GARIBALDI ARCOBALENO32web

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l’ l’ l’ arcobaleno arcobaleno arcobaleno rivista per studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti 2 € 1860 1860 1860 1860 1860 1860 1860 1860 1860 1860 1860 1860 - - 2010 2010 2010 2010 2010 2010 2010 2010 2010 2010 2010 2010 150 anni dopo lo sbarco 150 anni dopo lo sbarco 150 anni dopo lo sbarco Garibaldi entra a Napoli - Litografia di Ratellier & Co., New York. Pubblicata a New York da George Ward Nichols - 1860.

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Rivista per studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti.Numero speciale per il 150° anniversario della spedizione dei Mille

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2 €

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L ’ultima di copertina mostra un Ga-ribaldi in veste pop art. Non è stato un capriccio dell’ultimo momento, ma una scelta a lungo meditata. Ci siamo chie-sti, noi dell’arcobaleno, se, in Italia, effettivamente esiste un’icona nazional-popolare, una figura capace di riassume-re, nell’immaginario collettivo, ciò che normalmente si sintetizza in un simbo-lo, in una bandiera. La risposta che pos-siamo dare è che, se quest’icona esiste, ha la facci a di Garibaldi. In questi giorni ricorre il 150° anniversario della spedi-zione dei Mille e di quel percorso che porterà all’Unità. Siamo pronti, ormai, ad essere subissati dalla marea delle celebrazioni garibaldine e sulla forma-zione dello Stato unitario. Le celebra-zioni quasi mai, però, si accompagnano alle cerebrazioni, cioè alle attività cere-brali. Queste ultime rifuggono dagli squilli di tromba e dagli sventolii di bandiere: magari prendono spunto da un anniversario, ma subito ri entrano nell’assillo quotidiano di studiare i do-cumenti, fare ipotesi, veri ficarle, rimet-terle in discussione, cercare altre fonti e ricominciare da capo. Solo a questo dovrebbero servire gli anniversari. Sicu-ramente non a fare da trampolino di lancio di qualche campagna ideologica al servizio del padrone o del potente di turno, o a fungere da terreno di scontro politico. Le parole accorate del Presi-dente della Repubblica (a favore dell’u-nità nazionale, contro le dichiarate deri-ve secessionistiche dei leghisti del nord e quelle ancora larvate degli autonomisti del sud) “usano” Garibaldi e l’impresa dei Mille per una precisa, probabilmente non meschina, esigenza politica ed isti-tuzionale: ma Napolitano non è che l’ul-timo, in ordine di tempo. Il rischio è che

chi non si accoda a questo unanimismo celebrativo, dato l’uso strumentale della epopea garibaldina, deve necessaria-mente passare per un nostalgico antiuni-tario: quindi, a scelta, o neoborbonico o neocleri cale. Simbolo di uno stato che, in modo vigile e rigido, esercita il suo potere dalle Alpi al Lilibeo, Garibaldi viene eletto a nume tutelare del regime fascista. Il regime ha bisogno di una retorica fatta di condottieri, eroismo, guerra, abnegazione, sangue: chi meglio dell’Eroe dei due mondi? Non è un caso che l’impulso più forte alla storiografi a garibaldina ed alla pubblicazione dei suoi scritti sia venuto a ridosso delle celebrazioni del cinquantenario della morte, nel 1932. Una decina d’anni do-po Garibaldi diventa il simbolo della riscossa antifascista. Le brigate d’as-salto denominate Garibaldi sono tra le componenti più importanti dell’intero movimento partigiano. Tre anni ancora e arriva la sospirata liberazione: alle elezioni politiche del ’48 la sua icona diventa il simbolo elettorale del Fronte popolare.

Prima fascista, poi partigiano, adesso socialcomunista. La scuola degli anni ‘50 e ‘60, in piena guerra fredda, non trova di meglio che aggrapparsi alla tematica neorisorgimentale. Fioccano le poesie a memoria (e a bacchettate sulle mani) di Arnaldo Fusinato, Aleardo Ale-ardi e Luigi Mercantini, grondanti una retorica della patria che varca senza ritegno i limiti dell’overdose. Gli anni ‘70, politicizzati e inclinanti a sinistra, si interrogano sui guasti di un boom economico costruito a spese di una sem-pre più irrisolta ed irrisolvibile questio-ne meridionale. L’unità nazionale viene riletta nella chiave della piemontesi zza-zione e di un colonialismo di cui hanno

fatto le spese le plebi meridionali. I briganti diventano i nuovi eroi della rivoluzione sociale e il massacro dei contadini di Bronte è la testimonianza che il potere è sempre contro gli s frutta-ti. Sullo sfondo, ancora una volta, Gari-baldi. Arrivano gli anni ’80 e Giovanni Spadolini, leader del partito repubblica-no, primo Presidente del Consiglio non democristiano, presidente del Senato, storico, fa di Garibaldi una specie di santo laico. Poi è la volta del socialista, più volte Presidente del Consiglio, infi-ne latitante in Tunisia Bettino Craxi, appassionato di cimeli garibaldini alme-no quanto di denaro e di potere. Nel ten-tativo di smarcarsi dall’allora prevalent e cultura marxista, Craxi prima prova ad accreditarsi come un discepolo dell’a-narchico francese Proudhon, poi, consi-derata l’enormità della pret esa, ripiega anche lui sull’inossidabile, indistruttibi-le, multiuso e multitasking Garibaldi.

E adesso? Le pagine web, per il 150° anniversario della spedizione dei Mille, brulicano come non mai di notizie cla-morose. Peccato che quest e notizie sia-no, quasi tutte, delle non notizie, o per-ché già note da sempre o perché palese-mente false. Questo numero ha l’ambi-zione di rappresentare un punto di par-tenza, abbastanza affidabile, per spunti ulteriori di ricerca e di ri fl essione, da avviare preferibilmente in classe, coin-volgendo studenti, insegnanti ed altri esseri pensanti. Perché questo è il compito che ci siamo dati per quest’anno scolastico che volge al termine. Con un cordiale grazie a chiunque, a qualunque titolo, si è lascia-to coinvolgere in questa impresa, spe-rando che possa raggiungere il traguar-do dei Mille (lettori). Magari a partire dal prossimo settembre. Arrivederci!

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INDICE

Editoriale, p. 2 Indice, p. 3 Avvertenza, p. 3 Francesco Mancini, Il successo dell’impresa dei Mille tra caso e necessità, pp. 4-5 Natale Musarra, Lo sbarco dei Mille: la diretta attraverso le fonti diplomatiche, pp. 6-10 AS, L’inno di Garibaldi, p. 11 Manuel Atrarsa, Una famiglia di rivoluzionari vista da vicino: i Damiani di Marsala, pp. 12-14

Mara Saturnale, I mille misteri dei Mille, p. 15

S tefania Lucia Zammataro, Miti d’arte, pp. 16-17 Katia Perna, Giuseppe Cesare Abba: da Quarto al Volturno tra memoria e letteratura, pp. 18-19 Giuseppe Garibaldi, Alla gioventù italiana, pp. 20-21 Pietra Pomice, Gli inglesi, le navi, il marsala e la rivoluzione, pp. 22-23 Arc, Giuseppe Nuvolari, molto garibaldino, poco eroe, p. 24 Arc, Eliodoro Lombardi, p.25 Natale Musarra, Balcone con vista sulla battaglia di Calatafimi, pp. 26-28 Antonio Squeo, Una su mille, p. 29 Anteo Quisono, Baciamani proibito e bambini soldato, pp. 30-31

Supplemento a Sicilia Libertaria n°295 - maggio 2010. Direttore responsabile: Giuseppe Gurrieri. Registrazione Tribunale di Ragusa n° 1 del 1987. Fotocopiato presso Fast Service Digital Photo, via Antonino Longo n. 36/a –

Catania. La Redazione, composta da volontari, si riunisce periodicamente in un Comitato di reLazione. Chiunque, condividendo i princìpi antifa-scisti, antirazzisti ed antisessisti propri di questo giornale, può proporsi come collaboratore o può inviare contributi all’indirizzo di posta elettroni-ca: [email protected]. Sul sito htpp://rivistalarcobaleno.blogspot.com è possibile leggere e scaricare i numeri arretrati e gli approfondimenti tematici.

Avvertenza: Questo numero non sarebbe stato possibile, così come è stato realizzato, senza la cortese disponibilità del Centro Internazio-nale Studi Risorgimentali Garibaldini e di Natale Musarra, rispettivamente editore e curatore del volume “ Marsala e l’Unità d’Italia”. Molti articoli di questo numero si basano, infatti, sulla documentazione, perlopiù inedita, raccolta nel detto volume.

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L a lettura delle cronache, anche non particolarmente romanzate o patriotti-che, della spedizione che portò nel 1860 alla conquista del regno delle Due Sici-lie è tale da suscitare meraviglia ed in-durre a meditare sui fattori che resero possibile quell’impresa tanto temerari a da rasent are l’assurdo. Certamente furo-no fondamentali per il suo successo l’abilità tattica e strategica del condot-tiero, il suo prestigio e carisma e la leg-genda vivente che rappresentava, unita-mente allo straordinario coraggio fisico, che egli stesso ed i suoi uomini dimo-strarono. Al momento dello sbarco a Marsala si era di fronte, né più né meno, al tentativo disperato di 1.089 uomini, armati ed organizzati in maniera appros-simativa, contro un intero esercito all’apparenza piuttosto agguerrito, di recente potenziato in vista di possibili invasioni dal confine settent rionale. Si trattava di 60-80.000 soldati, con una marina da guerra di 22 navi a vapore e 10 a vela, che incrociavano a guardi a delle coste della Sicilia, ove erano dislo-cati 25.000 uomini, di cui 20.000 a pre-sidio della città di Palermo, con cavalle-ria ed artiglieria, appoggiati a munite fortezze. Il maggior punto di forza del tentativo garibaldino era forse nell’av-versione, nutrita dal popolo siciliano, verso il governo borbonico ed il suo esercito, visti sostanzialmente come forze straniere di occupazione. Va ram-mentato, al riguardo, che, fino all’inizio dell’Ottocento, la Sicilia era stata un regno indipendente, unito a quello di Napoli nella persona del re, e aveva avuto istituzioni proprie, rivenienti dalla sua storia, ed un Parlamento. Dal 1806 al 1815 Ferdinando IV di Borbone, scacciato da Napoli dall’esercito france-

se, si era ri fugiato a Palermo sotto la protezione della flotta inglese, scontran-dosi con la feudalità siciliana, fort e delle prerogative garantite dalla Costituzione. Nel 1815, ripreso il controllo del Mez-zogiorno, il re aveva riunito i preesisten-ti due Stati nell’unico regno delle Due Sicilie, con capitale Napoli, assumendo il nome di Ferdinando I. Aveva inoltre abolito la Costituzione siciliana ed este-so all’isola gli ordinamenti amministra-tivi vigenti sui territori continentali del regno, improntati al modello napoleoni-co dell’accentramento. Non erano man-cati, di conseguenza, in Sicilia, tentativi insurrezionali e rivolte, che erano andati anzi infittendosi negli ultimi tempi, pur se con esiti negativi per gli insorti.

Fu, perciò, tutt’altro che casual e la scel -ta di Garibaldi di iniziare dalla Sicilia il tentativo di conquista del regno. Egli, infatti, faceva affidamento non solo sul malcontento ed il sentimento antiborbo-nico della popolazione, con il conse-guente supporto logistico che poteva derivargliene, ma anche sul contributo militare delle bande armate di rivoltosi operanti sul territorio siciliano. In tal senso, l’impresa di Garibaldi, pur nella sua estrema audaci a, aveva taluni solidi fondamenti, che erano mancati del tutto, ad esempio, nei tentativi dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Che il generale non soffrisse di alcuna

vocazione al martirio ed all’immolazio-ne può del resto ritenersi dimostrato, avendo egli in un primo momento ri-nunciato all’impresa, in seguito alle notizie pervenutegli circa i rovesci subi-ti nell’isola dalle bande di rivoltosi al comando di Rosolino Pilo. Sembra che si sia deciso a partire solo a seguito di una diversa, più favorevole e forse frau-dolenta interpret azione dei messaggi ci frati ricevuti. Sia come sia, la disposi-zione favorevole della popolazione nei confronti degli invasori e l’aiuto delle bande di picciotti si rivelarono fattori rilevanti e decisivi per il successo dell’impresa. Ciò non toglie che, come già accennato, al momento dello sbarco a Marsala essa si presentasse oggettiva-mente pressoché disperata. Oltretutto, nonostante l’estrema imparità delle for-ze in campo, erano proprio i garibaldini a dover attaccare, per dimostrare la loro determinazione e capacità di battere il nemico. Le tecniche da guerriglia del mordi e fuggi, peraltro anch’esse di esito incerto, non avrebbero prodotto una risonanza adeguata alla fama del generale ed alle attese del popolo sici-liano e delle bande di picciotti. È quindi da ritenersi determinante, nel senso pre-detto, l’esito del primo scontro con le truppe borboniche, a Calatafimi, in cui gli attaccanti garibaldini subirono perdi-te più gravi dei loro avversari, ma rima-sero padroni del campo. Gli storici ten-dono ad escludere che il generale abbia veramente pronunciato la famosa frase: “ Bixio, qui si fa l’Italia o si muore”, quando il suo luogotenente, impressio-nato dalle perdite subite, propose di ritirarsi. Si ritiene però che egli abbia comunque rimarcato l’assurdità di una ritirata, che non avrebbe avuto in realtà alcun senso, dato che in ogni caso si

Il successo dell’impresa

dei Mille

tra caso e necessità

...fra loro c’erano circa 250 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti,

50 ingegneri, 50 capitani di mare, 100 commercianti, una decina

di artisti, pittori e scultori

e qualche prete.

Il “ Lombardo”, una delle navi che trasportarono i Mille a Marsala

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sarebbe dovuto poi attaccare di nuovo il nemico, in condizioni infinitamente peggiori e, per giunta, vanifi cando il sacri ficio dei caduti. In altri termini, non aveva senso lasciare il campo al nemico, perché non c’era un posto dove ritirarsi, mentre proprio l’obbligo di essere co-raggiosi, per il fatto di essersi cacci ati in una avventura tanto spericolata e dispe-rata, poteva considerarsi forse il mag-giore punto di forza dell’impresa. Peral-tro, i volontari erano in grande maggio-ranza estranei al territorio siciliano e, per estrazione sociale, difficilmente adattabili alla vita da briganti che avreb-be comportato il ripiegamento nell’in-terno, per dar luogo ad un’attività di guerriglia verosimilmente di lunga dura-ta. Essi venivano, infatti, in gran parte dall’Italia settentrionale e comprendeva-no meno di cento sudditi borbonici; fra loro c’erano circa 250 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri, 50 capitani di mare, 100 commercianti, una decina di artisti, pittori e scultori e qual-che prete. Dopo la battaglia di Calatafi -mi, il generale confermò il suo grande acume tattico, effettuando ancora una volta la scelta vincente di non ridursi al rango di brigante, i nolt randos i nell’interno dell’isola, e mirando invece decisamente al bersaglio grosso, ossia all’occupazione di Palermo. Certamente il fattore decisivo per la vittoria fu la mossa strategica di dividere il nemico e di rot t arne una part e ri l evant e all’inseguimento, sulla via per Corleo-ne, di una colonna di circa 50 artiglieri più 150 picciotti aggregatisi in soccorso dei volontari. Il grosso della spedizione di Garibaldi, invece, forte dei residui circa 750 uomini più alcune migliaia di componenti le squadre di siciliani arri-vati a supporto dell’impresa, si diresse a marce forzate ad attaccare Palermo di notte e dalla parte più sguarnita della città. I circa tremila uomini dei batta-glioni, abilmente seminati alla cacci a della colonna direttasi verso Corleone, rallentati nei loro movimenti per il fatto di operare in mezzo ad una popolazione ostile, raggiungeranno Palermo solo dopo la stipula dell’armistizio fra attac-canti e di fensori della città. I garibaldini approfittarono della tregua per rafforza-re le loro posizioni e l’appoggio della popolazione, tanto che i soldati borboni-ci, scoraggiati ed impauriti, prima capi-tolarono e poi finirono per abbandonare del tutto la città. La conquista di Paler-mo comportò un tale afflusso di uomini, armi e soldi, letteralmente da mezzo mondo, da comportare un radical e mu-tamento del rapporto tra le forze in cam-po e rendere assai meno problematica l a

prosecuzione dell’impresa. A part e quanto già rilevato, va detto che, senza nulla togliere all’abilità militare di Gari-baldi, il successo della sua impresa fu dovuto anche all’azione di alcuni poten-ti alleati. Fra di essi, il più importante fu certamente il caso favorevole o, se si preferisce, la fortuna. Per mandare a monte l’impresa già al momento dello sbarco a Marsala sarebbe, infatti, basta-to che i borbonici che vi assistettero da bordo delle loro navi da guerra non si fossero fatti prendere da irresolutezza ed inconcludenza e avessero affondato a cannonate le navi dei garibaldini. Ana-logamente, tutto sarebbe finito se nella battaglia di Calatafimi qualcuna delle pallottole sparate dai soldati borbonici avesse messo fuori combattimento il generale, mentre con sprezzo del perico-lo svolgeva in prima linea la sua decisi-va funzione di incoraggiamento dei vo-lontari. Ancora nello stesso senso, l’attacco a Palermo avrebbe preso tutt’altra piega per i garibaldini, se il colonnello svizzero Von Mechel fosse arrivato con le sue truppe prima dell’ar-mistizio e non poco dopo, come invece avvenne. Il colonnello, i cui battaglioni comprendevano mercenari austriaci e bavaresi, si era già dimostrato un sog-getto alquanto deciso e pericoloso, sba-ragliando gli insorti di Rosolino Pilo, rimasto ucciso nella circostanza; ma, come suol dirsi in questi casi, la storia non si fa con i se. Inoltre, come già ac-cennato, al successo dell’impresa contri-buirono il sentimento antiborbonico della nobiltà siciliana e la sua propen-

sione a cambiare tutto perché nulla cam-biasse. Né va sottaciuto, in general e, il tras formismo delle classi dirigenti del regno delle Due Sicilie ed una certa loro tendenza ad accorrere in soccorso del vincitore o del più forte o del più ricco e generoso. Pure importanti furono il ruo-lo del nascente fenomeno mafioso, che si rafforzò nel caos determinato dall’e-popea garibaldina, e quello della camor-ra, che consentì a Garibaldi di occupare Napoli praticamente senza colpo feri re. È improbabile che il general e ed i suoi luogotenenti non si fossero resi conto della natura e dell’operare delle forze, del resto tutt’altro che occulte, che sup-portavano la loro impresa. Sembra inne-gabile che abbiano invece inteso avva-lersene, ritenendo che le condizioni di inferiorità imponessero una certa spre-giudicatezza, quale quella dimostrata con la liberazione di migliaia di detenuti durante la battaglia di Palermo, con conseguenti pesanti problemi di ordine pubblico. Tuttavia, sarebbe forse ecces-sivo ed ingiusto rimproverare ai capi della spedizione garibaldina una man-canza di preveggenza o la sottovaluta-zione del fenomeno delle associazioni malavitose. Costituirebbe, del resto, un troppo co-modo alibi attribuire ai loro errori l’ascesa, la rilevanza e la capacità di persistere, evolversi e modernizzarsi di organizzazioni in grado di costituire tuttora un fattore di forte condiziona-mento delle attività politiche, affaristi-che e finanzi arie legali ed illegali.

Francesco Mancini

Manifesto murale, affisso dai cospiratori antiborbonici, apparso a Marsala nel 1859, nel quale si dice: fratelli Siciliani siate tutti fermi e pronti senza timore giacche il giorno di ultimare e quasi arrivato non timete di arresti che frà giorni di nuova liberi. La Polizia fa le suoi spiunaggi la provincia e tutta la Sicilia in

movimento coraggio senza timore.

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Lo sbarco dei Mille:

la diretta attraverso le fonti diplomatiche

S iamo così abituati all’idea di segui-re “ in diretta” eventi di portata storica, che quasi non ci facciamo più caso. Le troupe televisive si appostano là dove è previsto che avvenga l’evento, facendo la gara a chi annuncia per prima che la guerra è cominciata o è caduta la prima vittima. Quando i fatti da narrare sono accaduti nel passato, la televisione si sobbarca ben volentieri il peso dell’ana-cronismo, somministrandoci la sbobba della ricostruzione storica. Noi, che non amiamo le fiction, siamo in grado, gra-zie alle fonti archivistiche messe a di-sposizione dai nostri solerti collabora-tori, di documentare lo sbarco così come apparve ai contemporanei, agli attori protagonisti di quella scena storica. Ri-portiamo, di seguito, i testi delle lettere che il vice-console del Regno di Sarde-gna di stanza a Marsala, Sebastiano Lipari, manda a diversi destinatari. Ne abbiamo una descrizione immediata, pulsante, viva, fatta sotto l’imperversare degli eventi.

Marsala 13. Maggio 1860 – Dalla Delegazione Consolare di S.M. Sarda in Marsala al Signore Sig.r Ca-

pitano del Porto di Marsala Signore Il Piroscafo che trovasi in Porto nella giornata 11. corrente disbarcava in questa la massa che si dice comandata dal Generale Garibaldi e che venne qui secondo si vuole per impugnare le armi contro il Governo di Sicilia, si appartie-ne alla Società Rubbattino di Genova e fu preso violentemente dal Porto di Ge-nova ove trovatasi ancorato, e ciò con-forme a quanto mi hanno dichiarato i componenti l’Equipaggio dello stesso. Ò avuto conoscenza intanto che sul Pi-roscafo suddetto sono avvenuti dei furti, e sia che potrebbe appartenere al Go-verno di Sicilia come buona presa, sia che potrà essere reclamato dal Governo Sardo per restituirsi al proprietario, io trovo sempre ben regolare che fosse vietato lo spoglio del legno suddetto, e che quindi fosse ben custodito. È perciò

a scanso di qualunque mia responsabili-tà mi rivolgo a Lei per che possa dare le convenienti disposizioni, onde il Piro-scafo fosse ben custodito, e non avvenis-sero altri furti. La prego accusarmene recezione Il R. Delegato Consolare di S. M. Sarda Sebastiano Lipari

Marsala 14. maggio 1860 Dalla R. Delegazione Consolare di S.M. Sarda in Marsala all’Ill.mo Si-

gnore Sig.r Gaetano Rocca, Console Sardo a Palermo Signore Formo la presente all’oggetto di farle conoscere che il giorno 11. alle ore 12. a.m. approdarono in questo Porto due Vapori con Bandiera Sarda, che condu-cevano il Generale Garibaldi con il suo esercito da circa mille e quattrocento Soldati Italiani, e sbarcava immantinen-te, ad onta della sorveglianza di tre Vapori ed una Fregata da Guerra Na-

Lo sbarco dei Mille a Marsala in una litografia di Matania del 1884

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politani, che costeggiavano apposita-mente in questi dintorni; dopo disbarca-ta la truppa il Generale Garibaldi, il medesimo ordinò che li stessi Vapori fossero affondati. Vennero quindi delle Lance Napolitane difese da Cannoneg-giamento dei legni stessi accui apparte-nevano, e che si trovavano fuori del Porto, e saliti a bordo ai due Vapori, levavan la bandiera, che faceva vedere essere Nazionale e vi han messo quella Napolitana. La notte fu levata l’acqua dai Marinari della stessa flotta napoli-tana, e portato ciascuno dei Vapori chiamato il “Piemonte” e rimase in Porto affondato l’altro il “Lombardo”.

La mattina del dodici, Garibaldi fecemi chiamare per farmi un’atto di conse-gnaria iscritto di detti due Vapori di cui ne le acchiudo Copia informe e quindi verso le ore 8. a.m. tutto l’esercito con il suo Generale partì per l’Interno; frat-tanto partiti questi, e la flotta Napolita-na allontanatasi dal Porto, nacquero subito sul Vapore rimasto dei furti, per cui mi credetti in dovere di farne la pro-testa che trovarà [sic] acchiusa in Co-pia nel presente rapporto.Dall’acchiu-sa Copia di Officio dell’Ajutante di Campo del Generale Garibaldi, e dal Capo dello Stato Maggiore, il primo ha lasciato diversi marinari, e fuochisti che appartenevano all’equipaggio dei due Vapori il Lombardo, ed il Piemonte predati, il secondo lasciò pure allo Spe-dale tre uomini due ammalati, ed un ferito raccomandandosi tanto l’uno, che l’altro di vigilarsi sù di essi. Tutte le cure in questa circostanza mi presi per imbarcarsi il Corpo de’ Marinari, forni-ti la maggior parte di Matricola, e quel-li pure dello Spedale che questa mattina andavano meglio, per mezzo del Vapore Inglese qui ancorato, perche [sic] si credeva di portarli in Malta; furono tutte inutili le preghiere esternate al Comandante dello stesso legno, per levare questi disgraziati da questa, e metterli in luogo di sicurezza, perche [sic] se venisse un Corpo di truppa è certo che fossero in grave pericolo, mentre appariscono illegitimamente [sic] sbarcati [?] Le soccarto pure Co-pia conforme delle rispettive dichiara-

zioni nelle quali osserverà quanto han-no manifestato. Nell’attualità, non a-vendo altri mezzi di farle giungere il presente mio rapporto, essendo chiuse tutte le vie, profitto dello stesso vapore Inglese qui ancorato che parte tantosto per Costì, e ciò per la di Lei Superiore intelligenza, e per mio discarico. M’a-spetto i di Lei saggi schiarimenti cosa dovrei pratticare in quanto concerne le mie attribuzioni per mio regolamento. E con la protesta della mia servitù ho l’onore di essere Il Regio Delegato Consolare di S.M. Sarda Sebastiano Lipari

Quella che segue è la dichiarazione giu-rata dell’equipaggio del Lombardo da-vanti al vice console di Sardegna a Mar-sala. Questa descrive con chiarezza la presa di possesso del vapore e la rotta seguita fino allo sbarco. Dichiarazione del Piroscafo Lombardo Sardo

Marsala li dodici Maggio 180sessanta Innanzi Noi Sebastiano Lipari Regio Delegato Consolare di S.M. Sarda di Marsala, e sue dipendenze, Si sono presentati Francesco Rinforzi dispensiere, Raniero Bonao 2° Fochi-sta, Lorenzo Pelerano Fochista, Luigi de Pasquale Camariere, Dizzio Grami-gnano Fochista, Giovanni Zignaso fo-chista, Vaggi Benedetto Carbonaro, Donaberti Michele Carbonaro, Musto Giovan Battista Marinaro, Bartoletti Giuseppe Giovinotto, Francesco Cattel-lini Carbonaro, Raffaele Ravasetti ma-rinaro, Rossetti Carlo Cammeriere, e Facini Andrea marinaro formante parte dell’Equipaggio del Piroscafo Il Lom-bardo il quale disse che era comandato dal Capitano Andrea d’Odero apparte-nente alla marina mercantile di Genova di proprietà dell’amministrazione Ru-battino dei Vapori Nazionali, e ci hanno richiesto formalmente che io avessi ri-cevuto una di loro dichiarazione relati-va al fatto per il quale essi con il sud-detto Piroscafo che montavano furono

Sebastiano Lipari, console sardo a Marsala

Formo la presente all’oggetto di farle conoscere che il giorno 11. alle ore 12. a.m. approdarono

in questo Porto due Vapori con Bandiera Sarda,

che conducevano il Generale Garibaldi

con il suo esercito da circa mille e quattrocento Soldati Italiani...

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con violenza tolti dal Porto di Genova ove trovavasi ancorato, e furono forzati quindi ad ancorare in questo porto di Marsala. Non volendosi prestare a tale domanda abbiamo fatto rimanere in-nanzi noi uno dei medesimi, e dietroc-ché a nostra dimanda ci ha detto chia-marsi Francesco Rinforzi dispensiere, ci ha riferito dietro il giuramento prestato nelle nostre mani, che il Piroscafo sud-detto Lombardo appartenente alla so-cietà Rubattino di Genova il quale era addetto per viaggi di Livorno, Civita-vecchia, e Napoli, trovasi ancorato nel porto di Genova, nella notte del 5. il Comandante del suddetto Piroscafo era a terra con una parte dell’Equipaggio, ed il dichiarante con i di sopra notati individui si trovavano sul bordo del detto legno, erano le ore 11. di sera quando una quantità di lance, e bar-

chette assalì il Piroscafo suddetto, la gente armata che le montavano salirono sul bordo, e minacciando tutti la vita con le armi che impugnavano, li obbli-garono ad accendere il fuoco, dare mo-vimento alle macchine, e partire tanto-sto, ignorando pur dove dovevano dirig-gersi, lasciato però il porto di Genova il Generale Canibaldi [sic] da quanto intesero era sul Piroscafo il Piemonte, che trovandosi nel detto posto contem-poraneamente al Piroscafo il Lombardo soffrì l’uguale assalto, ordinò di dirig-gere la prora per Talamone in Toscana, dove giunti il giorno sette corrente si fece provvisione di munizione da guer-ra, e da bocca, quindi si approdò a San-to Stefano ove si fece provvista di Car-bone per la macchina, e da Santo Stefa-no per questa ove si giunse circa le ore 12 a.m. del giorno undici corrente, dove

si disbarcarono le persone armate insie-me alle provvisioni da guerra. Quindi ha soggiunto che trovasi qui insieme ad una parte dei suoi compagni tanto dell’uno, che dell’altro equipag-gio senza mezzi di vivere, ed anche in istato a non poter ritornare con gli stes-si Piroscafi, perché uno è stato preso da un Vapore Napolitano, e l’altro trovasi affondato in questo porto. Francesco Rinforzi Continuamente chiamato l’un dopo l’altro i suddetti Raniero Bonao, Loren-zo Pelerano, Luigi de Pasquale, Dizzio Gramignano, Giovanni Zignaso, Vaggi Benedetto, Donaberti Michele, Musto Giovan Battista, Bartoletti Giuseppe, Emmanuele Banchiere [recte: Banche-ro], Francesco Cattellini [recte: Castel-lini], Raffaele Ravasetti, Rossetti Carlo, e Facini Andrea, che formano parte dell’equipaggio del Piroscafo Lombar-do, ed inteseli [sic] separatamente han-no confermato la dichiarazione come sopra fattami da Francesco Rinforzi della quale abbiamo dato a ciascuno corrispondente lettura. Dietro di che si è chiuso il presente verbale firmato dal-li sudetti dichiaranti cioè da quelli che non sono letterati si è fatto il segno del-la croce, e da Noi. Rossetti Carlo = Musto Giovan Battista + Vaggi Benedetto + = Banchiere Em-manuello = Elisio Gramignani = Facini Andrea + = Luigi de Pasquale + = Raf-faele Rivasetti [sic] = Dunaberti Miche-le [sic] = Bartolotti Giuseppe + Gio-vanni Zignasio [sic] + = Raniero Bona-o = Lorenzo Pelerano = Il Regio Delegato Consolare di Sua

Maestà Sarda = Sebastiano Lipari (LS)

Un’analoga dichiarazione viene fatta anche dall’equipaggio del Piemonte. Quella che segue è, invece, la trascrizio-ne della lettera autografa di Garibaldi, riprodotta in questa pagina: Marsala 12 Maggio 1860

Dal Generale Giuseppe Garibaldi al Signor Lipari Sebastiano, Console

Sardo in Marsala Ill.mo Sig. Console Ho l’onore di prevenire a V.S. che i due piroscafi, il Piemonte, ed il Lombardo - di cui mi sono servito per il trasporto

Lettera autografa con la quale Garibaldi consegna al vice console sardo il Piemonte ed il Lombardo.

...erano le ore 11. di sera quando una quantità di lance, e barchette assalì il

Piroscafo suddetto, la gente armata che le montavano salirono sul bordo, e minacciando tutti la vita con le armi

che impugnavano, li obbligarono ad accendere il fuoco, dare movimento

alle macchine, e partire tantosto…

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del corpo Cacciatori delle Alpi sono vapor i sardi, ed appart engono all’amministrazione Rubattino di Geno-va dei Vapori Nazionali. Io consegno a V.S. i suddetti piroscafi acciocché abbia la bontà di farli rimet-tere a tempo dovuto alla società pro-prietaria Con tutta considerazione ho l’onore di professarmi Dev.mo G. Garibaldi

La lettera che segue, oltre a fornire ulte-riori dettagli sullo sbarco, riporta noti-zie su Salemi e sugli scontri di Calatafi-mi: Marsala 16. maggio 1860. Dalla Regia Delegazione Consolare di S.M. Sarda in Marsala all’Ill.mo Sig.r

A. d’Aste, Comandante la R. Pirofre-gata Sarda “Governolo”, Rada di

Palermo Signore Pregiatis.mo Onorato del di lei pregiatis.° foglio del 15 corrente n° 21 vengo ad informarla degli avvenimenti più importanti suc-cessi in questa Piazza, perché la S.V. Ill.ma possa informarne il Governo del Re. Nella mattina del 11. corrente verso le 12. a.m. a vista di due vapori da guerra Inglesi che trovavansi ancorati vicino questo Porto, e la puoca distanza de’ legni da guerra Napoletani che consi-stevano di tre vapori, ed una fregata, li quali bordegiavano [sic] per la crociera in questi mari, mettevan fondo entro il porto due Piroscafi coverti di bandiera Piemontese, ed appena ancorati si diede mano al disbarco di gente d’armi che li montavano, i quali in parte erano emi-grati Siciliani, e la magior [sic] parte erano i così detti Cacciatori delle alpi sotto le armi del General Garibaldi. Il disbarco di queste truppe, e delle prov-visioni da guerra fù eseguito in un bale-no, e di lancio una partita di detti Cac-ciatori entrati in Città al grido di Viva L’Italia Una, e del Re Vittorio Emma-nuele, s’impossessarono della Stazione del Telegrafo Elettrico, ove avendo rin-venuto già spedito un dispaccio, con cui non so da chi, si dava l’avviso dell’av-venuto disbarco, fu imposto all’impie-gato Tecnico di far conoscere all’Auto-rità stessa cui il primo dispaccio era diretto che già i Vapori Napoletani ave-vano avuto il destro di disperdere l e truppe di Garibaldi che tutto era tran-quillo, e quieto; fatto ciò s’impatro-nirono [sic] delle macchine, e resero inoperosa la stazione. Impertanto un’al-

tra partita aveva di già abbattuto il Te-legrafo ad Asta, ed altra era gita nel Percettore erariale, e si fece rendere i valori esistenti con rilasciarne ricevuta in apposito verbale. Domentre questi fatti si consumavano e le truppe di Ga-ribaldi avevano di già invaso l’intiero Paese, i Vapori e la Fregata Napoleta-na, i quali quasi furono presenti al di-sbarco incominciarono un fuoco contro la Città, e contro la moltitudine che stavano [sic] alla spiaggia, puochi furo-no i danni che dal Cannoneggiamento, e dal Bombardamento avvennero, due soli piemontesi furono feriti leggermente, i quali insieme ad un altro naturalmente ammalato trovansi in questa, ed una Casa in Città colpita da una bomba venne fortemente danneggiata. Il Gene-ral Garibaldi allora disponeva l’affondamento de’ due Piroscafi, nomi-nati il Lombardo, ed il Piemonte, e gli riuscì pur bene, ma perché lasciata [sic] senza alcuna guardia furono sul momento preda de’ Soldati Napoletani discesi dal bordo de’ loro legni, i quali tolta la bandiera Piemontese ne inalbe-rono [sic] quella di re Francesco II, e fu allora che una cinquantina di Piemonte-si fecero una scarica sù i [sic] soldati napoletani, i quali ne scanzarono i colpi

per la posizione in cui trovavansi i due piroscafi, lo spavento di questa popola-zione per lo inatteso disbarco arrivò al colmo quando da’ Legni Napoletani si diede mano allo Bombardamento; quin-di non puoche famiglie abbandonavano la Città disperdendosi per le Campa-gne, mentre però le truppe di Garibaldi mantenevano l ’interno del paese l’ordine, e la quiete.

Il General Garibaldi disponeva le sue genti alla partenza per il domani, e con effetto al far del giorno verso le 8. a.m. dopo ch’era provveduto de’ mezzi di trasporto di animali da tiro, e provvisio-ni da bocca prese la volta di Salemi, ove secondo mi si è riferito giungeva verso le ore 6. p.m., ed ove anche come mi si è detto si fermo [sic] sino il giorno di jeri. Egli il Generale Garibaldi volle meco un abboccamento e in tale circostanza mi fece consegna de’ due piroscafi sum-mentovati, e due piemontesi feriti, e

Il General Garibaldi disponeva le sue genti alla partenza per il domani, e

con effetto al far del giorno verso le

8. a.m. dopo ch’era provveduto de’ mezzi di trasporto di animali da tiro,

e provvisioni da bocca

prese la volta di Salemi,

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dell’altro ammalato, non che l’Equi -paggio degli stessi piroscafi, ma domen-tre egli lasciava questa Città uno de [sic] vapori napoletani si prese al ri-morchio il vapore “Il Piemonte” che nella notte era stato vuotato d’acqua, e lo portò via lasciando l’altro che anco-ra trovasi all’imboccatura di questo Porto; jeri però una Fregata, ed un vapore nap.no tentarono di rialzarlo, e non essendovi riusciti si presero secon-do mi si disse per mezzo di questo Capi-tano del Porto quanto poterono ricupe-rare non solo d’oggetti ch’esistevano nel legno, quanto di quelli che n’erano stati involati, e che per le proteste da me dirette alle locali autorità erano state messe [sic] in salvo.

Credo bene anco soggiungerle che una parte de’ marinari degli Equipaggi de’ due Piroscafi, vedendo inutile ogni ten-tativo per ottenere una imbarcazione, si sono diretti a seguir le armi di Garibal-di, altri tre sono partiti questa mattina per l’Inghilterra su di un legno mercan-tile Inglese, le ne rimangono ancora altri cinque per i quali mi sono dato tutta la premura segretamente d’imbar-carli sopra tre bombarde inglesi mer-cantili per Malta, e così potranno rim-patriare, e restano i tre soldati de’ quali sopra ho tenuto discorso. Ecco il tutto degli avvenimenti che pos-sono attirare l’attenzione del Governo del Re di Sardegna (N° Signore) trala-sciando di riferirle tutte altre dicerie da trivio, che tutto che alludono ad avveni-

menti interessanti come di uno scontro che si dice avvenuto tra le truppe di Garibaldi, e le truppe Regie Napoletane fra le campagne di Vita, e Calatafime [sic], pure meritano conferma perché i rapporti che se ne sono fatti non sono uniformi, e sembrano di avere dell’esaggerato [sic]. Siamo a 18. del corrente della mattina, e si conosce con sicurezza che la batta-glia avvenuta tra Vita e Calatafime [sic] ebbe effetto con la perdita numere-vole dalla parte de’ Regii, i quali erano 5/mille, e che gli furono dalle truppe di Garibaldi presi quattro cannoni, e che poi dandosi alla fuga verso Alcamo furono nuovamente aggrediti da altre squadre popolari e li distirparono tutti. Si dice che l’armata di Garibaldi è in-grossata da dieci a quindici mila uomini e marcia alla volta di Palermo. Si vuole ancora che sia stato fatto uno sbarco di emigrati a Girgenti prov.e da Malta.

Mi manca il tempo di potere raggua-gliare al Console di Costì, perché il vapore è sollecito a partire, e perciò prego Ella di voler compiacersi di ren-dergli ostensibile il presente rapporto. Profitto dell’occasione per protestarle la mia servitù, e col piacere di vedermi sempre onorato de’ comandi di V.S. lll.ma, in tutto quello che potrò esser d’utile per queste parti, in servizio del Nostro Augusto Sovrano, ho il bene di essere Il Regio Delegato Consolare

di S.ª M.ª il Re di Sardegna Sebastiano Lipari

P.S. La perdita degl’Italiani ascende a due morti, e quarantanove feriti. Lipari

V. Console Sardo

Natale Musarra

Siamo a 18. del corrente della mattina, e si conosce con sicurezza

che la battaglia avvenuta tra

Vita e Calatafime ebbe effetto con la perdita numerevole

dalla parte de’ Regii, i quali erano

5/mille, e che gli furono dalle truppe di Garibaldi presi quattro cannoni, e che poi dandosi alla fuga verso

Alcamo furono nuovamente aggrediti da altre squadre popolari e

li distirparono tutti.

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Inno di Garibaldi

Si scopron le tombe, si levano i morti i martiri nostri son tutti risorti!

Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma ed il nome d'Italia nel cor:

corriamo, corriamo! Sù, giovani schiere, sù al vento per tutto le nostre bandiere

Sù tutti col ferro, sù tutti col foco, sù tutti col nome d'Italia nel cor.

Va' fuori d'Italia, va' fuori ch'è l'ora! Va' fuori d'Italia, va' fuori o stranier!

La terra dei fiori, dei suoni e dei carmi

ritorni qual'era la terra dell'armi! Di cento catene le avvinser la mano,

ma ancor di Legnano sa i ferri brandir. Bastone tedesco l'Italia non doma,

non crescono al giogo le stirpi di Roma: più Italia non vuole stranieri e tiranni,

già troppi son gli anni che dura il servir.

Va' fuori d'Italia, va' fuori ch'è l'ora! Va' fuori d'Italia, va' fuori o stranier!

Le case d'Italia son fatte per noi, è là sul Danubio la casa de' tuoi;

tu i campi ci guasti, tu il pane c'involi, i nostri figlioli per noi li vogliam.

Son l'Alpi e tre mari d'Italia i confini, col carro di fuoco rompiam gli Appennini: distrutto ogni segno di vecchia frontiera, la nostra bandiera per tutto innalziam.

Va' fuori d'Italia, va' fuori ch'è l'ora! Va' fuori d'Italia, va' fuori o stranier!

Se ancora dell'Alpi tentasser gli spaldi,

il grido d'allarmi darà Garibaldi, e s'arma -allo squillo che vien da Caprera-

dei Mille la schiera che l'Etna assaltò. E dietro alla rossa avanguardia dei bravi

si muovon d'Italia le tende e le navi: già ratto sull'arma del fido guerriero,

l'ardito destriero Vittorio spronò.

Va' fuori d'Italia, va' fuori ch'è l'ora! Va' fuori d'Italia, va' fuori o stranier!

Per sempre è caduto degli empi l'orgoglio

a dir: Viva l'Italia, va il Re in Campidoglio! La Senna e il Tamigi saluta ed onora l'antica signora che torna a regnar.

Contenta del regno, fra l'isole e i monti, soltanto ai tiranni minaccia le fronti: dovunque le genti percota un tiranno,

suoi figli usciranno per terra e per mar!

Va' fuori d'Italia, va' fuori ch'è l'ora! Va' fuori d'Italia, va' fuori o stranier!

Luigi Mercantini (1858)

“ Gloria a Luigi Mercantini! Le parole del suo magico inno furono incise da Garibaldi con la punta della spada liberatrice, consacrate dal sangue di mille giovani cuori nell’ebbrezza delle battaglie, nell'esultanza della vittoria, nel rapimento del sagri ficio supremo per la libertà. I vecchi le ripetono ora col tremito e con le lagrime nella voce; rivivono per esse le ore del nazionale risorgimento. I giovani le ascoltano come voci di giganti riecheggiate da una sfera ormai desert a, ma glorificata perennemente di uno splen-dore immortale. Riaccendete, o giovani d'Italia, gli entusiasmi dei vostri padri; fate il fascio di tutte le vostre energie; pugnate con magnanima costanza contro la bestia trionfante nello stato, nella scuola, nella famiglia; cacciate fuori d'Italia le arpie maledette che tentano oscurare con le immonde ali la luce divina dei vostri nuovi Ideali ! Mario Rapisardi

N el 1907, in occasione del centenario della nascita di Ga-ribaldi, Mario Rapisardi scrive queste righe per le onoranze a Luigi Mercantini. Il poeta catanese vede nel poeta ligure, auto-re dell’Inno di Garibaldi e de La spigolatrice di Sapri, la voce poetica che accompagna il gesto militare, il messaggio di un profeta che annuncia una resurrezione laica. Le tombe che si scoprono, i morti che si levano, i martiri che risorgono, sono i simboli di una palingenesi, di un rinnovamento totale, mate-riale e spirituale della società. Dopo quasi cinquant’anni, Ra-pisardi vedeva già spegnersi quella fiammata che aveva acceso entusiasmi e speranze della generazione del Risorgimento. Ed ecco il suo appello a riaccenderl e, cominciando dalla lotta contro la bestia trionfante nello stato, nella scuola, nella

famiglia. La bestia di cui parla è il clericalismo. Neanche oggi è di fficile, se si vuole, capire chi siano le arpie maledette che tentano oscurare con le immonde ali la luce divina dei vostri

nuovi Ideali ! Il fatto è che si sono moltiplicate… AS

Luigi Mercantini (1821-1872) e la sua famiglia

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L e rivoluzioni le fa il popolo, ma a idearle è sempre chi, essendo riuscito a soddisfare i bisogni primari, può per-mettersi il “ lusso” di pensare. Non è certamente una novità che il movimento antiborbonico, così come quello garibal-dino, risorgimentale, democratico e ri-voluzionario abbia tratto la propria linfa dalla borghesia, se non dalla nobiltà e dal clero. Le ricerche sui singoli perso-naggi, pur se non rappresentano uno spaccato fedele di una societ à e delle sue problematiche, riescono tuttavia ad illuminarne aspetti significativi, addirit-tura esempli ficativi di un modo di pen-sare e di agire. Le notizie che qui si ri -portano si riferiscono alla famiglia Da-miani, una delle più eminenti della città di Marsala. Abele Damiani, nato nel 1835, fu figura di spicco della resistenza antiborbonica nel trapanese. A capo del comitato segreto di Marsala, dovette fuggire a Malta dopo l’insurrezione del 7 aprile 1860. Sbarcato a Pozzallo il 1° giugno successivo con la spedizione di Nicola Fabri zi, fu maggiore nell’eserci -to garibaldino. Dimessosi volontaria-mente dopo il Plebiscito, iniziò una fol -gorante carriera politica che lo vide as-sessore e sindaco di Marsala nel 1861, deputato nel 1865, commissario della Giunta per l’inchiesta agraria nel 1881, sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri nel 1889, vi ce presidente della

Camera nel 1893, senatore del Regno nel 1898. Fu anche alto dignitario mas-sonico. Morì a Marsal a il 20 marzo 1905. Suo padre Giuseppe, nato nel 1798, discendente da un patrizio geno-vese, cominciò la sua attività politica nei primi anni ’20, prima come Decurio-ne (membro dell'amministrazione co-munale) e poi, per tre volte, come Con-

sigliere Provinciale, occupandosi princi -palmente di educazione. Sostenne l’impianto di scuole lancasteriane (in queste scuole si attuava l’insegnamento reciproco fra gli alunni. Il più bravo in ogni materia insegnava agli altri, e così un solo maestro poteva curare vari e classi contemporaneamente), propugnò l’istruzione elementare alle fanciulle, nonostante le resistenze e lo scandalo che questo suscitava nei benpensanti, si occupò della Biblioteca Comunale spen-dendo del proprio per abbellirla e dotar-la di volumi; infine ri fondò e ri formò l’Accademia Lilibetana di scienze e

lettere, dandole un carattere più sci enti-fi co e popolare rispetto al passato. All’Accademia associò tutti gli ingegni locali, a prescindere dal sesso, dalla condizione soci ale e dall’età. Vi entra-rono così le prime donne, tra cui la poe-tessa Rosaria (Sara) Giaconia; poeti dialettali e contadini, come i notissimi Baldassare Li Vigni e Filippo Zizzo; giovanissimi, come lo stesso Abele Da-miani, non ancora maggiorenne. Giu-seppe Damiani corrispondeva all’epoca con numerose istituzioni culturali nazio-nali ed estere; era socio dell’Accademia Peloritana, dell’Institut Homéopatique di Parigi, dell’Accademia Zelant ea, dell’Accademia Pergusea e della Socie-tà Economica di Trapani; scriveva di filosofia (definendosi discepolo di Kant), di religione (criticava l’istituzio-ne chiesastica ed ebbe una feroce pole-mica con i gesuiti), di economia (si bat -teva indi fferentemente contro i dazi e contro la crittogama, malattia della vite) e statistica (del giugno 1853 è un suo importante studio sulle Produzioni del territorio marsalese). Conosceva vari e lingue europee e parlava correttamente il latino (lingua nella quale scriveva l e sue prolusioni per l’Accademia Lilibeta-na), il greco e l’inglese. Un intellettuale di spessore, insomma, che dai figli pre-tendeva il massimo impegno nello stu-dio. E difatti, non appena ebbero com-piuti 9 anni, li mandò a studiare fuori da

Giuseppe Damiani corrispondeva all’epoca con numerose istituzioni

culturali nazionali ed estere;

era socio dell’Accademia Peloritana, dell’Institut Homéopatique di Parigi,

dell’Accademia Zelantea,

dell’Accademia Pergusea e della Società Economica di Trapani;

scriveva di filosofia, di religione, di economia e statistica

Una famiglia di rivoluzionari vista da vicino:

i Damiani di Marsala:

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Marsala: il primo, Antonino, a Malta; il secondo, Abele, al Seminario di Mazara e la terza, Angelina, nell’esimio istituto della Signora Giulia Scalia a Palermo. Ad Angelina, la cocca di famiglia, e alle fanciulle in genere, dedicò questo elen-co di precetti, in 14 punti, che ci è giun-to in bozze. Questi moniti ci dimostrano che essere membri di prestigiose acca-demie, conoscere lingue straniere ed avere convinzioni rivoluzionarie non sono suffi cienti vaccini contro il pregiu-dizio sessista:

Mie Care Fanciulle 1 Adorate Iddio, onorate i Parenti, ed ubbi-dite alle leggi. 2 Voi siete deboli per condizione, e per età e temete quindi, io vi assicuro che la Provvi-denza ha messo nella timidità la salvezza delle donne. 3 Voi non potete esser felici senza la consi-derazione degli altri, ora tanto i buoni che i cattivi non rispettano che le donne onorate; siate quindi persuase che nel buon nome è stabilita la prima risorsa vostra. 4 Considerate che è una disgrazia il non essere istruite, e molto più il non saper leg-gere e scrivere, ma è principio sicuro di una estrema calamità il non essere economiche ed assintate in casa. 5 Siate modeste sempre e rassettate, e parti-colarmente con i vostri genitori, voi sarete per tal modo sommamente amate ed avrete fatto un gran corso per la vostra felicità. 6 Siate indulgenti con tutte le persone della vostra casa, e siatelo poi amorosamente con i vostri fratelli, e colle vostre sorelle. 7 Il bene della patria sta connesso in gran parte al vostro costume, ed alle pratiche vostre, adempite quindi a quanto da voi si aspetta per la pubblica fortuna. 8 Voi siete insufficienti a conoscere i perico-li che vi circondano, ubbidite quindi rigoro-samente coloro ai quali la Provvidenza vi ha confidate. 9 Vi raccomando temperanza nel mangiare e nel bere, la smodatezza, mie amate ragazze, guasta il costume e sollecita la morte. 10 Pensate abbastanza pria di parlare e di agire, voi scanserete così il pubblico di-sprezzo e i dolori del pentimento 11 Guardatevi dallo riso scomposto, e dal parlare audace, il primo è delle sciocche, e l’altro delle pazze. 12 Siate rette, aderenti per tutto quanto senza affettazione corrisponde al volere di Dio al bene della vostra salute e vi fa trova-re il buono incontro nelle creature vostre compagne. 13 Vi raccomando di misurare col tempo le vostre occupazioni, questo è il modo di non mancare in parte alcuna ai proprii doveri. 14 Pensate infine che la vita è preziosa e deve custodirsi con ogni stento, ma dessa è peggiore della morte se non si gode vivendo la grazia di Dio, e la stima de’ buoni. Di Giacoma Curatulo, la madre di Abele Damiani, sappiamo ben poco, oltre al fatto che era ottima moglie, e madre

eloquente, gioconda, e costante amica, irreprensibile cittadina, buona, bella, elegante, che aveva una trentina d’anni al momento delle nozze e una vedovan-za alle spalle, che condivise le idee del marito, piuttosto costose, in fatto di edu-cazione, e che morì improvvisamente l’8 ottobre del 1851. Giuseppe Damiani la raggiunse, dopo una lunga malattia

polmonare di cui nascose la gravità ai figli, che si trovavano lontani da casa, il 30 gennaio 1855, con universale ulula-to. Fece però in tempo a patire l’amarezza del genitore che vede i pro-pri figli incarcerati. Dalle sue lettere risulta che condividesse le idee dei figli. Né avrebbe potuto essere altrimenti dato che egli stesso, nel ’48, aveva rivestito importanti cariche nel governo rivolu-zionario di Marsal a: membro dapprima del comitato generale, presidente poi del comitato delle finanze, il principale tra quelli in cui era suddivisa l’amministra-zione. Era poi stato lui ad avviarli alle

idee liberali con l’educazione impartita, le scuole frequentate, i libri consigliati, ecc. Il più precoce tra i giovani Damiani in fatto di liberalismo e anche oltre fu Antonino. Nato a Marsala nel 1833, Antonino Damiani aveva studiato a Malta, in un collegio inglese, ed era tornato in patria allo scoccare della rivo-luzione del ‘48. Portava con sé la tradu-

zione di un classico del pensiero liberta-rio d’ogni tempo, il Discorso sulla ser-vitù volontaria di Étienne de la Boétie, che fino ad allora era stato tradotto, per quanto si sa, soltanto un’altra volta, a Napoli in età giacobina. Il primogenito dei Damiani sottopose questo testo all’attenzione di un amico del padre, Pietro Lanza principe di Scordia e di Butera, celebre letterato, membro auto-revole del governo rivoluzionario in cui ricopriva la cari ca di ministro dell’istru-zione e dei lavori pubblici. Non risulta che il lavoro di Antonino Damiani si a mai stato pubblicato, in opuscolo o in

Abele Damiani (il primo a sinistra) con due patrioti

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rivista. Ma le simpatie politiche che rivela indicano chiaramente per qual e via egli si accostò alla cospirazione anti-borbonica, nella cui rete finì ben presto impigliato anche il fratello Abele. Quest’ultimo stava rapidamente accultu-randosi presso il seminario arcivescovi -le di Mazara, ricettacolo e centro di di f-fusione delle idee liberali, accudito da professori del calibro di un Nicola Bian-co e di un Simone Corleo, i quali desi-deravano riforme politiche, e davano ai giovani libertà di pensare. In un registro di polizia degli anni 1850-1851 i due fratelli risultano sorvegliati speci ali. Di lì a poco, come racconterà Abele, avreb-bero subito i primi provvedimenti re-strittivi. Erano infatti rimasti coinvolti nelle indagini relative a una vasta cospi-razione antiborbonica che avevano avu-to inizio proprio a Marsala alla fine del ‘49. Abele Damiani raggiunse il fratello Antonino e la sorella Angelina a Paler-mo nel 1852, con l’intenzione di studia-re in quella università. Ben poco è dato conoscere circa l’ambiente, che s’indo-vina culturalmente e politicamente viva-ce, che frequentarono, e delle gazzette letterari e a cui collaborarono: Il Segesta,

La Lira, il Mondo Comico, Il Portafo-glio. Solo un articolo di Abele è rimasto conservato tra le carte e i giornali del suo archivio. S’intitola Scienza dei fatti ed è apparso sul Segesta, giornale paler-mitano del 1853. Così esordisce: “Noi siamo in gran parte quel che gli avi ci fecero; scriveva uno storico Ita-liano, la ragione del presente stà nel passato, e chi a quello non riguarda, non potrà ordinare che Costituzioni inesperte; ed io, più direi, non potrà che scavare un abisso alla Umanità, ove con lei dovranno rovinare tutte le invisi-bili reliquie che spandono la vita della società vigente, e che non usate coll’occhio della ragione derivata da una analisi positiva su di tutte le traccie percorse dagli uomini, dovranno perde-re i futuri” È un procl ama politico, mascherato da rifl essione storico-filosofi ca, che risent e del dibattito in corso all’interno del mo-vimento antiborbonico palermitano. Se il giovane Abele si esprimeva solita-mente in quel modo, l’apparizione di ogni suo articolo doveva essere un av-venimento. Il che spiegherebbe il ruolo

autorevole che, nonostante la giovane età, gli toccherà assumere tra i cospira-tori al suo rientro a Marsala. Questo avverrà nell’estate del 1854, per la ne-cessità di aiutare il padre malato nella conduzione del vigneto che la famiglia possedeva. Al tempo stesso, però, Abele dovrà intervenire a sbrogliare una ma-tassa di cui ci sfuggono ancora i contor-ni. Sembra che l’ispettore di polizia, che dal 1852 aveva stabile sede presso il Giudicato Regio con lo speci fico incari -co di sorvegliare i patrioti marsalesi, si fosse invaghito della bella Angelina. Giovanni Salemi, questo il nome dell’Ispettore, forte della sua autorità, era giunto a ricattare l a famiglia Damia-ni minacciando gravi conseguenze se non gli fosse stata concessa la mano della ragazza. Fatto sta che nei mesi ed anni seguenti i Damiani attribuirono al -l’ispettore le persecuzioni che, per ricat -to o per vendetta, colpirono i due fratel -li. Vi fu in realtà, nell’ottobre del 1854, un’altra grossa ondata di arresti, dopo quella del 1850-51, scatenat a in part e dal rinvenimento addosso a Vincenzo Patti, un corriere inviato da Malta e tro-vato misteriosamente ucciso, di alcune lettere compromettenti. Ne fece le spese anche Antonino Damiani che fu tratte-nuto a Palermo a domicilio forzoso, nonostante una brutta malattia ai polmo-ni gli provocasse continue emottisi. A-bele, contrariamente a quanto si temeva, non venne inquietato. Antonino potrà rientrare a Marsala solo in occasione della morte del padre. La malattia non impedì che venisse nuovamente arresta-to, ma insieme al fratello, il 10 dicembre 1856, su denuncia anonima per la fallita insurrezione promossa da Francesco Bentivegna nei comuni di Villafrati, Ventimiglia e Ciminna. Mentre Antoni-no veniva trasport ato all’Ospedale Civi-co, dove rimase vigilato da due guardi e per alcuni mesi, Abele finì al forte della Colombaja di Trapani, carcere duro, in attesa che venisse istruito il processo. Sarà scarcerato il 20 febbraio 1857. Un anno dopo moriva il frat ello Antonino. Anche la sorella Angelina, prima di essere prostrata dalla prematura mort e di una figlia, si era distinta, tra le signo-re patri zie marsalesi, per la sua dedizio-ne alla causa garibaldina e per l’infatua-zione nutrita nei confronti della persona di Garibaldi. Notevole impegno aveva dimostrato nella raccolta di fondi desti-nati all’esercito garibaldino, sia durant e la campagna del ’60, che per quella d’Aspromonte.

Manuel Atrarsa Foto di Garibaldi con dedica ad Abele Damiani

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L ’impresa dei Mille è una delle im-prese più strabilianti della storia d’Italia. Questo spiega l’alone di mistero che da sempre l’ha avvolta. I borbonici, scon-fitti, furono i primi ad avanzare e di f-fondere dubbi e spiegazioni fant asiose sulla “ regolarità” dell’impresa, riprese da più parti ai giorni nostri. Va precisa-to, però, che la stragrande parte di questi dubbi e ricostruzioni, anche se avvalora-te da studiosi di fama, non sono fondate sulla conoscenza puntuale dei fatti, così come emergono dalle fonti archivistiche e dalla sterminata pubblicistica esisten-te. Sette segrete (massoneria in primo luogo), finanziamenti improbabili, aiuto di potenze estere, tradimenti di generali, ed altre cause ancora sono ipotesi tipi-che, che abbondano ancora oggi nei libri della part e sconfitta e dei loro emuli. In realtà tutte queste cose ebbero una parte, come in qualunque impresa militare di rilievo nella storia umana, ma in misura molto ridotta rispetto a quanto si vuole far credere. Su queste circostanze, alcu-ne delle quali non furono mai negat e dai protagonisti, esistono, da sempre, docu-menti pubblici. Tra i garibaldini, ad esempio, vi erano certamente dei mas-soni, ma il loro numero era estremamen-te esiguo. La massoneria in Italia, e an-cor meno in Sicilia, non era ben svilup-pata, e anche quando lo sarà, negli anni seguenti, si troverà divisa e in conflitto perenne al suo interno. Lo stesso discor-so vale per le massonerie est ere; inoltre il carattere della massoneria solo in mi-sura ridotta poteva confondersi con quella di un gruppo di pressione, coe-rente e motivato su obbiettivi politici comuni. Che il governo di Cavour ap-poggiasse l’impresa, nei limiti consenti-tigli dalla diplomazia internazionale e dalla di ffidenza verso l’elemento demo-

cratico, è un fatto ormai acquisito, così come il tornaconto che ne ricavò, ben superiore a quanto esso stesso prevede-va e che l’incapacità politica, la litigio-sità e gli ostacoli incontrati dalle altre forze in campo gli consentirono di rea-lizzare. Per quel che riguarda il presunto aiuto degli inglesi basterà dire che non è mai stato provato; anzi furono essi stessi ad accusare i comandanti borbonici di imperizia. Molto si è detto, poi, sui fi-nanziamenti dell’impresa. A Garibaldi ne pervennero da tutto il mondo, ma ben pochi di essi furono utilizzabili fino alla conquista di Palermo, dopo l a qual e Garibaldi poté accedere alle casse del Banco di Sicilia (ad esclusione dei de-positi dei privati cittadini), che gli con-sentirono l’acquisto di armi, “ vapori”, ecc. senza dover “ dipendere” da qualsi-asi generosa offerta est erna. Il governo di Torino, è da sempre noto, indennizzò lautamente la societ à di navigazione Rubattino della perdita del Piemonte, del Lombardo e del Torino, ma solo ad impresa finita. Rimane ancora contro-verso il ruolo dello stesso Rubattino e del suo procuratore ed amministratore Fauché nella concessione dei vapori, in cosa questa consistesse e con quale cor-rispettivo, dato che tra i due scoppiò una polemica, che durò anni, con conse-guente licenziamento del Fauché da amministratore delegato della naviga-zione generale italiana. Riguardo al tra-dimento dei generali e alla diserzione delle truppe nemiche, questo è uno dei primari obbiettivi di un esercito combat-tente. Garibaldi, è noto, non risparmiò i proclami ai fratelli napoletani (e ai sici -liani) che combattevano nelle file dei borboni. Sia per la sua capacità di con-vincimento, sia per le tradizioni demo-cratiche di parte di quell’esercito, e in particolare, degli uffi ciali, sia per il cli-

ma di smobilitazione già presente nelle retrovie borboniche, egli conseguì sicu-ramente qualche successo. Tuttavia una parte di quei soldati si comportarono ben al di là del loro dovere, e le batta-glie di Sicilia (ferma restando l’irrever-sibilità della caduta del regime di Napo-li) furono decise sul campo a costo di numerose perdite umane dall’una e dall’altra parte. Gli errori tattici e strate-gici non mancarono né dall’una né dall’altra parte. Gli esempi portati in-nanzi per sminuire il valore di Garibal-di, dei garibaldini, delle squadriglie e dei resistenti siciliani, e svalutare quindi la loro causa ideale, i cui esiti definitivi essi non potevano conoscere, sembrano avere un’importanza appena marginal e nell’economia complessiva degli eventi. In ogni caso i singoli fattori non sono stati tali da poter esercitare un’influenza determinante sulle battaglie, sulle fortu-ne, sulle decisioni principali dei prota-gonisti, e infine sulla simpatia genera-lizzata con cui le popolazioni accolsero i liberatori e parteciparono all’insurre-zione in tutta l’isola. Non sta a noi spie-gare qui come i tempi della diplomazia, della politica nazionale e del consenso popolare, fossero maturi, e come l a di-nastia borbonica, da tutti i commentatori dell’epoca – anche quelli della stessa parte borbonica – fosse data per spac-ciata. Queste poche righe rappresentano un tentativo per riportare a più giuste proporzioni i fattori “ misteriosi” del successo di Garibaldi in Sicilia. Che d’altronde non di un vero e proprio suc-cesso si sia trattato … Naturalmente, nel presupposto che vi sia buona fede, che i dati siano reali e non inventati di sana pianta, che la documentazione si a disponibile e ampiamente diffusa.

Mara Saturnale

I mille misteri dei Mille

Presa di Palermo a Porta Termini - Litografia Rossetti, Milano

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N el linguaggio pittorico sono stati ideati speci fici repertori d’immagine, chiamati generi iconografici. Ogni ge-nere iconografico propone una tematica precisa e nasce dalle esigenze comuni-cative propri e dell’epoca stori ca che lo ha generato. Nel religiosissimo Medioe-vo, ad esempio, si di ffonde il genere della Natività; nell’Ottocento si afferma il tema storico social e, tra Otto e Nove-cento, con gli impressionisti, interessati ai fenomeni della luce e dei colori, pre-domina il paesaggio. Il ritratto è, forse, tra i generi iconografi ci, il più antico. Nelle città della valle dell’Indo, nell’an-tico Egitto, presso i greci e poi i romani, era un lusso riservato ad imperatori, nobili e condottieri famosi. Nel Quattro-cento il genere del ritratto si diffonde presso la nascente ricca borghesia. Il ritratto, allora, diventa lo status symbol del potere borghese.

I ritratti, volutamente di piccolo forma-to, potevano essere portati in viaggio, anche per combinare matrimoni tra i rampolli delle ri cche famiglie. La fun-zione preval ente del ritratto, in quanto linguaggio visivo, era ed è di natura esortativa, perché la comunicazione è centrat a sul destinatario, su colui che osserva, allo scopo di creare suggestioni influenzando scelte o idee sul soggetto ritratto. Se è nostra intenzione compiere un’analisi dettagliata di un’opera visiva, non possiamo prescindere dall’indivi-duare l’emittente (l’artista), il destinata-rio dell’opera, il messaggio, il codice usato (fotografi a, pittura, cinema) e il contesto storico e social e che l’ha pro-dotta. Nell’arte esistono figure leggen-darie che meritano un’analisi attenta e dettagliata per quello che ancora oggi continuano a rappresentare. Il mito di Garibaldi, ad esempio, è stato alimenta-to dagli innumerevoli ritratti, molti da lui stesso voluti, e dalle descrizioni ro-mantiche che ne sono state fatte dai suoi molti ammiratori, fra i quali Alessandro Dumas. Il personaggio del ritratto, si sa, deve essere idealizzato, ed il fisico deve corrispondere al ruolo rivestito. Garibal-di, nei ritratti, è rappresentato con gli occhi azzurri tendenti al viola, di media statura, ben costruito, con larghe spalle e petto quadrato. Nella realtà Garibaldi aveva gli occhi castani ed era piuttosto basso; fin da giovane, inoltre, soffriva di terribili reumatismi. In moltissime abita-zioni di proletari, borghesi e nobili “illuminati” il ritratto dell’eroe figurava accanto a quelli di famiglia, accostato talvolta alle immagini del santo protet-tore. Il mercato, naturalmente, lo adottò subito come marchio commercial e di sicuro successo; così le botteghe hanno avuto in vetrina scatolette di tonno, mar-sala, sigari, paste alimentari, caffè, mar-mellate; oltre a trattorie, alberghi e per-

sino portaerei! Per analizzare i ritratti che sono riportati nel testo seguiremo tre livelli tassonomici d’indagine: l’iconico, in cui identificheremo le im-magini; l’iconografico, in cui le imma-gini prenderanno signi ficato attraverso le linee, le forme, i colori, i simboli; l’iconologico, in cui identifi cheremo il rapporto tra l’opera e il contesto socio-culturale, determinante per il modo in cui l’artista si serve del codice visivo.

Al primo livello d’indagine, quello ico-nico, cogliamo il punto di vista semanti-co, cioè il rapporto tra il significante e il significato, ossia tra l’immagine rappre-sentata e il signi ficato o contenuto as -sunto. Il ritratto di Garibaldi rimanda all’eroe che combatte per l a libertà. Nei ritratti oggetto della nostra analisi ci sono pochi elementi semantici, ma for-temente comunicativi. Gli elementi se-mantici sono segni distintivi particolari che ci aiutano a comprendere il messag-gio dell’opera pittorica e si distinguono in denotativi e connotativi. I segni deno-tativi si riferiscono all’abbigliamento, ai colori, all’espressione del volto, al ta-glio compositivo, al rapporto figura-sfondo. I segni connotativi sono i con-cetti o contenuti comunicati attraverso i segni denotativi, quali il ruolo e l’atti-vità del soggetto, l’appartenenza alla

Miti d’arte

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massoneria, l’epoca storica, il contesto socio-culturale, il patriottismo, la liber-tà. Il primo segno denotativo evidente nei ritratti di Garibaldi è l’espressione del volto, tutt’altro che affabile, con uno sguardo penetrant e che incute rispetto e timore. L’eroe è sempre in uni forme garibaldina (segno denotativo), perché egli è il ruolo che ricopre (segno conno-tativo). Dietro al personaggio c’è sem-pre un fondo chiaro che serve a far risal -tare i colori accesi dell’uniforme: un paio di pantaloni blu e una camicia ros -sa. I pantaloni di tela blu di Genova, gli attuali blue jeans (segno denotativo), poveri ma resistenti, erano in uso tra i marinai e furono indossati dall’Eroe dei due mondi durante l’epopea dei Mille in Sicilia. Al colore della camicia garibal -dina rosso accesa (segno denotativo), scelto da Garibaldi per le divise dei suoi soldati, sono da sempre attribuite valen-

ze di coraggio e sacri ficio (segno con-notativo), Si è saputo poi che la scelta fu casual e: quella tela rossa era una par-tita di stoffa a buon mercato, comprat a dall’eroe a Montevideo e destinata in origine alle divise dei macellai di Bue-nos Aires. Ma a quel colore s’ispirò la povera gen-te per rendere important e e ricco di sim-boli persino l'inno di Garibaldi, un piat-to livornese realizzato con gli avanzi del giorno prima, utilizzando la rossa con-serva di pomodoro. Mai l’eroe, legato ai valori d’uguaglianza social e, avrebbe indossato un’uniforme borghese. La camicia rossa, quindi, diventa segno connotativo dell’Eroe dei due mondi. Mito che nasce quando Garibaldi, a capo di un gruppo di marinai d’origine prevalent emente italiana, combatte con valore per di fendere l’Uruguay nel con-flitto contro l’Argentina. La storiografi a uffi ciale e il linguaggio pittorico ci han-no trasmesso di Garibaldi la visione eroica di un uomo animato dall’ideale forse più alto, quello della libert à dell’uomo contro ogni forma di sopraf-fazione; un eroe coraggioso, capace di rischiare la propria vita. Si è tentato di denigrare la figura di Garibaldi perché corsaro e spesso autore di atti di violen-za, ma il mito di Garibaldi è talmente radicato nella storia italiana, che nean-che la storiografia negativa, non ufficia-le, è riuscito a scal fi rlo. L’opera d’arte, per essere pienamente compresa, deve essere rapportata al contesto storico che l’ha prodotta, attraverso un’indagine di tipo iconologico. Nell’Ottocento non si era ancora radi cata una mentalità paci fi -sta e antimilitarista: un uomo, per essere tale, doveva saper usare bene un’arma e si dice che Garibaldi abbia detto ad Ani-ta: “Tu dilli alle donne italiane, che disprezzino gli italiani codardi, gl’italiani sbigottiti e che riserbino i loro baci per i valorosi che saranno redimere la nostra terra”. Per Garibaldi la guerra era importante quanto la politi-ca o vi era strettamente connessa. In essa aveva trovato una causa nella qual e credeva e per la quale valeva di battersi. Diceva di sé, scrivendo ad un amico: “ Io son fatto per romper i “coglioni” a mezza umanità; e l’ho giurato; sì! Ho giurato per Cristo! Di consacrare la mia vita all’altrui perturbazione….”. Si legge ancora nelle sue Memorie: “ certo non provò tanta soddisfazione Colombo nella scoperta dell’America come ne provai io al ritrovare chi si occupasse della redenzione patria”. Quel che oggi rimane nel nostro immaginario, lo di-mostrano le innumerevoli mostre a lui dedicate, è il Garibaldi romantico, av-

venturoso, amante della purezza e dell’etica della politica, mitico Liberta-dor in America Latina e sostenitore in patria degli ideali del Risorgimento, in poche parole un mito. Un mito che è ritratto in solitudine, assorto negli alti pensieri che possono balenare nella testa di un Padre della Patri a, ma che ha, im-mancabilmente, la mano saldamente appoggiata alla spada. Se Giuseppe Mazzini il binomio Pensiero e Azione lo ha teorizzato, questi quadri ci di cono che un altro Giuseppe, Garibaldi, lo ha reso finalmente concreto. Lo sfondo, sia esso un porto, un’ansa di fiume, un oriz-zonte o un fondale azzurrognolo, comu-nica l’idea che l’Eroe si trova in quel punto solo per caso, che è in procinto di partire per altri e sconosciuti approdi, che a lui si addicono non le poltrone e le scrivanie dei burocrati, ma gli intermi-nati spazi che il pensiero disegna per l’avventura umana. E questo spieghe-rebbe il fatale innamoramento che il Generale suscita in ragazzi e giovani . Stefania Lucia Zammataro

Sebastiano Melchiorre Fanelli, 1866

Silvestro Lega, 1861

Gerolamo Induno, 1861

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A nche di fronte agli eventi più com-plessi della “ grande storia” allo studente più restio alla memorizzazione di date e nomi può sembrare interessant e scoprire i volti, leggere i pensieri, sondare le emozioni di chi quegli eventi li ha vis-suti. Può accadere, allora, che dalle pa-gine di un libro compaiano all’improv-viso 1089 uomini, per lo più giovanissi-mi, che 150 anni fa salparono da Quarto per giungere in Sicilia, inseguendo l’idea di un’Italia unita, guidati da un uomo dai contorni leggendari, Giuseppe Garibaldi. Qualcuno di loro consegnò alla letteratura il ri cordo di quell’espe-rienza. Certo, non si trattò quasi mai di racconti spontanei, di “ appunti di viag-gio” o di impressioni estemporanee, ma piuttosto di narrazioni meditate, non sempre prive di retorica e spesso finaliz-zate ad esaltare in maniera acritica l’impresa compiuta. Ciò non toglie, tuttavia, che tra le righe di queste opere, spesso troppo sbrigativamente liquidate nella sezione “ memorialistica” dei ma-nuali scolastici, si conservi il sapore di sensazioni genuine, di ideali giovanili, di ansie, paure e convinzioni che anima-rono la “ spedizione dei Mille”. Capola-voro di questo genere minore è conside-rato “ Da Quarto al Volturno” scritto da Cesare Abba, uno dei Mille. Aveva ven-

tuno anni il giovane Cesare, quando dal suo paesino ligure si recò a Genova per imbarcarsi sul “ Lombardo”, il piroscafo che insieme con il “ Piemonte” salpò nella notte tra il 5 e il 6 maggio dallo scoglio di Quarto. Dalle parole di Cesa-re Abba si percepisce l’entusiasmo di chi si accingeva a compiere l’impresa: “ Garibaldi non lascierà la Sicilia senza aiuto. I più generosi hanno indovinato.

Garibaldi partirà, ed io sarò nel nume-ro dei fortunati che lo seguiranno” e si evince la composizione sociale, l’età e la provenienza dei garibaldini: “Si odono tutti i dialetti dell'alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più. All'aspetto, ai modi e anche ai discorsi la maggior parte sono gente colta. Vi sono alcuni che indossano divise da soldato: in generale veggo faccie fresche, capelli biondi o neri, gioventù e vigore. Teste grigie ve ne sono parecchie; ne vidi anche cinque o sei affatto canute; ho notato sin da sta-mane qualche mutilato. Certo sono vec-chi patriotti, stati a tutti i moti da trent'anni in qua (…) I siciliani a bordo erano in quarantacinque; novecento e più erano lombardi, veneti, liguri e to-scani. Professionisti e intellettuali in gran parte, il resto operai e artigiani”. Cesare Abba prosegue raccontando giorno per giorno il viaggio verso la Sicilia. Ma il suo non voleva essere un semplice diario. Aveva aspirazioni lette-rarie, il giovane Cesare, e per questo lavorò alla sua opera per più di venti anni, limando e perfezionando forma e contenuti. L’operazione di riscrittura tolse probabilmente freschezza e spon-

Giuseppe Cesare Abba:

da Quarto al Volturno tra memoria e letteratura

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taneità alla narrazione, ma può aver del tutto oscurato lo spirito con cui l’autore salì su quella nave? Quello spirito per cui l’impresa dei Mille fu percepita per molti anni come potenzialmente “ rivoluzionaria”? Forse in parte. Ci piace immaginare, tuttavia, che gli occhi con cui egli guar-dò quella terra da “ liberare”, ignota e temuta, fossero ancora pieni di immagi-ni e sensazioni quando descrisse il suo arrivo in Sicilia: “La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell'azzurro tra ma-re e cielo, ma era l'isola santa! (…). Come si conoscono gli esuli siciliani! Eccoli là a prora tutti affollati. In que-sto momento non vivono che cogli oc-chi. Saranno una ventina, di tutte le età. (…)Eccola lì Marsala, le sue mura, le sue case bianche, il verde de' suoi giar-dini, il bel declivio che ha innanzi. Nel porto poco naviglio; una nave da guer-ra sta alla bocca e si è tutta pavesata.” e il suo ingresso a Catania: “Credeva d'entrare in una città di Ci-clopi, ma appena oltre la porta minac-ciosa per i massi di cui è formata, ecco la via lunga fino al mare, ampia, lavata, fresca come vi dovesse passare la pro-cessione del Corpus Domini. Eravamo un drappello che precedemmo la briga-ta e i primi fiori gli avemmo noi. In piazza dell'Elefante una sentinella chia-mò la guardia, dieci o dodici giovinotti balzarono a schierarsi, presentarono l'armi facendo le faccie fiere. Sono gen-te del paese intorno, raccolta da Nicola Fabrizi.(…) Ho bell'e visto; questi per noi sono gli ozi di Capua, Catania ha dei profumi che addormentano. Siede come Venere nella conchiglia, spossata dal godimento d'un ci elo, d'una campa-gna, d'un mare, che sembrano fondersi insieme in una sola vita per farle deli-zia. Si sente una soavità d'aura anacre-ontica, su, vino e rose! Lampeggiano gli occhi delle donne uscenti dai templi come Dee, colle vesti bianche, i manti neri di seta fluttuanti dalle trecce per l e spalle. E noi guardiamo, noi beviamo l'incanto ammirando. Più meditata, e diremmo oggi politica-mente scorretta, è invece l a frettolosa trattazione di alcuni avvenimenti incre-sciosi, che segnarono la svolta antide-mocratica di un movimento, quello gari-baldino, che aveva fatto sognare ai con-tadini siciliani una nuova società, più giusta e più equa. Così, infatti, Cesare Abba rapidamente liquida la vicenda di

Bronte e degli altri paesini etnei in cui per un attimo si era sognata la rivoluzio-ne: “ Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! Mai niuno osò più muoversi . Sia pur lontano quanto ci porterà la guerra, il terrore di rivederlo nella sua collera[...] basterà a tenere quieta la gente dell’Etna”.

La mano possente è quella di Nino Bi-xio, plenipotenziario generale dell’eser-cito di Garibaldi, che ordinò la repres -sione violenta della rivolta di Bronte. Nel paesino etneo, infatti, le proteste dei contadini in sostegno della riforma agra-ria proposta dal liberale Nicola Lombar-do, furono sedate nel sangue. Con un processo sommario cinque rivoltosi, tra cui lo stesso Nicola Lombardo, che ave-va avuto la colpa di associare alla libe-razione della Sicilia dal giogo borbonico un ideale di giustizia sociale, furono condannati a morte, pur non essendo responsabili delle violenze avvenute durante gli scontri. Stridono le parole di Cesare Abba quan-do confrontat e con l e urla incredule di un contadino, immaginate da Verga (che certo un rivoluzionario non era!) a conclusione della novella “ Libertà”: “ Dove mi conducete? in gal era? O per-ché? Non mi è toccato neppure un pal -mo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà!”. Sulle speranze tradite dei democratici siciliani e della classe contadina, Cesare Abba tace. Nessuna ri flessione critica, dunque, sul corso che l’impresa garibal -dina prese, sui compromessi raggiunti con i grandi propri etari, sulla rivoluzio-ne “tradita”, per dirla con Gramsci, sa-cri ficata sull’altare della real politique da chi non volle raccogliere le istanze dei contadini e avviare una ri forma a-graria che avrebbe consentito il supera-mento dell’arretratezza economica del

Meridione. Un altro garibaldino, Ippolito Nievo, era stato capace di raccontare in uno splen-dido romanzo, “ Le confessioni di un Italiano”, un’epoca di grandi ideali e di sottolineare l’importanza di un’Italia unita, senza rinunciare però a valutare la situazione italiana con uno sguardo cri-tico e a individuare i problemi che il Risorgimento doveva affrontare. Anche lui lasciò una cronaca della spedizione in Sicilia, nulla di più di una serie di note che culminavano nella conquista di Palermo. La narrazione di Cesare Abba rimane quindi, per il lettore di oggi, l’unica che con tutti i suoi limiti ci racconta l’impresa dei Mille attraverso le voci dei suoi protagonisti, che cerca di tra-smetterci lo spirito ideale che guidò chi voleva unire l’Italia, che ci fa immagi-nare un giovane ligure che guarda con gli occhi accecati dal sol e i paesaggi di un’isola sempre meno lontana dall’Italia.

Katia Perna

… Nel paesino etneo, infatti, le proteste dei contadini in sostegno

della riforma agraria proposta dal liberale Nicola Lombardo, furono

sedate nel sangue. Con un processo

sommario cinque rivoltosi furono condannati a morte, pur non

essendo responsabili delle violenze

avvenute durante gli scontri.

Giuseppe Cesare Abba nacque a Cairo Mon-tenotte (Savona) nel 1838 e morì a Brescia nel 1910. Amante dei classici, studiò con passione la filosofia, accostandosi ai poeti romantici come Giovanni Prati e Aleardo Aleardi. Nel 1859 si arruolò tra i cavallegge-ri di Pinerolo, ma prima di terminare l'adde-stramento partecipò alla seconda guerra di indipendenza. Nel 1860 si unì ai volontari per la spedizione nel Regno delle Due Sici-lie: il 5 maggio, dallo scoglio di Quarto si imbarcò con i Mille per la Sicilia, dove ebbe il battesimo del fuoco combattendo nella battaglia di Calatafimi. Dopo la guerra tornò a P isa dove scrisse il suo più celebre lavoro.

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L e pagine sotto riportate sono la prefazione al libro “ I Mille” che Garibaldi pubblicò nel 1874. La prefazione, dedicata “ Alla Gioventù Italiana”, è un’amara riflessione di un combattente deluso dalla piega che hanno preso gli eventi. Ormai vecchio, - e poco più atto o nulla all’azione materiale - Garibaldi si rivolge ai giovani porgendo loro dei consigli. Come quello di doversi occupare della politi-ca, che significa affare dei molti, dove i molti sono quelli che menan le braccia, interessati a sapere se la barca va negli scogli o a salvamento. Non mancano gli strali del suo mai sopito anticlericalismo, che insorge quando il denaro pubblico, anziché sconfiggere l’anal fabetismo, come in Francia o in Germania, finanzia i vescovi e simili agenti delle tenebre!

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All’epoca dei fatti di cui parliamo l’Inghilterra è la principale potenza im-periale e coloniale del pianeta. La sua presenza nel Mediterraneo ed in Sicilia rappresenta un’assoluta normalità. Che a Marsal a, poi, diventa dimestichezza, visti i saldi rapporti commerciali e gli stabilimenti di produzione vinicola. Non si deve dimenticare, infatti, che la fortu-na del vino marsala nasce dall’intui-zione avuta da John Woodhouse, nel 1773, di aggiungere acquavite ad un antico metodo locale di produzione. Il suo successo richiamò a Marsala molti altri imprenditori inglesi, come Corlett, Wood, Payne, Hoppes. Tra questi Ben-jamin Ingham, assieme al nipote Joseph Whitaker, si distinse per la capacità di ammodernare gli stabilimenti ed am-pliare i flussi di esportazione ben oltre i confini d’Europa. Marsala, in questo modo, anche grazi e agli inglesi, nel bre-ve volgere di qual che decennio, da tran-

quil la cit tadina agri col a, divenne un’effervescente realtà industriale. Allo-ra le navi inglesi a Marsala, al di là del loro potenziale signifi cato bellico e stra-tegico, stanno a presidio di ben precisi interessi economici. Ecco perché è im-portante ascoltare gli umori di parte inglese di fronte alle vicende rivoluzio-narie. In una lettera del vice console inglese, scritta il 19 giugno, si coglie nettamente un senso di preoccupazione derivante dall’incertezza della situazio-ne politica. È trascorso oltre un mese dallo sbarco: il vice console rileva che i disordini sono ormai alle spalle, ma acutamente coglie un senso di delusione e di malcontento che affiora tra la gente, specialmente riguardo alla leva. Il popo-lo non ha torto a preoccuparsi. Tra me-no di venti giorni, il decreto n. 87, ema-nato da Garibaldi, ora dittatore, prende-rà a cazzotti la logica, dichiarando ob-

bligatorio il servizio dei volontari du-rante la guerra. Per il vice console il cruccio più grande è quello dell’ordine pubblico, ma non avrà molti motivi per dolersene ancora. Gli effetti del decreto dittatoriale n° 12 cominciano già a dare i primi effetti... Vice Consolato Britannico Marsala, 19 giugno 1860

Dal Vice Console inglese a Marsala a John Goodwin H.B.M. Consul -

Palermo Signore, ho l'onore di informarLa di avere rice-vuto la sua del 18 corrente e la informo, in risposta, che lo stato delle cose a

Marsala non è tale da farmi sentire tranquillo per la sicurezza dei sudditi e delle proprietà britanniche senza la presenza di qualche nave da guerra britannica nelle vicinanze. In realtà di recente non vi sono stati disordini in città e sono stati arruolati 600 o 700 uomini nella guardia nazionale per mantenere la sicurezza pubblica; ma più della metà degli uomini sono senza armi da fuoco e lo spirito di parte è causa di contrasti tra gli ufficiali. Oltre a ciò, un generale sentimento di mal-contento sembra prevalere fra gli abi-tanti in ordine alla leva ed all'organiz-zazione della milizia, come su diversi altri argomenti di importanza notevole. Nello stabilire e mantenere l'ordine pubblico nulla è stato fatto a Marsala, nonostante gli energici ordini che pro-vengono dalle autorità di Palermo. La gente qui sembra essere sotto l'influenza di un basso egocentrismo, che esclude

Gli inglesi, le navi,

il marsala e la rivoluzione

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ogni tipo di spirito pubblico e lo stesso sentimento paralizza il Consiglio. La carica di Governatore locale a Marsala è stata abolita pochi giorni addietro in virtù di un ordine generale che poneva le diverse città dell'isola sotto l'imme-diata giurisdizione del Governatore di ogni distretto. Marsala fa parte di quel-lo di Trapani. Così pure l'amministra-zione locale degli affari pubblici dei centri cittadini all'interno del Consiglio civico e il delegato alla pubblica sicu-rezza. Il Presidente del Consiglio ha rassegnato le sue dimissioni due giorni fa e sono stato informato che le autorità locali non hanno aperto subito le lettere ufficiali, arrivate con l'ultima posta. Stando così le cose la serenità del luogo dipende interamente dalla Naziona-le ...... discussione che sorge dallo spiri-to di parte ....... Il tenore dell a lett era che segue, dell’anno successivo, è ben più rassicu-rante. Con il proverbiale senso pratico degli inglesi, il funzionario passa sinte-ticamente in rassegna quelle variabili, economiche o istituzionali, che mag-giormente gli sembrano in grado di e-sprimere uno stato di cose. Il risultato non è ambiguo: la rivoluzione non ha cambiato nulla, il distretto tuttavia è perfettamente tranquillo... Vice Consolato Britannico

Marsala 15 ottobre 1861 Dal Vice Console inglese a Marsala

a John Goodwin H.B.M. Consul - Palermo

Signore, ho il piacere di ricevere la sua lettera circolare dell'8 corrente, con la quale mi informa che, siccome sulla stampa non è apparsa alcuna descrizione degna di fede sull'attuale stato della Sicilia, ritiene necessario inviare in Inghilterra il più velocemente possibile una relazio-ne completa sull'isola fondata su rap-porti ufficiali...

Gli agricoltori erano prosperi e diven-tavano ricchi. La pesca del tonno non è stata produttiva per scarsità del pesca-to. Il sale attualmente ha un prezzo mol-to basso per mancanza di richiesta per l'esportazione. La rivoluzione non ha nulla a che fare con questi problemi e non sembra avere fatto né bene né male

o di avere avuto qualche influenza a Marsala, tranne l'abol izione del “macinato”, che ha prodotto grande e generale soddisfazione. Ordine sociale. C'è sicurezza di vita e proprietà sia per i residenti che per i viaggiatori e di recente non ho sentito di ruberie per mare, che erano molto frequenti pochi mesi addietro. Buon governo. Vi sono carabinieri per la prevenzione del crimine e per arre-stare i criminali, ma i giudici trovano molto difficile condannarli a causa del-la mancanza di prove e della riluttanza dei testimoni a farsi avanti, per cui la maggior parte dei criminali fugge senza punizione e non sembra esservi rimedio; sotto il governo costituzionale la gente sta bene ma non sembra apprezzarlo. Le leggi civili sono meglio amministrate e in modo più soddisfacente di quelle penali. La Guardia Nazionale di Marsala è stata sciolta alcuni mesi addietro e il tentativo di riorganizzarla a luglio non

è riuscito. Un nuovo tentativo di ricosti-tuzione è stato fatto, ma la maggior parte degli ufficiali nominati dal Gover-natore della provincia ha rassegnato le dimissioni. Il distretto tuttavia è perfet-tamente tranquillo. Pietra Pomice

La rivoluzione non ha nulla a che fare con questi problemi e non sem-

bra avere fatto né bene né male o di avere avuto qualche influenza a Marsala, tranne l'abolizione del

“macinato”, che ha prodotto grande e generale soddisfazione.

John Woodhouse

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Siamo così abituati a considerare le vicende dei Mille con un’inevitabile contorno di eroismo, che le memorie di Giu-seppe Nuvolari ci appaiono improvvisamente umane, del tutto umane. Il brano che segue è tratto dalla seconda edizio-ne di Come la penso, G. Ambrosoli e C. edit., Milano 1881. Come dice il titolo, è una delle aggiunte apportate alle Me-morie. Il racconto si svolge a Marsala e narra particolari, come quello della consegna della porta, o dell’orologio della città, che sono senza dubbio comici e ricordano l’ironia anti-militarista de Il buon soldato Sc'vèik di Hašek. In altri, come la descrizione dell’abbigliamento, il non sapere di una rivo-luzione che pure era accaduta proprio lì, appena un mese pri-ma, il mal di mare dei bergamaschi, la sbronza di vino marsa-la, ci si avvicina, invece, ad una dimensione antieroica, asso-lutamente inusuale.

Arc

Aggiunta Settima Torniamo a Marsala. E, se me lo si permette, voglio dire le mie impressioni del primo giorno. Io fui dei primi a sbarcare, e, appena sbarcato, mi fu ordinato di andare con 8 uomini a Porta Trapani: colà arrivato, misi una senti-nella a 100 metri fuori della Porta, e cogli altri formai un picchetto sotto l’atrio della Porta stessa. Si avvicina un signore e chiese chi eravamo e cosa facevamo; aveva rivolto a me le sue domande per-ché io vestiva l’uniforme di guida a cavallo, listata col grado di sergente e aveva la spada al fianco; gli altri, meno uno, erano vesti-ti in borghese. Mi fece diverse domande, ed io altre gliene feci a lui, chiedendogli informazioni della rivoluzione siciliana del 4 aprile, della quale tanto si era parlato. Mi rispose che non ne sapeva nulla, e che soltanto, un mese prima, s’era visto un giorno una bandiera sopra una torre o un campanile per qualche ora e poi scomparve. Mi disse che presentemente a Trapani c’era una forte guarnigione, e che in Marsala non c’erano nemmeno gendarmi. Gli chiesi poi dove si poteva trovare del vino; ed egli gentile e premuroso corse alla sua casa, che era lì vicina, e tornò con due vasi pieni di vino; io volli pagarlo, ma egli non volle nulla. Poco dopo, sento il cannone: mando Cariolato, perché s’informi dei nostri e venga a riferirmi, ed egli mi sta via tutto il giorno e non si è lasciato vedere che alla sera. Rimproveratolo, a sentir lui, aveva torto io! … E il cannone continuava […] Alla sera venne a rilevarmi al posto di Porta Trapani la compagnia di Lanfossi [sic], il quale voleva a tutti i patti che gli facessi la con-segna per iscritto. Tutta la mia consegna era di non lasciar uscire alcuno e di lasciar entrare chi lo voleva.

Cosa gli doveva consegnare? La Porta che non poteva portare con me? Davvero che quest’aneddoto mi aveva tutta l’aria di un aned-doto di Capitan Fracassa. Del Lanfossi non ne seppi poi più nulla. Lo lasciai, e mi diressi ove stava lo Stato Maggiore. Strada facendo ci fermammo in una taverna, ove c’erano altri, e domandammo da mangiare: non c’era nulla. Un soldato, che mi conosceva, mi diede allora un pezzo di pan duro ed una cipolla. E questo fu il mio pasto della giornata. Arrivato finalmente ove era lo Stato Maggiore, che risiedeva in un casone, che mi pareva il Municipio, mi fermai sulla porta. Quand’ecco ne esce il colonnello Cenni: vedermi e dirmi che facessi sentinella alla porta fu tutt’uno. Dopo mezz’ora fu di ritorno, e mi disse che a mezzanotte andassi a svegliarlo, perché doveva andare a far una ronda. […] Come dissi, aveva la consegna di svegliare a mezzanotte il bravo Cenni: ma come fare, se non poteva sapere le ore? C’era, è vero, l’orologio della città che suonava le ore; ma le suonava con un sistema tutto diverso dal nostro, ed io non ci capiva dentro niente. Del mio poi non poteva servirmi, perché si era fermato al momento dell’imbarco, ed era fermo ancora. Ad ogni modo press’a poco tirai a indovinare: montai le scale, girai dei grandi saloni … tutti dormi-vano. Guardai … ma il Cenni non lo vedeva. In una sala vidi Crispi che passeggiava: gli chiesi se sapeva ove era Cenni: mi rispose: “Non cercatelo; vado io in vece sua.” E allora me ne andai, ma compresi che anche al Cenni aveva forse fatto male il vino di Mar-sala, come male aveva realmente fatto a quasi tutti. Né poteva esse-re diversamente, se si considera che nessuno o ben pochi erano abituati a quella razza di vino, e che tutti poi avevano sofferto in viaggio. Che abitudini da marinai potevano infatti avere, per esem-pio, i Bergamaschi? e dico Bergamaschi perché questi furono quelli che diedero il contingente maggiore alla prima spedizione […] Come fu lunga per me quella notte! Non vedeva proprio che l’ora e il momento che spuntasse l’alba. Dormire mi fu impossibile; ma credo che anche il Crispi non abbia potuto chiudere occhio. Oh come desideravo una boccata d’aria aperta e libera! Intanto andava pensando che noi forse fra qualche ora, in sul far del giorno, sarem-mo stati circondati dalla truppa che era a Trapani. Non ci sarebbe rimasto altro partito che quello di gettarci in mare!

Giuseppe Nuvolari,

molto garibaldino poco eroe

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Garibaldi in Sicilia di Eliodoro Lombardi Non è sogno! sul lido sicano Stampa l’orma il famoso Guerriero, L’han veduto, baciata han la mano Che allo schiavo fa libero il piè. Riedi al brando, riprendi il cimiero, Garibaldi, o Sicilia, è con te. Quei che frange dei despoti il soglio Come turbo che i cedri sfracella, Quei che all’Austro fiaccava l’orgoglio, L’uno, il prode, cui pari non è. Nuovo Scipio d’Italia novella Garibaldi, o Sicilia, è con te. Come voce di Arcangiol finale Spezza i marmi, gli estinti ridesta Tale Ei grida: “ Dal freddo guanciale Sorgi, o Bella che dormi sul mar Come a danza di Libera festa Tutta Italia t’invita a pugnar. Del servaggio lo spettro increscioso Ti gravò con incubo di morte; Quella morte ei chiamava riposo, Chiamò pace l’incubo di orror: Fu ragion la ragione del forte, E giustizia fu detto il dolor.

Ma non senti? - Già l’ira divina Rugge accolta sul capo al Borbone … Già la casa d’Asburgo ruina Pur del Tebro il tiranno cadrà Sol, vegliante, il Sabaudo Leone Colla Croce e col Brando starà. E voi Giuda sbucati d’Averno Nera stirpe del Santo Lojola, Che del Cristo a sagrilego scherno II suo nome tentaste usurpar. Oh! .. tremate!... l’ipocrita Scuola É caduta qual piombo nel mar. Simoniaci!.. voi l’ara vendeste, Sciagurati! la Patria tradiste, Tracotanti!.. col piede premeste Croce! Italia! Fratelli ed Onor! Profanaste, tramaste, rapiste; Or del Nume vi ha colto il furor. Su fratelli! dall’Alpi al Boeo Un sol voto ci stringa, un pensiero: Una Italia! fia questo il trofeo Che dei martiri il sangue ci diè. Un sol Patto, un Vessillo, un Impero, Una Patria, un sol Brando, un sol Re. Generoso!.. l’invitta parola Fiamma e vita é alle sicule genti; No per Dio! chi all’appello non vola, No d’Italia più figlio non è! Noi sperammo! son pieni gli eventi, Una Patria, un sol Brando, un sol Re. Arc

Eliodoro Lombardi

I gnazio (Eliodoro) Lombardi (Trapani, 5 aprile 1834 - Palermo, 16 marzo 1894) trascorre gli anni dell’adolescenza e della prima formazione letterari a tra Palermo, dove frequenta l’università, e Marsala. Frequenta gli ambienti della cospirazione antiborbonica e, dalla metà degli anni ’50, calca le scene dei principali teatri di Sicilia, improvvisando versi irriverenti e pa-triottici. La fama di poeta della rivoluzione lo accompagna sulle barricate di Palermo e sui campi di battaglia del ’60 e del ’66. La sua poesia e le sue idee intanto evolvono: la vena romantica subisce l’attrazione della scapigliatura, con accenti addi-rittura pre-futuristici e, accantonati i temi patriottici, affronta la grande questione social e. Sempre più critico verso il naziona-lismo e le guerre, abbracci a infine l’internazionalismo e l’antimilitarismo libertari. L’inno Garibaldi in Sicilia circolò clan-destino in tutta l’Isola fin dal 18 maggio 1860 e costituì il più pregiato esempio di poesia finalizzata alla propaganda rivolu-zionaria. La contemporaneità del componimento rispetto agli avvenimenti, circostanza comune ad altri poeti, come lo stesso Manzoni, rispecchia un’idea militante della poesia ed attribuisce al poeta il ruolo di rivoluzionario. Non sarebbe certo un male se questo anniversario riuscisse a riportare al rango di materia di studio poeti come il Lombardi. Forse non si scoprireb-bero altri Manzoni (il metro è il decasillabo di Marzo 1821…), ma sarebbe interessante studiare se esiste un legame tra la sesta strofa dell’inno ed il decreto dittatoriale del 17 giugno 1860, con il quale Garibaldi sopprimeva la Compagnia di Gesù.

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A lmirante Antonino Teodosio, attor giovane e capocomico di una compagnia itinerante di teatranti siciliani, ebbe la ventura di trovarsi in provincia di Tra-pani nei mesi antecedenti e successivi allo sbarco dei Mille. Per conto di Lio-nardo Vigo egli aveva assunto l’anno prima l’incarico di smerciare, nelle loca-lità attraversat e dalla compagnia, la Raccolta dei Canti Popolari Siciliani dello stesso Vigo. Aveva cominciato a farlo egregiamente a Marsal a nel giugno del 1859 e continuava a farlo un anno dopo, dal giugno all’ottobre del 1860, epoca alla quale risale la lettera qui par-zialmente pubblicata. Vi si racconta lo svolgimento della battaglia del 15 mag-gio 1860, che Almirante aveva potuto osservare dal balcone della casa di Cala-tafimi in cui era alloggiato. La lettera è assai interessant e perché, oltre a fornirci un’altra, insolita, “diretta” dei fatti, rive-la anche dettagli solitamente censurati dalle fonti storiografiche, come le vio-lenze ed i saccheggi operati da alcuni individui del posto addirittura ai danni degli stessi feriti in battaglia! Castelvetrano 5 Luglio 1860 Da Antonino Almirante

al Benemerito Cittadino Sig.r Cav.r Lionardo Vigo Calanna (Aci-Reale) Carissimo Sig.re Vigo

Oltremodo cara mi giunse la sua affet-tuosa e pregiata lettera del 26 giugno, ma dolorosa perché mi apprese la di lei malattia, che ora spero sia cessata del tutto. [...] Eccole i più minuti particolari della battaglia di Calatafimi [...].

Il Campo distava dal paese due miglia e più, d’aria, uno. Io mi trovava in un balcone da cui distinguevasi tutto, e poteva vedere quello spettacolo doloro-so e magni fico ad un tempo, col cuore in tumulto, coll’ansia del naufrago che cerca afferrare la terra, pendendo da tutti i movimenti dei combattenti, i colpi dei quali echeggiavano fortemente in un petto Italiano! I nostri non avendo più fl emma d’aspettarli a piè fermo, comin-ciarono a discendere e s’attaccò il fuoco, gagliardo, ostinato, spaventevole; i no-stri servendosi delle sole artiglierie, quelli anche della moschetteria, in gra-zia del lungo tiro: da ciò speravano vinta la battaglia coloro; ma no, che al grido

di “ Viva l’Italia, e Vittorio Emmanuele, e il Generale Garibaldi” impavidi, a passo accelerato si portarono sino al centro della vallata, ed incominciarono a salire sotto una grandine di palle, e que-sti prodi non erano altro che due compa-gnie dei Cacciatori delle Alpi: ed essen-do arrivati a tiro cominciarono anche loro a far fuoco; ma moderato e sempre avanzando sulla dritta, un’altra compa-gnia cominciò ad operarci sulla sinistra, e le squadre faceano qualche cosa ad intervalli, or dietro muri, ora dietro gli alberi: sicché il fuoco cominciò a farsi quasi generale. Intanto a tutto galoppo venivano staffet-te dal campo al generale di momento in momento, ed egli finalmente si decise a partire con tutto il corpo, e col capitano d’Armi di Alcamo che venne con lui, i cui compagni, per parentisi [sic], servi-vano di guida ai soldati, lasciando i due pezzi sul più alto punto del paese, che guardava il campo, e circa 300 soldati in custodia del paese che si era prefisso serbarsi per la ritirata. I Cacciatori delle Alpi, a mettà della salita, stanchi dalla corsa bisognavano riposarsi, protetti da una muraglia, sempre sotto un fuoco vivo; quando dopo pochi minuti Gari-baldi disse loro “ animo, caricate alla baionetta, viva L’Italia” essi risposero intuonando l’inno di Garibaldi, e bal-zando in piedi cominciarono a guada-

Balcone con vista sulla

battaglia di Calatafimi

...quando dopo pochi minuti Garibaldi disse loro

“animo, caricate alla baionetta

viva L’Italia” essi risposero intuonando l’inno di Garibaldi,

e balzando in piedi cominciarono a

guadagnar l’erta senza più tirare un colpo,

a calate baionetta...

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gnar l’erta senza più tirare un colpo, a calate baionetta, lasciando dietro di essi i martiri della libertà, in un momento di divino entusiasmo: il che scoragì [sic] totalmente i Soldati regi, vedendoli a-vanzarsi senza far fuoco. Già si scaglia-vano quei mastini sui nemici che ancora fulminavangli coi loro fucili, quando un pugno di prodi fra cui il figlio di Gari-baldi che portava la bandiera si gettaro-no sur una schiera di Borboni di triplice numero e s’impegnò una lotta ineguale, allorché fu ferito il figlio di Garibaldi in una mano, e non ostante ferito lottava con due Soldati che volevano togliergli la bandiera: allora accorse un capitano dei nostri, fece riparo del suo corpo al Valoroso giovane, si fece cedere la ban-diera, e in quel momento ricevé cinque fucilate di sopra e cadde! … Contemporaneamente, alla sinistra, un altro drappello degli Italiani si gettava sui cannoni, e dopo breve resistenza se ne impadronì! Questo fu il segnale della vittoria; i Soldati del borbone non mo-strarono nessuna fermezza a resistere alla baionetta, e incominciarono a fuggi -re, ad essere inseguiti, a perdere quella forte posizione, ma sempre a fuggire precipitosamente, ché le loro trombe non suonavano altro che la ritirata! Noi dal balcone li vedevamo correre per la china della montagna velocemente, e giunsero al paese trafelati, e con le fac-cie veramente patetiche, ed ebbero la somma impudenza d’entrarvi gridando “ Viva il Re” ma dovevano aggiungere con più coscienza, evviva le nostre gam-be che ci han salvati!

E sventolando la bandiera tolta ai nostri, su cui era scritto “ Dono delle donne Genovesi al Prode Garibaldi” ma era una grande e ricca bandiera! Dopo co-minciarono a trasportare i feriti napole-tani, poi si chiamò l’appello, indi distri-buirono il presto [?] ed il pane, e comin-ciarono a farsi i preparativi per la fuga, cioè, per la partenza! Perdoni se sono lungo e le riesco noioso; ma a mio cre-dere non posso passar sotto silenzio alcune cose.

Ora è necessario le fornisca alcuni anne-doti [sic] sull’oggetto. Sotto il balcone dov’io era, vi stava una sentinella, e mentre nel campo cominciò la tromba a suonare la ritirata, essa tentennò il capo malcontento, alla seconda volta, comin-ciò a passegiare [sic]: alla terza, si voltò a noi “ma che suona, la ritirata?” Quasi ingenuamente. Alla quarta disse in col-lera e sempre tentennando il capo “ma che, non fanno altro che suonare la riti-rata!!!” Un soldato passò correndo e saltellando grottescamente sotto la fine-stra di mia sorella, dicendo “non sono morto questa volta non moro più! Non sono morto questa volta non moro più!!” Altri dicevano, formandosi a crocchio con paesani, (perché quei sol-dati poi sono di buona pasta …”E chi ve lo può dire? Ce ne erano di cento nazio-ni! E come si battevano … come Leoni (non erano più conigli! …) e poi c’era il monaco! … come si gettava con quel trombone! … quello poi che ti faceva senso si era che avanzavansi dicendoci, tira, tira, e loro non sparavano. Mamma mia, erano tanti diavoli!!” – Altri, a cui

gli si domandava! ma quanti erano?” risposero “ Qualche sei mila, ed avevano forte cavalleria: ma quello che ci sbalor-dì si fu il sentire che c’era Garibaldi! … Mammà mia, per S. Gennaro è un dia-volo incarnato!” – ec. ec. Se vorrei tra-scriverle altre bagattelle non mi baste-rebbe un altro foglio di carta, passiamo innanti – Il Combattimento durò due ore e mezzo: i feriti dei nostri furono circa 80; i morti circa 20 – dei soldati morti 65. feriti ne restarono 35 in Calatafimi all’ospedale, cinque carri pieni se ne trasportarono i Regi alla partenza. Due feriti delle squa-dre, oltre il Sig.r Stefano Sant’anna, oggi P res idente del municipio d’Alcamo, e Governatore del Distretto, e due morti. A mezz’ora di notte la truppa cominciò a partire dal paese in perfettissimo silen-zio, senza né trombe, né tamburri, ne [sic] alitare! Persino ai cavalli furono poste le scarpe per non far rumore, tanto che molti dei paesani ignoravano la loro partenza, né sapevanla se non se quelli che li vedevano s filare, ché non furono

Un soldato passò

correndo e saltellando grottescamente sotto la finestra

di mia sorella, dicendo

“non sono morto

questa volta non moro più!

Non sono morto

questa volta non moro più!!”

Lionardo Vigo Calanna marchese di Gallodoro (Acireale, 1799 – 1879)

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uditi d’alcuno. Insomma fu una evacua-ta vergognosissima! All’Alba del 16 entrarono i nostri prodi! … E sino il terzo dì dal combattimento si trasportavano feriti … Il paese fu tiepi-do … freddo … in proporzione di ciò

che doveva fare! Quei Valorosi non ebbero l’Ospitalità, non dico che merita-vano, ma che poteva offrirgli il paese … su ciò non mi dilungo perché io che fui attore e testimonio di molti fatti, ho ri-pugnanze a narrarli … forse lo farò di presenza, se il Signore mi concederà questo piacere ancora! Non dirò come alcuni di quei prodi giovani svenuti dal-le ferite, furono indegnamente svaligia-ti, saccheggiati, spogliati da villani ed assassinii di quei contorni, che anzi da alcuni delle stesse squadre! Tiriamo un velo su ciò, e si contenti ch’io non alzi un lembo di questo lenzuolo d’infamia … tiriamo avanti. Verso 15 ore comin-ciarono a veni re le squadre dei comuni vicini, e destarono qualche brio, e furo-no quelle di S. Ninfa, Partanna, Monte Vago, S. Margherita, Poggio Reale, Monte di Trapani, indi quelle di Castel-vetrano, Sciacca, Menfi, Mazzara, Cam-pobello ec. ec. sicché alla era il paese avea preso altro aspetto! Insomma il 17 Partì Garibaldi con i suoi, e le squadre, to. le circa 2,000. Restò il Colonello Od-do, altri Uffiziali e qualche compagnia, che provvidero i carri di alcuni pezzi, casse di cartucce, munizioni ec. ec. e verso il dì 20 o 21 partirono anch’essi con altri pochi di squadre.- [...] In questa abbiamo fatto quattro recite, e dai 2 Lunedì sera, si è chiuso il teatro per una turbolenza avvenuta. Si sono fatti molti arresti di facinorosi che vole-ano compromettere il paese, anzi credo, far sorgere l’anarchia, quell’anarchi a tanto cara al governo degli ex Borboni: si figuri che si sono fatte due barricat e lateralmente alla prigione, che in tal modo resta chiusa dai quattro lati, e ciò perché il partito era grosso e si temeva

non li avessero tratti di là. Ma quest’ottimo Presidente, Sig.r Amari, è un uomo forte e di gran coragio [sic] civile, né si è lasciato imporre, che anzi alla testa dei buoni cittadini prosiegue ad arrestare i malevoli, e notte e giorno sta sotto l’armi: il paese non è più tran-quillo, perciò “ abbasso il teatro” Pazien-za! – Mi dimenticava: il dopo pranzo del 2 si era riunito molto popolo sotto il palazzo della comune, e cominciò a gridare abbasso tizio, abasso [sic] fila-no, abasso alcuni consiglieri del Muni-cipio ec. Vi fu un momento che si stava venendo alle armi, fortunat amente non sucesse [sic]. Si chiese che il Cancellie-re Giudiziario del passato governo fosse partito in fra 24 ore, si promise, e poi si eseguì … ma il paese restò commosso; la sera vi furono due fucilate nello stes-

so luogo, e di tanto in tanto la sera se ne sentono, e qualche individo [sic] è mor-to, o ferito – Anche prima di questo succedeva qualche omicidio. Perciò quì più alcuna speranza di recitare, mezzi di fare un viagio [sic] non ne abbiamo, e la mia malattia ha portato disturbo a me, alla famiglia, alla compagnia, perché non si prende alcuna risoluzione. Il no-stro stato non è brillante!!! Gradisca i rispetti di tutti i miei, ostensi-bili per tutta la sua famiglia. Mi coman-di senza riserba, mi conservi il suo amo-re e mi creda per tutta la vita 7. Luglio 60 Aff.mo amico Antonino Almirante

Natale Musarra

E sino il terzo dì dal combattimento si trasportavano feriti …

Il paese fu tiepido

… freddo … in proporzione di ciò che doveva fare!

Quei Valorosi non ebbero

l’Ospitalità, non dico che meritavano,

ma che poteva offrirgli il paese …

su ciò non mi dilungo perché io che fui

attore e testimonio di molti fatti, ho ripugnanze a narrarli

… forse lo farò di presenza,

se il Signore mi concederà questo piacere ancora!

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Rose Montmasson, detta Rosalia, nata nel 1825 in Savoia, allora parte del Re-gno di Sardegna, è passata alla storia come l’unica donna ad aver fatto part e della spedizione dei Mille. Di famiglia povera e di gradevole aspetto, Rose si reca a Torino per guadagnarsi da vivere stirando la biancheria delle prigioni di

Palazzo Madama. Proprio lì incontra Francesco Crispi, detenuto politico in seguito al fallimento della rivoluzione indipendentista siciliana del 1848. Do-po la fallita cospirazione mazziniana a Milano, Crispi deve riparare a Malta, dove Rose lo seguirà. A Malta i due si sposano, ma gli inglesi scoprono che la

loro presenza è intrecciat a ad un proget -to cospirativo riguardante la Sicilia. Gli viene dato un foglio di via e si spostano a Parigi. Anche da qui sono ben presto espulsi e riparano a Londra. Nel 1859, durante la seconda guerra d’indipen-denza, tornano in Italia e nel marzo del 1860 Rose si imbarca per la Sicilia per favorire lo sbarco di Rosalino Pilo, ri-tornando poi a Genova in tempo per imbarcarsi a Quarto. Nella spedizione, Rose si distingue come infermiera, spe-cie a Calatafimi, dove i soldati prendono a chiamarla Rosalia, nome che conser-verà per sempre. Dopo i sacrifici della guerra seguono i fasti della bella vita, con il trasferimento in uno splendido palazzo nella nuova capitale, Firenze. Qui comincia la caduta di Rosalia. La stiratrice non regge il confronto con il brillante consorte. Crispi dice di averl a sorpresa ubriaca, le rimprovera di non avergli dato un figlio, la accusa di avere origini oscure. E mentre si fa più folgo-rante l’ascesa del marito, più cupo di-venta il declino di Rosalia. Crispi ha un’altra donna, la giovane, bella e bor-bonica Lina Barbagallo, dalla quale ha avuto una bambina. Crispi la sposa nel 1878, ma il matrimonio provoca uno scandalo, specie dopo che la Regina Margherita ha preso visione dell’atto di matrimonio celebrato a Malta con Rosa-lia. Lo scandalo porta ad un processo per bigamia, ma Crispi viene assolto, perché i giudici accertano che il matri-monio celebrato a Malta è nullo in quanto il prete era stato sospeso a divi-nis a causa della sua attività patriottica. Rosalia viene convinta ad accettare l a situazione per amore del marito, della sua carriera e per del denaro che può strapparla all’indigenza. Il dissidio tra Rosalia ed il suo antico amore nasce forse dalla spregiudicat ezza del politico che abbandona i repubblicani per schie-rarsi con i monarchici: una scelta che per la visione semplice di Rosalia equi-vale al tradimento di un ideal e e di tanti compagni di lotta. Intanto Rosalia scen-de precipitosamente gli ultimi gradini di una vita ormai priva di significato. I vecchi compagni provano vergogna per lei. Continua a vivere a Roma, sopravvi-vendo con la pensione assegnata ai Mil-le. Muore, povera, nel 1904, dimenticata da tutti, anche da quel mondo risorgi-mentale che, se non le doveva la vita, le doveva almeno un tributo di riconoscen-za. La sua salma viene tumulata in un semplice loculo, concesso gratuitamente dal comune nel cimitero del Verano, ove tuttora riposa.

Antonio Squeo

Una su Mille

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Con il decreto n° 1, emanato a Salemi il 14 maggio 1860, Garibaldi assume, in nome di Vittorio Emmanuele, la funzio-ne di dittatore della Sicilia. Con altro decreto, n° 140 del 3 agosto, anche la Sicilia adotta lo Statuto Albertino, la Costi-tuzione già vigente nello stato sabaudo. Con il successivo decreto 257, del 15 ottobre 1860, il Dittatore Garibaldi di-chiara che le due Sicilie fanno parte integrante dell’Italia, e che egli deporrà la Dittatura nelle mani del Re. All’interno dei limiti temporali fissati da questi atti, si svolge l’attività legislativa del dittatore Garibaldi. Dal 14 maggio al 26 no-vembre del 1860, direttamente o attraverso i prodittatori, il Generale emana ben 340 atti, quasi due al giorno. In questa sede non si può certamente affrontare un’analisi puntuale della produzione giuridica: si vuole solo suscitare qualche rifl essione. L’esigenza di dare segnali di svolta sociale sugge-risce il decreto n° 5 del 17 maggio, che abolisce la tassa sul macinato, o il n° 16 del 2 giugno, che regola la ripartizione dei demani comunali a favore dei combattenti. La logica della

Baciamani proibito e bambini soldato

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rinascita economica suggerisce lo sviluppo delle infrastruttu-re: ecco allora il decreto 58, non unico, sulla costruzione delle ferrovie. Si dà spazio alla ricostruzione di un tessuto cultura-le: e allora via a nuove cattedre universitarie, istituite, tra gli altri, dal decreto n° 80. Ma questo terreno, per Garibaldi, va sgomberato da quelli che considera gli agenti delle tenebre: subito arriva il decreto n° 45 che scioglie ed espelle Gesuiti e Redentoristi. Il Dittatore è consapevole che i comportamenti sono una spia della natura dei rapporti umani e che un bacia-mano ha lo stesso peso di un vincolo feudale. Il decreto n° 35 abolisce il titolo di Eccellenza e il baciamano, specificando però, da uomo ad altro uomo, e salvando così lo spazio per la galanteria. È facile, cogliendo fior da fiore, enfatizzare la por-tata liberatoria e libertaria di questi atti normativi. Quando, però, un’offerta appare un po’ troppo speciale, bisogna subito chiedersi dov’è la fregatura. Il decreto n° 12, sicuramente sotto l’assillo del mantenimento del necessario ordine pubbli-co, statuisce la pena di morte per i reati di furto, di omicidio e di saccheggio di qualunque natura. Il decreto n° 87, con grande sprezzo del ridicolo, afferma che il servizio dei volon-tari è obbligatorio durante la guerra. Il decreto n° 52, consi-derando che l’istituzione di un battaglione di adolescenti pro-mette i più belli risultati per la futura organizzazione dell’esercito, perché darà ai battaglioni individui sin dalla tenera età avvezzi alla severa disciplina, al comando, alla istruzione ed alle manovre militari, lo istituisce immediata-mente, regolandolo con il successivo decreto n° 53. All’articolo 8 si specifica che al compimento di anni dicias-sette ed un giorno gl’individui di tal corpo saranno spediti nei diversi Battaglioni dell’esercito, ove obbligatoriamente, se in guerra, e volontariamente in tempo di pace, debbono servire pel numero di anni fissati per l’esercito nazionale. Evidentemente l’interesse per la militarizzazione dell’adole-scenza deve essere particolarmente sentito, tanto che ci si ritorna sopra con la legge 331 del 3 novembre 1860. Il batta-glione d’adolescenti prende il nome di Istituto militare Gari-baldi ed è composto da 1200 ragazzi. Il limite inferiore è l’età non minore di 10 anni, quello superiore, che era di 17, viene abbassato a 14! Qualcuno potrà obiettare che erano altri tem-pi, che si diventava grandi molto prima, che anche tra i volon-tari garibaldini si erano intrufolati un bel numero di ragazzi.

Le giustificazioni per causa di forza maggiore, come quelle che invocano la ragione di stato, non sempre sono le più convincenti. Vediamo un ultimo decreto, il n° 221 del 29 settembre, fi rmato dal prodittatore Mordini. Prevede l’istituzione di Commessioni per rivedere le opere teatrali. Con queste, formate da tre individui commendevoli per probità e dottrina, si vuole evitare che il Teatro, destinato per la sua origine a formar la mente e il cuore del popolo e tener vivo il sentimento nazionale, non divenghi fomite di corruzione e non serva a traviare la pubblica opinione. Non sarà forse il caso di parlare di censura?

Anteo Quisono

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Antonio Squeo, Garibart , Elaborazione su fotografia di Gustave Le Gray, 2010