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Non furono certo i libri, in un'Italia per tre quarti analfabeta al censimento del 1861, a diffondere il mito del più popo- lare protagonista del Risorgimento, Giuseppe Garibaldi, ma semmai la sua copiosa iconografia affidata a ritratti sempre più numerosi, sin dalla sua permanenza in America Lati- na negli anni Quaranta, come quello assai noto di Gaetano Gallino del 1848, che lo presenteranno ora nelle vesti di audace condottiero in camicia rossa o poncho, ora in quelle di marinaio con lo sguardo fermo rivolto verso il mare in tempesta, ma talora anche in quelle di marito addolorato per la morte della moglie Anita nella pineta di Ravenna. Oltre ai dipinti, l'immagine di Garibaldi aveva trovato ben presto altri canali di divulgazione, se è vero che nel 1849 il giorna- le inglese "Illustrated London News" aveva inviato a Roma un proprio disegnatore per ritrarre il Generale in numerose illustrazioni che lo presentavano con tratti gradevolmente esotici, "con il basco floscio tenuto su da una parte, una lun- ga camicia con il colletto legato in vita da un cordone e una nappa, i capelli lunghi, ondulati e scarmigliati, la barba folta e fluente, gli occhi grandi, a mandorla e sensuali, l'espres- sione non troppo minacciosa, ma fiera, esotica e non del tut- to piacevole allo stesso tempo". 1 Ma saranno poi soprattutto le centinaia di statue che nelle piazze e nei giardini, a caval- 1 Lucy Rial, Eroi maschili, virilità e forme della guerra, in Storia d'Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Torino, Einaudi, 2007, p. 271.

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Non furono certo i libri, in un'Italia per tre quarti analfabeta al censimento del 1861, a diffondere il mito del più popo-lare protagonista del Risorgimento, Giuseppe Garibaldi, ma semmai la sua copiosa iconografia affidata a ritratti sempre più numerosi, sin dalla sua permanenza in America Lati-na negli anni Quaranta, come quello assai noto di Gaetano Gallino del 1848, che lo presenteranno ora nelle vesti di audace condottiero in camicia rossa o poncho, ora in quelle di marinaio con lo sguardo fermo rivolto verso il mare in tempesta, ma talora anche in quelle di marito addolorato per la morte della moglie Anita nella pineta di Ravenna. Oltre ai dipinti, l'immagine di Garibaldi aveva trovato ben presto altri canali di divulgazione, se è vero che nel 1849 il giorna-le inglese "Illustrated London News" aveva inviato a Roma un proprio disegnatore per ritrarre il Generale in numerose illustrazioni che lo presentavano con tratti gradevolmente esotici, "con il basco floscio tenuto su da una parte, una lun-ga camicia con il colletto legato in vita da un cordone e una nappa, i capelli lunghi, ondulati e scarmigliati, la barba folta e fluente, gli occhi grandi, a mandorla e sensuali, l'espres-sione non troppo minacciosa, ma fiera, esotica e non del tut-to piacevole allo stesso tempo".1 Ma saranno poi soprattutto le centinaia di statue che nelle piazze e nei giardini, a caval-

1 Lucy Rial, Eroi maschili, virilità e forme della guerra, in Storia d'Italia. Annali 22. Il Risorgimento, Torino, Einaudi, 2007, p. 271.

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lo o a mezzo busto, ritraggono Garibaldi2 a farne crescere il mito e a rendere popolare e amato questo personaggio che assommava in sé molte delle qualità che possono decreta-re la fortuna di un uomo: dal coraggio alla modestia, dalla bellezza alla fermezza nelle sue idee, dall'onestà al rifiuto di ogni opportunismo, dalla spericolatezza alla passionalità tuttavia dominata davanti agli interessi superiori, come di-mostra il celebre "Obbedisco" col quale nel 1866 pose ter-mine contro la sua volontà alla sua vittoriosa campagna in Trentino contro gli austriaci.

Chiarito dunque il ruolo primario rivestito dalle arti fi-gurative per la creazione e conservazione del mito di Ga-ribaldi, si dovrà però ammettere che anche quanto è stato scritto in vario modo su di lui ha avuto una grande, e forse anche più durevole, importanza. Egli stesso del resto era ben consapevole che, pur non essendo troppo numerosi i lettori nell'Italia in costruzione a partire dal 1848 (quan-do era tornato dall'America del Sud per combattere nella I guerra d'Indipendenza), era tuttavia necessario contare anche sulla parola scritta, a cominciare da quella effimera affidata alle pagine dei quotidiani. Nel 1860 quello che era il giornale della società letterario-scientifica dell'Areopago di Genova, "Il Movimento",3 divenne l'organo ufficiale dei garibaldini, affidato alla direzione di uno di loro di provata fede come Anton Giulio Barrili, dal quale il Generale dif-fondeva i suoi proclami e sulle cui pagine teneva contatti

2 Un'efficace sintesi dell'iconografia garibaldina si legge in Franco Ragazzi, Ga-ribaldi nelle arti figurative, in Sanremo per Garibaldi nel bicentenario della nascita, a cura di Davide Finco e Clara Noli, Genova, De Ferrari, 2007, pp. 9-24.

3 Roberto Beccaria, I periodici genovesi dal 1473 al 1899, Genova, Coop. Gra-fica Genovese, 1994, pp. 396-8.

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diretti con i suoi fedeli che gli scrivevano lettere di devo-zione alle quali personalmente rispondeva; in sostanza "Il Movimento" rappresentava e teneva desto il vasto movi-mento garibaldino nelle sue molteplici sfaccettature, com-presa quella commerciale, poiché sulle sue pagine anche si pubblicizzava l'unguento Garibaldi che aveva guarito l'eroe dopo la ferita sull'Aspromonte e si vantavano le meraviglie dello stabilimento balneare Garibaldi che sorgeva nelle vi-cinanze dello scoglio di Quarto. Ma anche la stampa estera si occupava con assiduità di Garibaldi e così, all'indoma-ni dello sbarco a Marsala (27 maggio 1860), sull'inglese "Reynold's Newspaper" egli venne definito "l'emancipato-re degli uomini d'Europa dalla tirannide e dalla routine che distrugge gli animi".4

Ma al di là delle peraltro utilissime pagine dei giorna-li, erano certo quelle più durature dei libri che potevano in modo più approfondito far conoscere il personaggio il quale, proprio per questo, non esitò a cimentarsi in pri-ma persona nel lavoro letterario pubblicando nel 1870 i romanzi storici Clelia ovvero il governo del monaco e Cantoni il volontario, poi le sue Memorie (1872) e quindi nel 1874 il terzo romanzo I Mille, lasciandone incompiuto un altro intitolato Manlio, tutte pagine di taglio popolare, cariche di passione patriottica e di accentuato anticlerica-lismo, ma letterariamente piuttosto sbrigative e inevita-bilmente dominate dall'ideologia rivoluzionaria.5 Saran-no altri allora gli scrittori capaci di raccontare Garibaldi e, anche a questo proposito, gli stranieri precedettero gli

4 Ripreso da Paul Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento: l'io, l'amore e la nazione, in Storia d'Italia. Annali 22 cit., p. 45.

5 Su Garibaldi scrittore cfr. Marziano Guglielminetti, Giuseppe Garibaldi, in La letteratura ligure. L'Ottocento, Genova, Costa & Nolan, 1990, pp. 215-231.

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italiani se è vero che già nel 1854 l'inglese Henry Char-les Banister scrisse Angelo. A romance of modern Rome nel quale appariva il famigerato "Gariboni" rappresentato come un crudele capobanda "che sa infiammare ed eccita-re oltre ogni limite l'entusiasmo dei suoi uomini e di tale perverso fascino che, ad esempio, si trova a impadronirsi di un monastero femminile per impiantarvi il suo quartier generale".6

Con il moltiplicarsi delle imprese di Garibaldi, comin-ceranno a diffondersi libri che intendevano dare testimo-nianza di quanto gli stessi autori suoi seguaci avevano fatto e visto; e in questo ricco panorama troviamo nomi di prima grandezza come Alexandre Dumas padre, che seguì la spe-dizione dei Mille per raccontarla poi in Les garibaldiens; come Ippolito Nievo che fu tra i pochi a scrivere su Garibal-di un'ampia opera in versi, Gli amori garibaldini, cui aveva affidato le sue delusioni a seguito della pace di Villafranca del 1859.7 Ma soprattutto il racconto delle imprese del Ge-nerale venne scritto da ex volontari che divennero di fatto gli unici possibili testimoni e interpreti. E così, scorrendo rapidamente un elenco piuttosto lungo troviamo dapprima un anonimo – ma in realtà si trattava del patriota toscano Eugenio Checchi – autore delle Memorie alla casalinga di un garibaldino (1866) che già dal titolo lasciava intendere la volontà di rivolgersi a un pubblico popolare e di non voler rivestire i panni ufficiali dello storico; seguirono nel 1874 le Impressioni d'un volontario all'esercito dei Vosgi di Achille Bizzoni (peraltro già autore nel 1872 del romanzo Autopsia

6 Ermanno Paccagnini, La figura e il mito di Garibaldi in letteratura, in Sanremo per Garibaldi cit., p. 38.

7 La più recente e più corretta edizione di quest'opera è uscita, a cura di E. Pacca-gnini, per le edizioni genovesi De Ferrari nel 2008.

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di un amore), nel 1875 La camicia rossa di Alberto Mario e nel 1880 la prima edizione delle memorie di Giuseppe Ce-sare Abba che giungeranno nel 1891 alla terza e definitiva edizione col titolo Da Quarto al Volturno. Noterelle d'uno dei Mille. La morte di Garibaldi nel 1882 coincise con la prima monografia a lui dedicata, scritta dal suo volontario Giuseppe Guerzoni, mentre nel 1887 apparve I Mille: da Genova a Capua di Giuseppe Bandi, nel 1890 Con Gari-baldi alle porte di Roma di Anton Giulio Barrili e nel 1932 Mentana. Ricordi di un volontario di Augusto Mombello.

Se questi volumi di memorialistica certo contribuirono a favorire una maggiore conoscenza di Garibaldi, non mi-nore risonanza ebbero le pagine a lui dedicate all'interno di libri di grande circolazione come, ad esempio, quelle inte-se a commemorare la scomparsa dell'eroe, definito "quel-lo che affrancò dieci milioni d'Italiani dalla tirannide dei Borboni", che si leggono, sotto la data del 3 giugno 1882 nel popolarissimo Cuore (1886) di De Amicis; né meno importanti per diffonderne il mito furono le diverse poesie che a lui dedicò Giosue Carducci a più riprese: dal sonetto A Giuseppe Garibaldi scritto nel 1859 e incluso in Juveni-lia, al frammento Roma o morte del 1862 e all'ode Dopo Aspromonte composta nel 1864 e inclusi nei Levia gravia, fino alla nuova ode A Giuseppe Garibaldi del 1880 e a Sco-glio di Quarto del 1889, incluse nelle Odi barbare, per non parlare dei suoi numerosi scritti in prosa, tra i quali alme-no si potrà ricordare il discorso per la morte di Garibaldi tenuto al teatro Brunetti di Bologna il 4 giugno 1882.8 Né meno significativi saranno i versi dedicati a Garibaldi da

8 Si legge in Giosuè Carducci, Discorsi letterari e storici, Bologna, Zanichelli, 1949, pp. 441-58.

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Gabriele D'Annunzio in La notte di Caprera composti tra il 1900 e il 1901 e quelli di Giovanni Pascoli di Garibaldi vecchio a Caprera inclusi nei postumi (1913) Poemi del Ri-sorgimento. E ancora all'inizio del Novecento (1905) Cec-cardo Roccatagliata Ceccardi aveva scritto i versi delusi e preoccupati dell'ode Quando tornerà Garibaldi?, domanda alla quale verso la fine del secolo (1993) daranno una qua-si certamente inconsapevole risposta i musicisti del gruppo rock torinese Gli statuto con il brano È tornato Garibaldi, peraltro non unica canzone dedicata in quel tempo al no-stro personaggio se ricordiamo il Garibaldi blues di Bruno Lauzi e il Garibaldi innamorato di Sergio Caputo, mentre addirittura un'opera lirica, Garibaldi en Sicile, è stata com-posta da Marcello Panni e rappresentata al teatro San Carlo di Napoli nel 2005.

Ma tornando all'ambito letterario, dopo aver accenna-to a un libro per le scuole intitolato Garibaldi ricordato ai ragazzi (1910) scritto da Angiolo Silvio Novaro, uno dei più antologizzati e quindi noti scrittori italiani della prima metà del Novecento, si dovranno poi almeno ricordare i più recenti romanzi di Isabella Bossi Fedrigotti Amore mio uccidi Garibaldi (1980) e di Mino Milani Sognando Gari-baldi (2005, preceduti dalle avvincenti pagine di Luciano Bianciardi dei volumi Garibaldi (1972) e Da Quarto a To-rino: breve storia della spedizione dei Mille. Quanto alle arti figurative, per concludere il panorama della persistenza del mito garibaldino, tralasciando i numerosi monumenti, val la pena di ricordare il pannello in ceramica Imbarco dei Mille a Quarto realizzato dai futuristi Tullio d'Albissola e Romeo Bevilacqua nel 1941 per la stazione ferroviaria di Quarto dei Mille e la grande tela Battaglia al ponte dell'Am-miraglio dipinta all'inizio degli anni Cinquanta da Renato Guttuso, mentre numerosi artisti della pop art, tra i quali il genovese Aurelio Caminati e il milanese Gian Giacomo

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Spadai, nel 1975 hanno dedicato il loro lavoro a cicli su temi garibaldini.

2. Giuseppe Cesare Abba

In un paese dell'Appennino ligure alle spalle di Savo-na, Cairo Montenotte, era nato nel 18389 Giuseppe Cesare Abba, che dal 1849 al 1854 (quando risultò il migliore alun-no del suo corso) nella vicina Carcare frequentò con profitto il ginnasio presso il collegio degli Scolopi, l'ordine religioso che al culto della classicità (gli alunni di ciascuna classe erano suddivisi in romani e cartaginesi, assumevano i nomi di personaggi dei due schieramenti e in aula si esprimeva-no rigorosamente in latino) abbinava quello della libertà, guardando quindi con favore alla causa risorgimentale, tan-to che non saranno pochi i futuri patrioti già allievi degli Scolopi, da Goffredo Mameli ad Anton Giulio Barrili. Qui Abba ebbe tra i suoi insegnanti padre Atanasio Canata10 – poeta e autore di lavori teatrali e del quale si sostiene abbia collaborato con Mameli per la stesura di Fratelli d'Italia – , che ebbe un ruolo decisivo nel suscitare in lui i primi sen-timenti patriottici, facendogli leggere e amare tra gli altri il Foscolo e il Guerrazzi e piangendo nel dare ai suoi alunni nel 1849 la notizia della sconfitta di Novara. A sedici anni Abba lasciò il collegio degli Scolopi e si trasferì a Genova per frequentare l'Accademia di Belle Arti, dalla quale uscì dopo cinque anni, nel 1859, per dare il suo contributo alla

9 Per le notizie biografiche cfr. Gaetano Mariani, Giuseppe Cesare Abba, in Let-teratura italiana. I minori, Milano, Marzorati, 1962, pp. 2875-80.

10 Bernardo Ratti, Canata Atanasio, in Dizionario biografico dei Liguri dalle origini al 1990, II, Genova, Consulta Ligure, 1994, pp. 461-2.

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causa patriottica arruolandosi nell'esercito sabaudo tra i Ca-valleggeri di Aosta; ma mentre si combatteva la seconda guerra d'Indipendenza, il suo reggimento rimaneva inattivo con sua grande delusione, tanto che nell'ottobre di quello stesso anno egli si congedò senza però che si fosse spento il suo ardore patriottico. Infatti pochi mesi più tardi – all'ini-zio di maggio del 1860 – da Parma, dove si era provvisoria-mente stabilito, andò a Quarto per arruolarsi come soldato semplice della sesta compagnia comandata da Giacinto Ca-rini tra i garibaldini in partenza per la Sicilia: qui combatté a Calatafimi e a Palermo e poi partecipò con Garibaldi alla battaglia del Volturno conquistando i gradi di sottotenente.

Questa esperienza militare, vissuta da giovanissimo (non aveva ancora compiuto ventidue anni e del resto giovanis-simi erano per la maggior parte i volontari, tanto che più d'uno per partire dovette convincere i genitori, mentre Abba li avvisò solo quando era ormai imbarcato), rimarrà fonda-mentale per l'intera sua vita e su di essa in più occasioni e in più forme tornerà a scrivere dopo aver già steso a matita, proprio nei giorni dei primi combattimenti (dal 5 al 26 mag-gio), un taccuino di appunti.11 Intanto, tornato per un breve periodo a Cairo, dove la sua militanza tra le camicie rosse fu oggetto di non poche critiche, nel 1862 assunse il comando di un battaglione della Guardia Nazionale che operava tra l'Umbria e le Marche e quindi nel 1864 si trasferì a Pisa per frequentare l'ambiente universitario (trascorreva ogni gior-no molte ore in biblioteca) e patriottico, che aveva nel caffè dell'Ussaro il suo punto d'incontro, dove familiarizzò con artisti e scrittori tra i quali Mario Pratesi, del quale divenne

11 G.C. Abba, Maggio 1860. Pagine di un "Taccuino" inedito, a cura di Gino Bandini, Milano, Mondadori, 1933.

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amico e che, avendo letto i rapidi appunti del suo diario, lo sollecitò spesso a tornare in forma più distesa sulle sue memorie garibaldine. Abba compose così dapprima il canto In morte di Francesco Nullo (1863), in memoria del com-pagno garibaldino caduto combattendo in Polonia in quello stesso anno, e quindi il poemetto in cinque canti Arrigo. Da Quarto al Volturno (1866) – subito recensito dall'amico Pra-tesi – con un ricco corredo di note storiche (una quindicina di pagine) riferite agli eventi di tutto il maggio e occasio-nalmente di luglio, ottobre e del 5 novembre 1860, note che l'autore definì "tratte testualmente da un Diario, che quando fu scritto non era di certo destinato alla luce, in nessuna parte", diario mai rinvenuto e che probabilmente costituiva una prima rielaborazione degli appunti del taccuino. L'Ar-rigo, – il cui protagonista è, come l'autore, un volontario garibaldino – fu stampato a spese degli amici "quasi a ma-lincuore e prima di partire per la guerra del '66 […] soltanto perché rimanesse qualcosa di me se fossi morto nella vicina guerra". In quello stesso anno infatti Abba tornò a indossare la camicia rossa, combattendo valorosamente con Garibaldi a Bezzecca (esperienza che gli ispirerà l'ode omonima com-posta nel 1896 in occasione della ricorrenza del trentesimo anniversario) e quindi tornò al suo paese, dove rimase fino al 1880 (in realtà nel 1867 si era proposto di raggiungere Garibaldi a Mentana, ma aveva indugiato troppo e quando a fine ottobre si era finalmente deciso ormai quell'infausta vicenda militare stava per concludersi), partecipando con passione alla vita politica locale, prima come consigliere comunale e poi per nove anni come sindaco, eletto per due legislature, incontrando il favore della popolazione per l'im-pegno profuso nel promuovere l'istruzione e l'igiene, tanto che in due occasioni (nel 1872 e nel 1876) fu candidato, però senza successo, al Parlamento. E nella quiete del suo paese tornò a scrivere, cimentandosi per la prima volta sia in una tragedia intitolata Spartaco, sia in un romanzo sto-

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rico, genere allora assai fortunato sia per il modello dei Promessi sposi, sia per altri romanzi collocati nella storia medievale o rinascimentale per trovarvi, come nella Batta-glia di Benevento (1827) o nell'Assedio di Firenze (1836) di Francesco Domenico Guerrazzi o in Ettore Fieramosca (1833) di Massimo D'Azeglio o in Marco Visconti (1834) di Tomaso Grossi, le premesse per gli ideali risorgimentali e per l'aspirazione all'unità nazionale. Il romanzo storico di Abba prendeva spunto dalle vicende accadute a fine Sette-cento nelle sue terre e dalla prima vittoria dei repubblicani francesi a Montenotte e a Dego nelle Langhe e s'intitolava Le rive della Bormida nel 1794, pubblicato dapprima in ap-pendice alla "Gazzetta di Milano" nel febbraio 1871 – con una presentazione che ne sottolineava la "fantasia moderata da un gusto finissimo e quel delicato movimento d'affetti e quella sobria eleganza che troppo ancora si lasciano deside-rare nei lavori della nostra giovane letteratura"12 – e quindi in volume nel 1875, ottenendo tra gli altri un apprezzamen-to del Settembrini. Ma prima di questo tuffo nella storia del proprio territorio, Abba aveva pensato di scrivere un roman-zo a lui ben più vicino nei tempi e nei temi, come si deduce da un passo di una sua lettera all'amico Pratesi del 23 aprile 1870: "Vorrei scrivere un romanzo nel quale innesterei, per così dire, il mio diario. L'ho bello e ideato.[…] Ma mi man-ca la voglia e perdo la lena",13 e tuttavia a questo progetto egli continuò a lungo a pensare, anche ipotizzando che do-

12 La nota introduttiva è riportata in Ermanno Paccagnini, Gazzetta di Milano, in Giuseppe Farinelli (a cura di), La pubblicistica nel periodo della scapigliatura, Milano, IPL, 1984, p. 458.

13 Gino Bandini, Come nacquero le "Noterelle" dell'Abba, in G.C. Abba, Maggio 1860, p. 74.

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vesse essere Pisa a metà degli anni Sessanta lo sfondo per la sua narrazione.

La vita nel suo paese, complice un lungo periodo di sco-raggiamento e di apatia, aveva finito per far perdere ad Abba i contatti con l'ambiente culturale più vivace che aveva fre-quentato negli anni pisani e tuttavia il Pratesi non cessò di stimolarlo, come quando il 20 maggio 1874 gli scrisse in tono risoluto: "Orsù, sbuca dal guscio, non delle tue paure, ma della tua eccessiva modestia" Nel 1877 il Carducci ave-va progettato di scrivere una biografia di Garibaldi e, per procurarsi documentazioni e testimonianze, incaricò l'ami-co letterato Francesco Sclavo, ex ufficiale garibaldino co-nosciuto da Abba il I ottobre presso Napoli e pressoché suo compaesano essendo nato a Lesegno, a pochi chilometri da Cairo – , di chiedere ad Abba i suoi appunti stesi nel mag-gio del 1860. Era stato lo stesso Sclavo a far avere al Car-ducci nel 1871 i versi scritti da Abba per Francesco Nullo e il poemetto Arrigo che avevano molto favorevolmente impressionato il Carducci, che così ne scrisse allo Sclavo: "Nella canzone ci sono molte bellissime stanze, sebbene è un po' ineguale e a me pare troppo lunga. Sul poema avrei da scriverle di molto […] e il più per dirle che mi piace assai e perché mi piace".14 A seguito della sollecitazione ricevuta da Sclavo, il 3 maggio 1877 Abba mandò dunque al Carducci alcune sue pagine garibaldine "cavate dalle sue memorie" e scritte "raffazzonando gli appunti presi gior-no per giorno in Sicilia", aggiungendo con la sua consueta modestia: "Se vi pare di poter cavare da esse qualche linea scrivetemi e io ve ne manderò delle altre, lieto di aver ser-bato memoria delle piccole cose che vidi fare dal Grande

14 Giosue Carducci, Lettere, VII, Bologna, Zanichelli, 1941, p. 306.

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Uomo", con ciò lasciando capire che, oltre agli appunti del diario e alle note dell'Arrigo, egli disponeva di un copioso serbatoio di memorie garibaldine ancora inutilizzate. Pochi giorni dopo (l'8 maggio) Carducci gli rispose esprimendo-gli vivo apprezzamento:

"Vi ringrazio dei ricordi che mi mandate. Mi sono pre-ziosissimi; sono quali appunto io li desideravo; è la gran-dezza colta al vero sul luogo, con una fedeltà e un rispetto che si fa scrupolo di aggiungere frasi. Sono proprio quello che ci voleva per me. Ve ne ringrazio: vi prego d'altri: li riferirò a lettera, o quasi, col vostro nome".15

Questo incoraggiamento proveniente da un uomo di tan-to prestigio, unitamente alle reiterate esortazioni del Pratesi – che non mancava di esortare Abba a lasciare il suo borgo e a trasferirsi a Firenze o a Roma – , diede verosimilmente ad Abba quella spinta che finora gli era mancata per dare una veste più ampia e meno strettamente documentaria ai suoi ricordi garibaldini che continuava a definire "diario"; e dopo averne mandate nella prima metà del 1879 alcune pagine in lettura proprio al Pratesi ricevendone elogi incondizionati, accelerò la stesura dell'opera che cominciò ad assumere una discreta mole, tanto che l'originale destinazione alle pagi-ne di una rivista (che poteva essere la prestigiosa "Nuova antologia" che però avrebbe pagato poco l'autore) apparve ormai inadatta. Sarà ancora lo Sclavo a farsi mediatore col Carducci, al quale, su incarico di Abba, consegnò alcune pagine del suo nuovo testo garibaldino all'inizio del 1880 con l'obiettivo di favorirne la pubblicazione presso Zani-chelli e anche questa volta il giudizio del poeta fu del tutto favorevole come si legge nella sua lettera del 5 aprile 1880:

15 Giosue Carducci, Lettere, XI, Bologna, Zanichelli, 1947, p. 87.

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"Ho letto quasi tutte fra su 'l manoscritto e su le stampe le Note che mi paiono bellissime per l'impronta della veri-tà freschissima che serbano nell'espressione. Del contenu-to non dico, che è il meraviglioso storico. Del pensiero di intitolare quelle Memorie a me vi ringrazio e me ne tengo onorato".16

Zanichelli, probabilmente sollecitato dal Carducci, de-cise di pubblicare il libro di Abba in una prima edizione di 500 esemplari, dandone 50 all'autore come compenso, e all'inizio di giugno del 1880 il volume uscì, dopo tante titubanze, col titolo Noterelle d'uno dei Mille che richiama-va, come atto di omaggio e gratitudine per l'unico amico che aveva continuato a incoraggiarlo e a credere in lui, le Noterelle veneziane del Pratesi. Il libro raccontava gli epi-sodi accaduti tra il 3 maggio e il 21 giugno 1860; due anni più tardi apparve, ancora presso lo Zanichelli, la seconda edizione ampliata, questa volta con il titolo Da Quarto al Faro. Noterelle d'uno dei Mille edite dopo vent'anni, che nel tempo si estendeva sino al 20 agosto e infine nel 1891 uscì l'edizione definitiva che si concludeva il 9 novembre e aveva il titolo Da Quarto al Volturno. Noterelle d'uno dei Mille: Abba aveva così ripreso, come titolo, quello che era stato il sottotitolo del suo primo libro – quella volta in versi – dedicato all'impresa dei Mille, il poemetto Arrigo.

Ancora allo Sclavo Carducci aveva scritto il 23 novem-bre 1873 a proposito di Abba: "Vedere animi e ingegni tali accontentarsi del santo oblio e dell'inerzia come di rifugio, mentre tutti i mediocri e gli inetti e i vigliacchi si arrabat-tano gridando: "Noi abbiamo fatto, noi facciamo, noi fare-mo l'Italia", è cosa che fa venire i brividi sull'infamia della

16 Giosue Carducci, Lettere XII, Bologna, Zanichelli, 1949.

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generazione che ora predomina";17 e così, nutrendo grande stima per Abba, il poeta toscano in più occasioni sollecitò il ministro della pubblica istruzione, prima Francesco De San-ctis e poi Guido Baccelli, a nominarlo professore di Italiano nelle scuole secondarie e ciò avvenne finalmente nel set-tembre del 1881, quando fu assegnato al liceo "Evangelista Torricelli" di Faenza; qui la moglie Rosa, che aveva sposata nel 1871, morì ancora giovane lasciando il marito con quat-tro figli ancora in verde età da allevare. Dalla Romagna nel 1884 fu trasferito a Brescia per insegnare Italiano presso l'Istituto Tecnico "Niccolò Tartaglia", del quale poi divenne preside; e nella città lombarda morì improvvisamente nel 1910, poco dopo essere stato nominato Senatore dal Re per i suoi meriti politici. Egli infatti negli ultimi trent'anni della sua vita si era adoperato generosamente per far conoscere le imprese e i personaggi del Risorgimento non solo nelle ce-rimonie alle quali era invitato come oratore ufficiale – come per l'inaugurazione a Brescia del monumento equestre a Garibaldi di Eugenio Maccagnani avvenuta l'8 settembre 1889 o per la celebrazione del centenario della nascita del Generale, tenutasi in Campidoglio il 4 luglio 1907 alla pre-senza del Re – , ma anche con numerose opere scritte in particolare per il popolo e, tenuto conto del suo impegno scolastico, per i più giovani, come l'antologia Uomini e sol-dati. Letture per l'esercito e per il popolo (1890) e Storia dei Mille narrata ai giovinetti (1904). Quanto più tempo però era trascorso dalle imprese garibaldine, tanto più era aumentato in Abba il risentimento per la progressiva indif-ferenza delle autorità nei confronti di quanti al seguito del Generale avevano combattuto e si erano sacrificati e questi

17 Giosue Carducci, Lettere, VIII, Bologna, Zanichelli, 1942, p. 351.

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spunti polemici18 saranno accentuati nei suoi ultimi scritti: da Vita di Nino Bixio (1905) a Cose garibaldine (1907) alle postume Pagine di storia (1912-13).

3. Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille

Nel taccuino scritto dal volontario garibaldino Abba nel maggio del 1860 i fatti sono riportati schematicamente e senza cura stilistica, come in un promemoria redatto a uso personale, "una successione di rapide note slegate che fer-mano in una frase sintetica e, spesso, quasi convulsa, una visione del momento e il balenare di un sentimento o di una riflessione".19 Nel futuro Da Quarto al Volturno invece gli stessi episodi lì appuntati saranno ampliati e resi assai più articolati, passando quasi sempre dalla natura documentaria a quella narrativa e talora persino drammatizzata col ricorso a parti dialogate – i dialoghi saranno una componente assai rilevante del libro, utilizzato per dar risalto al pensiero e al carattere dei diversi personaggi – come ben risulta, ad esempio, da un minino accenno che si legge negli appunti del 5 maggio: "In alto mare un caduto è salvato dai nostri il giorno 6",20 che in volume acquisirà questo più largo e diverso respiro:

"Che? Un uomo in mare? Fu un quarto d'ora d'angoscia. "Indietro alla macchina!" urlava il capitano e il legno si fermò sbuffando. Ma l'uomo caduto in mare era già lontano; appa-riva, spariva e lottava. Fu presto calata una lancia: lo spin-

18 Edoardo Villa, Giuseppe Cesare Abba, in La letteratura ligure. L'Ottocento cit., p. 311.

19 Gino Bandini, Come nacquero cit., p. 66.20 G.C. Abba, Maggio 1860 cit., p. 19.

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gemmo cogli occhi, coi gesti, coll'anima tutti. Il caduto fu raggiunto, agguantato, salvato. Dicono che sia un genovese".

La riscrittura delle Noterelle tendeva dunque ad aggiun-gere pathos e ad arricchire gli avvenimenti di particolari che ovviamente non possiamo sapere quanto siano reali o quan-to inventati e tuttavia questo minimo esempio già indica un diverso modus scribendi di Abba. In realtà già negli appunti non mancano alcune osservazioni sul paesaggio e sui luo-ghi, ma sono rapide ed essenziali come, ad esempio, sotto la data 13 maggio quando Abba annota: "Si leva il campo e si marcia su Saleme, paese grandissimo fabbricato strana-mente sul pendio d'un'alta collina".21 In che cosa consista la stranezza urbanistica del paese sarà precisato nelle Note-relle, dove la località sarà correttamente nominata Salemi e descritta con ricchezza di osservazioni:

"Ho fatto un giro per la città. L'hanno piantata quassù che una casa si regge sull'altra, e tutte paiono incamminate per discendere giù da oggi a domani. Avessero pur voglia di sbarcare i Saraceni, Salemi era al sicuro! Vasta, popolosa, sudicia, le sue vie somigliano a colatoi. Si pena a tenersi ritti; si cerca un'osteria e si trova una tana. […] Gli abitanti, non scortesi, sembrano impacciati se facciamo loro qualche domanda. Non sanno nulla, si stringono nelle spalle, o ri-spondono a cenni, a smorfie, chi capisce è bravo".

Un altro degli elementi di più accentuata differenza tra gli appunti e il libro è dato dalla maggior presenza qui di richiami letterari ed eruditi, che indussero Benedetto Croce a osservare che se Abba "non si mette mai in vista tra i com-

21 Ibidem, p. 24.

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battenti, e ci lascia ignorare affatto quel ch'egli personal-mente fece, si mette di continuo in vista nel suo libro come letterato";22 è vero però che questa tendenza già appariva talora anche negli appunti, dove ad esempio il comandante del forte di Telamone "bello e caratteristico per grande allura e spalline. Pareva Cirio [probabilmente Ciro] o il Marechal Suchet"23 – ma nel libro questo richiamo cadrà e si leggerà solo che egli "era mezzo sepolto sotto due spalline enormi", mentre nelle note all'Arrigo, a ribadire la loro natura di primo rifacimento del Diario, si aveva: "appena discernibile sotto l'immane cappello ed agli enormi spallini"24 – o dove la notte di guardia del 12 maggio gli sollecita la citazione di tre versi che non sarà ripresa nel libro.25 Nel volume invece le citazio-ni abbonderanno, contribuendo in misura notevole a segnare un distacco non solo formale tra le due redazioni: e infatti vi troveremo un richiamo ai personaggi dell'Eneide Eurialo e Niso come paragone con gli amici garibaldini Missori e Nullo, mentre un altro volontario vi sarà definito "tipo di pu-ritano dei tempi di Cromwell" e la divisa di Nino Bixio para-gonata a quella del condottiero Giovanni dalle Bande Nere; non mancheranno le citazioni dantesche ("Era già l'ora che volge il disio", Purgatorio, VIII, I e "In co' del ponte presso a Benevento", Purgatorio, III, 128) e il paragone tra Pier

22 Benedetto Croce, Letteratura garibaldina in Letteratura della Nuova Italia, 6, Bari, Laterza, 1974, p. 14.

23 G. C. Abba, Maggio 1860, pp. 19-20.24 Ibidem, p. 45.25 "Ridon le stelle, il mar cheto sul lido / Si frange – Io veglio, intorno non s'a-

scolta / Il latrato dei cani, e il breve grido di qualche scolta"; il successivo accenno ai "guerrieri crociati della Gerusalemme" rinvia al poema Tasso, dove è frequente lo stilema "il mar si frange" (ad esempio, 4, 75 e 14, 32), ma si trova anche nelle sue Rime (1168, 1), mentre "mar cheto si muove" si legge nel Furioso (9, 8).

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delle Vigne e il giovane siciliano filogaribaldino, e futuro primo ministro del Regno, Francesco Crispi, come neppure mancherà un richiamo ai Promessi sposi, né, trovandosi ad Alcamo, al poeta delle origini Ciullo d'Alcamo, un richiamo alla recente (1855) opera di Verdi I vespri siciliani ispirata all'insurrezione del 1282 contro gli Angioini così come pro-va dell'aggiornamento delle letture di Abba sarà data da un rinvio al Dottor Antonio di Giovanni Ruffini, uscito in Italia alla fine del 1855 al quale attribuirà il merito di avergli fatto conoscere e amare la Sicilia: "E fui lì per inginocchiarmi sull'arena,e ringraziare a mani giunte lo scrittore che dall'In-ghilterra26 rivelò all'Italia questa parte delle sue terre, questo popolo qual è, o qual sarà, non importa".

Altro elemento che diversifica il libro dagli appunti è la maggiore attenzione in quello rivolta ai commilitoni che sa-rebbero scomparsi dopo l'impresa dei Mille, ma il cui destino ovviamente all'epoca dei fatti (e quindi della stesura degli ap-punti) era ignoto; e di questi il caso più evidente è costituito da Ippolito Nievo, imbarcatosi a Quarto come ancora poco conosciuto scrittore, poiché gli Amori garibaldini saranno pubblicati proprio quando partecipava alla spedizione dei Mille, mentre il suo capolavoro Le confessioni di un ottua-genario uscirà postumo solo nel 1867, sicché prima del 1860 aveva pubblicato un paio di volumi di versi, la raccolta di racconti Il novelliere campagnolo (1886) e i romanzi Angelo di bontà (1856) e Il conte pecoraio (1857). Egli poi morirà tragicamente e prematuramente nel marzo del 1861 nel nau-

26 Esule in Francia, poi in Svizzera, a Londra e quindi a Parigi, Giovanni Ruffini pubblicò sia il Lorenzo Benoni (1853) sia il Dottor Antonio in lingua inglese presso l' editore Constable di Edimburgo; cfr. Francesco De Nicola, "Doctor Antonio"di Giovanni Ruffini, in Giovanni Ruffini, Il dottor Antonio, Genova, De Ferrari, 2000, pp. 11-3.

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fragio della nave Ercole che dalla Sicilia, dove era andato per recuperare documenti contabili della spedizione garibaldina che potessero smentire le accuse degli avversari del Generale su una condotta amministrativa poco corretta dell'impresa, lo doveva riportare a Napoli, vicenda non priva di risvolti assai oscuri e ricostruita oltre un secolo più tardi sia dal suo discendente Stanislao Nievo nel romanzo storico Il prato in fondo al mare (1975), sia dal poeta e studioso siciliano Lu-cio Zinna in Il caso Nievo (2006). Ma mentre Abba non fa menzione di lui negli appunti Abba non si fa menzione, nelle Noterelle quasi all'inizio (8 maggio) riferisce di aver "inteso parlare d'un poeta gentile che canterà le nostre battaglie. Si chiama Ippolito Nievo" poi, sotto la data del 19 maggio, an-cora scriverà: "Nievo è un poeta veneto, che a ventott'anni ha scritto romanzi, ballate, tragedie. Sarà il poeta soldato della nostra impresa. Lo vedo rannicchiato in fondo alla carrozza, profilo tagliente, occhio soave, gli sfolgora l'ingegno in fron-te: di persona dev'essere prestante. Un bel soldato"; e infine 16 giugno Abba di lui osserverà: "Ippolito Nievo va solitario sempre guardando innanzi, lontano, come volesse allargare a occhiate l'orizzonte. Chi lo conosce, viene in mente di cercare collo sguardo dov'ei si fissa, se si cogliesse nell'aria qualche forma, qualche vista di paese della sua fantasia". Ma Nievo non fu il solo garibaldino morto tra il 1860 e il 1880 (quando appunto uscì la prima edizione delle Noterelle) e un altro fu quel Francesco Nullo – al quale Abba nel 1863 aveva dedi-cato il già ricordato componimento in versi – che troviamo ritratto con ammirazione in più pagine del libro e che il 4 ottobre, nel corso della battaglia del Volturno, sarà definito come "uno dei più valorosi nostri".

Ma che cosa spinse Abba all'inizio del 1879, e quindi or-mai quasi vent'anni dopo la partenza da Quarto, a trasforma-re i suoi rapidi appunti in un libro? Intanto si osserverà che degli appunti scritti a caldo il libro conserva essenzialmente la struttura diaristica; la vicenda narrata ha infatti precisi mo-

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menti e luoghi di inizio (Parma, 3 maggio 1860. Notte) e di conclusione (Caserta, 9 novembre. Sera) e all'interno di que-sti due estremi sono raccontati gli avvenimenti della spedi-zione dei Mille. Dunque il diario segue, giorno dopo giorno, gli spostamenti di Abba, dalla partenza in treno da Parma a Montebello (presso Pavia), Novi Ligure e infine a Genova, dove il 5 maggio da Quarto inizia il viaggio per mare sul pi-roscafo Lombardo; quindi la sosta del 7 maggio a Talamone, sulla costa toscana, per sbarcare infine a Marsala l'11 maggio. Qui comincia un percorso assai tortuoso in Sicilia che punta verso l'interno della Sicilia, toccando Salemi, Calatafimi, Al-camo, Partinico, Marineo, Misilmeri per raggiungere Paler-mo da sud, dall'entroterra, a fine maggio; e da Palermo, sepa-ratosi da Garibaldi a metà giugno dopo durissimi e vittoriosi combattimenti, Abba si volge verso il cuore della Sicilia pas-sando ancora per Misilmeri, e poi attraverso Villafrati, Alia, Vallelunga giunge a Caltanissetta e di qui a Castrogiovanni (oggi Enna) per scendere a Leonfonte, Regalbuto, Paternò e infine a Catania, per risalire, finalmente lungo il mare – "un azzurro di mare che non somiglia punto a quel di Liguria" – , a Giardini e quindi a Messina. Dunque Abba aveva attra-versato la Sicilia montuosa da Palermo a Catania e ne aveva conosciuto l'aspetto più arretrato e più misero – tanto che av-vicinandosi a Catania "ci pareva di non essere più in Sicilia o che non fosse stata Sicilia la parte dell'isola già veduta, salvo la Conca d'oro. Non più quello scoppio di vita quasi selva-tico, ma una cultura sapiente" – , il più lontano da quanto gli italiani del nord potessero immaginare, reso dalle pagine di Da Quarto al Volturno con un atteggiamento di grande curiosità e di accettazione anche di modi di vivere molto di-versi dai propri, come nel caso dei contadini del centro della Sicilia: "I coltivatori stanno nei villaggi, grandi come da noi le città; vi stanno in certe tane gli uni sugli altri, con l'asino e le altre bestie men degne. Che tanfo e che colpe! All'alba muovono pei campi lontani, vi arrivano, si mettono all'opera

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che quasi è l'ora di tornare; povera gente, che vita!"; né meno sconvolgente sarà per Abba l'impatto con Napoli: "Non vidi mai sudiciume portato in mostra così! Ho dato una corsa pei quartieri poveri, c'è qualcosa che dà al cervello come a tra-versare un padule. La gente vi brulica, bisogna farsi piccini per passare e si vien via assordati. Ma su tutte quelle facce si vede l'effusione di un'anima che si è destata e aspetta…". Per far immedesimare il lettore in questo ambiente presso-ché sconosciuto, Abba non esita talora a riportare parole ed espressioni siciliane, come il grido "Beddi! Beddi!" rivolto ai garibaldini l'11 maggio allo sbarco di Marsala o come la frase "Reboldate la cabedale" cioè "Fate ribellare la capitale" rivol-ta il giorno dopo al principe Carini e naturalmente come la famosa definizione di "picciotti" attribuita ai giovani siciliani che si unirono ai Garibaldini. Nella fase successiva e finale del viaggio, Abba percorrerà ancora un itinerario alquanto tortuoso, imbarcandosi a Messina alla volta di Napoli e Civi-tavecchia per scendere di nuovo a Napoli a metà settembre, di qui a Caserta, a Napoli e ancora a Caserta il 9 novembre per la conclusione.

Le minute descrizioni dei paesaggi attraversati e dei loro abitanti, nonché le citazioni storiche e culturali che quei luoghi evocano, consentono dunque di definire a prima vi-sta le Noterelle come un libro di viaggio – e già lo sugge-risce anche il suo titolo con l' indicazione di un luogo di partenza e uno di arrivo –, analogamente al futuro libro di Barrili sulla fallita spedizione di Mentana Con Garibaldi alle porte di Roma (1890)27 segnato da altrettanto minute

27 Il titolo del libro doveva essere originariamente Scampagnata epica; cfr. F. De Nicola, Anton Giulio Barrili, garibaldino e scrittore, in Anton Giulio Barrili, Con Garibaldi alle porte di Roma, a cura di F. De Nicola e note di Vincenzo Gueglio, Sestri Levante, Gammarò, 2007, pp. XIV-XV.

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descrizioni turistiche di Toscana, Umbria e Lazio. Quello di Abba rimane certo un viaggio compiuto al seguito di un esercito di volontari e dunque segnato dalle vicende militari che quel viaggio hanno determinato e che, descritte minu-tamente e con passione, sottolineano il loro generoso amor di patria, evitando però con misura la retorica celebrativa, e semmai sottolineando soprattutto l'umanità e la debolezza di quegli uomini, pur ridimensionandone gli episodi meno nobili, come la violenta repressione dell'insurrezione conta-dina di Bronte. Ma quando l'autore è fuori della mischia, nei momenti di quiete e di trasferimento, e i suoi spostamenti avvengono senza pericolo in compagnia di pochi commili-toni, allora le pagine si riempiono delle descrizioni dei pae-saggi di volta in volta scoperti, ma forse ancor più dei loro abitatori. Da Quarto al Volturno può dunque essere letto certo come un diario romanzato – per la folla dei personaggi e delle microstorie che lo animano – della spedizione dei Mille e quindi come una delle tante, e delle più importanti, tessere del grande mosaico del mito di Garibaldi, che peral-tro in queste pagine è presenza quasi marginale, con appari-zioni rapide e incisive, come a dire che egli appare quando e dovunque ce ne sia bisogno così come subito dopo si allon-tana sul suo cavallo, senza rinunciare al ruolo di capo corag-gioso che nulla teme – "Come potrei morire meglio che pel mio paese?" – né alla dimensione carismatica e quasi sacra della sua persona – "Il Generale ha fatto un giro per la città, dove ha potuto passare a cavallo. La gente s'inginocchiava, gli toccavano le staffe, gli baciavano le mani. Vidi alzare i bimbi verso di lui come a un Santo. Egli è contento […] Ora sì che possiam dire d'aver tutto il popolo dalla nostra! Siamo perduti in mezzo a questa moltitudine infinita che ci onora, ci dà retta, ci scalda d'amore" – .

Ma il libro può anche essere letto come la scoperta da parte di un italiano del nord di una porzione assai ampia del suo nuovo più esteso Paese fino ad allora sconosciuta a lui,

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come alla maggior parte dei liguri e dei piemontesi, dei ve-neti e dei lombardi; una scoperta che è necessaria per far sentire come connazionali anche quei siciliani e meridiona-li fino ad allora non solo politicamente e geograficamente lontani e, analogamente, come occasione da parte delle po-polazioni del Mezzogiorno di conoscenza di uomini di un nord da loro quasi del tutto ignorato tanto che "Che inge-nua ignoranza delle cose d'Italia!" esclama Abba ad Alcamo ospite di un signore locale che lo accoglie con generosità. Ecco allora ben chiaro il disegno patriottico, e allo stesso tempo politico e morale (e questa dimensione era stata sotto-lineata da Benedetto Croce),28 all'origine del libro che Abba si decise a scrivere nel 1879, non solo a vent'anni da quegli eventi, ma soprattutto a circa vent'anni dalla proclamazione del regno d'Italia, quando ormai la gravità della questione meridionale si era ben delineata, tra banditismo e miseria, col corollario non certo meno drammatico di un'emigrazio-ne che stava diventando fenomeno di massa. Questo libro, scritto da un fedelissimo garibaldino per ricordare Garibaldi ormai relegato a Caprera, in realtà andava dunque ben più in là ed era sostenuto da uno scopo patriottico più profon-do e cioè quello di far conoscere (e apprezzare pur con le sue marcate differenze) e integrare quel meridione gravido di problemi fino ad allora ignoto al nord; era dunque mirato ad affrontare uno degli obiettivi prioritari della nuova Italia e cioè quel "fare gli italiani" che era stato anche lo scopo principale perseguito dallo scrittore-pedagogo nazionale per eccellenza e cioè Edmondo De Amicis, che in uno dei primi episodi dell'anno scolastico di Cuore racconta proprio l'inse-rimento in una scuola di Torino di un ragazzo calabrese che

28 Ibidem, p. 12.

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il maestro raccomanda ai suoi alunni di far sentire a proprio agio e di considerare un loro fratello sebbene il suo aspetto lo faccia apparire assai diverso:

"Entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. […] "Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di 500 miglia di qua. Vo-gliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato […] in una delle più belle terre della nostra patria, dove son grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pie-no d'ingegno e di coraggio. Vogliategli bene, in maniera che non s'accorga di esser lontano dalla città dov'è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta il piede, ci trova dei fratelli".29

Tanta diversità però deve essere annullata e la premessa era stata il dichiarato desiderio dei siciliani e poi dei campani di sentirsi parte del nuovo regno; e così ecco che a Salemi gli abitanti locali si rivolgono ai garibaldini salutandoli come "benedetti" e persino le monachelle di Palermo, affacciando-si ad uno dei numerosissimi monasteri incontrati dai volon-tari, gridano "Viva l'Italia!" (e si erano informati se Garibaldi fosse bello e biondo) sinché con la sconfitta dei Borbonici a Milazzo la Sicilia viene liberata. Ma quella che era un'im-presa compiuta da un condottiero capace di galvanizzare il suo migliaio di uomini fedeli e di coagulare attorno a sé altre migliaia di giovani delle popolazioni locali potrebbe sembrare nulla più di una fortunata serie di vittorie militari contro un nemico poco valoroso e ancor meno motivato; e

29 Edmondo De Amicis, Cuore, Milano, Mondadori, 1984, pp. 30-1.

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invece il racconto di Abba diventerà la premessa per un'ope-razione politica decisiva quando i volontari saranno affian-cati dai soldati regolari dell'esercito piemontese per piegare sul continente l'estrema resistenza dei Borboni e conquistare così Napoli, in un'alleanza necessaria che metteva da parte l'orgoglio di Garibaldi in nome di un più alto ideale il cui raggiungimento era ormai vicinissimo; e infatti dall'ultima data del diario di Abba – 9 novembre 1860 – passeranno poco più di cinque mesi per giungere a quel 13 marzo 1861 che segnerà la proclamazione del Regno d'Italia.

Se dunque Da Quarto al Volturno venne scritto per uno scopo prevalentemente patriottico volto a far conoscere e accettare il sud dagli italiani del nord, un altro elemento in questa direzione sarà offerto ancora una volta dal confronto tra il taccuino e il libro perché qui, già nelle prime pagine, Abba insiste su un altro aspetto del tutto ignorato negli ap-punti del 1860 e cioè sulla partecipazione all'impresa dei Mille, e quindi ad un atto decisivo per la costruzione del regno d'Italia, di volontari della più varia provenienza, geo-grafica e sociale. Nelle Noterelle infatti il primo interlocuto-re di Abba è un avvocato che, dal cognome Petibon, pare es-sere veneto; poi alla stazione di Parma egli conta i volontari che salgono sul treno per Genova e verifica che i più sono studenti, con qualche operaio e tre medici e intanto, mentre si diffonde la notizia che un altro treno di volontari s'è for-mato in Romagna, lo scrittore sottolinea: "Ne verranno da tutte le parti" e infatti ancora più avanti molto spesso Abba preciserà la provenienza più disparata dei volontari, certifi-cando così che l'impresa fu voluta e realizzata da cittadini di tutta Italia e di ogni classe sociale, tutti accomunati da uno stesso ideale. Di questo probabilmente non metteva conto prender nota nel maggio del 1860, ma era invece necessario segnalarlo con giusto risalto nel 1880, quando ancora le po-polazioni delle diverse regioni italiane apparivano tra loro poco coese e quando non erano rare le perplessità sull'u-

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nione nazionale, soprattutto a seguito dell'introduzione di pesanti tasse e degli obblighi militare e scolastico che certo danneggiavano le famiglie più povere, che sin da piccoli destinavano i figli al lavoro. Consapevole di questo malcon-tento, probabilmente verificato rivestendo nel suo paese per tanti anni la carica di sindaco, con Da Quarto al Volturno Abba intese allora ricordare che l'Italia era nata da un co-mune sentire, certo ignaro delle difficoltà che si sarebbero incontrate per amalgamare uomini e donne tanto diversi tra loro, come il viaggio in Sicilia compiuto nell'estate del 1860 aveva mostrato allo scrittore ligure.

Ma torniamo allora a domandarci: perché Abba si as-sunse questo impegno essenzialmente patriottico nel 1879? Per dare una possibile risposta credo sia necessario consi-derare ciò che era stato all'origine del sogno garibaldino e ciò che dal 1861 in avanti di quel sogno era stato realizzato. L'unità nazionale era il passo obbligato secondo Garibaldi per aiutare le classi subalterne a uscire dalla miseria e dalla sfruttamento; e non per nulla egli aveva creduto con grande fiducia nell'importanza delle società operaie di mutuo soc-corso. I governi di destra che si erano succeduti dal 1861 fino al 1876, cercando di realizzare una politica economica di grande rigore che sanasse il bilancio passivo dello stato, imposero gravi sacrifici e introdussero nuovi tributi (come la tassa sul macinato che colpiva pesantemente i contadini) e aggravarono la situazione economica dei cittadini meno abbienti, sempre più spesso costretti a cercar di sopravvi-vere all'estero, dando vita proprio negli anni in cui Abba scriveva il suo libro sulla spedizione dei Mille al fenomeno dell'emigrazione di massa. Nel 1876 le elezioni videro l'af-fermazione della sinistra e del governo, guidato da Agostino Depretis, entrarono a far parte sia antichi mazziniani, sia se-guaci di Garibaldi; ma ben presto la sinistra attuò una politi-ca, il cosiddetto trasformismo, che mirava a trasformare gli avversari della destra in alleati col risultato del venir meno a

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quella promessa di una svolta popolare attesa dagli elettori, sebbene in realtà nel 1880 il nuovo governo avesse abolito la tassa sul macinato e in più occasioni avesse affrontato con impegno il problema dell'istruzione. Le condizioni di contadini e operai continuavano però a essere difficilissime e solo le società di mutuo soccorso rappresentavano per loro una tutela e una fonte di speranze di riscatto e di afferma-zioni dei diritti dei lavoratori i quali, nel 1884, fonderanno il loro primo partito operaio.

Questa situazione non corrispondeva certo alle attese di Garibaldi e dei garibaldini, i quali, ormai sempre meno numerosi per ovvie ragioni anagrafiche, rappresentavano spesso l'ala più delusa e più critica nei confronti del gover-no di quanti avevano combattuto per un'Unità nazionale la cui realizzazione aveva dato risultati ben lontani dalle loro aspettative. Di questo stato d'animo diffuso tra i volontari in camicia rossa, e quindi inevitabilmente anche di Abba che, come si è detto, non mancherà nei suoi scritti più matu-ri di assumere atteggiamenti molto polemici, aveva offerto una testimonianza assai convincente De Amicis che, tra i personaggi del suo romanzo sull'emigrazione Sull'Oceano – uscito nel 1889 ma maturato nel 1884 – aveva inserito un garibaldino, che gli ricordava "una di quelle nobili figure conosciute nelle pagine indimenticabili di Cesare Abba":

"La patria era riuscita troppo al di sotto dell'ideale per cui s'era battuto. Un'Italia di declamatori e d'intriganti, ap-pestata ancora di tutta la cortigianeria antica, idropica di vanità, priva di ogni grande ideale, non amata né temuta da alcuno, accarezzata e schiaffeggiata ora dall'uno or dall'al-tro, come una donna pubblica, non forte d'altro che della pazienza del giumento. Dall'alto al basso non vedeva che una putrefazione universale. Una politica disposta sempre a leccar la mano al più potente, chiunque fosse; uno scettici-smo tormentato dal terrore segreto del prete; una filantropia non ispirata da sentimenti generosi degli individui, ma da

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interessi paurosi di classe. E nessuna salda fede, nemmeno monarchica. Dei milioni di monarchici, incapaci di difen-dere prodemente, a un bisogno, la loro bandiera, pronti a mettersi a pancia a terra davanti al berretto frigio, appena lo vedessero in alto. Una passione furiosa in tutti di arrivare non alla gloria, ma alla fortuna; l'educazione della gioventù non rivolta ad altro; ciascuna famiglia mutata in una ditta senza scrupoli, che batterebbe moneta falsa per far strada ai figliuoli. E le sorelle incamminate per la via dei fratelli, perdendosi di giorno in giorno nell'educazione e nella vita della donna ogni spirito di poesia e di gentilezza. E mentre l'istruzione popolare, una pura apparenza, non faceva che seminare orgoglio e invidia, cresceva la miseria e fioriva il delitto. Metà degli uomini che avevan dato la vita per la re-denzione dell'Italia, se fossero resuscitati, si sarebbero fatti saltare le cervella".30

Ecco, forse queste amare riflessioni offrono finalmente la risposta all'interrogativo che ci siamo posti prima: che cosa aveva spinto Abba a scrivere sull'impresa dei Mille nel 1879? La constatazione che i sacrifici compiuti da lui e dai suoi compagni volontari erano serviti a poco, non certo a seminare gli ideali che essi avevano sostenuto fino a mettere in gioco la propria vita; la patria nata delle loro imprese non era quella sognata, sensibile alle necessità e ai diritti dei più deboli ma, qualunque schieramento politico governas-se, di questi ben poco pareva preoccuparsi. E Abba allora aveva forse pensato che il racconto del viaggio attraverso la miserie, l'ignoranza, le secolari soperchierie subite dal

30 E. De Amicis, Sull’Oceano, a cura di Francesco De Nicola, Sestri Levante, Gammarò, 2008, pp. 34-5.

Page 29: semmai la sua copiosa iconografia affidata a ritratti sempre · Lauzi e il Garibaldi innamorato di Sergio Caputo, mentre addirittura un'opera lirica, Garibaldi en Sicile, è stata

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sud poteva non solo giovare a far accogliere come fratelli di questa nuova grande famiglia chiamata Italia anche quelle popolazioni a lungo abbandonate a sé stesse, ma anche ad additare di nuovo quegli ideali di concordia e di giustizia sociale, a favore soprattutto dei più deboli, per i quali Ga-ribaldi e i Mille erano partiti coraggiosamente da Quarto. E proprio le ultime parole del libro di Abba lasciano intendere che già allora, nell'autunno del 1860 segnato da un grande successo militare e politico nato però da una prevaricazione ingenerosa dei Savoia – tanto da non mancare di precisare che quell'impresa vittoriosa era stata "rubata ai volontari da un ministro lontano" – e dall'amarezza subita da Garibaldi, era forte il pericolo che tanti sacrifici in seguito potesse-ro risultare vani e che il potere restasse sempre tale anche se passato sotto altre insegne: "Mi pare che cominci a tirar un vento di discordie tremende. Guardo gli amici. Questo vento ci piglierà tutti, ci mulinerà un pezzo come foglie, andremo a cadere ciascuno sulla porta di casa nostra": que-ste, appena conquistata Napoli, erano dunque le premesse per nulla tranquillizzanti per la nascita della nuova Italia e i venti anni trascorsi da allora avevano mostrato quanto fossero fondati quei timori.