Se tu fossi qui di Davide Rondoni, Edizioni San Paolo (estratto))

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Vincitore del Premio Andersen 2015 come Miglior libro oltre i 15 anni.

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Narrativa San Paolo Ragazzil’avventura della mente e del cuore

Davide Rondoni

SE TU SE TU FOSSI QUIFOSSI QUI

Impaginazione e copertina: Sara Benecino

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2015 Piazza Soncino, 5 – 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)

ISBN 978-88-215-9493-9

A Bartolomeo, Carlotta,Battista, Clemente.

Prima PartePrima Parte

BEST

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Di notte Best si svegliava e guardava la finestra. Il leggero taglio di luce, netto come una lama, tra-

scorreva. Dopo aver percorso da sinistra a destra il vetro un po’ impolverato, se ne andava.

A dire il vero c’era un punto pulito, un cerchio nitido ricavato nella polvere sul vetro. Best teneva pulito quel cerchio. Il vetro lì era trasparente. E lui ci guardava den-tro, per vedere di là, nel buio sterminato delle paludi, quel debole fascio di luce che girava, prima largo e palli-do, che poi diventava sottile e infine, per un istante, un punto solo, forte, abbagliante anche se lontano, davanti ai suoi occhi. Poi tornava a essere una linea, un fascio, e si volgeva, spariva nel buio. E ancora un’altra, dieci, venti, cinquanta volte, finché i suoi occhi si stancavano.

Best lo fissava. Seguiva il giro del fascio debolmente luminoso, poi quando la luce diventava un punto diritto nei suoi occhi, aveva un tremito nel cuore.

“È là!” pensava.

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Nel posto dove abitava Best c’erano sere in cui i di-versi tipi di erbe della pianura cambiavano colore. La prateria finiva in una palude che si estendeva prima del mare, e i piccoli arbusti, i cespuglietti, i miseri lunghi fili prendevano colori indefinibili. Altre volte, con un vento sabbioso, sembrava tutto grigio. Giravano pochi animali visibili. Ogni tanto una volpe di mare, un paio di volte gli parve di vedere dei cerbiatti o qualcosa del genere. Ma doveva esserci parecchio movimento di in-setti, di serpi, di cose piccole e non molto simpatiche. Una volta gli sembrò che si fosse fermato un lupo. Pro-prio davanti alle sue finestre, saran stati dodici metri. Era grande, grigio e bianco, sembrava splendere. Si fer-mò immobile. Come se avesse sentito nell’aria qualcosa. Tirò su il muso, immobile sulle zampe. Poi se ne andò.

La riva del mare era lontana. Ma si vedeva il faro. Sotto il cielo si sentivano odori forti di erbe e di vita informe.

C’erano cespi che sembravano piccoli scoppi di verde

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oscuro in mezzo al resto, di colore più grigio pallido. Oppure certe sere venivano riflessi color rame, quando le nuvole scendevano infuocate all’orizzonte. Sembrava di guardare il guscio di certi insetti, che cambiano dal verde al blu a una specie di rosso.

Ogni tanto Best fissava quella distesa per lunghi mi-nuti. Se ne stava così, a guardare non si sa bene cosa. Certo, se lo guardava un uomo coi topi morti al posto degli occhi, in quel posto non avrebbe visto nulla. E infatti uomini così dopo un paio di secondi distoglie-vano lo sguardo. Un tizio glielo aveva pure detto. Era l’addetto di un’azienda che cercava giacimenti di gas, o qualcosa del genere. Era passato per un sopralluogo nella zona e si era fermato con il suo furgoncino nero e scassato davanti a casa di Best e dello zio. Lo zio non era nemmeno uscito a vedere che cosa volesse. Best era lì fuori, con in mano una palla fatta di stracci a osservare la distesa. L’uomo con la divisa color cachi forse si era un po’ rammaricato di non essere stato quasi notato. E ave-va tossito per finta. E credendo di esser simpatico dis-se: «Che hai da guardare in giro ragazzino, pensi che in questo posto così squallido sbuchino gli indiani eh?» E aveva riso per la cretinaggine. Best non s’era nemmeno voltato. Di poveracci coi topi morti al posto degli occhi ce ne sono tanti in giro.

A volte la distesa davanti alla casa di Best prendeva

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un colore quasi azzurro. Accadeva quando il cielo in cer-te sere di prima estate sembrava allungarsi sopra di lui. Il cielo si tirava.

Un azzurro così bello, ma diverso, tornava solo in alcune albe dell’inverno ancora profondo. In febbraio, tipo. Se guardavi il cielo con la faccia in su ti venivano le lacrime agli occhi come uno stupido da quanto era bello.

No, non era un posto allegro, ma chiamarlo triste sa-rebbe stato ingiusto.

In fondo, davanti alla casa, dopo le grandi paludi, si vedeva il faro.

Era una piccola punta chiara. Di giorno si vedeva ap-pena, non come di notte. La luce facendo il suo giro a un certo punto, ecco, pulsava debolmente verso la casa.

«Tuo padre lavora laggiù» gli aveva detto un giorno lo zio che abitava con lui, e che si chiamava zio Tom-lison. «Fa la guardia alle maree e dà una mano a chi si perde».

Somigliava a un vecchio dromedario. Era nero, era nato nel Sud. La sua pelle era più scura di quella di Best, che era color nocciola. Un vecchio dromedario stanco e simpatico. «Non può allontanarsi. Né di giorno, né di notte. Ha una grande responsabilità». Poi con un sospi-ro, quasi prevenendo la domanda del ragazzetto: «Un giorno ti porterò fino a là. Lui non può venire a trovarci, ma ha detto che ti aspetta. Appena sarai un po’ più gran-

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de e più forte per sostenere il viaggio e i pericoli della Grande Palude».

Quando il cielo era sereno, il faro si vedeva bene. E anche nei numerosi giorni di pioggia e di nebbia che si alzava dalla costa, la luce, almeno la luce, si poteva vede-re. Best lo guardava tutti i giorni, sia all’alba quando si alzava per recarsi con lo zio alla fermata del bus, su, dove passava la strada, sia alla sera, quando non ne poteva più e stremato si addormentava.

Ma alla notte lo fissava più a lungo.Zio Tomlison aveva scelto di abitare qua soprattutto

perché si vedeva quella luce che roteava lenta a qualche chi-lometro di distanza. Non ci potevano essere altri motivi.

L’aria era più secca d’estate, e la palude dava un’umi-dità greve.

Anche altri avevano detto a Best che suo padre lavo-rava là. E suo padre era l’unica cosa che gli restava della sua vera famiglia: la madre era morta dando alla luce lui, e portando via con sé il fratellino gemello di Best.

Non ce l’avevano fatta. Best sì. Ce l’aveva fatta, ma era come se un velo gli coprisse spesso il cuore. Ora ave-va undici anni. La madre si chiamava Martha, e veniva da una famiglia di mulatti con la pelle color nocciola e gli occhi chiari, per via di strani incroci, e i capelli lisci e luminosi. Il fratellino che aveva vissuto poche ore, un lampo anche lui, si chiamava Ernst.

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Qualcuno diceva che ci fossero gli alligatori là in mezzo alla palude. Sì, alligatori. Che non si vedevano.

O almeno Best non li aveva mai visti, e quando chie-deva notizie a zio Tomlison non riceveva granché come risposta. Solo un: «Se lo dicono, qualcosa di vero ci dev’essere». E ogni tanto un: «Non ti allontanare dalla casa in quella direzione. Mai». Oppure: «Non so se ci sono, ma non voglio avere la sorpresa di trovarti con un alligatore attaccato al culo».

Poi rideva un poco, ma si rifaceva subito serio.Aveva dei problemi, lo zio. E uno dei più grossi era

che gli volevano portare via la baracca. Sì, Best aveva ca-pito che qualcuno voleva quel terreno e le autorità della città si stavano dando da fare per convincere il vecchio Tomlison a sloggiare. Con le buone o con le cattive. Ac-cadeva a volte che mentre se ne tornavano a casa trovas-sero dei pezzetti di carta con delle scritte strane, delle offese. Una sera trovarono una gallina con la testa moz-zata.

Tomlison non disse niente a Best che lo guardava, solo: «Vieni dentro, presto».