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Roberto Ventresca Scuola superiore di studi storici, geografici e antropologici Università di Padova Il ruolo delle tecnocrazie: l'Italia e l' OECE nelle prime fasi del processo di integrazione europea (1947-1953) È uno degli enigmi del nostro tempo il fatto che il trionfo del politico […] abbia potuto essere presentato come il suo contrario. È accaduto in realtà che l’integrazione della ragione e del personale tecnici ha fornito al dominio politico, comunque costituito, i mezzi per presentarsi con quei requisiti di legittimazione razionale che gli consentono di presentarsi come pura amministrazione. A. Salsano, Ingegneri e politici. Dalla razionalizzazione alla «rivoluzione manageriale», Torino, Einaudi, 1987. Premessa La scelta di utilizzare il concetto di «tecnocrazia» 1 , per identificare quella «élite delle competenze» 2 che - dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale - fu protagonista del reinserimento dell'Italia nel sistema economico internazionale, impone a nostro avviso una riflessione terminologica preliminare. In primo luogo occorre precisare cosa si intenda, nel contesto storiografico a cui si fa riferimento (e per il quale si rinvia alle pagine seguenti), per tecnocrazia. Come è stato correttamente osservato, la categoria di tecnocrazia rimanda, perlomeno in questa sede, alle «caratteristiche e alle funzioni oggettive di un gruppo di persone e insieme alla percezione che quel gruppo ha di se stesso», non già alla prefigurazione di uno «scenario apocalittico di un governo politico impostato alla sola fredda logica della “macchina”» 3 . I tecnocrati italiani (alcuni di essi, 1 Per una ricostruzione del concetto di tecnocrazia a cavallo tra '800 e '900 cfr C. Fumian, Per una storia della tecnocrazia: utopie meccaniche e ingegneria sociale tra Otto e Novecento, in «Rivista storica italiana», CXIII, 3/2012, pp. 908-959; E. Grandi, D. Paci (a c. di), La politica degli esperti. Tecnici e tecnocrati in età contemporanea, Milano, Unicopli, 2014. 2 L. D'Antone, Una élite delle competenze per le politiche di sviluppo, «Imprese e storia», 30/2004, pp. 41-59. 3 R. Petri, Storia economica d'Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, il Mulino, 2002, p. 293 1

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Roberto Ventresca

Scuola superiore di studi storici, geografici e antropologici

Università di Padova

Il ruolo delle tecnocrazie: l'Italia e l' OECE nelle prime fasi del processo di integrazione europea (1947-1953)

È uno degli enigmi del nostro tempo il fatto che

il trionfo del politico […] abbia potuto essere presentato come il suo contrario.

È accaduto in realtà che l’integrazione della ragione e del personale tecnici ha fornito al dominio politico,

comunque costituito, i mezzi per presentarsi con quei requisiti di legittimazione razionale

che gli consentono di presentarsi come pura amministrazione.

A. Salsano, Ingegneri e politici. Dalla razionalizzazione alla «rivoluzione manageriale», Torino, Einaudi, 1987.

Premessa

La scelta di utilizzare il concetto di «tecnocrazia»1, per identificare quella

«élite delle competenze»2 che - dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale - fu

protagonista del reinserimento dell'Italia nel sistema economico internazionale,

impone a nostro avviso una riflessione terminologica preliminare. In primo luogo

occorre precisare cosa si intenda, nel contesto storiografico a cui si fa riferimento

(e per il quale si rinvia alle pagine seguenti), per tecnocrazia. Come è stato

correttamente osservato, la categoria di tecnocrazia rimanda, perlomeno in questa

sede, alle «caratteristiche e alle funzioni oggettive di un gruppo di persone e

insieme alla percezione che quel gruppo ha di se stesso», non già alla

prefigurazione di uno «scenario apocalittico di un governo politico impostato alla

sola fredda logica della “macchina”»3. I tecnocrati italiani (alcuni di essi,

1 Per una ricostruzione del concetto di tecnocrazia a cavallo tra '800 e '900 cfr C. Fumian, Per una storia della tecnocrazia: utopie meccaniche e ingegneria sociale tra Otto e Novecento, in «Rivista storica italiana», CXIII, 3/2012, pp. 908-959; E. Grandi, D. Paci (a c. di), La politica degli esperti. Tecnici e tecnocrati in età contemporanea, Milano, Unicopli, 2014.

2 L. D'Antone, Una élite delle competenze per le politiche di sviluppo, «Imprese e storia», 30/2004, pp. 41-59.3 R. Petri, Storia economica d'Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, il Mulino, 2002, p. 293

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perlomeno) impegnati nelle vicende della ricostruzione post-bellica e della

ricollocazione del Paese nello scenario internazionale si formarono in buona parte

nel corso degli anni Trenta a contatto con gli ambienti dell'IRI e della Banca

d'Italia (solo per citare alcuni nomi: Beneduce, Menichella, Saraceno, Sinigaglia,

il cui lavoro si affiancò a quello compiuto da alcuni degli esponenti più

significativi della vita politica nazionale: basti rammentare la figura di Luigi

Einaudi), e contribuirono ad indirizzare le scelte strategiche intorno alle quali

prese corpo la fisionomia della collocazione del neonato regime repubblicano

all'interno della nuova geografia del capitalismo occidentale.

Sebbene, per ragioni di spazio, non sia possibile approfondire un'indagine

specifica su queste personalità, sembra però opportuno esplicitare la prospettiva

analitica con la quale verrà osservato il ruolo di questi tecnocrati. Condividendo

una prospettiva storiografica incentrata sul riconoscimento di una certa continuità

nell'azione politico-economica di siffatta tecnocrazia - continuità sostanziatasi

nella cosiddetta strategia «neomercantilista» (le cui priorità risiedevano

nell'accumulazione di risparmio nazionale, nella compressione dei consumi, nella

centralità della bilancia dei pagamenti), che ispirò le scelte fondamentali della

politica economica italiana negli anni della ricostruzione4 -, non si vuole tuttavia

leggere e interpretare il ruolo di questa élite in termini di opposizione o di

estraneità rispetto alle vicende della classe politica di quegli anni. A nostro

avviso, questa componente tecnocratica si integrò, talvolta in maniera

problematica, all'interno dei circuiti decisionali delle strutture politico-

istituzionali italiane, contribuendo in maniera di certo decisiva a indirizzare le

scelte del Paese in campo internazionale. Tale quadro interpreativo non consente,

pertanto, di istituire una netta divisione (nei ruoli, nelle competenze, nell'effettiva

capacità decisionale) tra il “fronte” dei politici e quello dei tecnici, chiamati

entrambi a interpretare con maggiore o minore abilità (economica, politica,

diplomatica) i nuovi equilibri internazionali sanciti dalla Guerra Fredda5. Proprio

gli esiti storici della combinazione tra “expertise tecnica” e “decisione politica”

rappresentano alcuni dei principali oggetti di riflessione della presente ricerca, la

quale si incentra sul ruolo esercitato dall'Italia all'interno dell'OECE

(Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, nata nell'aprile del

4 Cfr. R. Petri, Storia economica d'Italia, op. cit.; C. Spagnolo, Tecnici e politici in Italia Riflessioni sulla storia dello Stato imprenditore dagli anni trenta agli anni cinquanta, Milano, Franco Angeli, 1992.

5 A. Milward, The Reconstruction of Western Europe, 1945-1951, London, Meuthen, 1984; A. Milward, F. Lynch, R. Ranieri, F. Romero, V. Sorensen, The Frontier of National Sovereignty: History and Theory 1945-1992, London, Routledge, 1993.

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1948).

Questo contributo si dividerà in quattro sezioni, nelle quali verranno

analizzati in primo luogo i quesiti principali e gli obiettivi di fondo della nostra

indagine; successivamente si passerà a illustrare il contesto storiografico e

l'approccio metodologico utilizzati per sviluppare l'analisi qui proposta; si

proporrà in seguito una disamina (ancorché parziale) della metodologia e delle

fonti primarie intorno a cui si articola l'intero lavoro; infine, verrà presentata una

breve sezione nella quale si darà conto delle eventuali integrazioni e dei possibili

ampliamenti – per ciò che concerne sia le fonti da utilizzare, sia i temi da trattare

– di cui la ricerca può ancora giovare.

1. Quesiti centrali e obiettivi della ricerca.

Le motivazioni di fondo che si pongono alla base della ricerca scaturiscono

da una serie di interrogativi storiografici relativi alle modalità con cui l'Italia –

vale a dire alcune delle strutture governative e amministrative apicali dello Stato

italiano, a cui si farà cenno più avanti – interpretò il traumatico passaggio segnato

dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, dalla nascita della Repubblica e

dal successivo reinserimento nell'orizzonte economico e politico occidentale.

Osservando più da vicino i mutamenti profondi che si imposero nel periodo della

“scelta europea” e atlantica dell'Italia6 - solo per citarne alcuni: l'espulsione delle

sinistre dal Governo nel maggio 1947; l'adesione al progetto del Piano Marshall e

di seguito a quello dell'OECE; la (non scontata) partecipazione alla NATO (1949)

-, è possibile cogliere il quadro generale all'interno del quale maturarono gli

equilibri della stagione del centrismo (che qui limitiamo alla successione de

governi De Gasperi tra il maggio 1947 e l'agosto 1953), la quale rappresenta il

nostro arco cronologico di riferimento.

Occorre tuttavia precisare quale sia il focus specifico di questo lavoro,

proprio alla luce degli interrogativi di fondo a cui si accennava poc'anzi. Se i

contributi relativi alla ricostruzione economica del secondo dopoguerra risultano

a dir poco copiosi7, così come abbastanza fitta è la produzione storiografica

6 Cfr. A. Varsori, La Cenerentola d'Europa? L'Italia e l'integrazione europea dal 1947 ad oggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010.

7 Cfr. ad es. M. Salvati, Stato e industria nella ricostruzione. Alle origini del potere democristiano (1944-1949), Milano, Feltrinelli, 1983; Id., Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale, in F. Barbagallo (a c. di), Storia dell'Italia repubblicana, vol. I, Torino, Einaudi, 1994, pp. 411-453; B. Bottiglieri, La politica

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sull'applicazione del Piano Marshall in Italia8, minore attenzione sembra aver

ricevuto da parte degli studiosi – italiani e stranieri - l'esperienza dell'OECE e,

con essa, l'insieme di “eredità” storiche, più o meno durature, che tale

Organizzazione offrì alle fasi successive dei processi di cooperazione e di

integrazione europea. Rinviando alle pagine seguenti per una riflessione più

approfondita sul dibattito storiografico sviluppatosi intorno a queste tematiche, ci

preme ora sottolineare come questo lavoro di ricerca abbia preso le mosse dalla

necessità di investigare in maniera articolata le strategie con cui l'Italia interpretò

il proprio coinvolgimento nelle dinamiche della cooperazione,

dell'interdipendenza e dell'integrazione europea – processi storici di carattere

differente9 - all'indomani della caduta del fascismo e del profilarsi di un panorama

del tutto rinnovato, nella fisionomia e negli obiettivi, delle relazioni internazionali

in Occidente. Dunque: in che modo e alla luce di quali obiettivi l'Italia entrò a far

parte dell'OECE? Secondo quali prospettive di carattere politico, economico e

diplomatico gli ambienti governativi italiani e le relative strutture tecnico-

burocratiche agirono all'interno dell'Organizzazione? E in che termini i loro

differenti approcci si articolarono, confluirono in una visione comune e, talora,

entrarono in conflitto?

Il primo quesito abbraccia le vicende legate alla preparazione e alla

successiva attuazione dello European Recovery Program - annunciato nel giugno

1947 dal Segretario di Stato George Marshall -, destinato a rappresentare uno

degli esempi archetipici dell'egemonia americana all'interno di un'Europa

divenuta, perlomeno dalla metà del 1947, teatro “privilegiato” della Guerra

Fredda. L'ipotesi di prendere parte al programma di aiuti previsti dal Piano

Marshall incontrò l'immediata approvazione da parte dei vertici governativi

italiani (in primis De Gasperi e il Ministro degli Esteri Carlo Sforza), i quali

percepirono l'offerta lanciata dall'Amministrazione Truman sia come uno

strumento indispensabile alla ripresa economica del Paese (benché – e ciò si

manifestò subito dopo l'approvazione del Piano - all'interno dei gruppi d'interesse

economica dell'Italia centrista (1948-1958), Milano, Edizioni di comunità, 1984; D. Ellwod, L'Europa ricostruita. Politica ed economia tra Stati Uniti ed Europa Occidentale. 1945-1953, Bologna, il Mulino, 1994; A. Giovagnoli, L'Italia nel “nuovo ordine mondiale”. Politica ed economia dal 1945 al 1947, Milano, Vita e Pensiero, 2000.

8 Si vedano, solo tra i più recenti, C. Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta. Il Piano Marshall in Italia (1947-1952),Roma, Carocci, 2001; M.Campus, L'Italia, gli Stati Uniti e il Piano Marshall, 1947-1951, Roma-Bari, Laterza, 2008; F. Fauri, Il Piano Marshall e l'Italia, Bologna, il Mulino, 2010.

9 Cfr. A Milward and V. Sorensen, Interdependence pr integration? A national choice, in A. Milward et alii, The Frontier of national Sovereignty, op, cit., pp.1-32.

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italiani non esistesse unanime consenso riguardo alla distribuzione degli aiuti e

all'individuazione dei settori economici “strategici” verso cui dirottare buona

parte dei fondi10), sia come una forma di riconoscimento degli interessi e delle

aspirazioni della neonata repubblica, ansiosa di guadagnare una legittimazione

politica (non estranea a componenti ideologiche fondate sull'idea di un naturale

legame tra la “cattolica” e “latina” nazione italiana e il campo occidentale11) in

campo internazionale tale da garantirle il recupero di quel ruolo di «media

potenza regionale»12 di cui essa si percepiva storicamente investita. Perché tali

obiettivi potessero essere concretamente raggiunti occorreva, per ovvie ragioni,

che le potenze occidentali uscite vincitrici dalla guerra – USA, Francia, Gran

Bretagna – accogliessero la fondatezza delle aspirazioni italiane, le quali

incontrarono sia forme di condivisione (specie da parte degli Stati Uniti), sia

forme di contrasto (soprattutto ad opera dei britannici). Non a caso, infatti,

nell'ambito della ricerca si tenterà di elaborare un nucleo tematico ulteriore,

relativo allo studio delle posizioni espresse da alcuni dei maggiori protagonisti (in

termini politici, economici e diplomatici) attivi in seno all'OECE, e cioè Francia e

Gran Bretagna, riguardo alle strategie adottate dall'Italia nel periodo 1947-1953:

un obiettivo analitico volto a problematizzare l'esperienza storica dell'Italia

nell'OECE attraverso lo “sguardo esterno” proveniente da quei Paesi che, pur

figurando ufficialmente come partner internazionali, spesso vestirono i panni di

concorrenti economici e politici estremamente combattivi, soprattutto desiderosi

– come l'Italia, del resto – di conservare, di fronte alla prospettiva di una sempre

più intensa dinamica di cooperazione continentale, un ampio margine di

sovranità nazionale.

Appare invece più complesso riflettere sul secondo dei quesiti menzionati in

precedenza, il quale insiste sull'analisi e sull'interpretazione della partecipazione

dell'Italia alle attività dell'OECE tra il 1947 (quando ancora l'OECE esisteva

soltanto come Conferenza per la Cooperazione Economica Europea, CCEE) e il

1953. Come si è già tentanto di mettere in evidenza, una delle motivazioni di

10 Cfr. R. Ranieri, L'integrazione europea e gli ambienti economici italiani, in R. H. Rainero (a c. di), Storia dell'integrazione europea, vol. I, Milano, Marzorati, 1995, pp.285-329; S.Battilossi, L'Italia nel sistema economico internazionale. Il management dell'integrazione. Finanza, industria e istituzioni, 1945-1955, Milano, Franco Angeli-INSMLI, 1996.

11 Cfr. P. Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità Atlantica (1943-1954), Bologna, il Mulino, 2013; non bisogna però dimenticare – e devo queste osservazioni ai preziosi suggerimenti che mi ha fornito la Prof.ssa Daniela Preda, che qui ringrazio - come anche la componente protestante fosse largamente rappresentata nel dibattito politico e culturale che animò il processo di costruzione dell'Europa post-bellica

12 A Varsori, La Cenerentola d'Europa?, op. cit., p.42.

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fondo della ricerca si situa appunto nel tentativo di cogliere le strategie plurali e

stratificate che gli organismi tecnici e politici italiani – come, tra gli altri, la

Presidenza del Consiglio, il CIR (Comitato Interministeriale per la

Ricostruzione), il Ministero degli Esteri, la Delegazione Italiana all'OECE, il

Ministero del Commercio Estero, la Banca d'Italia – svilupparono rispetto

all'OECE negli anni di cui ci si sta occupando. A questo proposito sembra

opportuno rammentare come l'OECE, da un punto di vista prettamente

storiografico, possa essere considerata come una delle prime esperienze di

cooperazione economica e politica europea all'indomani del 1945, in quanto offrì

ai suoi Paesi membri13 l'occasione di praticare concretamente un'ipotesi di

pacificazione dell'area europea attraverso la creazione di un mercato – o, meglio,

di una serie di mercati nazionali interdipendenti, fondati sulla libera circolazione

delle merci e degli uomini - progressivamente “comune”, benché i risultati dei

tentativi di cooperazione e di integrazione economica tra i vari Stati nazionali

procedettero per lungo tempo con passo molto incerto (perlomeno fino ai Trattati

di Roma del 1957)14.

Ora, pur rinunciando ad addentrarci nell'analisi delle scelte e delle posizioni

dei singoli protagonisti di queste vicende, sembra possibile articolare

ulteriormente la natura degli interrogativi di fondo a cui la ricerca tenta di fornire

una (parziale) risposta, sottolineando come l'ambizione di questo lavoro si

sostanzi proprio nella verifica dell'ipotesi circa la natura della “coincidenza”

esistente (o meno) tra le posizioni espresse in seno alle strutture amministrative

centrali italiane e i loro rappresentanti concretamente coinvolti, a contatto con i

partner europei e statunitensi, nelle attività dell'OECE. In altre parole, in questo

studio si tenterà anche di vagliare il grado di “autonomia politica” e lo spessore

dell'influenza decisionale di cui erano provvisti i funzionari – i “tecnici” presenti

nelle strutture sopra menzionate - incaricati di curare i dossier e le trattative

intorno a cui il lavoro dell'OECE si organizzava, osservando inoltre la dialettica

dei rapporti che si instaurò tra la percezione che essi svilupparono riguardo alle

issues di volta in volta affrontate e le indicazioni provenienti dai responsabili

politici italiani.

Alla luce di questa prospettiva analitica, l'attenzione della ricerca si

13 Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera, Turchia.

14 F. Petrini, Preludio al grande mercato? Un bilancio storiografico dell'esperienza dell'OECE, in «Memoria e Ricerca», 14/2003, pp. 51-68.

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concentra soprattutto sulla Delegazione italiana all'OECE15, la quale dipendeva da

un punto di vista amministrativo dalla Direzione Generale Affari Economici del

Ministero degli Esteri. Il ruolo di questo Ministero nella gestione degli affari

relativi all'OECE fu cruciale, per via del peso politico esercitato dal Ministro

Sforza, per la centralità della figura di alcuni ambasciatori – Quaroni a Parigi,

Gallarati Scotti a Londra, Tarchiani a Washington - e, come si diceva prima, per

via dello stretto legame esistente tra questo Ministero e i membri della

Delegazione all’OECE (va però ricordato come il Ministero degli Esteri fu, in

ambito nazionale, parzialmente esautorato dalla diretta gestione del Piano

Marshall da parte di organismi quali il CIR, il Tesoro o la Banca d'Italia16).

Ovviamente occorre prestare attenzione alla “porosità” della Delegazione, la

quale poteva arricchirsi di personalità provenienti da strutture ministeriali

differenti e dal mondo dell'industria privata, in base alla natura delle trattative

sulle quali la Delegazione stessa era chiamata a esprimere il punto di vista

dell'Italia. Si accenna qui solo brevemente al fatto che questo studio non potrà

passare al setaccio ogni singola trattativa nella quale l'Italia venne coinvolta nel

quadro delle attività promosse dall'OECE, ma si concentrerà su quelle “aree di

interesse” alle quali il Paese attribuiva maggiore priorità, vale a dire le politiche

di liberalizzazione degli scambi e dei pagamenti; le dinamiche relative alla

circolazione della manodopera e, dunque, dei flussi migratori; le trattative

riguardanti i temi della produttività del lavoro e dei piani di sviluppo per

l'integrazione economica europea.

Prendendo in considerazione la natura degli obiettivi già parzialmente

conseguiti e di quelli attesi, un primo punto di riflessione consiste nel

riconoscimento – di cui la storiografia esistente dà già ampiamente conto – delle

motivazioni e degli approcci con cui l'Italia decise di partecipare all'esperienza

dell'OECE, la quale veniva appunto percepita (spesso strumentalmente) come uno

dei viatici necessari sia per tornare a sedere al tavolo dei “grandi” dell'Occidente,

sia per collocare l'economia nazionale all'interno delle nuove dinamiche

capitalistiche (dopo l'esperienza autarchica fascista) emerse dalle macerie della

15 La Delegazione, la cui composizione varò nel tempo, venne guidata dal 1947 al '49 da Pietro Campilli, poi sostituito da Roberto Tremelloni e da Giuseppe Pella. Inizialmente formata da alcuni funzionari del MAE (tra cui Lanza D'Ajeta,Colonna,Di Falco,De Carnet,Sinfarosa, Malagodi,Caracciolo,etc; per seguire trattative specifiche vennero chiamati anche esperti estranei al MAE (come Guido Carli, per le questioni monetarie). Cfr. C. Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta, op. cit., p.82.

16 R. Ranieri, L'Italia, la ricostruzione e il sistema internazionale, in F. Romero, A. Varsori (a c. di), Nazione, Interdipendenza, Integrazione. Le relazioni internazionali dell'Italia (1917-1989), Roma, Carocci, 2005, pp. 131-153.

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guerra. Se si può affermare con sufficiente certezza che questi stessi approcci non

erano però condivisi in maniera unanime all'interno del contesto economico e

politico italiano - differenziandosi esso tra quanti spingevano per una maggiore

integrazione dell'economia italiana nel contesto europeo e quanti, al contrario,

auspicavano che i rapporti tra i vari mercati nazionali si articolassero in termini di

più limitata interdipendenza, con l'obiettivo di conservare un livello di protezione

molto consistente rispetto ai crescenti standard della concorrenza continentale 17-,

bisogna ancora verificare in che modo tali conflitti si siano riversati nella

definizione di una più o meno chiara azione politica all'interno dell'OECE, e

soprattutto come tali strategie (e talvolta l'assenza di strategie) siano state

interpretate e rielaborate dai membri della Delegazione e dai tecnici italiani che a

vario titolo operavano nell'OECE. Volendo in proposito avanzare soltanto una

prima e parziale ipotesi interpretativa, i telegrammi e i memoranda (contenuti

soprattutto nel fondo DGAE dell’archivio della Farnesina, di cui si dirà più

avanti) scambiati tra i membri della Delegazione e il Ministero degli Esteri

sembrano offrire delle tracce significative: l'impressione generale, come annota

ad esempio Giovanni Malagodi18, è che i membri coinvolti nelle difficili

dinamiche dell'OECE costituissero un «falso fronte» della diplomazia economico-

politica del Paese, vale a dire una sorta di “avanguardia internazionale” sovente

sprovvista dell'imprescindibile guida che invece sarebbe dovuta pervenire da

parte delle strutture politiche e amministrative italiane. La percezione di una

tendenziale incapacità dei vertici politici “romani” (o di quanti non vivevano a

diretto contatto con il susseguirsi delle trattative tra i partner occidentali) di

cogliere la natura e la portata dei nuovi equilibri internazionali - scaturiti dalla

ricomposizione capitalistica determinata dalle scelte di Bretton Woods e

dall'attuazione del Piano Marshall - è una delle impressioni più frequenti tra

quelle che emergono dalla lettura dei documenti d'archivio e della letteratura

dedicata a queste tematiche. E tale incapacità - o, se si vuole, inadeguatezza, sul

cui valore “euristico”, in termini storiografici, bisognerà indagare ulteriormente –

sembra aver condizionato fortemente, alla luce degli studi condotti sinora, i

comportamenti e le prospettive di chi aveva poi il compito di tradurre in progetti

concreti la posizione dell'Italia all'interno degli organismi dell'OECE.

17 Cfr. F. Petrini, Il liberismo ad una dimensione: la Confindustria e l'integrazione europea,1947-1957, Milano, Franco Angeli, 2005, p. 16.

18 Cfr. il diario personale di Malagodi, conservato presso l'Archivio della Fondazione Einaudi di Roma e pubblicato in G. Malagodi, Aprire l'Italia all'aria d'Europa. Il diario europeo (1950-1951), a c. di G. Farese, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011.

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2. Contesto storiografico e stato dell'arte

Dopo aver esaminato i nuclei tematici sulla cui base la ricerca prende corpo,

è opportuno illustrare il contesto storiografico generale nel quale il lavoro si situa,

tentando di evidenziare la stratificazione degli approcci analitici di volta in volta

adottati. Se già nella premessa iniziale si è tentato di restituire una spiegazione

problematizzata del concetto di tecnocrazia, bisogna ora specificare come lo

sfondo generale che accoglie gli sforzi interpretativi di questo lavoro sia

rappresentato in primo luogo dalla storiografia sulle prime fasi del processo di

cooperazione e di integrazione europea19. Proprio l'analisi dei fenomeni relativi

alla storia dell'integrazione economico-politica del Vecchio continente (riferibili

all'arco cronologico preso in considerazione) dimostra quanto poco lineare e

progressivo si sia rivelato tale processo di “riavvicinamento” tra gli Stati europei,

i quali – nelle trattative consacrate alla creazione di accordi e istituzioni che

promuovessero forme di reale cooperazione economico-politica nel Vecchio

continente – furono protagonisti di continue accelerazioni e di repentine marce

indietro, a dimostrazione della validità delle tesi storiografiche più inclini a

mettere in risalto la ricerca di un' effettiva (o quantomeno auspicata)

conservazione di ampie quote di sovranità decisionale da parte delle diverse

compagini nazionali impegnate nell'OECE20.

Un' analoga tendenza a problematizzare i nuclei tematici della ricerca

caratterizza l'approccio di quest'ultima rispetto agli studi di relazioni

internazionali, legati, com'è ovvio, al filone sull'integrazione europea e a quello

più generale dedicato alle vicende della Guerra Fredda21. Così come si è

accennato alla mancanza di linearità che caratterizzò l'evoluzione del difficile

cammino verso l'integrazione europea, così pure alcuni studi22 hanno evidenziato

come molti Paesi europei – tra cui l'Italia – riuscirono, sul terreno concreto dei

rapporti economici legati all'azione dell'OECE e all'esperienza del Piano

Marshall, a scongiurare un rapporto di mera sudditanza rispetto al loro partner

americano, il quale fu invece costretto a confrontarsi con la non trascurabile

19 Per una panoramica generale cfr. Cfr. G. Mammarella, P. Cacace, Storia e politica dell'Unione Europea (1926-2013), Roma-Bari, Laterza, 2013.

20 Cfr. A. Milward,21 F. Romero, Storia della guerra fredda. L'ultimo conflitto per l'Europa, Torino, Einaudi, 2009.22 Cfr. C. Esposito, America's Feeble Weapon. Funding the Marshall Plan in France and Italy, 1948-1950, Westport,

Greenwood Press, 1994; A. Brogi, A Question of Self-Esteem: the United States and the Cold War Choices in France and Italy, 1944-1958, Praeger, Westport-London 2002.

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capacità di condizionamento esercitata da quegli attori nazionali europei nei quali

la “minaccia comunista” risultava più preoccupante. Tale contesto storiografico

consente di mettere in luce il grado di pressione politica che i Paesi più esposti

all'influenza dei rispettivi movimenti comunisti – in primis Francia e Italia –

furono in grado di esercitare nei confronti degli USA, in quanto questi ultimi

temevano, anche alla luce delle “paure” espresse dai propri alleati, che un rapido

e ulteriore deterioramento delle condizioni economiche delle nazioni europee

avrebbe alimentato indirettamente il rafforzamento del seguito politico ed

elettorale di cui godevano i locali partiti comunisti. Senza negare in alcun modo il

ruolo decisivo giocato dagli Stati Uniti sul piano economico, politico e culturale

nella ricostruzione dell'Europa occidentale dal '45 in poi23, emerge in questo

orizzonte interpretativo una lettura non unidirezionale del rapporto istituitosi tra

l'America dell'Amministrazione Truman e i Paesi europei coinvolti nel Piano

Marshall e nell'OECE, laddove questi ultimi, anche alla luce dell'evidente

condizione di precarietà economico-istituzionale interna e dell'azione esercitata

dalle sinistre nei rispettivi contesti nazionali, apparivano paradossalmente in

grado di capitalizzare a proprio vantaggio – in termini di riconoscimento politico

e di persistenza nell’erogazione dei materiali provenienti dagli USA - le gravi

debolezze delle quali soffrivano.

Prendendo in considerazione gli aspetti più precipuamente legati alla

dimensione storiografica nazionale, la ricerca accoglie e rielabora gli stimoli più

fecondi provenienti in particolare dal campo della storia delle istituzioni24 e, in

parte, della storia economica sulla ricostruzione post-bellica e sulla prima

legislatura repubblicana ('47-'53)25. Come si è già accennato in precedenza, uno

degli approcci attraverso i quali la ricerca tenta di articolarsi consiste nell'analisi

del ruolo svolto dalle personalità e dalle strutture amministrative – a livello sia

nazionale che internazionale – coinvolte nelle vicende dell'OECE, con l'obiettivo

di tracciare sia un profilo dei rapporti che sussistevano tra strutture tecnico-

governative centrali (Presidenza del Consiglio, CIR, Ministero degli Esteri,

ministeri economici, Banca d'Italia) e organismi di “rappresentanza”

internazionali (la Delegazione italiana all'OECE, le ambasciate nei Paesi alleati),

23 Cfr. V. De Grazia, Irresistible Empire. America's Advance through 20th Century Europe, Cambridge, Belknap Press, 2005

24 Cfr. G. Melis, Storia dell'Amministrazione italiana, 1861-1993, Bologna, il Mulino, 1996; M. Salvati, Amministrazione pubblica e partiti di fronte alla politica industriale, in F. Barbagallo (a c. di), Storia dell'Italia repubblicana, vol. I, Torino, Einaudi, 1994, pp. 411-453.

25 Cfr. supra, p. 7.

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sia una “geografia dei poteri e delle competenze” entro cui si orientò l'azione

politico-diplomatica di tali strutture e delle personalità che vi appartenevano. In

altre parole, una delle intenzione di questo lavoro è quella di sfruttare gli

strumenti offerti dalla storia istituzionale per individuare le sfaccettature proprie

della cultura economica (o, meglio, delle culture economiche) che accompagnò il

reinserimento dell'Italia nel contesto internazionale e che ispirò le scelte compiute

dagli uomini che rappresentavano il Paese in seno all'OECE.

Se tale panoramica storiografica contribuisce a collocare la ricerca

all'interno di coordinate interpretative sufficientemente chiare, lo stato dell'arte

degli studi sulle vicende italiane durante le prime fasi del processo di

cooperazione e di integrazione europea pare abbiano conosciuto negli ultimi anni

un lieve rallentamento. Una delle ragioni di questa tendenza potrebbe originare,

benché si tratti soltanto di un' ipotesi provvisoria, dall'impressione che si siano

oramai consolidate per certi versi le linee interpretative sulla ricostruzione

economica italiana in ambito nazionale e internazionale tra la fine degli anni

Quaranta e l'inizio dei Cinquanta26. Inoltre, una delle possibili cause a cui

ascrivere la scarsa attenzione riservata alla parabola storica dell'OECE andrebbe

forse ricercata nella più o meno radicata convinzione riguardate il valore

relativamente contenuto dell'influenza che l'Organizzazione avrebbe prodotto

nella genesi concreta delle scelte di politica economica e di politica estera dei

Paesi europei durante e subito dopo gli anni del Piano Marshall. Come osserva

Francesco Petrini, se il periodo maggiormente analizzato della vita dell'OECE

corrisponde al biennio '48-'49, dopo il quale si abbandonò l'idea di legare

direttamente l'attuazione del Piano Marshall all'Organizzazione, minore

attenzione è stata riservata agli anni successivi. Ciò si sarebbe determinato a

causa di un «orientamento abbastanza diffuso in storiografia che tende a

sottolineare lo scarso peso dell'OECE nel processo di costruzione del grande

mercato europeo»27.

Successivamente, invece, si è guardato a questa istituzione come a un

laboratorio – o, per meglio dire, a una «palestra» - dell'integrazione continentale,

capace di rappresentare un esempio comunque significativo (per quanto, secondo

alcuni, poco efficace) nella storia della costruzione di un'Europa

26 Ma si prenda visione, ad esempio, del numero monografico di «Storia economica», 1/2012, dedicato ai protagonisti dell'intervento pubblico nell'Italia repubblicana

27 F. Petrini, Preludio al grande mercato?, op. cit.

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progressivamente “unificata”. Sulla scorta delle analisi di Milward, sottolinea

ancora Petrini, la vicenda storica dell'OECE potrebbe essere interpretata ex-post

come un contributo “in negativo” all'avanzamento della cooperazione intra-

europea, in quanto i Paesi membri dell'Organizzazione, forti della loro concreta

esperienza nel campo della reciproca collaborazione politico-economica

all'interno di questa istituzione, percepirono nel corso degli anni successivi la

necessità di realizzare un modello di integrazione continentale differente ( si pensi

alle tappe che condussero ai Trattati di Roma del 1957) rispetto a quanto

compiuto attraverso gli organismi dell'OECE28.

Se negli ultimi anni i principali contributi – anche rispetto al caso italiano –

non sembrano essersi discostati da quest'ottica interpretativa, la ricerca qui

illustrata, pur condividendo una lettura dell'OECE quale primo – e talvolta poco

incisivo- banco di prova della cooperazione europea post-bellica, tenta però di

ridurre (almeno parzialmente) quella sorta di “vuoto storiografico” che riguarda la

presenza italiana all'interno delle strutture dell'OECE negli anni da noi indicati,

proprio in quanto sembra ancor oggi mancare una ricostruzione dettagliata e

specifica – e dunque non dissolta nel più generale panorama analitico dedicato al

Piano Marshall o ad altre istituzioni comunitarie “originarie”, come ad esempio la

CECA - di quegli avvenimenti. A questo proposito, una delle ambizioni del nostro

lavoro consiste nel tentativo di contribuire per quanto possibile al dibattito

riguardante il concreto dispiegarsi in ambito internazionale della cultura

economica della classe dirigente italiana – osservata nelle sue vesti sia “tecniche”

che “politiche” - durante gli anni del centrismo, attraverso un focus particolare

sulla partecipazione italiana alle attività dell'OECE e alla più generale costruzione

del cosiddetto “grande mercato” europeo.

28 Ivi, p. 53.

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3. Metodologia e fonti

L'approccio metodologico adottato nella costruzione della ricerca muove

dall'obiettivo di integrare all'interno di un quadro interpretativo il più possibile

solido e coerente i piani tematici su cui finora si è ragionato. In questo senso si è

imposta anzitutto la necessità di approfondire la letteratura secondaria dedicata

allo studio della ricostruzione economica e politica europea all'indomani del

secondo conflitto mondiale, prendendo in considerazione le vicende legate alla

promozione del Piano Marshall e alla nascita dell'OECE, con l'obiettivo di

restituire nella sua complessità la “presa” egemonica americana su di un'Europa

che divenne terreno di scontro tra le due superpotenze uscite vincitrici dalla

guerra (USA e URSS). Tuttavia l'analisi delle contraddizioni interne all'egemonia

esercitata dagli Stati Uniti in siffatto contesto storico induce a leggere le

dinamiche internazionali euro-atlantiche del secondo dopoguerra con occhi critici

e problematici, tentando di sottoporre a verifica i reciproci condizionamenti

politico-economici che gli Stati beneficiari dei fondi statunitensi – nonostante in

questa sede si privilegino per ovvie ragioni gli aspetti relativi all'Italia –

riuscirono a stabilire con l' “alleato americano”. Tale approccio analitico consente

di sviluppare, grazie ai contributi esistenti sul tema, una percezione della

“collaborazione” europea meno appiattita sulla “ovvietà” della preponderante

influenza degli Statunitensi (anch'essi divisi al proprio interno tra “scettici” e

“fautori” del progetto di integrazione economico-politica del Vecchio continente),

e invece più accorto a illuminare gli spazi di autonomia guadagnati da parte dei

Paesi europei.

Un'analoga prospettiva ha ispirato le successive (ovviamente non ancora

concluse) fasi del lavoro: in primo luogo si è tentato di cogliere sia le specificità

che caratterizzarono la parabola storica dell'OECE, sia il contributo che l'Italia

offrì al suo consolidamento durate le prime fasi della stagione repubblicana.

L'analisi approfondita di queste tematiche ha imposto al lavoro di ricerca un

parziale ripensamento dell'approccio metodologico che inizialmente si

immaginava di perseguire: se nelle prime fasi del lavoro di ricerca sussisteva

l'intenzione di ricostruire anzitutto la “mappa” (nomi, funzioni, ruoli,

appartenenze politiche) dei tecnici italiani impegnati nell'attività dell'OECE, la

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lettura dei documenti e la parallela articolazione di una più consapevole

contestualizzazione storica degli eventi hanno generato l'urgenza di verificare

concretamente l'effettivo “spessore decisionale” e la natura delle reali competenze

dei tecnocrati italiani. In altre parole, la direzione intrapresa durante il lavoro di

ricerca ha suggerito la preferibilità di coltivare uno sguardo il più possibile

“obliquo” nella individuazione degli obiettivi analitici a cui tendere, sia per non

considerare come scontato il “protagonismo” dei tecnici italiani nella specifica

dimensione istituzionale dell'OECE, sia per cogliere le diversità intrinseche a

questa mutevole e polifonica élite, la quale – pur esprimendo una certa

omogeneità in termini di cultura economica condivisa – agiva all'interno di

strutture tecniche e politiche dotate di caratteristiche e di obiettivi di segno

differente.

Tutto ciò ha motivato un ulteriore sforzo di “differenziazione”

nell'approccio allo studio di questi avvenimenti, proprio in quanto la ricostruzione

delle strategie perseguite dall'Italia e dai suoi partner evidenzia quanto fosse

complessa la stratificazione delle posizioni e delle sensibilità politiche presenti

all'interno di ogni singola compagine nazionale. Per ciò che concerne la

partecipazione dell'Italia alle attività dell'OECE, emerge ad esempio il clima di

tensione e di conflitto che alimentava la definizione delle posizioni e delle scelte

ufficiali di volta in volta adottate dal Paese in campo internazionale, producendo

uno scontro tra interessi coagulatisi intorno alle diverse strutture ministeriali – è

nota, ad esempio, la forte contrapposizione tra il Ministero dell'Industria, accorto

“protettore” delle prerogative dei produttori italiani con minore proiezione

internazionale, e il Ministero del Commercio con l'Estero, che fu protagonista

della stagione delle liberalizzazioni commerciali29 - che costituisce, a nostro

avviso, una delle evidenze storiche più interessanti relative al periodo della storia

repubblicana sul quale ci stiamo focalizzando.

Riservando un ultimo accenno alle fonti utilizzate e a quelle da utilizzare,

occorre notare come il “perno documentario” della ricerca sia costituito dalle

carte conservate presso l'Archivio storico del Ministero degli Esteri italiano: si è

fatto particolare riferimento al fondo DGAE (Direzione Generale Affari

Economici), dal cui ufficio dipendeva la composizione e la “direzione” della

29 Cfr. J.C. Martinez Oliva, M.L. Stefani, Dal Piano Marshall all'Unione europea dei pagamenti. Alle origini dell'integrazione europea, in F. Cotula,(a c. di), Stabilità e sviluppo negli anni Cinquanta, vol. I, L'Italia nel contesto internazionale, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 111-399.

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Delegazione italiana all'OECE; ovviamente anche i fondi del Gabinetto, degli

Affari Politici e delle ambasciate (in primis quella di Parigi) accolgono una

varietà di documenti che si sta rivelando fondamentale ai fini di questo lavoro. In

seguito sono state analizzate le carte del CIR (Comitato interministeriale per la

ricostruzione), della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Segreteria

particolare De Gasperi presso l'Archivio Centrale dello Stato (ACS). Questi

documenti hanno consentito di ricostruire i circuiti governativi e amministrativi

preposti alla gestione non solo del Piano Marshall, ma anche – e soprattutto –

delle strategie (e dei conflitti politici che attorno ad esse si dispiegavano) da cui

prese corpo l'azione politica italiana in seno all'OECE. Sempre all'intero dei fondi

custoditi presso l'ACS, sono state analizzate le carte di Ugo La Malfa (ministro

del Commercio estero nei primi anni '50), cruciali per lo studio della

liberalizzazione degli scambi, e quelle del Ministero dei Lavori Pubblici e della

Previdenza Sociale, coinvolto nella elaborazione delle politiche migratorie

italiane all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale. Un ulteriore

nucleo documentario si è rinvenuto tra le carte della Banca d'Italia, probabilmente

il vero centro propulsore (insieme con il Tesoro) della politica economica del

Paese in quegli anni30: sfogliando le carte del Fondo Caffè, del Direttorio

Menichella e del fondo Studi, risalta il ruolo decisivo assunto dalle strutture

tecniche della Banca nelle dinamiche della ricollocazione internazionale

dell'economia italiana nel post-1945. Di grande importanza, inoltre, le carte

personali di Giovanni Malagodi (conservate presso la Fondazione Einaudi di

Roma), rappresentante della Delegazione italiana all'OECE e protagonista della

stesura dei dossier dell'Organizzazione riguardanti le politiche europee sulla

manodopera. Bisognerà recarsi all'archivio della Fondazione Einaudi di Torino

per analizzare le carte dell'ex Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, al fine di

restituire un quadro sufficientemente articolato della concreta applicazione in

ambito internazionale della cultura economica delle classi dirigenti post-fasciste

durante il periodo '47-'53. Infine si sono presi in considerazione, ancorché

parzialmente, i fondi (caratterizzati dalla presenza di una documentazione per lo

più “tecnica” e relativa ai verbali delle riunioni dei singoli comitati interni

all'OECE) riguardanti all'attività italiana nell'OECE contenuti presso gli Archivi

Storici dell'Unione Europea (Firenze), dove recentemente è stato inventariato un

fondo intitolato “Alcide De Gasperi”, del quale occorrerà prendere visione.

30 Cfr. R. Ranieri, L'Italia, la ricostruzione e il sistema internazionale, op. cit.

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Verranno infine consultate le carte conservate presso i rispettivi ministeri

degli Esteri di Francia31 e Gran Bretagna: le posizioni assunte dai maggiori player

interni all'OECE nei confronti dell'Italia consentirà di arricchire l'affresco

generale del quadro storico di cui ci si sta occupando. Partendo ad esempio dalle

vicende dell'Unione doganale italo-francese (1947-1949) - volta a regolare non

solo lo scambio di merci tra i due Paesi, ma anche a favorire il trasferimento nei

territori francesi di centinaia di migliaia di manodopera italiana “in esubero” -,

per giungere poi al “dietrofront” unilaterale praticato da Francia e Gran Bretagna

nel '51-'52 rispetto alla progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali

nell'area OECE (gli inglesi passarono dal 90 al 61%, i transalpini sospesero del

tutto, benché temporaneamente, le misure di liberalizzazione, scatenando le ire

dei rispettivi alleati, e in particolare dell'Italia), il quadro complessivo della

ricerca si potrà consolidare e problematizzare in maniera si spera soddisfacente,

offrendo una panoramica dettagliata e, come si diceva, “polifonica” del ruolo

svolto dall'Italia nelle strutture tecniche e politiche dell'OECE.

4. Approfondimenti e integrazioni: note a margine di una ricerca in corso.

Nonostante l'impianto complessivo della ricerca sia stato globalmente

delineato, bisognerà di certo accogliere suggerimenti esterni, osservazioni e

nuove acquisizioni – in termini contenutistici e metodologici – di cui ci si potrà

giovare fino alla conclusione del lavoro. Pertanto occorre sia continuare nel

percorso di lettura e di interpretazione delle fonti già individuate, sia allargare il

proprio sguardo a ulteriori interrogativi e a nuove piste di ricerca, in modo tale da

formulare in termini ancora più critici e approfonditi le domande – e le risposte,

per quanto provvisorie e parziali possano essere – a partire dalle quali la nostra

analisi sta prendendo corpo.

A questo proposito, sarebbe opportuno in primo luogo elaborare una più

articolata interpretazione del ruolo svolto dai tecnici italiani nell'ambito

dell'OECE e, più in generale, nel contesto della ricostruzione post-bellica. Senza

pretendere di sviluppare una vera e propria “prosopografia” della totalità del

personale tecnocratico coinvolto nell'esperienza dell'OECE - sia per una

questione di difficile reperibilità delle fonti relative a tutti i potenziali esperti

31 Per un breve excursus sulle carte francesi si rimanda all'ultimo paragrafo del testo.

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menzionati nelle fonti consultate, sia a causa della già menzionata “porosità”

della composizione della Delegazione italiana all'OECE, i cui membri variavano

molto rapidamente al variare dei dossier di volta in volta affrontati -, appare

significativo interrogarsi non solo sull'influenza più o meno considerevole

esercitata dai tecnici nella formulazione delle decisioni “ultime” adottate dagli

organismi politici italiani sia in ambito nazionale che in seno all'OECE, ma anche

sulle modalità concrete attraverso le quali la componente tecnocratica italiana

contribuì a definire a monte il “perimetro discorsivo” entro cui andavano

rintracciate le possibili soluzioni da adottare in materia di politiche di bilancio,

emigrazione, produttività, etc. In poche parole, risulterebbe interessante gettare

uno sguardo sul processo di definizione preliminare degli “approcci tecnico-

politici” (quasi a dire delle filosofie) mediante i quali l'Italia si impegnò nel

risanamento della sua situazione finanziaria, nella gestione del surplus di

manodopera presente sul territorio nazionale (una problematica che, come noto,

venne trattata prevalentemente come un ostacolo da superare tramite la

facilitazione dei flussi migratori verso l'estero), nella nuova stagione delle

liberalizzazioni commerciali intra-europee, nell'accettazione e nel successivo

riadattamento ai desiderata nazionali del paradigma della produttività. Il passo

successivo dovrebbe poi consistere nella constatazione dell'esistenza o

dell'assenza di un'effettiva consequenzialità tra, da un lato, le aspettative e i

programmi iniziali elaborati dai vertici italiani, e, dall'altro, i risultati ottenuti,

interrogandosi da un punto di vista storico intorno alla natura delle possibili

contraddizioni che maturarono nella macchina politico-burocratica italiana nel

contesto della partecipazione del Paese alla rinascita post-bellica dell'Europa.

In secondo luogo, lo studio del ruolo globale giocato dall'Italia in seno

all'OECE non potrà prescindere da una riflessione ben approfondita riguardo allo

spessore non semplicemente teorico, ma in primis politico del pensiero federalista

ed europeista sviluppato dalla leadership democristiana di quegli anni (De

Gasperi su tutti) e da altri importanti interpreti della stagione degli esecutivi

centristi (basti ricordare figura del Ministro degli Esteri dell'epoca, il

repubblicano Carlo Sforza). Come si è tentato di mettere in luce anche nelle

pagine precedenti, lo spirito europeista manifestato dai maggiori rappresentanti

istituzionali italiani non fu certo scevro da ampie dosi di strumentalità e di

convenienza politica, anche (ma non solo) a causa dei delicati equilibri

internazionali che si produssero dopo il 1945 a seguito della vittoria delle forze

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alleate e della conseguente affermazione dell'egemonia statunitense nel campo

occidentale, al cui interno figurava per l'appunto anche l'Italia post-fascista.

Tuttavia, pur constatando come la volontà dei vertici politici italiani di partecipare

alla ricostruzione economica, politica e finanche morale dell'Europa maturò non

semplicemente per questioni di disinteressata adesione ideologica, bensì anche

alla luce della evidente necessità di condividere un progetto politico continentale

che offrisse all'Italia gli strumenti concreti per tutelare i propri interessi nazionali,

risulta giocoforza necessario concentrarsi anche sulla sostanza politica del

progetto europeista e federalista della DC e dei suoi alleati. L'importanza, ai fini

della nostra ricerca, di approfondire le caratteristiche peculiari del pensiero

europeista emerso in seno gruppo dirigente centrista corrisponde, ancora una

volta, al bisogno di comprendere in che modo e secondo quali direttrici si

configurò in quegli anni l'intreccio tra le “istanze tecniche” e le “passioni

politiche” espresse dai protagonisti di quella stagione, nel tentativo di cogliere i

rispettivi spazi di autonomia, i reciproci gradi di influenza e, soprattutto, gli

intrecci – di fatto sempre presenti – che si produssero tra le prime (le istanze

tecniche) e le seconde (le passioni politiche).

Uno stimolo ulteriore all'irrobustimento contenutistico della ricerca

potrebbe maturare dall'utilizzo di altre fonti rispetto a quelle già indicate nelle

pagine precedenti. Oltre all'analisi delle carte conservate presso gli archivi italiani

– che ad ogni modo costituiscono la parte preponderante della base

documentaristica di questo lavoro – e allo spoglio delle fonti francesi e

britanniche, sarebbe estremamente interessante accedere agli archivi statunitensi

(ci si riferisce in particolar modo ai National Archives and Records

Administration, oltre ai documenti editi già disponibili nelle collezioni del

Foreign Relations of the United States), così da osservare in maniera più

ravvicinata le posizioni assunte da quella che fu di certo la forza egemone e

trainante all'interno del “nuovo ordine” geopolitico occidentale. Benché, allo stato

attuale della ricerca, sussistano comprensibili difficoltà di ordine materiale e

temporale rispetto alla possibilità di accedere alle carte americane, l'analisi diretta

della “voce” dei protagonisti statunitensi all'interno delle vicende della

ricostruzione post-bellica italiana ed europea arricchirebbe di certo la

rielaborazione storica di quegli anni, benché la storiografia esistente offra già, per

molti versi, un quadro analitico molto ampio e consolidato. Proprio a partire dalla

constatazione delle numerose divergenze interne alle varie componenti politiche e

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amministrative nordamericane (membri dell'Amministrazione Truman; Congresso

a maggioranza repubblicana; uomini della Economic Cooperation Administration,

l'agenzia americana incaricata di gestire in Europa gli aiuti previsti dal Piano

Marshall), lo studio dei fondi archivistici statunitensi relativi al ruolo italiano

nell'OECE consentirebbe di cogliere in tutta la loro complessità i rapporti

esistenti tra gli esecutivi guidati da De Gasperi e il Governo USA, entrambi

catturati – sebbene a partire da posizioni di forza alquanto differenti – all'interno

di equilibri politici internazionali molto delicati, dove non sempre l'attore

dominante (in questo caso gli Stati Uniti) riuscì a imporsi sull'alleato “minore”, e

cioè l'Italia, dove gli esecutivi democristiani riuscirono a sfruttare a proprio

vantaggio le proprie (vere o presunte) debolezze interne – come la presenza di

una forte componente comunista, che agli occhi del Governo italiano si sarebbe

potuta rafforzare se le condizioni economiche del Paese si fossero ulteriormente

aggravate -. Di qui le pressanti richieste di assistenza materiale e politica avanzate

da Roma nei confronti degli USA, i quali – alla luce degli equilibri interni italiani

e di quelli internazionali - non poterono sottrarsi alla necessità di sostenere un

“alleato scomodo”32 come la DC, la quale molto spesso, pur essendo consapevole

della natura delle richieste americane (come la stesura di progetti dettagliati e

specifici per l'utilizzo dei fondi del Piano Marshall, o la promozione di politiche

economiche più espansive di quanto non consentissero le scelte di Einaudi e

Menichella, orientate prevalentemente al raggiungimento del pareggio di bilancio

e alla lotta contro l'inflazione), non sempre vi si adeguò in maniera immediata.

Nonostante l'ipotesi di accedere nel corso della ricerca al materiale archivistico

statunitense non sia dunque del tutto scontata, resta però valida a nostro avviso lo

sprone a osservare più da vicino le posizioni assunte dai membri tecnici e politici

americani nel quadro più ampio del processo di ricostruzione economico-politica

dell'Italia e del continente europeo, terreno di lotta dello scontro bipolare USA-

URSS che caratterizzò, negli anni immediatamente successivi alla conclusione

del secondo conflitto mondiale, la stagione della Guerra Fredda.

32 Cfr. M. Del Pero, L'alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Roma, Carocci, 2001.

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Struttura provvisoria della tesi (capitoli previsti)

Il ruolo delle tecnocrazie: l'Italia e l' OECE nelle prime fasi del processo di integrazione europea (1947-1953)

Introduzione: La dimensione internazionale della ricostruzione

- Il reinserimento dell'Italia nel contesto occidentale: prospettive e interpretazioni

- Egemonia statunitense, Guerra fredda e Piano Marshall

- All'alba del potere democristiano: i primi passi della stagione del centrismo

1. L'adesione italiana all' OECE

- Dalla Conferenza di Parigi alla nascita dell'OECE

- La scelta europea e atlantica della Dc: le aporie della politica estera degasperiana

- Equilibri internazionali tra cooperazione e interdipendenza

2. L'Italia nell'OECE: strategie e contraddizioni

- Emigrazione e manodopera: le prerogative dell'Italia

- La “liberalizzazione manovrata” dei governi De Gasperi

- Piani di sviluppo e produttività: modernizzazione italiana e integrazione europea

3. “Visti dagli altri”: l'esperienza italiana nell' OECE osservata da Londra e da Parigi

- Un rapporto problematico: Francia e Italia alla prova della cooperazione

- Pregiudizi e contraddizioni nelle relazioni tra l'Italia e la Gran Bretagna

- Quale ruolo per l'Italia nell' OECE: un primo bilancio

4. Expertise tecnocratica e ricostruzione economica

- I protagonisti del reinserimento italiano nel contesto internazionale

- Esperti, tecnici, tecnocrati: una riflessione sul sapere economico “al servizio” della politica

- Autonomia e decisione: quale “spazio politico” per gli esperti italiani nella vicenda storica

dell'OECE.

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