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1 1 Scuola di Specializzazione all’Insegnamento nella Secondaria DIDATTICA DELLA FISICA (a cura di Mario De Paz ) In questo elaborato si discutono alcune questioni metodologiche riguardanti il problema dell’insegnamento e dell’apprendimento scientifico, fondamentali per avvicinarsi alla pratica scolastica in modo professionale. Il tentativo di queste dispense è quello di rimettere in discussione le credenze e le abitudini invalse nella nostra scuola, sia per quanto riguarda il modo in cui si insegna, sia sul ruolo e significato dei contenuti per lo sviluppo dell’educazione scientifica con particolare riguardo alla fisica, sia infine sulla valutazione del lavoro dell’insegnante e dell’apprendimento degli studenti. Viene contestualmente esaminata anche l’applicazione pratica di un modello costruttivista di tipo nuovo che mette in questione alcune pratiche molto consolidate nella didattica tradizionale. Per fare questo si ricorre alla lettura critica di testi e lavori di ricerca didattica apparsi nella letteratura internazionale e allo sviluppo di alcune idee originali che devono essere riguardate come opinioni dell’autore soggette a critica e discussione. Questo testo non pretende affatto di essere esaustivo del complesso problema del rapporto fra insegnamento ed apprendimento che coinvolge un enorme numero di variabili: si cerca almeno di affrontare e discutere alcuni principi generali che possono aiutare il futuro insegnante a capire le diverse situazioni scolastiche reali nelle quali si troverà ad operare e che non possono essere schematizzate ed incluse in un qualsiasi modello teorico. Ma la sensazione di questa complessità e la percezione della necessità di una cultura non standardizzata sono gli elementi su cui, nell’intento dell’autore, dovrebbe fondarsi sempre l’azione di un insegnante professionista. Rovesciamento dei paradigmi dominanti e costruttivismo. In un suo articolo intitolato “Secondary Science Teachers and Constructivist Practice”(“ Gli insegnanti di Scienze della scuola secondaria e la pratica costruttivista”) edito nel libro “ The Practice of Constructivism in Science Education”(“La pratica del costruttivismo nell’educazione scientifica”) Kennet Tobin Editor, Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale, New Jersey, 1993, James J. Gallagher inizia a questo modo: Recentemente, vidi su un autoadesivo applicato ad un paraurti la seguente scritta: ROVESCIATE IL PARADIGMA DOMINANTE. Mi domandai se quel piccolo pezzo di filosofia popolare contemporanea potesse avere qualche significato per il nostro lavoro nell’insegnamento delle scienze. Per esaminare il problema, mi chiesi, “Qual è il paradigma dominante nell’insegnamento secondario delle scienze?” Dato che il problema aveva dato forma a gran parte del mio lavoro di ricerca negli ultimi dieci anni, diedi la seguente risposta: L’insegnamento viene fatto coincidere con la trasmissione di informazioni agli studenti. L’apprendimento viene fatto coincidere con l’acquisizione di quelle informazioni, abbastanza frequentemente per memorizzazione. I voti assegnati all’apprendimento sono additivi , con lo scopo di determinare quali studenti abbiano acquisito con successo le informazioni. Il paradigma è così comunemente praticato nella scuola secondaria e nei corsi universitari di scienze che gli altri paradigmi hanno soltanto effetti di poco conto. Per la maggioranza degli insegnanti secondari negli Stati Uniti, la tradizione comportamentista-positivista, sottesa al

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Scuola di Specializzazione all’Insegnamento nella Secondaria

DIDATTICA DELLA FISICA (a cura di Mario De Paz) In questo elaborato si discutono alcune questioni metodologiche riguardanti il problema dell’insegnamento e dell’apprendimento scientifico, fondamentali per avvicinarsi alla pratica scolastica in modo professionale. Il tentativo di queste dispense è quello di rimettere in discussione le credenze e le abitudini invalse nella nostra scuola, sia per quanto riguarda il modo in cui si insegna, sia sul ruolo e significato dei contenuti per lo sviluppo dell’educazione scientifica con particolare riguardo alla fisica, sia infine sulla valutazione del lavoro dell’insegnante e dell’apprendimento degli studenti. Viene contestualmente esaminata anche l’applicazione pratica di un modello costruttivista di tipo nuovo che mette in questione alcune pratiche molto consolidate nella didattica tradizionale. Per fare questo si ricorre alla lettura critica di testi e lavori di ricerca didattica apparsi nella letteratura internazionale e allo sviluppo di alcune idee originali che devono essere riguardate come opinioni dell’autore soggette a critica e discussione. Questo testo non pretende affatto di essere esaustivo del complesso problema del rapporto fra insegnamento ed apprendimento che coinvolge un enorme numero di variabili: si cerca almeno di affrontare e discutere alcuni principi generali che possono aiutare il futuro insegnante a capire le diverse situazioni scolastiche reali nelle quali si troverà ad operare e che non possono essere schematizzate ed incluse in un qualsiasi modello teorico. Ma la sensazione di questa complessità e la percezione della necessità di una cultura non standardizzata sono gli elementi su cui, nell’intento dell’autore, dovrebbe fondarsi sempre l’azione di un insegnante professionista. Rovesciamento dei paradigmi dominanti e costruttivismo. In un suo articolo intitolato “Secondary Science Teachers and Constructivist Practice”(“Gli insegnanti di Scienze della scuola secondaria e la pratica costruttivista”) edito nel libro “The Practice of Constructivism in Science Education”(“La pratica del costruttivismo nell’educazione scientifica”) Kennet Tobin Editor, Lawrence Erlbaum Associates, Hillsdale, New Jersey, 1993, James J. Gallagher inizia a questo modo: “Recentemente, vidi su un autoadesivo applicato ad un paraurti la seguente scritta: ROVESCIATE IL PARADIGMA DOMINANTE. Mi domandai se quel piccolo pezzo di filosofia popolare contemporanea potesse avere qualche significato per il nostro lavoro nell’insegnamento delle scienze. Per esaminare il problema, mi chiesi, “Qual è il paradigma dominante nell’insegnamento secondario delle scienze?” Dato che il problema aveva dato forma a gran parte del mio lavoro di ricerca negli ultimi dieci anni, diedi la seguente risposta: • L’insegnamento viene fatto coincidere con la trasmissione di informazioni agli studenti. • L’apprendimento viene fatto coincidere con l’acquisizione di quelle informazioni,

abbastanza frequentemente per memorizzazione. • I voti assegnati all’apprendimento sono additivi , con lo scopo di determinare quali

studenti abbiano acquisito con successo le informazioni. Il paradigma è così comunemente praticato nella scuola secondaria e nei corsi universitari di scienze che gli altri paradigmi hanno soltanto effetti di poco conto. Per la maggioranza degli insegnanti secondari negli Stati Uniti, la tradizione comportamentista-positivista, sottesa al

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paradigma, è stata profondamente inglobata nella loro personale educazione, sia scientifica che per l’insegnamento. Questa tradizione ha costituito una parte così dominante nella scena dell’educazione scientifica a partire dalla scuola primaria fino alla conclusione degli studi da rendere strane e spesso sgradite le alternative come il costruttivismo. Nella tradizione comportamentista-positivista la conoscenza viene considerata come una opportunità che viene trasmessa agli studenti, i quali hanno la responsabilità di apprenderla in un modo che sia fedele. L’apprendimento viene spesso concepito come un processo di ricezione e ritenzione della conoscenza, e ben poca attenzione viene rivolta ai processi attraverso i quali avviene “l’acquisizione”. Il compito degli insegnanti viene usualmente visto come trasmissione della conoscenza scientifica agli studenti, ai quali rimane la responsabilità di apprenderla.” Queste parole di Gallagher esprimono in modo particolarmente efficace uno dei paradigmi dominanti nell’insegnamento, ma non tutti. Quali altri paradigmi occorre mettere in discussione e, all’occorrenza, rovesciare? La questione è complessa: per certo, non basta riconoscere che la cultura non può essere trasmessa verbalmente allo stesso modo delle informazioni per realizzare un ambiente di apprendimento adeguato. Sappiamo benissimo, anche se facciamo fatica a riconoscerlo, che dopo una lezione verbale (o anche assistita da mezzi audiovisivi, dimostrazioni, ecc.) pochissimi studenti sono in grado di ripeterne il contenuto in modo accettabile. Per raggiungere un grado di preparazione ragionevole rispetto ad una interrogazione tradizionale, dovranno studiare a casa, sul libro o sugli appunti, creandosi un modello individuale degli argomenti svolti durante la lezione o, come accade in molti casi, in modo totalmente acritico mandando a memoria il contenuto del libro o degli appunti. Quindi, per la maggior parte degli studenti la lezione assume il significato d’informazione su quello che lo studente dovrebbe memorizzare o ricostruire attraverso lo studio a casa, da solo o con alcuni compagni, con qualche elemento in più rispetto alla scarna indicazione “da pagina tale a pagina tal altra del libro di testo”. Diversa è la situazione in cui la lezione si riferisca ad argomenti che lo studente ha già interiorizzato, per cui forse, non volendo rovesciare completamente il paradigma di Gallagher, si potrebbe idealizzare un ambiente nel quale gli studenti si preparassero, sia da soli che in gruppo, a seguire la lezione prima che venisse svolta. Sappiamo quanto ciò sia praticamente impossibile con i ritmi e le abitudini ormai invalse nell’ambito del paradigma dominante: il professore “svolge il programma” e gli studenti sono tenuti ad “apprenderlo” studiando a casa e con pochissime opportunità di esporre e scambiare le proprie idee, le proprie concezioni. Di qui il diffuso disgusto per le discipline scientifiche, matematica e fisica in testa. E’ anche vero che molto dipende dalla personalità dell’insegnante, dal colloquio che riesce ad intrattenere con i suoi allievi, dai rapporti tra gli allievi, dalla qualità dei libri di testo, ecc., ma un rapporto educativo essenzialmente basato sulla trasmissione di conoscenze ha moderate probabilità di successo con la maggioranza degli studenti anche nelle migliori condizioni possibili. Vediamo cosa dice a proposito del rapporto con i libri un autorevole e discusso esponente del moderno costruttivismo Ernst Von Glaserfeld nel suo articolo “Questions and Answers about Radical Constructivism” (“Domande e risposte sul costruttivismo radicale”) contenuto nello stesso libro edito da Tobin. Domanda: “Come viene considerato dal costruttivismo un corpo di conoscenze comuni, come quelle contenute in un libro di testo o facenti parte di un campo specifico?” Risposta: “ E’ un’illusione che nei libri di testo o nei documenti sia contenuta della conoscenza. Essi contengono un linguaggio, formato da gruppi di parole, depositato in essi dagli autori. Le parole hanno significato per gli autori e per i lettori interpreti, ciascuno dei quali si è costruito un proprio significato soggettivo sulla base della propria esperienza personale. Sebbene questi significati individuali siano costrutti mentali che hanno subito un certo livello di adattamento sociale (dato che sono stati scambiati nelle interazioni fra

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soggetti che li usavano), essi rimangono soggettivi e, in un certo modo, mal tollerati e digeriti, fatto che non manca mai di venire a galla durante una discussione condotta seriamente. I testi non contengono né significato né conoscenza; essi costituiscono una sorta di scaffalatura sulla quale i lettori possono costruire le proprie interpretazioni” Anche se l’opinione di von Glaserfeld può apparire ad alcuni esagerata o addirittura insostenibile (come per esempio a molti filosofi della scienza che non riescono a digerire il soggettivismo e il dualismo), non c’è dubbio che le stesse parole assumano significati ed interpretazioni diverse per lettori diversi. Per esempio, nella traduzione dei brani che riporto in questo mio lavoro, ho dovuto più volte consultare altri testi e dizionari per introdurre termini che, a mio parere, potevano esprimere la mia interpretazione del testo. E sono sicuro che diversi lettori leggeranno ed interpreteranno le mie parole in modi diversi. Resta il fatto che quando proviamo a chiedere alle persone di ripetere con loro parole quanto hanno appreso da una lezione verbale o dalla lettura di un libro o di un testo scritto, assistiamo ad un incredibile festival di stravolgimenti concettuali, spostamenti di significati e mescolamenti di idee proprie. E anche quando il rapporto viene fatto in modo formalmente appropriato, è facile constatare che l’adesione passiva al modello trasmesso è soltanto superficiale. Con molto esercizio a casa, con l’uso della ripetizione, l’adesione diventa più completa e profonda, fino a produrre un trasferimento dei contenuti nella memoria dell’allievo, che però vive questo rapporto con le idee in modo sostanzialmente passivo. Anche per questa strada, comunque, l’individuo raggiunge una certa maturazione “canonica” e frequentemente ingrossa le file di coloro che pensano all’apprendimento come una conoscenza che viene trasmessa. Naturalmente, esistono eccezioni: tra coloro che hanno subito una scuola basata sulla trasmissione crescono anche individualità critiche in grado di riconoscere i difetti di una cultura non sempre ben digerita in omaggio ad una pretesa efficienza. In molti casi sarà ben chiara l’avversione ragionata per le discipline: non è infrequente, anche da parte degli organi ufficiali della Pubblica Istruzione, l’appello ad una maturità svincolata dal nozionismo. Tuttavia, le circolari diramate in tal senso vengono quasi sempre travolte da una pratica scolastica estremamente burocratizzata che è ormai abituata a condurre la trasmissione della cultura secondo schemi profondamente nozionistici (e non solo in campo scientifico). Il panorama degli individui è comunque complesso. Tra le persone che si adeguano con successo all’apprendimento di una certa disciplina alcune proseguiranno nello studio e nell’approfondimento di quella particolare disciplina, altre la depositeranno nel loro “bagaglio culturale”. Cosa succede se si prova a valutare il bagaglio culturale nelle discipline scientifiche ad una certa distanza di tempo dal termine degli studi? Le persone sembrano voler dimenticare le nozioni apprese con fatica a scuola e, tranne rare eccezioni, hanno un cattivo ricordo del loro rapporto con le scienze formali, molto migliore con quelle descrittive. Questo cattivo ricordo è talvolta stemperato da un buon giudizio dell’insegnante, talvolta invece acuito da un’irrefrenabile antipatia. Di nuovo, i rapporti interpersonali possono far variare la qualità dei giudizi a posteriori, ma ciò che più interessa, vale a dire IL VERO APPRENDIMENTO STABILE NEL TEMPO, finisce con il mancare nella maggioranza dei soggetti. La peggiore carenza non è comunque rappresentata dallo scarso residuo di conoscenze disciplinari rimasto a distanza nella memoria, ma è il sostanziale rifiuto da parte dei non specialisti a far uso di metodi d’indagine per costruire una propria conoscenza sui fatti della vita quotidiana, su quanto propongono ed attuano il mondo scientifico e della tecnologia. Qui prevale il senso d’incapacità, di sfiducia nei propri mezzi, di prona accettazione delle informazioni che provengono dai mass-media. La conoscenza scientifica e la sua comprensione vengono comunemente associate alla figura di scienziati famosi che operano in strutture irraggiungibili, esterne alla società. Recentemente, per esempio, il nostro popolo è stato incoraggiato ad accettare con fiducia i cibi transgenici da uno scienziato Premio Nobel per la

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Medicina dal palco del Festival di Sanremo. E lo ha applaudito senza capire fino in fondo il significato di quanto veniva detto. Esiste dunque un’esigenza di conoscenza diversa dai contenuti disciplinari, soprattutto di una CAPACITÀ INDIVIDUALE E COLLETTIVA DI COSTRUIRE CONOSCENZA IN MODO CRITICO. Ciò pone l’insegnante in una posizione cruciale: qualunque sia la sua scelta rispetto al modo di presentare gli argomenti della sua disciplina, egli deve essere cosciente che l’apprendimento è il risultato di un atto individuale di scoperta da parte dello studente mediato con la collettività che lo circonda. Occorre dunque adottare nuovi paradigmi che favoriscano questi atti di scoperta, ma soprattutto permettano agli studenti di costruirsi una conoscenza fortemente connessa con le proprie strategie di pensiero e condivisa con gli altri. In altre parole, creare un ambiente capace di dare vita ad un APPRENDIMENTO DI ALTA QUALITA’ in relazione a problemi che vengono posti ai soggetti dalla realtà circostante (e l’insegnante fa parte di questa realtà, anzi può esserne apprezzato protagonista). Nel lavoro prima citato di von Glaserfeld troviamo una domanda ed una risposta che si riferiscono al modo di affrontare la soluzione di problemi. La loro lettura può aiutare a formarsi un’opinione, sia pur parziale, sul modo di creare un ambiente di apprendimento favorevole. Si tenga comunque presente il fatto che la proposizione di problemi e la loro “soluzione” ha due facce ben distinte: da un lato esistono problemi tipicamente disciplinari ideati per spingere gli studenti ad utilizzare leggi e formule apprese a lezione o dai libri di testo, dall’altro, invece, problemi aperti (anche di contenuto disciplinare) che pongano lo studente in una situazione di ricerca. Nel primo caso si ricade facilmente nei famigerati (e odiati) esercizi ripetitivi che, se risolti, servono a dare l’illusione di aver capito un argomento o un gruppo di argomenti. Nel secondo caso, gli studenti sono indotti a formulare ipotesi, ad inventare strategie di approccio al problema, il cui valore di apprendimento consiste appunto in questo sforzo più che nella soluzione. Domanda: “Come viene influenzato il modo di risolvere i problemi dal costruttivismo?” Risposta: “Permettendo agli studenti di scoprire che risolvere problemi è divertente, noi influenziamo le loro tecniche di soluzione dei problemi stessi. Non vi sarà divertimento se l’insegnante starà sempre lì a controllare gli studenti in modo che essi imbrocchino la strada “giusta” per arrivare alla soluzione “giusta”. Gli studenti spesso seguono percorsi totalmente inaspettati e al di fuori di quelli convenzionali per ottenere una soluzione che è abbastanza valida, ma forse limitatamente applicabile. Se l’insegnante non rispetta ciò, dimostra di non aver capito le cause dell’attuale stato dell’insegnamento. E’ per questo che, specialmente per quanto riguarda le scienze, considero indispensabile che gli studenti abbiano l’opportunità di percepire la lunga storia di stupendi fallimenti” Le parole di von Glaserfeld lasciano trasparire una certa preoccupazione dell’autore per il ritrovamento di una soluzione al problema, almeno “valida”. Una simile impostazione rende la posizione dell’autore assai meno “radicale” di quanto venga definita all’interno dei diversi “costruttivismi”. E qui veniamo all’individuazione di altri paradigmi dominanti da rovesciare che Gallagher ha lasciato inespressi e che, almeno per quanto riguarda il secondo, neppure von Glaserfeld mette in dubbio: • Scienza = Verità • Conoscenza scientifica = Coerenza Sul primo paradigma si sono accentrate molte critiche da parecchio tempo e, in effetti, anche Gallagher e von Glaserfeld esprimono dissenso rispetto al neopositivismo dominante nei fatti quando si parla di trasmissione delle conoscenze. Le discipline formali vengono presentate come “giuste” ed ogni altro pensiero, difforme dalle concezioni “ufficialmente riconosciute”

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viene marchiato come “erroneo”. Su questa difformità fra le concezioni spontanee delle persone e le asserzioni della scienza è stato scritto molto e sono stati costruiti nuovi paradigmi. A partire dagli anni sessanta in cui il fisico Karplus sosteneva che le concezioni sbagliate dovevano essere distrutte fin dalla prima infanzia, fino ai giorni nostri in cui esistono scuole di pensiero che accettano l’esistenza delle concezioni spontanee, le discutono e tendono a sostituirle con le “concezioni buone” delle discipline scientifiche basandosi su dimostrazioni di incoerenza. In ambito costruttivista si parla di “cambiamento concettuale” come risultato dell’insegnamento, intendendo con ciò (sia pure con varie gradazioni) la definitiva vittoria di un corretto pensiero scientifico sul rozzo pensiero spontaneo. Ma anche questo atteggiamento è sottilmente neopositivista ed assegna alla scienza un valore superiore ad ogni altra concezione. Forse anche questo paradigma dominante è da rovesciare (come vedremo più avanti, per questa ed altre ragioni). Per esempio, von Glaserfeld dimostra la sua soggezione all’idea di “scienza giusta” e di “cambiamento concettuale” dicendo: “Qualunque cosa uno studente dica rispondendo ad una domanda (o problema) è quello che per lo studente è sensato in quel momento. Deve essere preso seriamente in considerazione tale e quale, senza preoccuparsi di quanto strano ed “errato” possa apparire all’insegnante. Sentirsi dire che sbaglia è molto scoraggiante e demotivante per lo studente. In più, prendendo in considerazione il modo in cui lo studente ha interpretato la domanda, può accadere che la sua risposta sia buona. Se gli insegnanti vogliono modificare i concetti o le strutture concettuali di uno studente, devono cercare di costruire un modello del modo di ragionare particolare dello studente stesso. Naturalmente i modelli di ragionamento degli studenti possono essere generalizzati, ma prima di assumere che lo studente appartiene ad uno schema generale, si dovrebbe avere una forte evidenza che si tratta di un’assunzione valida per il caso particolare. Non si deve mai pensare che i modi di ragionare degli studenti siano semplice o evidenti.” Per comprendere le conseguenze pratiche di una scuola di pensiero dominante che (con le buone o le cattive maniere) crede di poter distruggere o modificare i pensieri “errati” individuali, è sufficiente esaminare cosa è accaduto nelle scuole elementari americane che hanno in gran parte seguito i consigli di Karplus adottando l’attraente progetto SCIS del quale egli era ideatore insieme ad altri scienziati di grande autorità. Il progetto, centrato sull’uso di materiali poveri molto ben strutturati, proponeva una serie di attività sperimentali, molte delle quali formano tuttora oggetto di “unità didattiche” usate nelle scuole non solo americane, tese alla dimostrazione dei principi base delle scienze con l’intento di inculcarli amichevolmente nelle menti dei giovanissimi utenti nel modo “giusto”. E’ difficile pronunciarsi sull’esito prodotto da ciò sui singoli individui, certamente l’effetto collettivo è stato quello di far decrescere pesantemente le iscrizioni ai corsi di scienze negli anni successivi. Ai tempi di Karplus c’era chi, come Hawkins, si opponeva all’idea di scienza come “modo di vedere chiaro” nella realtà che ci circonda e proponeva un approccio critico all’insegnamento delle scienze partendo dal mondo del bambino, ma questo modello risultò perdente. E forse è ancora tutt’oggi perdente nel mondo. In Italia le sole scuole realmente esenti da un modello tipo Karplus sono quelle della prima infanzia dove la proposizione di argomenti scientifici strutturati è resa impossibile dall’età degli alunni. Già nelle elementari è diffuso il malessere di maestri che si sentono “ignoranti” nelle discipline scientifiche e perciò “incapaci” di insegnarle correttamente. Il problema viene posto ancora una volta sotto forma di “verità non ascoltate” piuttosto che sotto forma di “abitudine allo sviluppo di un pensiero autonomo” quale emergerebbe da un modello costruttivista attuato fino in fondo. La stessa scuola di pensiero ed azione già propugnata una quarantina di anni fa dal Movimento di Cooperazione Educativa che si rifaceva alle teorie pedagogiche di Freinet centrate sull’ascolto del bambino e quindi concettualmente costruttiviste ante-litteram , dimostrò nei

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confronti delle scienze gli stessi limiti e gli stessi complessi d’ignoranza imposti dal paradigma dominante Scienza = Verità. Il risultato è stato che, salvo rare eccezioni, la cultura scientifica è stata poco e mal praticata nelle nostre scuole primarie, mentre si è data maggiore importanza a quella umanistica. La massima disaffezione per le scienze si afferma nelle scuole medie inferiori per consolidarsi definitivamente oppure modificarsi nella scuola superiore. Quale elemento può indurre ad amare le scienze dopo aver imparato ad odiarle? Anche se può sembrare strano, proprio il rifiuto del paradigma dominante da parte dell’individuo pone i germi di una scoperta successiva che conduce all’affermazione di un pensiero scientifico creativo in un’età ormai libera dalle angustie dello sviluppo. Messa in questo modo la questione sembra quasi un invito a continuare con il paradigma odiato per stimolare la reattività degli individui, ma non si vede perché ritardare tanto i piaceri delle scoperte individuali rimandandoli all’età adulta. I bambini fin da piccoli hanno bisogno di conoscere: sta a noi il compito di stimolarli a sviluppare un proprio modo di costruirsi la conoscenza e di imparare ad apprendere in modo attivo rapportandosi con gli altri. Ma cosa apprendere? Forse soltanto le scienze rigidamente strutturate in forma accreditata ufficialmente? Oppure a leggere il mondo circostante formandosi dei modelli flessibili di ciò che accade? E, a questo proposito, entra in gioco l’altro pezzo del paradigma:

Scienza = Coerenza. Chiunque conosca a fondo le discipline scientifiche sa che nessuna di esse, inclusa la Matematica, è coerente fino in fondo. La coerenza logica assoluta è impossibile. Dobbiamo accontentarci di una coerenza relativa, eppure sembra impossibile accettare l’esistenza di idee contrastanti fra loro nel pensiero individuale. Nel ragionamento scientifico l’incoerenza viene bandita come la peste. Questo atteggiamento, che può avere una sua motivazione nel momento in cui si struttura un corpo disciplinare (con l’idea di unirlo coerentemente ad altri corpi momentaneamente separati), è nocivo durante la fase della ricerca e della scoperta dove le idee in contrasto fra loro devono trovare necessariamente spazio. E’ noto che le nuove scoperte in campo scientifico nascono da intuizioni che vengono successivamente inquadrate logicamente. Spessissimo tali intuizioni sono basate su modelli del tutto incoerenti con l’oggetto della scoperta, su analogie, su divagazioni fantastiche del cervello umano molto lontane dalla coerenza logica. Eppure, sono gli atti insostituibili della nostra conoscenza, che vanno coltivati ed incoraggiati, non repressi. Una mente giovane che apprende costruendosi la propria conoscenza ha un proprio modo di sviluppare strategie di pensiero molto più vicino all’intuizione che alla coerenza logica, anche se ogni affermazione che egli fa ha una sua motivazione. La capacità di ascolto dell’adulto che ha il compito di istruirlo è l’elemento fondamentale di un rapporto che permetta un dialogo costruttivo senza i secondi fini imposti dal bisogno assoluto di coerenza. Se l’insegnante cerca d’imporre criteri di coerenza troppo stretti finisce con il rigettare continuamente le idee ed i modelli mentali dello studente confinandolo al ruolo di ascoltatore. In definitiva, il bisogno di coerenza finisce con il coincidere con le strutture disciplinari familiari per l’insegnante, in netto contrasto con i modelli mentali dello studente, modelli ai quali è affezionato e che non intende abbandonare. Sappiamo, da studi ormai trentennali, che le concezioni spontanee degli individui sono indistruttibili (Karplus insegna!): se queste concezioni sono in contrasto con le idee che si sono affermate negli ambiti delle discipline formali, dobbiamo dunque continuare a tacciarle di erroneità e cercare di distruggerle in nome della coerenza? E’ facile constatare che perfino gli specialisti, gli scienziati, vivono (talvolta in modo ossessivo e nevrotico) il contrasto fra le proprie idee spontanee ed i risultati formalmente coerenti. Perpetuare questo contrasto non sembra opportuno, se si vuole indurre

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l’affermazione di un apprendimento di alta qualità (nel senso descritto prima). Occorre accettare serenamente l’esistenza delle concezioni spontanee senza cercare di distruggerle o sostituirle con altre ritenute migliori. Ma occorre anche lavorare affinché alle concezioni spontanee si affianchino altre concezioni, costruite individualmente e collettivamente, sia pure in contrasto rispetto a quelle spontanee. Tra queste nuove concezioni possono trovare finalmente posto anche i modelli scientifici disciplinari strutturati. Lo sviluppo di una simile strategia educativa richiede dunque l’accettazione di un PRINCIPIO D’INCOERENZA che, a mia conoscenza, viene qui proposto per la prima volta in campo scientifico e didattico e che non mancherà di essere tacciato d’eresia: “Nella conoscenza di una persona possono coesistere idee in contrasto logico fra loro. Tale situazione è non solo possibile, ma augurabile perché costituisce uno stimolo alla ricerca

creativa ed alla costruzione di nuova conoscenza” Si noti comunque il paradosso:

Il principio d’incoerenza nasce da una scelta coerente dettata dalle esperienze pregresse. Ma il paradosso trova una sua giustificazione all’interno del principio stesso. L’accettazione di questo principio mi induce peraltro a mettere in evidenza il fatto che noi stessi, come insegnanti, siamo attanagliati dal bisogno di coerenza logica. Questo bisogno è così radicato in noi tutti da accecarci e renderci troppo spesso incapaci di ascoltare le argomentazioni degli altri. Per questo è difficile accettare un principio d’incoerenza anche quando siamo convinti della sua utilità. Ma è proprio in questo contrasto fra il bisogno di coerenza e la necessità d’incoerenza che il principio di incoerenza si afferma e trae maggior forza Il bisogno di coerenza appartiene alle concezioni spontanee ed è perciò indistruttibile. Per quello che si è detto, le concezioni spontanee appartengono alla sfera irrazionale dell’Uomo e, in questo caso, sorge un altro paradosso che ritengo di mettere in luce per la prima volta, non essendomi mai capitato di leggere qualcosa di simile in letteratura:

Il bisogno di coerenza nasce da una scelta irrazionale e dà origine alla razionalità. Di nuovo, il paradosso rafforza il principio d’incoerenza e, al tempo stesso ci spinge a formulare una specie di antitesi, così difficile da accettare per i razionalisti convinti, ma che tiene anche conto del bisogno di coerenza: Non potremo dunque essere coerenti a tutti i costi, ma accettare una coerenza limitata che ci permetta di ragionare all’interno di schemi liberi con la possibilità di uscirne e modificarli senza per questo rinunciare a quanto abbiamo costruito precedentemente. Ne emergerà una varietà di schemi concettuali tanto ampia quanto la collettività e ne sortirà un arricchimento per tutti. L’elemento unificante di un simile processo dovrà essere il colloquio, la discussione delle idee, e quindi lo sviluppo di un linguaggio che ci permetta di capire noi stessi e gli altri riducendo al minimo i pregiudizi. Il ruolo dell’insegnante non sarà quello di “controllore di coerenza” delle discussioni (come lungamente sostenuto negli ambienti della ricerca didattica in campo scientifico), ma di stimolatore delle idee, di attento confronto fra di esse e di organizzatore degli scenari di apprendimento. In questo lavoro la coerenza delle idee tenderà ad assumere un ruolo prevalente dato che, per quanto si è detto, il bisogno di coerenza è un impulso spontaneo che non va represso, ma vi troverà posto anche un certo grado d’incoerenza. Non si vede infatti perché una concezione spontanea in contrasto con il risultato di un esperimento debba mettere in crisi il portatore della concezione e convincerlo che è “errata”. Nulla impedisce di accettare la coesistenza di idee contrastanti nello stesso individuo: l’incoerenza merita di essere rivalutata anche se giustamente non viene di fatto assunta come metodo sistematico di lavoro. L’incoerenza, in un ambito nel quale prevale una metodologia spontaneamente coerente, permette l’ampliamento del quadro culturale, la creatività, l’apprendimento attivo, critico e stabile.

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A ben pensarci, il bambino che nei primi anni di vita struttura il proprio linguaggio in modo altamente intuitivo è protagonista di una vicenda analoga a quella descritta, senza insegnanti investiti ufficialmente del titolo, ma insegnanti di fatto nelle persone (adulti e bambini) che formano il suo ambiente e con le quali interagisce e che possono aiutarlo a crescere parlando con lui. La qualità della sua strutturazione dipenderà in modo cruciale dalla qualità dell’ambiente in cui va crescendo e dai colloqui che avrà ascoltato o fatto con adulti. Analogamente dovrebbe operare la scuola: aiutare una strutturazione costruita individualmente attraverso il contatto con gli altri per realizzare un sapere individuale e collettivo. E questo sapere dovrebbe includere il modo di fare scienza. Il compito di un insegnante che si occupi di questo a livello di scuola secondaria viene quindi delineandosi in una forma abbastanza diversa da quella cui siamo abituati dalla tradizione. Ruolo del linguaggio. La maggior parte dei problemi che sorgono nell’insegnamento sono legati al linguaggio. La crescita della cultura di specie, che dipende dal rapporto fra le generazioni successive ed, in sostanza, dall’insegnamento è profondamente connessa con la nascita e la crescita dei linguaggi, con la comunicazione. Vediamo cosa dice von Glaserfeld a questo proposito. Domanda: “Dove e come viene insegnato il linguaggio?” Risposta: “Io direi che i fondamenti del linguaggio non vengono insegnati affatto: i bambini lo apprendono da soli. Non potete insegnare il linguaggio ad un bambino di due o tre anni. Potrete ogni tanto essere capaci di mostrargli l’uso di una parola nuova, ma perfino questo è spesso destinato a non produrre gli effetti desiderati. Più tardi, interazioni specifiche possono servire a concentrare l’attenzione su difficoltà linguistiche particolari. E’ per questo che insegnare il linguaggio in uno stadio successivo correggendo ciò che i bambini dicono assume un’enorme importanza. Sfortunatamente, questo aspetto è stato trascurato perché i genitori non hanno più ampie conversazioni con i loro figli. La conversazione è stata sostituita dalla televisione e la televisione, essendo legata al profitto connesso con i più bassi livelli di alfabetizzazione, raramente offre un modello di buon linguaggio. Ma, allora, potreste obiettarmi che molto linguaggio potrebbe essere appreso dai dizionari. Questi, tuttavia, contengono definizioni che sono semplicemente altre parole. Essi non forniscono la necessaria esperienza dalla quale possa essere estratto il significato. Essi non ci danno nuovi elementi cognitivi, ma soltanto nuove combinazioni di elementi che già possediamo. In generale, il linguaggio si apprende durante l’interazione con altre persone che parlano, dato che parlare è una forma d’interazione, e si modificano parole ed espressioni ogni volta che si riescono ad ottenere i risultati sperati. Di conseguenza al fatto che una classe sia interattiva, si contribuisce alla crescita linguistica degli studenti e si offre loro l’opportunità di sottoporre a prova l’uso delle parole in relazione alle esperienze cui esse si riferiscono. E’ questo il motivo per cui è importante mettere gli studenti in condizioni di affrontare esperienze dalle quali essi possano apprendere.” Queste parole mettono lucidamente in evidenza le origini della scelta costruttivista che prendono forza dalla constatazione (come già accennato in precedenza) che i bambini nella loro prima infanzia apprendono con enorme efficacia costruendosi la conoscenza del mondo in cui vivono, ma soprattutto il linguaggio per comunicare, senza specifici interventi degli adulti. O meglio, la presenza degli adulti è necessaria per realizzare i contatti sociali ed affettivi che rendono possibile questa formidabile opera di costruzione individuale. In altre parole, le scoperte di apprendimento, pur essendo frutto di atti individuali insostituibili, trovano il loro alimento nel rapporto con gli altri. Di qui il concetto di sapere costruito individualmente in relazione alla collettività.

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Ma nelle parole di von Glaserfeld troviamo anche elementi in favore di un ruolo crescente dell’adulto insegnante, non tanto come trasmettitore di conoscenze strutturate, quanto come stimolatore dell’apprendimento. La qualità del modo di parlare ed interagire fra adulti e bambini è infatti alla base delle notevoli differenziazioni sociali della cultura, del modo di esprimersi e di rapportarsi con gli altri, di costruire cultura nuova. Nell’insegnamento scientifico la costruzione di un linguaggio comune comprensibile a tutti assume un’importanza cruciale. Eppure, l’unica strada finora percorsa nell’insegnamento delle scienze, in particolare della MATEMATICA e della FISICA, è consistita nel contemporaneo uso e/o rigetto delle parole di senso comune in relazione agli schemi disciplinari consolidati. Allo studente non rimane che imparare nuovi significati simbolici associati a parole che già conosce o a parole nuove. Ma tali significati possono essere interiorizzati solo una volta che la disciplina sia stata appresa. Ne consegue un processo di incomprensione che si mangia la coda: non si apprende il nuovo linguaggio prima di aver appreso la nuova disciplina, che non si può apprendere senza aver appreso il linguaggio. Ma i termini di questo processo sembrano sfuggire alla maggioranza degli insegnanti che insistono con le buone e con le cattive maniere a “passare” il nuovo linguaggio come premessa alla disciplina, senza preoccuparsi del fatto che il nuovo linguaggio non può essere altro che mandato a memoria. Di qui il clamoroso dualismo fra modo di interloquire e parlare nella vita extrascolastica rispetto al modo di interloquire e parlare nella scuola fra allievi ed insegnanti. Una specie di schizofrenia della cultura che non giova certamente alla crescita della specie e alla vita degli individui. La costruzione di un linguaggio è quindi un aspetto da non sottovalutare nella didattica di una disciplina. Nuovamente, visto che la trasmissione non è possibile e lo studio avulso da una partecipazione interiore produce risultati poco interessanti, occorre ideare strategie nuove rispetto a quelle tradizionali. La risposta può essere trovata esaminando il modo in cui si costruiscono via via i concetti nella mente di coloro che apprendono (e fra questi, l’insegnante stesso): se si chiede ad una persona di descrivere un qualche evento al quale ha assistito, inevitabilmente essa userà parole del linguaggio comune. La descrizione potrà essere più o meno efficace, ma non mancherà di suscitare domande e precisazioni da parte di altri che abbiano visto lo stesso fatto o che invece stiano provando a costruirsene un’immagine senza averlo visto. Potrà accadere che nella descrizione e nella discussione che ne segue vengano avanzate ipotesi sia sul come si sia verificato, sia sul come possa essere modificato l’evento in questione. Di nuovo verranno adoperate parole il cui significato assumerà un valore contestuale alla discussione in corso. Potrà accadere che per indicare la stessa cosa vengano usate parole o circonlocuzioni diverse. Una volta chiarito che si tratta dello stesso oggetto, bisognerà scegliere tra questi diversi modi e concordare un termine da usare nel seguito per evitare confusioni e fraintendimenti. Un linguaggio comune (locale) verrà lentamente costruito insieme alla conoscenza del fatto preso in esame. Tale costruzione sarà stata resa possibile soltanto dal colloquio, dalla discussione fra gli individui e produrrà risultati difficilmente dimenticabili. Per sua stessa natura di comunicazione il linguaggio è un momento di conoscenza collettiva e non può essere sostituito da atti di autorità (repressione dei termini “sbagliati” e loro sostituzione con quelli “ufficiali”). In ogni caso, anche il linguaggio disciplinare verrà prima o poi introdotto o dall’insegnante, o dalla lettura di libri, o dagli alunni stessi in forma propositiva all’interno della classe, contribuendo in tal modo ad una sua progressiva affermazione (affiancata al linguaggio comune). Applicazioni alla pratica. Quali azioni collettive può utilmente suscitare un insegnante di scienze per far crescere il linguaggio e con esso la conoscenza?

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Innanzitutto, egli può stimolare lo sviluppo di discussioni presentando fatti interessanti che richiedano una descrizione e l’avanzamento di ipotesi. L’interesse è un elemento fondamentale di questo processo. Ma è anche importante lo “scenario” preparato dall’insegnante per presentare il fatto da discutere. Lo scenario include alcune “chiavi di lettura” che servono a dare un indirizzo iniziale alla discussione. La scelta di chiavi di lettura è inevitabile. In assenza di queste, l’osservazione degli stessi fatti rimane individuale e limitata a chiavi di lettura del tutto inconsapevoli. Per esempio, ad un livello iniziale di contatto con la classe, se accompagniamo gli studenti lungo un certo itinerario senza chiedere loro in anticipo di osservare in un certo modo quanto cade sotto i loro occhi, la descrizione delle loro osservazioni al termine del percorso saranno estremamente varie e in gran parte superficiali. Se invece si forniscono loro in anticipo chiavi di lettura particolari (per esempio l’osservazione di quali e quanti tipi di foglie vedano o possano raccogliere durante il percorso o quali oggetti siano in movimento), i risultati saranno ben diversi. Se invece i fatti da osservare vengono proposti mediante uno scenario artificiale preparato in classe o in laboratorio, la proposizione della chiave di lettura è insita nello scenario stesso che obbedisce ad una scelta anticipata da parte di chi lo ha preparato. Nel fare questo esistono diversi livelli che dipendono da quanto è stato fatto in precedenza. Mano a mano che la conoscenza individuale e collettiva cresce, il livello propositivo ed il linguaggio di partenza verranno modificati per aiutare una crescita costante del livello stesso. Per esempio, se si appende una molla con attaccato un peso ad un supporto e si chiede di osservarla e descriverla, le chiavi di lettura sono implicitamente suggerite dalla richiesta di attenzione su quel particolare. L’insegnante (facendo in tal modo crescere il livello del suo intervento) potrà stimolare ulteriormente gli studenti sul piano metodologico chiedendo loro di individuare le “variabili” importanti coinvolte nel fatto che viene mostrato, di avanzare ipotesi sui loro effetti e su possibili relazioni fra di esse, progettare ed eseguire esperimenti, ecc. Questa stimolazione alla ricerca di variabili e cause ed al confronto con i fatti che accadono obbedisce al bisogno di coerenza e di razionalità che fa parte della mente umana. L’eccessivo accento su questo bisogno ha portato, come detto prima, ad un diffuso disgusto per le scienze tra gli studenti poco portati all’accettazione di linguaggi strutturati in contrasto con quello comune. E’ quindi giusto criticare un certo modo acritico e strettamente disciplinare di “risolvere i problemi” come spesso si tende a fare nelle nostre scuole, ma non sarebbe giusto far scomparire ogni forma di razionalità dal lavoro scolastico. Si tratta invece di esaltarne il significato attraverso un lavoro attento e creativo. La scelta del principio d’incoerenza non significa affatto rinunciare al bisogno di razionalità ed alle sue conseguenze nell’apprendimento, ma al suo utilizzo sensato. Il principio d’incoerenza afferma soltanto che all’interno di ogni individuo è accettabile la presenza e l’affiancamento di concezioni non coerenti fra loro. Nell’ambito di ricerca su un fatto, la sua descrizione richiede inevitabilmente la definizione di variabili e di relazioni fra di esse, senza le quali la costruzione di una conoscenza scientifica non è possibile. Partendo dal presupposto che le concezioni spontanee non possano essere distrutte, la crescita della conoscenza scientifica permetterà di utilizzarle al meglio, di riconoscerle e di sceglierne l’uso in base ai contesti opportuni, di affiancare ad esse nuove concezioni costruite in modo razionale. In sintesi, un lavoro teso alla consapevolezza degli schemi concettuali che emergono nel contesto e collettivo, in modo da favorirne la strutturazione individuale e quindi l’apprendimento stabile. Un elemento importante (ma non esclusivo) di questo processo di costruzione è la proposizione di espressioni matematiche atte a descrivere in forma simbolica le ipotesi avanzate verbalmente e/o i dati degli esperimenti. Il linguaggio simbolico crescerà insieme a quello verbale e l’attività in matematica potrà essere associata utilmente allo studio della fisica (e di altre scienze). La matematica che si usa per descrivere o prevedere i risultati di un

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esperimento ha, rispetto alla matematica astratta, peculiarità che vanno ben comprese per trarne la massima efficacia nel lavoro educativo. Troppo spesso la fisica viene insegnata come una sottospecie di matematica, con teoremi, corollari e tutto il resto, la cui coerenza viene guastata da difetti ineliminabili come l’imprecisione degli esperimenti e la provvisorietà delle ipotesi. Occorre invece aver chiaro il ruolo di linguaggio al servizio dei modelli della realtà che la fisica si propone di costruire attraverso il confronto fra idee ed esperimenti. Una parte di questo ruolo specifico viene assolta dall’analisi dimensionale delle formule matematiche utilizzate che richiede l’omogeneità dei termini costituenti le relazioni stesse. Non meno importante è però l’attribuzione di significato fisico operativo ai simboli utilizzati nelle formule. Questo secondo aspetto permette di effettuare distinzioni fra formule puramente descrittive dei dati sperimentali (come i polinomi adatti ad esprimere in forma continua un insieme di dati discontinui mediante parametri aggiustabili senza significato fisico immediato) e leggi empiriche (relazioni relativamente semplici i cui parametri assumono un significato fisico immediato). Nello sviluppo di un modello, invece, si parte da un certo numero di assunzioni che costituiscono la base di una teoria e si deducono leggi e relazioni da confrontare con l’esito di esperimenti. Anche qui la matematica assume i connotati di strumento di servizio utilizzato in un ambito teorico predittivo. E può aiutarci a definire le condizioni in cui condurre esperimenti, ad ottimizzare l’efficacia degli apparati, a fare attenzione a variabili i cui effetti possano essere significativi, il tutto nei limiti imposti dal modello di partenza. In un approccio iniziale all’insegnamento della fisica l’esposizione di un modello teorico con tutto il suo carico di linguaggio simbolico è sicuramente da evitare. Abbiamo visto come lo scenario di partenza possa essere attuato su fatti sperimentali che permettano la graduale costruzione di un linguaggio descrittivo che possa essere trasformato in simbolico attraverso la scrittura di relazioni matematiche (e qui la ricerca di coerenza avrà il predominio anche se il lavoro avrà modo di mettere in luce molte incoerenze nel modo di pensare con risultati inaspettati). Nel seguito, dopo la discussione, si potrà esaminare come lo stesso problema viene presentato su un libro di testo e confrontare i linguaggi verbali e simbolici adoperati in classe con quelli del libro. E si potrà stimolare la curiosità verso la costruzione di modelli che permettano di inquadrare quanto osservato in ambiti più ampi di quello offerto dallo scenario del laboratorio. Se poi si fa in modo che la molla oscilli in su e in giù, lo stesso scenario viene modificato ancora proponendo altre chiavi di lettura ed altre variabili. La discussione prenderà una piega ben diversa rispetto a prima. Se, infine, l’insegnante spiega fin dall’inizio per filo e per segno cosa succede secondo lo schema disciplinare, rovina tutto quanto e ben difficilmente riuscirà a cavare dal suo intervento qualche vantaggio. Gli esperimenti suggeriti per “verificare” lo schema proposto saranno stucchevoli e scontati nell’esito. Eventuali scostamenti dei dati rispetto alle previsioni verranno attribuiti agli errori di misura ed alla scarsa capacità manuale degli operatori, ecc. Qualche esperimento “non riuscirà”. Scenario e modo di porsi dell’insegnante sono elementi di base di una didattica tesa alla costruzione di un linguaggio e di conoscenza. L’obiezione più comune alle metodologie d’intervento nelle quali si proietta l’iniziativa del discorso sugli allievi è che “ci vuole troppo tempo”. Non c’è dubbio che l’esperimento della molla spiegato in anticipo dall’insegnante venga eseguito in un tempo minore rispetto alla metodologia descritta. Ma, rinunciando al coinvolgimento degli allievi, li si induce alla passiva accettazione di quanto viene proposto e si dà loro l’impressione che l’esito degli esperimenti sia scontato in anticipo. Niente è più deleterio di una simile situazione per l’apprendimento. Purtroppo, accade spesso che anche in laboratori ad alto livello come quelli universitari, le esperienze vengano presentate in modo che sia inutile farle. L’esito scontato

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permette a studenti molto “preparati” di scrivere una relazione contenente dati inventati usando le formule contenute nella traccia fornita dall’insegnante. Relazioni ottenute in tal modo, senza alcun sapere costruito né esperienza pratica fatta, ricevono il massimo dei voti. A che pro uno studente dovrebbe faticosamente fare un esperimento imperfetto che difficilmente riuscirà? Il limite superiore di un simile atteggiamento mi è stato proposto diversi anni fa da un insegnante di scuola media molto impegnato che pretendeva di costruire “esperimenti perfetti” da far compiere ai propri allievi per “dimostrare” la validità delle “leggi fisiche”. Atteggiamenti del tutto simili sono piuttosto comuni da parte di insegnanti che lamentano l’insuccesso degli esperimenti. In realtà, gli esperimenti dicono sempre qualcosa, ma quasi mai corrispondono alle aspettative di chi li prepara: ciò dipende soprattutto dal modo acritico e contestuale di prepararli, per cui uno crede di misurare una cosa e ne sta misurando un’altra (o un insieme di altre). Questo assurdo bisogno di dimostrare coincide con le idee dominanti

SCIENZA = VERITA’ e SCIENZA = COERENZA. Assumiamo dunque che per fare un lavoro sensato a scuola occorre un certo tempo, soprattutto per iniziare un certo tipo di colloquio tra e con gli studenti. Se si supera positivamente questa fase, tutto il lavoro successivo può rivelarsi più facile e più rapido: la cosa importante da prendere in considerazione è che non tutti gli studenti hanno le stesse capacità e che il lavoro di crescita individuale non è mai pari a quello collettivo. Né possiamo aspettarci che un individuo di medie o basse capacità diventi un genio. Le qualità delle persone in un certo ambito possono essere messe in luce o represse dall’insegnamento e dal diverso coinvolgimento delle persone stesse, ma non possono essere grandemente modificate in meglio. Il problema è quindi quello del coinvolgimento personale (l’interesse) e delle pretese dell’insegnante (giudizio). L’azione dell’insegnante dovrà essere valutata sulla base dello sviluppo dell’apprendimento in relazione alle capacità individuali, tenendo presente che anche gli studenti a livello più basso possono dare un contributo alla crescita collettiva del sapere nella classe, intendendo per “sapere” la capacità di riconoscersi nel lavoro svolto sia individualmente che collettivamente. E l’insegnante è parte integrante della classe e dello sviluppo del suo sapere. Anch’egli apprende insieme ai suoi allievi ed è in grado di giudicarne i progressi dall’interno del processo e non in modo vuoto e meccanico come nei test vero/falso. Un altro elemento da tener presente è che non sempre si riesce ad attuare nei fatti un modello che a parole si ritiene corretto. La tentazione di tornare alla lezione verbale è forte: il problema è di saperla dosare. Come ho fatto rilevare all’inizio di queste note, la lezione verbale ha successo se l’uditorio è pronto ad ascoltarla. L’insegnante nella classe è indubitabilmente il portatore di sapere strutturato (da non confondersi con quello destrutturato degli allievi e destinato a strutturarsi solo parzialmente): la sua azione sarà quindi formata da momenti di stimolo della discussione e momenti di ricapitolazione del lavoro svolto e di proposizione di schemi alternativi. In questa seconda fase la struttura della disciplina potrà trovare posto crescente senza mai reprimere il contatto con le altre culture, quelle individuali, tutte diverse fra loro e tutte portatrici di sapere collettivo. Un simile traguardo potrà essere forse raggiunto solo in modo parziale, ma sicuramente l’azione tesa a valorizzare i singoli in un contesto di gruppo ridurrà la voragine che oggi divide il sapere scientifico dalla collettività. L’azione costruttivista dovrebbe essere considerata sotto questo profilo più che sulle conoscenze disciplinari che riesce a veicolare. Vale la pena di citare qui un episodio realmente accaduto in un liceo dove uno degli insegnanti di Fisica aveva praticato una metodologia costruttivista (fra le migliori che si possano immaginare) per un anno in una classe. Il Preside, alla fine dell’anno, si recò in una classe “tradizionale” e nella classe in questione rivolgendo domande di fisica agli studenti presi a caso. L’esito della prova fu, nelle sue parole, che in entrambe le classi gli studenti non sapevano la fisica, ma che nella classe

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dove era stato praticato l’insegnamento costruttivista essi si mostravano molto più interessati ed attenti alle domande poste e tendevano a discuterle. Un simile risultato può apparire deludente, ma non fa che riproporre il problema dell’apprendimento in una forma diversa da quella assunta tradizionalmente dai programmi e dagli operatori scolastici. Si tratta infatti di decidere se il cittadino medio debba conoscere in modo preciso e profondo un corpo disciplinare oppure debba conoscerne il metodo ed il linguaggio, soprattutto se tali elementi siano applicabili ad una varietà di problemi concreti che egli dovrà affrontare nella vita e nel lavoro. La capacità critica e di lettura delle informazioni sembra essere preferibile a conoscenze disciplinari precise e strutturate (che invece dovranno formare il bagaglio culturale degli specialisti nel campo). Certamente la valutazione del proprio lavoro e della crescita culturale degli studenti presenta notevoli difficoltà, ma non possiamo cancellarle con un colpo di spugna ricorrendo a metodi coercitivi e, in definitiva, ad una rinuncia nei confronti delle proprie responsabilità. Non basta dunque prepararsi scrupolosamente la lezione, porgerla nel migliore dei modi ed aspettare che gli studenti se la studino. In tal modo si può pensare di aver messo a posto la coscienza, di aver fatto il proprio dovere, ma non basta affatto. Anzi, si è dato inizio ad un processo d’inevitabile distacco dai problemi di apprendimento della maggioranza degli studenti che non mancherà di dare illusioni e delusioni. Anche il lavoro costruttivista richiede un attento esame dei risultati: a differenza dal metodo centrato sulle nozioni e sulla capacità di esporle, si richiede di analizzare le capacità individuali e collettive di esprimere e discutere i propri pensieri, di affrontare problemi nuovi costruendo linguaggi ad hoc, individuando variabili e formulando ipotesi, immaginando e progettando esperimenti, utilizzando gli strumenti già costruiti od acquisiti, ecc. Tutte queste capacità vanno stimolate e seguite: esse coinvolgono un grande numero di variabili che rappresentano il fenomeno “apprendimento” e che a sua volta dovrebbe entrare nella consapevolezza degli studenti, elementi fondamentali del processo. Le aspettative dell’insegnante dovrebbero essere controllate attentamente: egli tenderà inevitabilmente a spingere verso determinati traguardi e a riconoscere nelle parole degli studenti indizi illusori di apprendimenti inesistenti. Più frequente sarà il caso in cui non sarà capace di cogliere attimi fuggenti di magica sintonia fra il pensiero degli studenti ed un problema. La varietà di situazioni proposte da un ambiente di apprendimento aperto è grandissima. Ruolo della teoria educativa: un esempio Stephen P. Norris e Tone Kvernbekk in un lavoro intitolato “L’applicazione delle teorie dell’educazione scientifica” (Journal of Science Education Theories, 3, 997-1005, 1997) analizzano la struttura delle teorie educative che tendono a determinati traguardi attraverso metodi e norme ben individuabili e ne confrontano l’applicazione in realtà scolastiche. La teoria ed i relativi esempi di riferimento vengono presi dalle esperienze del gruppo costruttivista che fa capo a Rose Driver. Nella teoria, attraverso la lettura delle frasi scritte in tre diversi articoli che coprono una decina di anni di lavoro fra il 19866 ed il 1995, vengono individuati i seguenti “stati del sistema desiderati come traguardi” dell’insegnamento (lo studente medio è il sistema cui si riferiscono, vedere avanti): A. Concetti scientifici • Modo di guardare scientifico ai fenomeni • Conoscenza dei concetti scientifici • Idee scientifiche e concetti • Teoria scientifica • Comprensione della scienza ufficiale • Idee scientifiche convenzionali • Interpretazioni scientifiche convenzionali

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B. Natura della scienza • Visione scientifica della spiegazione • Considerare la conoscenza scientifica come costruita • Considerare le teorie come provvisorie C. Acculturazione scientifica • Applicazione delle idee scientifiche ai fenomeni quotidiani • Iniziazione alla cultura scientifica • Sviluppo culturale nelle idee e modelli della scienza ufficiale Tra i parametri che definiscono gli “stati” dello “studente medio di scienze” che costituisce il “sistema” sotto studio, vengono indicati i seguenti: A. Demografici: • età • storia precedente B. Metacognitivi • Coerenza delle idee dello studente • Auto-controllo dell’apprendimento • Soddisfazione rispetto alle concezioni esistenti • Evidenza di comprensibilità delle concezioni • Evidenza di plausibilità delle concezioni • Riflessione sulle idee di base • Percezione dell’accordo fra costrutti ed esperienza • Controllo di significati ipotetici dell’accordo • Riflessione sulle idee • Valutazione delle idee • Confronto delle idee con l’esperienza • Valutazione di idee alternative • Insoddisfazione rispetto alle idee esistenti • Riflessione comparativa tra le idee attuali e le precedenti • Utilità degli schemi conoscitivi • Chiarimento delle proprie idee • Controllo di consistenza C. Natura della comprensione scientifica • Comprendere la natura delle spiegazioni scientifiche • Apprezzamento delle teorie come costrutti • Apprezzamento del fatto che esistono diverse spiegazioni • Comprensione della natura della conoscenza scientifica D. Affetti • Natura dei propositi • Natura delle emozioni • Impegno • Responsabilità riguardo all’apprendimento • Percezione del pericolo nel cambiamento • Confidenza nelle proprie capacità • Controllo individuale del comportamento • Apertura al cambiamento • Motivazione a collegare le idee con esperienze pregresse • Deferenza verso l’autorità dell’insegnante • Interesse verso un proprio modo di dare senso alle cose

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E. Natura delle concezioni dello studente • Coerenza con le idee adulte • Precisione di linguaggio • Consistenza nell’uso di idee in contesti simili • Proposizione di idee in forma tentativa • Persistenza delle idee • Difficoltà nel mettere in relazione il mondo simbolico con quello reale • Appropriatezza nel collegamento a conoscenze pregresse • Complessità delle strutture cognitive • Numero di legami con conoscenze pregresse • Qualità dei legami con le conoscenze pregresse • Esplicazione delle idee • Chiarezza degli schemi alternativi • Differenza fra le idee infantili e la scienza scolastica • Ampiezza degli schemi cognitivi su un singolo argomento • Apprezzamento per campi di applicabilità dei modelli scientifici • Abilità nell’uso dei modelli scientifici nei rispettivi campi di applicabilità • Influenza delle aspettative riguardo ai fenomeni naturali • Comprensione della conoscenza scientifica basata sui principi • Idee non scientifiche riguardo al mondo naturale F. Predisposizione al pensiero ed all’impegno • Tendenza ad applicare le idee scientifiche ai fenomeni della vita quotidiana • Interazione attiva con l’ambiente • Attività di connessione con le conoscenze pregresse • Generazione di significati ipotetici • Condivisione di idee • Ristrutturazione delle idee • Riorganizzazione delle idee • Interazione sociale Per un totale di ben 62 parametri, alcuni dei quali sono peraltro ripetuti in forme diverse. A questa lista si aggiunge, secondo gli autori dell’articolo, un’altra lista che si riferisce a 56 “parametri ambientali” relativi alle esperienze descritte, che esprimono le condizioni al contorno nelle quali si svolge il processo educativo: A. Incoraggiamento ed opportunità offerte dall’insegnante • Incoraggiamento ad un ruolo attivo • Incoraggiare a parlare • Incoraggiamento a costruire idee • Opportunità di costruire e modificare idee • Opportunità di rivisitare idee in un ambito di contesti • Opportunità di spiegare e comunicare idee • Inviti a riflettere sul cambiamento delle idee • Opportunità di usare le idee in una varietà di situazioni • Occasioni di osservazione e registrazione dell’apprendimento • Incoraggiamento ad essere responsabili dell’apprendimento • Opportunità di collegare idee con esperienze pregresse • Opportunità di riorganizzare idee parlando • Opportunità di riorganizzare idee ascoltando B. Reazioni positive dell’insegnante • Dar valore alle idee individuali

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• Sostegno ed accettazione • Sensibilità verso le idee degli studenti • Rispetto per i punti di vista altrui • Protezione della convinzione nei propri mezzi, dell’entusiasmo, curiosità e sensibilità C. Strategie d’insegnamento • Insegnamento didattico • Uso di un linguaggio esplorativo • Considerazione delle idee pregresse • Esperienze con l’ambiente fisico • Uso di esperienze contraddittorie • Sequenza di attività • Orientamento/Stimolo/Ristrutturazione/Applicazione/Revisione • Mettere in evidenza le inadeguatezze • Lavoro pratico in classe • Cercare di ottenere descrizioni e spiegazioni • Concentrare l’attenzione su incongruenze • Stimolare l’espressione delle idee infantili su un argomento • Fornire appropriata evidenza sperimentale • Strutturazione di un discorso da parte dell’insegnante • Negoziazione di idee fra l’insegnante e gli studenti • Tentativi di vedere il punto di vista degli studenti • Riflessione dell’insegnante sulle idee degli studenti • Diagnostica delle idee degli studenti • Ricorso ad esperienze fisiche • Aiuto nella costruzione di modelli per sé stessi • Collegamento dei termini con le esperienze degli studenti D. Esistenza e presentazione della scienza ufficiale • Significati secondo l’insegnante • Guida verso l’adozione di punti di vista scientifici • Esigenze dell’area concettuale • Presentazione delle idee scientifiche • Ambiente culturale • Concetti della scienza ufficiale • Cultura ed istituzioni scientifiche • Dare forma al ragionamento degli studenti verso le forme accettate • Discussione con un’autorità scientifica • Presentazione delle teorie come provvisorie e costruite personalmente e socialmente E. Interazioni studente-studente • Interazioni sociali • Organizzazione sociale della classe • Discussioni di gruppo, posters, scrittura di relazioni • Disaccordo fra gli allievi • Rapporto dei risultati alla classe F. Risorse • Risorse/Accessori/Spazi • Tempo Infine, nei tre esempi citati, vengono individuate 15 “leggi di successione” per gli stati del sistema definiti in precedenza:

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Aggregazione Aggiunta di parti alla struttura esistente Sintonia Piccola modifica alla struttura esistente Ristrutturazione Modifiche di grande entità alla struttura Orientamento Sviluppo dei propositi e delle motivazioni per apprendere un argomento Esplicitazione Conduzione delle idee alla consapevolezza Ristrutturazione “Affinare” i significati e l’uso del linguaggio Costruire significati per il punto di vista scientifico Valutazione Diventare insoddisfatti delle concezioni esistenti Accordo delle aspettative con l’esperienza che richiede piccoli

cambiamenti allo schema L’esperienza rinnova la richiesta di cambiamenti e di adattamento allo

schema Applicazione Consolidamento e rafforzamento delle nuove concezioni mediante

l’estensione dell’ambito di applicabilità Revisione Riflessione sul cambiamento delle idee Sviluppo di strategie metacognitive Apporto di idee ed esperienze pregresse insieme per far progredire il pensiero Miglioramento della comprensione di tutti attraverso discussioni di gruppo L’analisi critica dei colloqui fra insegnanti ed allievi condotti con metodologia costruttivista indicano l’aleatorietà dei giudizi che l’insegnante dà circa le acquisizioni dei suoi allievi nell’ambito di uno schema di processo educativo come quello sopra elencato. Sono evidenti i limiti dell’approccio di Driver, impostato chiaramente in direzione di traguardi congruenti con i paradigmi dominanti su Scienza e Coerenza che mi sono permesso di criticare nelle pagine precedenti. Il tentativo di recuperare la costruzione autonoma delle conoscenze emerge in diversi punti degli elenchi, ma l’aspetto prevalente è quello della conduzione degli allievi verso una visione della scienza la più vicina possibile a quella accreditata ufficialmente. Tale traguardo assomiglia troppo alla trasmissione di conoscenze per essere ascritto ad un approccio costruttivista realmente convinto. Si potrebbe meglio definire come una diversa tecnica didattica nella quale il maestro conduce i suoi allievi verso un traguardo di conoscenze strutturate in modo “morbido” con tecniche più vicine alla “maieutica” che al costruttivismo (inteso come costruzione autonoma del pensiero mediata dal rapporto con gli altri). Non è necessario (né possibile) dimostrare la superiorità del costruttivismo rispetto ad altri approcci per insegnare la scienza ufficiale, perché il suo scopo non può essere quello. E non è nemmeno vero che una migliore educazione scientifica si affermi attraverso la trasmissione e l’acquisizione più o meno passiva delle discipline strutturate. Si tratta semplicemente di accettare l’idea che la vera conoscenza si costruisce attraverso un lavoro lungo e faticoso nel quale la motivazione personale deve essere al primo posto: ciò implica la rinuncia a strategie e programmi precisamente disegnati in anticipo e, soprattutto, la rinuncia all’idea che sia possibile trasferire costrutti mentali da un individuo all’altro senza fare i conti con la complessa realtà cognitiva di ciascun individuo. E’ proprio questa complessa realtà che deve essere fatta emergere ed utilizzata per far crescere nuova conoscenza da affiancare a quella esistente. Tra questa nuova conoscenza può trovare posto anche la scienza ufficiale, ma in modo non astratto e asettico, bensì in forma nuova e creativa. Oppure non trovarvi affatto posto, esattamente come accade alla maggioranza delle persone non specialiste nella scuola tradizionale. Il lavoro di gruppo. Come detto più volte, il sapere di una classe cresce soltanto se esiste un insieme di crescite individuali che condividono le idee e contrattano un linguaggio comune.

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Ricordo ancora che l’apprendimento è un atto di scoperta squisitamente individuale. Pertanto, accanto a necessari ed insostituibili momenti di studio ed azioni individuali, occorre avviare le altrettanto importanti azioni di scambio interpersonale fra gli allievi (e con l’insegnante) in lavori di gruppo. Questo tipo di lavori è stato spesso frainteso ed utilizzato in modo poco produttivo, tanto da ridurne l’applicazione ai casi dove non se ne può fare a meno, come nei laboratori. L’importanza del lavoro di gruppo non è tanto nelle attività pratiche, dove peraltro lo scambio di idee dovrebbe essere sempre tenuto ad alto livello, quanto nelle attività astratte, nel momento di traduzione in linguaggio delle osservazioni e dei modelli mentali. In questo lavoro, sono importanti sia suddivisioni in piccoli gruppi (tre-quattro allievi), sia discussioni collettive dei risultati ottenuti dai gruppi e/o dagli individui. L’esperienza insegna che l’organizzazione e l’uso del lavoro di gruppo è di gran lunga il compito più difficile di un insegnante. Infatti, gli studenti (tranne le solite eccezioni) non sono abituati naturalmente a cooperare. I loro rapporti sociali, di amicizia, di clan e dialettici sono spesso improntati alla competizione o alla reciproca protezione e ben poco alla condivisione di modelli individuali. Si può peraltro affermare che proprio i rapporti sociali che si instaurano a scuola fra gli allievi vengono positivamente giudicati dagli studenti stessi, al di là dei giudizi negativi che la scuola riceve nel suo complesso. Il confronto con gli altri viene perciò visto come una forma di evasione rispetto ai doveri scolastici, piuttosto che un’integrazione necessaria di saperi. Fa eccezione il caso di piccoli gruppi di studenti che si riuniscono a casa per studiare e fare i compiti, ma abbiamo già visto che queste attività fanno parte di un quadro di trasmissione della cultura che non richiede altre condivisioni che quelle dettate dall’insegnante o dal libro. In gran parte questo stato di cose dipende dagli insegnanti e dalle abitudini ormai invalse nel rapporto educativo, centrato troppo spesso sul confronto meritocratico (voti, giudizi) piuttosto che sulla cooperazione e la condivisione di problemi. I paradigmi dominanti assegnano alla valutazione un valore eccessivo rispetto alla formazione. Per capire meglio come attivare i lavori di gruppo, occorre che l’insegnante impari ad osservare con attenzione ciò che accade nella classe quando viene stimolata da uno scenario da lei predisposto. Vi saranno allievi più pronti di altri che tenderanno a far prevalere il proprio punto di vista, prenderanno più spesso la parola, ecc. Vi saranno allievi apparentemente incapaci di intervenire oppure semplicemente schivi e timorosi. Se l’atmosfera che si instaura in una discussione di gruppo viene sapientemente pilotata dall’insegnante, si viene a creare un rapporto di reciproca fiducia e confidenza che permette di sbloccare queste situazioni. E’ proprio in queste condizioni che si permette alle concezioni spontanee individuali di mettersi in luce e di mettersi in discussione. Nascono soprattutto tutte quelle difficoltà di condivisione del linguaggio che richiedono un paziente lavoro di cucitura e contrattazione. La stessa cosa può essere avviata a piccoli gruppi stando attenti che in essi non si affermi un “leader” che impedisce agli altri di affermare il proprio contributo. Nella dinamica di gruppo dovrebbero realizzarsi le condizioni per cui ognuno assume un proprio ruolo attivo concordato con gli altri, quindi una forma di organizzazione delle attività. Ma vediamo cosa dicono Marcia C. Linn e Nicholas C. Burbules in un loro articolo intitolato “La costruzione della conoscenza e l’apprendimento di gruppo” apparso nel già citato libro di Tobin. “L’entusiasmo per l’apprendimento di gruppo è così diffuso che si corre il rischio di essere considerati retrogradi se si prende in considerazione la possibilità che questo non sia il miglior modo di apprendimento per tutti i fini educativi, per tutte le aree disciplinari, o per tutti gli studenti. Eppure, l’esperienza storica, se non altro, dovrebbe indurci alla cautela rispetto alla considerazione miracolistica di idee come l’apprendimento di gruppo. Determinate idee hanno un carattere ciclico e riappaiono più volte in forme leggermente diverse, nonostante le evidenze di successo siano poco chiare o inesistenti. Simili proposte vengono spesso presentate in un linguaggio impreciso ed ambiguo, assumendo tutti i significati che uno

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vuole. Lodi retoriche di simili approcci prendono il posto di attenta meditazione sui ben più seri problemi dell’educazione. Per questa ragione, ci avviciniamo all’idea di apprendimento di gruppo con qualche scetticismo. Le argomentazioni a favore dell’apprendimento di gruppo sono di solito sostenute dalla pretesa che studenti che imparano insieme costruiscono conoscenze più importanti di quelle che avrebbero costruito da soli. Per esempio, si leggono frasi come: “Il processo di apprendimento cooperativo aumenta di fatto l’acquisizione e la ritenzione del contenuto e delle abilità nel corso di tutto il curricolo. I bambini imparano meglio quando imparano cooperativamente" (Dockterman). In questo lavoro, noi sosteniamo che l’assunzione dell’apprendimento di gruppo come un meccanismo di costruzione della conoscenza semplifica eccessivamente questioni importanti che riguardano le strutture sociali dei gruppi, i traguardi dei gruppi stessi, e la diversa natura della costruzione della conoscenza. Il peso dell’evidenza rafforza la conclusione che la conoscenza viene costruita, mentre l’evidenza di una costruzione cooperativa è assai meno definitiva. Sebbene la maggior parte dei gruppi di ricerca educativa premettono che l’interazione sociale favorisce lo sviluppo cognitivo, non concordano su come e quando l’apprendimento di gruppo riesca a promuovere un’effettiva costruzione di conoscenza.” Queste parole introduttive illustrano gli stessi dubbi che assalgono chiunque abbia osservato con attenzione gli effetti del lavoro di gruppo. In realtà, la condivisione delle conoscenze non può avvenire altro che con una mediazione sociale (e anche questa è conoscenza che richiede atti individuali di apprendimento). Gli autori di cui sopra, almeno in queste parole iniziali, sembrano sottovalutare il fatto che la conoscenza per essere efficace deve essere mediata socialmente e sembrano giacere sotto l’impressione che la crescita della cultura coincida solo con un apprendimento di tipo scolastico. Inoltre, sembrano non dare importanza preminente al problema del linguaggio. Comunque sia, le loro critiche hanno un fondamento nel senso che, pur non potendo rinunciare al lavoro di gruppo per i motivi di cui si è detto, non bisogna affidare unicamente a questi sia pure importanti momenti la crescita cognitiva degli studenti. Più avanti, gli stessi autori esaminano con cura i diversi aspetti del lavoro di gruppo valutandone la funzione in termini meno vaghi di quanto normalmente venga fatto e che contengono elementi di riflessione su quanto detto finora riguardo al rapporto fra senso comune e scienza ufficiale. “L’apprendimento di gruppo comprende un certo numero di attività diverse. Tutte queste assumono che l’apprendimento richiede ai partecipanti di discutere un compito tra di loro prima di terminarlo. Questo modo di ragionare mette in evidenza gli aspetti comunicativi del lavoro di gruppo. Nel corso di questa comunicazione, gli studenti negoziano la comprensione tra di loro, pianificano compiti complessi, spiegano le cose l’uno all’altro, dirigono le attività, contribuiscono con idee, e coordinano azioni tra di loro. Tuttavia, quest’ampia definizione include diversi distinti tipi di apprendimento di gruppo, comprendenti “l’apprendimento cooperativo”, “l’apprendimento collaborativo”, e “l’apprendimento assistito”. L’apprendimento cooperativo implica la suddivisione di un compito in parti e l’affidamento di una parte a ciascun componente del gruppo. Nell’apprendimento collaborativo, due o più studenti elaborano insieme una soluzione unica ad un problema. L’apprendimento assistito avviene quando uno studente aiuta un altro a migliorare le proprie abilità; di solito, la persona che effettua l’assistenza è più esperta oppure usa un metodo per promuovere l’apprendimento nello studente da assistere. Naturalmente, è possibile progettare attività che combinino più di uno di questi tipi di apprendimento di gruppo. Inoltre, è possibile associare il lavoro di gruppo ad una varietà di obiettivi di apprendimento. Si è postulato che l’apprendimento di gruppo sia utile agli studenti almeno in tre modi:

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promuovendo le capacità cognitive, le capacità sociali, e impartendo le abilità necessarie sul posto di lavoro…….. Tutte queste distinzioni permettono di inquadrare utilmente gli elementi del lavoro di gruppo. Piuttosto che accettare o scartare il concetto, riteniamo che la questione importante sia: “Cosa si apprende meglio in gruppo? In quali circostanze un'attività di gruppo od un’altra promuovono la costruzione di conoscenza? Per quali obiettivi addizionali il lavoro di gruppo è utile o dannoso? E come, alla luce di queste riflessioni, si può introdurre il lavoro di gruppo nel repertorio delle attività di insegnamento e apprendimento?…….. Apprendimento di gruppo e abilità cognitive. Le assunzioni che l’apprendimento di gruppo può promuovere abilità cognitive sono di due tipi: alcuni dicono che i gruppi riescono ad attuare certe abilità cognitive come risolvere problemi o prendere decisioni meglio degli individui; altri asseriscono che il lavoro di gruppo aiuta gli studenti a sviluppare certe abilità cognitive. Esaminiamo queste assunzioni, guardiamo a fondo da quali prospettive teoriche traggano fondamento e consideriamo i meccanismi di interazione di gruppo atti a promuovere simili risultati cognitivi. Gran parte dell’entusiasmo per l’apprendimento di gruppo è basato sul successo dei gruppi in un aspetto della risoluzione di problemi, cioè la libera espressione delle idee (brainstorming). La ricerca suggerisce che i gruppi sono efficaci nel brainstorming e nella generazione di idee (De Bono 1973) perché i partecipanti possono costruire sulle idee suggerite dagli altri, dando così luogo ad una costruzione cooperativa della conoscenza. I benefici del brainstorming sono stati chiaramente illustrati in un rapporto di Von Fange, il quale descrisse due ingegneri che lavorarono per più di un mese per generare 27 soluzioni alternative ad un problema di controllo strumentale. Quando essi riunirono un consesso di giovani ingegneri senza alcuna particolare competenza sul problema, il gruppo fu capace di elaborare in 25 minuti tutte le 27 soluzioni e molte altre che i due ingegneri non erano stati capaci di vedere. Il brainstorming non avviene in modo spontaneo, ma risulta piuttosto da una preparazione nella generazione e scambio di idee: i gruppi vengono preparati a produrre idee e ad accettare ed elaborare le idee generate dagli altri senza criticarle. La ricerca indica che gli individui preparati generano più idee e migliori rispetto a quelli impreparati (Meadows and Parnes 1959). Una volta che il brainstorming ha messo in luce le migliori idee, tuttavia, la ricerca e l’osservazione suggeriscono che la pianificazione e la sintesi vengano attuate meglio individualmente. Per esempio, praticamente tutti i progettisti di software intervistati da Lammers (1986) riferirono che il brainstorming può mettere in luce idee stimolanti, ma che i piani di maggior successo vengono creati dal singolo individuo……. I nostri studi sull’apprendimento di gruppo includono osservazioni di studenti che lavorano in gruppi di due, tre e quattro persone, ma anche interventi per migliorare l’interazione di gruppo. Agli studenti viene chiesto di predire gli esiti di complessi problemi quotidiani, quale ad es. se sia migliore la lana o il foglio di alluminio per fasciare una lattina con lo scopo di mantenerla fresca. Dopo aver fatto le predizioni, gli studenti effettuano gli esperimenti sia simulati (al computer, NDR) sia usando una raccolta di dati in tempo reale. Dopodiché essi giungono a conclusioni di gruppo e le registrano in un foglio di appunti elettronico. Le norme di comportamento del gruppo interferiscono con un efficiente modo di risolvere i problemi in molti punti di questo processo. Nella generazione di una predizione, gli studenti preferiscono spesso accettare la prima idea proposta invece di far uscire molte nuove idee e di scegliere la migliore alla fine. Le nostre interviste con gli studenti che non avevano dato alcun contributo alla discussione spesso rivelarono che lo studente aveva subito pressioni da parte del gruppo per accelerare il lavoro piuttosto che prendere in considerazione alternative. Spesso, viene scelta l’idea generata dallo studente con lo stato sociale più elevato. Eppure, lo stato sociale in un corso di scienze può talvolta derivare dal successo in

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altre aree (come le attività di governo degli studenti o gli sport) più che da un’effettiva competenza nel maneggiare concetti scientifici. Inoltre, gli studenti spesso preferiscono considerare errati i risultati dei loro esperimenti piuttosto che considerare seriamente l’evidenza. Perciò, alcuni studenti sono sorpresi dal fatto che la lana risulta essere migliore del foglio di alluminio per mantenere fredda una bibita ed assumono semplicemente che i risultati fossero gli opposti. Interrogati in proposito, essi rispondono che la lana serve a tenere al caldo la gente, non per mantenere fredda una bibita. Perciò essi si appoggiano alla conoscenza quotidiana invece di provare a spiegare informazioni contrastanti. Anche se la voce di uno studente esprime dissenso, il gruppo spesso costringe l’individuo al consenso con il sarcasmo e facendo appello alle differenze di stato sociale. Infine, quando i fatti risultano essere diversi da quanto atteso, il gruppo spesso invoca forme stereotipate per giustificare le predizioni errate dicendo cose come “Ci siamo sbagliati perché abbiamo ascoltato Jessica” oppure “Ciò prova che le ragazze non possono fare scienza”. Dare spazio all’apprendimento di gruppo in una classe può intensificare la propensione degli studenti ad essere economisti cognitivi e a rafforzare gli stereotipi riguardo a chi possiede le idee migliori. Per di più, dato che l’apprendimento di gruppo è solitamente poco conosciuto dagli studenti, ad essi possono mancare le strategie per discutere le idee scientifiche. In particolare, le strategie di senso comune sono inappropriate per ricavare conclusioni da evidenze in conflitto in campo scientifico, ed i loro modelli disciplinari sono spesso incompleti. Le regole del senso comune aiutano gli individui a trarre conclusioni sul significato di quanto dicono le persone, basandosi sul fatto che ciò sarà sensato o sarà in accordo con le aspettative del gruppo. Gli studenti seguono un insieme di principi impliciti che danno luogo a poche controversie. In contrasto, il discorso disciplinare tende a seguire le norme della logica formale ed entra regolarmente in conflitto. Tuttavia, i modelli che gli studenti si formano del discorso disciplinare sono generalmente presi sia dai libri che dai loro insegnanti, e nessuno dei due è probabilmente in grado di modellizzare l’uso del discorso disciplinare per identificare e risolvere le controversie. Piuttosto, gli insegnanti ed i testi in genere modellizzano il processo di asserzione di informazioni sulla base dell’autorità. Come dimostrato da Forman, questo tipo di discorso basato sull’autorità conduce a inefficaci discussioni scientifiche nelle quali lo studente afferma idee senza poterne dare una spiegazione. Se numerosi componenti di un gruppo adottano questa strategia, l’interazione si riduce ad uno scontro di urla. Perciò gli studenti hanno due modi inefficaci di costruzione cooperativa della conoscenza all’interno di un gruppo: o usano il modello di senso comune e rimangono silenziosi riguardo al disaccordo oppure asseriscono idee in modo autoritario…..” Come si vede, queste parole illustrano una situazione scolastica dove la competizione fra gli studenti prevale rispetto alla cooperazione. Il problema è particolarmente grave per gli USA, dove, come detto in precedenza, sono stati fatti numerosi tentativi di introduzione del costruttivismo pesantemente condizionati dall’ambiente sociale poco ricettivo. L’atteggiamento stesso degli insegnanti rispetto alla verifica degli apprendimenti disciplinari denuncia uno stato di soggezione ai paradigmi dominanti.

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La valutazione. La valutazione dell’apprendimento è il risultato dell’insegnamento. Quale apprendimento? Quale valutazione? Abbiamo già delineato gli aspetti che si riferiscono alla prima domanda giungendo a parlare di come possa essere costruito un apprendimento vero, stabile, di alta qualità con le seguenti caratteristiche principali: • Capacità di analizzare i problemi, di formulare domande, di cercare ed usare le

informazioni • Ragionamento critico • Flessibilità, cioè capacità di capire ed adattarsi alle circostanze o a nuove situazioni in

ambienti nuovi • Capacità di utilizzare le conoscenze in contesti diversi • Capacità di orientarsi nei problemi della vita quotidiana Abbiamo visto che i principali nodi di questo modello, in gran parte legati alla presa di coscienza di paradigmi fondamentali per l’azione che si intraprende, sono: • Il significato di cultura • Gli obiettivi che si pone l’educatore • La definizione di vero apprendimento • Il modo di pensare e di porsi degli insegnanti • Il modo di lavorare degli insegnanti • L’accettazione o meno delle idee spontanee • La qualità degli scenari proposti • Il ruolo delle discipline • La pratica basata sulla riflessione • Il lavoro di gruppo ed individuale • Lo sviluppo di un linguaggio condiviso • ………………………. Per quanto riguarda la valutazione, è necessario prima di tutto prendere atto che nessuna valutazione è oggettiva. Per esempio i test vero/falso, tanto cari ai docimologi convinti di poter oggettivare i giudizi in termini numerici, non sono affatto oggettivi come pretendono. Il loro contenuto viene infatti deciso da estensori delle domande e delle risposte giudicate a priori “giuste” o “sbagliate” sulla base di un proprio modello di apprendimento che ignora volutamente e scarta in anticipo gli schemi alternativi rispetto a quelli utilizzati nei test. Ma l’uso dei test è comodo perché coincide con una rinuncia e una fuga di fronte alla responsabilità del giudizio e permette di selezionare i grandi numeri. Nemmeno la valutazione costruttivista può essere oggettiva: al contrario, il processo di costruzione delle conoscenze attraverso la riflessione impone un’assunzione di responsabilità da parte degli attori in prima persona del processo che si autovalutano nel proprio contesto e modificano il processo in divenire. La crescita individuale e collettiva di un gruppo diventa l’elemento fondante di questo criterio di analisi del lavoro. All’interno del gruppo si cercherà di sviluppare al massimo le competenze e le inclinazioni “genetiche” di ognuno senza costruire artificiose graduatorie di merito in relazione ai contenuti, ma sull’attenta valutazione dell’impegno e soprattutto della crescita. Ciò richiede un attento lavoro da parte dell’insegnante che dovrebbe:

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• Spiegare chiaramente gli scopi del lavoro scolastico • Ascoltare con attenzione le parole e cercare di capire i bisogni degli allievi • Proporre vari scenari e situazioni • Stimolare la pratica basata sulla riflessione • Promuovere la partecipazione degli studenti alla valutazione (anche in termini numerici,

ove risulti obbligatorio) del proprio lavoro e del proprio apprendimento • Osservare comportamenti come:

1. Sono interessati al problema? 2. Propongono problemi diversi? 3. Chiedono ricette? 4. Discutono con i loro compagni? 5. Cercano di organizzare il proprio tempo ed il proprio lavoro? 6. Sono capaci ad organizzare il lavoro di gruppo?

…………

• Osservare capacità degli studenti come:

1. Sono capaci di affrontare situazioni nuove? 2. Sono capaci di ideare nuove situazioni e/o esperimenti? 3. Cercano di predire in anticipo i risultati di un esperimento? 4. Sono capaci di anticipare l’andamento qualitativo di un fenomeno? 5. Cercano di esprimere i propri pensieri con parole proprie? 6. Usano l’intuizione? 7. Applicano la coerenza? 8. Cercano di sviluppare un linguaggio condiviso? Con quale successo? 9. Applicano il ragionamento per analogia? 10. Usano il ragionamento analitico? 11. Sono capaci di interpolare ed estrapolare? 12. Sono capaci di esprimere in modo efficace i risultati del loro lavoro? 13. Suggeriscono nuove idee e ricerche riguardo al problema? 14. Sono stimolati a cercare informazioni sui libri o altrove?

• Investigare come gli studenti usino i concetti disciplinari (con attenzione, per quel che si

è detto, visto che l’aspetto disciplinare in senso stretto e nozionistico non deve assolutamente prendere il sopravvento su tutti gli altri aspetti):

1. Nel ristretto contesto scolastico 2. In altri contesti scolastici disciplinari (trasferimento su altre discipline) 3. In un contesto scolastico libero su problemi non strettamente disciplinari 4. In un contesto libero extra-scolastico

Tutto questo (ed altro che possa mettere in luce lo sviluppo di conoscenze stabili) costituisce il perno della valutazione costruttivista di un apprendimento vero e di alta qualità. Per poter dare adito a valutazioni di questo tipo, l’insegnante dovrebbe alternare momenti in cui egli guida il lavoro e stimola personalmente lo sviluppo delle fasi di ricerca e la riflessione degli studenti a momenti in cui egli pone gli studenti in situazioni di lavoro libero ed osserva il loro comportamento mentre discutono ed agiscono. Infatti, uno dei fini principali dell’insegnamento dovrebbe essere la creazione di un’autonomia individuale nella crescita delle conoscenze molto diversa da quella che sviluppano certi autodidatti. L’autodidatta di

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solito ha competenze in un campo più o meno ristretto per il quale nutre passione spontanea che lo induce ad autocostruirsi le conoscenze mirate ad obiettivi particolari in ambiente non scolastico. Niente di male in questo, egli attua la dinamica costruttivista da solo, a causa delle circostanze della vita che gli hanno impedito di formarsi una cultura a scuola. In conseguenza di ciò (salvo le solite eccezioni), di solito il suo linguaggio è povero ed impreciso, non essendo mediato con altri. La vera autonomia permette di utilizzare le strategie della riflessione applicata alla pratica in ogni circostanza della vita e di sviluppare linguaggio e cultura più appropriati e sottopone continuamente il lavoro ad una critica interna che conferisce all’apprendimento un carattere più ampio: genera infatti la comprensione di come si autocostruisce la conoscenza. Questo aspetto può essere realizzato nella scuola purché in essa si generi il giusto ambiente di apprendimento e di valutazione. Il massimo dell’autonomia si raggiunge quando l’individuo è in grado di porsi problemi e di valutare la qualità del proprio lavoro. La valutazione diventa quindi un elemento importante del processo, fa parte del processo stesso. Nel libro già ampiamente citato, la valutazione in termini numerici in ambito costruttivista viene esaminata da Tobin e Tippins nell’articolo “Constructivism as a referent for teaching and learning” (Il costruttivismo come riferimento per l’insegnamento e l’apprendimento). Il riferimento è importante perché la traduzione della valutazione in voti sembra essere un nodo difficilmente eludibile nelle scuole di tutto il mondo, forse ancora meno nella nostra dove l’attitudine a giudicare è molto richiesta e sviluppata. Per certo, la nostra organizzazione sociale impone il raggiungimento di traguardi scolastici, l’emissione di giudizi comparativi e l’uso di questi giudizi nei concorsi, nelle assunzioni, nelle carriere. Ciò rende difficile il rapporto fra chi formula i giudizi e chi vi è soggetto, soprattutto se l’assegnazione dei voti avviene in modo del tutto unilaterale e falsamente asettico come purtroppo certe pratiche scolastiche molto in voga tendono a fare. Fin da piccoli siamo stati abituati a vedere nei nostri maestri dei giudici pronti a gratificarci o colpirci in relazione alla nostra obbedienza rispetto ai loro dettati. Tutto lo sforzo di comprensione del rapporto apprendimento/voto è stato assegnato allo studente al quale è stato richiesto di adeguarsi. Nessuna meraviglia che la dispersione scolastica (e con essa la selezione sociale) sia ancora così alta. Ma veniamo alle parole di Tobin e Tippins nel capitolo intitolato “Misura alternativa dell’apprendimento”: “ Le pratiche tradizionali di misura sembrano essere associate con i ruoli d’insegnamento inclini a giudicare e premiare. Una ricerca sui corsi di scienze effettuata da Tobin e Gallagher (1987) mostrò che gli insegnanti usavano i voti come motivazione per gli studenti. Se per una certa attività non venivano assegnati i voti, era difficile ottenere la partecipazione attiva e la cooperazione degli studenti. L’effetto che si evidenziava in associazione con queste abitudini era l’enfasi sul completamento di prodotti in cambio dei voti. Sembrava esserci un patto implicito riguardo alla cultura che gli studenti acquisivano in cambio dei voti in modo del tutto simile ad impiegati che lavorano per la paga. Gli studenti si impegnavano principalmente nel completamento dei compiti e nel ricevere i voti, e l’apprendimento diventava un sottoprodotto dell’attività culturale principale. Un risultato involontario di questo processo poteva essere che la contrattazione fra studente ed insegnante portasse ad una puntigliosa precisazione dei compiti, rendendoli sempre più chiari agli studenti, riducendo il rischio, e rendendo il fare scienza intellettualmente sicuro. Da un punto di vista costruttivista, un ambiente di questo tipo non conduce ad un apprendimento delle scienze unito a comprensione. Per ottenere questo traguardo, gli studenti devono in certi momenti essere perplessi e combattere per risolvere le perturbazioni prodotte nell’atto di provare e tentare di rappresentare le incertezze associate con un impegno intellettualmente rigoroso. Le classi esaminate in questo studio ed in altri seguenti (per es. Nordland, 1990), indicarono che era basso il livello cognitivo sia dei compiti scolastici che dei test carta e penna utilizzati per assegnare i voti all’apprendimento. L’assunzione sottesa da molte pratiche tradizionali di

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giudizio è che il pensiero formale, rappresentato dall’abilità nella risoluzione di problemi newtoniani, è il più alto livello di pensiero. Perciò, l’interazione dialettica fra abilità e intuizione che permise ad alcuni scienziati (come Einstein) di porsi domande ineguagliabili che li posero al di fuori dei binari tradizionali, viene sottovalutata o ignorata nella maggior parte degli attuali corsi di scienze. Il processo educativo, proprio come la moneta di molti Paesi, appariva inflazionato.” Più avanti, gli stessi autori, descrivendo un’esperienza di trasformazione del metodo d’intervento di un’insegnante (chiamata Marsha), mettono in evidenza la necessità di assegnare un ruolo attivo allo studente nella valutazione: “…. suggerimmo di aprire una finestra nelle menti degli studenti, l’opportunità per essi di mostrare all’insegnante ciò che essi conoscevano. Marsha riuscì a capire come questa strategia avrebbe potuto funzionare. Usando la metafora della finestra, Marsha ripensò alle sue pratiche di valutazione ed assegnazione dei voti e mise in atto un nuovo modo di porsi di fronte alla classe. E le cose incominciarono ad andare nel giusto verso. L'aspetto interessante della metafora da lei costruita fu che trasferì potere dall’insegnante agli studenti. Gli studenti ora avevano la responsabilità di prendere decisioni su quello che essi conoscevano, sul modo di rappresentare ciò che essi conoscevano, e quando programmare i momenti in cui essi dovessero mostrare all’insegnante ciò che avevano appreso. A Marsha e ai suoi studenti questo parve un modo sensato di affrontare la valutazione. Ciò che emerse come evoluzione nel tempo fu un approccio alla valutazione che metteva in evidenza l’autonomia degli studenti e l’apprendimento unito alla comprensione.” Per quanto riguarda le tecniche di documentazione dell’apprendimento che ne facilitino la valutazione e al tempo stesso la crescita, secondo gli stessi autori, è opportuno pensare ad una “cultura basata su protocolli”, intendendosi per “protocolli” le raccolte di scritti, documenti, materiali, che lo studente prepara per mostrare a se stesso e agli altri ciò che egli ritiene sia entrato nel proprio apprendimento. Il protocollo diventa così un’interfaccia fra lo studente ed il valutatore, interfaccia della quale lo studente è responsabile in piena autonomia. Egli decide ciò che deve entrare nel protocollo ed il suo significato dal punto di vista dell’apprendimento (per esempio, anche i problemi che sono sorti nella comprensione di un certo fatto, risolti o irrisolti che siano). Il processo di costruzione e modifica del protocollo può essere accompagnato da discussioni orali, relazioni scritte o combinazioni delle due. Lo studente e l’insegnante possono discutere insieme quali elementi dei protocolli contengano evidenza di apprendimento e quali no, in genere quali progressi siano stati fatti o mancati nel cammino verso gli obiettivi iniziali. Indipendentemente dall’adozione o meno dei protocolli come metodo di lavoro, la chiarificazione reciproca di traguardi ed obiettivi del lavoro scolastico è un elemento essenziale di un corretto rapporto valutativo nel quale lo studente è protagonista attivo di un apprendimento non inerte. Ciò implica soprattutto dialogo e riflessione critica, due elementi fondamentali del costruttivismo applicato all’insegnamento.