Sei Nazioni meno una Robotax - senzasoste.it · re di un altro pianeta rispetto al resto del mondo....

8
Periodico livornese indipendente - Anno XII n. 124 - Marzo 2017 - OFFERTA LIBERA (stampare questo giornale costa 0,66 €) Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it La California non vende più NIQUE LA POLICE V ado in California per trovare idee per battere il populismo. Così ha detto, a metà febbraio, di fronte a media e opinionisti, Matteo Ren- zi. Nel tentativo di sopravvivere alla propria, dura sconfitta del dicembre scorso. Da tempo Ren- zi, assieme a chi gli fa da sugge- ritore, riflette poco su quello che dice. Sul significato reale del sim- bolico che evoca. Infatti gli Usa, nella geografia politica ufficiale (quella che interessa proprio a Renzi), sono il paese conquista- to dal populismo per eccellenza. Quello di Trump che è andato, sul campo, a sconfiggere l’imma- ginario della Silycon Valley, della disneyficazione delle invenzioni tecnologiche, dell’innovazione creativa e permanente. In realtà Renzi dovrebbe imparare molto, se proprio volesse fare analisi sul campo, a capire sul terreno come evitare ad alimentare il populi- smo con campagne che presu- mono di batterlo con tattiche dif- famatorie, allarmistiche ossessi- ve. Come l’accusa, realistica ma reiterata in modo compulsivo, di razzismo-sessismo-maschili- smo verso ogni leader populista non fa che metterlo in buona luce. Perché il linguaggio antidi- scriminatorio è percepito come linguaggio dell’élite, quella che accetta tutti purché abbiano i soldi, e quindi in ultima istanza un codice di potere non popo- lare. Certo, Renzi è abbastanza conosciuto da aver fatto capire di poter fare il clone di Trump se necessario. Ma ora sta, di nuovo, giocando la partita dell’innovatore, dell’a- raldo della civilizzazione contro l’emergere delle tenebre della demagogia. Questa è la sua sce- neggiatura politica per trovare qualche alleato in più in Europa quando sarà il momento. Quan- do ci sarà di nuovo un governo veramente “suo”. Il punto però è che questo immaginario cali- forniano (che si snoda tra Apple, Cupertino, Palo Alto, tecnologie, qualità e merci digitali) poteva funzionare come elemento di trascinamento di massa, sul pia- no della comunicazione politica, giusto prima della crisi. Oppure come elemento per stupire un po’ di elettorato over 65 ai dibat- titi per le primarie di paese. An- che questo immaginario, oggi, più che la frontiera digitale evoca il consumo elitario. Mac, Ipho- ne, auto elettriche sono oggetti, e il renzismo pretende di comuni- care tramite oggetti, che non evo- cano passioni di massa ma stili di consumo che distinguono. P rima o poi doveva bussare ed il 2017 poteva essere l’anno buono. Stiamo parlando della cru- da realtà, quella per cui l’Italia è un paese della periferia del mondo globale, quel mondo non più eu- rocentrico ma multicentrico, dove i vecchi rituali politici sono ormai più spettacolo che sostanza. Non pensiamo che ai tassisti in lotta contro Uber possa interessare più di tanto dove si collocheranno D’Alema o Rossi e nemmeno a chi muore nei campi a 3 euro l’o- ra, vittima del caporalato. Mentre nella campagna elettorale francese si parla di robot, reddito e riduzio- ne dell’orario di lavoro l’attualità politica italiana nelle stanze dei bottoni è costituita dalla telenove- la del Pd e dalla fattibilità o meno dello stadio della Roma. Uber e la App economy. Ci han- no pensato un po’ i tassisti a farci uscire da questo torpore, non per- ché rappresentino una categoria particolarmente brillante ed inno- vativa, ma perché ci hanno sbattu- to in faccia un bel pezzo di mondo reale. Quale mondo? Quello della “App economy”, degli acquisti on line e della cosiddetta “condivi- sione”, che poi condivisione non è affatto. Ma anche il mondo di una larga fetta di popolazione che ormai ragiona soltanto in quali- tà di consumatore, cioè secondo le proprie esigenze di consumo, senza mai valutare il contesto ed il sistema in cui vive. Oggi i consu- matori sono maggioranza rispetto ai cittadini, è un dato di fatto. Ma la vicenda dei tassisti e del fami- gerato decreto milleproroghe ha mostrato a noi due mondi: quello delle licenze e delle rendite di po- sizione e quello delle tecnologie e dell’autoimprenditorialità che ri- schia di diventare autosfruttamen- to. Sia chiaro, non si tratta di fer- mare la tecnologia e la possibilità da parte di tutti di poter accedere ad una mobilità più veloce ed a prezzi più bassi. Le applicazioni ed i cellulari hanno cambiato la vita di tutti perché molte cose sono possibili con un paio di click. E non possiamo certo tornare indie- tro. Ma qui si tratta di non essere investiti da un treno in piena corsa, per di più con l’illusione che stia passando per prendere noi. Se il rapporto fra consumatore, produt- tore e distributore sta cambiando, ed è innegabile, deve cambiare an- che la loro regolazione. Perché se qualcuno non se ne fosse accorto, Amazon, Uber o AirBnB stanno cambiando le abitudini di molti, ma più che altro smontando set- tori dove ci sono occupati, regole, investimenti. E non lo diciamo perché a noi interessa difendere al- bergatori, tassisti o commercianti, niente è eterno nemmeno, purtrop- po, i ghiacciai, ma perché in questa transizione vengono aspirati soldi dai territori da multinazionali che poi lasciano le briciole e settori vi- tali a livello economico e sociale, completamente deregolati. Perchè deve essere chiaro che qui non c’è niente che viene condiviso, viene solo dato un servizio a prezzo infe- riore grazie al fatto che sfrutta una nuova tecnologia e che è molto deregolamentato. Diverso sarebbe se esistesse una App pubblica che mettesse in contatto le persone e finalizzata ad una migliore mo- bilità, garantendo a tutti miglior accesso e minor impatto ambien- tale ed incrociando ogni giorno le esigenze dei cittadini. Insomma, il nostro discorso non è di tipo etico ma solamente di tipo economico e sociale perché alla fine a queste nuove imprese interessa il profitto, non certo l’organizzazione delle società, le garanzie pensionistiche o il diritto alla mobilità. Leggendo articoli in rassegna stampa e un po’ di commenti sui social network pare veramente che a qualcuno sfugga che Uber, ad esempio, è un’azienda californiana che è sta- ta valutata 50 miliardi di dollari e che ha 160.000 autisti nel proprio circuito ma solo 550 dipendenti. Ed abbiamo già scritto di AirBnB, 1 milione di stanze online e solo 600 dipendenti e più che altro un impatto devastante sul costo degli affitti per chi abita in molte zone turistiche tanto che alcuni sindaci hanno dovuto emettere norme ad hoc per fermare la galoppata degli affitti. Aspettando i robot. Se le App Companies hanno portato scon- quasso in settori e professioni tra- dizionali, l’era dei robot potrebbe essere il punto di non ritorno per il mondo come lo abbiamo cono- sciuto fino ad oggi. Ed anche qui bisogna stare attenti. Non siamo a rimpiangere i tempi che furono ma ad immaginare quali vantaggi e svantaggi porterà l’utilizzo di mas- sa di robot nei processi produttivi e più che altro come costruire le garanzie sociali a chi verrà sosti- tuito. In un mondo delle fiabe, le tecnologie ed i robot dovrebbero servire per liberare tempo da po- ter dedicare a famiglia, cultura e divertimento o ad espletare lavori più insalubri e pericolosi dove si continua a morire come mosche. Ma il mondo non è un libro di fia- be e quindi questo tipo di tecnolo- gia sarà esclusivamente uno stru- mento per essere più competitivi e volto a valorizzare al massimo i capitali investiti. Qualcuno po- trebbe obiettare che la tecnologia avanza da sempre ma le condizio- ni di vita per la parte di mondo che ne ha avuto accesso sono sem- pre migliorate e che comunque si creeranno sempre nuovi bisogni e... (continua a pagina 3) Robotax Mentre il Pd implode chiuso in se stesso, fuori dai palazzi la realtà racconta dell’irruzione nell’agenda politica e sociale di tecnologie, robot, caporalato e disoccupazione. Con tutte le conseguenze che si portano dietro.

Transcript of Sei Nazioni meno una Robotax - senzasoste.it · re di un altro pianeta rispetto al resto del mondo....

Periodico livornese indipendente - Anno XII n. 124 - Marzo 2017 - OFFERTA LIBERA (stampare questo giornale costa 0,66 €)Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it

Pagina OttoAnno XII - n. 124 - Marzo 2017

RUGBY - La siderale differenza venutasi a creare tra l’Italia e le altre 5 squadre pone d’obbligo una domanda: è giusto che gli Azzurri continuino a partecipare al Sei Nazioni? Storia di un progetto di crescita fallimentare.

NELLO GRADIRÀ

Il torneo delle Cinque Nazioni di rugby è nato nel 1910 quan-

do alle quattro squadre britanni-che che dal 1893 disputavano lo Home Championship si aggiunse la Francia. Dal 1931 al 1947 la Francia venne di nuovo esclusa perché alcuni giocatori erano pro-fessionisti, ma dopo fu riammessa e fino al 1999 il Torneo riprese il nome di Cinque Nazioni. Nel 2000 per la prima volta partecipò anche l’Italia, per cui da allora il Torneo è diventato il Sei Nazioni. La formula è quella del girone all’i-taliana con partita secca. Si tratta di un torneo ad invito, per cui non ci sono promozio-ni e retrocessioni. Partecipano le squadre che vengono ritenute le più forti e prestigiose del con-tinente. E per quanto riguarda le cinque squadre “tradizionali” non c’è dubbio che lo siano, per tradizione e per piazzamento nel ranking mondiale: attualmente

l’Inghilterra è seconda dietro gli All Blacks neozelandesi, l’Irlanda è quarta dietro l’Australia, poi se-guono Galles, Sudafrica, Francia e Scozia. Per trovare l’Italia in-vece bisogna scendere fino al 14° posto, tra le Isole Tonga e le Isole Samoa, e gli azzurri sono prece-duti da un’altra squadra dell’area europea, la Georgia. A differenza del calcio, dove in quelle posizioni di classifica o an-che più in basso ci sono squadre che hanno vinto dei mondiali o potrebbero vincerli, come Italia, Inghilterra e Olanda, nel rugby le distanze sono molto più mar-cate e tra le prime sette-otto e quelle che seguono non c’è pra-ticamente partita, almeno per il momento. E anche il movimento rugbistico di questi paesi appa-re di un altro pianeta rispetto al resto del mondo. La partecipazione dell’Italia al Sei Nazioni all’inizio non sem-brava uno scandalo. Alla fine de-gli anni ’90 la nazionale azzurra aveva riportato dei buoni risultati e si pensò che entrare a far parte del club potesse dare ancora più spinta al rugby italiano. A distanza di quasi vent’anni si può dire che non è andata così, i ri-sultati continuano ad essere imba-razzanti (nonostante il solito uti-lizzo furbetto degli “oriundi” che caratterizza lo sport italico) e qual-cuno comincia a chiedersi se non sia il caso di ripensarci. L’Italia aveva esordito il 5 feb-braio del 2000 con una vittoria per 34-20 contro la Scozia, ma poi seguirono quattro sconfitte (tre delle quali molto pesanti) e arrivò il primo “cucchiaio di le-gno”, il simbolico premio attribu-ito all’ultima classificata. Premio che dal 2000 ad oggi l’Italia si è

“aggiudicata” ben undici volte. Per sei volte senza neanche un punto in classifica ( si chiama “whitewa-sh”). In totale ha vinto appena 12 partite (7 contro la Scozia). La cosa peggiore è che i risultati con l’andare del tempo sono addi-rittura peggiorati: dopo il buon tor-neo del 2013 con due vittorie con-tro Francia e Irlanda, whitewash nel 2014, con una differenza punti di –109, nel 2015 una sola vittoria contro la Scozia, nel 2016 altro whi-tewash e un –145; quest’anno, nelle prime due partite, entrambe casa-linghe, due brutte sconfitte, 33-78 contro il Galles e 10-63 contro l’Ir-landa, un punteggio che nel calcio potrebbe corrispondere a un 6-1. Anche se nel novembre scorso gli azzurri avevano colto una vit-toria superprestigiosa battendo gli Springboks sudafricani 20-18, era quindi logico che qualcuno tornasse a chiedersi cosa ci fa l’I-talia tra i mostri sacri del rugby europeo. Si parla -soprattutto in ambienti inglesi- di un possibile ritorno al Cinque Nazioni, o al-meno di una formula con retro-cessioni e promozioni per cui la sesta partecipante non sarebbe più fissa ma dovrebbe guadagnarsi la qualificazione con una specie di playoff. Le squadre che potrebbe-ro contendere all’Italia la presenza nel torneo sarebbero la Georgia e la Romania, e sembra che alcuni magnati georgiani abbiano offer-to agli organizzatori 10 milioni di euro per far aprire le porte del Sei Nazioni alla loro squadra. Non è un’offerta del tutto folle se

La Federazione del rugby per in-troiti è seconda solo a quella del calcio, ma come in ogni storia ita-liana non potevano mancare gli scandali: il bilancio della FIR nel 2016 è andato in rosso di 2 milio-ni di euro e il presidente Gavazzi è stato messo sotto inchiesta per irregolarità e falso in bilancio.

Ma al di là del-le cifre, il rugby italiano si è gio-vato della par-tecipazione al Sei Nazioni? L’idea era quel-la che lo svilup-po dello sport a livello di élite avesse un effet-to trascinante per tutto il mo-vimento. Così è stato stravolto il massimo cam-pionato, con le due più forti squadre (Tre-viso e Zebre) che partecipa-no con risultati piuttosto scarsi

al Pro12, la ex Celtic League, con club irlandesi, gallesi e scozzesi, mentre la serie A vera e propria ora si chiama Eccellenza e la se-rie A sarebbe la serie B. Formule astruse che hanno portato meno presenze negli stadi e meno inte-resse per i tornei nazionali. Ma una certa crescita della base c’è stata: il numero dei tesserati dopo un calo nel 2014-15 ha ri-

si pensa che il torneo muove ogni anno almeno 500 milioni di euro. Nel mondo il Sei Nazioni è l’even-to sportivo con la più alta media spettatori allo stadio (72.000), nel 2014 superiore anche al Mondiale di Calcio in Brasile. Questo nu-mero di spettatori è stato raggiun-to anche in una partita casalinga dell’Italia, quel-la con l’Inghil-terra del 2016 all’Olimpico di Roma. Per quanto ri-guarda la au-dience televi-siva, nel 2016 i telespettatori sono stati 67 milioni e mez-zo in 187 paesi, mentre in Ita-lia dal 2013 al 2016 il numero di telespettatori per ogni parti-ta ha oscillato tra un minimo di 324.000 e un massimo di 874.000. La partecipazione al Sei Nazioni vale per la Federazione Italiana Rugby circa 20 milioni (14 arriva-no dai diritti TV e altri 5 dagli spon-sor), cifra che rappresenta poco meno della metà del suo budget complessivo e che avvicina l’Italia alla meno ricca delle avversarie, la Scozia, che incassa circa 55 milio-ni. Ma le altre sono ancora distanti, l’Inghilterra è addirittura a 472.

preso a salire arrivando nel 2015-2016 a 87.373, con 31mila nuo-vi giocatori iscritti. Grazie anche all’insopportabile retorica sullo sport vero e sui tifosi corretti rispetto al calcio dei bar-bari e dei miliardari. Una moda? Almeno in parte sì: in occasione dell’ultima Italia-Irlanda, il 70 per cento degli intervistati allo stadio ha dichiarato di non aver mai vi-sto una partita prima. Gli appassionati italiani di rugby naturalmente vorrebbero che l’e-sperienza della nazionale azzur-ra nel Sei Nazioni continuasse: ricordano che la Francia ha vinto il suo primo torneo a 44 anni di distanza dall’esordio, e sostengo-no che in fondo tra l’Italia e Sco-zia non c’è poi quell’abisso che si vuol far credere. Ma siamo sicuri che le mazzate continue della nazionale al Sei Nazioni siano il modo giusto per promuovere il rugby nostrano? E soprattutto, è sportivamente giu-sto che una squadra come l’Italia –più che altro per motivi di inte-ressi economici- partecipi a un torneo con squadre palesemente fuori portata? Non sarebbe come far disputare per decreto la finale dei mondiali di calcio all’Estonia o al Montenegro? Lasciamo la ri-sposta ai lettori.

Sei Nazioni... meno una

La Californianon vende più

NIQUE LA POLICE

Vado in California per trovare idee per battere il populismo. Così ha

detto, a metà febbraio, di fronte a media e opinionisti, Matteo Ren-zi. Nel tentativo di sopravvivere alla propria, dura sconfitta del dicembre scorso. Da tempo Ren-zi, assieme a chi gli fa da sugge-ritore, riflette poco su quello che dice. Sul significato reale del sim-bolico che evoca. Infatti gli Usa, nella geografia politica ufficiale (quella che interessa proprio a Renzi), sono il paese conquista-to dal populismo per eccellenza. Quello di Trump che è andato, sul campo, a sconfiggere l’imma-ginario della Silycon Valley, della disneyficazione delle invenzioni tecnologiche, dell’innovazione creativa e permanente. In realtà Renzi dovrebbe imparare molto, se proprio volesse fare analisi sul campo, a capire sul terreno come evitare ad alimentare il populi-smo con campagne che presu-mono di batterlo con tattiche dif-famatorie, allarmistiche ossessi-ve. Come l’accusa, realistica ma reiterata in modo compulsivo, di razzismo-sessismo-maschili-smo verso ogni leader populista non fa che metterlo in buona luce. Perché il linguaggio antidi-scriminatorio è percepito come linguaggio dell’élite, quella che accetta tutti purché abbiano i soldi, e quindi in ultima istanza un codice di potere non popo-lare. Certo, Renzi è abbastanza conosciuto da aver fatto capire di poter fare il clone di Trump se necessario. Ma ora sta, di nuovo, giocando la partita dell’innovatore, dell’a-raldo della civilizzazione contro l’emergere delle tenebre della demagogia. Questa è la sua sce-neggiatura politica per trovare qualche alleato in più in Europa quando sarà il momento. Quan-do ci sarà di nuovo un governo veramente “suo”. Il punto però è che questo immaginario cali-forniano (che si snoda tra Apple, Cupertino, Palo Alto, tecnologie, qualità e merci digitali) poteva funzionare come elemento di trascinamento di massa, sul pia-no della comunicazione politica, giusto prima della crisi. Oppure come elemento per stupire un po’ di elettorato over 65 ai dibat-titi per le primarie di paese. An-che questo immaginario, oggi, più che la frontiera digitale evoca il consumo elitario. Mac, Ipho-ne, auto elettriche sono oggetti, e il renzismo pretende di comuni-care tramite oggetti, che non evo-cano passioni di massa ma stili di consumo che distinguono.

Prima o poi doveva bussare ed il 2017 poteva essere l’anno

buono. Stiamo parlando della cru-da realtà, quella per cui l’Italia è un paese della periferia del mondo globale, quel mondo non più eu-rocentrico ma multicentrico, dove i vecchi rituali politici sono ormai più spettacolo che sostanza. Non pensiamo che ai tassisti in lotta contro Uber possa interessare più di tanto dove si collocheranno D’Alema o Rossi e nemmeno a chi muore nei campi a 3 euro l’o-ra, vittima del caporalato. Mentre nella campagna elettorale francese si parla di robot, reddito e riduzio-ne dell’orario di lavoro l’attualità politica italiana nelle stanze dei bottoni è costituita dalla telenove-la del Pd e dalla fattibilità o meno dello stadio della Roma. Uber e la App economy. Ci han-no pensato un po’ i tassisti a farci uscire da questo torpore, non per-ché rappresentino una categoria particolarmente brillante ed inno-vativa, ma perché ci hanno sbattu-to in faccia un bel pezzo di mondo reale. Quale mondo? Quello della “App economy”, degli acquisti on line e della cosiddetta “condivi-sione”, che poi condivisione non è affatto. Ma anche il mondo di una larga fetta di popolazione che ormai ragiona soltanto in quali-tà di consumatore, cioè secondo le proprie esigenze di consumo,

senza mai valutare il contesto ed il sistema in cui vive. Oggi i consu-matori sono maggioranza rispetto ai cittadini, è un dato di fatto. Ma la vicenda dei tassisti e del fami-gerato decreto milleproroghe ha mostrato a noi due mondi: quello delle licenze e delle rendite di po-sizione e quello delle tecnologie e dell’autoimprenditorialità che ri-schia di diventare autosfruttamen-to. Sia chiaro, non si tratta di fer-mare la tecnologia e la possibilità da parte di tutti di poter accedere ad una mobilità più veloce ed a prezzi più bassi. Le applicazioni ed i cellulari hanno cambiato la vita di tutti perché molte cose sono possibili con un paio di click. E non possiamo certo tornare indie-tro. Ma qui si tratta di non essere investiti da un treno in piena corsa, per di più con l’illusione che stia passando per prendere noi. Se il rapporto fra consumatore, produt-tore e distributore sta cambiando, ed è innegabile, deve cambiare an-che la loro regolazione. Perché se qualcuno non se ne fosse accorto, Amazon, Uber o AirBnB stanno cambiando le abitudini di molti, ma più che altro smontando set-tori dove ci sono occupati, regole, investimenti. E non lo diciamo perché a noi interessa difendere al-bergatori, tassisti o commercianti, niente è eterno nemmeno, purtrop-po, i ghiacciai, ma perché in questa

transizione vengono aspirati soldi dai territori da multinazionali che poi lasciano le briciole e settori vi-tali a livello economico e sociale, completamente deregolati. Perchè deve essere chiaro che qui non c’è niente che viene condiviso, viene solo dato un servizio a prezzo infe-riore grazie al fatto che sfrutta una nuova tecnologia e che è molto deregolamentato. Diverso sarebbe se esistesse una App pubblica che mettesse in contatto le persone e finalizzata ad una migliore mo-bilità, garantendo a tutti miglior accesso e minor impatto ambien-tale ed incrociando ogni giorno le esigenze dei cittadini. Insomma, il nostro discorso non è di tipo etico ma solamente di tipo economico e sociale perché alla fine a queste nuove imprese interessa il profitto, non certo l’organizzazione delle società, le garanzie pensionistiche o il diritto alla mobilità. Leggendo articoli in rassegna stampa e un po’ di commenti sui social network pare veramente che a qualcuno sfugga che Uber, ad esempio, è un’azienda californiana che è sta-ta valutata 50 miliardi di dollari e che ha 160.000 autisti nel proprio circuito ma solo 550 dipendenti. Ed abbiamo già scritto di AirBnB, 1 milione di stanze online e solo 600 dipendenti e più che altro un impatto devastante sul costo degli affitti per chi abita in molte zone

turistiche tanto che alcuni sindaci hanno dovuto emettere norme ad hoc per fermare la galoppata degli affitti. Aspettando i robot. Se le App Companies hanno portato scon-quasso in settori e professioni tra-dizionali, l’era dei robot potrebbe essere il punto di non ritorno per il mondo come lo abbiamo cono-sciuto fino ad oggi. Ed anche qui bisogna stare attenti. Non siamo a rimpiangere i tempi che furono ma ad immaginare quali vantaggi e svantaggi porterà l’utilizzo di mas-sa di robot nei processi produttivi e più che altro come costruire le garanzie sociali a chi verrà sosti-tuito. In un mondo delle fiabe, le tecnologie ed i robot dovrebbero servire per liberare tempo da po-ter dedicare a famiglia, cultura e divertimento o ad espletare lavori più insalubri e pericolosi dove si continua a morire come mosche. Ma il mondo non è un libro di fia-be e quindi questo tipo di tecnolo-gia sarà esclusivamente uno stru-mento per essere più competitivi e volto a valorizzare al massimo i capitali investiti. Qualcuno po-trebbe obiettare che la tecnologia avanza da sempre ma le condizio-ni di vita per la parte di mondo che ne ha avuto accesso sono sem-pre migliorate e che comunque si creeranno sempre nuovi bisogni e... (continua a pagina 3)

RobotaxMentre il Pd implode chiuso in se stesso, fuori dai palazzi la realtà racconta dell’irruzione nell’agenda politica e sociale di tecnologie, robot, caporalato e disoccupazione. Con tutte le conseguenze che si portano dietro.

Mensile. Sede: via dei Mulini, 29Direttore Responsabile: Paola Chiellini

Tipografia: SaxoprintRegistrazione del Tribunale di Livorno

n° 5/06 del 02/03/2006

Perché partecipa l’Italia e non la Georgia che ci

ha superato nel ranking? Perché

dal 2000 ad oggi il gap con

le altre squadre è andato

crescendo?

internazionale Anno XII, n. 124 7stile liberoMarzo 2017

la violenza politica e comune, legata soprattutto al fenomeno delle maras (le gang giovanili) e al narcotraffico. In questo clima l’assassinio di militanti politici ed ecologisti e difensori dei di-ritti umani è assolutamente “na-turale”. Il record degli attivisti assassinati spetta comunque al Brasile, dove le vittime tra il 2002

e il 2014 sono state 458. Secon-do un altro rapporto di Global Witness, dei 908 omicidi di am-bientalisti accertati tra il 2002 e il 2013 in 35 paesi in via di svilup-po solamente in 10 casi l’assassi-no è stato condannato.

NELLO GRADIRÀ

Nella notte tra il 2 e il 3 mar-zo del 2016 a La Esperan-

za, a 200 chilometri dalla capi-tale honduregna Tegucigalpa, un commando di uomini arma-ti irrompe nella casa di Berta Cáceres e la uccide con quat-tro colpi di pistola. Berta Cáceres era l’esponente più nota del Consiglio delle or-ganizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (Copinh), che da anni si batte contro le politiche di devastazione ambientale del governo e delle multinaziona-li. Poco dopo Berta, altri due attivisti del Copinh vengono assassinati: Nelson Garcia, il 15 marzo e Lesbia Yaneth Ur-quia il 6 luglio. In preceden-za, era stato ucciso anche un ragazzo di 14 anni, Maykol Rodríguez, torturato a morte nell’ottobre del 2014. La lotta del Copinh ha bloccato la realizzazione del complesso idroelettrico Agua Zarca, sul fiume Gualcarque, nell’Hondu-ras Nord-occidentale. Un fiume considerato sacro dal popolo Lenca che abita nella regione. L’opera è stata decisa in vio-lazione della Convenzione del

1989 sul diritto all’autodetermi-nazione dei popoli indigeni. Se fosse costruita, la diga distrugge-rebbe la foresta pluviale e seicen-to famiglie sarebbero costrette ad abbandonare le loro terre. Questa vicenda ha avuto grande risonanza in tutto il mondo e a Berta Cáceres nel 2015 era stato assegnato l’importante premio internazionale Goldman. Nell’Honduras di oggi basta e avanza per rimetterci la pelle. Le battaglie ambientali ostacolano gli interessi di grandi banche e im-prese transnazionali (nel caso di Agua Zarca sono implicate una banca olandese e una finlandese e l’impresa cinese Sinohydro, leader mondiale nella costruzione di di-

ghe) delle élites ricche e potenti del Paese e della classe politica. Secon-do un rapporto della ONG Global Witness gli ambientalisti uccisi dal 2010 ad oggi sono stati 120, tra i quali 10 membri del Copinh. Molti altri sono stati minacciati, aggre-diti o arrestati. Per questi omicidi, commessi da membri delle forze di polizia, vigilanti o sicari, c’è una quasi totale impunità (90%). In rari casi è stato condannato l’esecutore materiale, ma mai il mandante. È a partire dal “golpe suave” del 2009, con il ritorno al potere della destra, che le politiche di devasta-zione ambientale hanno avuto una crescita esponenziale. L’Honduras è stato il laboratorio di sperimenta-zione di questa particolare strategia

di colpo di stato, che prevede la destituzio-ne del presidente eletto non con un intervento militare ma tramite iniziative del potere giudiziario e legislati-vo, accompagnati da campagne mediatiche, strategie di sabotaggio e c o n o -mico e di de-stabiliz-zazione

politica (il tutto appoggiato natu-ralmente dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali). È così che nel 2009 si è interrotto il man-dato del presidente di sinistra Zelaya, peraltro abbastanza moderato ma colpe-vole di voler aderire all’ALBA, l’alleanza dei Paesi progressisti latino-ameri-cani. Colpi di Stato analoghi sono stati riproposti in Paraguay contro il presidente Lugo nel 2012 e in Brasile contro Dilma Rousseff nel 2016. L’Honduras ormai da anni è affondato nella corruzione e nel-

HONDURAS - Un anno fa l’assassinio dell’attivista Berta Cáceres

Non è un paese per ecologistile, è stato il punto di partenza. Funzioni di sanità, educazione, sussistenza alimentare, assetti urbani e altro. Ad oggi lo Sta-to si è perfezionato secondo la spinta di un potere sempre più scientifico e abile nell’organiz-zare cambiamenti senza però

intaccare la sovra-nità di un sovrano completamente su-blimato ma sempre esistente e fatto di persone in carne ed ossa. Il cittadi-no consumatore è il soggetto a cui il potere deve far attenzione e dal quale trae legitti-mazione e soddi-sfazione in termini

economico-finanziari. Ma Fo-cault ci ha insegnato che nessun potere ha una naturale sicurezza nella sua affermazione, nessun potere è legittimato in assoluto, è solo sorretto da circostanze di debolezze storiche e da bluff disseminati nelle pratiche di-scorsive che il potere stesso co-nia e diffonde attraverso i suoi comunicatori.

JACK RR

La Genealogia della Governan-ce è un libro sull’ordolibe-

ralismo, questione attuale mai affrontata di fronte al grande pubblico. Mentre i media nel ventennio hanno celebrato con entusiasmo la fine delle ideo-logie nascondendo sempre con molta maestria i veri lineamenti della governace europea, Giu-liana Commisso è riuscita in-vece a ribaltare completamente la strategia dell’informazione generalista. Ripartendo dalla filosofia lasciata da Foucault, che ci ha insegnato i segreti veri e attuali della logica di potere, l’autrice è arrivata a descrive-re i meccanismi messi in atto dal governo comunitario. Un libro di sociologia che spiega l’economia della finanza nel sorpasso dell’economia reale, quella classica. Proprio in que-sto sorpasso stanno i mutamenti di quell’architettura normativa ma soprattutto di alcuni concet-ti che possiamo definire chiavi di volta come i diritti sociali. Questi diritti rivendicati a gran voce dalla politica sono traditi poi dalle pratiche dei vari Stati Sovrani in competizione tra loro il cui primo obiettivo è divenuto la gestione delle bilance com-merciali. Lo Stato Mercato è il riferimento più importante per capire il criterio dell’ordolibera-lismo tedesco. Quel criterio fon-dante nell’esercizio del potere

dove settori della finanza privata poi in concreto hanno di fronte a loro spazi di libertà infinita. Nel mentre viene fatta, dal potere, un’operazione davvero scientifica di chirurgia di quella che veniva

definita società civile nel quadro del welfare pubblico trasforman-dola in una rete di soggetti differenziati e animati da tre principi chiave: la responsabi-lità, la moderazione e la competitività, si arriva appunto a iden-tificare l’imprenditoria sociale come punto di comunione tra logica pubblica e privata. L’a-zione delle fondazioni insieme ai singoli in-dividui e famiglie re-sponsabilizzate e qua-lificate nella gestione del loro futuro regole-ranno le nuove forme di relazioni sociali. Si arriva a descrivere la nuova realtà usando il termine “neosociale” dove la competizione tra i vari attori vie-

ne legittimata affinché rimanga nella moderazione. Saranno poi i regolatori, i veri soggetti istitu-zionali di governo, a dosare gli incentivi e i trasferimenti per far funzionare le cose che nel libe-

ralismo si sono complicate con la crisi che abbiamo di fronte. “Rendere più accettabile la scon-fitta per i più deboli” è una delle conclusioni più reali che l’autri-ce porta in discussione dopo aver fatto un lavoro di ricostruzione di come lo Stato si sia specializza-

to sul piano del potere-sapere dal XXVI secolo ad oggi. Lo Stato di Polizia, non quello menzionato da Berlusconi a reti unificate nel momento in cui ricevette tutti quelle accuse, ma quello in cui la forza militare doveva gestire di-rettamente quelle funzioni che il sovrano stesso ad un certo punto doveva riconoscere per mantene-re certi equilibri col corpo socia-

Genealogia della governanceLETTURE/1 - Un libro di Giuliana Commisso sull’ordoliberalismo

2

NELLO GRADIRÀ

Come succede spesso a Livorno molte iniziative

interessanti vengono pena-lizzate dalla concomitanza con altri eventi. È il caso della presentazione del libro “Cattivi e Primitivi”, svol-tasi presso la ex Caserma Occupata sabato 11 febbraio in contemporanea con un’as-semblea alla quale hanno partecipato più di 150 per-sone.. Il libro è una ricerca etnografica sul movimento NO TAV, basata su una ven-tina di interviste ad attivisti realizzate nel 2013. L’auto-re è il ricercatore bolognese Alessandro Senaldi, che non fa mistero del suo coinvolgi-mento emotivo e politico nel-le battaglie NO TAV e sfata così un primo luogo comu-ne, quello della necessità di uno sguardo “neutrale” per ottenere risultati affidabili. L’uso delle interviste, fre-quente ma non eccessivo, rende la lettura del libro più scorrevole ed contribuisce a un’immediata compren-sione dei vari argomenti. Oggetto della ricerca le pro-cedure di stigmatizzazione e le strategie repressive messe in campo dai poteri costitu-iti per isolare e dividere un movimento che ha ormai compiuto 25 anni. La prima procedura discor-

siva è quella sintetizzata nel titolo del libro: i primitivi sono i valligiani, ai quali viene rico-nosciuta la legittimità di espri-mere il proprio dissenso ma che vengono descritti come rozzi montanari disinformati, porta-tori di una logica nimby e quin-di incapaci di guardare all’in-teresse generale e di misurarsi con questioni tecnico-scientifi-che di grande complessità. Totalmente illegittima sarebbe

invece la protesta dei cattivi, “quelli venuti da fuori”, perché estranei alla realtà della valle e mossi soltanto dal desiderio di contrapporsi in modo pre-giudiziale e violento alle au-torità costituite: una protesta

sostanzialmente “terrori-stica”. Da qui anche una strategia poliziesca tesa a colpire in modo seletti-vo i “cattivi” e cercare in tutti i modi di accreditare l’idea dei “provocatori di professione”. A questo proposito è divertente l’a-neddoto dei valligiani un po’ attempati, mascherati con il passamontagna, che dopo essere stati ferma-

ti nel corso di una manifesta-zione vengono subito rilascia-ti in quanto non inquadra-bili negli stere-otipi di media, polizia e magi-stratura. Le pratiche discorsive quindi alimentano e si ali-mentano con le stra-tegie repressive di tipo militare e giu-diziario. E su questo

aspetto risulta particolarmen-te interessante la riflessione dell’autore sull’applicazione del “diritto penale del nemico” (Jacobs, 1985): nei confronti di chi viene individuato come ne-mico della società non valgono

neanche le minime garanzie che vengono riconosciute al cittadi-no “ordinario”. Ma se l’obietti-vo di queste strategie era quello di evitare la “contaminazione” tra varie esperienze e circoscri-vere la battaglia NO TAV a una microconflittualità locale, si può dire che sia stato del tutto mancato. Senaldi affronta que-sto punto affidandosi alla voce diretta dei valligiani che rac-contano come gli “autoctoni” e i “ragazzi venuti da fuori” sia-

no entrati in comunicazione e non esista alcuna difficol-tà di integrazione tra le due esperienze. Anzi come ci sia stata una “divisione del lavo-ro” nelle pratiche di resisten-za. Il movimento NO TAV ha inoltre ha saputo misurarsi su tre terreni fondamentali: proprio all’opposto di una logica nimby, ha messo in discussione i concetti domi-nanti di sapere, progresso e democrazia. Il movimento, scrive Senaldi, “sembra aver stabilito un’egemonia cultura-le” e la vicenda della TAV è diventata la metafora delle grandi opere inutili e deva-stanti, contro cui si svilup-pano decine e decine di lotte locali che si ispirano all’e-sperienza della Val di Susa e organizzano manifestazioni di sostegno in tutto il territo-rio nazionale. Il movimento ha saputo guadagnarsi il con-senso dell’opinione pubblica generale e ha costruito nuo-vi legami comunitari, risco-prendo la storia partigiana e ribelle della Valle e elaboran-do “una propria pedagogia, dei propri miti, una propria storia, fino ad arrivare a vere e proprie pratiche mortuarie”. C’è da chiedersi: si tratta di un’esperienza unica, deter-minata dalle particolari ca-ratteristiche socio culturali e geografiche della Val Susa, o riproponibile in altre realtà?

25 anni di lotta No TavLETTURE/2 - Cattivi e primitivi, di Alessandro Senaldi

In sette anni il PIL della Gre-cia si è ridotto di un terzo.

La disoccupazione colpisce il 25% della popolazione e il 40% dei giovani tra i 15 e i 25 anni. Un terzo delle imprese è scomparso in cinque anni. I successivi tagli imposti in nome dell’austerità riguardano tutte le regioni. Non ci sono treni né autobus in zone intere del Pa-ese. E neanche scuole. Molte scuole secondarie hanno do-vuto chiudere negli angoli più remoti per mancanza di fondi. La spesa procapite in sanità secondo la OCSE è diminui-ta di un terzo dal 2009. Più di 25.000 medici sono stati licen-ziati. Gli ospedali mancano di personale, di farmaci, di tutto. Il costo umano e sociale dell’austerità non compare nei fogli excel dell’Eurogruppo. Lo paga in contanti la popolazio-ne. Una quinta parte della po-polazione vive senza riscalda-mento o telefono. Il 15% della popolazione è caduto nella po-vertà estrema dal 2% del 2009. La Banca di Grecia, che non è certo sospetta di compiacenza, ha fatto una valutazione della salute della popolazione greca in un rapporto pubblicato nel giugno del 2016. Le cifre sono clamorose: il 13% della popola-zione è escluso da qualsiasi tipo di assistenza medica; l’11,5% non può comprare le medici-ne prescritte; il 24% ha proble-

mi di salute cronici. I suicidi, le depressioni, le malattie mentali hanno registrato incrementi espo-nenziali. Ancor peggio, mentre il tasso di natalità è diminuito del 22% dall’inizio della crisi, il tas-so di mortalità infantile è quasi duplicato in pochi anni, fino a raggiungere il 3,75% nel 2014. Dopo sette anni di crisi, di au-sterità, di piani europei, il Paese è stremato, dal punto di vista fi-nanziario, economico, fisico. “La situazione continua a peggiorare. Quello di cui abbiamo più biso-gno ora è il cibo. Questo dimo-stra che i problemi riguardano i beni essenziali e non la qualità della vita. Questo è pura soprav-vivenza”, dice Ekavi Valleras, di-rettore della ONG Desmos. Ed è

a questo Paese che l’Europa pretende di assumersi pratica-mente da solo il ca-rico dei rifugiati che arrivano in Europa. Inizialmente, gli osservatori hanno analizzato l’intransi-genza dei funziona-ri europei come un golpe politico contro Syriza. Dopo due

anni di governo, dopo il cambio di rotta di 180 gradi sul referen-dum del luglio 2015 e il nuovo piano di salvataggio, il governo di Alexis Tsipras è a terra nel consenso dell’opinione pubblica. Pretendere da lui nuove misu-re di austerità, metterlo di nuo-vo al muro e forzare per nuove elezioni è la manovra finale per sconfiggerlo politicamente, fargli pagare una volta per tutte l’af-fronto del 2015 e sostituirlo con un governo molto più accettabile. Questo scenario politico non ap-pare realistico ad altri economisti. Credono che si stia arrivando alla fine della gestione europea della crisi greca. Secondo questi anali-sti il ministro tedesco delle finan-ze, Wolfgang Schäuble, che non

ha mai nascosto il desiderio che la Grecia esca dall’euro, ma che ha visto sconfitta la sua linea nel lu-glio del 2015, ora sta prevalendo. Poco a poco, i leader europei, stanchi di un problema per il qua-le non hanno soluzione, aderisco-no alla sua tesi. Anche il FMI sta trattando di uscire dal vicolo cieco della Grecia e anch’esso sostiene un’uscita della Grecia dall’euro,

unica misura che potrebbe dare ossigeno monetario al Paese. Il problema è che nessuno vuole accettare la responsabilità stori-ca di questo fallimento e le sue conseguenze. Escludere un Pae-se dall’eurozona significa che la

moneta unica non è irreversi-bile, come si affermava all’ini-zio. Altri, volontariamente o no, potrebbero seguire l’esem-pio. I finanzieri si preparano per la festa. Il debito greco è di nuovo oggetto di forti spe-culazioni, che spingono i tassi d’interesse al di sopra del 7%. Inoltre tutto il mercato eu-ropeo dei buoni ne è dan-neggiato, in quanto vengono spinti in alto i tassi italiani, spagnoli, francesi nonostan-te l’intervento della BCE. L’atteggiamento dei dirigenti europei e del FMI nelle ultime settimane è sorprendente, per-ché rappresenta un passo indie-tro storico. Spingere la Grecia fuori dall’euro senza che voglia invece la necessaria ristruttu-razione del debito, quando le tensioni geopolitiche non sono mai state più grandi, quando Donald Trump attacca esplici-tamente la costruzione europea e scommette sulla sua scompo-sizione, appare incomprensibi-le. La storia bussa alla porta, ma questi burocrati e bottegai non hanno una risposta. Come sempre dall’inizio della crisi greca.

Martine Orange

Articolo completo su www.rebelion.org, traduzione e ria-dattamento per Senza Soste di Nello Gradirà

Il collasso del paese ellenicoGRECIA - La follia criminale della tecnocrazia neoliberista

“Tu hai il proiettile... io ho la parola. Il proiettile muore

quando esplode, la parola vive quando

viene diffusa.” (Berta Cáceres)

Dopo sette anni di crisi,

di austerità, di piani europei,

il paese è stremato

Il movimento No Tav ha messo in

discussione i concetti dominanti di

sapere, progresso e democrazia

Un libro di sociologia che spiega

l’economia della finanza nel sorpasso dell’economia reale

per non dimenticare6 3interniMarzo 2017

da, ma il confronto tra USA e URSS troverà i suoi principali terreni di battaglia nel sud del mondo, che stava vivendo l’e-poca della decolonizzazione e dovrà subire l’affermazione di un neocolonialismo altret-tanto oppressivo. Da una parte i movimenti po-polari di liberazione, dall’altra le élite appoggiate dall’Occi-dente: saranno decine le “guer-re per procura” in Asia, Africa e America Latina. A confrontarsi due sistemi economici e politici ma soprat-tutto due visioni del mondo inconciliabili, nessuna delle quali in grado di rispondere alle aspirazioni dei popoli del mondo.

Nota (1) Il termine era stato utilizzato per la prima volta nel 1945 da George Orwell che prevedeva “uno stallo nucleare tra due o tre mostruosi super-stati, ognuno in possesso di un’arma tramite cui milioni di persone possono essere spazzate via in pochi secondi”.

NELLO GRADIRÀ

Il 12 marzo del 1947 il pre-sidente statunitense Harry

Truman si presentò alle came-re riunite in seduta comune. Pronunciò un discorso di 21 minuti nel quale espose quel-la che passò alla storia come “Dottrina Truman”. Inizió descrivendo la situazio-ne in Grecia, dove era in corso una sanguinosa guerra civile tra i partigiani comunisti e la monarchia filooccidentale. La Grecia, disse Truman, è un paese povero e laborioso usci-to distrutto dall’occupazione nazifascista. Di questo ha ap-profittato una minoranza mi-litante per creare il caos, e per questo la Grecia non è in grado di provvedere alla ricostruzio-ne. Anche la Turchia, che pure non ha subito i disastri della guerra, aggiunse, ci chiede aiu-to economico per mantenere la propria integrità territoriale. Abbiamo combattuto Germa-nia e Giappone, ricordò il presi-dente, per evitare il pericolo del totalitarismo ma non raggiun-geremo mai i nostri obiettivi se non aiutiamo i popoli liberi a rafforzare le proprie istituzioni e le loro economie. Concluse proponendo lo stanziamento di 400 milioni di dollari per i due paesi mediterranei. Anche se Truman non citò di-rettamente l’Unione Sovietica, né toccò temi di carattere mili-tare, per molti studiosi questo discorso segna l’inizio della Guerra Fredda (1). Perché fu in quell’occasione che furono tracciate le linee di una nuova fase dell’interven-tismo statunitense in politica

estera, caratterizzato dal conte-nimento del blocco sovietico. Un interventismo non solo militare ma soprattutto economico. La situazione dell’Europa nell’immediato dopoguerra era drammatica e a Washington si temeva che anche nei Paesi della loro area di influenza le sinistre, rafforzate dalla vittoriosa Resi-stenza al nazifascismo, potes-sero arrivare a governare. Immediatamente dopo il discor-so di Truman, gli Stati Uniti imposero ai governi dell’Europa occidentale di porre fine all’e-sperienza dell’Unità Nazionale: in Italia e in Francia tra l’aprile

e il giugno del 1947 le sinistre furono cacciate dal governo. E proprio in questa fase iniziò la strategia della tensione con la strage di Portella della Ginestra. Il 31 maggio De Gasperi formò un governo con socialdemocrati-ci, liberali e repubblicani. Il 5 giugno 1947 fu annunciato il piano Marshall. Aiuti econo-mici per la ricostruzione, ma forse ancor di più una battaglia culturale per diffondere i valori dell’american way of life. Nel 1947 gli Stati Uniti erano an-cora l’unica potenza nucleare e questo gli permetteva una politi-ca estera particolarmente aggres-

siva. Ma nel settembre del 1949 il peso delle due grandi potenze si riporterà in equilibrio con il primo esperimento nucleare sovietico. Il 4 aprile 1949 a Washington fu sottoscritto il cosiddetto pat-to Atlantico che dava vita a una nuova alleanza militare nella quale entrarono USA, Cana-da, Gran Bretagna, Francia, Italia, Belgio, Olanda, Lus-semburgo, Norvegia, Danimar-ca, Islanda e Portogallo. Sul piano della politica interna il clima di scontro con l’Unione So-vietica dette ori-gine al fenomeno del Maccartismo, cioè la caccia alle streghe determi-nata dalla para-noia anticomuni-sta che riguardò molti aspetti del-la vita politica e culturale degli Stati Uniti. Il timore di un conflitto nucleare era arrivato alle stelle quando la Guerra Fredda si era trasformata in un conflitto aperto in Corea, dove dal 1950 al 1953 una coalizione occidentale affrontò le truppe nordcoreane, cinesi e sovietiche. Una guerra sanguinosa dove persero la vita 2 milioni di civili. La paura dell’O-locausto nucleare attraverserà tut-to il periodo della Guerra Fred-

MARZO 1947 - 70 anni fa iniziava la Guerra Fredda

The Truman show

Anno XII, n. 124

DEMOCRATICI E PROGRESSISTI - Il nuovo partito di D’Alema, Bersani e Rossi

Il vecchio che avanza

tegie cervellotiche che poi non gli riescono mai: la sintesi della sua visione politica la troviamo nel discorso di Luciano Violan-te del 2002 che incredibilmente dichiarò: “ci avete accusato di regime nonostante non avessi-mo fatto il conflitto d’interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le con-cessioni, avessimo aumentato durante il centrosinistra il fattu-rato di Mediaset di 25 volte”. Bersani, l’altro leader dei “de-mocratici e progressisti”, è l’autore del decreto che ha li-beralizzato un po’ tutto (com-preso il mercato dell’energia). Un episodio del 2007 ce lo siamo legati al dito: il piacen-tino con l’aria da salumiere pa-cioccone era allora il Ministro dello Sviluppo economico del governo Prodi. L’Ordine dei

Medici dell’Emilia Romagna aveva scritto una lettera aperta agli amministratori della regio-ne per chiedere il blocco della costruzione di nuovi inceneri-tori a causa della loro pe-ricolosità per la salute dei cittadini. Inceneritori in Emilia vuol dire Hera, cioè PD. Bersani va su tutte le furie e scrive che la nota dei medici emiliani “non appare suffragata da alcun fondamento tecnico-scien-tifico, esorbita totalmente dall’ambito delle attribu-zioni degli ordini profes-sionali” (certo, l’Ordine dei Medici non deve mica occupar-si di salute pubblica) e chiede ai Ministri della Salute e della Giustizia “l’adozione di tutte le misure ritenute necessarie, anche non solo disciplinari, nei

confronti dei responsabili”. Il terzo moschettiere Rossi, quello che ora straparla di rivo-luzione socialista, non ha né l’i-ronia di D’Alema né la pacatez-

za di Bersani. Lo sguardo torvo e il carattere iroso, il reuccio di Bientina in questi lunghi anni da amministratore si è caratte-rizzato per un estremo autorita-rismo e una totale insofferenza per le istanze di partecipazione

dei cittadini: il suo modello di sviluppo è quello del ce-mento e delle nocività e le sue polemiche le ha riservate so-prattutto contro gli “ambien-talisti di destra” e contro la Toscana da cartolina (quella che vorrebbe lui non sarebbe certo da ritrarre). Ricordiamo l’incredibile caso dell’autostrada Tirrenica a “pedaggio obbligato”, il tra-sferimento del funzionario regionale che ostacolava la cricca della ex presidente della Regione Umbria poi arrestata per vicende legate all’Alta Velocità, o lo scippo del referendum che migliaia di cittadini toscani avevano chiesto per bloccare la sua astrusa riforma della sanità toscana. Sanità nella quale si è distinto per il buco del-la ASL di Massa Carrara, la nomina della futura moglie (poi inquisita per abuso d’uf-ficio) a direttore generale dell’ASL di Siena e gli ospe-dali costruiti con il project fi-nancing per svendere pezzi di sanità ai privati. Rossi, il paladino della coe-renza politica, è quello che per garantirsi la ricandidatura

ha svenduto l’aeropor-to della sua città e nel 2014 ha cacciato dal-la giunta regionale gli esponenti della sinistra per far entrare la renzia-na Saccardi. E questi sarebbero l’al-ternativa di sinistra a Renzi? Ah a propo-sito, né i tre citati in questi articolo, né il

loro nemico mortale han-no mai lavorato a parte gli incarichi politici. Alla fine, più simili tra loro di quanto possa sembrare. Foto tratta da ilvaglio.it

CIRO BILARDI

Quando vedo il presidente dei gruppi parlamentari che

dice: si può andare a votare dato che la sentenza della Consulta sostanzialmente conferma l’im-pianto dell’Italicum… Direbbe il poeta: non so se il riso o la pietà prevale. Che cosa gli devi dire, è dif ficile anche aprire un dibattito. In questi casi arriva uno con un camice bianco, dice venga con me, stia tranquillo, non si agiti… Avevamo costrui-to la legge più maggioritaria del mondo, siamo passati al propor-zionale puro… È uguale! È sconcertante, io dico che noi abbiamo la responsabili-tà di correre in soccorso a un gruppo dirigente che sembra aver smarrito il senso della ragione. Beh, diciamo la veri-tà, sentire Massimo D’Alema che sbeffeggia Renzi e i suoi servi sciocchi è uno spasso. È divertente vedere il dittatorel-lo di turno messo alle corde, chiunque sia il suo avversa-rio. Poi ci pensi un attimo e ti chiedi: ma nel centro sinistra il nuovo che avanza sono D’A-lema, Bersani e Rossi? Intanto ci sarebbe da ricor-dare che l’ascesa di Renzi è stata favorita proprio dal forte malcontento tra i mili-tanti e gli elettori PD verso i vecchi dirigenti inamovibi-li del partito (erano i tempi in cui Nanni Moretti gridò “con questi dirigenti non vinceremo mai”). A un certo punto la vecchia guardia, dovendo dare una riverniciata, pensò di gio-carsi la carta Renzi, nella certezza che il boy scout de-mocristiano e tutto il suo cir-co sarebbero stati tranquil-lamente gestibili. Ma non è andata così… D’Alema non è nuovo a stra-

(segue da pagina 1) . . .nuovi lavori che do-vranno soddisfar l i , anche perché qualcuno dovrà pur comprar l i i prodott i fat t i dai robot . Pur trop-po la r i teniamo una vis io-ne t roppo semplic is t ica e ot t imist ica. Nel 2015 i l World Economic For um ha inter vis tato 371 dir i -gent i di aziende dove la-vorano in tut to ol t re 13 mil ioni di lavorator i in 15 divers i paesi . I l r i sul -tato di ta le indagine par-la da solo: t ra i l 2015 e i l 2020, c ioè ora, s i s tanno perdendo circa 5 mil ioni di post i di lavoro (dei 13) . L’accelerata a questa r ivo-luzione tecnologica è data del l ’ inte l l igenza ar t i f ic ia-le per cui “ol t re un ter -zo” di mansioni essenzial i non sarà t ra quel le at tual -mente r ichieste. L’ inte l l i -genza ar t i f ic ia le spazzerà

via numeri impor tant i anche in profess ioni che f ino ad oggi nessuno poteva pensa-

re: dal l ’anal is ta di borsa a l g ior nal is ta f ino al medico. Se nel 2000 gl i invest imen-

t i in robot erano di 7 ,4 mi-l iardi , nel 2025 saranno di 66,9 ( fonte BCG), 10 vol te di più. E anche qui sorge

una r i f less ione spon-tanea: dove t roverà i l proprio equi l ibr io e la propria giust iz ia sociale una società come la nostra dove i l lavoro è pr incipa-le fonte di reddito e dove tut te le garanzie social i vengono dai contr ibut i versat i e dal le tasse legate an-che al le persone f is i -che? Bel la domanda, la cui r i sposta non la t roveremo cer tamente a l congresso del Pd o di qualunque al -t ra forza pol i t ica che guarda i l proprio om-bel ico. I l nodo tanto

poi a l la f ine è sempre i l so-l i to: i mezzi di “produzio-ne” di cui abbiamo par lato

f inora, dal le App ai robot con tanto di inte l l igenza ar t i f ic ia le, sono pr ivat i e quindi par tor iranno un s i -s tema funzionale a l la va-lor izzazione dei capi ta l i e non cer to a l benessere del -le masse. Nel f rat tempo in a l t r i paesi europei (vedi social is t i f rancesi ) s i par la di robot tax, di reddito di c i t tadinanza e diminuzio-ne del l ’orar io di lavoro. Niente di r ivoluzionario e non è nemmeno det to che funzioni perché i capi ta l i f inanziar i t i fagoci tano o t i scansano ( in Francia ad esempio la legge di Hol-lande sul la permanenza del le mult inazional i sul ter r i tor io non è che ab-bia funzionato tanto) . Ma s i t rat ta pur sempre di un dibat t i to s icuramente più interessante del teatr ino pol i t ico a cui ass is t iamo ogni g ior no nei nostr i tg.

Robotax

NELLO GRADIRÀ

Otto di sera del 20 novem-bre 1945: in una cascina

di Villarbasse, nel Torinese, il proprietario sta cenando in compagnia di una domestica, mentre nella casa dell’affittua-rio si festeggia la nascita di una nipotina. Sono presenti in tutto otto adulti e un bambino di tre anni. Quattro banditi masche-rati fanno irruzione, vogliono soldi. A un certo punto uno di loro perde il fazzoletto che gli copre il volto e viene ricono-sciuto. Si chiama Pietro Lala, è un giovane siciliano che ha lavorato nella cascina tempo addietro, sa che il proprietario tiene in casa grosse somme di denaro ed è lui che ha organiz-zato il colpo coinvolgendo tre compaesani. A questo punto i banditi decidono di uccide-re tutti i testimoni. Li porta-no in cantina, li colpiscono a bastonate e li gettano tramor-titi in una cisterna. Arrivano i mariti di due domestiche, vengono eliminati anche loro. In tutto dieci vittime, solo il bambino viene risparmiato. Il bottino: 200mila lire e una dozzina di salami. I corpi vengono trovati otto

giorni dopo. La polizia alleata pensa a un delitto politico ad ope-ra di ex partigiani e vaneggia di complicità da parte dei comunisti infiltrati nelle forze dell’ordine. Poi, il mese successivo alla stra-ge, gli alleati restituiscono i poteri alle autorità italiane e i responsa-bili, che hanno lasciato numerose tracce, vengono individuati. Pie-tro Lala era stato ucciso in un re-golamento di conti, gli altri vengo-

no arrestati, processati e condan-nati a morte il 5 luglio del 1946. Nel novembre successivo la Cas-sazione conferma le condanne. La pena di morte era stata par-zialmente abolita dopo la cadu-ta del fascismo (25 luglio 1943), ma nell’immediato dopoguerra era rimasta in vi-gore per i reati di collaborazionismo. Un decreto legisla-tivo del 10 maggio 1945 inoltre aveva reintrodotto provvi-soriamente la pena capitale anche per i reati comuni più gravi quali seque-stro di persona, ban-da armata, rapina ed estorsione. Di lì a poco sarebbe entrata in vi-gore la nuova Costituzione, nella quale la pena di morte sarebbe sta-ta prevista solo per il codice pena-le militare di guerra [1] e già da un anno non vi sono esecuzioni per reati comuni, ma l’indignazione popolare per quel crimine feroce era stata troppo grande e il Presi-

dente della Repubblica De Nicola respinge la domanda di grazia. Il 4 marzo 1947, alle 7,45, i tre condannati vengono fucilati da un plotone di 36 poliziotti al poligono delle Basse di Stura a Torino. Questa non è l’ultima esecuzione nell’Italia del dopoguerra: il gior-

no successivo, 5 marzo, vengono fucilati a Forte Bastia (La Spezia) tre criminali fascisti, responsabili di torture, deportazioni e omicidi, che però erano stati condannati prima dei banditi di Villarbas-se, nel maggio 1946. Si trattava dell’ex questore repubblichino della città ligure, Emilio Battisti, dell’agente delle SS italiane Au-

relio Gallo e del maresciallo della Guardia nazionale re-pubblichina Achille Morelli. Gallo, soprattutto, era noto per il suo sadismo. Il 21 novem-bre 1944 era stato eseguito un rastrellamento di massa nella zona di Migliarina, molti dei fermati erano stati sottoposti a pesanti interrogatori e tortu-re e deportati a Mauthausen. Catturato a fine 1945, sulla sua testa pendeva una taglia di un milione di lire. Dopo il pro-cesso il popolo di Migliarina, per evitare che le lungaggini burocratiche potessero permet-tere ai tre criminali di arrivare sani e salvi all’amnistia, aveva ingaggiato una lunga battaglia perché fosse fatta giustizia.

Nota [1] La pena di morte verrà aboli-ta anche per il codice penale di guerra nel 1994. Una curiosità: nello Stato del Vaticano la pena di morte è rimasta in vigore molto più a lungo, formalmen-te fino al 2001 quand’è stata abolita da papa Wojtyla.

L’illustrazione è tratta dal libro a fumetti “Villarbasse - La cascina maledetta“ (BeccoGiallo).

Tra il 4 e il 5 marzo 1947 vengono fucilati

tre banditi e tre criminali fascisti

Quando c’era la pena di morte MARZO 1947 - 70 anni fa le ultime esecuzioni in Italia

Il presidente degli Stati Uniti

tracciò le linee di una nuova fase

dell’interventismo a stelle e strisce

Gli scissionisti sono più simili a Renzi

di quanto possano sembrare

Livorno Livorno Anno XII, n. 124 Marzo 20174 5

generati dallo “Spil-tutto”,-vedi ex Odeon e i suoi deri-vati, ha dovuto altresì velo-cemente disfarsi anche dei

suoi gioielli di fami-glia legati alla miti-ca reindustrializza-zione degli anni 80/90 (soprattutto aree e fab-bricati della Piana di Guasticce in territorio ex Cmf) senza però in buona parte riuscirci. Rimanevano infatti invendute troppe aree industriali nel Comu-ne di Collesalvetti (circa 100.000 mq di territorio) perchè la voragine montante di 37 milioni di euro, per lo più provocata dagli effetti nefasti di una gestione anomala, potesse essere ripiana-ta. E tra l’altro, il Co-mune di Collesalvetti aveva da poco scelto ,con una variante al Piano Regolatore Ur-bano, di realizzare in-sediamenti industriali all’interno dell’Inter-porto Vespucci, ren-dendo del tutto inu-tili all’investimento produttivo e dunque impossibili da vende-re. Ma le aree Spil che

che tutt’ora si collocano a sud dell’interporto impianto di Guasticce sono in un’area, pare, a rischio alluvionale. Come dire, oltre al default finanziario anche la beffa del rischio idrogeologico. Non c’è pace per Spil.Da parte nostra possiamo solo registrare come un altro strumento pubblico per il ri-lancio industriale della città sia stato utilizzato più come strumento per transazioni im-mobiliari e investimenti sba-gliati che come volano per la

programmazione industriale. Ora la città deve monitorare la situazione affinchè banche, creditori e industriali sen-za scrupoli possano mettere mano ad un patrimonio della città. Senza mai dimenticare che una parte di questo patri-monio era un tempo patrimo-nio pubblico ceduto a questa società. Insomma, Spil è roba nostra. Non dimentichiamo-celo.

Foto di Marco Filippelli

FRANCO REVELLI

Mentre con Aamps si è verificato il suicidio as-

sistito di un’azienda in house che traeva reddito esclusiva-mente dal contratto di servizio comunale (e dalle nostre tas-se), con la situazione di SPIL (Società Porto Industriale Li-vorno) siamo in presenza di una controllata che nel corso degli ultimi 15 anni ha scel-to di “moderare” la propria attività caratteristica (com-pravendita di terreni a scopo di reindustrializzazione) per “fare altre cose”, vale a dire dunque pescare il jolly del servizio universale. Un gio-co molto politico, quello del-lo “Spil-tutto” che non ha prodotto risultati di rilievo, ma anzi in più di un caso ha rappresentato il tradizionale carrozzone pubblico privo di una missione specifica.Il ruolo storico di SPIL. E’ opinione generale, infatti, che dopo la sciagurata opzio-ne dell’ex Odeon, di cui è sta-ta clamorosamente fallita la strategia di commercializza-zione e di rientro finanziario, Spil e la sua governance politi-ca avrebbero dovuto prendere atto della propria inutilità o comunque fare un importante esercizio di trasparenza e dun-que di autolimitazione ope-rativa. Ma potremmo dire lo stesso delle cosiddette parteci-pate della Società di Via Cala-fati (tra cui Pst-Bic, Compo-lab e Castimm),che avrebbero dovuto rappresentare parte integrante di una strategia di servizio alle imprese locali e multinazionali. In effetti poi queste strombazzate iniziative promozionali, direttamente finanziate in Spil dalle banche socie della controllante Co-mune di Livorno, o sono state messe in liquidazione volon-taria (Bic e Polo Tecnologi-co con dolorosi strascichi oc-cupazionali),o sono state ce-dute mentre le multinazionali dismettevano da Livorno (la fantomatica Compolab),op-pure sono state messe a fare quello che gli operatori specia-lizzati non avrebbero mai fat-to (cioè la gestione diretta, in perdita, del parcheggione mul-tipiano di Via Verdi) . Mentre accadevano questi fenomeni, probabilmente ignoti al suben-trante sindaco Nogarin e al suo staff,” Spil-tutto” riaffiorava qua e là in epoca cosimiana nella dinamica immaginaria delle crisi industriali. Spil in era Cosimi eral candidata già dal 2008 a rilevare le aree di-smesse di Trw e Delphi per 34 milioni di euro (cosa mai av-venuta) ed era pronta a soste-nere l’insediamento della Ex DeTomaso nello Stabilimento della ex Brovedani dopo avere sottoscritto un prestito obbli-gazionario convertibile (cre-dito poi svalutato) a favore di

un’azienda che non ha mai visto la luce nonostante le favorevoli e vergognose campagne di stam-pa.Il concordato SPIL. Non ci in-teressa qui evocare responsabili-tà personali (che pure esistono e andrebbero verificate non solo politicamente), quanto capire per sommi capi perchè siamo ar-rivati a questo punto. Con il con-cordato preventivo richiesto dal Cda di Spil il 19 gennaio scorso ed ammesso “con riserva” dalla Sezione Fallimentare del Tribu-nale Civile di Livorno è ,di nuo-

vo, in gioco la cosiddetta “con-tinuità aziendale” .Un percor-so, quello giudiziario. senz’altro più agevole di quello di Aamps (le risorse patrimoniali da smo-bilizzare sono ingenti e dunque non dovrebbero intervenire in-termediari in stile Lanzalo-ne a fare giochi di persuasione nel corso della procedura),ma paradossalmente con maggiori incognite rispetto al futuro. Al momento non sappiamo se il

socio controllante (Comune di Livorno), d’intesa con la Presi-dente del Cda, Barbara Ferro-ne ed il commissario giudiziale non scelgano una strada da per-correre che concili il sostegno pubblico ad una ipotesi di rein-dustrializzazione (al momento ancora legata all’ideogramma del polo tecnologico-logistico) con una corretta gestione del patrimonio disponibile (fatto per lo più di aree, capannoni ma anche in piccola parte di unità immobiliari locate alle condi-zioni dell’edilizia residenziale

popolare). Ma sappiamo che qui che indub-biamente si gioca la parti-ta più grossa perchè buona parte del va-lore di produ-zione messo a registro dall’A-zienda dipende dai ricavi delle vendite dei ter-reni e dei fab-bricati per lo più acquistati

nel corso del tempo nelle aree della Darsena Toscana e nella piana di Guasticce al prezzo di finanziamenti bancari sangui-nosi, ma in una fase economica espansiva o comunque indicata come tale.Il rapporto SPIL-banche. La strada del consolidamento del debito bancario “amico”, che gli amministratori hanno sem-pre rappresentato come un ele-mento di massima sicurezza per

l’azienda, si è alla fine rivela-to un nodo scorsoio perchè a loro volta le banche comparte-cipi hanno chiesto di rientrare per non ritrovarsi paralizzate dal credito deteriorato. Ed è per questo che mentre i valori della produzione interna preci-pitavano in tre anni da 5 a 2 mi-lioni di euro, gli oneri finanzia-ri non cessavano di galoppare facendo alzare l’asticella dei co-sti rispetto a ricavi praticamente azzerati. Spil da parte sua non ha avuto altra scelta, tra il 2012 e il 2015, che quella di (s)ven-dere aree in ambito p o r t u a l e a l l ’ A u t o -rità Por-tuale (per f a v o r i r e ad esem-pio l’inse-d i a m e n t o d e l l ’ i n -d o n e s i a -na Masol che si oc-cupa di biocarburanti) e di valorizzare con alcuni investimenti come il maxi Terminal di Paduletta, appetibilissimo anche da quegli operatori privati che intendono riposizionarsi sul territorio por-tuale interno, qualora dovesse concretizzarsi la ormai vecchia scommessa livornese del duo Rossi-Gallanti, cioè la Darsena Europa.SPIL e Collesalvetti. In questo quadro si è così silenziosamen-te consolidato il dramma di Spil ,che per potere risanare i buchi

Il capolinea di SpilPARTECIPATE - Alla fine anche la Società Porto Industriale Livorno ha dovuto cedere ed andare in concordato

Il fallimento di Spil non deve essere l’opportuni-tà di banche e imprendi-tori di appropriarsi di un

patrimonio pubblico

tenza TRW aperta e altri 400 posti di lavoro andati in fumo, da più parti si chiedeva un grande corteo cittadino sull’on-da di quello di Terni in cui tut-ta la città era scesa in piazza a fianco dei lavoratori. Solo dopo che in migliaia scesero in piazza autorganizzati con il Coordinamento Lavoratori Li-vornesi, i sindacati decisero di organizzare lo sciopero. E fu un capolavoro. Il palco finale in piazza del luogo Pio si può annoverare più fra i comizi elet-torali che fra le conclusioni di uno sciopero: sul palco infatti c’era un presentatore, France-sco Gazzetti, che sarebbe stato capolista del Pd alle elezioni regionali qualche mese dopo ed il governatore Rossi, che ri-candidato come presidente che, fra parecchi fischi, inveì prima contro Landini e poi contro

Nogarin che era a Roma alla trattativa TRW al Mise. C’è poco da aggiungere, Zannotti difficilmente potrà fare peggio.

Dopo 8 anni, Maurizio Strazzullo ha lasciato l’in-

carico di segretario provinciale della Cgil di Livorno. Al suo posto Fabrizio Zannotti prove-niente dalla categoria dei chi-mici. E’ bene dirlo chiaramente, con questo avvicendamento in molti si aspettano che il primo sindacato cittadino cambi rotta e provi quantomeno a fare il sin-dacato su un territorio disastrato dal punto di vista industriale e occupazionale e non l’organiz-zazione parallela al Pd con dele-ga al lavoro come spesso è stato. Sembra crudo dirlo così, ma se analizziamo 8 anni di segrete-ria Strazzullo ci rimane difficile pensare diversamente. In una recente intervista concessa a Il Tirreno, tracciando le tappe del suo mandato, Strazzullo ha fatto un quadro delle difficoltà incon-trate: dalla crisi iniziata nel 2008 con Lehman Brothers all’ele-zione a sindaco di Nogarin nel 2014, con cui ha sempre avuto pessimi rapporti. Una situazione soprattutto frutto del fatto che Strazzullo è sempre stato conti-guo al Pd tanto che, oltre ad es-sersi schierato alle primarie con tanto di tessera era anche dato come probabile assessore in caso di vittoria di Ruggeri come tradi-zione livornese vuole (gli ultimi due segretari-assessori sono stati Bruno Picchi nei mandati Co-simi e Piero Nocchi nell’ultimo mandato Kutufà). L’entusiasmo di Strazzullo. Ba-sta andare sul sito de Il Tirreno a cercare l’archivio dei suoi in-terventi per vedere che ci sono più pagine da quando l’8 giugno 2014 è cambiata amministra-

zione comunale che nei 10 anni precedenti. Ma scorrendo si può trovare anche l’entusiasmo ed il sostegno espresso dal segretario Cgil rispetto a capolavori come il rigassificatore, la discarica di Limoncino, il nuovo ospedale in project financing, il parcheg-gio Odeon e l’operazione Porta e Mare. Proprio in questa intricata operazione Strazzullo si è sempre schierato senza compromessi dal-la parte del progetto, con tutta la parte immobiliare e commerciale annessa, e dalla parte di Azimut. Sottolineiamo “senza compro-messi” perché in quell’operazione la strada per garantire la famosa “terza gamba” della cantieristi-ca ed un compromesso fra parte immobiliare, Azimut e riparatori andava quantomeno ricercata. Ma Strazzullo, che ai tempi che era segretario FIOM, questa strada l’ha sempre scansata. Così come

ha scansato e bollato di avventuri-smo ogni voce che si levava contro Rossignolo nell’affare Ex Delphi (mentre a Grugliasco lo rincorre-vano) o chi voleva denunciare so-prusi e opportunismo della MTM. Difesa dello status quo e guerra ai 5 stelle. Con l’arrivo dei 5 stelle il segretario come prima cosa ha al-zato gli scudi per difendere acriti-camente quelle società partecipate che in molte sue propaggini inter-ne erano diventati organi costosi e clientelari di un’amministrazione che non faceva altro che aumenta-re i costi di tariffe e servizi. Come soluzione per Asa, Aamps e Atl, poi, ha sempre sostenuto tutti i processi di fusione e privatizzazio-ne ideati ed imposti dalla Regione. Ma la linea della Cgil di braccio armato contro l’amministrazio-ne si è visto nella vicenda Aamps dove, con responsabilità anche del sindaco Nogarin che si è rimangia-

to improvvisamente ciò che aveva dichiarato più volte ai lavoratori, si è prestata ad essere strumento di lotta po-litica per far cadere la mag-gioranza. Naturalmente con il segretario a ribadire il suo SI all’ingresso nella Reti Ambiente spa privatizzata, SI all’inceneritore e NO al porta a porta senza mai met-tere in discussione un’azien-da che alla città costa uno sproposito e dove il sistema di smaltimento è ancorato a sistemi di clientelismo terri-toriale. E’ poi ormai famoso il NO netto che espresse ad

ogni possibilità che la Costa Con-cordia potesse essere smantellata a Livorno (anche se i bacini la-sciati mar-cire ave-vano già reso poco probabi le questa op-zione). Lo scio-pero elet-torale con R o s s i . Ma il ca-p o l avo r o politico di Strazzullo è avvenuto il 24 novembre 2014 quando i sindacati confederali de-cisero per uno sciopero cittadino. Da settimane in città, con la ver-

SINDACATO - Strazzullo lascia la segreteria Cgil dopo 8 anni di linea sovrapposta a quella del Pd

Cambio della guardia

JACK RR

Nel mondo dei loghi e delle etichette esiste l’arte dell’e-

strema sintesi che deve comuni-care in una frazione di secondo il suo messaggio. Ecco appunto la necessità di accordarsi alle regole del mercato e in questo caso nel settore turistico. Discu-tendo di turismo per Livorno città notiamo che il brand uti-lizzato è “Costa degli etruschi”. Sebbene nella provincia ci siano siti etruschi ben valorizzati, il più vicino è a 90 km circa ed è Baratti in quanto Vada origina-riamente forse piccolo nucleo etrusco è invece un porto roma-no del II sec. a.C. Livorno città quindi non ha niente di etrusco e l’ufficio turismo locale la cui insegna riporta il marchio Co-sta degli Etruschi crea solo con-fusione nel visitatore. Livorno che oggi parla di turismo deve iniziare dal chiedersi quale sia il messaggio più opportuno per mettersi in evidenza, dentro l’e-steso mondo dell’offerta turisti-ca che presenta un forte grado di concorrenza. Sicuramente

la sua origine rinascimentale ci spinge subito lontani dal brand di valore archeologico orientandoci obbligatoriamente verso la messa a punto di altri criteri in base al suo carattere distintivo che comunque possa creare attrazione mettendo in evidenza elementi raggiungibili e riscontrabili con semplicità e non disorientanti.

Come ho evidenziato nella pece-dente edizione, questo è il mio ter-zo articolo, Livorno ha un turismo ipotizzato balneare poiché ha nei mesi estivi il massimo dell’affuen-za turistica. Sarebbe importante approfondire le motivazioni che portano il turista a fermarsi a Li-vorno nell’arco di tutto l’anno ma soprattutto nei mesi estivi. Quel

che è certo è che le origini rinasci-mentali unite all’attrazione balnea-re non ci conducono affatto ad una Livorno etrusca. Allo stesso tem-po Livorno deve necessariamente conservare un legame con la sua provincia in cui l’origine etrusca è riscontrabile e che offre una rete turistica molto più specializzata, si pensi al litorale da Cecina fino a Piombino e le meravigliose iso-le dell’arcipelago. Quindi la di-versificazione potrebbe dare degli spunti per definire meglio lo sforzo da compiere nella calibratura del brand. Esso si deve collegare ad una poli-tica di valorizzazione degli itinera-ri turistici in città e di conseguenza di mantenimento, miglioramento e riesumazione di pezzi di patri-monio dimenticato o inutilizzato. Allo stesso modo è da considerare la cornice naturale delle colline e delle funzioni che esso puo’ svolge-re nel completamento di un quadro di offerta turistica e di benessere per chi vive in città. Quando trat-

tiamo di turismo il riferimento primo a cui dobbiamo porre attenzione è quanto il residente stia bene nel suo luogo di vita. È impensabile tentare degli sfor-zi di attrazione turistica se già il residente ha come suo primo de-siderio quello di cambiare luogo di vita. Su questo Livorno data la crisi economica in corso sta rischiando un calo demografico ancora non censito ma preoc-cupante. Quindi una profonda analisi sui livelli di benessere e sui motivi che contribuiscono a renderlo apprezzabile è un passaggio fondamentale prima di lanciare l’offerta turistica di punta attraverso l’uso di uno specifico brand.Rimaniamo pero’ a cercare di capire perché il turista soggiorni a Livorno secondo quei parame-tri statisticamene rilevati dei 2,5 giorni come permanenza media nei mesi estivi con punta mas-sima nel mese di Agosto. Chi viene dove va e cosa fa in quei due giorni e mezzo? Da questo le informazioni sulla calibratura del brand saranno ancora più precise.

Livorno e il suo brand L’operazione Odeon e

la fallita operazione Delphi-Rossignolo

hanno rappresentato l’ultimo fallimento

di Spil

ECONOMIA CITTADINA - Prosegue la nostra inchiesta sul turismo nella città labronica

Se ne va un segretario che sarà ricordato per sostegno a opere falli-mentari e nocive e per

una linea legata a quella del Partito Democratico

Livorno Livorno Anno XII, n. 124 Marzo 20174 5

generati dallo “Spil-tutto”,-vedi ex Odeon e i suoi deri-vati, ha dovuto altresì velo-cemente disfarsi anche dei

suoi gioielli di fami-glia legati alla miti-ca reindustrializza-zione degli anni 80/90 (soprattutto aree e fab-bricati della Piana di Guasticce in territorio ex Cmf) senza però in buona parte riuscirci. Rimanevano infatti invendute troppe aree industriali nel Comu-ne di Collesalvetti (circa 100.000 mq di territorio) perchè la voragine montante di 37 milioni di euro, per lo più provocata dagli effetti nefasti di una gestione anomala, potesse essere ripiana-ta. E tra l’altro, il Co-mune di Collesalvetti aveva da poco scelto ,con una variante al Piano Regolatore Ur-bano, di realizzare in-sediamenti industriali all’interno dell’Inter-porto Vespucci, ren-dendo del tutto inu-tili all’investimento produttivo e dunque impossibili da vende-re. Ma le aree Spil che

che tutt’ora si collocano a sud dell’interporto impianto di Guasticce sono in un’area, pare, a rischio alluvionale. Come dire, oltre al default finanziario anche la beffa del rischio idrogeologico. Non c’è pace per Spil.Da parte nostra possiamo solo registrare come un altro strumento pubblico per il ri-lancio industriale della città sia stato utilizzato più come strumento per transazioni im-mobiliari e investimenti sba-gliati che come volano per la

programmazione industriale. Ora la città deve monitorare la situazione affinchè banche, creditori e industriali sen-za scrupoli possano mettere mano ad un patrimonio della città. Senza mai dimenticare che una parte di questo patri-monio era un tempo patrimo-nio pubblico ceduto a questa società. Insomma, Spil è roba nostra. Non dimentichiamo-celo.

Foto di Marco Filippelli

FRANCO REVELLI

Mentre con Aamps si è verificato il suicidio as-

sistito di un’azienda in house che traeva reddito esclusiva-mente dal contratto di servizio comunale (e dalle nostre tas-se), con la situazione di SPIL (Società Porto Industriale Li-vorno) siamo in presenza di una controllata che nel corso degli ultimi 15 anni ha scel-to di “moderare” la propria attività caratteristica (com-pravendita di terreni a scopo di reindustrializzazione) per “fare altre cose”, vale a dire dunque pescare il jolly del servizio universale. Un gio-co molto politico, quello del-lo “Spil-tutto” che non ha prodotto risultati di rilievo, ma anzi in più di un caso ha rappresentato il tradizionale carrozzone pubblico privo di una missione specifica.Il ruolo storico di SPIL. E’ opinione generale, infatti, che dopo la sciagurata opzio-ne dell’ex Odeon, di cui è sta-ta clamorosamente fallita la strategia di commercializza-zione e di rientro finanziario, Spil e la sua governance politi-ca avrebbero dovuto prendere atto della propria inutilità o comunque fare un importante esercizio di trasparenza e dun-que di autolimitazione ope-rativa. Ma potremmo dire lo stesso delle cosiddette parteci-pate della Società di Via Cala-fati (tra cui Pst-Bic, Compo-lab e Castimm),che avrebbero dovuto rappresentare parte integrante di una strategia di servizio alle imprese locali e multinazionali. In effetti poi queste strombazzate iniziative promozionali, direttamente finanziate in Spil dalle banche socie della controllante Co-mune di Livorno, o sono state messe in liquidazione volon-taria (Bic e Polo Tecnologi-co con dolorosi strascichi oc-cupazionali),o sono state ce-dute mentre le multinazionali dismettevano da Livorno (la fantomatica Compolab),op-pure sono state messe a fare quello che gli operatori specia-lizzati non avrebbero mai fat-to (cioè la gestione diretta, in perdita, del parcheggione mul-tipiano di Via Verdi) . Mentre accadevano questi fenomeni, probabilmente ignoti al suben-trante sindaco Nogarin e al suo staff,” Spil-tutto” riaffiorava qua e là in epoca cosimiana nella dinamica immaginaria delle crisi industriali. Spil in era Cosimi eral candidata già dal 2008 a rilevare le aree di-smesse di Trw e Delphi per 34 milioni di euro (cosa mai av-venuta) ed era pronta a soste-nere l’insediamento della Ex DeTomaso nello Stabilimento della ex Brovedani dopo avere sottoscritto un prestito obbli-gazionario convertibile (cre-dito poi svalutato) a favore di

un’azienda che non ha mai visto la luce nonostante le favorevoli e vergognose campagne di stam-pa.Il concordato SPIL. Non ci in-teressa qui evocare responsabili-tà personali (che pure esistono e andrebbero verificate non solo politicamente), quanto capire per sommi capi perchè siamo ar-rivati a questo punto. Con il con-cordato preventivo richiesto dal Cda di Spil il 19 gennaio scorso ed ammesso “con riserva” dalla Sezione Fallimentare del Tribu-nale Civile di Livorno è ,di nuo-

vo, in gioco la cosiddetta “con-tinuità aziendale” .Un percor-so, quello giudiziario. senz’altro più agevole di quello di Aamps (le risorse patrimoniali da smo-bilizzare sono ingenti e dunque non dovrebbero intervenire in-termediari in stile Lanzalo-ne a fare giochi di persuasione nel corso della procedura),ma paradossalmente con maggiori incognite rispetto al futuro. Al momento non sappiamo se il

socio controllante (Comune di Livorno), d’intesa con la Presi-dente del Cda, Barbara Ferro-ne ed il commissario giudiziale non scelgano una strada da per-correre che concili il sostegno pubblico ad una ipotesi di rein-dustrializzazione (al momento ancora legata all’ideogramma del polo tecnologico-logistico) con una corretta gestione del patrimonio disponibile (fatto per lo più di aree, capannoni ma anche in piccola parte di unità immobiliari locate alle condi-zioni dell’edilizia residenziale

popolare). Ma sappiamo che qui che indub-biamente si gioca la parti-ta più grossa perchè buona parte del va-lore di produ-zione messo a registro dall’A-zienda dipende dai ricavi delle vendite dei ter-reni e dei fab-bricati per lo più acquistati

nel corso del tempo nelle aree della Darsena Toscana e nella piana di Guasticce al prezzo di finanziamenti bancari sangui-nosi, ma in una fase economica espansiva o comunque indicata come tale.Il rapporto SPIL-banche. La strada del consolidamento del debito bancario “amico”, che gli amministratori hanno sem-pre rappresentato come un ele-mento di massima sicurezza per

l’azienda, si è alla fine rivela-to un nodo scorsoio perchè a loro volta le banche comparte-cipi hanno chiesto di rientrare per non ritrovarsi paralizzate dal credito deteriorato. Ed è per questo che mentre i valori della produzione interna preci-pitavano in tre anni da 5 a 2 mi-lioni di euro, gli oneri finanzia-ri non cessavano di galoppare facendo alzare l’asticella dei co-sti rispetto a ricavi praticamente azzerati. Spil da parte sua non ha avuto altra scelta, tra il 2012 e il 2015, che quella di (s)ven-dere aree in ambito p o r t u a l e a l l ’ A u t o -rità Por-tuale (per f a v o r i r e ad esem-pio l’inse-d i a m e n t o d e l l ’ i n -d o n e s i a -na Masol che si oc-cupa di biocarburanti) e di valorizzare con alcuni investimenti come il maxi Terminal di Paduletta, appetibilissimo anche da quegli operatori privati che intendono riposizionarsi sul territorio por-tuale interno, qualora dovesse concretizzarsi la ormai vecchia scommessa livornese del duo Rossi-Gallanti, cioè la Darsena Europa.SPIL e Collesalvetti. In questo quadro si è così silenziosamen-te consolidato il dramma di Spil ,che per potere risanare i buchi

Il capolinea di SpilPARTECIPATE - Alla fine anche la Società Porto Industriale Livorno ha dovuto cedere ed andare in concordato

Il fallimento di Spil non deve essere l’opportuni-tà di banche e imprendi-tori di appropriarsi di un

patrimonio pubblico

tenza TRW aperta e altri 400 posti di lavoro andati in fumo, da più parti si chiedeva un grande corteo cittadino sull’on-da di quello di Terni in cui tut-ta la città era scesa in piazza a fianco dei lavoratori. Solo dopo che in migliaia scesero in piazza autorganizzati con il Coordinamento Lavoratori Li-vornesi, i sindacati decisero di organizzare lo sciopero. E fu un capolavoro. Il palco finale in piazza del luogo Pio si può annoverare più fra i comizi elet-torali che fra le conclusioni di uno sciopero: sul palco infatti c’era un presentatore, France-sco Gazzetti, che sarebbe stato capolista del Pd alle elezioni regionali qualche mese dopo ed il governatore Rossi, che ri-candidato come presidente che, fra parecchi fischi, inveì prima contro Landini e poi contro

Nogarin che era a Roma alla trattativa TRW al Mise. C’è poco da aggiungere, Zannotti difficilmente potrà fare peggio.

Dopo 8 anni, Maurizio Strazzullo ha lasciato l’in-

carico di segretario provinciale della Cgil di Livorno. Al suo posto Fabrizio Zannotti prove-niente dalla categoria dei chi-mici. E’ bene dirlo chiaramente, con questo avvicendamento in molti si aspettano che il primo sindacato cittadino cambi rotta e provi quantomeno a fare il sin-dacato su un territorio disastrato dal punto di vista industriale e occupazionale e non l’organiz-zazione parallela al Pd con dele-ga al lavoro come spesso è stato. Sembra crudo dirlo così, ma se analizziamo 8 anni di segrete-ria Strazzullo ci rimane difficile pensare diversamente. In una recente intervista concessa a Il Tirreno, tracciando le tappe del suo mandato, Strazzullo ha fatto un quadro delle difficoltà incon-trate: dalla crisi iniziata nel 2008 con Lehman Brothers all’ele-zione a sindaco di Nogarin nel 2014, con cui ha sempre avuto pessimi rapporti. Una situazione soprattutto frutto del fatto che Strazzullo è sempre stato conti-guo al Pd tanto che, oltre ad es-sersi schierato alle primarie con tanto di tessera era anche dato come probabile assessore in caso di vittoria di Ruggeri come tradi-zione livornese vuole (gli ultimi due segretari-assessori sono stati Bruno Picchi nei mandati Co-simi e Piero Nocchi nell’ultimo mandato Kutufà). L’entusiasmo di Strazzullo. Ba-sta andare sul sito de Il Tirreno a cercare l’archivio dei suoi in-terventi per vedere che ci sono più pagine da quando l’8 giugno 2014 è cambiata amministra-

zione comunale che nei 10 anni precedenti. Ma scorrendo si può trovare anche l’entusiasmo ed il sostegno espresso dal segretario Cgil rispetto a capolavori come il rigassificatore, la discarica di Limoncino, il nuovo ospedale in project financing, il parcheg-gio Odeon e l’operazione Porta e Mare. Proprio in questa intricata operazione Strazzullo si è sempre schierato senza compromessi dal-la parte del progetto, con tutta la parte immobiliare e commerciale annessa, e dalla parte di Azimut. Sottolineiamo “senza compro-messi” perché in quell’operazione la strada per garantire la famosa “terza gamba” della cantieristi-ca ed un compromesso fra parte immobiliare, Azimut e riparatori andava quantomeno ricercata. Ma Strazzullo, che ai tempi che era segretario FIOM, questa strada l’ha sempre scansata. Così come

ha scansato e bollato di avventuri-smo ogni voce che si levava contro Rossignolo nell’affare Ex Delphi (mentre a Grugliasco lo rincorre-vano) o chi voleva denunciare so-prusi e opportunismo della MTM. Difesa dello status quo e guerra ai 5 stelle. Con l’arrivo dei 5 stelle il segretario come prima cosa ha al-zato gli scudi per difendere acriti-camente quelle società partecipate che in molte sue propaggini inter-ne erano diventati organi costosi e clientelari di un’amministrazione che non faceva altro che aumenta-re i costi di tariffe e servizi. Come soluzione per Asa, Aamps e Atl, poi, ha sempre sostenuto tutti i processi di fusione e privatizzazio-ne ideati ed imposti dalla Regione. Ma la linea della Cgil di braccio armato contro l’amministrazio-ne si è visto nella vicenda Aamps dove, con responsabilità anche del sindaco Nogarin che si è rimangia-

to improvvisamente ciò che aveva dichiarato più volte ai lavoratori, si è prestata ad essere strumento di lotta po-litica per far cadere la mag-gioranza. Naturalmente con il segretario a ribadire il suo SI all’ingresso nella Reti Ambiente spa privatizzata, SI all’inceneritore e NO al porta a porta senza mai met-tere in discussione un’azien-da che alla città costa uno sproposito e dove il sistema di smaltimento è ancorato a sistemi di clientelismo terri-toriale. E’ poi ormai famoso il NO netto che espresse ad

ogni possibilità che la Costa Con-cordia potesse essere smantellata a Livorno (anche se i bacini la-sciati mar-cire ave-vano già reso poco probabi le questa op-zione). Lo scio-pero elet-torale con R o s s i . Ma il ca-p o l avo r o politico di Strazzullo è avvenuto il 24 novembre 2014 quando i sindacati confederali de-cisero per uno sciopero cittadino. Da settimane in città, con la ver-

SINDACATO - Strazzullo lascia la segreteria Cgil dopo 8 anni di linea sovrapposta a quella del Pd

Cambio della guardia

JACK RR

Nel mondo dei loghi e delle etichette esiste l’arte dell’e-

strema sintesi che deve comuni-care in una frazione di secondo il suo messaggio. Ecco appunto la necessità di accordarsi alle regole del mercato e in questo caso nel settore turistico. Discu-tendo di turismo per Livorno città notiamo che il brand uti-lizzato è “Costa degli etruschi”. Sebbene nella provincia ci siano siti etruschi ben valorizzati, il più vicino è a 90 km circa ed è Baratti in quanto Vada origina-riamente forse piccolo nucleo etrusco è invece un porto roma-no del II sec. a.C. Livorno città quindi non ha niente di etrusco e l’ufficio turismo locale la cui insegna riporta il marchio Co-sta degli Etruschi crea solo con-fusione nel visitatore. Livorno che oggi parla di turismo deve iniziare dal chiedersi quale sia il messaggio più opportuno per mettersi in evidenza, dentro l’e-steso mondo dell’offerta turisti-ca che presenta un forte grado di concorrenza. Sicuramente

la sua origine rinascimentale ci spinge subito lontani dal brand di valore archeologico orientandoci obbligatoriamente verso la messa a punto di altri criteri in base al suo carattere distintivo che comunque possa creare attrazione mettendo in evidenza elementi raggiungibili e riscontrabili con semplicità e non disorientanti.

Come ho evidenziato nella pece-dente edizione, questo è il mio ter-zo articolo, Livorno ha un turismo ipotizzato balneare poiché ha nei mesi estivi il massimo dell’affuen-za turistica. Sarebbe importante approfondire le motivazioni che portano il turista a fermarsi a Li-vorno nell’arco di tutto l’anno ma soprattutto nei mesi estivi. Quel

che è certo è che le origini rinasci-mentali unite all’attrazione balnea-re non ci conducono affatto ad una Livorno etrusca. Allo stesso tem-po Livorno deve necessariamente conservare un legame con la sua provincia in cui l’origine etrusca è riscontrabile e che offre una rete turistica molto più specializzata, si pensi al litorale da Cecina fino a Piombino e le meravigliose iso-le dell’arcipelago. Quindi la di-versificazione potrebbe dare degli spunti per definire meglio lo sforzo da compiere nella calibratura del brand. Esso si deve collegare ad una poli-tica di valorizzazione degli itinera-ri turistici in città e di conseguenza di mantenimento, miglioramento e riesumazione di pezzi di patri-monio dimenticato o inutilizzato. Allo stesso modo è da considerare la cornice naturale delle colline e delle funzioni che esso puo’ svolge-re nel completamento di un quadro di offerta turistica e di benessere per chi vive in città. Quando trat-

tiamo di turismo il riferimento primo a cui dobbiamo porre attenzione è quanto il residente stia bene nel suo luogo di vita. È impensabile tentare degli sfor-zi di attrazione turistica se già il residente ha come suo primo de-siderio quello di cambiare luogo di vita. Su questo Livorno data la crisi economica in corso sta rischiando un calo demografico ancora non censito ma preoc-cupante. Quindi una profonda analisi sui livelli di benessere e sui motivi che contribuiscono a renderlo apprezzabile è un passaggio fondamentale prima di lanciare l’offerta turistica di punta attraverso l’uso di uno specifico brand.Rimaniamo pero’ a cercare di capire perché il turista soggiorni a Livorno secondo quei parame-tri statisticamene rilevati dei 2,5 giorni come permanenza media nei mesi estivi con punta mas-sima nel mese di Agosto. Chi viene dove va e cosa fa in quei due giorni e mezzo? Da questo le informazioni sulla calibratura del brand saranno ancora più precise.

Livorno e il suo brand L’operazione Odeon e

la fallita operazione Delphi-Rossignolo

hanno rappresentato l’ultimo fallimento

di Spil

ECONOMIA CITTADINA - Prosegue la nostra inchiesta sul turismo nella città labronica

Se ne va un segretario che sarà ricordato per sostegno a opere falli-mentari e nocive e per

una linea legata a quella del Partito Democratico

per non dimenticare6 3interniMarzo 2017

da, ma il confronto tra USA e URSS troverà i suoi principali terreni di battaglia nel sud del mondo, che stava vivendo l’e-poca della decolonizzazione e dovrà subire l’affermazione di un neocolonialismo altret-tanto oppressivo. Da una parte i movimenti po-polari di liberazione, dall’altra le élite appoggiate dall’Occi-dente: saranno decine le “guer-re per procura” in Asia, Africa e America Latina. A confrontarsi due sistemi economici e politici ma soprat-tutto due visioni del mondo inconciliabili, nessuna delle quali in grado di rispondere alle aspirazioni dei popoli del mondo.

Nota (1) Il termine era stato utilizzato per la prima volta nel 1945 da George Orwell che prevedeva “uno stallo nucleare tra due o tre mostruosi super-stati, ognuno in possesso di un’arma tramite cui milioni di persone possono essere spazzate via in pochi secondi”.

NELLO GRADIRÀ

Il 12 marzo del 1947 il pre-sidente statunitense Harry

Truman si presentò alle came-re riunite in seduta comune. Pronunciò un discorso di 21 minuti nel quale espose quel-la che passò alla storia come “Dottrina Truman”. Inizió descrivendo la situazio-ne in Grecia, dove era in corso una sanguinosa guerra civile tra i partigiani comunisti e la monarchia filooccidentale. La Grecia, disse Truman, è un paese povero e laborioso usci-to distrutto dall’occupazione nazifascista. Di questo ha ap-profittato una minoranza mi-litante per creare il caos, e per questo la Grecia non è in grado di provvedere alla ricostruzio-ne. Anche la Turchia, che pure non ha subito i disastri della guerra, aggiunse, ci chiede aiu-to economico per mantenere la propria integrità territoriale. Abbiamo combattuto Germa-nia e Giappone, ricordò il presi-dente, per evitare il pericolo del totalitarismo ma non raggiun-geremo mai i nostri obiettivi se non aiutiamo i popoli liberi a rafforzare le proprie istituzioni e le loro economie. Concluse proponendo lo stanziamento di 400 milioni di dollari per i due paesi mediterranei. Anche se Truman non citò di-rettamente l’Unione Sovietica, né toccò temi di carattere mili-tare, per molti studiosi questo discorso segna l’inizio della Guerra Fredda (1). Perché fu in quell’occasione che furono tracciate le linee di una nuova fase dell’interven-tismo statunitense in politica

estera, caratterizzato dal conte-nimento del blocco sovietico. Un interventismo non solo militare ma soprattutto economico. La situazione dell’Europa nell’immediato dopoguerra era drammatica e a Washington si temeva che anche nei Paesi della loro area di influenza le sinistre, rafforzate dalla vittoriosa Resi-stenza al nazifascismo, potes-sero arrivare a governare. Immediatamente dopo il discor-so di Truman, gli Stati Uniti imposero ai governi dell’Europa occidentale di porre fine all’e-sperienza dell’Unità Nazionale: in Italia e in Francia tra l’aprile

e il giugno del 1947 le sinistre furono cacciate dal governo. E proprio in questa fase iniziò la strategia della tensione con la strage di Portella della Ginestra. Il 31 maggio De Gasperi formò un governo con socialdemocrati-ci, liberali e repubblicani. Il 5 giugno 1947 fu annunciato il piano Marshall. Aiuti econo-mici per la ricostruzione, ma forse ancor di più una battaglia culturale per diffondere i valori dell’american way of life. Nel 1947 gli Stati Uniti erano an-cora l’unica potenza nucleare e questo gli permetteva una politi-ca estera particolarmente aggres-

siva. Ma nel settembre del 1949 il peso delle due grandi potenze si riporterà in equilibrio con il primo esperimento nucleare sovietico. Il 4 aprile 1949 a Washington fu sottoscritto il cosiddetto pat-to Atlantico che dava vita a una nuova alleanza militare nella quale entrarono USA, Cana-da, Gran Bretagna, Francia, Italia, Belgio, Olanda, Lus-semburgo, Norvegia, Danimar-ca, Islanda e Portogallo. Sul piano della politica interna il clima di scontro con l’Unione So-vietica dette ori-gine al fenomeno del Maccartismo, cioè la caccia alle streghe determi-nata dalla para-noia anticomuni-sta che riguardò molti aspetti del-la vita politica e culturale degli Stati Uniti. Il timore di un conflitto nucleare era arrivato alle stelle quando la Guerra Fredda si era trasformata in un conflitto aperto in Corea, dove dal 1950 al 1953 una coalizione occidentale affrontò le truppe nordcoreane, cinesi e sovietiche. Una guerra sanguinosa dove persero la vita 2 milioni di civili. La paura dell’O-locausto nucleare attraverserà tut-to il periodo della Guerra Fred-

MARZO 1947 - 70 anni fa iniziava la Guerra Fredda

The Truman show

Anno XII, n. 124

DEMOCRATICI E PROGRESSISTI - Il nuovo partito di D’Alema, Bersani e Rossi

Il vecchio che avanza

tegie cervellotiche che poi non gli riescono mai: la sintesi della sua visione politica la troviamo nel discorso di Luciano Violan-te del 2002 che incredibilmente dichiarò: “ci avete accusato di regime nonostante non avessi-mo fatto il conflitto d’interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le con-cessioni, avessimo aumentato durante il centrosinistra il fattu-rato di Mediaset di 25 volte”. Bersani, l’altro leader dei “de-mocratici e progressisti”, è l’autore del decreto che ha li-beralizzato un po’ tutto (com-preso il mercato dell’energia). Un episodio del 2007 ce lo siamo legati al dito: il piacen-tino con l’aria da salumiere pa-cioccone era allora il Ministro dello Sviluppo economico del governo Prodi. L’Ordine dei

Medici dell’Emilia Romagna aveva scritto una lettera aperta agli amministratori della regio-ne per chiedere il blocco della costruzione di nuovi inceneri-tori a causa della loro pe-ricolosità per la salute dei cittadini. Inceneritori in Emilia vuol dire Hera, cioè PD. Bersani va su tutte le furie e scrive che la nota dei medici emiliani “non appare suffragata da alcun fondamento tecnico-scien-tifico, esorbita totalmente dall’ambito delle attribu-zioni degli ordini profes-sionali” (certo, l’Ordine dei Medici non deve mica occupar-si di salute pubblica) e chiede ai Ministri della Salute e della Giustizia “l’adozione di tutte le misure ritenute necessarie, anche non solo disciplinari, nei

confronti dei responsabili”. Il terzo moschettiere Rossi, quello che ora straparla di rivo-luzione socialista, non ha né l’i-ronia di D’Alema né la pacatez-

za di Bersani. Lo sguardo torvo e il carattere iroso, il reuccio di Bientina in questi lunghi anni da amministratore si è caratte-rizzato per un estremo autorita-rismo e una totale insofferenza per le istanze di partecipazione

dei cittadini: il suo modello di sviluppo è quello del ce-mento e delle nocività e le sue polemiche le ha riservate so-prattutto contro gli “ambien-talisti di destra” e contro la Toscana da cartolina (quella che vorrebbe lui non sarebbe certo da ritrarre). Ricordiamo l’incredibile caso dell’autostrada Tirrenica a “pedaggio obbligato”, il tra-sferimento del funzionario regionale che ostacolava la cricca della ex presidente della Regione Umbria poi arrestata per vicende legate all’Alta Velocità, o lo scippo del referendum che migliaia di cittadini toscani avevano chiesto per bloccare la sua astrusa riforma della sanità toscana. Sanità nella quale si è distinto per il buco del-la ASL di Massa Carrara, la nomina della futura moglie (poi inquisita per abuso d’uf-ficio) a direttore generale dell’ASL di Siena e gli ospe-dali costruiti con il project fi-nancing per svendere pezzi di sanità ai privati. Rossi, il paladino della coe-renza politica, è quello che per garantirsi la ricandidatura

ha svenduto l’aeropor-to della sua città e nel 2014 ha cacciato dal-la giunta regionale gli esponenti della sinistra per far entrare la renzia-na Saccardi. E questi sarebbero l’al-ternativa di sinistra a Renzi? Ah a propo-sito, né i tre citati in questi articolo, né il

loro nemico mortale han-no mai lavorato a parte gli incarichi politici. Alla fine, più simili tra loro di quanto possa sembrare. Foto tratta da ilvaglio.it

CIRO BILARDI

Quando vedo il presidente dei gruppi parlamentari che

dice: si può andare a votare dato che la sentenza della Consulta sostanzialmente conferma l’im-pianto dell’Italicum… Direbbe il poeta: non so se il riso o la pietà prevale. Che cosa gli devi dire, è dif ficile anche aprire un dibattito. In questi casi arriva uno con un camice bianco, dice venga con me, stia tranquillo, non si agiti… Avevamo costrui-to la legge più maggioritaria del mondo, siamo passati al propor-zionale puro… È uguale! È sconcertante, io dico che noi abbiamo la responsabili-tà di correre in soccorso a un gruppo dirigente che sembra aver smarrito il senso della ragione. Beh, diciamo la veri-tà, sentire Massimo D’Alema che sbeffeggia Renzi e i suoi servi sciocchi è uno spasso. È divertente vedere il dittatorel-lo di turno messo alle corde, chiunque sia il suo avversa-rio. Poi ci pensi un attimo e ti chiedi: ma nel centro sinistra il nuovo che avanza sono D’A-lema, Bersani e Rossi? Intanto ci sarebbe da ricor-dare che l’ascesa di Renzi è stata favorita proprio dal forte malcontento tra i mili-tanti e gli elettori PD verso i vecchi dirigenti inamovibi-li del partito (erano i tempi in cui Nanni Moretti gridò “con questi dirigenti non vinceremo mai”). A un certo punto la vecchia guardia, dovendo dare una riverniciata, pensò di gio-carsi la carta Renzi, nella certezza che il boy scout de-mocristiano e tutto il suo cir-co sarebbero stati tranquil-lamente gestibili. Ma non è andata così… D’Alema non è nuovo a stra-

(segue da pagina 1) . . .nuovi lavori che do-vranno soddisfar l i , anche perché qualcuno dovrà pur comprar l i i prodott i fat t i dai robot . Pur trop-po la r i teniamo una vis io-ne t roppo semplic is t ica e ot t imist ica. Nel 2015 i l World Economic For um ha inter vis tato 371 dir i -gent i di aziende dove la-vorano in tut to ol t re 13 mil ioni di lavorator i in 15 divers i paesi . I l r i sul -tato di ta le indagine par-la da solo: t ra i l 2015 e i l 2020, c ioè ora, s i s tanno perdendo circa 5 mil ioni di post i di lavoro (dei 13) . L’accelerata a questa r ivo-luzione tecnologica è data del l ’ inte l l igenza ar t i f ic ia-le per cui “ol t re un ter -zo” di mansioni essenzial i non sarà t ra quel le at tual -mente r ichieste. L’ inte l l i -genza ar t i f ic ia le spazzerà

via numeri impor tant i anche in profess ioni che f ino ad oggi nessuno poteva pensa-

re: dal l ’anal is ta di borsa a l g ior nal is ta f ino al medico. Se nel 2000 gl i invest imen-

t i in robot erano di 7 ,4 mi-l iardi , nel 2025 saranno di 66,9 ( fonte BCG), 10 vol te di più. E anche qui sorge

una r i f less ione spon-tanea: dove t roverà i l proprio equi l ibr io e la propria giust iz ia sociale una società come la nostra dove i l lavoro è pr incipa-le fonte di reddito e dove tut te le garanzie social i vengono dai contr ibut i versat i e dal le tasse legate an-che al le persone f is i -che? Bel la domanda, la cui r i sposta non la t roveremo cer tamente a l congresso del Pd o di qualunque al -t ra forza pol i t ica che guarda i l proprio om-bel ico. I l nodo tanto

poi a l la f ine è sempre i l so-l i to: i mezzi di “produzio-ne” di cui abbiamo par lato

f inora, dal le App ai robot con tanto di inte l l igenza ar t i f ic ia le, sono pr ivat i e quindi par tor iranno un s i -s tema funzionale a l la va-lor izzazione dei capi ta l i e non cer to a l benessere del -le masse. Nel f rat tempo in a l t r i paesi europei (vedi social is t i f rancesi ) s i par la di robot tax, di reddito di c i t tadinanza e diminuzio-ne del l ’orar io di lavoro. Niente di r ivoluzionario e non è nemmeno det to che funzioni perché i capi ta l i f inanziar i t i fagoci tano o t i scansano ( in Francia ad esempio la legge di Hol-lande sul la permanenza del le mult inazional i sul ter r i tor io non è che ab-bia funzionato tanto) . Ma s i t rat ta pur sempre di un dibat t i to s icuramente più interessante del teatr ino pol i t ico a cui ass is t iamo ogni g ior no nei nostr i tg.

Robotax

NELLO GRADIRÀ

Otto di sera del 20 novem-bre 1945: in una cascina

di Villarbasse, nel Torinese, il proprietario sta cenando in compagnia di una domestica, mentre nella casa dell’affittua-rio si festeggia la nascita di una nipotina. Sono presenti in tutto otto adulti e un bambino di tre anni. Quattro banditi masche-rati fanno irruzione, vogliono soldi. A un certo punto uno di loro perde il fazzoletto che gli copre il volto e viene ricono-sciuto. Si chiama Pietro Lala, è un giovane siciliano che ha lavorato nella cascina tempo addietro, sa che il proprietario tiene in casa grosse somme di denaro ed è lui che ha organiz-zato il colpo coinvolgendo tre compaesani. A questo punto i banditi decidono di uccide-re tutti i testimoni. Li porta-no in cantina, li colpiscono a bastonate e li gettano tramor-titi in una cisterna. Arrivano i mariti di due domestiche, vengono eliminati anche loro. In tutto dieci vittime, solo il bambino viene risparmiato. Il bottino: 200mila lire e una dozzina di salami. I corpi vengono trovati otto

giorni dopo. La polizia alleata pensa a un delitto politico ad ope-ra di ex partigiani e vaneggia di complicità da parte dei comunisti infiltrati nelle forze dell’ordine. Poi, il mese successivo alla stra-ge, gli alleati restituiscono i poteri alle autorità italiane e i responsa-bili, che hanno lasciato numerose tracce, vengono individuati. Pie-tro Lala era stato ucciso in un re-golamento di conti, gli altri vengo-

no arrestati, processati e condan-nati a morte il 5 luglio del 1946. Nel novembre successivo la Cas-sazione conferma le condanne. La pena di morte era stata par-zialmente abolita dopo la cadu-ta del fascismo (25 luglio 1943), ma nell’immediato dopoguerra era rimasta in vi-gore per i reati di collaborazionismo. Un decreto legisla-tivo del 10 maggio 1945 inoltre aveva reintrodotto provvi-soriamente la pena capitale anche per i reati comuni più gravi quali seque-stro di persona, ban-da armata, rapina ed estorsione. Di lì a poco sarebbe entrata in vi-gore la nuova Costituzione, nella quale la pena di morte sarebbe sta-ta prevista solo per il codice pena-le militare di guerra [1] e già da un anno non vi sono esecuzioni per reati comuni, ma l’indignazione popolare per quel crimine feroce era stata troppo grande e il Presi-

dente della Repubblica De Nicola respinge la domanda di grazia. Il 4 marzo 1947, alle 7,45, i tre condannati vengono fucilati da un plotone di 36 poliziotti al poligono delle Basse di Stura a Torino. Questa non è l’ultima esecuzione nell’Italia del dopoguerra: il gior-

no successivo, 5 marzo, vengono fucilati a Forte Bastia (La Spezia) tre criminali fascisti, responsabili di torture, deportazioni e omicidi, che però erano stati condannati prima dei banditi di Villarbas-se, nel maggio 1946. Si trattava dell’ex questore repubblichino della città ligure, Emilio Battisti, dell’agente delle SS italiane Au-

relio Gallo e del maresciallo della Guardia nazionale re-pubblichina Achille Morelli. Gallo, soprattutto, era noto per il suo sadismo. Il 21 novem-bre 1944 era stato eseguito un rastrellamento di massa nella zona di Migliarina, molti dei fermati erano stati sottoposti a pesanti interrogatori e tortu-re e deportati a Mauthausen. Catturato a fine 1945, sulla sua testa pendeva una taglia di un milione di lire. Dopo il pro-cesso il popolo di Migliarina, per evitare che le lungaggini burocratiche potessero permet-tere ai tre criminali di arrivare sani e salvi all’amnistia, aveva ingaggiato una lunga battaglia perché fosse fatta giustizia.

Nota [1] La pena di morte verrà aboli-ta anche per il codice penale di guerra nel 1994. Una curiosità: nello Stato del Vaticano la pena di morte è rimasta in vigore molto più a lungo, formalmen-te fino al 2001 quand’è stata abolita da papa Wojtyla.

L’illustrazione è tratta dal libro a fumetti “Villarbasse - La cascina maledetta“ (BeccoGiallo).

Tra il 4 e il 5 marzo 1947 vengono fucilati

tre banditi e tre criminali fascisti

Quando c’era la pena di morte MARZO 1947 - 70 anni fa le ultime esecuzioni in Italia

Il presidente degli Stati Uniti

tracciò le linee di una nuova fase

dell’interventismo a stelle e strisce

Gli scissionisti sono più simili a Renzi

di quanto possano sembrare

internazionale Anno XII, n. 124 7stile liberoMarzo 2017

la violenza politica e comune, legata soprattutto al fenomeno delle maras (le gang giovanili) e al narcotraffico. In questo clima l’assassinio di militanti politici ed ecologisti e difensori dei di-ritti umani è assolutamente “na-turale”. Il record degli attivisti assassinati spetta comunque al Brasile, dove le vittime tra il 2002

e il 2014 sono state 458. Secon-do un altro rapporto di Global Witness, dei 908 omicidi di am-bientalisti accertati tra il 2002 e il 2013 in 35 paesi in via di svilup-po solamente in 10 casi l’assassi-no è stato condannato.

NELLO GRADIRÀ

Nella notte tra il 2 e il 3 mar-zo del 2016 a La Esperan-

za, a 200 chilometri dalla capi-tale honduregna Tegucigalpa, un commando di uomini arma-ti irrompe nella casa di Berta Cáceres e la uccide con quat-tro colpi di pistola. Berta Cáceres era l’esponente più nota del Consiglio delle or-ganizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (Copinh), che da anni si batte contro le politiche di devastazione ambientale del governo e delle multinaziona-li. Poco dopo Berta, altri due attivisti del Copinh vengono assassinati: Nelson Garcia, il 15 marzo e Lesbia Yaneth Ur-quia il 6 luglio. In preceden-za, era stato ucciso anche un ragazzo di 14 anni, Maykol Rodríguez, torturato a morte nell’ottobre del 2014. La lotta del Copinh ha bloccato la realizzazione del complesso idroelettrico Agua Zarca, sul fiume Gualcarque, nell’Hondu-ras Nord-occidentale. Un fiume considerato sacro dal popolo Lenca che abita nella regione. L’opera è stata decisa in vio-lazione della Convenzione del

1989 sul diritto all’autodetermi-nazione dei popoli indigeni. Se fosse costruita, la diga distrugge-rebbe la foresta pluviale e seicen-to famiglie sarebbero costrette ad abbandonare le loro terre. Questa vicenda ha avuto grande risonanza in tutto il mondo e a Berta Cáceres nel 2015 era stato assegnato l’importante premio internazionale Goldman. Nell’Honduras di oggi basta e avanza per rimetterci la pelle. Le battaglie ambientali ostacolano gli interessi di grandi banche e im-prese transnazionali (nel caso di Agua Zarca sono implicate una banca olandese e una finlandese e l’impresa cinese Sinohydro, leader mondiale nella costruzione di di-

ghe) delle élites ricche e potenti del Paese e della classe politica. Secon-do un rapporto della ONG Global Witness gli ambientalisti uccisi dal 2010 ad oggi sono stati 120, tra i quali 10 membri del Copinh. Molti altri sono stati minacciati, aggre-diti o arrestati. Per questi omicidi, commessi da membri delle forze di polizia, vigilanti o sicari, c’è una quasi totale impunità (90%). In rari casi è stato condannato l’esecutore materiale, ma mai il mandante. È a partire dal “golpe suave” del 2009, con il ritorno al potere della destra, che le politiche di devasta-zione ambientale hanno avuto una crescita esponenziale. L’Honduras è stato il laboratorio di sperimenta-zione di questa particolare strategia

di colpo di stato, che prevede la destituzio-ne del presidente eletto non con un intervento militare ma tramite iniziative del potere giudiziario e legislati-vo, accompagnati da campagne mediatiche, strategie di sabotaggio e c o n o -mico e di de-stabiliz-zazione

politica (il tutto appoggiato natu-ralmente dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali). È così che nel 2009 si è interrotto il man-dato del presidente di sinistra Zelaya, peraltro abbastanza moderato ma colpe-vole di voler aderire all’ALBA, l’alleanza dei Paesi progressisti latino-ameri-cani. Colpi di Stato analoghi sono stati riproposti in Paraguay contro il presidente Lugo nel 2012 e in Brasile contro Dilma Rousseff nel 2016. L’Honduras ormai da anni è affondato nella corruzione e nel-

HONDURAS - Un anno fa l’assassinio dell’attivista Berta Cáceres

Non è un paese per ecologistile, è stato il punto di partenza. Funzioni di sanità, educazione, sussistenza alimentare, assetti urbani e altro. Ad oggi lo Sta-to si è perfezionato secondo la spinta di un potere sempre più scientifico e abile nell’organiz-zare cambiamenti senza però

intaccare la sovra-nità di un sovrano completamente su-blimato ma sempre esistente e fatto di persone in carne ed ossa. Il cittadi-no consumatore è il soggetto a cui il potere deve far attenzione e dal quale trae legitti-mazione e soddi-sfazione in termini

economico-finanziari. Ma Fo-cault ci ha insegnato che nessun potere ha una naturale sicurezza nella sua affermazione, nessun potere è legittimato in assoluto, è solo sorretto da circostanze di debolezze storiche e da bluff disseminati nelle pratiche di-scorsive che il potere stesso co-nia e diffonde attraverso i suoi comunicatori.

JACK RR

La Genealogia della Governan-ce è un libro sull’ordolibe-

ralismo, questione attuale mai affrontata di fronte al grande pubblico. Mentre i media nel ventennio hanno celebrato con entusiasmo la fine delle ideo-logie nascondendo sempre con molta maestria i veri lineamenti della governace europea, Giu-liana Commisso è riuscita in-vece a ribaltare completamente la strategia dell’informazione generalista. Ripartendo dalla filosofia lasciata da Foucault, che ci ha insegnato i segreti veri e attuali della logica di potere, l’autrice è arrivata a descrive-re i meccanismi messi in atto dal governo comunitario. Un libro di sociologia che spiega l’economia della finanza nel sorpasso dell’economia reale, quella classica. Proprio in que-sto sorpasso stanno i mutamenti di quell’architettura normativa ma soprattutto di alcuni concet-ti che possiamo definire chiavi di volta come i diritti sociali. Questi diritti rivendicati a gran voce dalla politica sono traditi poi dalle pratiche dei vari Stati Sovrani in competizione tra loro il cui primo obiettivo è divenuto la gestione delle bilance com-merciali. Lo Stato Mercato è il riferimento più importante per capire il criterio dell’ordolibera-lismo tedesco. Quel criterio fon-dante nell’esercizio del potere

dove settori della finanza privata poi in concreto hanno di fronte a loro spazi di libertà infinita. Nel mentre viene fatta, dal potere, un’operazione davvero scientifica di chirurgia di quella che veniva

definita società civile nel quadro del welfare pubblico trasforman-dola in una rete di soggetti differenziati e animati da tre principi chiave: la responsabi-lità, la moderazione e la competitività, si arriva appunto a iden-tificare l’imprenditoria sociale come punto di comunione tra logica pubblica e privata. L’a-zione delle fondazioni insieme ai singoli in-dividui e famiglie re-sponsabilizzate e qua-lificate nella gestione del loro futuro regole-ranno le nuove forme di relazioni sociali. Si arriva a descrivere la nuova realtà usando il termine “neosociale” dove la competizione tra i vari attori vie-

ne legittimata affinché rimanga nella moderazione. Saranno poi i regolatori, i veri soggetti istitu-zionali di governo, a dosare gli incentivi e i trasferimenti per far funzionare le cose che nel libe-

ralismo si sono complicate con la crisi che abbiamo di fronte. “Rendere più accettabile la scon-fitta per i più deboli” è una delle conclusioni più reali che l’autri-ce porta in discussione dopo aver fatto un lavoro di ricostruzione di come lo Stato si sia specializza-

to sul piano del potere-sapere dal XXVI secolo ad oggi. Lo Stato di Polizia, non quello menzionato da Berlusconi a reti unificate nel momento in cui ricevette tutti quelle accuse, ma quello in cui la forza militare doveva gestire di-rettamente quelle funzioni che il sovrano stesso ad un certo punto doveva riconoscere per mantene-re certi equilibri col corpo socia-

Genealogia della governanceLETTURE/1 - Un libro di Giuliana Commisso sull’ordoliberalismo

2

NELLO GRADIRÀ

Come succede spesso a Livorno molte iniziative

interessanti vengono pena-lizzate dalla concomitanza con altri eventi. È il caso della presentazione del libro “Cattivi e Primitivi”, svol-tasi presso la ex Caserma Occupata sabato 11 febbraio in contemporanea con un’as-semblea alla quale hanno partecipato più di 150 per-sone.. Il libro è una ricerca etnografica sul movimento NO TAV, basata su una ven-tina di interviste ad attivisti realizzate nel 2013. L’auto-re è il ricercatore bolognese Alessandro Senaldi, che non fa mistero del suo coinvolgi-mento emotivo e politico nel-le battaglie NO TAV e sfata così un primo luogo comu-ne, quello della necessità di uno sguardo “neutrale” per ottenere risultati affidabili. L’uso delle interviste, fre-quente ma non eccessivo, rende la lettura del libro più scorrevole ed contribuisce a un’immediata compren-sione dei vari argomenti. Oggetto della ricerca le pro-cedure di stigmatizzazione e le strategie repressive messe in campo dai poteri costitu-iti per isolare e dividere un movimento che ha ormai compiuto 25 anni. La prima procedura discor-

siva è quella sintetizzata nel titolo del libro: i primitivi sono i valligiani, ai quali viene rico-nosciuta la legittimità di espri-mere il proprio dissenso ma che vengono descritti come rozzi montanari disinformati, porta-tori di una logica nimby e quin-di incapaci di guardare all’in-teresse generale e di misurarsi con questioni tecnico-scientifi-che di grande complessità. Totalmente illegittima sarebbe

invece la protesta dei cattivi, “quelli venuti da fuori”, perché estranei alla realtà della valle e mossi soltanto dal desiderio di contrapporsi in modo pre-giudiziale e violento alle au-torità costituite: una protesta

sostanzialmente “terrori-stica”. Da qui anche una strategia poliziesca tesa a colpire in modo seletti-vo i “cattivi” e cercare in tutti i modi di accreditare l’idea dei “provocatori di professione”. A questo proposito è divertente l’a-neddoto dei valligiani un po’ attempati, mascherati con il passamontagna, che dopo essere stati ferma-

ti nel corso di una manifesta-zione vengono subito rilascia-ti in quanto non inquadra-bili negli stere-otipi di media, polizia e magi-stratura. Le pratiche discorsive quindi alimentano e si ali-mentano con le stra-tegie repressive di tipo militare e giu-diziario. E su questo

aspetto risulta particolarmen-te interessante la riflessione dell’autore sull’applicazione del “diritto penale del nemico” (Jacobs, 1985): nei confronti di chi viene individuato come ne-mico della società non valgono

neanche le minime garanzie che vengono riconosciute al cittadi-no “ordinario”. Ma se l’obietti-vo di queste strategie era quello di evitare la “contaminazione” tra varie esperienze e circoscri-vere la battaglia NO TAV a una microconflittualità locale, si può dire che sia stato del tutto mancato. Senaldi affronta que-sto punto affidandosi alla voce diretta dei valligiani che rac-contano come gli “autoctoni” e i “ragazzi venuti da fuori” sia-

no entrati in comunicazione e non esista alcuna difficol-tà di integrazione tra le due esperienze. Anzi come ci sia stata una “divisione del lavo-ro” nelle pratiche di resisten-za. Il movimento NO TAV ha inoltre ha saputo misurarsi su tre terreni fondamentali: proprio all’opposto di una logica nimby, ha messo in discussione i concetti domi-nanti di sapere, progresso e democrazia. Il movimento, scrive Senaldi, “sembra aver stabilito un’egemonia cultura-le” e la vicenda della TAV è diventata la metafora delle grandi opere inutili e deva-stanti, contro cui si svilup-pano decine e decine di lotte locali che si ispirano all’e-sperienza della Val di Susa e organizzano manifestazioni di sostegno in tutto il territo-rio nazionale. Il movimento ha saputo guadagnarsi il con-senso dell’opinione pubblica generale e ha costruito nuo-vi legami comunitari, risco-prendo la storia partigiana e ribelle della Valle e elaboran-do “una propria pedagogia, dei propri miti, una propria storia, fino ad arrivare a vere e proprie pratiche mortuarie”. C’è da chiedersi: si tratta di un’esperienza unica, deter-minata dalle particolari ca-ratteristiche socio culturali e geografiche della Val Susa, o riproponibile in altre realtà?

25 anni di lotta No TavLETTURE/2 - Cattivi e primitivi, di Alessandro Senaldi

In sette anni il PIL della Gre-cia si è ridotto di un terzo.

La disoccupazione colpisce il 25% della popolazione e il 40% dei giovani tra i 15 e i 25 anni. Un terzo delle imprese è scomparso in cinque anni. I successivi tagli imposti in nome dell’austerità riguardano tutte le regioni. Non ci sono treni né autobus in zone intere del Pa-ese. E neanche scuole. Molte scuole secondarie hanno do-vuto chiudere negli angoli più remoti per mancanza di fondi. La spesa procapite in sanità secondo la OCSE è diminui-ta di un terzo dal 2009. Più di 25.000 medici sono stati licen-ziati. Gli ospedali mancano di personale, di farmaci, di tutto. Il costo umano e sociale dell’austerità non compare nei fogli excel dell’Eurogruppo. Lo paga in contanti la popolazio-ne. Una quinta parte della po-polazione vive senza riscalda-mento o telefono. Il 15% della popolazione è caduto nella po-vertà estrema dal 2% del 2009. La Banca di Grecia, che non è certo sospetta di compiacenza, ha fatto una valutazione della salute della popolazione greca in un rapporto pubblicato nel giugno del 2016. Le cifre sono clamorose: il 13% della popola-zione è escluso da qualsiasi tipo di assistenza medica; l’11,5% non può comprare le medici-ne prescritte; il 24% ha proble-

mi di salute cronici. I suicidi, le depressioni, le malattie mentali hanno registrato incrementi espo-nenziali. Ancor peggio, mentre il tasso di natalità è diminuito del 22% dall’inizio della crisi, il tas-so di mortalità infantile è quasi duplicato in pochi anni, fino a raggiungere il 3,75% nel 2014. Dopo sette anni di crisi, di au-sterità, di piani europei, il Paese è stremato, dal punto di vista fi-nanziario, economico, fisico. “La situazione continua a peggiorare. Quello di cui abbiamo più biso-gno ora è il cibo. Questo dimo-stra che i problemi riguardano i beni essenziali e non la qualità della vita. Questo è pura soprav-vivenza”, dice Ekavi Valleras, di-rettore della ONG Desmos. Ed è

a questo Paese che l’Europa pretende di assumersi pratica-mente da solo il ca-rico dei rifugiati che arrivano in Europa. Inizialmente, gli osservatori hanno analizzato l’intransi-genza dei funziona-ri europei come un golpe politico contro Syriza. Dopo due

anni di governo, dopo il cambio di rotta di 180 gradi sul referen-dum del luglio 2015 e il nuovo piano di salvataggio, il governo di Alexis Tsipras è a terra nel consenso dell’opinione pubblica. Pretendere da lui nuove misu-re di austerità, metterlo di nuo-vo al muro e forzare per nuove elezioni è la manovra finale per sconfiggerlo politicamente, fargli pagare una volta per tutte l’af-fronto del 2015 e sostituirlo con un governo molto più accettabile. Questo scenario politico non ap-pare realistico ad altri economisti. Credono che si stia arrivando alla fine della gestione europea della crisi greca. Secondo questi anali-sti il ministro tedesco delle finan-ze, Wolfgang Schäuble, che non

ha mai nascosto il desiderio che la Grecia esca dall’euro, ma che ha visto sconfitta la sua linea nel lu-glio del 2015, ora sta prevalendo. Poco a poco, i leader europei, stanchi di un problema per il qua-le non hanno soluzione, aderisco-no alla sua tesi. Anche il FMI sta trattando di uscire dal vicolo cieco della Grecia e anch’esso sostiene un’uscita della Grecia dall’euro,

unica misura che potrebbe dare ossigeno monetario al Paese. Il problema è che nessuno vuole accettare la responsabilità stori-ca di questo fallimento e le sue conseguenze. Escludere un Pae-se dall’eurozona significa che la

moneta unica non è irreversi-bile, come si affermava all’ini-zio. Altri, volontariamente o no, potrebbero seguire l’esem-pio. I finanzieri si preparano per la festa. Il debito greco è di nuovo oggetto di forti spe-culazioni, che spingono i tassi d’interesse al di sopra del 7%. Inoltre tutto il mercato eu-ropeo dei buoni ne è dan-neggiato, in quanto vengono spinti in alto i tassi italiani, spagnoli, francesi nonostan-te l’intervento della BCE. L’atteggiamento dei dirigenti europei e del FMI nelle ultime settimane è sorprendente, per-ché rappresenta un passo indie-tro storico. Spingere la Grecia fuori dall’euro senza che voglia invece la necessaria ristruttu-razione del debito, quando le tensioni geopolitiche non sono mai state più grandi, quando Donald Trump attacca esplici-tamente la costruzione europea e scommette sulla sua scompo-sizione, appare incomprensibi-le. La storia bussa alla porta, ma questi burocrati e bottegai non hanno una risposta. Come sempre dall’inizio della crisi greca.

Martine Orange

Articolo completo su www.rebelion.org, traduzione e ria-dattamento per Senza Soste di Nello Gradirà

Il collasso del paese ellenicoGRECIA - La follia criminale della tecnocrazia neoliberista

“Tu hai il proiettile... io ho la parola. Il proiettile muore

quando esplode, la parola vive quando

viene diffusa.” (Berta Cáceres)

Dopo sette anni di crisi,

di austerità, di piani europei,

il paese è stremato

Il movimento No Tav ha messo in

discussione i concetti dominanti di

sapere, progresso e democrazia

Un libro di sociologia che spiega

l’economia della finanza nel sorpasso dell’economia reale

Periodico livornese indipendente - Anno XII n. 124 - Marzo 2017 - OFFERTA LIBERA (stampare questo giornale costa 0,66 €)Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70%

Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it

Pagina OttoAnno XII - n. 124 - Marzo 2017

RUGBY - La siderale differenza venutasi a creare tra l’Italia e le altre 5 squadre pone d’obbligo una domanda: è giusto che gli Azzurri continuino a partecipare al Sei Nazioni? Storia di un progetto di crescita fallimentare.

NELLO GRADIRÀ

Il torneo delle Cinque Nazioni di rugby è nato nel 1910 quan-

do alle quattro squadre britanni-che che dal 1893 disputavano lo Home Championship si aggiunse la Francia. Dal 1931 al 1947 la Francia venne di nuovo esclusa perché alcuni giocatori erano pro-fessionisti, ma dopo fu riammessa e fino al 1999 il Torneo riprese il nome di Cinque Nazioni. Nel 2000 per la prima volta partecipò anche l’Italia, per cui da allora il Torneo è diventato il Sei Nazioni. La formula è quella del girone all’i-taliana con partita secca. Si tratta di un torneo ad invito, per cui non ci sono promozio-ni e retrocessioni. Partecipano le squadre che vengono ritenute le più forti e prestigiose del con-tinente. E per quanto riguarda le cinque squadre “tradizionali” non c’è dubbio che lo siano, per tradizione e per piazzamento nel ranking mondiale: attualmente

l’Inghilterra è seconda dietro gli All Blacks neozelandesi, l’Irlanda è quarta dietro l’Australia, poi se-guono Galles, Sudafrica, Francia e Scozia. Per trovare l’Italia in-vece bisogna scendere fino al 14° posto, tra le Isole Tonga e le Isole Samoa, e gli azzurri sono prece-duti da un’altra squadra dell’area europea, la Georgia. A differenza del calcio, dove in quelle posizioni di classifica o an-che più in basso ci sono squadre che hanno vinto dei mondiali o potrebbero vincerli, come Italia, Inghilterra e Olanda, nel rugby le distanze sono molto più mar-cate e tra le prime sette-otto e quelle che seguono non c’è pra-ticamente partita, almeno per il momento. E anche il movimento rugbistico di questi paesi appa-re di un altro pianeta rispetto al resto del mondo. La partecipazione dell’Italia al Sei Nazioni all’inizio non sem-brava uno scandalo. Alla fine de-gli anni ’90 la nazionale azzurra aveva riportato dei buoni risultati e si pensò che entrare a far parte del club potesse dare ancora più spinta al rugby italiano. A distanza di quasi vent’anni si può dire che non è andata così, i ri-sultati continuano ad essere imba-razzanti (nonostante il solito uti-lizzo furbetto degli “oriundi” che caratterizza lo sport italico) e qual-cuno comincia a chiedersi se non sia il caso di ripensarci. L’Italia aveva esordito il 5 feb-braio del 2000 con una vittoria per 34-20 contro la Scozia, ma poi seguirono quattro sconfitte (tre delle quali molto pesanti) e arrivò il primo “cucchiaio di le-gno”, il simbolico premio attribu-ito all’ultima classificata. Premio che dal 2000 ad oggi l’Italia si è

“aggiudicata” ben undici volte. Per sei volte senza neanche un punto in classifica ( si chiama “whitewa-sh”). In totale ha vinto appena 12 partite (7 contro la Scozia). La cosa peggiore è che i risultati con l’andare del tempo sono addi-rittura peggiorati: dopo il buon tor-neo del 2013 con due vittorie con-tro Francia e Irlanda, whitewash nel 2014, con una differenza punti di –109, nel 2015 una sola vittoria contro la Scozia, nel 2016 altro whi-tewash e un –145; quest’anno, nelle prime due partite, entrambe casa-linghe, due brutte sconfitte, 33-78 contro il Galles e 10-63 contro l’Ir-landa, un punteggio che nel calcio potrebbe corrispondere a un 6-1. Anche se nel novembre scorso gli azzurri avevano colto una vit-toria superprestigiosa battendo gli Springboks sudafricani 20-18, era quindi logico che qualcuno tornasse a chiedersi cosa ci fa l’I-talia tra i mostri sacri del rugby europeo. Si parla -soprattutto in ambienti inglesi- di un possibile ritorno al Cinque Nazioni, o al-meno di una formula con retro-cessioni e promozioni per cui la sesta partecipante non sarebbe più fissa ma dovrebbe guadagnarsi la qualificazione con una specie di playoff. Le squadre che potrebbe-ro contendere all’Italia la presenza nel torneo sarebbero la Georgia e la Romania, e sembra che alcuni magnati georgiani abbiano offer-to agli organizzatori 10 milioni di euro per far aprire le porte del Sei Nazioni alla loro squadra. Non è un’offerta del tutto folle se

La Federazione del rugby per in-troiti è seconda solo a quella del calcio, ma come in ogni storia ita-liana non potevano mancare gli scandali: il bilancio della FIR nel 2016 è andato in rosso di 2 milio-ni di euro e il presidente Gavazzi è stato messo sotto inchiesta per irregolarità e falso in bilancio.

Ma al di là del-le cifre, il rugby italiano si è gio-vato della par-tecipazione al Sei Nazioni? L’idea era quel-la che lo svilup-po dello sport a livello di élite avesse un effet-to trascinante per tutto il mo-vimento. Così è stato stravolto il massimo cam-pionato, con le due più forti squadre (Tre-viso e Zebre) che partecipa-no con risultati piuttosto scarsi

al Pro12, la ex Celtic League, con club irlandesi, gallesi e scozzesi, mentre la serie A vera e propria ora si chiama Eccellenza e la se-rie A sarebbe la serie B. Formule astruse che hanno portato meno presenze negli stadi e meno inte-resse per i tornei nazionali. Ma una certa crescita della base c’è stata: il numero dei tesserati dopo un calo nel 2014-15 ha ri-

si pensa che il torneo muove ogni anno almeno 500 milioni di euro. Nel mondo il Sei Nazioni è l’even-to sportivo con la più alta media spettatori allo stadio (72.000), nel 2014 superiore anche al Mondiale di Calcio in Brasile. Questo nu-mero di spettatori è stato raggiun-to anche in una partita casalinga dell’Italia, quel-la con l’Inghil-terra del 2016 all’Olimpico di Roma. Per quanto ri-guarda la au-dience televi-siva, nel 2016 i telespettatori sono stati 67 milioni e mez-zo in 187 paesi, mentre in Ita-lia dal 2013 al 2016 il numero di telespettatori per ogni parti-ta ha oscillato tra un minimo di 324.000 e un massimo di 874.000. La partecipazione al Sei Nazioni vale per la Federazione Italiana Rugby circa 20 milioni (14 arriva-no dai diritti TV e altri 5 dagli spon-sor), cifra che rappresenta poco meno della metà del suo budget complessivo e che avvicina l’Italia alla meno ricca delle avversarie, la Scozia, che incassa circa 55 milio-ni. Ma le altre sono ancora distanti, l’Inghilterra è addirittura a 472.

preso a salire arrivando nel 2015-2016 a 87.373, con 31mila nuo-vi giocatori iscritti. Grazie anche all’insopportabile retorica sullo sport vero e sui tifosi corretti rispetto al calcio dei bar-bari e dei miliardari. Una moda? Almeno in parte sì: in occasione dell’ultima Italia-Irlanda, il 70 per cento degli intervistati allo stadio ha dichiarato di non aver mai vi-sto una partita prima. Gli appassionati italiani di rugby naturalmente vorrebbero che l’e-sperienza della nazionale azzur-ra nel Sei Nazioni continuasse: ricordano che la Francia ha vinto il suo primo torneo a 44 anni di distanza dall’esordio, e sostengo-no che in fondo tra l’Italia e Sco-zia non c’è poi quell’abisso che si vuol far credere. Ma siamo sicuri che le mazzate continue della nazionale al Sei Nazioni siano il modo giusto per promuovere il rugby nostrano? E soprattutto, è sportivamente giu-sto che una squadra come l’Italia –più che altro per motivi di inte-ressi economici- partecipi a un torneo con squadre palesemente fuori portata? Non sarebbe come far disputare per decreto la finale dei mondiali di calcio all’Estonia o al Montenegro? Lasciamo la ri-sposta ai lettori.

Sei Nazioni... meno una

La Californianon vende più

NIQUE LA POLICE

Vado in California per trovare idee per battere il populismo. Così ha

detto, a metà febbraio, di fronte a media e opinionisti, Matteo Ren-zi. Nel tentativo di sopravvivere alla propria, dura sconfitta del dicembre scorso. Da tempo Ren-zi, assieme a chi gli fa da sugge-ritore, riflette poco su quello che dice. Sul significato reale del sim-bolico che evoca. Infatti gli Usa, nella geografia politica ufficiale (quella che interessa proprio a Renzi), sono il paese conquista-to dal populismo per eccellenza. Quello di Trump che è andato, sul campo, a sconfiggere l’imma-ginario della Silycon Valley, della disneyficazione delle invenzioni tecnologiche, dell’innovazione creativa e permanente. In realtà Renzi dovrebbe imparare molto, se proprio volesse fare analisi sul campo, a capire sul terreno come evitare ad alimentare il populi-smo con campagne che presu-mono di batterlo con tattiche dif-famatorie, allarmistiche ossessi-ve. Come l’accusa, realistica ma reiterata in modo compulsivo, di razzismo-sessismo-maschili-smo verso ogni leader populista non fa che metterlo in buona luce. Perché il linguaggio antidi-scriminatorio è percepito come linguaggio dell’élite, quella che accetta tutti purché abbiano i soldi, e quindi in ultima istanza un codice di potere non popo-lare. Certo, Renzi è abbastanza conosciuto da aver fatto capire di poter fare il clone di Trump se necessario. Ma ora sta, di nuovo, giocando la partita dell’innovatore, dell’a-raldo della civilizzazione contro l’emergere delle tenebre della demagogia. Questa è la sua sce-neggiatura politica per trovare qualche alleato in più in Europa quando sarà il momento. Quan-do ci sarà di nuovo un governo veramente “suo”. Il punto però è che questo immaginario cali-forniano (che si snoda tra Apple, Cupertino, Palo Alto, tecnologie, qualità e merci digitali) poteva funzionare come elemento di trascinamento di massa, sul pia-no della comunicazione politica, giusto prima della crisi. Oppure come elemento per stupire un po’ di elettorato over 65 ai dibat-titi per le primarie di paese. An-che questo immaginario, oggi, più che la frontiera digitale evoca il consumo elitario. Mac, Ipho-ne, auto elettriche sono oggetti, e il renzismo pretende di comuni-care tramite oggetti, che non evo-cano passioni di massa ma stili di consumo che distinguono.

Prima o poi doveva bussare ed il 2017 poteva essere l’anno

buono. Stiamo parlando della cru-da realtà, quella per cui l’Italia è un paese della periferia del mondo globale, quel mondo non più eu-rocentrico ma multicentrico, dove i vecchi rituali politici sono ormai più spettacolo che sostanza. Non pensiamo che ai tassisti in lotta contro Uber possa interessare più di tanto dove si collocheranno D’Alema o Rossi e nemmeno a chi muore nei campi a 3 euro l’o-ra, vittima del caporalato. Mentre nella campagna elettorale francese si parla di robot, reddito e riduzio-ne dell’orario di lavoro l’attualità politica italiana nelle stanze dei bottoni è costituita dalla telenove-la del Pd e dalla fattibilità o meno dello stadio della Roma. Uber e la App economy. Ci han-no pensato un po’ i tassisti a farci uscire da questo torpore, non per-ché rappresentino una categoria particolarmente brillante ed inno-vativa, ma perché ci hanno sbattu-to in faccia un bel pezzo di mondo reale. Quale mondo? Quello della “App economy”, degli acquisti on line e della cosiddetta “condivi-sione”, che poi condivisione non è affatto. Ma anche il mondo di una larga fetta di popolazione che ormai ragiona soltanto in quali-tà di consumatore, cioè secondo le proprie esigenze di consumo,

senza mai valutare il contesto ed il sistema in cui vive. Oggi i consu-matori sono maggioranza rispetto ai cittadini, è un dato di fatto. Ma la vicenda dei tassisti e del fami-gerato decreto milleproroghe ha mostrato a noi due mondi: quello delle licenze e delle rendite di po-sizione e quello delle tecnologie e dell’autoimprenditorialità che ri-schia di diventare autosfruttamen-to. Sia chiaro, non si tratta di fer-mare la tecnologia e la possibilità da parte di tutti di poter accedere ad una mobilità più veloce ed a prezzi più bassi. Le applicazioni ed i cellulari hanno cambiato la vita di tutti perché molte cose sono possibili con un paio di click. E non possiamo certo tornare indie-tro. Ma qui si tratta di non essere investiti da un treno in piena corsa, per di più con l’illusione che stia passando per prendere noi. Se il rapporto fra consumatore, produt-tore e distributore sta cambiando, ed è innegabile, deve cambiare an-che la loro regolazione. Perché se qualcuno non se ne fosse accorto, Amazon, Uber o AirBnB stanno cambiando le abitudini di molti, ma più che altro smontando set-tori dove ci sono occupati, regole, investimenti. E non lo diciamo perché a noi interessa difendere al-bergatori, tassisti o commercianti, niente è eterno nemmeno, purtrop-po, i ghiacciai, ma perché in questa

transizione vengono aspirati soldi dai territori da multinazionali che poi lasciano le briciole e settori vi-tali a livello economico e sociale, completamente deregolati. Perchè deve essere chiaro che qui non c’è niente che viene condiviso, viene solo dato un servizio a prezzo infe-riore grazie al fatto che sfrutta una nuova tecnologia e che è molto deregolamentato. Diverso sarebbe se esistesse una App pubblica che mettesse in contatto le persone e finalizzata ad una migliore mo-bilità, garantendo a tutti miglior accesso e minor impatto ambien-tale ed incrociando ogni giorno le esigenze dei cittadini. Insomma, il nostro discorso non è di tipo etico ma solamente di tipo economico e sociale perché alla fine a queste nuove imprese interessa il profitto, non certo l’organizzazione delle società, le garanzie pensionistiche o il diritto alla mobilità. Leggendo articoli in rassegna stampa e un po’ di commenti sui social network pare veramente che a qualcuno sfugga che Uber, ad esempio, è un’azienda californiana che è sta-ta valutata 50 miliardi di dollari e che ha 160.000 autisti nel proprio circuito ma solo 550 dipendenti. Ed abbiamo già scritto di AirBnB, 1 milione di stanze online e solo 600 dipendenti e più che altro un impatto devastante sul costo degli affitti per chi abita in molte zone

turistiche tanto che alcuni sindaci hanno dovuto emettere norme ad hoc per fermare la galoppata degli affitti. Aspettando i robot. Se le App Companies hanno portato scon-quasso in settori e professioni tra-dizionali, l’era dei robot potrebbe essere il punto di non ritorno per il mondo come lo abbiamo cono-sciuto fino ad oggi. Ed anche qui bisogna stare attenti. Non siamo a rimpiangere i tempi che furono ma ad immaginare quali vantaggi e svantaggi porterà l’utilizzo di mas-sa di robot nei processi produttivi e più che altro come costruire le garanzie sociali a chi verrà sosti-tuito. In un mondo delle fiabe, le tecnologie ed i robot dovrebbero servire per liberare tempo da po-ter dedicare a famiglia, cultura e divertimento o ad espletare lavori più insalubri e pericolosi dove si continua a morire come mosche. Ma il mondo non è un libro di fia-be e quindi questo tipo di tecnolo-gia sarà esclusivamente uno stru-mento per essere più competitivi e volto a valorizzare al massimo i capitali investiti. Qualcuno po-trebbe obiettare che la tecnologia avanza da sempre ma le condizio-ni di vita per la parte di mondo che ne ha avuto accesso sono sem-pre migliorate e che comunque si creeranno sempre nuovi bisogni e... (continua a pagina 3)

RobotaxMentre il Pd implode chiuso in se stesso, fuori dai palazzi la realtà racconta dell’irruzione nell’agenda politica e sociale di tecnologie, robot, caporalato e disoccupazione. Con tutte le conseguenze che si portano dietro.

Mensile. Sede: via dei Mulini, 29Direttore Responsabile: Paola Chiellini

Tipografia: SaxoprintRegistrazione del Tribunale di Livorno

n° 5/06 del 02/03/2006

Perché partecipa l’Italia e non la Georgia che ci

ha superato nel ranking? Perché

dal 2000 ad oggi il gap con

le altre squadre è andato

crescendo?