a quella prevista dall'art. 9 della legge n. 47 del 1985, violerebbero l'art. 117 della Costituzione e, inoltre, per le argomentazioni svolte dal Tribunale di Lucca, si porrebbero in contrasto sia con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione, sia con gli artt. 3 e 5 della Costituzione; che in tutti i giudizi è intervenuta la Regione Toscana, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate;

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che, negli atti di intervento e nelle memorie depositate in prossimità della camera di consiglio, di contenuto in larga misura coincidente, la Regione ha insistito, affinché la Corte ordini la restituzione degli atti ai giudici a quibus per il riesame della rilevanza delle questioni, alla luce della sopravvenuta modifica dell'art. 117 della Costituzione; che in uno dei giudizi promossi dal Gip del Tribunale di Firenze si è altresì costituita la parte privata, chiedendo, nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, che la Corte, in considerazione della modifica del quadro normativo di riferimento, disponga la restituzione degli atti per il riesame della perdurante rilevanza della questione. Considerato che l'identità delle norme impugnate e dei parametri costituzionali invocati, nonché la sostanziale coincidenza di alcune delle argomentazioni svolte dai giudici a quibus rendono opportuna la riunione dei giudizi; che i rimettenti sollevano questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3 e 4, comma 2 e comma 4, della legge della Regione Toscana 14 ottobre 1999, n. 52, in riferimento, tra gli altri, all'art. 117 della Costituzione ed in relazione ai principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale in materia; che, indipendentemente dall'intervenuto mutamento della legislazione statale concernente la materia in oggetto, successivamente alla pronuncia di tutte le ordinanze di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che, pertanto, essendo stata modificata una delle norme costituzionali invocate come parametro di giudizio, secondo un principio più volte affermato da questa Corte, si impone la restituzione degli atti ai giudici a quibus, affinché essi riesaminino i termini della questione alla luce del sopravvenuto mutamento del quadro normativo (ex plurimis, ordinanze n. 26 del 2002, n. 14 del 2002, n. 13 del 2002 e n. 9 del 2002). Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Lucca, sezione distaccata di Viareggio, e al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 aprile 2002.

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Ord. 1 marzo 2002, n. 85

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestine e tutela della correttezza nello svolgimento delle manifestazioni sportive), come novellato dall'articolo 37, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), promosso, nell'ambito di un procedimento penale, con ordinanza emessa il 30 marzo 2001 dal Tribunale di Ascoli Piceno con ordinanza iscritta al n. 600 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visti l'atto di costituzione di alcuni degli indagati nel giudizio a quo, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2002 il Giudice relatore Guido Neppi Modona; uditi gli avvocati Roberto Jacchia e Beniamino Caravita di Toritto per le parti private e l'Avvocato dello Stato per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che il Tribunale di Ascoli Piceno ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, 11 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento delle manifestazioni sportive), come novellato dall'art. 37, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato); che il Tribunale ha contestualmente sottoposto alla Corte di Giustizia, ai sensi dell'art. 234 del trattato che istituisce la Comunità europea del 25 marzo 1957, ratificato e reso esecutivo con la legge 14 ottobre 1957, 1203 (come modificato dal trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, ratificato e reso esecutivo con la legge 16 giugno 1998, n. 209), «questione pregiudiziale comunitaria» per verificare se gli artt. 43-55 del trattato CE, che sanciscono i principi di libertà di stabilimento e di libertà di prestazione dei servizi transfrontalieri, possano essere interpretati nel senso di ritenere ad essi conforme la disciplina contenuta nel medesimo art. 4 della legge n. 401 del 1989; che l'art. 4 della legge n. 401 del 1989 viene in rilievo sotto entrambi i profili in quanto sanziona penalmente anche la condotta di chi favorisce nel territorio dello Stato l'accettazione e la raccolta di scommesse da parte di una impresa comunitaria debitamente autorizzata nel paese di appartenenza; che, in ordine alla rilevanza, il collegio premette di essere investito della richiesta di riesame avverso il decreto di perquisizione locale e personale e del conseguente sequestro ex art. 252 del codice di procedura penale, nonché avverso il decreto di sequestro preventivo ex art. 321 dello stesso codice, emessi rispettivamente dal pubblico ministero e dal giudice per le indagini preliminari nei confronti di numerosi indagati per il reato di cui all'art. 4, comma 1, della legge n. 401 del 1989 per aver posto in essere una "organizzazione, diffusa e capillare, di agenzie italiane collegate via Internet con il bookmaker inglese Stanley international betting di Liverpool, con compiti di raccolta nel territorio dello Stato di scommesse ad esso riservate per legge", in violazione del regime di monopolio riservato al Comitato olimpico nazionale italiano;

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che, secondo il giudice a quo, poiché dagli atti risulta che gli indagati "non solo hanno coadiuvato il bookmaker nell'attività di raccolta delle scommesse, ma hanno anche espletato un'attività economica e un servizio in favore dell'impresa straniera", sarebbero integrate anche le fattispecie previste nei commi 4-bis e 4-ter dell'art. 4, introdotti dalla legge n. 388 del 2000; che nel merito il rimettente rileva che l'istanza di riesame "solleva - insieme a profili di diritto interno - pregiudiziali questioni di compatibilità di norme nazionali con disposizioni sovraordinate di diritto comunitario, la cui risoluzione potrebbe definire il presente giudizio"; che nell'illustrare in via preliminare i termini della «questione pregiudiziale comunitaria» il Tribunale, pur consapevole della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia, afferma di ritenere necessario un nuovo intervento della Corte, a causa della diversità delle fattispecie oggetto di giudizio nel procedimento a quo (rispetto a quelle a suo tempo esaminate) e delle recenti modifiche legislative recate dalla legge n. 388 del 2000; che in particolare, a giudizio del Tribunale, il comma 1 dell'art. 4 della legge n. 401 del 1989, in quanto "non esclude la punibilità nell'ipotesi in cui l'agente abbia la qualità di impresa estera comunitaria (abilitata dalle competenti autorità del paese di appartenenza)", determina una "inaccettabile discriminazione" degli operatori stranieri "rispetto agli operatori nazionali (muniti delle prescritte concessioni o autorizzazioni abilitanti) impegnati in identiche attività di raccolta ed accettazione di proposte di scommesse sportive per conto del CONI", in violazione dei principi di libertà di stabilimento e di libertà di prestazione dei servizi transfrontalieri sanciti dagli artt. 43-55 del trattato CE; che tale discriminazione non risulterebbe giustificata dal soddisfacimento di alcuna delle esigenze, che secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza del 21 ottobre 1999, causa c-67/98, Zenatti, e sentenza del 24 marzo 1994, causa c-275/92, Schindler) e la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass., Sez. III, n. 1680 del 2000), possono invece legittimare l'adozione di una disciplina restrittiva in danno di soggetti diversi dai cittadini di uno Stato membro; che infatti, secondo il giudice a quo, nell'ipotesi di impresa estera comunitaria le esigenze di ordine pubblico ben potrebbero ritenersi salvaguardate attraverso i controlli cui l'impresa straniera è assoggettata nel paese di appartenenza, né potrebbe ritenersi sussistente il rischio di un'ulteriore "incitazione alla spesa", "anche per la marginalità del fenomeno delle scommesse con operatori esteri rispetto al mercato nazionale dei giochi"; che, ancora, il divieto posto dall'art. 4 non sarebbe giustificato dall'esigenza di finanziamento delle attività di pertinenza del CONI, in quanto l'area delle condotte penalmente rilevanti si estende ora, per effetto dell'aggiunta dei commi 4-bis e 4-ter al menzionato art. 4, anche ad "attività di raccolta su eventi sportivi internazionali o eventi mondani o di altro genere, sulle quali lo Stato non ha alcun interesse fiscale"; che quanto alla questione di legittimità costituzionale il rimettente dubita della conformità dell'art. 4 della legge n. 401 del 1989, come novellato dalla legge n. 388 del 2000, con gli artt. 3 e 41 della Costituzione, per la irragionevole limitazione imposta alla libertà di impresa con riferimento all'attività di intermediazione delle scommesse su eventi sportivi o su eventi mondani, per i quali non sussiste alcun interesse di natura fiscale dello Stato; con l'art. 10, secondo comma, Cost. per il diverso trattamento riservato agli operatori stranieri all'interno dello Stato italiano in violazione di norme e trattati internazionali, nonché con l'art. 11 Cost. in riferimento agli obblighi assunti dall'Italia con l'adesione al trattato CE (in particolare a quello di accettare limitazioni alla propria sovranità nazionale nel settore economico e di assicurare condizioni di parità con gli altri Stati); che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque manifestamente infondata; che secondo l'Avvocatura l'inammissibilità deriverebbe, oltre che dal difetto di rilevanza o, quantomeno, dall'insufficiente motivazione sulla rilevanza, anche dal fatto che la questione pone in realtà un problema di compatibilità delle norme interne con i principi di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi stabiliti

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dal trattato CE, con la conseguenza che la competenza a deciderla spetterebbe alla Corte di Giustizia ai sensi dell'art. 234 del trattato CE; che nel merito la questione sarebbe, a giudizio della difesa erariale, comunque infondata, in quanto la libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi ha esclusivamente un contenuto negativo, vietando agli Stati membri di porre limitazioni ingiustificate all'operatività nel proprio ordinamento delle imprese appartenenti agli altri Stati membri, ma non comporta necessariamente l'obbligo del "mutuo riconoscimento" tra gli Stati delle autorizzazioni ad operare concesse da ciascuno ai soggetti appartenenti al proprio ordinamento, obbligo che può derivare soltanto da specifiche fonti comunitarie subordinate ai trattati (direttive o regolamenti) che disciplinano organicamente lo svolgimento in ambito comunitario di una certa attività economica; che del resto la stessa Corte di Giustizia nella sentenza del 21 ottobre 1999-Zenatti, anche in ragione della pericolosità sociale del giuoco e della necessità che esso sia assoggettato ad uno stretto regime di controllo pubblico, ha riconosciuto la compatibilità dell'art. 4 della legge n. 401 del 1989 e delle altre norme che riservano allo Stato il diritto di esercitare le scommesse su eventi sportivi con il principio di libera prestazione dei servizi; che, infine, infondata sarebbe anche la censura relativa all'art. 41 Cost., atteso che il terzo comma di tale disposizione prevede che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e non c'è dubbio che il giuoco sotto forma di scommesse su eventi vari per la sua pericolosità sociale debba essere assoggettato a controlli da parte dello Stato; che si sono costituiti in giudizio alcuni degli indagati nel procedimento a quo, chiedendo che la questione sia dichiarata ammissibile e fondata; che nell'atto di costituzione, premessa una breve ricostruzione del quadro normativo e degli orientamenti giurisprudenziali in materia, le parti rilevano come la disciplina censurata - per il tramite della incriminazione penale delle attività volte a "favorire" le scommesse - impedisce ai privati lo svolgimento di attività telematiche per le quali, peraltro, hanno già ottenuto le prescritte autorizzazioni delle autorità competenti; che, inoltre, tale disciplina, spingendosi fino a impedire l'invio di dati telematici all'estero per conto di società che svolgono attività di raccolta di scommesse in altro Stato, è espressione di una politica legislativa volta ad escludere con ogni mezzo l'accesso al mercato nazionale delle scommesse da parte di operatori diversi da quelli già presenti; che pertanto sarebbe violato l'art. 41 Cost. poiché, quand'anche si riconoscesse che la disciplina è volta a soddisfare finalità di raccolta erariale, queste non rientrano fra quelle che, ai sensi del secondo comma dell'art. 41 Cost. (utilità sociale, sicurezza, libertà e dignità umana), possono consentire limitazioni alla libertà di iniziativa economica; che del resto la tutela dell'ordine pubblico - rileva ancora la difesa degli indagati - tradizionalmente indicata a giustificazione delle particolari restrizioni imposte nel settore del giuoco e delle scommesse ben potrebbe essere attuata attraverso forme di controllo che non impediscano la progressiva e naturale apertura del mercato, per esempio, ad operatori stranieri soggetti alle autorizzazioni (e quindi ai controlli) degli Stati di appartenenza; che sotto questo profilo sarebbe quindi evidente anche la violazione dell'art. 11 Cost., che secondo la giurisprudenza della stessa Corte Costituzionale "offre copertura costituzionale al trattato di Roma e più in generale al diritto comunitario" (sentenza n. 85 del 1999), in quanto la disciplina censurata si pone in contrasto con i principi di libertà di stabilimento e di libertà dei servizi transfrontalieri sanciti dal trattato CE che riconoscono a tutti gli appartenenti alla Comunità europea il diritto di fissare la sede (principale o secondaria) delle proprie attività economiche in qualsiasi Stato dell'Unione, senza dover subire discriminazioni per ragioni di nazionalità e di fornire, nell'ambito dell'area geografica comunitaria, i propri servizi, senza incontrare barriere nell'accesso nei mercati degli altri Stati;

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che ancora, ad avviso delle parti, le misure restrittive di cui all'art. 4 censurato appaiono lesive del principio di non discriminazione ( art. 10 Cost.), perché vietano l'accesso al mercato interno degli operatori comunitari, impedendo loro di ricevere persino dati telematici rilevati in Italia, così discriminandoli rispetto agli operatori interni; che nell'atto di costituzione si prospettano ulteriori profili di illegittimità costituzionale della disciplina censurata, non dedotti dal giudice a quo, con riferimento in primo luogo ai principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena, di determinatezza e tassatività della fattispecie, nonché al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale e al diritto di difesa; che in prossimità dell'udienza l'Avvocatura generale dello Stato ha presentato una memoria nella quale vengono svolte considerazioni ulteriori rispetto a quelle sviluppate nell'atto di intervento; che, in particolare, nella memoria viene contestata l'affermazione, contenuta nell'atto di costituzione delle parti private, secondo cui l'attività di raccolta e di trasmissione delle scommesse su eventi sportivi nazionali ed esteri costituiva prima della legge n. 388 del 2000 attività lecita e si precisa che nessuna discriminazione sarebbe ravvisabile in danno degli operatori stranieri poiché tali soggetti possono, al pari degli operatori nazionali, richiedere l'autorizzazione per lo svolgimento di attività di organizzazione di scommesse non riservate allo Stato in totale aderenza a quanto previsto dagli artt. 43-55 del trattato CE; che anche le parti private hanno depositato una memoria, con allegata una copiosa documentazione, nella quale, riportandosi integralmente agli argomenti esposti nell'atto di costituzione, si soffermano su alcuni aspetti posti in evidenza dall'Avvocatura di Stato nell'atto di intervento; che, in particolare, circa l'eccepita inammissibilità derivante dall'avere il rimettente proposto questione pregiudiziale interpretativa davanti alla Corte di Giustizia, precisano che, indipendentemente da tale giudizio, la Corte Costituzionale ben potrebbe «verificare la conformità della normativa nazionale al diritto comunitario» in forza dell'art. 11 Cost., anche alla luce della recente modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, e della nuova formulazione dell'art. 117, primo comma, che, nel prevedere che "la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali", darebbe "nuovo fondamento alla legittimità costituzionale delle leggi ordinarie". Considerato che il rimettente solleva, in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, 11 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, come novellato dall'art. 37, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, in quanto non esclude la punibilità nei confronti di chi favorisce nel territorio dello Stato l'accettazione e la raccolta di scommesse da parte di una impresa comunitaria debitamente autorizzata nel paese di appartenenza, sul presupposto che la norma censurata sia in contrasto con i principi di libertà di stabilimento e di libertà dei servizi transfrontalieri sanciti dagli artt. 43-55 del trattato CE (come modificato dal trattato di Amsterdam); che il rimettente contestualmente sottopone alla Corte di Giustizia, a norma dell'art. 234 del trattato CE, «questione pregiudiziale comunitaria» proprio per verificare la compatibilità dello stesso art. 4 della legge n. 401 del 1989 con gli artt. 43-55 del trattato CE; che il rimettente, pur essendo a conoscenza di precedenti decisioni in materia, ritiene necessario un nuovo intervento della Corte di Giustizia, a causa sia della diversità delle fattispecie oggetto del giudizio a quo rispetto a quelle in precedenza esaminate dalla predetta Corte, sia delle recenti modifiche legislative introdotte dalla legge n. 388 del 2000; che, in particolare, il rimettente rileva che la decisione che è chiamato ad assumere in qualità di giudice del riesame coinvolge, insieme a profili di diritto interno, questioni pregiudiziali di compatibilità della disciplina censurata con disposizioni di diritto comunitario, «la cui soluzione potrebbe definire il presente giudizio»; che da questa impostazione emerge la manifesta contraddittorietà dell'ordinanza di rimessione, in quanto il giudice solleva contemporaneamente «questione pregiudiziale» interpretativa dei principi del trattato CE

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avanti alla Corte di Giustizia, al fine di accertare se la norma censurata sia compatibile con l'ordinamento comunitario e, quindi, applicabile nell'ordinamento italiano, e questione di legittimità davanti alla Corte Costituzionale, così presupponendo che la norma, di cui egli stesso ha sollecitato l'interpretazione della Corte di giustizia, sia applicabile; che la questione va pertanto dichiarata manifestamente inammissibile. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento delle manifestazioni sportive), come novellato dall'art. 37, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, secondo comma, 11 e 41 della Costituzione, dal Tribunale di Ascoli Piceno, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 marzo 2002.

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Ord. 1 marzo 2002, n. 80

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 2, 2, 3 e 4 della legge della Regione Piemonte 3 gennaio 1997, n. 4 (Regolamentazione dell'esercizio dell'attività libero-professionale dei medici veterinari dipendenti dal servizio sanitario nazionale (SSN), promossi con due ordinanze emesse il 10 maggio 2000 dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, rispettivamente iscritte ai nn. 522 e 523 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2000. Visti gli atti di costituzione di L. B. ed altri, di G. Z. e della Regione Piemonte; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, nel corso di due giudizi aventi rispettivamente ad oggetto l'annullamento della nota con cui l'Azienda sanitaria regionale n. 16 di Mondovì ha chiesto ad alcuni medici veterinari da essa dipendenti informazioni sulla loro attività libero-professionale, nonché dell'atto con cui l'Azienda sanitaria regionale del Piemonte n. 8 di Chieri ha intimato ad un medico veterinario da essa dipendente la chiusura del suo ambulatorio privato, con due ordinanze del 10 maggio 2000, depositate il successivo 26 maggio 2000, di contenuto in larga misura coincidente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale: nel primo giudizio, degli articoli 1, comma 2, 2, 3 e 4 della legge della Regione Piemonte 3 gennaio 1997, n. 4 (Regolamentazione dell'esercizio dell'attività libero-professionale dei medici veterinari dipendenti dal servizio sanitario nazionale (SSN) e, nel secondo giudizio, dell'art. 2 della stessa legge, in riferimento agli articoli 3, 4, 35, 117 e 120 della Costituzione; che, secondo i rimettenti, le norme impugnate disciplinano la libera professione dei medici veterinari del Servizio sanitario nazionale (Ssn) con modalità tali da impedirne sostanzialmente l'esercizio, in violazione del principio di ragionevolezza, del diritto costituzionale al lavoro, dei principi della legislazione statale che regolano la materia e del diritto dei cittadini di esercitare la loro professione in ogni parte del territorio nazionale; che, a loro avviso, l'art. 2 della legge, stabilendo il divieto di svolgere, nel territorio dell'azienda sanitaria di appartenenza, la libera professione relativamente agli "animali d'affezione", violerebbe gli articoli 4 e 35 della Costituzione, in quanto realizza «un grave affievolimento delle facoltà professionali del veterinario senza raccordarsi funzionalmente a specifiche esigenze della struttura sanitaria pubblica», sovrapponendo il criterio territoriale a quello della potenziale situazione di conflitto, il quale richiederebbe di «procedere alla individuazione in concreto delle situazioni pregiudizievoli per i fini istituzionali del Servizio sanitario nazionale»; che l'art. 3 della legge regionale, prevedendo il divieto di svolgere attività libero-professionale in riferimento agli "animali da reddito", salvo il caso di «carenza di veterinari libero-professionisti», determinerebbe una sostanziale soppressione della facoltà di esercitare la libera professione, in mancanza di un «ponderato collegamento con le esigenze del servizio sanitario pubblico», ed identico risultato sarebbe realizzato anche dal successivo art. 4, il quale estende la disciplina degli artt. 2 e 3 all'attività veterinaria avente ad oggetto il "cavallo sportivo"; che, secondo i rimettenti, l'art. 1, comma 2, della legge regionale in oggetto sarebbe viziato a causa della sua connessione con la disciplina stabilita dai precedenti artt. 2 e 3; che le norme impugnate, ad avviso del Tar, si porrebbero altresì in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto, benché riconoscano il diritto a svolgere attività libero-professionale, recano una disciplina che

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sostanzialmente lo vanifica, stabilendo altresì l'art. 2 della legge regionale un limite territoriale al suo esercizio che recherebbe vulnus all'art. 120 della Costituzione; che, infine, secondo i giudici a quibus, tutte le norme censurate violerebbero l'art. 117 della Costituzione, poiché si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali stabiliti nella materia dalla legislazione statale, la quale prevederebbe il diritto dei medici veterinari a svolgere attività libero-professionale, che risulterebbe invece compromessa dalla legge regionale, senza che le limitazioni siano giustificate da «alcun ragionevole raccordo con le esigenze della struttura pubblica»; che in entrambi i giudizi si è costituita la Regione Piemonte, in persona del Presidente della Giunta regionale, convenuta in entrambi i processi principali, chiedendo che le questioni di costituzionalità siano dichiarate inammissibili e comunque infondate; che, a suo avviso, le disposizioni impugnate mirano a garantire la funzionalità del servizio e non violerebbero i principi stabiliti dalla legislazione dello Stato che, per ragioni di interesse pubblico, ha limitato la facoltà dei dirigenti sanitari del Ssn di esercitare attività libero-professionale; che, secondo la Regione Piemonte, i limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale stabiliti dalle norme censurate sarebbero ragionevolmente ispirati dall'intento di tutelare interessi di rango costituzionale e di garantire la funzionalità del servizio pubblico sanitario; che nei predetti giudizi si sono costituiti i ricorrenti nei processi principali, i quali, con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, hanno chiesto l'accoglimento delle questioni, sostenendo che la legge regionale non sarebbe giustificata da «ragioni direttamente connesse alla primaria esigenza di garantire un efficiente servizio sanitario pubblico»; che, a loro avviso, le disposizioni impugnate si porrebbero in contrasto con i «principi fondamentali in materia, quali si desumono dalla legislazione statale» e violerebbero l'art. 117 della Costituzione anche nel testo modificato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in quanto «non sembra sostanzialmente mutata la disciplina dei limiti della potestà legislativa» regionale. Considerato che i giudizi hanno ad oggetto le medesime disposizioni di legge in riferimento agli stessi parametri costituzionali e, quindi, vanno riuniti per essere decisi congiuntamente; che le norme regionali impugnate sono state censurate dal Tar per il Piemonte in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 117 e 120 della Costituzione; che, successivamente ad entrambe le ordinanze di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), che tra l'altro, agli art. 3 e 6, ha sostituito il testo degli artt. 117 e 120 della Costituzione; che la sopravvenuta modificazione di due delle norme invocate come parametro di giudizio, impone la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, affinché essi riesaminino, sotto ogni profilo, i termini della questione alla luce dell'intervenuto mutamento del quadro normativo (ordinanze n. 9 del 2002, n. 416 del 2001, n. 397 del 2001). Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'1 marzo 2002.

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Ord. 28 febbraio 2002, n. 76

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia 3 aprile 2000, n. 22 [Attuazione dell'art. 15 (Vendite straordinarie) del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 "Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59"], promosso con ordinanza emessa il 20 luglio 2001 dal Giudice di pace di Morbegno nel procedimento civile promosso da Grand Vision Italia S.p.a nei confronti del Comune di Piantedo, iscritta al n. 800 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visto l'atto di intervento della Regione Lombardia; udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che nel corso del giudizio di opposizione, proposto ex artt. 22 e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dalla Grand Vision S.p.a. avverso l'ordinanza-ingiunzione emessa nei suoi confronti dal Comune di Piantedo, il Giudice di pace di Morbegno ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, della legge della Regione Lombardia 3 aprile 2000, n. 22 [Attuazione dell'art. 15 (Vendite straordinarie) del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 114 "Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59"]; che secondo il giudice rimettente la legge denunciata impone limitazioni alle vendite promozionali non contemplate dall'art. 15 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, in quanto quest'ultima norma non demanda alle Regioni alcun potere regolamentare in merito alle vendite straordinarie; che il giudice a quo, dopo aver sospeso l'ordinanza-ingiunzione opposta, ha rilevato che il giudizio non può essere definito indipendentemente dall'esito della presente questione di legittimità costituzionale; che è intervenuta in giudizio la Regione Lombardia, eccependo, in via preliminare, l'inammissibilità della questione, sia perché il giudice rimettente, con l'emissione dell'ordinanza di sospensione, avrebbe consumato il proprio potere decisorio, sia perché la questione è stata posta con riferimento all'intera legge, e sostenendo, nel merito, l'infondatezza della medesima. Considerato che, successivamente alla proposizione della presente questione di legittimità costituzionale, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui articolo 3 ha totalmente modificato l'art. 117 Cost., invocato come parametro nel giudizio a quo; che in considerazione di tale modifica, che va ad innovare l'intero quadro normativo, si rende preliminarmente necessaria la restituzione degli atti al giudice rimettente perché riesamini i termini della questione a suo tempo sollevata. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Giudice di pace di Morbegno. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 2002.

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Ord. 28 febbraio 2002, n. 73

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione Lazio 20 marzo 1995, n. 9 (Legge regionale 2 maggio 1980, n. 30 e successive modificazioni ed integrazioni. Variazione tariffa), e dell'art. 1 della legge della Regione Lazio 20 marzo 1995, n. 10 (Modificazioni ed integrazione alla legge regionale approvata nella seduta del 1° febbraio 1995, concernente: «Legge regionale 2 maggio 1980, n. 30 e successive modificazioni ed integrazioni. Variazione tariffa»), promosso con ordinanza emessa il 12 aprile 2001 dal Tribunale di Roma, iscritta al n. 597 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visto l'atto di costituzione della Regione Lazio; udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2002 il Giudice relatore Valerio Onida. Ritenuto che il Tribunale di Roma, nel corso di un procedimento civile promosso da titolari di aziende faunistico-venatorie per restituzione di somme pagate in eccedenza rispetto al dovuto a titolo di tassa di concessione regionale, con ordinanza emessa il 12 aprile 2001, pervenuta nella cancelleria di questa Corte il 21 giugno 2001, ha sollevato, in riferimento agli articoli 117 e 119 della Costituzione e in relazione all'art. 4, comma 5, della legge 14 giugno 1990, n. 158 (recte: all'art. 3, comma 5, della legge 16 maggio 1970, n. 281, come sostituito dall'art. 4, comma 1, della legge 14 giugno 1990, n. 158), questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione Lazio 20 marzo 1995, n. 9 (Legge regionale 2 maggio 1980, n. 30 e successive modificazioni ed integrazioni. Variazione tariffa), e dell'art. 1 della legge della Regione Lazio 20 marzo 1995, n. 10 (Modificazioni ed integrazione alla legge regionale approvata nella seduta del 1° febbraio 1995, concernente: «Legge regionale 2 maggio 1980, n. 30 e successive modificazioni ed integrazioni. Variazione tariffa»); che le norme censurate prevedono, con effetto dal 1° gennaio 1995, il raddoppio degli importi in vigore al 31 dicembre 1994 delle tasse sulle concessioni regionali, previsti nella tariffa allegata alla legge regionale 2 maggio 1980, n. 30, e successive modificazioni; che, ad avviso del giudice a quo, in base alla legislazione statale (art. 3, comma 5, della legge n. 281 del 1970) le leggi regionali che aumentano le tasse sulle concessioni regionali debbono intervenire entro il 31 ottobre di ciascun anno e fare riferimento, in caso di superamento della soglia, ordinariamente stabilita, del venti per cento, all'aumento disposto dallo Stato per le tasse sulle concessioni governative con riguardo agli importi dovuti per le medesime concessioni per l'anno precedente: sicché, decorso il termine del 31 ottobre di ogni anno senza che sia stato disposto alcun aumento corrispondente agli aumenti previsti per le concessioni statali, le Regioni non potrebbero, essendosi ormai consumato il loro potere, disporre un aumento superiore al limite ordinario del venti per cento; che, avendo il legislatore regionale omesso di stabilire per il 1993, entro il 31 ottobre 1992, aumenti corrispondenti a quelli disposti, per le tasse sulle concessioni governative, dall'art. 10 del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359), ed essendosi in tal modo esaurito il relativo potere, l'aumento del cento per cento degli importi delle tasse sulle concessioni regionali, previsto dalle disposizioni denunciate, si porrebbe in contrasto con l'art. 117 della Costituzione, per violazione del limite dei principi fondamentali stabiliti dalla legge dello Stato, e con l'art. 119 della Costituzione, giacché in materia tributaria le Regioni potrebbero legiferare solo nei limiti previsti dalle leggi della Repubblica, con competenza meramente attuativa;

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che nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituita la Regione Lazio, concludendo, preliminarmente, nel senso dell'inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza; e sostenendone, nel merito, l'infondatezza, perché sollevata in base ad una interpretazione erronea dell'attuale contesto normativo; che, in particolare, ad avviso della Regione non vi sarebbe alcun discostamento dalla legislazione statale, perché questa - come starebbero a dimostrare il D.Lgs. 22 giugno 1991, n. 230, e il D.Lgs. 23 gennaio 1992, n. 31 - già prevederebbe la giuridica possibilità di incrementare del cento per cento l'importo della tassa di concessione regionale. Considerato che la questione di legittimità costituzionale è prospettata dal Tribunale di Roma in relazione, per un verso, all'affermato superamento del limite dei principi fondamentali che emergono dalla legislazione statale nella materia delle tasse sulle concessioni regionali, e, per l'altro, all'ambito della competenza legislativa delle Regioni in materia tributaria, che sarebbe meramente attuativa, invocandosi come parametri gli articoli 117 e 119 della Costituzione; che, successivamente all'emanazione dell'ordinanza di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), i cui articoli 3 e 5 hanno sostituito l'intero testo degli articoli 117 e 119 della Costituzione; che, pertanto, in via del tutto preliminare, stante il mutamento delle norme costituzionali invocate come parametri di giudizio, si rende necessario disporre la restituzione degli atti al giudice remittente per un nuovo esame della questione (v., da ultimo, ordinanze n. 9, n. 13, n. 14 e n. 26 del 2002). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Roma. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 2002.

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Ord. 28 febbraio 2002, n. 72

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26 (Estinzione delle gestioni liquidatorie in campo sanitario costituite ai sensi dell'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549), promossi con ordinanze emesse il 12 ottobre 2000 dal Tribunale di La Spezia, il 20 dicembre 2000 dal Tribunale di Milano, il 21 dicembre 2000 dal Tribunale di Genova e il 23 maggio 2001 dalla Corte di Appello di Genova, rispettivamente iscritte al n. 802 del registro ordinanze 2000 ed ai nn. 143, 180 e 584 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell'anno 2000 e nn. 10, 11 e 33, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visti gli atti di costituzione della Regione Liguria; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2002 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che il Tribunale di La Spezia, con ordinanza emessa il 12 ottobre 2000, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26 (Estinzione delle gestioni liquidatorie in campo sanitario costituite ai sensi dell'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549), in riferimento all'art.117 della Costituzione [r.o. n. 802 del 2000], il Tribunale di Milano, V sezione civile, con ordinanza emessa il 20 dicembre 2000, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26, in riferimento all'art.117 della Costituzione [r.o. n.143 del 2001], il Tribunale di Genova, con ordinanza del 21 dicembre 2000 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26, in riferimento agli artt. 3, 24, e 117 della Costituzione [r.o. n.180 del 2001] e la Corte d'Appello di Genova, sezione I civile, con ordinanza emessa il 23 maggio 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione [r.o. n.584 del 2001]; che le ordinanze, con argomentazioni pressoché identiche, censurano gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria 24 marzo 2000, n. 26 nella parte in cui hanno trasferito alle aziende unità sanitarie locali, invece che alla Regione, la titolarità e la legittimazione, sostanziale e processuale, in ordine ai debiti delle soppresse unità sanitarie locali; che i giudici rimettenti rilevano che gli artt. 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 - nell'ambito del riordino del Servizio sanitario nazionale disposto dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 - vietano alle regioni di far gravare sulle neoistituite aziende sanitarie locali i debiti ed i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unità sanitarie locali, e prevedono a tal fine l'istituzione di gestioni a stralcio, successivamente trasformate in gestioni liquidatorie; che, al riguardo, i rimettenti richiamano il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui le predette disposizioni avrebbero determinato una successione ex lege a titolo particolare delle regioni nei rapporti di credito e di debito già facenti capo alle unità sanitarie locali; che, peraltro, nel corso del giudizio sono entrate in vigore le norme regionali impugnate, le quali hanno disposto la cessazione delle gestioni liquidatorie ed hanno previsto che i rapporti giuridici già facenti capo alle unità sanitarie locali ed agli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ancorché oggetto di giudizi in qualsiasi sede e grado, si intendono di diritto trasferiti alle aziende unità sanitarie locali ed ai predetti istituti, ai quali restano attribuite la titolarità e la legittimazione, sostanziale e processuale, attiva e passiva;

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che, ad avviso dei giudici rimettenti, detto trasferimento altererebbe l'eguaglianza delle parti «sia nella sostanza obbligatoria che nel processo», in quanto, relativamente ad un'obbligazione di diritto comune, viene sostituito d'imperio il soggetto debitore senza il consenso della parte creditrice, di fatto istituendosi «una forma di liberazione del debitore diversa dall'adempimento, non prevista dalla disciplina civilistica»; che sarebbe altresì violato il diritto alla difesa, il quale esige un'effettiva eguaglianza delle parti nel processo, in quanto, a lite iniziata, la Regione sottrae se stessa «alla soggettività processuale (legittimazione passiva) alla quale era ed è tenuta come parte sostanziale del rapporto obbligatorio»; che infine le norme regionali ostacolerebbero la riforma del Servizio sanitario nazionale, in quanto, onerando le aziende sanitarie locali di quei debiti pregressi che il legislatore statale aveva inteso porre a carico delle regioni, contrasterebbero con il principio secondo il quale i nuovi organismi dovevano essere liberi da passività che ne potessero frenare od ostacolare l'attività; che con distinti atti, di contenuto in larga misura coincidenti, si è costituita in tutti i giudizi la Regione Liguria, parte nei processi principali, chiedendo l'inammissibilità o comunque l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale. Considerato che l'identità delle norme impugnate, delle censure proposte e dei parametri costituzionali invocati, nonché la coincidenza delle argomentazioni svolte nelle ordinanze di rimessione rendono opportuna la riunione dei giudizi; che la questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Liguria n. 26 del 2000, che prevedono la cessazione delle gestioni liquidatorie delle unità sanitarie locali ed il trasferimento dei relativi rapporti giuridici alle aziende sanitarie locali istituite a norma del decreto legislativo n. 502 del 1992; che le norme impugnate sono state censurate dai giudici a quibus in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 della Costituzione; che, successivamente alla pronuncia delle ordinanze di rimessione, è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione», la quale, tra l'altro, all'art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che pertanto, essendo stata modificata una delle norme costituzionali invocate come parametro di giudizio, si impone la restituzione degli atti ai giudici a quibus, affinché riesaminino i termini della questione alla luce dell'intervenuto mutamento del quadro normativo. Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi ordina la restituzione degli atti al Tribunale di La Spezia, al Tribunale di Milano, al Tribunale di Genova e alla Corte d'Appello di Genova. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 2002.

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Ord. 28 febbraio 2002, n. 65

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9, 14 e 18 della delibera legislativa del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia, intitolata "Disposizioni in materia di personale e organizzazione degli uffici" (atto consiliare n. 132-bis), già approvata una prima volta il 27 luglio 2000, quindi rinviata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con telegramma del 5 settembre 2000 ed infine riapprovata con modifiche nella seduta del 4 ottobre 2000, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 25 ottobre 2000, depositato in cancelleria il 3 novembre 2000 ed iscritto al n. 17 del registro ricorsi 2000. Visto l'atto di costituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia; udito nell'udienza pubblica del 18 dicembre 2001 il Giudice relatore Franco Bile; uditi l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia. Ritenuto che con il ricorso in epigrafe il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato le disposizioni degli articoli 9, 14 e 18 della delibera legislativa del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia, intitolata "Disposizioni in materia di personale e organizzazione degli uffici" (atto consiliare n. 132-bis), già approvata una prima volta il 27 luglio 2000, quindi rinviata dalla Presidenza del Consiglio con telegramma del 5 settembre 2000 ed infine riapprovata con modifiche nella seduta del 4 ottobre 2000; che nel ricorso si sostiene che le indicate disposizioni contrasterebbero con gli articoli 3, primo comma, 39, quarto comma, e 97, primo e terzo comma, della Costituzione, nonché con l'articolo 4 dello Statuto speciale regionale approvato con la legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia) e con l'articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 25 novembre 1975, n. 902 (Adeguamento ed integrazione delle norme di attuazione dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), in quanto violerebbero "le norme fondamentali delle riforme economico-sociali", recate: a) dall'articolo 2, comma 1, lettere a), h), i) e l), e comma 2, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), "con le conseguenti disposizioni" del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione della organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421); b) dall'articolo 22, commi 6, 8, e 37 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica); c) dall'articolo 11, comma 4, "in particolare lettere a) e) e g)", della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), "con le conseguenti disposizioni delegate"; d) dall'articolo 41, comma 3, e dall'art. 48, comma 1, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica); e) dal "patto di stabilità interno" (avente rilievo di interesse nazionale, avuto riguardo agli impegni assunti in ambito europeo), di cui all'articolo 28 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) ed all'articolo 30 della l. 23 dicembre 1999, n. 448 [rectius 488] (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2000); f) dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 30 dicembre 1993, n. 593 (Regolamento concernente la determinazione e la composizione dei comparti di contrattazione collettiva di cui all'art. 45, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29) e conseguenti contratti collettivi relativi al comparto Regioni e Autonomie locali;

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che si è costituita la Regione Friuli-Venezia Giulia, depositando una prima memoria, nella quale ha sostenuto genericamente l'inammissibilità ed infondatezza della questione di legittimità costituzionale, e, quindi, una memoria successiva, nella quale argomenta ampiamente le ragioni dell'infondatezza del ricorso ed inoltre rileva che una delle norme impugnate, l'art. 18 della deliberazione riapprovata, non aveva formato oggetto del primo rinvio, nella pur identica versione oggetto della prima approvazione; che, nell'imminenza dell'udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato due memorie illustrative, nella prima delle quali ha replicato alle argomentazioni della Regione ed ha illustrato i riflessi sul presente giudizio dell'intervenuta modificazione dell'art. 117 ed in generale del Titolo V della parte seconda della Costituzione, e nella seconda ha argomentato solo su quest'ultimo punto; che dal suo canto la Regione Friuli-Venezia Giulia ha depositato altra memoria, per richiamare le sue difese e ulteriormente argomentare a favore dell'infondatezza della questione concernente l'art. 14 della delibera impugnata, sulla base dell'art. 5-bis del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343 (Disposizioni urgenti per assicurare il coordinamento operativo delle strutture preposte alle attività di protezione civile), convertito con modificazioni nella legge 9 novembre 2001, n. 401, soffermandosi anch'essa sulle conseguenze sul giudizio della modificazione del Titolo V della parte seconda della Costituzione. Considerato che questa Corte, con sentenza n. 17 del 2002 - a seguito della modificazione dell'art. 127 della Costituzione, introdotta dall'art. 8 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), ed in particolare della soppressione del controllo di costituzionalità che, in base al testo originario dello stesso art. 127, il Governo poteva chiedere alla Corte nei confronti della deliberazione regionale prima della promulgazione - ha ritenuto che i ricorsi introdotti ai sensi del medesimo testo originario ed ancora pendenti diventino improcedibili, salva la facoltà del Governo di impugnare la legge regionale nei termini e nei modi di cui al nuovo testo dell'art. 127; che, conseguentemente, il ricorso in epigrafe, proposto ai sensi del testo originario dell'art. 127 Cost., deve essere dichiarato improcedibile. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara l'improcedibilità del ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 febbraio 2002.

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Ord. 27 febbraio 2002, n. 60

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 17, ultimo comma, della legge Regione Umbria 27 dicembre 1983, n. 52 (Approvazione del piano urbanistico territoriale), e 82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Approvazione del piano urbanistico territoriale), promosso con ordinanza emessa il 30 novembre 1999 dal Consiglio di Stato sui ricorsi riuniti proposti da Italtriest S.n.c. ed altre contro ANAS, iscritta al n. 714 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2000. Visti l'atto di costituzione dell'Italtriest S.n.c. nonché l'atto di intervento della Regione Umbria; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che nel corso di due giudizi di appello (riuniti con decisione interlocutoria), promossi avverso altrettante sentenze del TAR dell'Umbria, il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 2, 3, 41, 77, 117 e 118 della Costituzione, dell'articolo 17, ultimo comma, della legge della Regione Umbria 27 dicembre 1983, n. 52 (Approvazione del piano urbanistico territoriale); che in punto di fatto il giudice remittente premette che gli appelli in corso traggono origine dall'impugnativa proposta dalle società interessate nei confronti di due provvedimenti, emessi dal direttore del compartimento ANAS dell'Umbria, coi quali era stato negato il rinnovo di autorizzazione all'installazione di cartelloni pubblicitari e respinta l'istanza di autorizzazione in vista del medesimo obiettivo; che il TAR aveva respinto entrambi i ricorsi; che il giudice a quo, facendo propri i dubbi di incostituzionalità prospettati dalle parti appellanti, osserva che la norma impugnata - prevedendo il divieto di rilascio di nuove concessioni e di rinnovo di quelle in atto per l'installazione di cartelloni ed insegne pubblicitarie sulle più importanti strade esistenti sul territorio regionale, elencate nel precedente art. 16, gruppi n. 1 e n. 2 - costituisce un arbitrario intervento da parte della Regione in un àmbito normativo spettante ancora esclusivamente allo Stato; che la materia dell'urbanistica, infatti, rientra espressamente nella previsione dell'art. 117 Cost., mentre quella della tutela paesaggistica rimane estranea a siffatto precetto, come questa Corte ha riconosciuto con le sentenze n. 359 del 1985 e n. 1112 del 1988, dalle quali risulta chiaramente la differenza tra i due tipi di competenze; che pertanto, anche in base all'art. 82 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, la tutela del paesaggio ricade nella potestà normativa statale, con la sola eccezione della delega di funzioni in materia di posa in opera di cartelli o di altri mezzi di pubblicità, il che comporta un'evidente violazione dell'art. 117 della Carta fondamentale; che ad avviso del Consiglio di Stato l'illegittimità costituzionale della norma in esame è evidente anche in riferimento all'art. 118 Cost. riguardante la delega alle Regioni delle funzioni amministrative, perché il secondo comma di tale norma non può essere letto nel senso di ritenere che allo Stato sia concesso anche di delegare aree di interessi totalmente estranei a quelli di cui all'art. 117 Cost.;

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che la delega di funzioni amministrative, in altre parole, deve sempre riguardare materie connesse con gli ambiti di cui all'art. 117 Cost., poiché diversamente argomentando l'art. 82 del D.P.R. n. 616 del 1977 sarebbe viziato per eccesso di delega, in quanto l'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 352 - che contiene la delega in subiecta materia - prevede il trasferimento alle Regioni delle funzioni inerenti alle materie di cui all'art. 117 Cost. e la delega, a norma dell'art. 118 Cost., delle funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l'esercizio delle funzioni trasferite o delegate; che il giudice remittente, infine, ritiene che la norma impugnata violi anche l'art. 41 Cost., poiché contiene un'illegittima compressione della libertà di iniziativa economica; che il divieto generale ed indeterminato di posa in opera di cartelloni pubblicitari, inoltre, sarebbe privo di qualsiasi ponderazione tra i vari interessi in gioco, risolvendosi anche in una violazione degli artt. 2 e 3 della Carta fondamentale; che si è costituita in giudizio la società Italtriest, sollecitando l'accoglimento della prospettata questione; che è intervenuta in giudizio la Regione Umbria, con apposita memoria, sollecitando in primo luogo una declaratoria di inammissibilità, in conseguenza dell'erronea individuazione della norma da parte del giudice remittente, ed in secondo luogo la restituzione degli atti al medesimo giudice a séguito dell'entrata in vigore della legge della Regione Umbria 24 marzo 2000, n. 27, successiva all'ordinanza di remissione; che nel merito la Regione ha dichiarato che la questione sollevata è infondata sotto tutti i profili prospettati dal Consiglio di Stato. Considerato che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo va formalmente corretta, dovendosi intendere riferita non all'art. 17, ultimo comma, della legge della Regione Umbria 27 dicembre 1983, n. 52 (Approvazione del piano urbanistico territoriale) - norma che non esiste nel testo della legge menzionata - bensì all'art. 17, ultimo comma, delle norme di attuazione della predetta legge che l'art. 1 della medesima direttamente approva come parte integrante dell'allegato piano urbanistico territoriale regionale; che successivamente alla proposizione della presente questione di legittimità costituzionale, peraltro, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), i cui articoli 3 e 4 hanno totalmente modificato gli artt. 117 e 118 Cost., invocati come parametri nel giudizio a quo; che in conseguenza di tale modifica, che va ad innovare l'intero quadro normativo, si rende preliminarmente necessaria la restituzione degli atti al giudice remittente perché riesamini i termini della questione a suo tempo sollevata. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Consiglio di Stato. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 febbraio 2002.

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Ord. 27 febbraio 2002, n. 60

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 17, ultimo comma, della legge Regione Umbria 27 dicembre 1983, n. 52 (Approvazione del piano urbanistico territoriale), e 82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Approvazione del piano urbanistico territoriale), promosso con ordinanza emessa il 30 novembre 1999 dal Consiglio di Stato sui ricorsi riuniti proposti da Italtriest S.n.c. ed altre contro ANAS, iscritta al n. 714 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2000. Visti l'atto di costituzione dell'Italtriest S.n.c. nonché l'atto di intervento della Regione Umbria; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2002 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che nel corso di due giudizi di appello (riuniti con decisione interlocutoria), promossi avverso altrettante sentenze del TAR dell'Umbria, il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 2, 3, 41, 77, 117 e 118 della Costituzione, dell'articolo 17, ultimo comma, della legge della Regione Umbria 27 dicembre 1983, n. 52 (Approvazione del piano urbanistico territoriale); che in punto di fatto il giudice remittente premette che gli appelli in corso traggono origine dall'impugnativa proposta dalle società interessate nei confronti di due provvedimenti, emessi dal direttore del compartimento ANAS dell'Umbria, coi quali era stato negato il rinnovo di autorizzazione all'installazione di cartelloni pubblicitari e respinta l'istanza di autorizzazione in vista del medesimo obiettivo; che il TAR aveva respinto entrambi i ricorsi; che il giudice a quo, facendo propri i dubbi di incostituzionalità prospettati dalle parti appellanti, osserva che la norma impugnata - prevedendo il divieto di rilascio di nuove concessioni e di rinnovo di quelle in atto per l'installazione di cartelloni ed insegne pubblicitarie sulle più importanti strade esistenti sul territorio regionale, elencate nel precedente art. 16, gruppi n. 1 e n. 2 - costituisce un arbitrario intervento da parte della Regione in un àmbito normativo spettante ancora esclusivamente allo Stato; che la materia dell'urbanistica, infatti, rientra espressamente nella previsione dell'art. 117 Cost., mentre quella della tutela paesaggistica rimane estranea a siffatto precetto, come questa Corte ha riconosciuto con le sentenze n. 359 del 1985 e n. 1112 del 1988, dalle quali risulta chiaramente la differenza tra i due tipi di competenze; che pertanto, anche in base all'art. 82 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, la tutela del paesaggio ricade nella potestà normativa statale, con la sola eccezione della delega di funzioni in materia di posa in opera di cartelli o di altri mezzi di pubblicità, il che comporta un'evidente violazione dell'art. 117 della Carta fondamentale; che ad avviso del Consiglio di Stato l'illegittimità costituzionale della norma in esame è evidente anche in riferimento all'art. 118 Cost. riguardante la delega alle Regioni delle funzioni amministrative, perché il secondo comma di tale norma non può essere letto nel senso di ritenere che allo Stato sia concesso anche di delegare aree di interessi totalmente estranei a quelli di cui all'art. 117 Cost.;

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che la delega di funzioni amministrative, in altre parole, deve sempre riguardare materie connesse con gli ambiti di cui all'art. 117 Cost., poiché diversamente argomentando l'art. 82 del D.P.R. n. 616 del 1977 sarebbe viziato per eccesso di delega, in quanto l'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 352 - che contiene la delega in subiecta materia - prevede il trasferimento alle Regioni delle funzioni inerenti alle materie di cui all'art. 117 Cost. e la delega, a norma dell'art. 118 Cost., delle funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l'esercizio delle funzioni trasferite o delegate; che il giudice remittente, infine, ritiene che la norma impugnata violi anche l'art. 41 Cost., poiché contiene un'illegittima compressione della libertà di iniziativa economica; che il divieto generale ed indeterminato di posa in opera di cartelloni pubblicitari, inoltre, sarebbe privo di qualsiasi ponderazione tra i vari interessi in gioco, risolvendosi anche in una violazione degli artt. 2 e 3 della Carta fondamentale; che si è costituita in giudizio la società Italtriest, sollecitando l'accoglimento della prospettata questione; che è intervenuta in giudizio la Regione Umbria, con apposita memoria, sollecitando in primo luogo una declaratoria di inammissibilità, in conseguenza dell'erronea individuazione della norma da parte del giudice remittente, ed in secondo luogo la restituzione degli atti al medesimo giudice a séguito dell'entrata in vigore della legge della Regione Umbria 24 marzo 2000, n. 27, successiva all'ordinanza di remissione; che nel merito la Regione ha dichiarato che la questione sollevata è infondata sotto tutti i profili prospettati dal Consiglio di Stato. Considerato che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo va formalmente corretta, dovendosi intendere riferita non all'art. 17, ultimo comma, della legge della Regione Umbria 27 dicembre 1983, n. 52 (Approvazione del piano urbanistico territoriale) - norma che non esiste nel testo della legge menzionata - bensì all'art. 17, ultimo comma, delle norme di attuazione della predetta legge che l'art. 1 della medesima direttamente approva come parte integrante dell'allegato piano urbanistico territoriale regionale; che successivamente alla proposizione della presente questione di legittimità costituzionale, peraltro, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), i cui articoli 3 e 4 hanno totalmente modificato gli artt. 117 e 118 Cost., invocati come parametri nel giudizio a quo; che in conseguenza di tale modifica, che va ad innovare l'intero quadro normativo, si rende preliminarmente necessaria la restituzione degli atti al giudice remittente perché riesamini i termini della questione a suo tempo sollevata. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Consiglio di Stato. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 febbraio 2002.

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Ord. 11 febbraio 2002, n. 26

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8, commi 4, 5 e 6 della legge della Regione Veneto 27 gennaio 1993, n. 8 (Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 1993); 27, comma 5, della legge della Regione Veneto 3 febbraio 1996, n. 5 (Piano Socio-Sanitario regionale per il triennio 1996/1998); 40, comma 1, della legge della Regione Veneto 3 febbraio 1998, n. 3 (Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 1998); 55, comma 1, della legge della Regione Veneto 22 febbraio 1999, n. 7 (Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 1999), promosso con ordinanza emessa il 10 novembre 2000 dal Tribunale di Bassano del Grappa nel procedimento civile vertente tra Zanon Costante ed altra e la USL n. 3 di Bassano del Grappa, iscritta al n. 26 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visti gli atti di intervento della Regione Veneto e del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 novembre 2001 il Giudice relatore Fernanda Contri. Ritenuto che nel corso di un giudizio - promosso contro l'Azienda sanitaria USL n. 3 di Bassano del Grappa dai genitori di una degente presso l'Istituto Costante Gris, ricoverata nel biennio 1997-98 per essere sottoposta a trattamenti di natura neuro-psichiatrica - il Tribunale di Bassano del Grappa ha sollevato, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 1, 2 e 26 della legge n. 833 del 23 dicembre 1978 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) e 30 della legge 27 dicembre n. 730 del 1983 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1984), questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, commi 4, 5 e 6 della legge della Regione Veneto 27 gennaio 1993, n. 8 (Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 1993); 27, comma 5, della legge della Regione Veneto 3 febbraio 1996, n. 5 (Piano Socio-Sanitario regionale per il triennio 1996/1998); 40, comma 1, della legge della stessa Regione 3 febbraio 1998, n. 3 (Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 1998); 55, comma 1, della legge della Regione Veneto 22 febbraio 1999, n. 7 (Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 1999); che nel procedimento civile a quo le parti ricorrenti chiedono che venga accertato l'obbligo della USL convenuta di provvedere al pagamento delle spese di degenza presso il predetto istituto, dalla stessa poste a carico della ricoverata, in base alle disposizioni impugnate dal Tribunale rimettente; che nell'ordinanza di rimessione si osserva, da un lato, che la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale n. 833 del 1978 assicura, fra l'altro, all'art. 2, primo comma, n. 4, "la riabilitazione degli stati di invalidità e di inabilità somatica e psichica" e, all'art. 26, pone a carico del servizio sanitario nazionale le "prestazioni sanitarie dirette al recupero funzionale e sociale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali, dipendenti da qualunque causa"; dall'altro, che, diversamente dalle prestazioni sanitarie, le prestazioni "di carattere socio-assistenziale competono alle regioni e agli enti locali" in base all'art. 30 della legge n. 730 del 1983, invocato come parametro interposto (rimanendo a carico del servizio sanitario nazionale gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio-assistenziali); che il giudice a quo conclude che l'art. 8, commi 4, 5 e 6 della legge della Regione Veneto n. 8 del 1993; 27, comma 5, della legge della Regione Veneto n. 5 del 1996; 40, comma 1, della legge della Regione Veneto n.

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3 del 1998; 55, comma 1, della legge della Regione Veneto n. 7 del 1999, nella parte in cui prevedono un concorso dei disabili alle spese di degenza pur quando si tratti di ricovero in strutture che erogano prestazioni socio-assistenziali di rilievo sanitario, contrasterebbero con l'art. 117 della Costituzione, per contrasto con i richiamati princìpi fondamentali stabiliti dagli artt. 1, 2 e 26 della legge n. 833 del 1978 e 30 della legge n. 730 del 1983; che nel giudizio davanti a questa Corte, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, per chiedere che questa Corte dichiari l'inammissibilità o l'infondatezza della sollevata questione; che, in via preliminare, l'Avvocatura eccepisce l'inammissibilità della questione sollevata dal giudice del lavoro di Bassano del Grappa, per inadeguatezza della motivazione e giacché quest'ultimo, contraddittoriamente, ha da un lato limitato il petitum nel giudizio principale al biennio 1997-98, dall'altro, ha impugnato una serie di disposizioni "temporalmente non pertinenti", senza fra l'altro tener conto di una serie di modifiche ed abrogazioni nel frattempo intervenute; che, nel merito, l'Avvocatura osserva che «non esiste alcun "principio fondamentale" che esoneri in toto i soggetti tenuti agli alimenti a favore di persona inabile dall'obbligo civilistico di sostenerne il relativo onere e che trasferisca in toto a carico della collettività ogni spesa per il soddisfacimento dei bisogni e la generica assistenza (diversa da quella sanitaria) dell'inabile», né sarebbe possibile rinvenire un principio fondamentale «che consenta ai familiari dell'inabile di trattenere a sé la pensione di inabilità e l'indennità di accompagnamento erogate per fronteggiare le esigenze di vita dell'inabile». Considerato che il giudice a quo dubita - in riferimento all'art. 117 della Costituzione, in relazione ai princìpi fondamentali stabiliti dagli artt. 1, 2 e 26 della legge n. 833 del 23 dicembre 1978 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) e 30 della legge 27 dicembre n. 730 del 1983 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1984) - della legittimità costituzionale dell'art. 8, commi 4, 5 e 6 della legge della Regione Veneto 27 gennaio 1993, n. 8 (Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 1993); dell'art. 27, comma 5, della legge della Regione Veneto 3 febbraio 1996, n. 5 (Piano Socio-Sanitario regionale per il triennio 1996/1998); dell'art. 40, comma 1, della legge della Regione Veneto 3 febbraio 1998, n. 3 (Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 1998); nonché dell'art. 55, comma 1, della legge della Regione Veneto 22 febbraio 1999, n. 7 (Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione - legge finanziaria 1999), nella parte in cui "prevedono un concorso dei disabili alle spese di degenza pur quando si tratti di ricovero in strutture che erogano prestazioni socio-assistenziali di rilievo sanitario"; che successivamente alla pronuncia dell'ordinanza di rimessione è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione", la quale ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che pertanto, essendo stata modificata una delle disposizioni costituzionali invocate come parametro, si impone la restituzione degli atti al giudice a quo affinché proceda ad un nuovo esame della questione, alla luce del sopravvenuto mutamento del quadro normativo. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Bassano del Grappa. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2002.

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Ord. 16 gennaio 2002, n. 14

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, secondo comma, della L.R. 26 novembre 1984, n. 59 della Regione Lombardia (Riordino dei consorzi di bonifica), promosso con ordinanza emessa il 19 ottobre 2000 dalla Corte di Cassazione nei ricorsi riuniti promossi dalla Regione Lombardia, dal Consorzio di bonifica Medio Chiese e dal Consorzio di miglioramento fondiario Roggia Desa ed altri, iscritta al n. 307 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visti gli atti di costituzione del Consorzio di miglioramento fondiario Roggia Desa, del Consorzio di bonifica Medio Chiese e della Regione Lombardia; udito nell'udienza pubblica del 18 dicembre 2001 il giudice relatore Valerio Onida; uditi gli avvocati Maria Cristina Zavatti per il Consorzio di miglioramento fondiario Roggia Desa, Giovanni Compagno per il Consorzio di bonifica Medio Chiese, Giuseppe Ferrari e Massimo Luciani per la Regione Lombardia. Ritenuto che con ordinanza emessa il 19 ottobre 2000, la Corte di Cassazione, a sezioni unite, ha sollevato, in riferimento agli artt. 18 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, secondo comma, della L.R. 26 novembre 1984, n. 59 della Regione Lombardia (Riordino dei consorzi di bonifica), là dove dispone che "i consorzi di bonifica assumono le funzioni dei consorzi di miglioramento fondiario di cui al regio decreto 13 febbraio 1933, n. 215"; che - premessa una ricostruzione della natura giuridica dei consorzi di miglioramento fondiario alla luce della configurazione quali enti associativi privati datane dal regio decreto n. 215 del 1933 sulla bonifica integrale - il remittente osserva che la norma denunciata non pone distinzioni o riserve, di modo che il subentro dei consorzi di bonifica deve essere inteso come assunzione della totalità delle suindicate funzioni, nessuna esclusa: essa ha pertanto l'effetto di determinare il completo venir meno dei compiti istituzionali dei consorzi di miglioramento fondiario, l'integrale svuotamento delle funzioni loro proprie e, conseguentemente, la loro estinzione, con portata generale; che, così interpretato, l'art. 6, secondo comma, della L.R. n. 59 del 1984 della Regione Lombardia contrasterebbe in primo luogo con l'art. 117 della Costituzione per violazione del principio fondamentale della necessaria concorrenza dell'intervento pubblico e privato in materia di bonifica, desumibile dal regio decreto n. 215 del 1933: concorrenza che non solo si manifesta, come già ritenuto dalla Corte Costituzionale con la sent. n. 326 del 1998, nella ravvisata coesistenza di tali caratteri nell'ambito dei consorzi di bonifica, ma che, ad avviso del remittente, postulerebbe anche la compresenza di enti pubblici, come i consorzi di bonifica, e di enti associativi privati, come i consorzi di miglioramento fondiario; che l'art. 117 della Costituzione sarebbe inoltre violato per il superamento del divieto, per il legislatore regionale, di intervenire sui rapporti di diritto privato, la cui disciplina deve essere uniforme su tutto il territorio nazionale, mentre, per effetto della norma impugnata, la facoltà dei privati, proprietari di fondi interessati all'esecuzione di opere di miglioramento fondiario, di associarsi in consorzio sarebbe esclusa nell'ambito della Regione Lombardia, determinando una palese difformità di regime;

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che siffatta esclusione violerebbe inoltre, ad avviso della Corte remittente, l'art. 18 della Costituzione, che garantisce il diritto dei cittadini di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini non vietati ai singoli dalla legge penale; che nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituita la Regione Lombardia, concludendo per la (manifesta) inammissibilità ovvero per la (manifesta) infondatezza della questione e prospettando inoltre in via subordinata, sia nella memoria depositata nell'imminenza della pubblica udienza che nella discussione orale, l'opportunità di una restituzione degli atti al giudice remittente a seguito dell'entrata in vigore della L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3; che si è costituito altresì il Consorzio di bonifica Medio Chiese e il Consorzio di miglioramento fondiario Roggia Desa, anch'essi ricorrenti nel giudizio a quo, il primo concludendo per l'inammissibilità o comunque per la manifesta infondatezza della questione, il secondo chiedendo la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata. Considerato che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, secondo comma, della L.R. 26 novembre 1984, n. 59, è prospettata dal giudice remittente anzitutto in relazione al denunciato superamento del limite dei principi fondamentali che emergono dalla legislazione statale nella materia della bonifica e che vincolano la potestà regionale, invocandosi come parametro l'art. 117 della Costituzione; che, successivamente all'emanazione delle ordinanze di rimessione, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che pertanto, in via del tutto preliminare, stante il mutamento della norma costituzionale invocata come parametro di giudizio, si rende necessario disporre la restituzione degli atti al giudice remittente per un nuovo esame dei termini della questione (cfr. ordinanze n. 382, n. 397 e n. 416 del 2001). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti alla Corte di Cassazione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2002.

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Ord. 16 gennaio 2002, n. 13

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4 della L.R. 23 aprile 1987, n. 16 della Regione Emilia-Romagna (Disposizioni integrative della legge regionale 2 agosto 1984, n. 42 "Nuove norme in materia di enti di bonifica - Delega di funzioni amministrative"), promossi con undici ordinanze emesse il 6 aprile 2000 dal Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, rispettivamente iscritte ai nn. 625, 626, 629, 630, 631, 639, 640, 641, 647, 648, 732 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45 e n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2000. Visti gli atti di costituzione della Società del Canale di Torrechiara e S. Michele di Tiorre ed altro, del Consorzio irriguo del Canale di Felino ed altro, della Società della Canaletta de' Rossi ed altro, della Società degli utenti delle acque del Canale Naviglio Taro, della Società del Canale Rauda, della Società del Canale Comune di Parma ed altro e della Regione Emilia-Romagna; udito nell'udienza pubblica del 18 dicembre 2001 il giudice relatore Valerio Onida; uditi gli avvocati Franco Bassi per la Società del Canale di Torrechiara e S. Michele di Tiorre ed altro, il Consorzio irriguo del Canale di Felino ed altro e la Società della Canaletta de' Rossi ed altro, Francesco Soncini per la Società degli utenti delle acque del Canale Naviglio Taro e la Società del Canale Rauda, Arrigo Allegri per la Società del Canale Comune di Parma ed altro, Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna. Ritenuto che con undici ordinanze, tutte di identico tenore, emesse il 6 aprile 2000, nel corso di altrettanti giudizi promossi per l'annullamento di delibere regionali di soppressione di consorzi di irrigazione, il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 18, 42, 43 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della L.R. 23 aprile 1987, n. 16 della Regione Emilia-Romagna (Disposizioni integrative della legge regionale 2 agosto 1984, n. 42 "Nuove norme in materia di enti di bonifica - Delega di funzioni amministrative"); che la norma denunciata - posta nel contesto di una legge che sottopone l'intero territorio regionale a regime di bonifica e che prevede l'istituzione, per ogni ambito, di un solo consorzio di bonifica destinato a succedere in tutti i diritti e gli obblighi ai preesistenti consorzi ricadenti in tutto o in parte nel comprensorio - dispone la soppressione, per farle confluire nei nuovi consorzi, di tutte le preesistenti forme di gestione, comprendendo in esse, ad avviso del remittente, anche i consorzi irrigui di natura privata riconducibili al genere delle associazioni non riconosciute; che, secondo il Tribunale amministrativo regionale, che richiama, a sostegno della censura, la sentenza di questa Corte n. 326 del 1998, la norma denunciata violerebbe, anzitutto, l'art. 117 della Costituzione, in quanto la potestà legislativa regionale nella materia della bonifica, di natura concorrente, deve essere esercitata nei limiti derivanti dai principi fondamentali della legislazione statale nella materia stessa, sicché la Regione poteva sì riorganizzare le funzioni di bonifica e, con esse, quelle dei consorzi di bonifica, ma non sopprimere ogni organismo di gestione ad essi non riconducibile ed in particolare associazioni o soggetti di carattere privato; che sarebbero violati anche gli artt. 2 e 18 della Costituzione, in quanto nella materia del diritto privato, ed in particolare in quella delle associazioni, non vi sarebbe spazio per una potestà legislativa regionale di tipo

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concorrente, tanto più che la disciplina recata dal codice civile, in particolare con riferimento alle modalità di estinzione delle associazioni, avrebbe natura di principio fondamentale; che, inoltre, viene prospettato il contrasto con gli artt. 42 e 43 della Costituzione, attesa la mancata previsione di un indennizzo a fronte della devoluzione del patrimonio degli enti da sopprimere ai consorzi di bonifica istituiti per l'ambito territoriale di riferimento; che in tutti i giudizi si è costituita la Regione Emilia-Romagna per chiedere la dichiarazione di inammissibilità o di infondatezza della questione; che si sono altresì costituiti la Società del canale di Torrechiara e S. Michele di Tiorre ed altro (nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al n. 626 del 2000 di reg. ord.), il Consorzio irriguo del canale di Felino ed altro (nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al n. 629 del 2000 di reg. ord.), la Società della Canaletta de' Rossi ed altro (nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al n. 631 del 2000 di reg. ord.), la Società degli utenti delle acque del Canale Naviglio Taro (nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al n. 640 del 2000 di reg. ord.), la Società del Canale Rauda (nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al n. 641 del 2000 di reg. ord.), la Società del Canale Comune di Parma ed altro (nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al n. 732 del 2000 di reg. ord.), tutti concludendo nel senso della illegittimità costituzionale della norma denunciata. Considerato che i giudizi, aventi il medesimo oggetto, devono essere riuniti per essere decisi con unica pronuncia; che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della L.R. 23 aprile 1987, n. 16 della Regione Emilia-Romagna, è prospettata dal giudice remittente anzitutto in relazione al superamento del limite dei principi fondamentali che emergono dalla legislazione statale nella materia della bonifica e che vincolano la potestà regionale, invocandosi come parametro l'art. 117 della Costituzione; che, successivamente all'emanazione delle ordinanze di rimessione, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), il cui art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che pertanto, in via del tutto preliminare, stante il mutamento della norma costituzionale invocata come parametro di giudizio, si rende necessario disporre la restituzione degli atti al giudice remittente per un nuovo esame dei termini della questione (cfr. ordinanze n. 382, n. 397 e n. 416 del 2001). Per questi motivi La Corte Costituzionale riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2002.

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Ord. 16 gennaio 2002, n. 9

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), promosso con ordinanza emessa il 22 febbraio 2000 dal Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna sui ricorsi riuniti proposti dal Comune di Baunei e altri contro il Ministero dell'ambiente e altri, iscritta al n. 482 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2000. Visto l'atto di costituzione del Comune di Baunei e altri nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; udito nell'udienza pubblica del 4 dicembre 2001 il giudice relatore Gustavo Zagrebelsky; uditi l'avvocato Gianluigi Falchi per il Comune di Baunei e altri e l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna ha sollevato, con ordinanza del 22 febbraio 2000, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (legge quadro sulle aree protette), in relazione agli artt. 5 e 128 della Costituzione; che la questione è sorta nel corso di un giudizio sui ricorsi - proposti dai Comuni di Baunei, Orgosolo, Arzana, Villa Grande Strisaili, Seulo e Gairo contro il Ministero dell'ambiente, la Regione Sardegna, la Provincia di Nuoro, il Comitato istituzionale di coordinamento per il Parco del golfo di Orosei e del Gennargentu e nei confronti dei comuni i cui territori sono parzialmente inclusi nella perimetrazione del Parco, del Comune di Talana e delle comunità montane del Nuorese, della Barbagia Mandrolisai, dell'Ogliastra, del Sarcidano Barbagia di Seulo - per l'annullamento del D.P.R. 30 marzo 1998 (Istituzione dell'Ente parco nazionale del golfo di Orosei e del Gennargentu), delle intese di programma tra il Ministero dell'ambiente e la Regione Sardegna stipulate il 29 dicembre 1995 e il 19 febbraio 1998 e delle determinazioni assunte dal Comitato istituzionale di coordinamento per il Parco del golfo di Orosei e del Gennargentu; che - premette il giudice a quo - il citato D.P.R. del 30 marzo 1998 ha istituito l'Ente parco nazionale del golfo di Orosei e del Gennargentu in attuazione dell'art. 34 della legge n. 394 del 1991, disponendo l'applicazione, a decorrere dal centottantesimo giorno successivo alla data di pubblicazione, di misure di salvaguardia, indicate nell'allegato A del medesimo decreto; che il rimettente, dopo aver illustrato i contenuti delle intese tra il Ministero dell'ambiente e la Regione Sardegna che, ai sensi dell'art. 34, comma 2, della legge quadro, hanno preceduto l'istituzione del Parco, espone i motivi di ricorso dei comuni, che lamentano il mancato coinvolgimento degli enti locali nel procedimento di individuazione e delimitazione del territorio del Parco stesso; che il rimettente ritiene pregiudiziale, ai fini della decisione del giudizio a quo, la soluzione della questione di legittimità costituzionale dell'art. 34 della legge n. 394 del 1991 nella parte in cui, ai fini dell'istituzione del Parco nazionale del golfo di Orosei e del Gennargentu, prevede la stipula di intese tra lo Stato e la Regione, limitando il coinvolgimento dei comuni interessati all'espressione di un parere non vincolante, relativo soltanto alle misure di salvaguardia e non anche alla delimitazione territoriale del Parco, in quanto la sfera di autonomia assegnata ai comuni dagli artt. 5 e 128 della Costituzione sarebbe - ad avviso del TAR -

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violata dalla disposizione impugnata «nella parte in cui non impone specifiche modalità procedurali di coinvolgimento degli enti locali interessati in ordine alla delimitazione del parco [...] al fine di garantirne una piena e completa audizione, finalizzata ad una espressione di adesione, durante la fase endoprocedimentale dell'istituzione del parco e prima della sua concreta individuazione»; che nel giudizio così promosso si sono costituiti i Comuni di Baunei, Orgosolo e Seulo, depositando un'ampia memoria nella quale si ripercorrono le vicende relative all'istituzione del Parco nazionale del golfo di Orosei e del Gennargentu, si rilevano le numerose divergenze tra quanto stabilito in una prima intesa del 1992 e i successivi atti del procedimento di istituzione e si propone un'accurata ricostruzione del quadro normativo e della giurisprudenza costituzionale in materia di tutela delle aree di interesse naturalistico; che, secondo la difesa di parte, nel caso di specie il meccanismo - previsto dall'art. 34 - dell'intesa Stato-Regione non rappresenterebbe una sufficiente garanzia del rispetto del principio di leale cooperazione, mentre la diretta partecipazione degli enti locali a tale procedimento sarebbe imposta, oltre che dal «"pluralismo istituzionale" riferibile all'art. 9 della Costituzione», dal «disegno delle autonomie tracciato dagli artt. 5 e 128 della Costituzione», dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e dal principio di sussidiarietà, dal quale dovrebbe ricavarsi il riconoscimento per gli enti locali di «un ruolo attivo anche in sede di delimitazione provvisoria, adozione delle misure di salvaguardia, istituzione del Parco [...], precisa configurazione dei confini, preposizione dell'autorità pubblica di gestione», salvo il potere di intervento dello Stato in caso di inerzia; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo che la questione sarebbe inammissibile sia in quanto l'ordinanza di rimessione è insufficientemente motivata riguardo alla rilevanza sia perché essa è formulata in modo indeterminato e perplesso, prospettando una pluralità di possibili decisioni di accoglimento di natura additiva; che l'interveniente - rilevando che i comuni hanno effettivamente ed a più riprese partecipato al procedimento istitutivo del Parco, esprimendo pareri sia attraverso i loro sindaci che con delibere consiliari, dando luogo ad «una lunga e defatigante serie di incontri e negoziati» nei quali avrebbero fatto valere «micro-interessi particolari» nell'intento «di trarre qualche profitto sotto forma di finanziamenti o di attuazione di opere pubbliche locali» - ritiene la questione comunque infondata perché: a) nell'ipotesi in cui l'ordinanza solleciti l'obbligo di acquisire pareri obbligatori ma non vincolanti, gli enti interessati sono stati già sentiti più volte e hanno già fatto conoscere il loro orientamento; b) qualora invece il rimettente «intenda la richiesta di parere come subalterna implorazione di un "consenso"», ciò «in pratica impedirebbe l'istituzione di ogni parco o - in alternativa - la renderebbe oltremodo costosa»; c) l'invocazione dell'art. 128 della Costituzione quale parametro di cui si assume la violazione «racchiude una palese petizione di principio», posto che tale disposizione rinvia, per la determinazione delle condizioni dell'autonomia degli enti locali, alle leggi generali della Repubblica; d) l'art. 5 della Costituzione, nel riconoscere le esigenze dell'autonomia «non impone di rendere qualsiasi entità autonoma unico arbitro di quanto può di fatto interessarla, e in sintesi depositaria di una sorta di primordiale sovranità»; che in prossimità dell'udienza l'Avvocatura dello Stato ha depositato una memoria nella quale ribadisce la posizione assunta nell'atto di intervento, affermando inoltre che l'entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), non avrebbe modificato il riparto delle competenze tra lo Stato, le regioni e gli enti locali in materia di istituzione e gestione di parchi e riserve di interesse nazionale. Considerato che l'Avvocatura generale dello Stato sostiene l'inammissibilità della questione sotto vari aspetti, in primo luogo, in particolare, perché nel prospettare le censure il rimettente non avrebbe adeguatamente

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motivato circa la rilevanza del dubbio di costituzionalità rispetto alla definizione del giudizio innanzi a esso pendente; che inoltre, ad avviso dell'Avvocatura, la questione presenterebbe un profilo di inammissibilità in quanto formulata in modo indeterminato e perplesso, perché il giudice a quo, nel richiedere a questa Corte una pronuncia additiva, ipotizzerebbe quattro possibili soluzioni, tra loro alternative; che, successivamente alla pronuncia dell'ordinanza di rimessione, è entrata in vigore la L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), che tra l'altro ha disposto, con l'art. 9, l'abrogazione dell'art. 128 della Costituzione; che, per le ragioni anzidette, il giudice rimettente ha da essere messo in condizione - previa restituzione degli atti da parte di questa Corte - di effettuare un nuovo esame, sotto ogni profilo, dei termini della questione sollevata (v. ordinanze n. 416, n. 397 e n. 382 del 2001). Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 2002.

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Ord. 19 dicembre 2001, n. 444

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della delibera del Consiglio regionale Lombardia n. VII/25 del 15 settembre 2000, recante «Proposta di indizione di referendum consultivo per il trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale, alla Regione», promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, notificato il 1° dicembre 2000, depositato in Cancelleria il 5 successivo e iscritto al n. 56 del registro conflitti 2000. Visto l'atto di costituzione della Regione Lombardia; udito nell'udienza pubblica del 20 novembre 2001 il giudice relatore Gustavo Zagrebelsky; uditi l'avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei Ministri e l'avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia. Ritenuto che con ricorso depositato il 5 dicembre 2000 il Presidente del Consiglio dei Ministri ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti della Regione Lombardia, in relazione alla deliberazione del Consiglio regionale 15 settembre 2000, n. VII/25 (pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Lombardia n. 40 del 2 ottobre 2000), recante «Proposta di indizione di referendum consultivo per il trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale, alla Regione»; che, ad avviso del ricorrente, il Consiglio regionale lombardo, senza tenere conto di quanto statuito nella sent. n. 470 del 1992 della Corte Costituzionale, ha deliberato di indire un referendum consultivo, rivolto alla popolazione iscritta nelle liste elettorali dei comuni della Regione Lombardia, per l'espressione del voto su un quesito che non concerne un provvedimento di competenza del medesimo Consiglio regionale, bensì attiene all'esercizio, da parte di quest'ultimo, della «facoltà di presentare alle Camere una proposta di legge di "revisione della Costituzione" della Repubblica»; che l'illegittimità e il carattere invasivo della delibera regionale risulterebbero ancor più chiari - prosegue il ricorrente - dopo la pronuncia n. 496 del 2000 della Corte Costituzionale, nella quale, affrontando il profilo della posizione rispettiva del popolo e della rappresentanza politico-parlamentare rispetto alle istanze di revisione costituzionale, si è formulata la conclusione nel senso della inammissibilità di una «doppia pronuncia» popolare, dapprima di una frazione territorialmente delimitata e poi dell'intero, in sede di procedimento di revisione costituzionale; che agli enunciati della citata sentenza costituzionale il Governo fa testuale richiamo, rilevando inoltre che il quesito referendario al quale verrebbe chiamata la popolazione della Regione Lombardia difetta dei requisiti della chiarezza e dell'omogeneità, perché, accanto a materie che già sono largamente devolute alle autonomie regionali, si inserisce una materia, quella della «istruzione, anche professionale», che implicherebbe necessariamente una revisione costituzionale ( l'art. 117 della Costituzione menzionando solo l'«istruzione artigiana e professionale»), con il risultato di rendere oscura, per il cittadino, la «sostanza dell'innovazione costituzionale ipotizzata e del risultato politico perseguito»; che, assumendo la gravità e l'evidenza della lesione arrecata alle attribuzioni statali (fumus boni iuris) e altresì l'esigenza di impedire pregiudizievoli conseguenze o «emulazioni» di tale iniziativa (periculum in mora), il Governo ricorrente ha formulato istanza di sospensione dell'atto in relazione al quale è insorto il conflitto;

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che si è costituita nel giudizio per conflitto così promosso la Regione Lombardia, affermando - previa ricostruzione del quadro statutario e legislativo in materia di referendum regionale e facendo riferimento alle pertinenti decisioni della Corte Costituzionale: sent. n. 256 del 1989, sent. n. 470 del 1992 e sent. n. 496 del 2000 - che il quesito referendario proposto dal Consiglio regionale lombardo non è passibile di censura, proprio alla stregua della giurisprudenza costituzionale ricordata: nella delibera, infatti, da un lato si afferma esplicitamente che le iniziative istituzionali sono da prendersi «nel quadro dell'unità nazionale», dall'altro le suddette iniziative non sono necessariamente legate alla presentazione di proposte di revisione costituzionale, giacché loro scopo è piuttosto quello della «promozione» del trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione anche professionale e polizia locale, ben potendosi trattare dunque di iniziative legislative ordinarie ovvero di iniziative in campo organizzativo e amministrativo, cosicché per quest'ultimo aspetto il conflitto promosso presenterebbe carattere «virtuale»; che, sotto altro profilo, la Regione Lombardia osserva da un lato che manca, nella delibera consiliare impugnata, il carattere della lesività, o menomazione, di una qualsiasi tra le funzioni dello Stato, ciò che sarebbe provato dalla mancanza, nell'atto di impugnazione proposto dal Governo, di un chiaro parametro costituzionale sulla cui violazione possa dirsi fondato il conflitto, dall'altro che la stessa proposizione del conflitto rivestirebbe un connotato «paradossale» perché incoerente con la riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione promossa dallo stesso Governo, in particolare con la previsione del nuovo art. 116, terzo comma, della Costituzione, che ammette che alle regioni ordinarie possano essere attribuite, secondo determinate procedure, ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia; che la Regione Lombardia ha concluso pertanto per una dichiarazione di inammissibilità o di infondatezza del ricorso, previa reiezione della richiesta sospensiva; che hanno successivamente depositato memorie sia l'Avvocatura generale dello Stato, per il ricorrente Presidente del Consiglio dei Ministri, sia la difesa della Regione Lombardia, ribadendo e ulteriormente argomentando le rispettive conclusioni; che con ordinanza n. 102 del 2001 questa Corte ha rigettato l'istanza incidentale di sospensione della delibera consiliare impugnata; che in data 6 novembre 2001 l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato atto con il quale, su conforme deliberazione del 31 ottobre 2001 del Consiglio dei Ministri, ha dichiarato di rinunciare al ricorso; che all'udienza pubblica del 20 novembre 2001 la difesa della Regione Lombardia ha formulato la propria adesione alla rinuncia, contestualmente allegando la deliberazione del 16 novembre 2001 con la quale la Giunta regionale lombarda, preso atto «dell'abbandono da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri della controversia», ha autorizzato la difesa a porre in essere i conseguenti adempimenti. Considerato che, ai sensi dell'art. 27, ultimo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte Costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita dalla relativa accettazione della controparte, produce l'effetto di estinguere il processo. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara estinto il processo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 dicembre 2001.

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Ord. 3 dicembre 2001, n. 416

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della L.R. 24 marzo 2000, n. 26, della Regione Liguria (Estinzione delle gestioni liquidatorie in campo sanitario costituite ai sensi dell'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549), promosso con ordinanza emessa il 1° febbraio 2001 dalla Corte di appello di Genova nel procedimento civile vertente tra la Regione Liguria e la E.R.O. s.n.c. ed altri, iscritta al n. 277 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2001. Udito nella Camera di Consiglio del 7 novembre 2001 il giudice relatore Piero Alberto Capotosti. Ritenuto che la Corte d'appello di Genova, Prima Sezione Civile, con ordinanza emessa il 1° febbraio 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della L.R. 24 marzo 2000, n. 26, della Regione Liguria (Estinzione delle gestioni liquidatorie in campo sanitario costituite ai sensi dell'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549), in riferimento agli artt. 3, 24 e 117 della Costituzione; che, ad avviso del giudice rimettente, la sentenza di primo grado avrebbe correttamente applicato l'art. 6, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e l'art. 2, comma 14, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, i quali, nell'ambito del riordino del Servizio sanitario nazionale disposto dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, hanno vietato alle Regioni di far gravare sulle neoistituite aziende sanitarie locali i debiti ed i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle Unità sanitarie locali, ed hanno previsto a tal fine l'istituzione di gestioni a stralcio, successivamente trasformate in gestioni liquidatorie; che, al riguardo, la Corte d'Appello richiama il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui le predette disposizioni avrebbero determinato una successione ex lege a titolo particolare delle Regioni nei rapporti di credito e di debito già facenti capo alle unità sanitarie locali; che, peraltro, nel corso del giudizio sono entrate in vigore le norme regionali impugnate, le quali hanno disposto la cessazione delle gestioni liquidatorie ed hanno previsto che i rapporti giuridici già facenti capo alle unità sanitarie locali ed agli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ancorché oggetto di giudizi in qualsiasi sede e grado, si intendono di diritto trasferiti alle aziende unità sanitarie locali ed ai predetti istituti, ai quali restano attribuite la titolarità e la legittimazione, sostanziale e processuale, attiva e passiva; che, ad avviso del giudice rimettente, detto trasferimento altererebbe l'eguaglianza delle parti «sia nella sostanza obbligatoria che nel processo», in quanto, relativamente ad un'obbligazione di diritto comune, viene sostituito d'imperio il soggetto debitore senza il consenso della parte creditrice, di fatto istituendosi «una forma di liberazione del debitore diversa dall'adempimento, non prevista dalla disciplina civilistica»; che sarebbe altresì violato il diritto alla difesa, il quale esige un'effettiva eguaglianza delle parti nel processo, in quanto, a lite iniziata, la Regione sottrae sé stessa «alla soggettività processuale (legittimazione passiva) alla quale era ed è tenuta come parte sostanziale del rapporto obbligatorio»; che infine, secondo la Corte d'appello, le norme regionali ostacolerebbero la riforma del servizio sanitario nazionale, in quanto, onerando le aziende sanitarie locali di quei debiti pregressi che il legislatore statale aveva inteso porre a carico delle regioni, contrasterebbero con il principio secondo il quale i nuovi organismi dovevano essere liberi da passività che ne potessero frenare od ostacolare l'attività.

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Considerato che la questione di legittimità costituzionale ha ad oggetto gli artt. 1 e 2 della L.R. n. 26 del 2000, della Regione Liguria, che prevedono la cessazione delle gestioni liquidatorie delle Unità sanitarie locali ed il trasferimento dei relativi rapporti giuridici alle aziende istituite a norma del decreto legislativo n. 502 del 1992; che le norme impugnate sono state censurate dalla Corte d'appello di Genova in riferimento agli artt. 3, 24 e 117 della Costituzione; che successivamente alla pronuncia dell'ordinanza di rimessione è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione», la quale all'art. 3 ha sostituito l'intero testo dell'art. 117 della Costituzione; che pertanto, essendo stata modificata una delle norme costituzionali invocate come parametro di giudizio, si impone la restituzione degli atti al giudice rimettente, affinché riesamini i termini della questione alla luce dell'intervenuto mutamento del quadro normativo. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti alla Corte d'Appello di Genova. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2001.

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Ord. 3 dicembre 2001, n. 397

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4 della L.R. 5 luglio 1994, n. 30, della Regione Lazio (Disciplina delle sanzioni amministrative di competenza regionale), promosso, con ordinanza emessa il 21 novembre 2000, dal Tribunale di Rieti, nel procedimento civile vertente tra D'Artibale Santino e il Comune di Castel di Tora, iscritta al n. 174 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visto l'atto di intervento della Regione Lazio; udito nella Camera di Consiglio del 24 ottobre 2001 il giudice relatore Massimo Vari. Ritenuto che il Tribunale di Rieti, con ordinanza del 21 novembre 2000, ha sollevato, in relazione all'art. 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della L.R. 5 luglio 1994, n. 30, della Regione Lazio (Disciplina delle sanzioni amministrative di competenza regionale), "laddove, nel caso di violazione amministrativa sanzionata nel solo massimo edittale, non consente all'interessato di accedere all'oblazione, corrispondendo anche il doppio del minimo edittale ricavato, secondo il diritto vivente, alla stregua del disposto di cui all'art. 26 c.p."; che il rimettente, nel rilevare che la disposizione denunciata "ammette la possibilità di oblare corrispondendo solo una somma pari al terzo del massimo e non anche al doppio del minimo", come previsto, invece, dall'art. 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), ritiene vulnerato l'art. 117 della Costituzione, che impone "alla legislazione regionale di attenersi ai principi dettati dalla legge statale", in quanto il predetto art. 16 della legge n. 689 del 1981 "costituisce una norma di principio inserita dalla legislazione statale nella materia della depenalizzazione"; che, ad avviso del giudice a quo, non può trovare applicazione, nel caso in esame, l'art. 52 del decreto legislativo 24 giugno 1998, n. 213 (Disposizioni per l'introduzione dell'euro nell'ordinamento nazionale, a norma dell'art. 1, comma 1, della legge 17 dicembre 1997, n. 433), che ha modificato l'art. 16, primo comma, della legge n. 689 del 1981, in quanto la fattispecie dedotta in giudizio è anteriore all'entrata in vigore della menzionata disposizione; che è intervenuta la Regione Lazio concludendo per l'inammissibilità e, comunque, per l'infondatezza della questione; che, nell'imminenza della Camera di Consiglio, la Regione intervenuta ha depositato una memoria con la quale, nel ribadire le conclusioni già formulate, osserva che la disposizione censurata non si pone, attualmente, in contrasto con l'art. 16 della legge n. 689 del 1981, come modificato dall'art. 52 del decreto legislativo n. 213 del 1998. Considerato che, successivamente all'ordinanza di rimessione, è stata promulgata ed è entrata in vigore la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione"; che, in particolare, l'art. 3 della suddetta legge costituzionale ha sostituito l'art. 117 della Costituzione, invocato come parametro nel giudizio di costituzionalità della norma denunciata;

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che, pertanto, è necessario restituire gli atti al giudice rimettente per un nuovo esame della questione. Per questi motivi La Corte Costituzionale ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Rieti. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2001.

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Ord. 22 novembre 2001, n. 382

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 33, 34, 55, comma 6, e 78 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell'organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59); degli artt. 1, 2, commi 1 e 2, 3, comma 2, 4 e 5 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143 (Conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e riorganizzazione dell'Amministrazione centrale); del decreto legislativo 27 maggio 1999, n. 165 [Soppressione dell'AIMA e istituzione dell'Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA), a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59]; del decreto legislativo 15 giugno 2000, n. 188 [Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 27 maggio 1999, n. 165, recante soppressione dell'AIMA e istituzione dell'Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA), a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59]; dell'art. 6, commi 2, 5 e 7, del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 419 (Riordinamento del sistema degli enti pubblici nazionali, a norma degli articoli 11 e 14 della legge 15 marzo 1997, n. 59); del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 449 [Riordino dell'Unione nazionale per l'incremento delle razze equine (UNIRE), a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59]; del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 454 (Riorganizzazione del settore della ricerca in agricoltura, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), e dell'art. 2 del decreto legislativo 30 aprile 1998, n. 173 (Disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione e per il rafforzamento strutturale delle imprese agricole, a norma dell'articolo 55, commi 14 e 15, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), promosso con ordinanza emessa il 7 settembre 2000 dalla Corte dei Conti, Sezione del controllo, nel procedimento di controllo preventivo di legittimità del D.P.R. 28 marzo 2000, iscritta al n. 681 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 2000. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 4 aprile 2001 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky. Ritenuto che con provvedimento del 7 settembre 2000 la Corte dei Conti, Sezione del controllo, in occasione dell'esame finalizzato alla registrazione del D.P.R. 28 marzo 2000 con il quale è stato emanato il regolamento di organizzazione del Ministero delle politiche agricole e forestali, ha sollevato, in riferimento agli artt. 70, 76, 95, 117, 118 e 119 della Costituzione, alle norme in materia di «agricoltura» contenute negli statuti delle regioni a statuto speciale e agli artt. 1, 3, 4, 8, 11 - in particolare, comma 1, lettere a) e b) -, 12 e 14 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), questioni di legittimità costituzionale: (a) degli artt. 33, 34, 55, comma 6, e 78 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell'organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59); (b) degli artt. 1, 2, commi 1 e 2, 3, comma 2, 4 e 5 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143 (Conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e riorganizzazione dell'Amministrazione centrale); c) del decreto legislativo 27 maggio 1999, n. 165 [Soppressione dell'AIMA e istituzione dell'Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA), a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59]; d) del decreto legislativo 15 giugno 2000, n. 188 [Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 27 maggio 1999, n. 165, recante soppressione dell'AIMA e istituzione dell'Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA), a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59]; e) dell'art. 6, commi 2, 5 e 7, del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 419 (Riordinamento del sistema degli enti pubblici nazionali, a norma degli articoli 11 e 14 della legge 15 marzo 1997, n. 59); f) del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 449 [Riordino dell'Unione nazionale per l'incremento delle razze equine (UNIRE), a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59]; (g) del decreto legislativo 29 ottobre

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1999, n. 454 (Riorganizzazione del settore della ricerca in agricoltura, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59); (h) dell'art. 2 del decreto legislativo 30 aprile 1998, n. 173 (Disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione e per il rafforzamento strutturale delle imprese agricole, a norma dell'articolo 55, commi 14 e 15, della legge 27 dicembre 1997, n. 449); che, riprendendo testualmente i passaggi argomentativi relativi ad altra questione precedentemente sollevata dalla stessa Sezione (in sede di controllo sul d.P.R. del 25 marzo 1999, recante il regolamento di organizzazione del Ministero per le politiche agricole adottato in applicazione del decreto legislativo n. 143 del 1997) ma non definita nel merito (ordinanza n. 265 del 2000 di questa Corte, di restituzione degli atti), la Corte dei Conti deduce numerose censure, anche in relazione di subordinazione tra loro, sulle disposizioni legislative sopra elencate, censure variamente articolate ma essenzialmente incentrate sul rilievo che la prevista disciplina organizzativa posta con il regolamento troverebbe fondamento in norme legislative le quali, nel prefigurare assetto e compiti del «nuovo» Ministero per le politiche agricole e forestali, sarebbero incostituzionali perché non autorizzate dal tenore della legge di delegazione n. 59 del 1997 e perché attributive di nuove funzioni al medesimo Ministero, in contraddizione sia con il riparto costituzionale delle competenze tra Stato e regioni nella materia dell'agricoltura sia con i limiti della funzione statale di indirizzo e coordinamento; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che, nell'atto di costituzione in giudizio, ha dedotto diversi profili di inammissibilità e comunque nel merito di infondatezza delle questioni sollevate e che, in una successiva memoria, ha richiamato la sopravvenienza normativa costituita dalla legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi), il cui art. 27, in particolare, dispone che gli atti sottoposti al controllo preventivo di legittimità divengono «in ogni caso» esecutivi trascorsi sessanta giorni dalla loro ricezione, se entro tale termine non sia intervenuta la deliberazione della Sezione del controllo e salvo che la Corte dei Conti abbia sollevato questione di costituzionalità delle norme legislative che sono il presupposto dell'atto «per violazione dell'articolo 81 della Costituzione»: una disciplina, questa (sulla cui base il D.P.R. del 28 marzo 2000 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, portando il numero 450, anche in difetto di registrazione da parte dell'organo di controllo), di carattere procedimentale e pertanto immediatamente applicabile, che - conclude l'Avvocatura dello Stato - renderebbe inammissibile la questione anche sotto il profilo del venire meno della potestà decisoria dell'organo rimettente. Considerato che, successivamente all'emanazione dell'ordinanza di rimessione, è stata promulgata ed è entrata in vigore (l'8 novembre 2001) la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), i cui artt. 3, 4 e 5, in particolare, hanno sostituito gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, invocati, tra altri, come parametri nel giudizio di costituzionalità delle disposizioni denunciate; che pertanto, in via del tutto preliminare, si rende necessario, stante il mutamento complessivo del quadro costituzionale di riferimento, disporre la restituzione degli atti alla Corte dei Conti per un nuovo esame della questione (da ultimo, ordinanze n. 203 e n. 77 del 2001). Per questi motivi La Corte Costituzionale Ordina la restituzione degli atti alla Corte dei Conti, Sezione del controllo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2001.

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Ord. 6 novembre 2001, n. 362

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8 della legge della Regione Piemonte 8 luglio 1999, n. 19 (Norme in materia di edilizia e modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 "Tutela ed uso del suolo"), promosso con ordinanza emessa il 21 dicembre 2000 dal Tribunale amministrativo regionale del Piemonte sul ricorso proposto da Trombetta Francesco ed altra contro il Comune di Domodossola, iscritta al n. 95 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 2001. Visto l'atto di intervento della Regione Piemonte; Udito nella camera di consiglio del 10 ottobre 2001 il Giudice relatore Riccardo Chieppa. Ritenuto che con ordinanza emessa il 21 dicembre 2000 il Tribunale regionale amministrativo del Piemonte, nel corso di un giudizio, in cui era stata impugnata una ordinanza del Comune di Domodossola 26 settembre 2000, n. 159, contenente ingiunzione ai ricorrenti di ripristinare l'originaria destinazione d'uso direzionale di un immobile (realizzato in base ad un piano esecutivo convenzionato) illegittimamente adibito ad uso residenziale in assenza della concessione edilizia prescritta dall'art. 8 della legge regionale Piemonte 8 luglio 1999, n. 19 (Norme in materia di edilizia e modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 "Tutela ed uso del suolo"), ha sollevato questione di legittimità costituzionale della predetta disposizione normativa; che la questione è proposta sotto il profilo della violazione dell'art. 117 Costituzione, in quanto la norma regionale imporrebbe che i cambiamenti di destinazione d'uso, ancorché eseguiti senza opere, siano subordinati al previo rilascio di un titolo concessorio, in contrasto con il principio fondamentale che sarebbe sancito dall'art. 25 della legge statale 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), "a norma del quale - scrive testualmente il giudice rimettente - la variazione della destinazione d'uso degli immobili, se eseguita senza opere edilizie, può essere soggetta, tutt'al più, a semplice autorizzazione"; che il giudice rimettente afferma che la questione sia non manifestamente infondata e rilevante, atteso che "dalla sua risoluzione dipende la legittimità o meno del provvedimento ripristinatorio impugnato nel giudizio di merito, che sarebbe precluso se l'intervento non può effettivamente ritenersi soggetto a concessione edilizia"; che nel giudizio è intervenuto il Presidente della Giunta regionale del Piemonte deducendo l'inammissibilità della questione sia per difetto di motivazione sulla rilevanza attesa la "sommarietà, incertezza e contraddittorietà sugli elementi di fatto" della motivazione stessa; sia per omessa considerazione che l'art. 25 della legge n. 47 del 1985 sarebbe stato modificato dall'art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398 (Disposizioni per l'accelerazione degli investimenti a sostegno dell'occupazione e per la semplificazione dei procedimenti in materia edilizia), convertito, con modificazioni, in legge 4 dicembre 1993, n. 493, così come, infine, sostituito dall'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica); che, sempre secondo la Regione, il "nuovo" ultimo comma dell'art. 25 attribuirebbe alle Regioni piena autonomia nell'individuazione di quali mutamenti di destinazione d'uso debbano essere subordinati a concessione e quali ad autorizzazione, siano o meno esistenti opere edilizie.

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Considerato che, a prescindere dagli eventuali effetti innovativi sulla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni ordinarie in materia urbanistica per effetto delle sopravvenute modifiche dell'art. 117 della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione"), è preliminare l'esame dell'ammissibilità della questione alla luce di una delle eccezioni proposte dalla Regione; che è pienamente fondata l'eccezione di inammissibilità sollevata sotto il profilo della omessa considerazione, da parte del giudice a quo, che l'art. 25 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 era stato oggetto di modifiche sostanziali ad opera dell'art. 4 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 398 - convertito con modifiche in legge 4 dicembre 1993, n. 493 - nel testo (comma 20) risultante dalle modifiche ulteriormente introdotte dall'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996, n. 662; che, pertanto, anteriormente alla legge regionale denunciata e alla ordinanza di rimessione, è intervenuta una modifica del testo dell'art. 25, ultimo comma, della legge 25 febbraio 1985, n. 47, il quale nella originaria formulazione affidava alla legge regionale la determinazione dei criteri e delle modalità, cui i Comuni avrebbero dovuto attenersi per l'eventuale regolamentazione delle destinazioni d'uso, nonché dei casi in cui per le variazioni delle predette sarebbe stata necessaria la preventiva autorizzazione; che, infatti, con la legge n. 662 del 1996, si è passati ad una previsione di rinvio completo alle leggi regionali, cui compete stabilire "quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti" debbano essere subordinati a concessione o ad autorizzazione; che, stante la mancanza di qualsiasi riferimento nell'ordinanza di rimessione al testo normativo vigente (sia alla data di emanazione della legge regionale denunciata, sia al momento della rimessione della questione) dell'art. 25, ultimo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, invocato come norma interposta, deve essere dichiarata la manifesta inammissibilità della questione. Visti l'art. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e l'art. 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte Costituzionale. Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, dell'art. 8 della legge della Regione Piemonte 8 luglio 1999, n. 19 (Norme in materia di edilizia e modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 "Tutela ed uso del suolo") sollevata, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Piemonte con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2001.

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