Seminario europeo Politiche pensionistiche e modello ... · Un primo elemento d’analisi farà...

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INCA CGIL FERPA OSE Seminario europeo Politiche pensionistiche e modello sociale europeo Comitato economico e sociale europeo Rue Belliard, 99 - Bruxelles 23-24 giugno 2005 Comitato economico e sociale europeo Materiali di lavoro del Seminario - Parte I Presentazione Programma del Seminario Libro Verde "Cambiamenti demografici" Il Modello Sociale Europeo Ruolo dei sindacati nell'innovazione dei sistemi pensionistici in Europa Per maggiori informazioni: www.osservatorioinca.org [email protected]

Transcript of Seminario europeo Politiche pensionistiche e modello ... · Un primo elemento d’analisi farà...

INCA

CGIL

FERPA

OSE

Seminario europeo Politiche pensionistiche e modello sociale europeo

Comitato economico e sociale europeo Rue Belliard, 99 - Bruxelles

23-24 giugno 2005

Comitato economico e sociale europeo

Materiali di lavoro del Seminario - Parte I

Presentazione Programma del Seminario

Libro Verde "Cambiamenti demografici" Il Modello Sociale Europeo

Ruolo dei sindacati nell'innovazione dei sistemi pensionistici in Europa

Per maggiori informazioni: www.osservatorioinca.org

[email protected]

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SOMMARIO

Presentazione..................................................................................................................................... 5 Programma ........................................................................................................................................ 7 Libro Verde ..................................................................................................................................... 11 Il Modello Sociale Europeo: un esercizio in decostruzione. ........................................................... 25 di Maria Jepsen e Amparo Serrano Pascual Ruolo dei sindacati nell’innovazione dei sistemi di pensione in alcuni paesi dell'Unione ............. 41 di David Natali

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Presentazione

Con il recente allargamento, la popolazione dell’Unione è passata da 380 a oltre 450 milioni di cittadini, di cui circa il 20% pensionati e anziani. Entro il 2025, altri 37 milioni di ultrasessantenni vivranno nell'attuale Unione europea - senza contare i nuovi Stati membri che avranno aderito nel frattempo. I pensionati saranno quindi più di 113 milioni di persone: quasi un terzo della popolazione.

È quindi naturale che le politiche pensionistiche siano sempre più al centro del dibattito accademico e politico, costituendo un elemento chiave di riflessione tra decisori politici e parti sociali, nonché un importante banco di prova della capacità dell’Unione d’intervenire in materia sociale.

L’idea alla base delle due giornate di lavoro è quindi quella di cercare delle risposte ad una serie d’interrogativi circa l’evoluzione recente e futura dei sistemi pensionistici nei paesi dell’Unione europea allargata, in una sede istituzionale competente e qualificata: il Comitato economico e sociale europeo. La questione solleva, in effetti, diverse questioni: Dove sta andando il modello sociale europeo? Come stanno cambiando i sistemi previdenziali nazionali? Che relazioni si prefigurano tra politiche della coesione e crescita economica? Che peso hanno le parti sociali nel governo di questi cambiamenti?

La discussione prenderà spunto da uno studio comparativo realizzato di recente, per conto del Governo belga, dall’Osservatorio Sociale Europeo, un istituto di ricerche politiche e sociali, nato nel 1984 in seno al movimento sindacale europeo. L’obiettivo è creare l’opportunità per una discussione approfondita tra ricercatori, esperti e un panel di qualificati rappresentanti del mondo sindacale e sociale:

• CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro): il principale sindacato italiano, che rappresenta oggi circa 6 milioni di lavoratori e pensionati

• INCA (Istituto Nazionale Confederale d’Assistenza): organizzazione fondata nel 1945 dalla CGIL per difendere i diritti dei lavoratori in materia sociale e previdenziale, presente oggi in 23 Paesi dell’Europa e del Mondo.

• FERPA (Federazione Europea dei Pensionati e degli Anziani) cui aderiscono 43 organizzazioni sindacali dei 25 paesi dell’UE, in rappresentanza di oltre 10 milioni d’iscritti.

Numerose analisi, tra cui il recente Libro Verde della Commissione europea “Di fronte ai cambiamenti demografici, una nuova solidarietà tra le generazioni”, hanno messo in rilievo la “sfida dell'invecchiamento demografico” e le sue implicazioni per il mantenimento di pensioni “adeguate e sostenibili”.

Anche il CESE si è già espresso in proposito, tenendo conto di tre grandi principi: adeguatezza delle prestazioni (fornire un reddito sicuro che prevenga la povertà e l’emarginazione sociale tra le persone anziane); sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici; flessibilità e capacità di rispondere alle mutevoli esigenze della società.

I lavori delle due giornate verteranno attorno a 3 temi di discussione:

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1. Un primo elemento d’analisi farà riferimento al modello sociale europeo e, più in particolare, al metodo di coordinamento aperto (MOC), finalizzato a rafforzare la cooperazione tra gli Stati membri, facendo convergere le diverse politiche nazionali su alcuni obiettivi condivisi.

A quale modello d’Europa sociale fanno riferimento tali principi? In cosa consiste, esattamente, il metodo di coordinamento aperto? Quali risultati si sono conseguiti finora? Quali effetti ha sulle diverse politiche nazionali? Che relazioni esistono tra parametri di sostenibilità finanziaria e obiettivi politici di coesione e inclusione sociale?

2. Un secondo tema di discussione concernerà la situazione dei sistemi pensionistici nei 25 paesi dell’Unione. Una particolare attenzione sarà dedicata alle prospettive dell’invecchiamento attivo, alla mobilità dei lavoratori e dei diritti previdenziali, alle differenze di trattamento tra uomini e donne, alle garanzie previdenziali offerte ai giovani e alle nuove tipologie di lavoro.

Qual è l’impatto delle recenti riforme votate in Italia come in Germania, in Svezia e nei diversi paesi dell’Unione a 25 ? Il paventato pericolo di una progressiva privatizzazione delle pensioni è reale o fa parte di una retorica non corrispondente alla realtà dei fatti ? Quali sono oggi i diritti pensionistici dei lavoratori europei ? E soprattutto, le nuove generazioni di lavoratori manterranno tali diritti ? Quali sono le differenze tra i sistemi nei vecchi e nei nuovi membri ?

3. Il terzo ed ultimo argomento riguarderà il ruolo dei sindacati e delle parti sociali nel processo negoziale e decisionale riguardante le politiche sociali e previdenziali, con particolare riferimento al Metodo di coordinamento aperto (MOC Pensioni).

Il ruolo dei sindacati nella riforma dei sistemi pensionistici è stato decisivo in alcuni paesi e marginale in altri. Come spiegare queste differenze? Che impatto ha avuto l’azione del movimento sindacale europeo? Quali sono le risorse di legittimazione e di potere dei sindacati in questa materia?

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Programma (Lingue di lavoro: Italiano e Francese)

Giovedì 23 giugno - MATTINA

9h00 Arrivo e registrazione dei partecipanti (Hall 6° piano)

9h30 Sessione introduttiva (Salle de conférences BEL 63, Asterion, 6ème étage)

Apre i lavori Henri MALOSSE

Presidente della Sezione Occupazione, Affari sociali, Cittadinanza del Comitato economico e sociale europeo

Introduce Antonio BRUZZESE

Responsabile Segretario Estero INCA

10h00 Sessione plenaria 1 (Sala BEL 63, Asterion)

Il modello sociale europeo Philippe POCHET – Direttore OSE

Integrazione europea e riforma dei sistemi pensionistici David NATALI - OSE

Modera il dibattito:

Stefano TRICOLI – Coordinatore INCA Belgio

11h00 Pausa caffé

11h30 Politiche pensionistiche nei 25 paesi UE: David NATALI - OSE

12h00 Discussione

13h00 Pausa pranzo

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Giovedì 23 giugno – POMERIGGIO

14h30 Gruppi di discussione

La Commissione europea ha pubblicato di recente un Libro Verde sul cambiamento demografico: Che risposte formulare?

A quale modello d’Europa sociale si fa riferimento?

Quali conseguenze avrà il cambiamento demografico sulle politiche pensionistiche?

In cosa consiste, esattamente, il metodo di coordinamento aperto?

Qual è il ruolo delle parti sociali?

Gruppo 1 - Sala: BEL 63 (6° piano)

Lingue italiano e francese

Esperto Philippe POCHET – Direttore OSE

Moderatore Jacque SENSE – Presidente FERPA

Interviene Mario SEPI – Presidente del Gruppo dei lavoratori dipendenti del Comitato Economico e Sociale Europeo

Gruppo 2 - Sala: 7170 (7° piano)

Lingue italiano

Esperto David NATALI - OSE

Moderatore Villiam ZANONI - INCA

Interviene Luca JAHIER – Membro del Comitato economico e sociale europeo, Gruppo attività diverse

17h00 Sessione plenaria 2 (Sala BEL 63, Asterion)

Conclude i lavori della prima giornata

Aldo AMORETTI – Presidente INCA

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Venerdì 24 giugno – MATTINA

9h30 Sessione plenaria 3 (Sala BEL 63)

Competitività e coesione, quale modello sociale europeo?

Carla ANTONUCCI Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’UE

Gabrielle CLOTUCHE Confederazione Europea dei Sindacati

Luigina DE SANTIS Segretaria generale FERPA

Pierre JONCKHEER Presidente OSE

Susanna FLORIO Membro del Comitato economico e sociale europeo, Gruppo dei lavoratori dipendenti

Modera la tavola rotonda:

Maria Luisa MIRABILE La Rivista delle Politiche Sociali

11h00 Pausa caffé

11h15 Sintesi dei gruppi di discussione e piste di lavoro per il futuro

Jacques SENSE – Presidente FERPA

Villiam ZANONI – INCA

Carlo CALDARINI – Osservatorio INCA CGIL per le politiche sociali in Europa

13h00 Conclude i lavori:

Morena PICCININI

Segretaria Confederale CGIL

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COMMISSIONE DELLE COMUNITA EUROPEE

Bruxelles, 16.3.2005 COM(2005) 94 final

Comunicazione della Commissione Europea

Libro Verde A fronte dei cambiamenti demografici, una nuova solidarietà fra generazioni

Versione in lingua italiana non ufficiale

Traduzione a cura della FERPA

Federazione Europea dei pensionati e delle Persone Anziane

Boulevard du Roi Albert II, 5

1210 Bruxelles – Belgio

http://ferpa.etuc.org

Si ringraziano Daniele Baldo e David Sabatini per la traduzione

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L’Europa conosce oggi dei cambiamenti demografici senza precedenti per la loro ampiezza e gravità. Nel 2003, la crescita demografica europea è stata solamente dello 0,04% l’anno; i nuovi stati membri, ad eccezione di Cipro e Malta, hanno anche conosciuto una riduzione della popolazione. In numerosi Paesi, l’apporto dell’immigrazione è diventato cruciale per assicurare una crescita della popolazione. Il tasso di fertilità è dappertutto inferiore alla soglia di rinnovo delle generazioni (circa 2,1 figli per donna); in alcuni stati membri è anche sceso al di sotto di 1,5 figli per donna.

Tuttavia gli europei non hanno il numero di figli che vorrebbero. Questo è il segno dell’infinità di costrizioni che pesano sulle scelte delle coppie, comprese le crescenti difficoltà d’accesso all’abitazione.

Ma è anche il segno che le famiglie, le cui strutture anche se diverse sono una componente essenziale della società europea, non beneficiano di un contesto che le stimola a crescere un maggiore numero di figli. Se l’Europa vuole invertire la tendenza del declino demografico,le politiche pubbliche devono aiutare maggiormente le famiglie, consentendo a uomini e donne di conciliare la vita familiare con l’attività professionale sapendo che, così facendo, la famiglia proseguirà nel suo importante ruolo di solidarietà fra le generazioni. L’Unione deve dunque conoscere meglio la situazione delle famiglie nei diversi stati membri, in modo particolare per quanto attiene l’occupazione ed il reddito delle famiglie monoparentali, l’accesso all’abitazione, le prestazioni sociali e la cura delle persone anziane.

I fatti parlano da sé: malgrado l’apporto dell’immigrazione, la popolazione dell’Unione crescerà debolmente fino al 2025 prima di iniziare il declino: 458 milioni di abitanti nel 2005, 469,5 milioni nel 2025 (+2%), scendendo a 468,7 milioni nel 2030. Da notare che 55 delle 211 regioni dell’Unione Europea a 15 hanno già conosciuto un abbassamento di popolazione durante la seconda parte degli anni novanta; è anche il caso della maggior parte delle regioni dei nuovi stati membri (35 delle 55 regioni), dovuto a fattori naturali e ad una forte emigrazione.

Il declino è ancora più rapido e profondo se si considera unicamente la popolazione totale in età attiva (15/64 anni): tra il 2005 e il 2030 dovrebbe perdere 20,8 milioni di unità.

Il rapporto del Gruppo ad alto livello, diretto da Wim Kok, aveva segnalato l’importanza della sfida demografica per la “strategia di Lisbona”: l’invecchiamento potrebbe fare scendere la “crescita potenziale” annuale del PIL europeo dall’attuale 2-2,25% al 1,25% nel 2040.

Lo spirito d’impresa e il gusto della nostra società per l’iniziativa ne rimarrebbero sicuramente colpiti.

Per rilevare la sfida è dunque urgente mettere in opera, in modo risoluto, l’agenda di Lisbona, ponendo l’accento su politiche mirate ad una più forte partecipazione al lavoro di alcuni settori della popolazione - le donne, i giovani ed i lavoratori anziani- l’innovazione e la crescita della produttività.

È inoltre necessario perseguire nella modernizzazione dei sistemi di protezione sociale, in particolare del sistema pensionistico, al fine di assicurarne la sostenibilità finanziaria e sociale e di consentirgli di gestire gli effetti dell’invecchiamento.

Da molti anni l’Unione ha sviluppato politiche che contribuiscono ad una migliore anticipazione di questi cambiamenti e recenti iniziative, come il “Libro verde su un approccio comunitario per la gestione delle migrazioni economiche”,contribuiscono a fare avanzare il dibattito.

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I cambiamenti demografici sono il frutto di tre tendenze di fondo:

1. L’allungamento costante della speranza di vita. Questo è il frutto dei progressi considerevoli realizzati nel campo della salute e della qualità della vita di cui usufruiscono gli europei.La speranza di una vita in buona salute è in continuo aumento. Questa tendenza dovrebbe proseguire, con una attenuazione della forbice fra la speranza di vita degli uomini e delle donne. Quattro generazioni possono oggi incrociarsi nella stessa famiglia, tuttavia sono più mobili, e non vivono necessariamente insieme come nel passato.

2. La crescita dei componenti delle generazioni superiori ai 60 anni si farà risentire fino all’incirca al 2030, quando i figli del “baby-boom” saranno diventati “seniors”.

3. Una debole natalità persistente. Le generazioni del “baby-boom” hanno messo al mondo meno figli che le precedenti. Numerosi fattori spiegano questo abbassamento della natalità: le difficoltà di inserimento professionale, la penuria ed il costo degli alloggi, l’aumento dell’età dei genitori alla prima nascita, scelte diverse in materia di studio, vita professionale e vita familiare. Il tasso di fecondità è quasi dappertutto inferiore alla soglia di rinnovo delle generazioni. In certi Paesi, al sud come all’est dell’Europa, è anche inferiore a 1,3 figli per donna.

La società conosce anche importanti cambiamenti di struttura: le strutture familiari evolvono; ci sono molti più “lavoratori che invecchiano” (55-64), seniors (65-79) e persone molto anziane (80+), meno figli, giovani ed adulti in età lavorativa. Le transizioni fra le diverse età della vita sono diventate più complesse: è, in particolare, il caso dei giovani che superano più tardi alcune tappe della vita (fine degli studi, accesso all’impiego, primo figlio).

Le politiche pubbliche, europee e nazionali, devono dunque prendere in conto i cambiamenti demografici. Questo è l’obiettivo che persegue l’azione preparatoria adottata dal Parlamento Europeo nel 2004: essa punta a prendere in maggior conto l’impatto dei cambiamenti demografici nell’insieme delle politiche coinvolte.

In un numero crescente di stati membri, questo adattamento è già diventato una priorità politica. Per compensare l’abbassamento prevedibile della popolazione in età attiva, l’Unione favorisce una più forte partecipazione al lavoro, in particolar modo delle donne e dei lavoratori anziani, incoraggia l’investimento nel “capitale umano” e la crescita del livello di produttività grazie a riforme economiche ed uno sforzo di ricerca e di innovazione. Tuttavia, uno sforzo supplementare resta da fare per quanto concerne l’inserimento nella vita professionale dei giovani e l’accompagnamento dei loro itinerari professionali diventati “non lineari” con l’alternanza fra lavoro, studio, disoccupazione, riqualificazione o rimessa a livello delle competenze.

Nel contesto della nuova agenda sociale dell’Unione, si deve approfondire il dibattito, rispettando le competenze dei vari livelli di “governance”: in effetti, numerose questioni legate ai cambiamenti demografici sono di esclusiva competenza degli stati membri o delle autorità regionali o del partenariato sociale; esse sono, tuttavia, anche questioni di interesse comune alle quali tutti gli stati membri devono dare una risposta che è divenuta oggi urgente.

In effetti, il tasso di dipendenza demografica totale passerà dal 49% nel 2005 al 66% nel 2030. Sarà necessario non solo raggiungere, ma anche sorpassare l’obiettivo di Lisbona- un tasso d’impiego del 70%- per compensare la riduzione attesa della popolazione in età attiva: la partecipazione al lavoro dovrà essere più importante e l’età di fine attività dovrà

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continuare ad innalzarsi. Si dovrà anche valutare e discutere sui mezzi da utilizzare per compensare gli effetti più negativi di queste evoluzioni.

Credete che il livello europeo sia pertinente per aprire una riflessione sulle evoluzioni demografiche e la gestione delle loro conseguenze ?

Se si, quali potrebbero essere gli obiettivi e quali ambiti politici vi sembrano essere coinvolti?

1. LE SFIDE DELLA DEMOGRAFIA EUROPEA

Le tre cause dell’invecchiamento si ritrovano dappertutto in Europa, ma con una grande diversità di situazioni, che si possono riassumere nel modo seguente:

• l’Unione non possiede più un “motore demografico”. Gli stati membri nei quali la popolazione non si ridurrebbe prima del 2050 hanno un peso molto ridotto. Fra i cinque stati membri più popolati, solo le popolazioni britanniche e francesi aumenterebbero fra il 2005 e il 2050 (+8% e + 9,6%). La riduzione della popolazione comincia a volte prima del 2015 e, in alcuni casi, sarebbe superiore a 10% o a 15% all’orizzonte del 2050.

• L’immigrazione ha recentemente attenuato il deficit di nascite in un gran numero di paesi.

• La situazione dei paesi candidati accentua il contrasto demografico.Le proiezioni che riguardano la Bulgaria e la Romania rivelano delle evoluzioni negative (-21% e –11% da qui al 2030) come quelle dell’O.N.U. per la Croazia (-19%). Per contro, la popolazione turca aumenterebbe più di 19 milioni fra il 2005 e il 2030 (+25%).

Scenario di base Eurostat UE-25 (tra parentesi, in migliaia)

2005-2050 2005-2010 2010-2030 2030-2050

Popolazione totale -2,1%(-9642)

+1,2%(+5444)

+1,1% (+4980)

-4,3%(-20066)

Bambini (0-14) -19,4% (-14415)

-3,2% (-2391)

-8,9% (-6411)

-8,6% (-5612)

Giovani (15-24) -25,0% (-14441)

-4,3% (-2488)

-12,3% (-6815)

-10,6% (-5139)

Giovani adulti (25-39) -25,8% (-25683)

-4,1% (-4037)

-16,0% (-15271)

-8,0% (-6375)

Adulti (40-54) -19,5% (19125)

+4,2% (+4170) -10,0% (-10267)

-14,1% (-13027)

Lavoratori anziani (55-64) +8,7% (+4538)

+9,6% (+5024)

+15,5% (+8832)

-14,1% (-9318)

“Seniors” (65-79) +44,1% (+25458)

+3,4% (+1938)

+37,4% (+22301)

+1,5% (+1219)

Persone molto anziane (80+)

+180,5% (+34026)

+17,1% (+3229)

+57,1% (+12610)

+52,4% (+18187)

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Queste tendenze s’iscrivono in un quadro più largo: tutte le regioni del mondo conosceranno l’invecchiamento nel corso di questo secolo. Il nostro partner principale, gli U.S.A., avrà un incremento della propria popolazione pari al 25,6% fra il 2000 e il 2025. In Cina per esempio, l’incremento sarà rapido, con un abbassamento a partire dal 2025. All’opposto,il “vicinato” dell’Europa, l’Africa ed il Medio Oriente conosceranno l’invecchiamento molto più tardi: la popolazione è molto più giovane, con un’età media di 20 anni , contro più di 35 anni in Europa.

1.1. La sfida di una debole natalitaà In questo contesto, una natalità debole è una sfida per le autorità politiche. Non si è mai vista nella storia una “crescita senza culla”. Il rafforzamento della produttività, in particolare attraverso l’accesso alla formazione durante il corso della vita, l’innalzamento della partecipazione all’impiego attraverso la creazione di un vero mercato del lavoro Europeo e una mobilità professionale maggiore,sono due leve essenziali per rispondere a questa situazione. Ci sono due altri modi: la natalità e l’immigrazione.

Gli Europei hanno una fecondità che non assicura più il rinnovo delle generazioni. Le inchieste dimostrano anche la differenza che esiste fra il numero di figli che gli Europei desiderano ed il numero di figli che hanno realmente: 2,3 figli contro 1,5. Questo significa che se esistono dei meccanismi appropriati per permettere alle coppie di avere il numero di figli che desiderano, il tasso di fecondità potrebbe crescere, anche se la dimensione auspicata della famiglia varia considerevolmente da uno stato membro all’altro.

In effetti, alcune costrizioni pesano sulle scelte private: accesso tardivo o instabile all’impiego, alloggio costoso, mancanza di dispositivi incentivanti (assegni familiari, congedi parentali, offerta di custodia per bambini, eguaglianza di retribuzione). Questi dispositivi possono avere un’influenza positiva sulla natalità e nello stesso tempo accrescere l’occupazione, in maniera particolare per quanto riguarda le donne come dimostrano alcuni paesi. Tuttavia, l’84% degli uomini intervistati da “Eurobarometro”, nel 2004, dichiarava di non aver usufruito di congedi parentali o di non avere l’intenzione di farlo, anche se erano informati che è un loro diritto.

Da lunghi anni l’Unione ha fatto degli sforzi rilevanti per raggiungere l’eguaglianza fra donne e uomini; in più, ha sviluppato un coordinamento delle politiche regionali di protezione sociale.

Una migliore conciliazione fra vita professionale e vita privata può aiutare a risolvere i problemi legati all’invecchiamento demografico? come?

Come si può incoraggiare una ripartizione più equilibrata delle responsabilità domestiche e familiari fra donne e uomini?

L’erogazione di alcune prestazioni o vantaggi (congedi….) dovrebbe essere vincolata ad una uguale distribuzione fra i due sessi?

Come retribuire in modo adeguato i due genitori che usufruiscono di congedi parentali?

Come stimolare maggiormente l’offerta di strutture per la custodia dei bambini (asili nido, scuole materne ecc.) e per le cure alle persone anziane, sia da parte delle collettività pubbliche che delle imprese?

Può un tasso ridotto dell’IVA, applicato ai servizi di custodia dei bambini e alle cure per persone anziane, contribuire al loro sviluppo?

Come permettere ai genitori, in modo particolare alle giovani coppie, di accedere al mercato del lavoro e di rispondere ai loro bisogni di carriera, potendo avere il numero di figli che desiderano?

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1.2. Il contributo possibile dell’immigrazione L’immigrazione extra-europea potrebbe contribuire a compensare l’abbassamento della popolazione da qui al 2025, anche se non può essa sola risolvere tutti i problemi posti dall’invecchiamento o sostituirsi alle riforme economiche. Come ricorda il recente Libro verde della commissione, dei flussi migratori più importanti potrebbero essere maggiormente necessari per soddisfare i bisogni di mano d’opera e assicurare la prosperità dell’Europa. Vista la situazione demografica dell’Europa ed i suoi contorni geografici, questa immigrazione economica sarà anche, in gran parte, una immigrazione di popolamento. Questo impone di assicurare una gestione efficace e trasparente per l’ammissione delle persone provenienti da stati terzi e di avviare delle politiche proattive d’integrazione e di eguaglianza di opportunità, che realizzino un equilibrio fra i diritti e i doveri rispettivi dei migranti e delle società d’accoglienza. La scelta di ricorrere più largamente all’immigrazione per rispondere all’invecchiamento demografico deve essere oggetto di dibattito a livello nazionale ed europeo, assieme al paese d’origine.

Il Consiglio europeo di Salonicco, nel giugno 2003, ha sottolineato che “una politica dell'Unione europea in materia d'integrazione (degli immigrati) dovrebbe contribuire a raccogliere le nuove sfide demografiche ed economiche alle quali l'Unione europea è attualmente confrontata”. È questo dibattito che ha aperto il Libro verde adottato nel gennaio scorso.

In quale misura l'immigrazione può compensare alcuni effetti negativi dell'invecchiamento demografico?

Quali politiche devono essere realizzate per integrare questi immigrati, in particolare i giovani?

Quale contributo possono offrire gli strumenti comunitari, in particolare il quadro legislativo contro le discriminazioni, i fondi strutturali e la strategia per l'occupazione?

2. UNA NUOVA SOLIDARIETÀ FRA GENERAZIONI I cambiamenti demografici stanno rimodellando una nuova società, e subiranno un’accelerazione a partire del 2010: sempre meno giovani e adulti, sempre più “lavoratori che invecchiano”, pensionati e persone molto anziane. Le nostre società dovranno inventare delle vie nuove per valorizzare il potenziale di crescita che rappresentano le nuove generazioni ed i cittadini più anziani. Per il governo di questi cambiamenti sarà necessario il contributo di tutti gli attori: nuove solidarietà devono essere sviluppate fra le generazioni, fatte di mutuo sostegno e di trasferimento di competenze e di esperienze. L’iniziativa europea per la gioventù proposta dalla Commissione, nella sua Comunicazione su la revisione a metà percorso della “strategia di Lisbona”, dovrà contribuirvi.

2.1. Nuove generazioni integrate meglio I bambini ed i giovani prenderanno il posto di generazioni più numerose della loro. Certo, il loro livello di formazione è sensibilmente superiore a quello dei loro predecessori: così nel 2003, nell’UE-15, quasi il 28% dei 25-34 anni era in possesso di un livello di educazione superiore, contro il solo 16% dei 55-64 anni. Ciò consente di prevedere un livello di produttività ed una capacità di adattamento superiore a quelle delle generazioni precedenti. Tuttavia, l’Unione deve prendere coscienza che la sua gioventù diventa una

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risorsa rara che non è abbastanza valorizzata. In effetti, i giovani incontrano difficoltà d’integrazione:

• Il tasso di disoccupazione dei meno di 25 anni era del 17,9% in dicembre 2004 e del 7,7% per i più di 25 anni.

• I giovani sono particolarmente esposti al “ rischio di povertà”: è il caso del 19% dei 16-24 anni, contro il 12% dei 25-64 anni. Questa proporzione è anche superiore a quella che si osserva presso le persone di oltre 65 anni(17%).

• A volte i giovani sono confrontati a discriminazioni derivanti dalla loro età e dalla loro mancanza di esperienza professionale, a volte aggravate da altri fattori come il genere, l’origine sociale o la razza, che sono altrettanti ostacoli alla loro integrazione nella vita attiva e nella società.

• Le qualifiche acquisite a scuola non sono sempre adeguate ai bisogni della società della conoscenza ed il livello di bocciature scolastiche rimane preoccupante. Nel 2002 circa il 16,5% dei 18-24 anni ha lasciato la scuola senza qualifica. Le cause sono certamente molte. Misure d’appoggio alle famiglie ed ai loro figli in età scolastica associate alla modernizzazione dei sistemi di insegnamento dovrebbero aiutare a ridurre questo fenomeno.

• Anche i bambini sono esposti ai rischi di povertà: e il caso del 19% dei ragazzi di meno di 15 anni. Questi rischi sono aggravati per quelli che vivono nelle famiglie monoparentali . Una conseguenza importante è l’abbandono scolastico precoce che potrebbe ancora accentuare, a medio temine, i rischi di povertà che esistono per i giovani.

Il sistema educativo sarà dunque confrontato ad una sfida: continuare ad elevare il livello di formazione iniziale, ma offrendo dei percorsi più flessibili. Per esempio, i giovani dovrebbero alternare maggiormente la formazione in ambiente scolare, lavoro e formazione in alternanza, al fine di rispondere ai bisogni dell’economia. Dovranno anche beneficiare di più delle possibilità aperte dall’educazione a distanza.

L’invecchiamento non significa che i problemi della disoccupazione e dell’integrazione saranno risolti in maniera meccanica. Il partenariato sociale, il sistema scolastico, i poteri pubblici, gli attori locali dovranno riflettere sul miglioramento dei percorsi d’inserimento, ivi comprese le discriminazioni che possono colpire i giovani.

Alcuni obiettivi europei sono stati fissati in materia di prevenzione della disoccupazione di lunga durata dei giovani, di lotta contro l’abbandono scolastico e per l’innalzamento del livello iniziale di formazione. I fondi strutturali contribuiscono a conseguire questi obiettivi sul territorio.

In che modo le politiche comunitarie possono contribuire maggiormente a combattere la povertà dei bambini e quella delle famiglie monoparentali e a ridurre il rischio di povertà e d’esclusione per i giovani?

Come migliorare la qualità dei sistemi di formazione iniziale per gli adulti? Quale può essere il contributo della formazione non istituzionale e delle attività di volontariato? Quali possono essere i contributi dei fondi strutturali e degli strumenti che puntano ad un migliore accesso alla società della conoscenza?

Come migliorare il passaggio tra scuola e vita professionale e la qualità del lavoro dei giovani? Quale ruolo dovrebbe giocare il dialogo sociale? Quale contributo può essere offerto dal confronto con la società civile, in particolare dalle organizzazioni dei giovani?

Quali solidarietà possono essere sviluppate tra i giovani e le persone anziane?

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2.2. Un approccio globale del “ciclo di vita” attiva Già nel 2005 i “giovani adulti” (25-39) conosceranno una diminuzione, che si accentuerà fortemente dopo il 2010 ( -16% fra il 2010 e il 2030). I 40-54 anni cominciano a decrescere nel 2010. In parallelo, i più di 55 anni crescono del 9,6% fra il 2005 e il 2010 e del 15,5% fra il 2010 e il 2030, prima di diminuire fortemente a loro volta. Le imprese dovranno così maggiormente appoggiarsi sull’esperienza e le qualifiche di quei lavoratori detti “anziani”, preparando attivamente i meno di 55 anni a sostituire quelle generazioni. Ora, a discapito di alcuni progressi, il tasso di impiego dei più di 55 anni , 40,2% nel 2003 - circa 20,5 milioni di persone al lavoro, rimane molto inferiore all’obiettivo europeo del 50%.

I giovani attivi possono augurarsi di disporre di maggior tempo per i loro figli e lavorare di più in un altro periodo della loro vita. È,dunque, una nuova organizzazione del lavoro, più adattabile è più flessibile, che i cambiamenti demografici possono contribuire a fare emergere. Le evoluzioni tecnologiche offrono l’opportunità di migliorare la conciliazione fra vita familiare e vita professionale.

La qualità dell’impiego e dell’ambiente di lavoro contribuiranno anche fortemente alla conservazione dell’impiego, riducendo i rischi d’infortunio e migliorando lo stato di salute dei lavoratori, in modo particolare dei più anziani. L’anticipo delle ristrutturazioni contribuirà ad una migliore gestione del ciclo di vita attiva. Ci sarà anche bisogno di sviluppare azioni incentivanti tali da fare evolvere i comportamenti ed attivare la lotta contro le discriminazioni.

Per favorire la transizione verso la società della conoscenza, le politiche comunitarie promuovono la modernizzazione dell’organizzazione del lavoro, la definizione di strategie per la formazione durante tutta la vita, la qualità dell’ambiente di lavoro e “l’invecchiamento attivo”, in particolare un aumento dell’età media d’uscita dal mercato del lavoro. I cambiamenti demografici rafforzano l’importanza di queste politiche e sollevano questioni nuove:

Come modernizzare l’organizzazione del lavoro per tenere conto dei bisogni specifici di ciascuna fascia di età? Come facilitare l’integrazione delle giovani coppie nella vita attiva ed assicurare loro un equilibrio tra flessibilità e sicurezza per crescere i figli, per formarsi e per adattare le loro competenze alle esigenze del mercato del lavoro? Come permettere ai più anziani di lavorare di più?

Come adattare l’organizzazione del lavoro ad una nuova ripartizione tra generazioni, con meno giovani e più “lavoratori anziani” nelle aziende?

Come i diversi attori sociali dell’Unione possono contribuire a rispondere a questi problemi, in particolare il dialogo sociale e la società civile?

2.3 UN NUOVO RUOLO PER I “SENIORS” Il numero di “seniors” (65-79 anni) crecerà fortemente dopo il 2010, fino al 2030 circa (+37,4%). Se le tendenze attuali proseguiranno, saranno anche più attivi, perché in migliore salute. Saranno infine più agiati: un maggior numero di loro avranno costituito delle pensioni complete, e disporranno di un risparmio più elevato rispetto ai loro predecessori, ma anche rispetto ai loro figli.

I “seniors “ di alcuni paesi scelgono sempre più di vivere in un'altra regione o in un altro paese: la mobilità non è solo un fatto rigiardante i giovani o le persone profesionalmente attive. I loro consumi si orientano verso nuovi beni e servizi. Vogliono anche partecipare attivamente alla vita sociale: il loro ruolo è già considerevole nel settore associativo.

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Potranno anche volere proseguire un’attività professionale, o combinare lavoro a tempo parziale con pensione, come sta accadendo negli U.S.A. Il tasso di attività dei 65-74 anni è del 5,6% nell’Unione (nel 2003), contro il 18,5% negli U.S.A. Alcuni di loro saranno anche desiderosi di aiutare figli e nipoti, e di assicurare una trasmissione progressiva del loro patrimonio alle generazioni più giovani.

Il coordinamento delle riforme dei sistemi di pensione promuove il passaggio graduale tra vita attiva e pensione.

Si deve ancora fissare un’età legale d’uscita in pensione o permettere un pensionamento flessibile e progressivo?

Come permettere la partecipazione dei “seniors” alla vita economica e sociale, specialmente grazie al cumulo tra salario e pensione, a nuove forme di occupazione (tempo parziale, lavoro interinale) o ad altre forme di sostegno finanziario?

Come sviluppare delle attività che impiegano i “seniors” nel settore associativo e dell’economia sociale?

Come accompagnare la mobilità dei pensionati tra stati membri, specialmente in materia di protezione sociale e di cure sanitarie?

Come investire nella salute e nella prevenzione per fare in modo che gli europei continuino a beneficare dell’aumentata speranza di vita in buona salute?

2.4. LA SOLIDARIETÀ VERSO LE PERSONE MOLTO ANZIANE Grazie ai guadagni costanti nella speranza di vita, le nostre società vedono crescere fortemente il numero di persone molto anziane (oltre 80 anni): +17,1% fra il 2005 e il 2010, +57,1% fra il 2010 e il 2030; sarebbero allora vicine a 34,7 milioni, contro 18,8 milioni circa oggi. La proporzione di persone sole aumenterà, soprattutto donne, in ragione della vedovanza che risulta dalla differenza di longevità fra i due sessi. Il livello delle pensioni di anzianità delle donne è significativamente inferiore a quello degli uomini. Le donne hanno delle carriere più corte e delle retribuzioni meno importanti nel corso delle loro attività.

Le famiglie non potranno risolvere da sole le questioni della presa in carico di queste persone, siano esse non autosufficienti o autonome. Certo, i progressi della condizione di salute delle generazioni oggi più giovani permettono di intravedere che le future persone molto anziane rimarranno autonome molto più a lungo, e vorranno rimanere nel proprio domicilio. Le cure “pesanti” sarebbero sempre più concentrate verso la fine della vita. Nonostante ciò, ci sarà un numero sempre maggiore di persone, rispetto ad oggi,che avranno bisogno di cure rilevanti in ragione della loro perdita di autonomia.

Nei due casi, si renderà necessario assicurare con sistemi pubblici quelle cure che, oggi, in numerosi paesi, vengono assicurate dalle famiglie e soprattutto dalle donne. Ora le donne partecipano sempre più al lavoro. Molti giovani, arrivati in età adulta, vivono lontano dai loro genitori.

Le famiglie dovranno, dunque, essere più sostenute rispetto ad oggi. È questo il ruolo dei servizi sociali e delle reti di solidarietà e di cura all’interno delle comunità locali.

Il coordinamento delle politiche nazionali di protezione sociale dovrebbe estendersi alle cure di lunga durata per persone anziane nel 2006; quale contributo tale coordinamento potrebbe portare alla gestione dei cambiamenti demografici?

In particolare, occorrerà distinguere tra pensione di vecchiaia ed indennità di autonomia?

Come formare il personale necessario ed offrire dei lavori di qualità, in un settore spesso caratterizzato da salari e qualifiche basse?

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Come distribuire in maniera equilibrata la presa in carica della “terza età” fra famiglia, servizi sociali e istituzioni?

Come aiutare le famiglie? Come sostenere le reti di cure di prossimità?

Come ridurre le ineguaglianze fra donne e uomini in età di pensione?

Come utilizzare le nuove tecnologie per sostenere le persone anziane?

3. CONCLUSIONI: QUALE RUOLO PER L’UNIONE? A fronte dei cambiamenti demografici, l’Europa deve perseguire tre priorità essenziali:

A) Ritrovare il cammino della crescita demografica. Ci dobbiamo porre due domande semplici: quale priorità dare ai figli? Intendiamo dare alle famiglie, qualunque sia la loro forma, il posto che compete loro all’interno della società europea? Grazie ad un’attuazione risoluta dell’agenda di Lisbona (modernizzazione dei sistemi di protezione sociale, aumento del tasso d’occupazione delle donne e dei lavoratori che invecchiano), delle misure innovatrici di sostegno della natalità e un ricorso governato dell’immigrazione, l’Europa può creare nuove opportunità di investimento, di consumazione e di creazione di ricchezza.

B) Puntare all’equilibrio fra le generazioni, nella divisione del tempo nel corso della vita, nella suddivisione dei risultati della crescita, e in quella dei bisogni di finanziamento legati alle pensioni e alla salute.

C) Inventare delle nuove transizioni fra le età. I giovani incontrano delle difficoltà persistenti per inserirsi nel mondo del lavoro. Un numero crescente di “giovani pensionati” desidera partecipare alla vita sociale ed economica. Il tempo dello studio si allunga, ed i “giovani attivi” hanno voglia di tempo per i loro figli. Queste evoluzioni cambiano i confini e le transizioni fra attività ed inattività.

L’Unione dovrebbe promuovere degli scambi ed un’analisi regolare, per esempio annuale, dei cambiamenti demografici e del loro impatto sulla società e su tutte le politiche coinvolte?

Gli strumenti finanziari dell’Unione, in modo particolare i fondi strutturali, dovrebbero tener conto di più di questi cambiamenti e come?

Il coordinamento europeo delle politiche per il lavoro e della protezione sociale come potrebbe integrare meglio la dimensione dei cambiamenti demografici?

Come potrebbe il dialogo sociale europeo contribuire ad una migliore gestione dei cambiamenti demografici? Quale può essere il ruolo della società civile e del dialogo con i giovani?

Come integrare la dimensione dei cambiamenti demografici nell’insieme delle politiche interne ed esterne dell’Unione?

La Commissione organizzerà nel luglio del 2005 una conferenza che riunirà tutti gli attori sociali coinvolti, per consentire di affrontare le diverse questioni sollevate in questo “Libro verde”. L’obiettivo della conferenza e del Libro verde è di mettere insieme le migliori pratiche degli stati membri dell’Unione e di altri attori. Questo dibattito potrebbe anche contribuire all’iniziativa europea per la gioventù proposta nella revisione di metà percorso della strategia di Lisbona.

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4. COME PARTECIPARE ALLA CONSULTAZIONE? Il periodo di consultazione del pubblico inizia il 16 marzo e si conclude il 1° settembre del 2005.

Vi invitiamo a inviarci le vostre risposte tramite il formulario elettronico che troverete sul sito Della Commissione europea al seguente indirizzo:

http://europa.eu.int/yourvoice/consultations/index_it.htm

Tutti i dati riguardanti le persone fisiche saranno trattati in modo anonimo. Le organizzazioni sono invece invitate a identificarse.

Vi invitiamo ad utilmizzare il formulario elettronico, che renderà più agevole il trattamento dei vostri pareri nell’ambito Della procedura di consultazione

Tuttavia, è anche possibile inviare i vostri contributi scritti al seguente indirizzo: Libro verde “cambiamenti demografici” DG EMPL/E/1 J-27 01/122 Commissione europea B-1049 Bruxelles

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Allegato 1 Numerose politiche comunitarie contribuiscono, da molti anni, ad anticipare i cambiamenti demografici:

• La strategia europea per l’occupazione, e la politica dell’educazione e della formazione professionale – che hanno permesso di mobilitare, da molti anni, le politiche e gli attori a favore della lotta contro la dispersione scolastica e per l’aumento del livello di formazione iniziale dei giovani - ma anche la promozione dell’”invecchiamento attivo”, per l’aumento progressivo dell’età media di uscita dal mercato del lavoro e per il miglioramento della qualità dell’impiego. Anche qui, l’Unione rimane ancora distante dagli obiettivi prefissati.

• La riforma dei sistemi di protezione sociale. Gli obiettivi comuni in materia di riforma dei regimi di pensione, adottati nel 2001, imepgnano a preservare la solidarietà fra le generazioni ed a mantenere l’equilibrio fra pensionati e attivi. L’estensione del coordinamento delle politiche nazionali in materia di cure sanitarie e di cure di lunga durata per persone anziane consentirà di sviluppare questo approccio. La strategia europea per l’inclusione sociale ha fissato degli obiettivi in materia di lotta contro la povertà dei bambini e delle famiglie.

• Il rispetto del principio di eguaglianza fra gli uomini e le donne e la sua presa in conto in tutte le politiche dell’Unione (“gender mainstreaming”). Le misure che favoriscono la conciliazione fra vita professionale e vita privata assumono un ruolo importante per l’aumento del tasso d’occupazione. Per esempio, il Consiglio europeo di Barcellona, nel 2002, ha invitato gli stati membri a sviluppare delle strutture per la custodia dei bambini. Il dialogo sociale ha concluso degli accordi in materia di congedi parentali e di tempo parziale, che sono stati messi in opera tramite direttive. A dispetto di questi passi avanti, i risultati non sono ancora soddisfacenti, come testimonia il debole ricorso degli uomini ai congedi parentali e la persistenza di ostacoli che limitano l’accesso delle donne ad impieghi di qualità.

• La lotta contro le discriminazioni. Dal 2000, un quadro legislativo copre tutte le discriminazioni sul lavoro e promuove la diversità.

• I “grandi orientamenti di politica economica” (GOPE) impegnano a rafforzare il carattere durevole della crescita, riducendo l’indebitamento pubblico e mettendo in atto delle sane politiche. La sorveglianza multilaterale della messa in opera dei GOPE e del Patto di stabilità e di crescita comprende la valutazione della sostenibilità delle finanze pubbliche. Dei lavori sono stati intrapresi in seno al Comitato di politica economica alfine di misurare l’impatto economico e finanziario dell’invecchiamento a medio e lungo termine.

• Un approccio comune delle politiche d’immigrazione si sviluppa da molti anni, ivi compreso in materia d’immigrazione economica.

• Il fondo sociale, in quanto strumento di sostegno alla strategia per l’occupazione, e il fondo europeo di sviluppo regionale promuovono lo sviluppo delle strutture di accoglienza dei bambini e una migliore “gestione delle età” nell’impresa.

• Il programma quadro di ricerca sostiene numerosi progetti legati all’invecchiamento ed ai cambiamenti demografici, in modo particolare per quanto concerne le ricerche cliniche, le malattie correlate all’età avanzata e gli impatti sui sistemi di salute. Il programma quadro consente ugualmente la realizzazione di studi di prospettiva sulle evoluzioni demografiche in Europa.

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Il Modello Sociale Europeo: un esercizio in decostruzione.

The European Social Model: an exercise in deconstruction

Maria Jepsen1 Amparo Serrano Pascual2

Traduzione dall'inglese e sintesi a cura di Maria Merlante3

Fonti:

Journal of European Social Policy 0958-9287; Vol 15(3): 231–245; 054087 Copyright © 2005 SAGE Publications, London, Thousand Oaks and New Delhi DOI: 10.1177/0958928705054087

www.seeurope-network.org

Per consultare la versione integrale originale dell'articolo (in inglese)

contattare gli autori oppure [email protected]

Abstract: Il “Modello Sociale Europeo” (MSE) è uno dei termini maggiormente utilizzati per descrivere l’esperienza europea della promozione dello sviluppo economico sostenibile e, allo stesso tempo, della coesione sociale. L’utilizzo del concetto di MSE nel dibattito accademico e politico è caratterizzato da due concetti principali: da un lato la realtà del concetto stesso (la realtà chiamata Europa è un fenomeno ormai naturale e dato per certo), dall’altro un alto grado di ambiguità e polisemia di questo concetto. Nella maggior parte delle pubblicazioni su questo argomento sembra mancare una chiara definizione di cosa costituisca l’essenza stessa del concetto sopraccitato, mentre un’analisi di alcuni dei più importanti di questi documenti rivela che, nella misura in cui le definizioni vengono trovate, non necessariamente coincidono. Lo scopo di questo articolo è quello di discutere il concetto di “Modello Sociale Europeo”. Esso analizza e decostruisce il concetto in modo da identificare i principali significati e le varie dimensioni del modello. Classifica e discute i modi in cui il Modello Sociale Europeo è più frequentemente interpretato e propone un nuovo approccio all’analisi della caratteristica polisemica di tale assunto. è possibile affermare che le differenti dimensioni del concetto possono essere viste come risorse retoriche con lo scopo di legittimare il progetto politico di costruzione di identità su cui si basano le istituzioni Europee.

1 Ricercatore senior presso l’ETUI e assistente universitario presso l’Université Libre de Bruxelles. European Trade Union Institute, Bld. Roi Albert II 5/4 - B1210 Bruxelles (Tel: +32 2 224 0470 [email protected] 2 Ricercatore senior e professore associato presso l’Universidad Complutense de Madrid. European Trade Union Institute, Bld. Roi Albert II, 5/4 - B1210 Bruxelles (Tel: + 32 2 224 0470 [email protected]) 3 Stagiaire presso l'Osservatorio INCA CGIL per le politiche sociali in Europa (Bruxelles) [email protected] .

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[...] PRINCIPALI CONCETTUALIZZAZIONI DEL MSE Jacques Delors fu uno dei primi ad utilizzare e diffondere il termine “Modello Sociale Europeo” a metà degli anni ‘80, per designare un’alternativa alla forma americana basata sul puro mercato capitalista . L’idea base del Modello Sociale Europeo è che progresso economico e sociale debbano procedere insieme; lo sviluppo economico, in altre parole, deve essere combinato con la coesione sociale. Ad ogni modo, dopo quasi vent’anni di discussioni a proposito del Modello Sociale Europeo, sia nei circoli accademici che in quelli politici, il termine è rimasto, di fronte ad un’analisi puntigliosa, estremamente impreciso.

Una delle prime definizioni di Modello Sociale Europeo appare nel Libro Bianco sulla Politica Sociale (White Paper on social policy), documento della Commissione Europea del 1994. Qui vengono definiti una serie di valori comuni, nello specifico l’impegno nella democrazia, libertà personale, dialogo sociale, pari opportunità per tutti, sicurezza sociale adeguata e solidarietà nei confronti degli individui più deboli della società.

Più in generale, nella letteratura che si occupa di Modello Sociale Europeo, il termine è utilizzato in vari contesti e, di conseguenza, molte definizioni diverse possono essere identificate. Queste definizioni possono essere raggruppate in tre categorie (basate su quelle sviluppate in Hay, Watson e Wincot 1999). Le categorie non si escludono reciprocamente; perciò una definizione che fa parte di una categoria può anche essere applicabile ad un’altra.

Nel primo gruppo di definizioni, il Modello Sociale Europeo è considerato come il modello che comprende certe caratteristiche comuni (istituzioni, valori, ecc.), inerenti allo status quo degli stati membri dell’Unione Europea e che sono percepite come capaci di perseguire un caratteristico modo di regolazione tanto quanto un peculiare regime di competizione.

Il secondo insieme di definizioni identifica il Modello Sociale Europeo in un modello racchiuso in una varietà di modelli nazionali diversi, alcuni dei quali sono presentati come dei buoni esempi; il Modello Sociale Europeo diventa così un modello ideale, in senso weberiano.

Il terzo modo di identificare il Modello Sociale Europeo è quello di un progetto europeo e di uno strumento per la modernizzazione/adattamento, volto al cambiamento delle condizioni economiche, così come uno strumento per la coesione. Attraverso questo insieme di definizioni il Modello Sociale Europeo si presenta come un fenomeno transnazionale emergente.

IL MSE COME UN’ENTITÀ (ISTITUZIONI COMUNI, VALORI O FORME DI REGOLAMENTAZIONE)

La definizione che si incontra più di frequente è quella che si riferisce alle caratteristiche condivise dai paesi membri dell’Unione europea. Dietro questo titolo, le definizioni vanno dalla più vaga alla più dettagliata e tendono, in generale, a suggerire un approccio normativo. Ci si riferisce spesso al Modello Sociale Europeo come ad un modello che racchiude punti di vista e principi comuni applicabili a diverse questioni sociali importanti nella struttura edificante della CE (Vaughan-Whitehead 2003; Servasi 2001). Viene descritto come un piano specifico dell’Europa volto al conseguimento della piena occupazione, di una protezione sociale adeguata e dell’uguaglianza. È possibile dare una definizione anche attraverso le

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istituzioni del welfare e nei termini di capacità della politica di regolamentare l’economia di mercato. Vaughan-Whitehead (2003) propone una lunga lista di componenti del Modello Sociale Europeo. Questi fattori comprendono la legislazione del lavoro e per i diritti dei lavoratori, occupazione, pari opportunità, anti-discriminazione, e così via. Egli sottolinea che il Modello Sociale Europeo non è soltanto un insieme di regolamentazioni della Comunità europea e dei propri stati membri, ma anche una gamma di pratiche volte alla promozione di una politica sociale volontaristica e comprensiva all’interno dell’Unione Europea. Scharpf (2002), seguendo una linea di ragionamento simile, vede i “segni distintivi” del Modello Sociale Europeo come generose concessioni e servizi del welfare, unitamente ad una regolazione sociale dell’economia. “…nazioni e gruppi d’interesse che si sono in passato affidati a regolamentazioni sociali dell’economia e a generose concessioni e servizi del welfare ora si aspettano che l’Unione Europea protegga il concetto di Modello Sociale Europeo” (Scharpf, 2002: 649).

Questi aspetti si traducono nell’elargizione dell’assistenza sociale per i bisognosi, nell’universale elargizione dell’educazione (primaria e secondaria) e della salvaguardia della salute, in un complesso nesso tra le assicurazioni sociali e i servizi sociali, così come un elaborato sistema di relazioni industriali. In Hay, Watson e Wincott (1999), il Modello Sociale Europeo è definito come un gruppo di sistemi di welfare caratterizzato da protezione sociale estesa, istituzioni del mercato del lavoro pienamente legittimate e legalmente approvate, così come la risoluzione del conflitto sociale è caratterizzata da strumenti democratici e consensuali. Da un punto di vista statistico, potrebbe sembrare che in Europa vi sia un insieme di welfare identici; ad ogni modo, si tratta, come dimostrato da Espino-Andersen (1990), di un artefatto statistico e questo autore afferma che il capitalismo del welfare europeo racchiuda diverse realtà di welfare. Questa è la posizione seguita anche dai sostenitori della teoria della path-dependency.

IL MSE COME MODELLO IDEALE

In un secondo filone letterario sono identificati modelli nazionali specifici. Regno Unito, Svezia e Germania sono portati come casi emblematici e certi paesi sono messi in risalto per mostrare come, nel Modello Sociale Europeo, si possano combinare con successo efficienza economica e giustizia sociale. Esping-Andersen (1999) sostengono questo approccio. Ferrera, Hemerijck e Rhodes (2001) descrivono - e implicitamente definiscono - come caratteristiche chiave del modello le seguenti componenti: una protezione sociale di base per tutti i cittadini, un alto grado di organizzazione, una contrattazione coordinata e una distribuzione dei salari e dei redditi più equa che in tutte le altre parti del mondo.

“Il paniere contentente l’insieme di politiche richieste per sostenere il Modello Sociale Europeo e assicurare un equo bilanciamento fra crescita e giustizia sociale dovrebbe anche contenere, oltre ad una minima garanzia di protezione alla salute, anche un'universale garanzia sul capitale umano, garantendo l’accesso ad un alto livello educativo e formativo” (Ferrera et al., 2001: 18).

Essi argomentano il fatto che queste caratteristiche siano istituzionalizzate a vari livelli nell’UE e che il Regno Unito e l’Irlanda costituiscano dei casi isolati ben definiti. Paesi Bassi, Danimarca e Austria, sono portati, da questi autori, come esempi di come la politica di un welfare generoso possa conciliarsi con il progresso economico favorendolo. Ebbinghaus (1999) identifica quattro gruppi di welfare che insieme formano ciò che lui chiama

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“Panorama sociale europeo”. Egli definisce un modello come una “combinazione specifica di istituzioni e pratiche sociali che governano le relazioni mercato-società, in una particolare combinazione specifica tutta nazionale (Ebbinghaus 1999: 3). Tale classificazione è basata sul tipo di governo della politica macro-economica di mercato, sulla politica del mercato del lavoro, e sulla politica sociale. Ebbinghaus sostiene che l’Europa è molto lontana dal possedere un singolo progetto istituzionale migliore; il suo marchio distintivo è piuttosto l’unità, combinata con la diversità.

L’MSE COME PROGETTO EUROPEO

Infine c'è chi parla del Modello Sociale Europeo come di un "progetto europeo", con un alto grado di sovrapposizione con i due filoni letterari analizzati precedentemente.

Tutti gli autori sono d’accordo sul fatto che il Modello Sociale Europeo sia un modello dinamico ed in evoluzione, condizionato dai processi e dalle forze sia nazionali che europee. Ad ogni modo, più che enfatizzare le somiglianze tra i sistemi nazionali, l’attenzione va portata qui sullo sviluppo di un distintivo modello transnazionale. Vaugahan-Whitehead (2003) puó essere visto come colui che ha proposto questo orientamento, supportato anche da Wilding (1997) quando fa notare che, per un singolo paese, condurre la propria politica sociale individuale non è più conveniente:

"… non c’è dubbio che la costruzione dell’UE e la volontà da parte degli stati membri di sviluppare rapporti collaborativi, di cooperazione e di interdipendenza, nonché regole comuni di politica sociale, abbia aiutato gli stati membri a mantenere i propri impegni in fatto di politiche sociali e abbia riportato alcuni “cavalli pazzi” o “casi sociali disperati” ad una dimensione sociale" (Vaughan-Whitehead, 2003: 5)

Perciò alla luce dell’allargamento e dell’incorporamento di ex paesi socialisti all’interno della politica europea di integrazione econonomica, il Modello Sociale Europeo assicura un certo grado di coesione.

Black (2000) cerca di dimostrare che il nucleo del Modello Sociale Europeo si trova nelle relazioni industriali, nelle politiche e negli standard del mercato del lavoro. Da questo punto di vista, la sua essenza consiste in un sistema di regolazione a più livelli che deriva da sistemi di regolazione/ deregolamentazione, tanto a livello nazionale quanto a livello europeo, e che si basa sui diritti e i valori europei comuni, esposti e formalmente concordati nel documento dei Diritti Sociali Fondamentali. Black sostiene il fatto che, con il Modello Sociale Europeo, l’Europa abbia avuto un considerevole impatto nella convergenza tra nazioni. Anche Lönnroth (2002) afferma che la carta dei diritti umani fondamentali codifica le chiavi principali del Modello Sociale Europeo e perciò stabilisce le sfide che il Modello Sociale Europeo è chiamato ad affrontare in futuro. “...ci sono alcuni valori, che noi europei condividiamo, che rendono la nostra vita diversa da qualunque altra nel mondo. Questi valori si basano sulla ricerca di una propesperità economica che dovrebbe essere collegata al concetto di democrazia e partecipazione, ricerca del consenso, solidarietà verso gli individui più deboli, uguali opportunità per tutti, rispetto per i diritti dell’uomo e del lavoro, e la convinzione che guadagnarsi di che vivere attraverso il lavoro è la base sulla quale il benessere sociale dovrebbe costruirsi.” Lönnroth (2002: 3)

Nell’Hellenic Report (Ametsis at al.2003), il Modello Sociale Europeo è descritto come una serie di valori sociali, principi e metodi che, in sostanza, possono essere ridotti a tre principi

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base universali: il riconoscimento della giustizia sociale come obiettivo politico; l’approvazione del ruolo produttivo della politica sociale e il suo contributo all’efficienza economica; e, infine, lo sviluppo di un alto livello di contrattazione collettiva tra i partners sociali. Gli autori argomentano il fatto che il Modello Sociale Europeo non abbia ancora raggiunto una definizione normativa a livello europeo e che la definizione del futuro Modello Sociale Europeo dipenderà dalle reazioni ai cambiamenti che attualmente riguardano le strutture economiche, sociali e demografiche dell’Unione Europea.

Molti autori e politici che intendono il concetto di Modello Sociale Europeo come un progetto europeo, interpretano la situazione attuale come un punto di svolta tra diversi modelli di capitalismo avanzato. Il processo di globalizzazione produce una varietà di pressioni comuni, che, a turno, espongono le diverse parti del mondo ( inclusi Stati Uniti ed Europa) agli stessi imperativi di competitività ed integrazione economica interna. Di fronte al cambiamento tecnologico, economico e sociale, presentato come inevitabile e come un “dato di fatto” consolidato, il “bisogno” di una modernizzazione sociale ed istituzionale (riforma strutturale, maggiore formazione per nuove tecnologie, ecc…) è considerato allo stesso modo evidente.

"Questa modernizzazione sta diventando necessaria ed urgente a fronte della popolazione europea, con conseguenze in termini di sistemi di protezione sociale, rispondendo ai bisogni di una popolazione più vecchia dal punto di vista delle condizioni di lavoro, salute e qualità della vita" (Commissione Europea, 2003b: 5).

Questa modernizzazione appare, di conseguenza, come la risposta “naturale” al cambiamento economico e alla globalizzazione. Molti autori e politici a livello europeo usano il termine “Società basata sulla conoscenza” per illustrare l’essenza di questi cambiamenti. Alla base di questo termine sta la nozione secondo cui, per varie cause, le condizioni del nostro modello di produzione sono cambiate e il Modello Sociale Europeo sta lavorando ad un sistema di risposte a queste nuove sfide socio economiche.

La “naturalizzazione” del processo sembra essere scritta nell’ordine delle cose, oltre la sfera della volontà umana. (Serrano Pascual e Crespo Suárez, 2002). Il termine “società della conoscenza” si trova a designare principalmente la gestione tecnica del cambiamento, facendo spazio, allo stesso tempo, alle scelte politiche; e con l’espressione “modello sociale” si intende l’approccio Europeo nell’affrontare le sfide derivanti dal processo di cambiamento sociale.

Ma cosa c’è dietro questo processo di cambiamento? Perchè il modello sociale predominante sembra essere messo in pericolo? Un primo insieme di ragioni è collegato al consolidamento dell’unione economica, unitamente al processo dell’allargamento europeo (si veda Kittel,2002 per un riassunto delle problematiche trattate in questo punto). Sulla scia dell’Unione Economica e Monetaria (UEM), si è creata un’asimmetria significativa tra l’efficienza di mercato (le politiche economiche sono state europeizzate) e le politiche di promozione della protezione sociale (che rimangono a livello nazionale). L’esempio più significativo di questa asimmetria è il modo in cui la strategia europea per l’impiego è intesa come un contrappeso per l’Economia Europea e l’Unione Monetaria. Inoltre l’integrazione economica ha ridotto la capacità degli Stati Membri di utilizzare gli strumenti tradizionali propri della politica economica nazionale ( tasso di cambio, spesa in disavanzo, politica monetaria, aumento dei costi del lavoro) per il conseguimento degli obiettivi auto determinati della politica sociale (Scharpf 2002). L’equilibrio di potere tra autorità fiscali e monetarie è cambiato (Begg 2002: 6).

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Ultimo, ma non per importanza, è il rischio di una diminuzione del potere d’acquisto dei salari e di una conseguente crisi sociale (Jacobsson and Schmid 2002; Kittel 2002). Dalla capacità delle imprese di muovere la propria produzione da un luogo ad un altro ci si potrebbe attendere una minore pressione su tasse, salari e sui sistemi che garantiscono la sicurezza sociale. Queste sono alcune delle ragioni per le quali alcuni autori sostengono il rischio di un aggiustamento verso il basso degli standard sociali e il possibile attacco al concordato sociale e alla regolamentazione del mercato del lavoro (Ferrera et al., 2000; Kittel, 2002). Pertanto essi auspicano la necessità di un rafforzamento della dimensione sociale dell’integrazione europea.

Un secondo insieme di ragioni è basato maggiormente sui cambiamenti demografici e sociali, esempi dei quali sono l’aumento della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, l’invecchiamento della popolazione, il cambiamento dei modelli di consumo e la trasformazione di istituzioni quali la famiglia.

L’invecchiamento della popolazione avrà sostanziali effetti, non solo sulla spesa pensionistica, ma anche e soprattutto sulle spese per l’assistenza a lungo termine. I rapporti di dipendenza aumenteranno in tutte le nazioni sviluppate a fronte di una maggiore aspettativa di vita. Questi cambiamenti demografici avranno tre effetti principali: primo, ci sarà una fetta di popolazione sempre più anziana che probabilmente necessiterà sia di cure essenziali che d'assistenza geriatria; secondo, l’attuale modello trigenerazionale (bambini, genitori, nonni) diverrà un modello quadrigenerazionale (bambini, genitori, nonni e bisnonni); terzo, ci sarà una diminuzione della popolazione fra i 15 e i 64 anni, sollevando perciò interrogativi sui finanziamenti e le nuove spese legate a questo invecchiamento della popolazione (OECD, 1999). L’entrata delle donne nel mercato del lavoro e il cambiamento della composizione famigliare sta minacciando il tradizionale modello basato sull’uomo quale principale sostentatore del nucleo famigliare e ciò crea interazioni complicate con gli esistenti sistemi di protezione sociale così come fa nascere nuove richeste di supporti sociali (per esempio l’assistenza ai bambini, licenze di maternità) e impatti sui tassi di fertilità e di conseguenza sulla futura forza lavoro (Sarfati e Bonoli, 2002).

Infine, il terzo insieme di ragioni (socio-economiche) è collegato all’idea che le nostre economie siano maggiormente esposte a livello internazionale e che questo, insieme ad un incremento dell’uso degli ICT, abbia cambiato le condizioni del nostro modello di produzione.

In contrasto con il principio di stabilità, su cui le società industrializzate erano tradizionalmente basate, la caratteristica principale del modello emergente è il costante cambiamento e l’instabilità. In passato, per ottenere il requisito di stabilità era necessario eliminare le incertezze attraverso una rigida regolamentazione del mercato del lavoro, una rimozione dei rischi e un controllo attento sui futuri eventi. La stabilità economica era un requisito chiave per questo modello di produzione. In contrasto con questa situazione passata, è oggigiorno considerato impossibile regolare gli eventi prima che essi accadano e il rischio è visto come una componente inevitabile. Questo rende “necessario” promuovere la flessibilità, in modo che le persone imparino ad abituarsi all’incertezza e si adattino ai rapidi cambiamenti delle domande di produzione.

Secondo questo modello di produzione, l’abilità nell’affrontare l’imprevisto e i cambiamenti repentini ed improvvisi è presentata come un prerequisito per il successo economico: questo modello di regolamentazione del lavoro è accompagnato dall’emergente modello di regolamentazione del benessere sociale che prevede anch’esso l’insicurezza come elemento

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inevitabile. Secondo questo modello ideale, piuttosto che proteggere dal rischio, lo Stato Sociale dovrebbe concertarsi sulla promozione della gestione del rischio (sottoforma di politiche attiive del lavoro, per esempio fornendo gli strumenti – utilizzabili – necessari all’individuo per facilitare il suo o la sua gestione della situazione di rischio e la capacità del mercato del lavoro di adattarsi) pertanto consolidando le leggi che regolamentano il mercato. Il mercato punisce tutti coloro che falliscono nell’adattarsi alle sue leggi assolute di sviluppo tecnologico e competitività.

L’individuo è visto come essere responsabile nella gestione dei rischi (esempio nella perdita del lavoro) visti come inevitabili fatti della vita. In questo scenario, la cittadinanza diventa, piuttosto che un diritto, qualcosa che l’individuo deve guadagnarsi. Pertanto la cittadinanza è descritta come concetto fondamentalmente individualistico piuttosto che in termini sociali, poiché determinata da comportamenti personali, per esempio dalle scelte personali e dalle abitudini. Considerate assieme, queste ragioni e circostanze giustificano, nella visione delle istituzioni europee, la necessità di trasformare il modello sul quale il concetto di solidarietà è stato costruito nella nostra società.

Sembra essere importante rafforzare la dimensione sovranazionale della solidarieta. In questo quadro, che è anche considerato in termini di autolegittimazione, le istituzioni europee stanno discutendo quello che esse chiamano “Il Modello Sociale Europeo”.

IL MODELLO SOCIALE EUROPEO COME PROGETTO POLITICO

Alla luce degli argomenti discussi sopra e in aggiunta ai tre insiemi di definizioni precedentemente identificate, vorremo portare all’attenzione una quarta definizione ovvero il Modello Sociale Europeo come "progetto politico". Questo nuovo approccio implica di analizzare il MSE come un concetto attraverso il quale può essere fornita una soluzione europea comune ai problemi di natura politica, a seconda del livello di importanza, avvalendosi della definizione di una forma di indirizzo politico distinto.

Questa definizione costruisce il terzo insieme di ragioni con cui ottenere una comune dimensione sociale Europea, ovvero il cambiamento del modello produttivo. É portatore dell’idea di una politica produttiva sociale come avanzamento dei modelli sociali europei e si sviluppa su idee quali: flexicurity4, attivazione, partenariato, ecc.. di cui si è parlato in precedenza.

Ciò significa accordare la politica sociale al bisogno di rafforzare le capacità dell’individuo per sopravvivere nel contesto economico, piuttosto che utilizzare tale politica per cercare di correggere le forze del mercato. Invece di essere un fattore di “correzione per il mercato”, la politica sociale diventa, nel discorso europeo, uno strumento per ottimizzare la calibratura di sistemi di protezione sociale nei confronti delle forze agenti del mercato.

Questa formula ottimistica è utilizzata in alcune nazioni per promuovere una nuova tendenza nell’impostazione delle politiche sociali. Questo stile di concepimento del Modello Sociale 4 Con il termine flexicurity, di derivazione anglo-manageriale e già oggetto di legiferazione nei Paesi Bassi, s'intende indicare un traguardo di auto-tutela sociale, per togliere la maschera oramai ventennale di propaganda neoliberista a favore del concetto di flessibilità, inganno semantico che cela realtà di precarietà sempre più generalizzata e capillare in tutta Europa. Flexicurity significa possibilità d'essere flessibili senza dover subire la precarietà. In altri termini significa ribadire la supremazia del "diritto alla scelta dell'attività lavorativa" sul semplice “diritto al lavoro”, qualunque esso sia (Nota del Traduttore).

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Europeo si sovrappone con il concetto di Terza Via, dato che si tratta di un progetto di natura europea. Comunque, come spiegheremo più avanti, non si tratta affatto di un fattore esogeno, ma piuttosto di un progetto politico che mira a costruire un’identità europea, non attraverso i valori e le istituzioni comuni, ma più precisamente utilizzando le soluzioni di politica sociale comuni.

Per riassumere brevemente, i quattro gruppi di definizioni possono essere ridotti a due principali scuole di pensiero all’interno del dibattito sul MSE.

Secondo la prima definizione, il MSE è inteso come storicamente acquisito (Kittel, 2002) – principalmente caratterizzato da istituzioni specifiche (protezione sociale ridistribuita, organizzazioni degli interessi comuni e risoluzione dei problemi attaverso concertazione), valori (socializzazione del rischio, equità sociale, etc.) e risultati (estesa copertura di sicurezza sociale, salari più equi e distribuzione delle entrate). Tale modello di MSE è stato sfidato e messo in difficoltà, e in qualche modo eroso, dai cambiamenti citati in precedenza.

Nella seconda scuola di pensiero, al contrario, il MSE è considerato come un mezzo per affrontare tali minacce e sfide.

Noi riteniamo che il primo approccio sia piuttosto discutibile, principalmente per il fatto che è dubbia l’esistenza stessa del MSE, vista la grande varietà di stati sociali succedutisi in Europa (cfr. Per esempio Esping-Andersen, 1990). Inoltre è discutibile in che termini questi differenti approcci rappresentino una questione di scale di valori (per esempio nel quantificare il “più e il meno” nella distribuzione ugualitaria dei salari) oltre che una questione relativa a differenti principi (assunti ideologici e normativi ed elementi centrali che spieghino la costruzione di uno specifico modello sociale).

Solo all’interno della seconda scuola di pensiero è possibile parlare di modelli naturalmente differenti. Tuttavia i due approcci analititci sono frequentemente presentati in complementarietà (la necessità di riformare del MSE della seconda scuola di pensiero per preservare il MSE stesso così come definito dalla prima).

IDEE PRINCIPALI INDOTTE DAL CONCETTO DI MSE INTESO COME PROGETTO POLITICO

Piuttosto che considerare il MSE come un’entità o un fatto, esso potrebbe essere considerato come una costruzione politica all’interno di un quadro di richiesta di legittimazione che l’Unione europea ha progettato per se stessa.

In questo senso, noi crediamo che il concetto sia inseparabile dall’istituzionalizzazione dell’UE come stile di governo sovranazionale. Ciò che sottende questa discussione è il progetto di restaurare la legittimità politica delle istituzioni europee dopo un periodo di crisi. Per certi versi, la proliferazione di ricerche sul MSE serve tale processo di costruzione di un progetto politico europeo.

In questo quadro descrittivo, noi crediamo che il concetto sia, piuttosto che qualcosa d'esterno che sta aspettando di essere scoperto, un vero progetto politico e perciò un costrutto socio-politico messo in piedi dalla discussione politica ed accademica su come affrontare le attuali sfide economico-sociali. Un esempio di ciò è il modo in cui la pratica di comprimere le peculiarità di una regione socioeconomica in pochi elementi descrittivi (Vobruba, 2001),

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nonostante l’eterogenea natura del concetto di MSE, può essere vista come un mezzo per costruire un'identità Europea5.

Questo discorso coincide con un processo di costruzione di un’identità europea e in particolare un processo di ricerca dei valori attraverso i quali tale identità può sostanziarsi e prendere forma. Le Istituzioni Europee la esplicitano in questo modo:

"L’Unione deve dar forma a questi cambiamenti in maniera coerente con i suoi valori e i concetti della società e anche in vista dell’imminiente allargamento" (Consiglio d’Europa, 2000: 1).

"Le politiche sociali non sono soltanto il risultato di buone performance e politiche economiche, ma anche un input e un quadro guida. Secondo questa linea, la modernizzazione del modello sociale significa svilupparlo ed adattarlo considerando la rapidità dei cambiamenti socioeconomici ed assicurando al contempo un supporto reciproco e positivo da parte delle politiche economiche e sociali" (Commissione Europea, 2001: 5).

Nel corso di questa ricerca è stato assunto come dato di fatto che il modello sociale ed economico europeo abbia difficoltà ad adattarsi alle nuove condizioni sociali ed economiche. Le regole del modello industriale sembrano essere inappropriate rispetto alle condizioni imposte dalla new economy. Pertanto questa società richiede, secondo il dibattito, nuovi standard, nuove competenze (tecniche, metodologiche e morali) da parte dei lavoratori e anche nuove strutture (procedurali e flessibili) per regolare le istituzioni preposte al lavoro.

Pertanto, il concetto di MSE deve essere visto come un processo politico attraverso il quale le istituzioni europee stanno cercando di accrescere la loro leggitimità. Come sottolineato da Lord, questo è particolarmente importante sulla scia della crisi di legittimazione sofferta dalle istituzioni europee nel corso degli ultimi anni. L’autore cita le tre componenti che caratterizzano il concetto di legittimazione nelle società democratiche identificate da Beethan (1991): il rendimento delle istituzioni; la conformità ai valori democratici; l’identità politica (Beetham citato da Lord, 2000: 3).

La legittimità delle istituzioni europee, che si è costruita principalmente sulla propria performance durante fasi passate, necessita ora di progredire e rispondere a due ulteriori dimensioni del concetto di legittimazione ovvero democrazia ed identità.

Il primo aspetto, la democrazia, è complementare allo scopo di questo articolo. Noi intendiamo focalizzare la nostra analisi sul secondo aspetto, ovvero l’identità, e sosteniamo che per rafforzare la leggitimità istituzionale basata sulla formazione di identità, l’identificazione/attribuzione di valori chiave sia un passaggio cruciale in tale processo. Il concetto di MSE può essere inteso come un modo di identificare questi valori centrali attraverso i quali un’identità europea potrebbe essere costruita. L’ipotesi che noi vorremo avanzare è che quest’identità costruita si basa meno su comuni valori che non su una condivisione di problemi e interventi per cercarne le soluzioni. Questo spiega come la natura dell’integrazione europea si basi sulla produzione di nozioni e concetti comuni (Abélès, 2002), nonostante le diverse strutture istituzionali e i valori politici presenti in Europa.

5 Non vogliamo qui discutere in quale misura noi ci stiamo muovendo verso un processo di convergenza o uno di divergenza nel modo in cui i diversi stati europei stanno affrontando le pressioni comuni ( per una buona discussione delle posizioni teoretiche e analitiche sottostanti queste due opposte posizioni vedasi Hay, 2002), ma piuttosto come questa presunzione che ci sia qualcosa in comune sia una compenente inerente della costruzione politica della UE

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Nella produzione di tali valori le istituzioni europee giocano un ruolo fondamentale. Come alcuni studi dimostrano (Barbier, 2001; Palier, 2001; Serrano, Pascual, 2003; Jacobsson, 2004), le istituzioni europee stanno giocando un ruolo chiave nel fornire schemi ed indirizzi cognitivi, insieme ad esempi concettuali nel caso, per esempio, della Strategia per l’impiego a livello Europeo.

All’interno dei dibattiti politici nazionali si è diffuso un certo vocabolario (occupazione, partenariato, politiche attive, mainstreaming di genere, ecc.). Questo adattamento del “linguaggio” proposto dalle istituzioni europee ha avuto un importante impatto sulla formulazione delle argomentazioni inerenti al problema della disoccupazione e/o della povertà, influenzando le principali linee di pensiero sulle quali il dibattito è stato condotto e il modo nel quale il problema viene descritto. Le istituzioni europee giocano un ruolo importante nell’influenzare e guidare il dibattito (ruolo socializzante) intervenendo sulle costruzioni terminologiche utilizzate per descrivere il problema dell’esclusione dal mondo del lavoro e proponendo comuni strutture espressive di riferimento.

Un esempio chiaro è il cosiddetto "Activation Model"6. Nonostante la popolarità di questo modello e l’ampio consenso in diverse nazioni europee circa la necessità di aumentare questo genere d'intervento, i valori invocati per giustificare il modello e le politiche concrete a cui ci si ispira variano di molto da nazione a nazione (Barbier, 2004; Serrano Pascual, 2004). Pertanto la stessa ricetta sarà tradotta in differenti modi di preparazione che conterrano diversi valori tra gli ingredienti.

Un altro esempio di questo processo di creazione di una comune identità è la produzione di statistiche europee (Eurostat) o la promozione di progetti comparativi da parte delle istituzioni europee che cercano di ridurre la complessità dei modelli europei ad un ristretto numero di indicatori ottenendo così problemi “comuni”. Il Consiglio d’Europa descrive così alcuni di questi problemi “comuni”:

“L’invecchiamento della società richiede strategie chiare per assicurare adeguati sistemi pensionistici così come sistemi sanitari adeguati, mantenendo allo stesso tempo sostenibilità del sistema delle finanze pubbliche e solidarietà intergenerazionale”. (Consiglio d’Europa, 2001:21).

"L’Unione Europea è chiamata a confrontarsi con un cambiamento causato dal processo di globalizzazione e dalle sfide lanciate da una new economy basata sulla conoscenza. Questi cambiamenti stanno influenzando ogni aspetto della vita delle persone e richiedono una radicale trasformazione dell’economia europea (Consiglio d’Europa, 2000:21).

Questo potrebbe produrre un senso d'appartenenza alla stessa comunità e accelerare il processo di creazione di un’identità comune. Sebbene questo modello europeo non si potrà basare su valori comuni (a causa delle disparità fra i modelli sociali nazionali su cui esso si fonda), tale processo può incoraggiare le nazioni europee che condividono gli stessi problemi (socialmente costruiti) e dai quali si sentono “minacciate”, a produrre ricette simili per contrastarli. Il legame comune in questa situazione non sono tanto i valori o le culture (come nel caso di modelli nazionali), ma piuttosto un’identità comune, che risulta dalla condivisione dei problemi e delle soluzioni (esempi politici e filtri cognitivi attraverso i quali il dibattito prende corpo). In questo modo il dibattito attorno al MSE e gli strumenti ad esso associato

6 L'espressione "activation" rimanda, in questo caso, all'espressione italiana "politiche attive del lavoro" (Nota del Traduttore)

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contribuiscono alla costruzione di sfide comuni per l’Europa e aiutano a costruire un consenso su come queste ultime debbano essere affrontate e risolte.

In questo quadro descrittivo, sono presenti due principali argomenti che modellano la discussione su quale sia il ruolo dell’azione pubblica e quali rimedi si dovrebbero utilizzare. In primis c’è la questione su quali siano i mezzi più appropriati da utilizare. Poi, bisogna considerare l’insieme di argomenti collegati ai diversi approcci alternativi alla regolamentazione.

Riguardo alla prima questione, i principali meccanismi sembrano essere la flessibilità e l’attivazione che, tradotti nel linguaggio dell’UE, devono essere letti come flexicurity (cfr. Transfer 2004) e occupabilità.

Entrambi i meccanismi nascono dalla convinzione che, nonostante gli impedimenti economici, ci sia bisogno di un adattamento innovativo e proattivo ad un nuovo modello capitalista. L’idea principale che sottende entrambi i concetti è che la solidarietà sia stata istituzionalizzata in maniera tale che essa diminuisce la volontà degli individui di adattare i propri comportamenti alle esigenze economiche (Lindbeck, 2001). Pertanto vi è la necessità di muoversi da un supporto passivo ad una tendenza attiva e di rimpiazzare al contempo i vecchi schemi politici per ottenere la socializzazione delle motivazioni e delle morali degli individui per persuaderli nel partecipare al processo di modernizzazione:

"Il sistema degli incentivi finianziari è uno dei fattori determinanti della partecipazione nel mercato del lavoro[... ] Il bilancio fra entrate provenienti dal lavoro[…] confrontato con le entrate date dalla disoccupazione o dall’inattività determina la decisione di entrare e rimanere nel mercato del lavoro (Commissione Europea, 2003a:11)

Il ruolo delle istituzioni, in questo contesto, dovrebbe diventare quello di fornire gli strumenti (occupabilità, flexicurity) che permetteranno agli individui di trovare modi di adattamento alle condizioni economiche e sociali:

"...la modernizzazione del mercato del lavoro e la mobilità dello stesso devono essere incoraggiate per garantire maggiore adattabilità così da abbattere le barriere esistenti" (Consiglio d’Europa, 2001:16)

"Le persone sono la principale risorsa per l’Europa e dovrebbero essere il punto focale delle politiche dell’Unione. Investire sulle persone e sviluppare un attivo e dinamico welfare state sarà cruciale per l’Europa" (Consiglio d’Europa, 2000:7)

"....proporre la migliore offerta alla persona giusta al momento giusto. Un approccio simile dovrebbe concretizzarsi attraverso una preliminare identificatione delle richieste e dei bisogni di ogni persona in cerca di occupazione e la programmazione, ad uno stadio iniziale, di un piano di azione personalizzato, con un’attenzione particolare ad un’integrazione sostenibile nel mercato del lavoro" (Commissione Europea, 2003a:11)

Per quanto riguarda la seconda questione, molti autori sostengono che regole essenziali e standardizzate mal si adattano alle nuove condizioni di produzione. Piuttosto che regole essenziali essi sono a favore di strumenti extra regolatori (ovvero la genericità, l’accettazione della diversità, clausole incomplete ed aperte: Sissons e Marginson, 2001) e nuove forme di applicazione forzosa, basate su di una flessibile partecipazione degli attori coinvolti (per esempio attraverso persuasione) per riuscire ad affrontare la varietà e le dinamiche

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complessità che caratterizzano le società post moderne: “Rimpiazzare le politiche con la persuasione: lo sviluppo sociale non è visto tanto quanto una questione di precondizioni istituzionalizzate e schemi politici fissi, ma come una questione di motivazioni personali, buona volontà e morali” (Vobruba, 2001: 263).

Nonostante Vobruba si stia riferendo al modo americano di promuovere il concetto di flessibilità, possiamo dire che questa sia la principale caratteristica del modello normativo proposto dalle istituzioni europee (per una analisi dettagliata si veda Crespo Suárez e Serrano Pascual, 2005).

Esempi della nuova popolarità che circonda tale tipo d'approccio sono i cosidetti Metodi Aperti di Coordinamento (Open Method of Coordination = OMC)7 che sono alla base del modello normativo per il coordinamento delle politiche di occupazione, inclusione sociale e pensioni delle istituzioni europee e anche della discussione sulla “soft regulation” a schemi flessibili che si oppone ai “compulsory rigid systems" (sistemi rigidi obbligatori) come espressione della europeizzazione dei rapporti industriali (Sisson e Marginson, 2001).

L'OMC si propone di armonizzare idee, visioni e norme di azione, piuttosto che istituzioni o normative, così da definire gli obiettivi che possono convergere verso una visione politica comune (Palier, 2001). In questa visione politica, i cambiamenti di politiche guida sono resi legittimi da incontrollabili processi di globalizzazione ed eventuali trasformazioni in sfide (Fairclough, 2000; Crespo Suárez e Serrano Pascual, 2004).

Muntigl et altri (2000) mostrano come, nonostante i nuovi impedimenti economici, il discorso relativo alla globalizzazione, da un punto di vista retorico oltrepassa lo stato nazionale e enfatizza la natura sovranazionale delle sfide, presentate in un modo dato per certo così da far apparire il livello sovranazionale come il livello più appropriato e “normale” nella risposta a queste correnti minacce.

In questo quadro, e alla luce di questa polisemia, i differenti significati del concetto sembrano apparire ugualmente validi qualora particolari prospettive filosofico-politiche sono etichettate in relazione a differenti necessità. Ad esempio, per mostrare l’esistenza di minacce comuni e legittimare il bisogno di progetti comuni (quarto significato del concetto), le istituzioni europee chiameranno in causa il significato essenzialista del concetto (“L’Unione Europea condivide valori comuni e istituzioni comuni” – primo e secondo significato del repertorio interpretativo del concetto). Da questa interpretazione del concetto, si può concludere che devono essere prodotti risultati comuni (uguaglianza, giustizia sociale, ecc.).

Utilizzando il concetto di MSE come denominatore comune, il dibattito dell’UE può pertanto spostarsi da un concetto di MSE inteso come progetto politico (condivisione degli strumenti politici) ad un’affermazione della necessità di ottenere risultati comuni. Ed ancora lo stesso strumento politico può essere utilizzato per ottenere un diverso effetto in diverse nazioni a seconda dello schema istituzionale e degli specifici valori culturali di questa o quella specifica nazione.

Un ulteriore esempio di questo uso del discorso è il modo in cui le parole vengono trasformate per sottolineare l’approccio made-in-Europe nel trattamento delle questioni. Per enfatizzare il fatto che questo modo europeo di trattare le situazioni è ben lontano

7 In italiano è frequente l'acronimo MOC, ad esempio MOC Pensioni, mutuato dal francese Méthode Ouverte de Coordination (Nota del Traduttore).

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dall’approccio statunitense, concetti quale workfare vengono rielaborati e rietichettati coi termini di attivazione, flessibilità e flexicurity, globalizzazione, società basata sulla conoscenza e corporate governance, responsabilità sociale delle imprese.

Ma la sfida proveniente da questa “metamorfosi concettuale” si può valutare considerando come il cambiare i significati trasformi anche la realtà e la filosofia che stanno dietro al concetto stesso, in particolar modo in nazioni dove, confronto al mercato, le istituzioni politiche e sociali sono deboli. Al momento attuale la creazione di tali concetti stabilisce equivalenze che servono a nascondere le differenze esistenti fra le nazioni.

La polisemia può anche derivare alla posizione piuttosto peculiare dell'UE, nel momento in cui essa ha la necessità di trovare vie per riconciliare le diverse filosofie politiche protagoniste nei diversi paesi europei. Lo stile di governo di necessità esercitato dalle istituzioni europee, porta il marchio di una forma di “governo attraverso la diversità”, e questa diversità si riflette anche nei significanti sottostanti o attribuiti ai concetti.

La vaghezza dei concetti utilizzati dalle istituzioni europee potrebbe essere dovuta, in alcuni casi, ai bisogni di regolamentazione e alle posizioni piuttosto fragili degli attori politici coinvolti, il cui bisogno è quello di articolare il loro obiettivo di istituzionalizzazione e creazione di una identità sovranazionale rispettando, allo stesso tempo, la richiesta dei singoli stati membri di mantenere la propria sovranità nazionale.

Questo potrebbe in parte spiegare la tendenza delle istituzioni europee ad offrire concetti politici con significati eccessivamente aperti, consentendo in tal modo agli attori politici nazionali di infondere a tali significati connotazioni specifiche strettamente legate a tradizioni nazionali.

CONCLUSIONE

Il concetto di MSE è stato inteso come: un particolare gruppo di istituzioni; un particolare insieme di valori di riferimento dai quali le istituzioni traggono ispirazione per la propria costituzione, per esempio, il valore del momentaneo accantonamento dell’interesse dell’individuo per perseguire e raggiungere un guadagno/interesse collettivo (Vobruba, 2001); un impegno ad ottenere risorse minime garantite (Begg, 2002); un particolare metodo per affrontare problemi comuni; ma anche risultati ed effetti dell’operato di queste istituzioni e valori (livelli di povertà e inuguaglianza, empowerment individuale e collettivo, performance economiche, decommodification8 della società) (Vobruba, 2001).

Abbiamo discusso due aspetti connessi tra loro che caratterizzano l’uso del concetto di MSE nel dibattito politico ed accademico: da un lato la nota asserzione ormai consolidatasi sottostante il concetto; dall’altro lato l’elevata ambiguità e polisemia di tale concetto. Facendo questo, abbiamo identificato tre principali modi in cui il concetto è usato nel dibatitto scientifico ed accademico (MSE come entità, come tipologia ideale, come progetto europeo e strumento di coesione). A questi abbiamo aggiunto un quarto modo di intendere il concetto di MSE, nello specifico defininendolo come un insieme di mezzi per legittimare le istituzioni europee.

8 Per "decommodification" s'intende, nel gergo socioeconomico, quel processo di costruzione delle garanzie che "libera le persone dalla necessità del lavoro" (Nota del Traduttore).

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Noi sosteniamo che la natura polisemica del concetto di MSE risulti non solo dalla mancanza di discussione riservata al concetto, ma anche da un costrutto di identità politica, ideato e concepito dalle istituzioni europee attraverso un proprio stile del tutto europeo.

Contrariamente all’idea del MSE come un dato di fatto, noi contrapponiamo l’idea del MSE inteso come un progetto politicamente costruito. Abbiamo enfatizzato come questo concetto possa essere intenso come un modo di legittimare la nozione di politica sociale europea e come essa si alimenti di concetti quali activation e flexicurity. Comunque, come abbiamo cercato di dimostrare, esso non è certamente un fattore esogeno, ma al contrario un progetto politico costruito per promuovere la crescita di un’identità europea. Questa identità costruita si basa molto meno su valori comuni che non su di una condivisione di problemi ed interventi risolutivi (esempi d’intervento politico).

Queste osservazioni sottolineano la necessità di identificare e verificare empiricamente le principali argomentazioni sulle quali il dibattito si fonda, per evitare spiegazioni deterministiche dei cambiamenti di percorso nei progetti di politica sociale. Di conseguenza, per evitare una situazione in cui riferimenti al concetto di “Modello sociale europeo” possano essere usati/strumentalizzati per comunicare semplicisticamente qualsiasi proposta politica, sia economica che sociale, e presentare come “naturali” ciò che sono di fatto opzioni politiche, è necessaria una riflessione critica e analitica.

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Ruolo dei sindacati nell’innovazione dei sistemi di pensione in alcuni paesi dell'Unione

Le rôle des syndicats dans l’innovation des systemes de retraite :

Processus et contenu de reforme dans divers pays de l’Union

David Natali9

Traduzione dal francese e sintesi a cura di Maria Merlante10

Fonti:

www.ose.be/fr/mocpension.htm

Per consultare la versione integrale originale dell'articolo (in francese) contattare l'autore oppure [email protected]

9 Ricercatore senior presso l'Observatoire Social Européen (OSE), Rue Paul-Emile Janson, 13 B-1050 Bruxelles (Tel. +32 2 5371971 [email protected]). 10 Stagiaire presso l'Osservatorio INCA CGIL per le politiche sociali in Europa (Bruxelles) [email protected]

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1. INTRODUZIONE

Questo articolo è il secondo di quattro articoli redatti per la Revue belge de sécurité sociale nel quadro del progetto “Il metodo aperto di coordinamento in materia di pensioni e di integrazione europea” realizzato dall’Osservatorio sociale europeo e finanziato dal Servizio pubblico federale Sicurezza sociale11. Il primo presentava un’introduzione generale dell’evoluzione istituzionale dei sistemi di pensione dei vecchi e dei nuovi paesi membri (Natali, 2004). Questo, invece, è dedicato al ruolo del movimento sindacale nel processo di riforma e il suo impatto sul contenuto delle riforme legislative adottate nei diversi paesi12.

Questo articolo mostra che il ruolo dei sindacati è stato decisivo in alcuni paesi dell’Europa continentale, mentre, in altri casi, gli interlocutori principali sono stati il governo e il parlamento. Come spiegare questa differenza? Quali sono le risorse di legittimità e di potere più importanti del movimento sindacale che lo rendono attore decisivo nel processo di riforma? E infine, qual è l’impatto dell’azione sindacale sul contenuto delle riforme?

Nelle pagine che seguono avanzeremo una serie di proposte sulla base di un confronto tra quattro paesi dell’Unione europea e che rappresentano le diverse famiglie dei sistemi di pensione già definiti nel primo articolo di questa serie : la Francia (espressione del sistema bismarckiano), il Regno-Unito (sistema multipilastro), la Svezia (sistema nordico) e la Polonia (ibrido tra il multipilastro e il nordico) (Natali, 2004).

2. IL RUOLO SINDACALE NEL PROCESSO DI RIFORMA DELLO STATO SOCIALE

Alcuni autori hanno descritto l’evoluzione delle politiche sociali come la ricomparsa della concertazione tra governo e parti sociali (Fajertag et Pochet, 2000; Regini, 2000; Reynaud, 2000). Nuovi patti negoziati a livello nazionale sono stati sviluppati durante l’ultimo decennio del XX secolo. Rhodes (2001), tra gli altri, ha sottolineato l’importanza di questo processo in un contesto caratterizzato dallo sviluppo di vincoli esogeni sul ruolo degli attori nazionali nelle politiche sociali.

In questo quadro, rapidamente tracciato, cercheremo di capire meglio l’azione sindacale nel processo di riforma. Prenderemo in esame una serie di risorse di potere e di legittimità che, tra le altre, sono capaci di determinare il peso del movimento sindacale. Faremo la distinzione tra

11 Questo articolo si basa parzialmente sui risultati del progetto di ricerca “Globalisation, Welfare Reform and

Social Pacts in Western Europe” (“Globalizzazione, Riforma del Welfare e Patti Sociali nell’Europa occidentale”) che ho realizzato per l’Istituto universitario europeo di Firenze, sotto la direzione del Prof. M. Rhodes, e sul progetto “The Welfare State Reform and the Social Dialogue in Europe. The Analysis at the European and National Level ” (“La Riforma del Welfare e il Dialogo Sociale in Europa. Analisi a livello europeo e nazionale”), realizzato per la fondazione R. Schuman di Parigi, sotto la direzione del prof. R. Dehousse.

12 Più di un testo della letteratura scientifica ha mostrato la preminenza del movimento sindacale, se confrontato con organizzazioni patronali, nel processo di decisione (policy-making) e di attuazione delle riforme delle pensioni. Si può vedere, ad esempio, Schludi, 2002, e Natali e Rhodes, 2004.

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le risorse legate al modello del sindacalismo “sociale” e quelle legate al modello “economico”13 (Moody, 1997 ; Ost, 2002).

Il modello "sociale" è caratterizzato dall’azione più politica delle confederazioni sindacali che estendono la loro attività al dilà del luogo di lavoro, attraverso l’interazione con i decisori politici sulle questioni d'interesse generale. In questo modo, la leadership sindacale rappresenta gli interessi di un più ampio gruppo di individui e potenzialmente di tutta la popolazione (encompassing interests). Vari fattori possono aumentare il peso politico delle organizzazioni sindacali: per esempio, per quanto riguarda le politiche pensionistiche, il loro ruolo di gestione dei programmi pensionistici, la loro capacità di rappresentare l’interesse dei sindacati e dei lavoratori più anziani o ancora la capacità di mobilitare l’opinione pubblica intera.

Il modello "economico", invece, è basato sul rapporto diretto tra sindacati e leaders e sull’offerta di servizi sui luoghi di lavoro per i propri associati. In questo caso, la leadership rappresenta e difende gli interessi economici particolari dei sindacalizzati (narrow interests). In questo contesto, i fattori che determinano la forza di un’organizzazione sono abitualmente i tassi di sindacalizzazione (o densità sindacale) e il rapporto tra i lavoratori coperti dalla negoziazione sindacale (anche se non sono dei sindacalizzati) e la popolazione attiva generale (vale a dire la copertura sindacale).

2.1. La politica pensionistica nei diversi sistemi di pensioni : gli organismi di gestione Le strutture di gestione ereditate dal passato possono essere un fattore di legittimità “politica” delle parti social. molto forte. Coloro che amministrano i programmi di protezione sociale per conto degli assicurati, sono legittimati a far parte del processo di riforma.

L’evoluzione storica dei sistemi di pensione ha prodotto due diverse categorie. Da una parte, la Germania è stata il primo paese europeo ad adottare un sistema di pensioni per i salariati industriali. Una tale istituzione aveva per obiettivo quello di garantire ai lavoratori che avevano smesso la loro attività professionale un reddito sostitutivo del salario, condizionato dal versamento contributi. Questo è stato finanziato dai contributi sociali pagati dai datori di lavoro e dai lavoratori ed ha dato luogo a prestazioni logicamente legate ai salari. Così, il sistema delle pensioni è gestito dagli interessati, cioè da coloro che pagano per questo attraverso i contributi. Di fatto, la gestione di questi programmi nei paesi che seguono l’esempio tedesco è basata su un mix di responsabilità da parte dello Stato e degli interessi organizzati che rappresentano direttamente gli assicurati. Questa forma di gestione è definita amministrazione sociale (Marier, 2001).

A causa del ruolo decisivo giocato da Bismarck nello sviluppo di tali programmi, questi sono etichettati come medello bismarckiano. In generale, questo modello è stato seguito in Europa continentale (Natali, 2003).

D’altra parte, la Danimarca ha introdotto un po’ più tardi della Germania un sistema di pensione orientato verso i più poveri: il suo obiettivo era la lotta contro la povertà (tra la

13 Come dimostra il seguente studio comparativo, il ruolo sindacale è di fatto influenzato da un ampio ventaglio

di fattori. Questo articolo non ha l’ambizione di rappresentare un riassunto completo, ma quello di sottlineare alcuni di questi fattori.

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popolazione più anziana e non solamente tra i lavoratori). Tale sistema è stato finanziato attraverso il fisco e versava delle prestazioni forfetarie. Dal momento che Beveridge ha rappresentato una figura principale nei paesi basati su questa regolazione istituzionale, questo modello è stato definito beveridgiano. I sistemi sono abitualmente amministrati dallo stato e le parti sociali non hanno ruolo gestionale. I sindacati non sono associati alla gestione della protezione sociale, ed in particolare delle pensioni, poiché il sistema è universale (copre tutta la popolazione) e non è fondato su categorie professionali di beneficiari e contribuenti. In questo caso si parla di un’amministrazione statica (Marier, 2001). Il sistema è in vigore in Scandinavia e nei paesi anglosassoni.

Per quanto riguarda i paesi analizzati in questo articolo, la Francia rappresenta il sistema di pensioni bismarckiano con un’amministrazione sociale. La sicurezza sociale nel suo insieme è stata caratterizzata da un insieme di responsabilità tra lo Stato (controllo e tutela) e le parti sociali (gestione diretta) (Palier, 2002). La Svezia e il Regno Unito fanno invece parte del regime beveridgiano con un’amministrazione statica (Botoli, 2000; Wadensjo, 2000). Lo stato gestisce unilateralmente questi regimi che costituiscono solamenteil primo pilastro del sistema. Un ruolo centrale, tuttavia, è giocato dagli attori privati che gestiscono il secondo pilastro del sistema. In effetti, le pensioni possono essere versate dal governo (pensioni pubbliche), dai datori di lavoro (pensioni d’impresa) e da ogni singolo lavoratore (pensioni personali).

La Polonia ha avuto una storia molto più movimentata. All’inizio del XX secolo, i primi passi dei programmi di pensione furono coerenti con l’approccio bismarckiano, sotto l’influenza tedesca e austriaca (Golinowska e Zukowski, 2002). Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il sistema pubblico di pensioni seguì il modello comunista. Dal punto di vista istituzionale, il ruolo dello stato fu molto più centrale che nei paesi dell’Europa continentale. In ogni caso, i programmi hanno mantenuto la logica di assicurazione sociale ereditata dall’inizio del secolo: prestazioni finanziate dai contributi, presenza formale dei rappresentanti dei sindacati e delle imprese pubbliche nell’amministrazione dei programmi. In questo contesto storico e istituzionale, l’insieme delle politiche sociali mescolava la logica dell’assicurazione sociale con degli obiettivi di protezione universale teoricamente estesa alla popolazione intera. Dopo la fine del regime comunista, con la riforma introdotta nel 1996 la supervisione dell’attività dell’istituzione di sicurezza sociale (ZUS) fu attribuita agli organismi tripartiti di controllo (50% dei membri rappresentanti degli operai, 25% dello Stato, 25% dei datori di lavoro). Per tutte queste ragioni, definiamo il sistema polacco bismarckiano con an’amministrazione sociale (anche se lo Stato vi gioca sempre un ruolo importante).

2.2. Altre fonti di legittimità per il movimento operaio Dopo la definizione del ruolo amministrativo dei rappresentanti dei lavoratori, è importante introdurre altri fattori potenzialmente esplicativi del loro ruolo nel processo di riforma delle pensioni. Per quanto riguarda altre risorse “politiche”, l’età degli aderenti costituisce un altro elemento potenziale capace di descrivere il ruolo delle confederazioni sindacali nella politica delle pensioni. In un modello molto semplicistico, si suggerisce che la capacità del movimento sindacale di rappresentare i pensionati presenti e futuri (e così la loro capacità d’intervenire nella rete della politica sociale) sia determinata dal numero dei lavoratori più anziani – e dei pensionati – rispetto al numero effettivo degli iscritti al sindacato.

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Come mostra la tabella 1, la sindacalizzazione dei pensionati è relativamente alta in Francia, mentre è molto meno elevata negli altri paesi. Supponiamo allora che, laddove i pensionati hanno un impatto molto forte nella composizione degli iscritti al sindacato, le confederazioni ritrovano una fonte simbolica ed ideologica di legittimità per agire nel settore dell’assicurazione per la vecchiaia.

Questa legittimità, al contrario, può diminuire in caso di competizione tra sindacati e organizzazioni dei pensionati per rappresentare l’interesse delle persone non attive. Mentre in Francia le confederazioni sindacali hanno il monopolio della rappresentazione dei pensionati (Natali, 2003), in Svezia e nel Regno Unito troviamo invece una forte frammentazione di questi interessi tra sindacati e organizzazioni d’interesse non sindacale (Wadensjo, 2000). In Svezia, per esempio, i pensionati hanno le proprie organizzazioni al di fuori dei sindacati: nel 1995, essa contava su circa 500.000 iscritti (la confederazione degli operai LO aveva nello stesso periodo 1.850.000 membri) (Kjellberg, 2000; Feltenius, 2002).

Per la Polonia i dati a disposizione sono molto pochi. In ogni caso, sulla base delle pubblicazioni della banca mondiale, si può sottolineare che la lobby dei pensionati era attiva (ma poco efficace) nell’arena elettorale più che in quella corporatista (Orenstein 2000 ; O’Donnell et Shah, 2003).

Infine, la capacità delle confederazioni sindacali di mobilitare i loro iscritti e l’opinione pubblica in generale per la difesa degli acquis sociali, è uno strumento che può essere utilizzato nel corso del processo di riforma. La misura del livello di mobilitazione in ogni paese è quantificata ex post e solamente per il settore delle pensioni. Essa è elevata nei casi delle grandi manifestazioni guidate e coordinate dal movimento sindacale (come in Francia nel 1995), mentre è bassa quando l’adozione e l’attuazione delle nuove misure legislative non sono state caratterizzate da un’attivazione della base sindacale (come nel Regno Unito e in Svezia) (Tabella 1). In Polonia, dove le manifestazioni sono state più limitate (in termini di partecipazione e d'impatto), il movimento sindacale ha avuto comunque un peso decisivo, legato al suo ruolo durante la transizione verso la democrazia. Per questo motivo, noi consideriamo elevato questo livello di mobilitazione.

Tabella 1 : Risorse di organizzazione dei sindacati nei diversi paesi

Sindacalismo sociale Sindacalismo economico

Densità sindacale Eredità politica e istituzionale

Amministrazione Membri pensio- nati (2000)

Lobby dei pensionati

Mobilizzazione

1995 2000

Copertura sindacale (1995)

Francia bismarckiano Sociale 25 No Alta 9 - 82

R. U. beveridgien Statico 5 Si Bassa 32 29 47

Svezia beveridgien Statico 10 Si Bassa 83 82 83

Polonia bismarckiano + (comunist)

Sociale 10 No Alta - 15 40*

* Anno di riferimento 2000.

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Fonte, Natali, 2003, Keune e Natali 2004.

L’azione tradizionale delle confederazioni sindacali per la difesa dei loro membri sui luoghi di lavoro (ciò che viene chiamato modello del sindacalismo “economico”) può essere spiegata in termini di densità e copertura sindacale. La densità sindacale, cioè il numero degli iscritti al sindacato rispetto alla popolazione attiva generale, nei paesi considerati mostra un livello assai diseguale durante il periodo 1995-2000. Il tasso più basso è stato in Francia (9% della popolazione attiva nel 1995), seguita dalla Polonia (15% nel 2000). I più elevati sono stati in Svezia (circa l’80%), mentre il Regno Unito ha un livello medio di circa 30% della popolazione attiva.

Inoltre, il livello di copertura (rapporto tra i lavoratori che sono coperti dalla negoziazione sindacale, anche se non sono iscritti al sindacato, e la popolazione attiva generale) è particolarmente elevato in Francia e in Svezia (superiore all’80%). È più limitato in Polonia e nel Regno Unito. Boeri e altri (2002) hanno supposto che un organizzazione sindacale, caratterizzata da un’elevata copertura, possa giocare un ruolo importante nella sicurezza sociale anche se il tasso di sindacalizzazione (o densità sindacale) è debole.

3. IL PROCESSO DI RIFORMA NEI QUATTRO PAESI

Gli attori politici e sociali sono stati entrambi protagonisti della questione delle pensioni nei diversi contesti nazionali. In questa sezione mostreremo innanzitutto l’importanza delle confederazioni sindacali nella definizione delle riforme (policy-making) e se l’interazione con i poteri pubblici ha avuto luogo attraverso una collaborazione o piuttosto attraverso un confronto.

3.1. FRANCIA : UN CONSENSO PARZIALE PER RIFORMARE IL SISTEMA PENSIONISTICO

Dal punto di vista istituzionale, il modello francese delle pensioni, con un’amministrazione sociale, fa parte della famiglia bismarckiana. Molti autori hanno dimostrato ampiamente come il sindacalismo francese abbia utilizzato le risorse amministrative per accrescere la sua legittimità nel settore delle pensioni (Béland, 2001; Miura e Palier, 2003). È stato percepito dall’opinione pubblica come il difensore dei diritti sociali. In questo modo, lo sfondo sindacale ha influenzato particolarmente il processo di riforma del sistema delle pensioni14.

Il processo di riforma che ha avuto luogo negli anni 1990 non ha dato vita ad una negoziazione istituzionalizzata tra le diverse parti. Durante questo periodo, i sindacati non sono stati formalmente integrati al processo di elaborazione delle riforme.

Il primo tentativo, da parte del governo Balladur, nel 1993, di riformare il settore delle pensioni, fu coerente con una logica consensuale ma non concertato. All’inizio del suo mandato, il Primo ministro aveva espresso formalmente la necessità di un’ampia collaborazione tra il governo e gli attori sociali per ridefinire il modello socioeconomico francese. Tuttavia, la reazione sindacale fu negativa (in particolare da parte della

14 Il dialogo tra le parti sociali e il governo è stato difficile a causa del dibattito fortemente ideologico e

dell’indebolimento del movimento sindacale (Labbé, 1996).

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Confederazione Generale del Lavoro, CGT e di Force Ouvrière, CGT-FO). A causa di questo rifiuto, il governo adottò una strategia più flessibile per trovare un accordo con il movimento sindacale. Lo scopo del governo fu dunque quello di approvare una riforma che doveva essere capace non soltanto di influenzare le cause della “crisi” del sistema di pensione, ma allo stesso tempo di evitare una dura opposizione dei sindacati. Le riunioni formali tra il governo e gli attori sociali non produssero negoziazioni, ma costituirono l’occasione di presentare gli aspetti principali del cambiamento presi in considerazione15. Il contenuto della Riforma Balladur fu il risultato di uno scambio diretto e implicito tra i diversi attori. Il movimento sindacale fu capace di influenzare il testo della riforma. Questo scambio si basò prima di tutto sull’esclusione del settore pubblico più sindacalizzato e della difesa del ruolo amministrativo delle parti sociali (Natali, 2003).

Il confronto tra la riforma adottata nel 1993 e il conseguente progetto di riforma proposto dal governo Juppé nel 1995, ci permette di descrivere meglio il ruolo di bloccaggio svolto dalle organizzazioni sindacali in Francia, nonostante la loro scarsità in termini d'iscritti. La Riforma Balladour adottata nel 1993, era limitata al settore privato. Il governo successivo stimò che la riforma adottata nel 1993 non era sufficiente per riequilibrare il sistema previdenziale. Di conseguenza, il progetto Juppé proponeva nuove misure per ridurre le prestazioni dei salariati del settore pubblico (il più sindacalizzato, Labbé 1996). Infine il Governo cercò di modificare la Costituzione per rafforzare i poteri d'intervento del Parlamento e ridurre il ruolo delle parti sociali. La riforma dell’amministrazione della previdenza sociale andava nella stessa direzione (Bouget, 1998).

I sindacati videro queste misure come una minaccia al loro ruolo e alla loro legittimità. Contrariamente a ciò che accadde nel 1993, non c’erano tentativi di scambiare l’introduzione di un abbassamento delle prestazioni sociali con la difesa del ruolo di gestione delle parti sociali. Il governo Juppé adottò una strategia unilaterale (come il governo Balladur) ma anche conflittuale (mentre il governo Balladur adottò una strategia implicitamente consensuale). Le parti sociali non furono né consultate né informate sul contenuto del progetto di riforma. Furono messi a conoscenza delle misure principali del Piano Juppé solo dopo la sua presentazione all’Assemblea Nazionale. La reazione fu un movimento di protesta impressionante, sviluppato durante gli ultimi mesi del 1995, e che condusse al ritiro della riforma delle pensioni. I sindacati furono capaci di mobilitare i loro membri e l’opinione pubblica e di creare una vasta coalizione di produttori e beneficiari dello stato sociale per bloccare le riforme legislative (nonostante il tasso di sindacalizzazione più basso in Europa occidentale). Molte fonti hanno sottolineato il ruolo dei pensionati nel processo di mobilitazione (Vakaloulis, 1998). In questo contesto, il movimento sindacale è stato definito come un vero punto di blocco (veto point) (Botoli, 2000; Béland 2001).

La terza fase di riforma delle pensioni in Francia è stata caratterizzata dall’adozione, da parte del parlamento, della riforma Raffarin nel luglio 2003. Mentre la stampa dell’epoca definì l’approccio di Raffarin come una dura opposizione alle rivendicazioni sindacali, il processo di decisione fu invece della stessa natura dell’esperienza del governo Balladur dieci anni prima (Natali e Rhodes, 2004). Il testo di legge fu il risultato di un compromesso tra il governo e alcune confederazioni. Questa volta, il compromesso fu esplicito e diede luogo ad un accordo firmato dal ministro degli Affari sociali e due confederazioni sindacali, più precisamente la

15 Come proposto da Bonoli (2000), furono tuttavia degli incontri informali tra decisori politici e rappresentanti

delle parti sociali a favorire la definizione del contenuto della riforma.

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Confédération française démocratique du travail: CFDT e la Confédération française d’encadrement – Confédération générale des cadres: CFE-CGC)16.

Il processo cominciò nel mese di gennaio per iniziativa del presidente Chirac. Tra febbraio e maggio ci furono una serie d'incontri tra le parti sociali e il governo. A questa fase seguì un primo momento di conflitto: a inizio maggio, gli impiegati del settore pubblico (soprattutto gli impiegati della funzione pubblica) organizzarono degli scioperi contro il progetto di riduzione della loro pensione. Dal 14 maggio e fino all’accordo del 28 maggio, il ministro degli Affari sociali Fillon adottò delle modifiche rispetto al progetto iniziale che favorirono il compromesso. La riforma comprende la riduzione delle prestazioni per gli impiegati della funzione pubblica, mentre i lavoratori coperti da alcuni dei regimi speciali (metro, ferrovie) non furono toccati dalle nuove misure. In più, le misure prese per una riduzione delle spese pubbliche (per esempio l’aumento dell’età di pensionamento) furono compensate da meccanismi più generali d’indicizzazione delle pensioni e delle prestazioni più favorevoli per le carriere lunghe.

3.2. REGNO UNITO : I SINDACATI AL MARGINE L’idea di un processo consensuale di riforma dello stato sociale non si applica al Regno Unito. Le ultime riforme nel settore delle pensioni, di fatto, sono state imposte (con successo) unilateralmente dal potere esecutivo. Così, la rete britannica dei sistemi pensionistici può essere definita come centrata sul governo (Boeri e al. 2002). Oltre al livello di densità e di copertura, l’azione sindacale è caratterizzata dalla debolezza (vedi tabella 1).

L’elaborazione delle misure legislative è nelle mani del governo e dei suoi funzionari. Un tale ruolo dominante è il risultato dell’architettura non soltanto delle istituzioni sociali, ma anche di quelle politiche17.Gli obiettivi delle riforme sono proposti nel programma elettorale di ogni partito. Il partito che vince le elezioni può definire un insieme di riforme molto coerente. Le misure principali possono essere il risultato di un processo di consultazione (ma non di negoziazione) degli attori (pubblici e privati). Contrariamente agli altri paesi europei studiati, un tale dialogo, la sua natura, la sua portata e i suoi risultati sono totalmente nelle mani del governo. I gruppi che possono interagire, in modo formale o informale, con i decisori politici sono molti. Un primo gruppo è rappresentato dagli attori che gestiscono i fondi pensione. Questi includono diverse istituzioni finanziarie, per esempio le società d’assicurazione, e tutti i gestori dei programmi privati. In seguito, ci sono gli attori che rappresentano i beneficiari e coloro che pagano per il sistema: le organizzazioni padronali, i sindacati e le organizzazioni di pensionati. Infine, una vasta gamma di consiglieri e d’altri consulenti possono avere un’influenza maggiore o minore nel processo di riforma. Tutti questi attori agiscono come gruppi di pressione piuttosto che come interlocutori (Davies, 2000).

Le iniziative più importanti per cambiare il sistema pensionistico confermano questi dati. La prima "grande" riforma è stata introdotta dal governo conservatore nel 1986 in un modo "unilaterale". Una tale riforma era conforme a due obiettivi principali: il governo optò, prima

16 La confederazione francese dei lavoratori cristiani, anche se non firmò l’accordo, diede un sostegno implicito

(Natali e Rhodes 2004). 17 La prominenza del governo nella comunità politica legata allo stato sociale è basata su alcune caratteristiche

istituzionali del sistema Westminster (sistema elettorale uninominale e ruolo indebolito del Parlamento) (botoli 2000).

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di tutto, per la trasformazione del secondo pilastro del sistema. L’elemento principale delle nuove disposizioni adottate nel 1986 fu la possibilità per i lavoratori di uscire dal regime pubblico (State-Earnings-Related Pension Scheme, SERPS) e di optare per le prestazioni private. Questa riforma non rappresentò un trasferimento obbligato del settore pubblico verso il settore privato, ma piuttosto una possibilità (Botoli, 2000). Tuttavia, questa scelta fu incoraggiata da sostegni fiscali particolarmente importanti.

Questa riforma ha prodotto anche un enorme cambiamento nella politica pensionistica (politics) nel Regno Unito. Ha reso più importante il ruolo delle società d’assicurazione private e degli istituti finanziari in generale, mentre ha ridotto il peso degli attori sociali. Il ruolo debole del sindacato nelle istituzioni della protezione sociale ha dato al governo l’occasione d’imporre queste misure.

Negli anni ‘90 alcuni problemi finanziari hanno colpito il regime pubblico delle pensioni, anche se questi sono stati meno drammatici che nell’Europa continentale. In un contesto simile, contrariamente agli altri paesi europei, il Pension Act, approvato nel 1995, è stato introdotto in reazione agli scandali a proposito della gestione dei fondi privati piuttosto che per ridurre le prestazioni pubbliche (già in regresso durante il decennio precedente). Così, lo scopo principale della legge era l’attivazione di nuove misure per aumentare il controllo pubblico sulla gestione dei fondi privati. L’altro scopo era di migliorare l’efficacia delle prestazioni private per i lavoratori con redditi più bassi.

Il processo legislativo relativo alla riforma del 1995 fu avviato a partire dalla creazione da parte del governo di un Comitato per la Ridefinizione della Legge di Pensione (Pension Law Review Committee) nel 1992. Non fu stabilita nessuna rappresentazione formale per le parti sociali (Bonoli, 2000). Nonostante l’opposizione del partito laburista e del sindacato, la riforma del SERPS fu adottata senza modifiche rispetto al progetto governativo.

Coerentemente con le riforme legislative introdotte negli anni 1990, il governo laburista introdusse nel 2001 nuove misure per le pensioni pubbliche di base (con l’introduzione delle prestazioni minime garantite, Minimum Income Guarantee) e le prestazioni supplementari dette pensioni "stakeholder". Queste prestazioni riguardavano i lavoratori nelle aziende che non dispongono di pensioni lavorative e i lavoratori indipendenti (Blake, 2002). Nonostante la presenza di un governo di centro-sinistra, il ruolo delle parti sociali nel processo di riforma non cambia.

3.3. SVEZIA : LA RICERCA DEL CONSENSO NELL'ARENA PARLAMENTARE Come negli altri paesi europei, il sistema contro il rischio vecchiaia svedese era caratterizzato, all’inizio degli anni 90, da tensioni di carattere finanziario (Palmer, 2002). I decisori politici hanno iniziato un lungo cammino verso l’adattamento del "budget sociale". Il cambiamento radicale del sistema di pensione è stato introdotto da alcune misure approvate in seguito ad un periodo di discussioni tra i partiti politici molto lungo. Contrariamente agli altri casi studiati, il ruolo delle parti sociali è andato progressivamente diminuendo. All’inizio degli anni 80, i rappresentanti dei datori di lavoro e dei sindacati partecipavano direttamente al dibattito, ma questa partecipazione non ha contribuito a risolvere i principali conflitti. Da allora, gli attori politici hanno assunto un ruolo più decisivo. Gli attori sociali, piuttosto che agire in maniera autonoma, si sono trasformati in lobbysti di fronte ai partiti politici.

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Il processo di riforma degli ultimi vent’anni è stato caratterizzato da diverse fasi. Gli attori politici e sociali hanno interagito gli uni con gli altri con ruoli e funzioni diverse. La prima fase (1984-1990) era basata sul lavoro di un comitato parlamentare. Era il luogo principale d’interazione tra rappresentanti sociali e politici. Tutti i partiti politici nel Parlamento erano rappresentati in questo comitato. In più, gli esperti delle tre principali confederazioni sindacali e dei datori di lavoro furono nominati come i rappresentanti di altri gruppi di interesse (prima di tutto i pensionati). Una tale combinazione di gruppi di interesse, di parti sociali e di decisori politici (rappresentanti dei gruppi parlamentari) costituisce un elemento particolare del processo di riforma svedese. Il comitato parlamentare, ad ogni modo, non introdusse riforme legislative. Il rapporto finale pubblicato nel 1990 fu oggetto di molteplici critiche. Così, il governo nominò un nuovo comitato nel 1991 con i membri di tutti i partiti politici rappresentati al Parlamento. Questo fatto ha segnato l’inizio della seconda fase (1991-1994). Contrariamente al comitato precedente, gli esperti non erano nominati dalle parti sociali. Erano rappresentativi solamente del governo (dei ministeri delle Finanze e degli Affari sociali) e del Consiglio di Sicurezza Sociale Nazionale. Un tale comitato produsse alcune indicazioni generali per la riforma del settore delle pensioni, che furono approvate dai quattro partiti della destra che formavano allora la maggioranza parlamentare e dal Partito socialdemocratico. Queste proposte furono poi adottate dal Parlamento nel 1994.

La terza fase (1994-1998) cominciò con un terzo comitato composto dai membri dei cinque partiti che avevano sostenuto il progetto iniziale definito nel 1994. Questa istituzione esclusivamente politica (cioè senza partecipazione dei rappresentanti delle parti sociali) elaborò una prima proposizione nel 1995 e fu all’origine delle negoziazioni successive tra i partiti politici. Le parti sociali ebbero un ruolo marginale in una fase come questa. Cercarono di fare pressione sui partiti politici. Parteciparono dunque in modo del tutto indiretto. Dopo un periodo di intensi dibattiti (soprattutto all’interno del Partito social democratico), fu stabilito un accordo nel 199718. In seguito, il piano finale fu proposto al Parlamento all’inizio del 1998 e adottato durante l’estate del 1998 (Wadensjo, 2000). Il modo di riforma adottato in Svezia è stato consensuale, ma l’accordo è stato politico piuttosto che sociale (o corporatista). Le riforme furono il risultato delle negoziazioni tra i partiti politici rappresentati in Parlamento piuttosto che tra gli interlocutori sociali e politici.

Nonostante un’organizzazione molto forte in termini di copertura e di densità, i sindacati svedesi hanno avuto un ruolo minore durante l’ultima fase di riforma. Questa debolezza può essere legata a due fattori principali. Essi hanno una tradizione di gestione dei programmi contro la disoccupazione e l’hanno utilizzata come risorsa decisiva di legittimità, ma non hanno questo ruolo nel campo delle pensioni. Non hanno un rapporto particolare con la popolazione più anziana. Le organizzazioni sindacali in Svezia proteggono i diritti sociali degli impiegati ancora in attività, piuttosto che quelli dei pensionati. Possiamo supporre che questo (come nel Regno Unito) sia un esempio di una nuova divisione sociale tra i produttori (gli attivi) e i beneficiari delle pensioni (i non-attivi). I primi sono rappresentati dalle confederazioni sindacali, mentre i secondi sono organizzati da altri gruppi di interesse (vedi tabella 1).

18 È in questo contesto che il sindacato LO, il più importante in Svezia, agì per influenzare il contenuto delle

nuove leggi (Schludi, 2002).

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La riforma svedese delle pensioni è stata considerata dalla maggioranza degli osservatori come la più radicale nel contesto europeo. Prima di tutto, essa ha introdotto il cambiamento dei meccanismi per il calcolo delle prestazioni19. Di conseguenza, la riforma ha creato un legame più esplicito e forte tra i contributi e le prestazioni. In seguito, la riforma ha previsto una nuova formula di rivalorizzazione delle pensioni (Palmer 2002). Le misure adottate produssero un abbassamento delle spese dei regimi pubblici, (per esempio a causa delle nuove regole d’indicizzazione), mentre per mantenere lo stesso livello di reddito per le persone più anziane fu attuato un pilastro supplementare e obbligatorio (fondi di pensione) (Schiudi, 2002).

3.4. POLONIA : IL SINDACALISMO ‘SOCIALE’ TRA DECLINO E FORZA PERSISTENTE

Dopo la caduta del regime comunista nel 1989, i sindacati hanno fatto parte del processo di riforma, nonostante il loro declino in termini di densità e di copertura sindacale. La fase di transizione mostra che le risorse politiche hanno controbilanciato questa debolezza. La riforma in Polonia si è svolta tra il 1993 e il 1999. Dopo una fase di crescita delle spese sociali, i primi interventi che riducevano i diritti alla pensione furono adottati dal governo di centro-destra, legato al movimento sindacale NSZZ Solidarnosc, all’inizio degli anni ’90. A quell’epoca, la questione delle pensioni era già al centro del dibattito politico. L’introduzione di misure severe contribuì alla vittoria dell’opposizione di centro sinistra (Alleanza democratica di sinistra) alle elezioni generali del 1993 (Chlon e al, 1999). Dopo una grossa discussione all’interno del governo, della maggioranza parlamentare e delle forze sindacali, il nuovo governo, guidato dal Primo Ministro Cimoszewicz, condusse ad un’accelerazione della riforma.

Il nuovo ministro del Lavoro, Andrzej Baczkowski, fu la figura centrale e il mediatore tra i diversi interessi. Fu nominato plenipotenziario per la riforma delle pensioni e diede un vasto mandato all’Ufficio speciale per la riforma delle pensioni, per definire gli elementi tecnici, allo scopo di attivare il nuovo sistema. In più, la sua carriera come attivista di Solidarnosc fu il passe-partout per aprire il dialogo con l’opposizione parlamentare e sindacale (Orenstein, 2000). Anche se il nuovo ministro del lavoro adottò una serie di misure per migliorare l’indicizzazione delle prestazioni per le pensioni, il progetto di riforma fu adottato nel febbraio 1997. Tra febbraio e settembre (data delle elezioni), il governo adottò due leggi, votate dal Parlamento in luglio e agosto, sui fondi pensione e sui finanziamenti dei costi della riforma attraverso le procedure di privatizzazione. A questo punto furono introdotti gli elementi chiave del nuovo sistema. Il sistema pubblico a ripartizione fu mantenuto. Allo stesso tempo, un programma obbligatorio dei fondi pensione privati e a capitalizzazione fu attivato per i lavoratori di età superiore ai cinquant’anni. Infine, fu previsto un terzo pilastro, sempre privato e a capitalizzazione, ma volontario. La nuova legislazione aveva molte similitudini con il progetto proposto dal movimento Solidarnosc nel 1994. Il voto del Parlamento (con una maggioranza del 90% dei deputati) fu il risultato del consenso tra i diversi partiti politici. Inoltre, in questo stesso periodo, si sviluppò una consultazione tra le parti sociali e il governo. Il luogo per eccellenza della consultazione fu la Commissione tripartita per gli affari socioeconomici, creata nel 1994, in cui i rappresentanti del governo, dei

19 Dalla formula a prestazioni definite (prestazioni calcolate sulla base dei redditi passati) a quella a contributi

definiti (prestazioni basate sui contributi versati).

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datori di lavoro e dei dipendenti adottarono una serie di modifiche ai testi proposti dal governo di centro-sinistra. Infine, la commissione tripartita appoggiò la riforma adottata dal Parlamento.

La seconda fase del processo di riforma cominciò dopo le elezioni del settembre 1997. Il nuovo governo, basato sulla coalizione tra i diversi partiti di centro –destra (principalmente l’Unione della libertà e l’Azione elettorale Solidarnosc) avanzò sul percorso di riforma. A partire dal mese di marzo, il nuovo plenipotenziario, Ewa Lewicka, condusse la consultazione con il movimento sindacale. Per quanto riguarda le confederazioni dei lavoratori, queste cominciarono una nuova fase di rivendicazioni per ridurre l’impatto sociale delle nuove leggi riguardanti il primo pilastro. Alcune federazioni (per esempio, nel settore delle ferrovie e delle miniere) manifestarono per chiedere delle eccezioni alla legislazione generale: per esempio in termini di prepensionamento. Anche se la commissione tripartita non produsse un accordo, i sindacati non si mobilitarono in modo generale e di massa. Si accordarono, invece, con il governo riguardo l’idea di prolungare la negoziazione sullo statuto di alcune categorie.

Il sindacato post-comunista, Alleanza pan-polacca dei sindacati (OPZZ), organizzò degli scioperi, mentre all’interno dell’organizzazione del suo principale rivale, Solidarnosc, i minatori occuparono il ministero del Lavoro per due giorni e ritardarono l’adozione da parte del Parlamento delle leggi finali di riforma. Gli scioperanti attennero delle concessioni da parte del governo (Chlon Dominczak, 2003). Parallelamente alla “negoziazione sociale”, il dibattito parlamentare sulla riforma del primo pilastro si sviluppò tra agosto e dicembre 1998. Il metodo di finanziamento a ripartizione fu mantenuto, ma il meccanismo detto « a prestazioni definite » fu sostituito da quello « a contributi definiti » alla maniera svedese. Durante la discussione parlamentare, i rappresentanti dei partiti legati alle organizzazioni sindacali proposero altri cambiamenti riguardo la questione del prepensionamento. Molte proposte furono accettate e finalmente votate nel dicembre 1998. L’attuazione ebbe inizio nell’aprile 1999.

Il sindacato Solidarnosc (NSZZ) fu dunque uno degli attori principali della riforma (Pollert, 1999). La strategia del NSZZ ha avuto una duplice natura: politica e sindacale allo stesso tempo. Di fatto, il suo braccio politico faceva parte dell’alleanza elettorale di centro-destra che ha governato la seconda fase del processo di riforma10. In più, ha partecipato, insieme ad altre parti sociali, ad una vasta consultazione avviata grazie a più comitati tripartiti a livello nazionale. Per esempio, i lavori della Commissione tripartita per gli affari socio-economici, hanno garantito una partecipazione effettiva dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro alla riforma delle pensioni.

4. L’IMPATTO DELL’AZIONE SINDACALE : IL CONTENUTO DELLE RIFORME

Dopo l’analisi del processo di riforma in termini d’interazione tra i movimenti sindacali e i decisori politici, il nostro obiettivo è di capire meglio l’impatto dell’azione sindacale sul contenuto delle leggi finalmente adottate ed attuate. Questa sezione si concentra sui due paesi dove i sindacati hanno preso parte direttamente alla riforma: Francia e Polonia. Per capire

10 La confederazione post-comunista (OPZZ) ha avuto tradizionalmente dei rapporti stretti con la coalizione di centro-sinistra.

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meglio i risultati della strategia sindacale, analizzeremo il contenuto dell’agenda delle confederazioni dei lavoratori e le riforme approvate. Questo contenuto è analizzato prendendo come criterio di confronto (benchmark) le undici dimensioni (o obiettivi) elaborati dall’Unione Europea all’interno del Metodo Aperto di Coordinamento pensioni (CEC, 2001).

Si tratta prima di tutto della sostenibilità finanziaria dei programmi delle pensioni attraverso l’innalzamento del livello di impiego, l’estensione della vita attiva, il mantenimento dell’equilibrio finanziario del budget pubblico, la coerenza tra contributi e prestazioni, ed infine la mescolanza dei sistemi pubblici e privati.

La seconda dimensione riguarda la garanzia delle pensioni sicure, vale a dire l’adeguamento sociale delle prestazioni, in quale misura i sistemi di pensione sono capaci di combattere la povertà e di preservare il livello di vita dei pensionati attraverso la solidarietà inter /intra -generazionale.

Infine, il terzo asse riguarda la modernizzazione dei sistemi nazionali di pensione di fronte alle condizioni sociali ed economiche che cambiano (nuove forme d’impiego e di carriera, parità tra uomini e donne e promozione di una politica più trasparente) ed elargiscono il consenso per le riforme.

4.1. FRANCIA : LA RIFORMA TRA LIBERALISMO E DIFESA DELL’ACQUIS SOCIALE

In Francia, il dibattito sul tema “pensioni” si è sviluppato attraverso un conflitto ideologico radicale tra gli attori politici e il movimento sindacale. L’idea stessa della necessità d’intervenire per ridurre il “deficit” dei sistemi pensionistici non è stata accettata dalla maggior parte dei sindacati. La maggioranza dei sindacati non ha condiviso con i politici e gli altri interlocutori politici e sociali gli scopi decisivi quali la riforma delle regole di finanziamento dei sistemi di pensione, l’innalzamento dell’età di pensionamento, l’introduzione di meccanismi di rivalorizzazione o l’introduzione dei fondi pensione per capitalizzazione. Tra le confederazioni sindacali, la posizione della Confédération française démocratique du travail (CFDT) ha rappresentato, con l’andare del tempo, un’eccezione, essendo più favorevole al compromesso con il governo (Palier, 2002 ; Natali, 2003).

Gli attori politici (con l’eccezione del partito comunista) proposero in diversi documenti ufficiali delle misure dirette destinate a equilibrare la situazione finanziaria del sistema (metodo di rivalorizzazione delle prestazioni più restrittive, innalzamento dell’età di pensionamento, prolungamento della durata di contribuzione, ecc…), mentre il movimento sindacale propose un intervento dello Stato di più grande portata al finanziamento delle prestazioni non contributive e alla lotta contro la disoccupazione, come strumento per rilevare le risorse finanziarie della sicurezza sociale e garantire il mantenimento dei diritti sociali. In seguito, la questione della gestione del sistema passò al centro del conflitto. Vari attori politici chiesero un ruolo maggiore per il parlamento e l’amministrazione dello stato per aumentare l’efficacia della gestione. I sindacati, invece, difesero i principi della democrazia sociale.

Nel 1993, la riforma Balladur cominciò il percorso di riforme: anche se non ci fu una negoziazione tra i decisori e le parti sociali, il processo fu consensuale. La necessità di ridurre l’opposizione sociale ha dato origine ad un progetto di legge che ha ripreso più proposte avanzate dalle confederazioni sindacali. La legge del 1993 aveva l’obiettivo della stabilità

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finanziaria dei sistemi pensionistici pubblici. Era basata su due elementi complementari. Da una parte, secondo le idee condivise dal corpo politico e dalle organizzazioni patronali, il governo pensò di ridurre le spese. Questo passò attraverso l’aumento del periodo di contribuzione (da 37.5 a 40 anni) e del numero d’anni necessari per il calcolo del salario di riferimento (da 10 a 25). In più, il meccanismo di rivalorizzazione delle prestazioni fu modificato in modo restrittivo. Tutti questi elementi dovrebbero contribuire ad una forte riduzione delle spese di circa il 20% tra il 2000 e il 2040 (Math, 2002). L’adozione delle nuove misure solamente per il settore privato aumentò le diseguaglianze tra le categorie professionali. D’altro canto, come proposto dal movimento sindacale e soprattutto dalla CFDT, fu introdotto il Fondo di solidarietà per la vecchiaia (Fonds de solidarité vieillesse: FSV). Lo scopo era migliorare la situazione finanziaria del sistema delle pensioni attraverso la distinzione tra le spese per la solidarietà nazionale, da finanziare tramite la tassa, e le spese di protezione sociale legate ai contributi versati dalle parti sociali. Tale chiarificazione dei conti del sistema pensionistico significò, di fatto, un innalzamento delle entrate grazie ad un più forte intervento delle finanze pubbliche.

In termini di garanzia di pensioni sicure, l’effetto di certe misure fu la riduzione della protezione contro il rischio vecchiaia. Sulla base dei dati presentati dal Consiglio d’orientamento delle pensioni (Conseil d’orientation des retraites: COR), il tasso di sostituzione medio (importo della pensione rispetto all’importo del salario) dei salariati privati si riduce tra il 2000 e il 2040: dall’84% nel 2000 al 67% nel 2040 per i non-quadri e dal 75% al 58% per i quadri (COR, 2001). Altri aspetti furono importanti per ridurre il rischio di una mobilitazione sindacale: la riforma fu introdotta unicamente per il settore privato, mentre il settore pubblico rimase sottomesso alla legislazione precedente; in secondo luogo, i cambiamenti furono attuati molto lentamente per difendere i diritti acquisiti dai lavoratori più anziani e sindacalizzati; infine, una nuova legge per quanto riguarda l’amministrazione della sicurezza sociale garantisce il mantenimento del ruolo di gestione delle parti sociali (cfr. Natali 2003).

Dieci anni dopo, di nuovo, un governo di centro-destra decise d’intervenire nel dossier "pensioni". Il governo Raffarin e il presidente Chirac posero l'accento sulla necessità d’intervenire per ridurre i costi del sistema. La posta in gioco principale era di ridurre il rischio finanziario attraverso l’allineamento del settore pubblico sul privato (più equità tra categorie professionali).

Da parte sua, il movimento sindacale ha definito una posizione comune, adottando, nel gennaio 2003, una dichiarazione di tutte le organizzazioni facenti parte del Consiglio di orientamento delle pensioni (COR). I rappresentanti delle confederazioni nazionali condividevano più obiettivi: mirare ad un livello alto di pensioni, mantenere l’età di pensionamento a 60 anni, sottolineare la priorità delle politiche dell’impiego per aumentare le risorse finanziarie del sistema, ottenere condizioni più favorevoli per i lavori ingrati e le carriere lunghe (Mouriaux, 2004). Il testo sindacale fu dunque orientato verso la difesa di un livello sufficiente di protezione contro il rischio vecchiaia11. Questa conclusione deve essere arricchita dai risultati delle negoziazioni tra l’organizzazione dei datori (MEDEF) e le organizzazioni sindacali, per la riforma dei regimi complementari. Tra il 1993 e il 2003, gli accordi firmati dal MEDEF e una parte dei sindacati (la CFDT, il sindacato dei quadri CGC e

11 Il documento fu, ad ogni modo, ambiguo su vari aspetti. Il risultato delle negoziazioni tra governo, CFDT e

CGC ne fu la prova.

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la confederazione cristiana CFTC) erano coerenti, in modo più o meno esplicito, con gli interventi legislativi. Hanno prodotto, tra l’altro, un abbassamento delle prestazioni.

In questo contesto, la posizione della CFDT è divenuta sempre più importante nel gioco politico per la creazione di un sostegno sindacale necessario all’introduzione di una riforma generale. L’idea della necessità di apportare dei cambiamenti alla sicurezza sociale si è affermata, col passare del tempo, in seno a quest’organizzazione e anche lo sviluppo dei fondi pensione (argomento tabù per il movimento sindacale) è divenuto uno degli elementi di discussione e di scelta possibili (Palier, 2003).

La riforma votata in luglio dall’Assemblea nazionale in base all’accordo tra il ministro degli Affari Sociali, la CFDT e la CGC fu dunque il risultato di questo dibattito. Ci occuperemo ora di valutare la riforma in funzione dei tre assi della MOC pensioni: sostenibilità finanziaria, garanzia di pensioni sicure e modernizzazione del sistema.

Per quanto riguarda la salvaguardia della sostenibilità finanziaria del sistema, la riforma ha ripreso gli strumenti già introdotti dieci anni prima per il sistema privato: aumento della durata di contribuzione (per il solo settore pubblico fino a 40 anni e poi, per tutti i settori, fino a 41.9 nel 2020); il regresso dell’età effettiva al momento delle dimissioni (con la definizione di un età minima di 60 e massima di 65) con un sistema di premi e sanzioni per favorire una carriera più lunga, e dunque l’abbassamento implicito del livello delle prestazioni. Il governo ha previsto che l’impatto di queste misure sarà di 5 miliardi di euro per il regime generale e di 13 miliardi di euro per il settore pubblico fino al 2020 (contro una stima di bisogni finanziari di 43.5 miliardi di euro per lo stesso periodo). L’innalzamento delle entrate e la previsione della piena occupazione furono elementi legati, prima di tutto, alle rivendicazioni sindacali. L’innalzamento delle entrate previsto per il periodo è di 10 miliardi di euro per il settore privato e 15 miliardi per il settore pubblico (COR, 2004). Questa comparazione di dati mostra che la riforma è stata basata tanto sull’aumento delle entrate quanto sull’abbassamento delle spese per ottenere l’equiolibrio finanziario del sistema12. Il mantenimento di certi privilegi per le categorie più sindacalizzate (trasporti pubblici, funzionari) fu importante per ridurre l’opposizione alla riforma dei regimi pubblici.

Queste misure che consideravano la stabilità finanziaria del sistema nel futuro, furono equilibrate da altre che miravano all’aumento della protezione nei confronti di certe categorie (garanzia delle pensioni sicure): età di pensionamento più bassa per le carriere di lunga durata, aumento del tasso di sostituzione per le prestazioni più basse e garanzia di un tasso di sostituzione medio per tutte le pensioni. Tutti questi elementi furono coerenti con le domande sindacali e puntarono ad una maggiore equità tra categorie professionali e gruppi con dei livelli di reddito ineguali.

Per capire meglio l’impatto sul livello delle pensioni, ci si può innanzi tutto basare sulle statistiche inserite nella legge: il documento prevede un tasso di sostituzione netto di circa il 65%, dunque lo stesso livello prodotto dalla riforma Balladur. Di fatto, i calcoli effettuati dal COR (2004) mostrano una situazione potenzialmente diversa: tenuto conto di un certo numero d'ipotesi (in termini di produttività, evoluzione dei salari e dei contributi, ecc…), nel 2020 il tasso di sostituzione per un lavoratore "monopensionato" del settore pubblico, di 60

12 Inoltre, le simulazioni proposte dal governo suppongono il ritorno alla piena occupazione nel 2010,

sottolineando la necessità di una crescita economica più forte come elemento indispensabile per equilibrare il sistema (come richiesto dai sindacati). Uno scenario che è stato definito “volontaristico” dal Consiglio di orientamento delle pensioni (COR, 2004).

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anni e con 40 anni di assicurazione, sarà all’incirca del 62%, contro più del 70% prima della riforma. Allo stesso modo, nel settore privato, lo stesso lavoratore avrà un tasso di circa il 63%, contro più del 70% prima della riforma. Aumentando l’età delle dimissioni e/o le annualità, al contrario, il tasso si innalza più rapidamente che prima della riforma. L’obiettivo era dunque quello di allungare la carriera degli impiegati.

Finalmente, l’introduzione dei premi per figli per le donne lavoratrici, il principio del buy-back da parte dell’assicurato dei periodi non contributivi (studi, ferie, ecc…) e la disposizione dei piani di risparmio individuali facoltativi e in capitalizzazione (accanto ai piani salariali già introdotti dal governo Jospin) avevano come obiettivo di modernizzare i programmi di pensione (anche in termini di parità dei sessi, COR, 2004).

4.2. POLONIA : LA RIFORMA COME ESPRESSIONE DELLA ‘NUOVA ONDATA’ LIBERALE

Se nell’Europa occidentale il movimento sindacale ha spesso fatto da contrappeso ai decisori politici difendendo gli acquis sociali, in Polonia, le confederazioni sindacali hanno condiviso con i governi dell’epoca post-comunista l’approccio neo-liberale di un rinnovamento radicale dei sistemi pensionistici. Descriveremo in particolare gli obiettivi e le strategie attuate da Solidarnosc (NSZZ), che ha avuto un peso decisivo nella transizione dal regime comunista alla democrazia e all’economia di mercato.

Il processo di riforma fu caratterizzato tra il 1994 e il 1995 dalla pubblicazione di tre diversi progetti di riforma: accanto alle proposte elaborate all’interno del governo (dal ministero del Lavoro e da quello delle Finanze), Solidarnosc propose un piano alternativo13. Il progetto del ministero del Lavoro e degli Affari Sociali rappresentò il “polo” più conservatore del dibattito politico. Si tratta di un progetto basato sul mantenimento del pilastro pubblico come elemento centrale e il solo obbligatorio del sistema. D’altro canto, se il progetto del ministero delle Finanze fu il più radicale, considerando l’introduzione di un sistema a capitalizzazione secondo il modello cileno (con una prestazione di base rappresentante il 20% del salario medio), la proposta di Solidarnosc rompeva anche con la ripartizione14.

Si tratta di un progetto basato sull’idea che la responsabilità della protezione contro il rischio vecchiaia debba essere divisa tra lo Stato, gli interessi organizzati e l’individuo (coerente con la dottrina cattolica e le idee liberali, cfr. Orenstein, 2000; Ost, 2002). Le pensioni pubbliche erano costituite da prestazioni di base costanti e finanziate dall’imposta e dalle prestazioni proporzionali ai contributi versati e calcolati individualmente. Questo primo pilastro doveva sempre essere aumentato dal secondo obbligatorio ma a capitalizzazione, da finanziare attraverso una parte dei contributi versati e le risorse finanziarie date dal processo di privatizzazione delle imprese pubbliche. La gestione dei fondi pensione doveva essere fatta da organismi privati, con la possibilità di una partecipazione diretta delle organizzazioni sindacali. La logica assicurativa diveniva dominante, mentre la redistribuzione delle risorse tra generazioni doveva ridursi massivamente.

13 L’Istituto degli Affari sociali e del lavoro elaborò un quarto progetto che ebbe, in ogni caso, un impatto

minore sul dibattito dell’epoca. 14 Era dunque più vicina delle proposte degli economisti del ministero delle Finanze che a quelle dei

rappresentanti del ministero del Lavoro.

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Utilizzando gli “assi” proposti dalla MOC pensioni, l’obiettivo era innanzitutto quello di accrescere la sostenibilità finanziaria a lungo termine del sistema, di fronte alle pressioni demografiche. In questo senso, la riduzione del peso dei programmi in distribuzione e la parallela introduzione dei fondi in capitalizzazione erano proposti come un elemento capace di difendere meglio l’interesse degli assicurati e la trasparenza dei meccanismi di calcolo (Chlon et al., 1999).

Come presentato nella sezione precedente, il processo di riforma si sviluppò concretamente a partire dal 1996. Nel 1997, tre leggi furono approvate dal Parlamento. Queste leggi introdussero il secondo e il terzo pilastro in capitalizzazione e definirono le procedure per utilizzare le risorse finanziarie della privatizzazione delle imprese pubbliche per finanziare la transizione verso un sistema multi-pilastri. Tutti questi elementi erano coerenti con la proposta avanzata dal sindacato NSZZ due anni prima. Il fatto che la legge che riguardava il primo pilastro rimase intatta, ha ottenuto l’appoggio della confederazione post-comunista OPZZ.

Il secondo periodo di riforma, caratterizzato dall’obiettivo di rinnovare il sistema obbligatorio e pubblico a ripartizione, fu piuttosto contrastata. Mentre i principi generali erano accettati dalle diverse parti (introduzione di un sistema a ripartizione, ma a contributi definiti15, le confederazioni sindacali s'impegnarono a difendere gli interessi di alcuni membri. Per prima cosa, i rappresentanti sindacali si sono battuti per vedere riconosciuti i diritti acquisiti dei lavoratori più anziani. Il nuovo sistema, di conseguenza, non fu applicato ai lavoratori vicini alla pensione16. In secondo luogo, altri cambiamenti sono stati introdotti sotto l’azione sindacale e l’opposizione parlamentare per quanto riguarda la rivalorizzazione delle prestazioni (in funzione dell’aumento dei prezzi, come proposto dal governo, ma accrescimento del 20% dell’aumento del salario medio) e l’età di pensionamento. Quando la proposta iniziale del governo era di 62 anni per gli uomini e le donne, il movimento sindacale spinse per una revisione di questo limite. Ottennero un’età diversa per gli uomini e le donne: 65 anni per i primi, 60 per le seconde. Questa posizione era giustificata in termini ideologici (il ruolo delle donne nella società polacca) e di difesa dei diritti dei lavoratori ( e soprattutto delle lavoratrici), per il fatto che l’età effettiva del licenziamento era già stata aumentata per effetto dell’eliminazione del prepensionamento.

Infine, la necessità di garantire dei diritti particolari a certe categorie professionali fu l’obiettivo delle confederazioni sindacali. Questo aspetto era legato soprattutto alla questione del prepensionamento.

Ad ogni modo, il risultato generale della riforma è stato particolarmente restrittivo. Le simulazioni effettuate dall’Ufficio internazionale del lavoro (Bureau international du travail: BIT) (Chlon-Dominczak, 2002) offrono un esempio generale di quest’impatto.

Per quanto riguarda la sostenibilità finanziaria futura del sistema di pensione, si possono individuare due effetti. Da un lato, l’introduzione di un sistema multi-pilastro, con una parte dei contributi obbligatori utilizzati per finanziare i fondi delle pensioni private a capitalizzazione, ha prodotto dei costi di transizione importanti. Le proiezioni del BIT mostrano che il deficit nel primo pilastro, determinato dall’abbassamento dei contributi

15 Si tratta di un sistema in cui il livello dei contributi è precisato, quello delle pensioni è calcolato al momento del licenziamento, in base alle condizioni economiche e demografiche. 16 Il principio introdotto fu quello di non cambiare le regole di calcolo durante gli otto anni prima della

pensione (Chlon et al, 1999).

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destinati al sistema pubblico, aumenterà fino al 2020.La somma totale dei costi di transizione tra il 2000 e il 2050 è dell’ordine del 100% del PIL nel 2050. Per ridurre l’impatto finanziario sul budget pubblico, Solidarnosc propose di utilizzare le risorse delle privatizzazioni. La riforma, approvata, seguì questa proposta: fino al 2005 la maggior parte dei costi della transizione sarà coperta da queste risorse17.

D’altro canto, i nuovi meccanismi per il calcolo delle pensioni pubbliche hanno prodotto una riduzione delle spese: le spese totali (per le prestazioni di vecchiaia, invalidità e sopravvivenza) dopo la riforma, sono previste a livello del 9.65% del PIB nel 2050, contro una previsione prima della riforma del 17.3%. Le spese pubbliche per il ramo vecchiaia in particolare saranno caratterizzate da una caduta da 6% del PIB all’inizio del 2000 al 2% nel 2050. In termini di garanzia delle prestazioni sicure in futuro, l’evoluzione prevista è abbastanza scoraggiante: il tasso di sostituzione medio per un impiegato che esce dal mercato del lavoro a 60 anni diminuirà dal 50% al 30% e dal 65% al 40% in caso di pensionamento a 65 anni. Allo stesso modo, l’introduzione dei fondi pensione non ha previsto di aumentare il livello delle prestazioni per i lavoratori nati fino al 1974. Dal punto di vista delle disuguaglianze tra generazioni, categorie professionali e sessi, in futuro, la ridistribuzione dei redditi sarà ridotta. Da un lato, sarà ridotta dall’assenza di una prestazione di base e forfetaria obbligatoria (che era presente, invece, nel vecchio sistema), cosa che dovrebbe favorire l’innalzamento delle disuguaglianze di reddito nella popolazione pensionata. Il numero delle persone che ricevono un livello basso di protezione dovrebbe aumentare (Chlon-Dominczak, 2002). Inoltre, il livello massimo delle entrate utilizzato per il calcolo delle prestazioni (250% del salario medio) è, dopo la riforma, applicato anche ai contributi. I contributi non sono pagati per redditi che oltrepassano questo limite.

Infine, in termini di modernizzazione dei programmi di protezione contro il rischio vecchiaia, la riforma polacca ha introdotto delle misure allo scopo di aumentare la copertura delle nuove forme di impiego (più flessibili) e delle carriere meno regolari rispetto al passato. Un vasto consenso stava alla base delle regole riguardanti il finanziamento da parte dello Stato dei contributi durante i periodi di non-attività (disoccupazione involontaria, maternità, congedi parentali, servizio militare e cura dei figli o dei genitori disabili). Inoltre, per quanto riguarda le differenze uomini/donne, anche se l’età di pensionamento rimane diversa per gli uni e le altre, il calcolo delle prestazioni è stato basato su un meccanismo unico che tiene conto della speranza di vita media, senza distinzione di genere.

5. CONCLUSIONE

Il confronto tra le diverse riforme pensionistiche in Europa ci permette di avanzare una serie di conclusioni per quanto riguarda l’azione sindacale e il suo impatto sul contenuto delle riforme.

In base allo studio dei casi esaminati, i sindacati hanno avuto un peso più importante nei paesi dell’Europa continentale. Soprattutto in Francia il movimento sindacale è riuscito a bloccare i progetti di riforma proposti dal governo, in modo unilaterale, nel 1995. Le riforme attuate, d’altra parte, hanno visto una partecipazione dei sindacati: indiretta nel 1993, diretta ma parziale nel 2003. In Polonia, i sindacati (e soprattutto il NSZZ) sono stati i beneficiari nel

17 Nel 1998 la privatizzazione produsse circa 53 miliardi di PIN che corrispondevano al 7% del PIL dell’epoca

(Chlon-Dominczak, 2002).

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processo di riforma e hanno influenzato il contenuto finale delle misure introdotte all’interno di un processo consensuale. In Svezia e nel Regno Unito, invece, le confederazioni sindacali non hanno giocato un ruolo decisivo. In questi paesi, il perno nel processo di innovazione era costituito dalle istituzioni e dai partiti politici.

In termini di risorse che determinano il peso delle organizzazioni sindacali, i meccanismi di gestione delle politiche pensionistiche si sono dimostrati importanti. I sistemi di pensione bismarckiani sono stati riformati attraverso l’interazione tra gli attori politici e il movimento sindacale. Qualora i sindacati sono molto implicati nell’amministrazione dei sistemi pensionistici (amministrazione sociale), lo sono generalmente anche nel processo di riforma. Era il caso della Francia e della Polonia. In quest’ultimo caso, la legittimità dei sindacati è stata confermata dalla riforma dell’amministrazione della sicurezza sociale nel 1996, che ha rinforzato il loro ruolo di supervisione dei programmi di protezione sociale.

I sistemi di protezione sociale di tipo beveridgiano (amministrazione dello stato), invece, hanno lasciato un ruolo più marginale al movimento sindacale. Nel Regno Unito e in Svezia, l’arena parlamentare era il luogo principale per introdurre delle riforme e i partiti politici erano gli interlocutori chiave. Ciò che distingue i due binari di riforma (in Svezia e nel Regno Unito), è la strategia adottata dai decisori politici. In Svezia, i policy-makers hanno adottato una strategia consensuale attraverso negoziazioni parlamentari; nel Regno Unito, invece, il governo ha adottato una strategia conflittuale per imporre delle riforme (a volte radicali), anche contro l’opinione delle parti sociali.

L’analisi di altre fonti di potere del movimento sindacale nei paesi studiati sembra particolarmente interessante. Innanzitutto, il ruolo del movimento sindacale non sembra legato alle risorse tradizionali legate al sindacalismo “economico”. Le confederazioni caratterizzate dalla densità sindacale più bassa in Europa (Francia e Polonia) sono state le più attive. La protesta di massa e il ritiro del progetto di riforma proposto dal governo Juppé nel 1995 ne è la prova. Il più alto tasso di sindacalizzazione in Europa (in Svezia), invece, non è stato sufficiente a garantire ai rappresentanti dei salariati un ruolo principale nel processo di riforma iniziato nel 1984 e terminato nel 2001. Nel Regno Unito, nonostante un tasso di sindacalizzazione più elevato che in Francia, il movimento operaio è stato messo al margine dell’innovazione delle pensioni.

In Polonia, la debolezza in termini di densità e di copertura non ha impedito l’azione sindacale in questo settore. Il peso delle confederazioni (e soprattutto di Solidarnosc) nella riforma sembra piuttosto l’effetto delle risorse politiche e istituzionali. Da un lato, il movimento sindacale è stato uno degli attori decisivi della transizione verso la democrazia e l’economia di mercato. Questo elemento ha determinato un legame diretto tra organizzazioni sindacali e partiti politici. Dall’altro, i sindacati hanno fatto parte di un largo dialogo attuato attraverso organismi paritari. Questi hanno partecipato direttamente alla definizione del contenuto delle misure legislative. Inoltre, la forza sindacale sembra poco legata al numero dei pensionati iscritti. Se in Francia il tasso di sindacalizzazione dei non-attivi è il più elevato di tutti i paesi considerati, in Polonia è basso come in Svezia. Laddove non c’è una concorrenza tra sindacati e lobby dei pensionati (Francia e Polonia), i sindacati hanno avuto, invece, una legittimazione più forte nel settore della protezione sociale. Inoltre, il loro ruolo sembra essere legato alla capacità di mobilitare i loro iscritti, tanto quanto l’opinione pubblica, a favore o contro le proposte di riforma. Il caso francese ne è un esempio.

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Per quanto riguarda l’impatto dell’azione sindacale sul contenuto delle riforme votate, i due paesi esaminati hanno dimostrato risultati differenti. Innanzitutto, l’agenda del movimento sindacale nei due paesi era divergente: contraria a una logica liberale di riduzione delle spese sociali in Francia (con eccezione parziale della CFDT), più riformista e favorevole alla revisione del sistema di ripartizione, in Polonia (in particolare Solidarnosc).

Di conseguenza, il processo di riforma è stato caratterizzato dal tentativo delle confederazioni operaie di controbilanciare la riduzione delle spese con un innalzamento parallelo dei redditi (difendendo allo stesso tempo la distribuzione). Queste due dimensioni furono alla base di un autentico scambio nel 1993 e nel 2003. La riforma polacca, invece, ha prodotto questi effetti intorno all’introduzione del pilastro obbligatorio a capitalizzazione e dell’abbassamento sostanziale della copertura pubblica.

Riguardo alla garanzia delle prestazioni future, dovrebbe essere realizzata dai pilastri privati in Polonia, mentre in Francia, vari interventi hanno garantito una protezione maggiore da parte del pilastro pubblico per le categorie più sprovviste (carriere di lunga durata, pensioni più basse, ecc…). Inoltre, in questi due paesi, le nuove leggi hanno introdotto delle misure per la modernizzazione dei programmi di rischio vecchiaia con il pagamento da parte dello Stato dei contributi durante i periodi d’inattività degli assicurati, e il meccanismo del “riacquisto” dei contributi non versati dagli assicurati stessi.

In Francia come in Polonia, la strategia sindacale per influenzare i principi generali della riforma è stata abbinata alla rivendicazione degli interessi privati di certe categorie (in genere le più sindacalizzate). In Francia, la riforma del 1993 non riguardò il settore pubblico. Dieci anni dopo, la riforma Raffarin ha mantenuto dei privilegi per il settore del trasporto pubblico e per i funzionari. In Polonia, le federazioni dei minatori e delle ferrovie si mobilitarono per garantire una transizione più favorevole al nuovo modello multi-pilastro. L’accettazione da parte del governo di queste rivendicazioni fu importante per la riduzione dell’opposizione sociale.

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