Scrivo in GIALLO e in NERO

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III F e II L della scuola secondaria - I.C. Cavour Catania Antologia di racconti gialli e horror 2016

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Antologia di racconti gialli e horror

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Cosa si cela dietro l’acquisto di un quadro? Perché si ode un grido di donna al centro di Amsterdam? Quali segreti promettono le note di una canzone pop? Questi sono solo alcuni dei misteri da svelare o degli orrori da leggere col fiato in gola di questa Antologia in GIALLO e in NERO.

Ragazzi tra i dodici e i tredici anni hanno giocato con la loro fantasia, mettendo in scena incubi e casi da investigare. Quali novelli Stevenson o Christie vi condurranno verso la profondità del loro mondo creativo che combatte le paure, facendosene artefice.

Quando si entra in un laboratorio di scrittura e si mescolano storie, ambienti e personaggi, si scopre che da questa mirabile alchimia tutto può accadere, persino di realizzare qualcosa che persista (in echi pre-senti e futuri) al di là dell’autore.

Miracolo che accadrà anche in questo caso? Comunque sia, cari lettori, preparatevi al brivido!

III F e II L della scuola secondaria - I.C. Cavour Catania

Antologia di racconti gialli e horror2016

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Scrivo in GIALLO e NERO

A.S. 2015-2016Dirigente Scolastico dell’I.C. Cavour, Catania, Prof.ssa Marinella Leonardi.Coordinatrice di progetto: Prof.ssa Cinzia Di Mauro.Autori: tutti gli alunni della III F e della II L.

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Antonio Cariola - Maria Carla Foti - Vittorio Guerrera - Fernando Marceca - Francesco Nicolosi - Lorenzo Pittalà - Simone Samperi

La tela di Manet

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Dicembre 1893, Parigi

Era un tardo pomeriggio e il magistrato Jean-Pierre Legrand, azzi-mato e profumato, stava camminando per le strade di Parigi, poco di-stante dalla sua abitazione in avenue des Champs-Elysées. Da tutti era conosciuto come un quarantenne pieno di vita, donnaiolo non ancora sposato ma soprattutto appassionato di arte francese e collezionista di quadri.

Estrasse dal taschino uno specchietto che portava sempre con sé, uno dei tanti suoi vezzi. Riflesse un’immagine adeguata alle sue attese: un uomo alto, magro, con le spalle dritte e una folta chioma di capelli brizzolati. Persino del suo sguardo insolito era soddisfatto: aveva, infatti, un occhio azzurro e l’altro verde. Si sorrise, mentre reg-geva la sua adorata pipa di legno intagliato, anche se spenta. Gli attri-buiva proprio un’aria carismatica. Gli piaceva molto passeggiare sotto la pioggia perché lo affascinava guardare i nuvoloni cupi e grigiastri e paragonarli a persone o cose. Da tre giorni, però, ogni goccia scendeva dal cielo sotto forma di candidi fiocchi. I bambini sembravano gli uni-ci a trovarlo piacevole: scorrazzavano molto allegramente lanciandosi palle di neve, già strattonati dalle tate perché si affrettassero a rientra-re. Dopotutto tra quattro giorni sarebbe stato Natale.

Stava lungo la Senna e salutava le ultime gentil donne infreddoli-te, facendo inchini e levandosi il cappello: - Bonsoir, madame.

Le quali rispondevano con un sorriso grazioso: - Bonsoir.

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Nel frattempo i lampioni si accesero ad illuminare il quartiere. Al contempo, le strade erano diventate deserte, come se d’un tratto tutte le persone si fossero precipitate nelle loro abitazioni a causa del gran freddo che quell’inverno stava attanagliando la città. Le vie, i tetti delle case, erano tappezzati da uno spesso mantello bianco. Erano anni che Jean-Pierre non vedeva quello spettacolo in città.

Sollevando lo sguardo non poté che ammirare quella nuovo sim-bolo della grandeur nazionale, altissimo e interamente in acciaio, la Tour Eiffel, che dominava la maestosa Ville Lumière, la città della luce, l’innovazione del secolo:

- Che meraviglia questa immensa costruzione! Sembra quasi una strana piramide egiziana interamente in acciaio.

Si stava recando verso il Louvre dove doveva partecipare ad un’asta insieme al suo grandissimo amico, l’avvocato Louis Varane. Era un uomo alto, magro, biondo e portava gli occhiali molto spessi a causa della sua miopia. Aveva, infatti, degli occhi blu vagamente a mandorla. Louis non era mai disponibile, sempre occupato di qua e di là a causa del suo frenetico lavoro, nel quale era molto abile. Te-neva molto all’estetica, infatti, aveva un aspetto del tutto rispettabile con dei baffi curati alla perfezione, occhiali con montatura in oro e un orologio in argento. Oltre a ciò indossava anche per la vita quotidiana vestiti elegantissimi: scarpe sempre lucidissime, i pantaloni e giacca di cashmere, la cravatta di seta della migliore qualità, e infine una ca-micia con bottoni e gemelli in oro bianco.

Jean-Pierre lo trovò all’ingresso della sala che osservava preoccu-pato il suo orologio da taschino.

- Vieni, stanno quasi aprendo i lavori. - e se lo trascinò in una delle prime file.

Potevano permettersi queste bruscherie informali tra loro. Si cono-scevano da una vita e la pittura era una delle tante passioni condivise. Il magistrato, in particolare, ne apprezzava la capacità di trasmettere così tanti sentimenti attraverso un’immagine. Da tempo collezionava

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dipinti, dal Classicismo fino al più recente Impressionismo. E quel giorno voleva aggiungere un altro gioiellino alle sue pareti.

Il dipinto rappresentava una città in fiamme sullo sfondo e in pri-mo piano un signorotto feudale del medioevo vestito di nero, con una strana cicatrice in faccia e con una spada sporca di sangue alla mano. Nessuno era mai riuscito a identificare la figura ritratta. Alcuni par-lavano di un personaggio inventato, altri dei duchi d’Aquitania o di Bretagna, molto attivi durante la Guerra dei Cent’Anni.

Un quadro un po’ insolito, ma proprio per la sua inusualità aveva colpito il magistrato. Vi ammirava l’intensità dei colori e la loro messa in contrasto, dato che in tutta la tela l’unica fonte di luce era il fuoco. Il dipinto era di medie dimensioni, con dettagli perfetti, altamente rea-listici. Però, l’accostamento dei colori era sicuramente impressionista. L’asta iniziò qualche minuto dopo il suo arrivo, intorno alle due del pomeriggio. Il parterre era di rango. Alcuni quadri di Goya erano stati venduti per cifre tra il 1.000.000 e i 7.000.000 di franchi; dipinti di Degas per circa 70.000 franchi. All’asta c’era anche un ricco politico, che aveva acquistato un quadro di Monet per ben 50.000.000 franchi. Quando fu il momento del suo quadro, Jean-Pierre aveva gli occhi fissi sul banditore.

- E adesso passiamo a quest’altro dipinto. Di grandezza 150x60, olio su tela, di Eugène Manet, ha tratti realistici mélangé a colori im-pressionisti. Partiamo da una base di 2.500 franchi.

Il banditore era tutto sudato in faccia, a causa delle grida che co-stringevano il suo lavoro, essendo la sala molto ampia.

- Offro 1.000. - disse Jean-Pierre.- 1.500.- 2.000.- 10.000. - e questa offerta di Jean-Pierre zittì tutti. Era molto alta per un quadro del genere. Ma, dal fondo della sala

qualcuno rilanciò.- 20.000.

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Era un uomo con un cappotto grigio e capello. Aveva un’aria mol-to poliziesca, come se fosse uscito da un giallo di Doyle. Jean-Pierre lo intravide con la coda dell’occhio. Aveva qualcosa di familiare.

- 30.000. - rilanciò Jean.- 50.000.Ascoltando meglio la voce, riconobbe una persona. Era il com-

missario di Cergy, una cittadina vicino Parigi. Non era la prima volta che tentava di sottrargli un quadro. Già in passato gli aveva soffiato un bellissimo dipinto, per circa 10.000 franchi, per poi rivenderlo qualche anno dopo a circa 10.000.000. Questa faccenda non gli era mai andata giù. Allora stringendo i denti, fece altre offerte.

- 60.000.- 100.000.-150.000.- 200.000.- 500.000. - disse gridando Jean-Pierre. Tutti restarono col fiato

sospeso nella sala. - Cinquecento e uno, cinquecento e due... aggiudicato al numero

10.Jean-Pierre stava quasi per urlare dalla gioia, ma mantenne il con-

trollo e la sua dignità. Uscendo, lo fermò l’amico Louis.- Complimenti, Jean. Sapevo che te lo saresti aggiudicato. - disse,

dandogli una pacca sulla schiena.Il signor Legrand, fischiettando, tornò a casa, pensando a dove

avrebbe potuto appendere il suo nuovo quadro. Forse nel salone degli ospiti, oppure davanti al suo letto...

Era notte fonda e Jean-Pierre era in procinto di andare a dormire. Proprio quando era già in vestaglia arrivò un uomo. Egli affermava di essere il servitore di Louis e gli consegnò una lettera da parte sua.

- È urgente. - disse. Senza esitare, il magistrato la aprì e lesse: - Vieni immediatamen-

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te, è successa una cosa terribile. Egli notò una scrittura tremolante e irregolare. Conosceva quella

dell’amico, quindi capì subito l’improrogabilità delle sue parole. In-quieto, si vestì velocemente, prendendo i primi vestiti che gli capita-rono mettendoseli sopra il pigiama.

Uscì di casa e si incamminò a grandi falcate insieme al servitore. L’aria era fredda e un vento molto fastidioso gli pungeva la faccia. Si mise a correre pensando all’amico e soprattutto a Marie. Tutto d’un tratto iniziò a piovere a dirotto con tale violenza che il magistrato si trovò più e più volte sul punto di scivolare. Finalmente scorse la porta dell’amico e con un gesto rapido suonò il campanello.

Fu lo stesso Louis ad aprire mentre un cadaverico maggiordomo gli reggeva in un piattino una candela. Il volto dell’amico era rigato di lacrime.

- Che succede, amico? Risolveremo tutto, vedrai. – cercò di ras-sicurarlo il magistrato.

L’avvocato non riuscì a parlare e lo portò nella camera dove era successo tutto. Jean-Pierre incredulo e sconvolto guardava il corpo della signora Varane privo di vita, con ferite sulla schiena da cui era sgorgato molto sangue. Il collo di pelliccia che aveva sul cappotto era ormai diventato rosso. Era stata uccisa da qualcuno in modo barbaro e senza pietà.

Louis esclamò: - Jean-Pierre, sei il mio unico vero amico, sono molto spaventato: sopra le gambe di mia moglie ho trovato un bi-gliettino firmato da un certo ‘E.IV’ con su scritto: State attenti, vi sto osservando.

Le parole dell’amico turbarono molto il magistrato. Guardando la tela che stava proprio sopra la testa del cadavere vide che c’era una macchia. Pensò che ci fosse già e non tenne conto del particolare. Aveva altro a cui pensare.

A quel punto chiamarono la polizia, la cui stazione era nelle vici-nanze. Appena una decina di minuti dopo, infatti, arrivarono tre po-

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liziotti e un commissario. Quest’ultimo si levò subito il suo cappello marrone, si grattò la testa e si asciugò il sudore con un fazzoletto. Ave-va i capelli bianchi e gli occhi castani. Indossava un cappotto marrone e una camicia bianca. Dopo aver salito i tre scalini dell’ingresso, il commissario, stanco, si appoggiò bruscamente a un mobile con sopra una teiera di porcellana, rischiando di farla cadere e rompere.

- Signor giudice, i miei rispetti. - indirizzò a Legrand; poi rivolto all’avvocato - Signor Louis, sono il commissario Defoin, dovremmo parlare con lei in privato, venga. - disse il funzionario.

I due andarono nel fumoir per l’interrogatorio. - Avvocato, lei era l’unico ad essere in casa in quel momento, a

parte i suoi domestici. Inoltre, reca tracce del sangue della defunta sulle mani e sugli abiti. Si renderà quindi conto che dovremo iscriverla nel registro degli indagati. - affermò il signor Defoin.

- No, ve lo giuro, sono innocente, non avrei mai ucciso mia mo-glie, la amavo. - rispose Louis alle accuse.

- Commissario, Michel, Christophe ed io abbiamo perlustrato e controllato la casa, sia al piano di sopra che al piano di sotto, non ab-biamo trovato nessun indizio. - osservò uno dei tre agenti.

- Signor Varane, per rispetto al giudice Legrand, non la porteremo con noi. Non si allontani da casa, però. Ritorneremo domani per con-tinuare ad indagare. - rispose il commissario.

I quattro se ne andarono. - Non ti preoccupare. – lo tranquillizzò Jean-Pierre per la seconda

volta nel giro di poche ore, ma con sempre minor convincimento - Ti starò vicino, se hai bisogno di me, manda un servitore ed io mi preci-piterò qui. Sarò da te di primo mattino. Buonanotte.

Uscì dalla porta e camminando lentamente andò a casa. Prima di mettersi a letto, prese la sua solita tisana, fece una preghiera per la povera anima di Marie e sperò di riuscire a dormire. In realtà, non poteva. Marie era per lui una delle donne più belle della Terra e gli era impossibile che fosse morta. Passò tutta la notte piangendo silenziosa-

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mente, pensando ai bei momenti passati con l’amica.La mattina seguente Jean-Pierre si alzò di buon’ora. Chiese alla

cameriera di preparargli una colazione leggera dato che, probabilmen-te, si sarebbe fermato a pranzare dall’amico Louis. Consumò veloce-mente il pasto e, dopo essersi cambiato, si rilassò un po’ con la sua adorata pipa, creando tanti piccoli anelli di fumo nella terrazza del suo appartamento. Quando decise che fosse il momento, afferrò il suo giaccone e uscì fuori. Purtroppo per lui quel giorno la città era baciata da un tiepido sole e non possedeva lo stesso fascino rispetto a sotto la pioggia. Tuttavia forse la luce avrebbe consentito un umore migliore al suo povero amico e si diresse verso l’abitazione pensando a come consolarlo.

Una volta di fronte alla porta si accorse subito che qualcosa non andava, le tende della casa erano chiuse nonostante l’orario e la gior-nata limpida. Sbatté il battente dell’entrata con non troppa forza aspet-tandosi di vedere il volto triste di Louis ad accoglierlo. La servitù era stata, infatti, mandata a casa. L’amico desiderava restare solo e non avrebbe sopportato così tante persone attorno. Gli era stato riferito da uno dei camerieri incontrato per caso in strada. Bussò altre tre volte, notando che nessuno apriva, aspettò qualche minuto e ribussò stavolta più forte.

Al termine della pazienza diede una spallata alla porta e quella si aprì causando un po’ di baccano. Una volta dentro rimase scioccato nel trovare il suo caro Louis, oramai esangue e inanimato, appoggiato alla mantovana della tenda. Il corpo era stato brutalmente trapassato e dal petto del caro fuoriusciva ancora l’elsa di un grosso pugnale. Nulla intorno tranne alcuni schizzi di sangue e un semplice pezzo di carta. Jean-Pierre era profondamente scosso, ogni sua azione era come se fosse vista da un altro attraverso una bolla. Non riuscì a concepire appieno ciò che accadde.

Quasi meccanicamente si avvicinò ad uno dei tanti ragazzetti che giravano per la città, gli lasciò una mancia abbondante e lo inviò ad

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avvertire la polizia dell’urgenza. Dopodiché si concesse un pianto lun-go e disperato. Aveva appena perso un suo amico fraterno e lo shock fu molto forte.

Singhiozzò per circa un’ora ininterrottamente. In preda ad una fu-ria che non gli era consueta distrusse tutti gli splendidi vasi che deco-ravano il salone. Gettò a terra quell’orribile specchio che rifletteva un uomo distrutto accanto ad un altro oramai morto. Mai si era ritrovato in una situazione del genere, certo aveva visto funerali ma mai era stato davanti ad un corpo così legato a lui e in quelle condizioni.

Quando riuscì a ritornare più o meno in sé si ritrovò circondato dai poliziotti. Notando che il pover’uomo si era parzialmente calmato calò il silenzio e un uomo commissario gli si pose accanto. Trasci-nando un po’ la pancia rigonfia e asciugandosi la fronte imperlata di sudore arrivò a Jean-Pierre. Si sistemò la bombetta per rendersi più presentabile data la situazione in cui si erano ritrovati. I capelli grigio chiaro erano ordinati e lindi dunque la polizia non era arrivata da mol-to, oppure quell’uomo preferiva preoccuparsi del suo aspetto più che dei casi. Non aveva dato una buona impressione a Jean-Pierre, già il giorno prima per Marie. Così sicuro di sé e orgoglioso, nonostante in realtà fosse semplicemente un ingenuo egocentrico. Perché proprio lui doveva essere lì in quel momento?

- Vedo che si è ripreso. Sono molto dispiaciuto, ma sono costretto a farle qualche domanda - disse il poliziotto con voce monotona.

- Come si è ritrovato qui? Cosa è accaduto? Cosa ne sa di questo? - continuò mentre estraeva il biglietto.

Il tono con cui si rivolse al magistrato lasciò sottintendere che era assai sospettoso.

- Non saprei cosa dirle. Stavo camminando per raggiungere il caro e povero Louis e consolarlo della perdita. Nessuno apriva la porta così ho tentato con una spallata e appena entrato… ho… era tutto… - disse a fatica il magistrato - così. Era tutto così. - concluse con un fil di voce.

Il grassaccio gli rivolse qualche altra domanda con scarsi risultati.

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Scrutò nuovamente con i suoi occhi bruni la scena del crimine e, data la situazione del decesso e dello stato d’animo che doveva avere l’uo-mo prima di morire, dichiarò:

- Un suicidio! Ecco di che si tratta! L’oramai deceduto Louis Va-rane è restato molto turbato in seguito alla morte della moglie e dopo tale avvenimento si è tolto la vita per raggiungerla. Non c’è molto da vedere.

- Ma come dobbiamo trattare la morte della moglie? In entrambi i casi è stato ritrovato un messaggio con la stessa firma e calligrafia - commentò un altro agente.

- Anche qui la risposta è più che semplice. Il marito uccide la mo-glie in seguito ad una scoperta, probabilmente un tradimento. Non era sua intenzione arrivare a tanto ma lo ha fatto e i sensi di colpa lo atta-nagliano. Il giorno seguente si suicida per il troppo dolore.

Jean-Pierre era incredulo, come si poteva pensare una situazione del genere, come avrebbe mai potuto il suo amico compiere un atto del genere? Era ridicolo, ma più se lo ripeteva e più era quella stessa frase a sembrargli ridicola. D’altronde di cos’altro poteva trattarsi? Era ap-parentemente l’unica teoria semplice e plausibile. Non sapeva più in cosa credere e la sua condizione mentale non era delle migliori in quel momento. Si decise comunque a leggere il testo da poco discusso. Se lo fece passare dal commissario, aprì il foglietto e lesse:

-Temi ciò che brami. “E. IV” Così semplice ed allo stesso tempo inquietante. Causò in lui un

immenso terrore e rabbia. Si trattava dunque di un folle assassino che aveva pure avuto il coraggio di firmare i suoi omicidi. Che si trattasse di Louis o meno, decise che avrebbe scoperto chi fosse questo miste-rioso E. IV. Diede un’altra occhiata alla casa giusto per essere sicuro di non tralasciare nulla di importante, ma senza risultati. All’improv-viso notò un minimo dettaglio che il suo occhio non aveva colto ini-zialmente. Ebbe la forte impressione che nel quadro si fosse creata una piccola macchia scura. Non vi diede peso, tuttavia si incuriosì e,

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pensando di poter trovare qualche collegamento, scelse di informarsi su quella tela.

Tre giorni dopo il funerale di Louis e della moglie, Jean-Pierre si recò direttamente a casa dell’autore del dipinto: Eugène Manet. Aveva deciso di scoprire le origini del ritratto. Ad aprirgli la porta fu una donna. Era giovane, bionda e aveva gli occhi di un verde molto parti-colare, quasi color ottanio. Era bellissima e fece colpo su Jean-Pierre, che stette per invitarla a cena, ma subito si ricordò del vero motivo per cui era là.

- Buongiorno, desidera? - disse lei con una voce calda e suadente.- Cerco Eugène Manet. È in casa? - rispose lui.- Prego, si accomodi. Jean-Pierre fu fatto accomodare in salone e davanti a lui si sedet-

te la donna, che iniziò a parlare. Il magistrato nei primi minuti della conversazione non la ascoltò, perché era intento ad osservare la casa. Ogni muro, ogni singolo angolo era tappezzato di quadri riportanti la firma del pittore, ma anche di un’altra mano molto raffinata, femmini-le probabilmente.

- Mi sta ascoltando? - chiese la donna.- Sì, mi scusi.- Bene. Come le stavo dicendo, io sono Berthe Morrisot, la moglie

di Eugène. Lui è morto nove anni fa. Lei desidera? Spero solo che non avesse un debito anche con lei.

- No, no signora. Il mio nome è Jean-Pierre Legrand e sono venu-to per chiederle la lista dei dipinti di suo marito. Sa, io posseggo un suo quadro, è un ritratto e vorrei tanto sapere l’identità del soggetto raffigurato.

- Per fortuna. Certo, gliela procuro subito, vi è anche un plico ap-posito per i ritratti con una descrizione per ogni soggetto raffigurato.

La moglie si alzò e, dopo qualche minuto, porse al magistrato il documento.

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Jean-Pierre cercò il quadro in quel momento stesso ma non trovò nulla al riguardo, quindi dichiarò: - Ma qui non c’è.

La donna gli suggerì, allora, di portarle il dipinto il giorno succes-sivo in visione e poi lo congedò, dicendo che sarebbe dovuta uscire.

I due si salutarono. Il giorno dopo Jean-Pierre ritornò con il di-pinto, come la donna gli aveva suggerito di fare. Suonò il campanello, ma non rispose nessuno. Passò mezz’ora e, dopo sei squilli di campa-nello, decise di fare un giro intorno alla casa. La finestra della cucina era aperta. Entrò da lì e incominciò a girare per la casa, in cerca della donna. Posò il quadro nel salone. Stava salendo le scale quando una voce lo fece trasalire.

- Ma lei che ci fa qua? - lo richiamò la vedova. Era in accappatoio e aveva i capelli avvolti in un asciugamano. Jean-Pierre si grattò la nuca imbarazzato e parlò: - Mi scusi in-

finitamente, sono mortificato. Ho aspettato mezz’ora ma non apriva nessuno, quindi sono entrato dalla finestra. Ora vado via.

- Aspetti, mi cambio e vengo.La signora si cambiò e i due si ritrovarono nel salone. Jean-Pierre

le mostrò il quadro e, solo in quel momento, notò che la macchia era scomparsa. Appunto, erano stati solo l’immaginazione e il dolore a confondergli la mente.

- Ah, è lui. Speravo di non rivederlo mai più. Questo è l’ultimo quadro di Eugène. Quando iniziò a dipingerlo era appena ritornato dal suo maestro, un vecchio monaco di clausura con una viva passione per l’arte. Eugène si chiuse nel suo studio per tre giorni, senza toccare cibo. Io ero molto preoccupata e tentavo di convincerlo a uscire, ma lui era focalizzato solo sul ritratto. Lavorava anche di notte. Un gior-no, non avendo più risposte da lui e non sentendo rumori provenire dal suo studio, mi feci forza e forzai la porta. Lui era là con il volto rivolto verso di me…

La donna pronunciò le ultime parole singhiozzando e poi scoppiò a piangere. Jean-Pierre la consolò e lei continuò: - Era morto. Non so

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chi sia rappresentato nel quadro, quando sono entrata nello studio era ormai completo. Avevo chiesto a un maggiordomo di bruciarlo, ma evidentemente mi ha ingannata e lo ha venduto. Può ottenere notizie solo dal maestro di mio marito, non l’ho più visto ma lei lo può trovare al monastero di Saint Claude.

Il magistrato uscì dalla casa molto scosso, ma si diresse immedia-tamente al monastero, dove si presentò al monaco, gli raccontò tutto e gli mostrò il quadro.

Alla vista della tela, il monaco rimase profondamente turbato e raccontò a Jean-Pierre le origini del ritratto.

- Lui è Eustache IV di Boulogne, un signorotto feudale del 1100. È famoso per le sue incursioni contro cittadine indifese, che faceva bruciare nonostante si fossero arrese. La più famosa è quella di Sèes, dove fu maledetto da un vescovo. Tolga il quadro dalla cornice e tro-verà una pergamena. In questa è racchiusa la maledizione del vescovo che fu consegnata a un bambino, unico superstite

Appena tornato a casa Jean-Pierre fece come gli aveva detto il mo-naco e vide che era tutto vero. Sulla pergamena era incisa una scritta in latino, che mentalmente tradusse: “Io maledico te che hai dato fuoco a questa innocente cittadina dopo la sua resa: per questo sarai punito da Dio Onnipotente e perseguitato in eterno”.

Alla conoscenza di tutto ciò il magistrato rimase un po’ scosso e decise di riportare il quadro a casa dell’amico.

Arrivato a destinazione scese dalla carrozza prese il quadro è si apprestò ad entrare, però davanti a lui si fermò un cane gli ringhiava. Il magistrato iniziò ad indietreggiare finché non venne la proprietaria, lo prese e chiese scusa per il comportamento insolito dell’animale.

Entrò dentro casa, appese il quadro al muro perché aveva inten-zione di esaminarlo. Voleva prepararsi da mangiare, ma non poté: i domestici erano stati licenziati e la dispensa era vuota.

Lasciò stare il cibo e si sedette sul divano a scrutare la tela. Notò che la macchia era ricomparsa ed era più grande. Pensò che fosse solo

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un po’ di fuliggine, cercò di toglierla senza successo. Dopo un po’ ci rinunciò, si sdraiò sul divano. La storia riguardante il quadro non poteva essere vera. Tuttavia più cercava di convincersi e più temeva il contrario. E se fosse stato proprio il quadro la causa di queste morti? E se lui stesso avesse rischiato quell’orrenda fine?

A un certo punto gli parve di scorgere Eustache che lo seguiva con lo sguardo anche se si spostava. Credeva che fosse solo uno scherzo della sua immaginazione, però per sicurezza volle girare il dipinto. Quando si avvicinò al ritratto si accorse che questo emanava calo-re. Aveva le traveggole? Ma appena lo tocco si bruciò il dito. Decise quindi di non muoverlo.

Di spalle sentì il crepitio del fuoco. Avvertiva quel rumore sempre più forte. All’improvviso si volse, ma la casa era nuovamente silen-ziosa.

Si fecero le dieci di notte. Jean era molto stanco perché era da ore che osservava il quadro in attesa di qualche altro segno.

Si preparò un bicchiere di whisky. Voleva dimenticare un po’ tutto quello che era accaduto, e prima ne bevve uno per la sete, poi un altro alla salute di Marie, uno per Louis, uno per i suoi genitori, finché si addormentò ubriaco sul divano.

Nel cuore della notte, a causa di alcuni forti cigolii, si svegliò. Cercava di non guardare il quadro, ma una forza misteriosa lo costrin-se. La stanza parve liquefarsi come neve al sole, si sentì risucchiare dalla tela finché non vi entrò. Ora era circondato dalle fiamme che si avvicinavano sempre di più...

Mentre lui si sentiva spacciato, si ritrovò a casa, proprio nel salone in cui si era disteso. Lui teneva gli occhi chiusi dalla paura, finché prese coraggio e li aprì.

E in quel momento vide il fantasma di Eustache IV di Boulogne che usciva dallo squarcio della tela.

Piano piano lo spettro si avvicinava sempre di più, emettendo stra-ni gemiti. Jean-Pierre impaurito indietreggiò, ma ciò sembrò far imbe-

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stialire ancora di più il fantasma. Il corpo dell’uomo era diventato ge-lido dal terrore, la sua mente non riusciva a trovare modi per scampare a quella crudele morte, delle lacrime gli rigarono il viso e implorava pietà al suo persecutore. Ma quello sembrava non sentirlo, avanzava con un unico scopo: uccidere.

Lo spirito lo fissava con quel suo sguardo freddo e penetrante, come a volerlo immobilizzare . Il povero magistrato incapace di muo-versi iniziò ad urlare ma nessuno lo sentì, ed intanto la malefica crea-tura rallentava ancora di più il passo, quasi giocando al gatto col topo.

In quei minuti un silenzio tombale rendeva l’atmosfera ancora più spaventosa e improvvisamente il cavaliere cambiò del tutto espressio-ne, emise un urlo agghiacciante che fece gelare le vene al magistrato, il quale emise un urlo ancora più forte. Lo spettro infilzò l’uomo tre volte dritto al cuore.

Due giorni dopo si celebrò il funerale di Jean-Pierre, a cui parteci-parono pochi amici e familiari.

In seguito in casa Varane scoppiò un misterioso incendio. Non si capì mai da chi o da cosa fosse stato provocato, ma l’unica cosa certa era che nell’abitazione non era rimasto nulla oltre al quadro del magi-strato Legrand, rimasto miracolosamente indenne.

Dicembre 1894, Londra

Successivamente il quadro venne nuovamente venduto all’asta, l’acquirente fu un politico inglese, che rimase immediatamente affa-scinato dal dipinto. Era un uomo nel pieno del vigore, all’apice della carriera e socialmente molto stimato. Non poteva essere più fortunato. Trascorse la mattinata della consegna a contemplare la tela. Inspiega-bilmente tanto lui quanto il resto della sua famiglia, formata da moglie e quattro figli, furono trovati l’indomani stesso trafitti a morte, nella sala in cui era appeso il quadro.

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Il giorno dopo la polizia indagò a fondo per cercare eventuali indi-zi all’interno dell’abitazione senza trovare nulla, lo stesso commissa-rio rimase fortemente turbato dalla figura raffigurata nel quadro. Essa sembrava non volesse distogliere i suoi occhi rossi dall’ufficiale di polizia. L’uomo era come immobilizzato, scosso e confuso, anche se non credeva realmente a ciò che vedeva. A farlo tornare in sé fu l’urlo di un suo collega. Un incendio era scoppiato dall’altro lato della casa. Tutti gli agenti furono costretti ad evacuare la servitù dalla villa. Ci volle molto prima che l’incendio venisse spento.

L’edificio fu ridotto in macerie. L’unica cosa rimasta integra era il quadro. Quel misterioso quadro causa di tutte quelle vittime.

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Marco Contarino - Giorgia Fisichella - Delia Pennisi - Livia Pennisi - Elèna Sirchia - Martina Vairo - Carola Vallone

Qui un nuovo mondo vi attende

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In una piccola città francese abitava Madeleine, una ragazzina di circa sette anni. Una domenica mattina, i genitori decisero di accom-pagnarla sul lago vicino casa che in inverno, trasformatosi in un’ideale pista di ghiaccio, era perfetto per allenarsi a pattinare.

Mentre piroettava leggiadra, si specchiò su quella magica pista che rifletteva i suoi spensierati occhi verdi, il suo dolce viso sfumato sul rosa, decorato dai morbidi capelli castani raccolti in una coda alta, ornati da margherite profumate. Si ripeteva tra sé e sé: “Diventerò la più grande e talentuosa pattinatrice del mondo.”

Sempre quello stesso giorno, verso il primo pomeriggio, Made-line andò a trovare sua nonna Margot, anziana ma arzilla, la quale viveva in una campagna nella periferia della città.

Madeleine, appena scesa dalla macchina, corse ad abbracciare la sua dolce nonna: - Nonnina, oggi potremo giocare al nostro gioco pre-ferito! Nascondino tra gli alberi della campagna!

In seguito a quel dolce abbraccio, i genitori di Madeleine le disse-ro: - Tesoro, verremo a riprenderti verso sera, divertiti con la nonna e mi raccomando non farla stancare troppo.

Così, Madeleine andò a nascondersi dietro un grande ulivo; per Margot non era una cosa semplice confrontarsi con l’energia giovanile e prorompente della nipote poiché i suoi espressivi occhi vede chiaro non riuscivano più a mettere a fuoco le immagini, ma nonostante tutto, non si perse d’animo scrutando ogni albero, ogni possibile nascondi-glio fin quando la trovò.

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Madeleine allora sbuffò: - Uffa, era un nascondiglio perfetto!Dopo aver passato quei bei momenti insieme Margot propose alla

nipotina di trascorrere la restante parte della giornata in casa, dopo avrebbero potuto gustarsi un tè verde.

A quelle parole Madeleine esclamò all’istante: - Sì, sì, non vedo l’ora, adoro il tè con biscotti.

Verso sera, la madre e il padre di Madeline ritornarono a ripren-derla e la piccola per salutarla nonna le diede un bacino sulla guancia: - La prossima volta giocheremo di nuovo a nascondino insieme!

Dopo i saluti, Madeleine e i suoi genitori si diressero verso la mac-china, aprirono lo sportello e si avviarono verso casa.

Era ormai sera e le stelle si manifestavano in tutto il loro splendo-re, allora Madeleine chiese alla madre di aprire il finestrino per ammi-rarle meglio, ma, così facendo entrò in auto un freddo venticello che scompigliò i suoi capelli scuri e anche quelli della figlia.

Ritornarono presto a casa, infreddoliti e stanchi. Madeleine decise di andare a dormire, dopo quella estenuante giornata, ma il suo riposo venne ostacolato dalle folli esplosioni causate dai folli esperimenti di suo padre il quale , con questi esperimenti, cercava rimedi alle malat-tie più rare e difficili da curare.

A causa di questa esplosione, i capelli ricci e biondi del padre di Madeleine si drizzarono a tal punto da realizzare una pettinatura molto simile a quella di Einstein.

Un giorno primaverile, mentre Lorraine, Edmond e Margot sor-seggiavano un caffè nel piccolo bar vicino casa, la piccola Madelei-ne uscì dal locale e incominciò a camminare. In strada c’erano tante colombe e qualche foglia volava qua e là. Ad un certo punto la sua attenzione si fermò di fronte ad una vetrina. Appeso alla porta vi era un cartellino giallastro e scolorito che diceva: “Entrate! Qui un nuovo mondo vi attende!”

Madeleine si guardò alle spalle come per vedere se qualcuno la

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stesse osservando, poi aprì la porta ed entrò. La sala in cui si trovava era molto grande. Vi erano librerie ovunque e grossi scatoloni ingom-bravano i tavoli in legno antico. I libri erano pieni di polvere, le pareti colorate di un marrone opaco e sul tetto non vi erano lampadari o lan-terne. L’unica fonte di luce era quella proveniente dall’esterno. Il pavi-mento era decorato con disegni geometrici neri e arancioni. Madeleine fece qualche passo in avanti e notò che una mattonella era diversa delle altre. Su di essa vi era disegnato un segno particolare: era un triangolo equilatero rosso con una freccetta all’interno che si biforca-va in tre punte e ognuna puntava una direzione diversa: una indicava il fumo, un’altra una mano ed un’altra ancora una croce. La bambina era come attratta da quella incisione e involontariamente vi mise entrambi i piedi sopra. La mattonella si abbassò sotto il suo peso provocando una reazione a catena. Successivamente altre mattonelle cedettero e la bambina cadde nell’oscurità. Cadde sul pavimento di una cameretta abbastanza piccola. Assomigliava al laboratorio di suo padre Edmond, ma quello in cui si trovava adesso era molto più buio e freddo. L’unica fonte di luce che illuminava la camera erano i liquidi fluorescenti den-tro le ampolle posate su un tavolino al centro della stanza. Ognuna di esse emanava un profumo diverso, liberando nell’aria un miscuglio di odori intensi. Le pareti che delimitavano l’aula erano coperte da quat-tro librerie, lunghe e alte fino al tetto. Queste erano piene di libri e altri oggetti di vetro che luccicavano, uno più bizzarro dell’altro.

Madeleine si alzò impaurita e incominciò a guardarsi attorno per cercare una via di fuga ma non vi erano ne porte né finestre. Cercò di chiamare aiuto, ma nessuno poteva sentirla, quindi si arrese e inco-minciò ad osservare le boccette colorate sul tavolo. Dopo un po’ sentì una presenza imponente dietro di sé, si girò di scatto, ma non vide nessuno.

Una voce rauca e profonda parlò. Era un grugnito che sembrava venisse dall’oltretomba che la paralizzò. Le disse che conosceva tutti i suoi segreti ed i sogni che aveva per il futuro e che poteva realizzarli

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in un modo semplicissimo. Doveva prendere la fiala con su scritto “I sogni hanno un destino” ed ogni sera berne un sorso. Madeleine sembrò pensarci su. Ferma e atterrita con quella voce che ancora le correva dentro, come un automa, prese la boccetta colorata, che aveva una forma particolare, la forma di un corpo. La girò e la rigirò ed il contenuto assunse un colore rosso, mentre il calore della boccetta co-minciò ad aumentare. Ciò nonostante, non riusciva a staccarvi le mani. Un intruglio rossastro viscido cominciò a colare imbrattandola tutta. Un urlo le uscì dalla bocca. Riguardò la boccetta: era tutto scomparso, la boccetta non era più calda ed il contenuto non aveva più quel colore orribile. Con il cuore che batteva all’impazzata la prese e la mise nella borsa. Poi batté i piedi per terra e un cerchio sotto i suoi piedi si in-nalzò come una piattaforma portandola nella camera principale. Infine uscì dalla porta d’ingresso.

Quella sera il cielo era stellato come non mai, il rosso del sole che tramontava era cosi denso che sembrava sangue, la luna appena visi-bile faceva fatica a farsi notare, uno strano silenzio avvolgeva tutto, soltanto l’ululato di qualche cane randagio riempiva il vuoto di quella sera cosi strana. La bambina si tirò su il cappuccio e lentamente si avviò verso casa.

Mentre camminava di colpo sentì alle sue spalle dei rumori, erano dei passi, no, no, era qualcosa di ritmato, si girò, s’incamminò nuova-mente, ma il rumore riprese, ritmato. Ebbe paura, allungò il passo, ma quel tic, tic non andò via, accelerò ancora, niente, cominciò a correre: il fiato si fece sempre più grosso, infine si fermò. Il rumore non c’era più, riprese fiato, il respiro ritornò ad un ritmo normale. “I denti, i den-ti” ad un tratto i denti le battevano per il freddo. “Il rumore” pensò, “che scema!” Era questo il rumore che sentiva. Si riavviò. La strada era umida, aveva piovuto da poco tempo e lo scalpicciò delle suole che entravano ed uscivano dalle pozzanghere le faceva compagnia, era un modo per distrarla e rassicurarla.

Infine, in fondo al vialetto vide il profilo della sua casa, quelle

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mura cosi spesse, le luci accese delle finestre la tranquillizzarono. Di corsa si avvicinò al portone di casa e con il sorriso negli occhi suonò il campanello e aspettò che la nonna venisse ad aprirle la porta.

A casa Madeleine posò la boccetta in un cassetto e la dimenticò lì per molto tempo.

Madeleine era ormai cresciuta, aveva tredici anni. Conobbe due

ragazzi, Hélène e Michel. Hélène era una ragazza di dodici anni, e le piaceva molto girare la città con la sua bici. Michel aveva un anno di più e adorava allenarsi all’aria aperta con il sua skateboard. Un giorno la ragazza pattinava in un parco, girovagava qua e là, ammirava fonta-ne e maestosi alberi pieni di fiori. A un tratto, mentre scattava qualche foto, si trovò Hélène proprio in mezzo e non riuscendo a frenare in tempo le finì addosso.

- Scusami! - esclamò Hélène. - Tranquilla, capita. - rispose Madeleine. Quest’ultima si accorse che Hélène era molto timida, così cercò

di non forzarla e di procedere per gradi. Si presentò e a poco a poco fecero conoscenza. Nel frattempo Michel ascoltava la musica cammi-nando con il suo skateboard, e distratto dai suoi pensieri si scontrò con Madeleine.

- Perdonami, sono desolato! - disse Michel.E Madeleine: - Non fa niente.Hélène abbassò gli occhi, ma sussurrò “ciao”. I tre chiacchieraro-

no un po’. Michel propose: - Che ne dite di andare a prendere un gelato?

Tanto per farmi perdonare. Madeleine rispose subito con un bel “sì” Hélène invece ci mise un

po’, ma alla fine accettò. Il ragazzo se ne mostrò contento: - Perfetto! Offro io, andiamo! I tre presero i loro oggetti e si avviarono alla gelateria che stava

alla fine della strada. Da questo momento si videro ogni giorno e di-

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ventarono amici inseparabili!

Madeleine aveva un grande sogno nel cassetto: diventare una pat-tinatrice sul ghiaccio professionista.

Era un mercoledì di dicembre quando la ragazza dopo pranzo era andata ad allenarsi nella pista vicino casa per la gara di sabato.

Era particolarmente emozionata perché doveva provare i suoi nuo-vi pattini. Erano blu notte con qualche brillantino qua e là; di dentro erano soffici e comodi e la lama era molto sottile, perfetta per i flip e gli axsel (uno dei salti più difficili da fare).

Così scese dalla macchina, salutò la mamma con un grande bacio e si precipitò subito in pista.

Dopo un po’ di streching iniziò a pattinare veloce e atletica. Come una vera professionista, eseguì una serie di piroette che si conclusero con l’axsel. Con la mente, iniziò fantasticare sulla gara di sabato, sen-tiva già la musica e immaginò anche il momento della premiazione.

Il pubblico la guardava estasiato, continuava ad applaudire, ma lei era talmente concentrata che non se ne accorse. D’improvviso, men-tre stava finendo la sua coreografia, cadde bruscamente sul ghiaccio. Nella fretta, infatti, si era legata male i pattini e così un filo si era attor-cigliato alla lama impedendo alla fanciulla di atterrare correttamente.

I genitori non persero un attimo nel chiamare l’ambulanza e por-tarla in ospedale, poiché non riusciva a muoversi. Restò in una clinica per molto tempo. Solo dopo diversi giorni i medici avvisarono i geni-tori che Madeleine non avrebbe potuto svolgere più attività fisica in modo agonistico. L’anca era rotta in modo scomposto e i legamenti del ginocchio compromessi per sempre.

Lei entrò in uno stato di cupa depressione: non parlava, mangiava a fatica e passava le sue giornate a fissare il soffitto.

Una volta a casa, tuttavia, si ricordò della pozione che aveva pre-so molto tempo prima nello strano negozio vicino al bar sotto casa. Doveva trovarsi ancora chiusa nel cassetto. Febbrilmente, vi frugò e,

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quasi attirata magneticamente, ne bevve un sorso. La notte non riuscì a chiudere occhio per i forti dolori al fianco e

perché una voce profonda, proprio come quella del negozio di molti anni prima, continuava a ripeterle: - Lo stai uccidendo! Lo stai ucci-dendo!

Ma prima di alzarsi dal letto Madeleine sentì un’ultima frase pri-ma che la misteriosa voce scomparisse: - Lo hai ucciso!

Alle luci dell’alba si sentiva di nuovo agile e libera come prima dell’incidente. Aveva deciso di non dire nulla ai genitori della voce e della pozione, ma nonostante ciò corse da questi per far vedere che era in gran forma e poteva ritornare a pattinare.

Dopo aver aperto la porta della sua camera, iniziò a chiamare il nome dei genitori ma invano. Iniziò, quindi, a correre per tutta la sua casa, ma dei genitori non c’era traccia.

L’ultima stanza dove li cercò fu la sala da pranzo, ma la sorpresa fu terribile…

Davanti a lei giaceva il corpo privo di vita di suo padre. La madre china su di lui, lo abbracciava ed accarezzava. La ragazza non credette ai suoi occhi. Una lacrima scese dalle sue guance rosee, il suo sguar-do fisso sul cadavere. Lei non capiva il perché di questi avvenimenti, ma sentiva un peso sul cuore, sentiva un senso di colpa inspiegabile. Si asciugò gli occhi, ormai arrossati dalle lacrime, poi si rinchiuse in camera. Si sedette sul morbido letto ed iniziò a pensare ai bei momenti passati insieme al padre, di quante cose avrebbe voluto fare con lui e che ormai non poteva più. Ripensò a quella volta in cui era andata nel suo laboratorio per curiosare e ad un certo punto aveva mescolato due liquidi creando una reazione esplosiva molto colorata. Così alla fine dell’esperimento si era ritrovata con due fiale in mano, il viso coperto di fuliggine e i capelli dritti.

Quando la vide il padre era scoppiato a ridere: - La piccola Made-leine è tutta suo padre!

Rise tra le lacrime per poi ripiombare nello sconforto. Sia accasciò

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sul letto e iniziò a piangere. Quella sera la povera Madeleine non riu-scì ad addormentarsi.

Dopo il funerale del padre, continuò il pattinaggio, ma più il tem-po passava più aveva incidenti. Prima si ruppe il braccio, poi la gam-ba e poi di nuovo l’anca. Ogni volta che subiva un danno o un malore rimediava con un sorso di pozione. Ma con questa azione Madelei-ne perdeva un suo caro: la stessa sorte del padre toccò alla nonna, a Hélène e anche a Michel.

Una sera Madeleine si affacciò alla finestra e guardò il cielo tran-quillo. All’improvviso riaffiorarono i ricordi di suo padre, di Hélène, di Michel. Le mancavano i suoi amici, suo padre, sua nonna. Tornò ad essere triste. Così trascorse un intero anno.

La ragazza, tuttavia, non cessò mai di chiedersi perché tutti que-sti eventi tragici avessero colpito i suoi cari. Quindi, un pomeriggio decise di ritornare in quella strana libreria-laboratorio per avere infor-mazioni. Rifacendo lo stesso percorso dell’ultima volta, rientrò con coraggio nel laboratorio e rimise i piedi nuovamente nella mattonella incisa. La stanza però, non era silenziosa come la prima volta, ma si sentivano dei gridi acutissimi che provocavano paura e timore.

All’improvviso si sentì una profonda risata malvagia e Madeleine terrorizzata riconobbe la voce: era la stessa che le risuonava in testa ogni volta che beveva la pozione.

Ad un tratto la voce le mormorò: - Mia cara Madeleine, in questo periodo mi sei stata molto utile perché con l’egoismo che produceva l’infuso che ti ho dato, sei riuscita a rimediare ai tuoi problemi fregan-dotene dei tuoi amici e dei tuoi parenti… UCCIDENDOLI.

La voce rise con malignità e dopo qualche secondo si mostrò in tutta la sua forma.

Il mostro era alto circa due metri, nascosto da una specie di foschia nera che lo avvolgeva, ma si poteva intravedere il corpo grigio e mu-scoloso. Gli occhi erano di un rosso sangue e sprigionavano una forza

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magnetica. Sia le mani che i piedi sembravano normali, invece dalla schiena spuntavano due enormi ali mostruose, arcuate e sfumate sul nero: queste però al buio si illuminavano di giallo, arancione e verde fosforescente. La sua coda lunga e squamosa si muoveva rapida. L’a-spetto più sinistro della creatura era una specie di vortice che girava velocemente e apriva un varco nel suo cuore attirando a sé le anime delle sue vittime tanto che Madeleine dovette tenersi a un mobile per non essere risucchiata.

Nella sua mente rimbombava la voce: - Ormai non puoi fare più niente per loro! Li hai uccisi tu stessa!

Sentendosi dire queste parole Madeleine incominciò ad indietreg-giare quasi inciampando per lo sconvolgimento.

Mentre piangeva pensava : - Mio padre è morto a causa mia? Come ho potuto fargli questo? I miei amici, la mia famiglia… si sono sempre fidati di me ed io… io li ho uccisi!

Cadde su qualche ampolla che si ruppe sul pavimento e fra le la-crime si rimise in piedi. Non capiva come avesse potuto fidarsi di quel mostro. La creatura rideva ancora e continuava a ripeterle frasi scorag-gianti e piene di dolore.

Poi le rivolse i suoi occhi rossi e le disse: - Ormai sei anche tu un mostro.

Madeleine a queste parole alzò il viso, prese tutto il coraggio che le era rimasto e rispose: - No! Qui l’unico mostro sei tu! - e piena di rabbia gli lanciò una delle boccette che aveva vicino, dritta nel vortice.

Tutto intorno incominciò a tremare e Madeleine prese a pestare il pavimento, quasi per cercare di schiacciare un pulsante, e la mattonel-la sotto di lei si azionò a molla portandola al piano superiore dal quale era entrata. Mentre la ragazza fuggiva il mostro si disintegrava seguito dalle esplosioni delle altre boccette.

Madeleine camminava lentamente sulla strada praticamente vuo-ta, vi erano solo poche macchine sparse per il viale, una leggera piog-gerellina le rigava il viso e le foglie scosse dal vento le strofinavano

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i piedi. Per un momento balenarono davanti ai suoi occhi alcune im-magini raffi-guranti il padre morto nella sala da pranzo, il cimitero, i suoi amici… non resse l’impulso di piangere e scoppiò di nuovo in lacrime.

Tornata a casa, abbracciò la madre e le raccontò tutto quello che era successo: il negozio del terrore, la boccetta magica, la morte di Margot, di Michel e di Hélène. La madre le accarezzò i capelli rassi-curandola che non era colpa sua, non potendo fare a meno di pensare che la figlia fosse diventata pazza a causa della morte dei propri cari.

Si sedettero sul divano e si unirono in un grande, forte e caloroso abbraccio.

Madeleine abbandonò il suo grande sogno e, dopo essere stata vi-sitata da molti ospedali psichiatrici, ritornò a vivere una vita normale.

Dopo molti anni trovò lavoro in una famosa scuola francese, la Louis Le Grand.

- Uno, due, tre, quattro, andiamo ragazze dovete darci dentro e andare a ritmo! Tu, sì proprio tu! Chiacchiera meno e tira fuori quella voce!

E così continuò la sua carriera da professoressa di canto per pa-recchi anni passando di scuola in scuola. Qualche volta Madeleine andava a trovare al cimitero il padre e gli amici per portar loro i fiori e per dire qualche preghiera.

Ma in un pomeriggio autunnale il cimitero era coperto da uno strato di nebbia abbastanza fitta da impedire a Madeleine di vedere le cose più lontane, e mentre ella posava alcune camelie sulla lapide del genitore, le risuonò in mente quella voce antica che ancora una volta la incitava a realizzare i suoi desideri e per un momento pensò che le fosse apparsa davanti quella terribile creatura. Lasciò cadere i fiori e fissò gli occhi dell’umanoide, ma in realtà non vi era nessuna creatura, c’era soltanto nebbia e la tomba del padre.

Quello che aveva visto era solo un’illusione?

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Lorenzo Bellomio - Cristofer Cinaldi - Domenico Fiore - Matteo Galia - Giorgia Inturri - Giorgia Lo Presti - Giuseppe Paratore - Sofia Pennisi - Francesco Puleo - Serena Raciti - Susanna Ramistella - Riccardo Torrisi - Adriano Vitale

The dark side of the moon

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Neal stava aiutando suo padre a scaricare gli ultimi pacchi dal pi-ck-up, mentre il fratellino Billy era insieme alla madre che parlava col venditore.

Il ragazzo indossava delle cuffiette, collegate ad un vecchio mp3 che riproduceva una compilation dei Pink Floid, The Dark Side Of The Moon. Assorto nelle note della sua canzone preferita, si fermò a guar-dare la casa, molto grande e con un che di cupo, non avrebbe saputo ben dire perché. In realtà, aveva un ampio giardino con un vialetto in pietra che, dopo dolci curve in un prato verde, portava a tre scalini ed un portico. Tuttavia, a ben guardare il tutto era come roso dal tempo. La porta in legno, bianca, era circondata da finestre scricchiolanti che lasciavano intravedere una porzione di soggiorno, buio, arredato con un tavolino e delle poltrone dall’aria antiquata. Vi erano due camini, situati nella struttura principale, che a causa dei due piani dell’abita-zione si prolungavano ai lati di quest’ultima. Il tetto a due falde mo-strava molte tegole rotte o mancanti. A sinistra vi era un grande garage con due aperture, seguito da un tetto a terrazzo. Sotto i lati di questo vi erano delle lunghe e sottili travi di metallo che pendevano paralleli al muro, in alcuni punti privo di intonaco, sopra le porte del garage.

- Ancora lavori su lavori! - pensò Neal.Immaginava già suo padre che gli faceva la ramanzina, che non

era più un bambino e che era l’ora di fare l’uomo e prendersi cura delle cose più importanti. In poche parole, avrebbe passato i prossimi

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weekend del mese aiutando il padre nella ristrutturazione. A causa dei numerosi traslochi familiari, era raro che tali monotone occupazioni non saltassero fuori: all’inizio a Neal pareva eccitante, ma col tempo e con l’abitudine se ne era stancato.

Girò lo sguardo verso la madre. Era ancora presa da noiose discus-sioni con l’ormai ex-proprietario: un uomo alto, di carnagione scura con dei baffi folti e neri, come i capelli. Forse era indiano? Aveva visto così tanta gente di nazionalità diverse che avrebbe potuto trovarsi un maori come vicino di casa e sembrargli normale. Ma qui erano nelle periferie di New York, e gente come questa la si trovava da ogni parte. Si sarebbe fatto nuovi amici, avrebbe frequentato la chiesa locale con la famiglia, si sarebbe trovato un lavoretto per guadagnare qualche soldo in più e chissà, magari sarebbe stata la volta buona per trovarsi una ragazza.

- Ehi, Neal, la smetti di fissare il vuoto e mi passi quegli scatoloni? A gridare era stato suo padre, ma a pensare al suo futuro, alla sua

nuova vita nei pressi della Grande Mela, sognando ad occhi aperti, era stato proprio lui.

Dopo innumerevoli e previste corvé, l’indomani pomeriggio il ragazzo decise di dare un’occhiata al suo nuovo quartiere. Non era molto grande, e all’apparenza piacevole. Aveva molti alberelli di cilie-gio sui marciapiedi. Le case disposte a schiera erano quasi tutte di un tenue rosa. Alcune dotate di un giardino come la loro. La gente poi era abbastanza socievole, sorridente al suo passaggio. Eppure, i marcia-piedi fatiscenti e la strada piena di buche furono le uniche impressioni che si fissarono nella sua memoria.

Al termine del viale principale, scorse la parrocchia. Era di stile neogotico, molto grande, armoniosa, dai colo-ri chiari e una scalinata fiancheggiata da statue di Gesù e dei santi. All’interno vide un locale sobrio, modesto, ma pulito. Accese una can-dela e si inginocchiò su una delle panche di fondo. Pregò per la sua famiglia, perché riuscisse ad ambientarsi, ma soprattutto per superare

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le proprie paure. Un prete gli fece un cenno di saluto, ma lui finse di non vederlo. Il segno della croce, rapido, e andò via.

Ogni giorno, però, dopo la scuola Neal vi tornava. Quando vi era dentro si sentiva al sicuro. Si metteva sempre nelle ultime due file per non farsi vedere da alcuni ragazzi, che entravano di nascosto a rubac-chiare qualche soldo dalla sacca delle offerte. Dopo qualche tempo padre Brown, incuriosito da queste visite silenziose, gli andò a parlare.

- Ciao come ti chiami? – gli chiese. Neal finse nuovamente di non sentire e continuò a pregare in gi-

nocchio. - Non so per quale motivo mi stai evitando, ma, dato che sei un

ospite assiduo della casa del Signore, volevo farti alcune domande, se per te va bene.

Neal a questo punto rispose facendo il finto tonto: - Scusi parlava con me?

- Sì, proprio con te. - aveva ribattuto il parroco un po’ infastidito - Qual è il tuo nome, giovanotto?

Neal non voleva rivelarlo perché non sapeva che tipo di perso-na fosse: - Mi chiamo Albert, signore, e lei?

Il parroco aveva capito che era una messa in scena, ma non lo ave-va dato a vedere: - Io sono padre Brown. - una breve pausa - Volevo chiederti perché vieni ogni giorno a messa.

- Be’, è semplice: per pregare. Perché non si vede?Il parroco non ribatté all’impertinenza: - Sì, certo che si vede, ma

volevo sapere perché vieni a pregare ogni giorno. Neal tenne gli occhi bassi: - Chiedo al Signore di non far mai suc-

cedere niente alla mia famiglia, che io vada bene a scuola e che non capiti mai, e dico mai, niente al mio piccolo fratellino.

- Quanti anni ha? - chiese padre Brown. - Otto anni, padre. Ma perché me lo chiede?- Così, per conoscerti meglio. - il ragazzo annuì - e senti, Albert,

qual è il tuo sport preferito?

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- Il tennis, padre… comunque, il mio vero nome è Neal, mi scusi... - Non ti preoccupare, Neal. - gli sorrise. La chiacchierata durò all’incirca una mezz’oretta durante la quale

Neal aveva raccontato la sua giornata tipo, la vita con gli amici e in fa-miglia. Gli parlava inoltre di una strana sensazione che sentiva dentro, come uno spirito malvagio che lo perseguitava da mesi. Padre Brown aveva capito che parlava del demonio, ma non aveva mai pronunciato quel nome per non farlo spaventare. Gli aveva chiesto, dunque, se volesse ripetere questo incontro una volta alla settimana, proprio per parlare di questo malessere. Neal si era subito ritratto, ma, avendo poi capito che lui lo faceva per il suo bene, aveva accettato. Da quel giorno era nato un legame tra i due che rassicurava il ragazzo sempre di più.

Neal tornò a casa dopo una stancante giornata di scuola, suonò il campanello ma nessuno aprì la porta. Aspettò dieci minuti seduto sullo zerbino di fronte alla porta e poi arrivarono i genitori con il fratello.

Billy andò in camera ad attaccare le figurine che aveva scambiato la mattina a scuola con i compagni, Neal e il padre si sedettero sul divano. Il ragazzo voleva dirgli qualcosa che gli stava a cuore, ma temeva di non incontrare il suo favore.

Prese l’argomento alla lontana: - Papà, domani pomeriggio c’è la riunione per decidere lo sport da praticare a scuola.

- Me lo ricordo, Neal, vi accompagnerò io stesso. Il ragazzo si morse nervosamente le labbra: - Non è questo. - poi

tutto d’un fiato - Non voglio scegliere uno sport di squadra, papà, lo so che tu ci tieni e che mi hai spiegato quanto sia importante per aprirsi agli altri e che il mio carattere è troppo introverso, ma io davvero non me la sento. Se per te va bene, vorrei iscrivermi a tennis.

La madre nel frattempo chiamò dal tinello con un timbro gioioso e cristallino: - Basta parlare, tutti a tavola! Billy, scendi. È pronto.

Neal si era alzato rimanendo in attesa della risposta del padre, che

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non fu quella che si aspettava. Gli cinse le spalle con un braccio - po-teva ancora permetterselo superandolo di una buona spanna - e gli sorrise.

- Non è il caso che te ne fai un cruccio adesso. Domani parlerò con il coordinatore e opteremo per la soluzione migliore per te. E in caso non ti sarai ben inserito, chiederemo di cambiare nel corso dell’anno.

A capo chino sul proprio piatto Neal osservava il proprio hambur-ger senza entusiasmo.

Billy che aveva sentito l’ultima parte della conversazione, mise il becco nei suoi affari, come al suo solito: - Ma che barba che sei! Gli sport di squadra sono fantastici… possibile che non tu non riesca mai a farti degli amici?

- Di che t’impicci? - gli brontolò contro risentito, quindi senza trop-pa convinzione - E, comunque, se proprio vuoi saperlo, ho conosciuto Edward. È un tipo in gamba.

Billy stette zitto e continuò a bere la sua bibita. Era sempre allegro lui. La vita scorreva tra le sue dita con una facilità che Neal non ave-va mai provato. Dopo pranzo la madre lavò i piatti e uscì alla ricerca dell’ennesimo impiego che tardavano a trovare sia lei che il marito.

Neal andò a fare i compiti, anche se non ne aveva voglia. Proprio quell’Edward lo aveva invitato al bowling e non voleva deluderlo. Era il suo unico conoscente, dopo più di due settimane dal loro trasfe-rimento. Ma aveva un’interrogazione da recuperare. Così, mentre il fratello, beato lui, guardava i cartoni animati, lui chiese l’aiuto di suo padre per la materia che meno capiva e più odiava.

- Papà, mi fai tu i compiti di matematica… per favore?E lui rispose: - No, Neal, devi imparare a cavartela da solo. Allora

per ottenere il perimetro di base devi prima calcolare AB che si tro-va..?

Neal confuso disse: - BC + CD?Il padre un po’ scontento: - Ci sei quasi, si trova facendo BC per

CD.

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Neal lo guardò male e disse: - Ok, come vuoi tu. Dopo ore e ore di studio erano tutti stanchi, compresa la mamma

che si era appena ritirata dopo un altro infruttuoso colloquio di lavoro. Condivisero una cena frugale, un po’ di tv e andarono a dormire.

Il giorno dopo in macchina verso la scuola sul sedile davanti, Neal era inquieto per l’incontro pomeridiano. La testa appoggiata al fine-strino, le cuffie alle orecchie ascoltava a tutto volume il suo lettore mp3. Il padre stava parlando, ma lui avvertiva a mala pena un brusio.

Finalmente, questi arrabbiatissimo gli strappò un auricolare. Ne venne fuori The lunatic is in my head/ The lunatic is in my head/ You raise the blade, you make the change.

E gli urlò: - Neal, sono già tre volte che ti chiedo cosa vorresti praticare tra rugby, calcio o basket!

Scontroso come non mai Neal si rimise la cuffietta: - Tanto non ti importa niente di quel che voglio io, tanto vale che decidi da solo!

Ma arrivato in palestra ci ripensò. Optò per il calcio. Almeno lì c’era anche Edward. Billy, lui, era diverso, sempre stato più socievole. Si iscrisse a rugby, che praticava già da molto tempo, senza esitazioni. Neal scosse la testa e sospirò, trovando qualche ristoro nel pensiero che di lì a poco ne avrebbe parlato con padre Brown.

Di rientro dal loro incontro, protrattosi più a lungo del previsto, il crepuscolo aveva ceduto ad una notte nera. Vi era la luna piena, ma velata di nubi che ne offuscavano il chiarore. Neal percepiva nella sua testa delle voci confuse mischiate alle canzoni, ormai imparate a me-moria, del suo lettore mp3. D’istinto volle togliere le cuffie, ma si rese conto che il suono fastidioso era solo dentro la sua mente. Improvvi-samente un forte rumore lo impaurì, un brivido gli percorse la schiena e subito si irrigidì, provando quella sensazione sotto il naso che viene prima di piangere e che a volte lui aveva trattenuto. Nell’aria c’era un odore strano. L’angoscia lo attanagliò e capì che qualcosa di mostruo-so stava per accadere.

Si sentì toccare la spalla. Subito Neal si pietrificò, fu incapace di

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muoversi e il cuore gli salì in gola. Avvertì pure il fiato pesante di un uomo accanto a lui, si girò lentamente e a terra vide un’ombra.

La visione lo sconvolse a tal punto da accasciarsi al suolo, mentre il suo grido di paura echeggiò in quell’oscurità.

Lentamente Neal si risvegliò. Si chiese subito dove si trovava. Sentiva la bocca impastata da uno strano sapore colloso. Gli occhi gli sembravano macigni. Con immenso sforzo riuscì a socchiuderli. Ave-va un forte mal di testa. Ciò che guardava gli appariva sfocato, vedeva solo delle grandi masse di colore, come dei grumi. Pian piano la sua vista si rimise a posto; si trovava in un letto anche abbastanza comodo, al centro di una grande stanza, alla sua sinistra c’era un comodino con sopra un bicchiere d’acqua mezzo pieno e alla sua destra si trovava un altro letto ma questa volta vuoto. Le pareti erano colorate di giallo e verde e come il resto della camera erano spoglie. Non passò molto tempo prima di capire che si trovava nella sua camera. Come era arri-vato lì? Cosa gli era accaduto? Si ricordava solo che era andato ad un incontro col parroco e che era tornato da una via non molto conosciuta del quartiere e non illuminata. Stava camminando quando ad un certo punto era caduto a terra e si era risvegliato dove era ora.

Aveva ancora intenzione di dormire, ma si alzò dal letto e, mentre notava di essere in pigiama, udì delle parole indistinte. Non capiva da dove provenissero, suppose dal salotto. Ascoltando meglio riuscì a di-stinguere tre voci: due che sembravano essere quella dei suoi genitori, ma l’altra non gli era familiare. Da dove si trovava riusciva a malape-na a sentire il suono, figuriamoci di cosa si parlava. Così incuriosito decise di andare ad ascoltare. Si avvicinò senza far rumore; ma non si accorse che davanti a lui, a terra, c’era uno dei tantissimi giochi di suo fratello e vi inciampò. Cadde a terra, ma non si fece male, piuttosto si preoccupò di essere stato scoperto. Rimase in silenzio per un secondo. Fortunatamente continuavano a parlare. In punta di piedi si ritrovò davanti alla porta del salotto. Neal si accucciò accanto alla porta, e si

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mise ad origliare, cercando di decifrare ciò che sentiva. Ma proprio in quel momento il mal di testa si fece più forte, gli cominciarono a lacrimare gli occhi, si innervosì e cominciò a sudare.

All’improvviso una voce inquietante e roca era arrivata alle sue spalle facendolo sobbalzare: - Sono dietro di te!

Si spaventò moltissimo, stava quasi per gridare, ma quando si girò vide suo fratello minore che rideva a crepapelle dopo aver fatto saltare in aria il suo fratellone. Neal tirò un sospiro di sollievo.

- Ma come ti permetti! Mi hai fatto quasi venire un infarto! - disse Neal, cercando di rimproverare suo fratello.

- Dovevi vederti - Billy rideva con le lacrime agli occhi - Hai fatto un salto di due metri.

Il ragazzo cercò di rimettersi ad ascoltare. - Dai, gioca con me, - lo supplicava Billy - altrimenti dirò a mam-

ma e papà che stavi origliando. - No, vai via! - ribatté Neal quasi gridando. L’altro cominciò a piangere. Neal così prese uno dei due cuscini a

terra accanto a lui e lo sbatté in testa a suo fratello, sperando di farlo smettere di piangere. Così cominciarono a fare la battaglia di cuscini. Neal si dimenticò totalmente ciò che stava facendo prima dell’arrivo di Billy, e si mise a giocare con lui nel corridoio, ignorando totalmente ciò che si diceva nella stanza accanto.

Un pomeriggio di sole, Neal giocava con suo fratello Billy a pal-lone nel giardino di casa.

A un certo punto la mamma uscì dalla porta e lo chiamò: - Neal, vieni ti devo dire una cosa.

Il ragazzo senza esitare entrò in casa e la madre gli disse contenta: - Hai ricevuto un invito, domani c’è la festa di Harry, ti ricordi di lui?

E Neal rivide come in un sogno gli anni delle scuole elementari a Boston, dove la famiglia era stata per cinque anni.

Si trovava bene in quella scuola e c’erano tanti compagni simpati-

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ci che gli volevano bene. Paul, per esempio, era bravissimo a cantare, Anthony il migliore portiere della scuola, Frank che era un po’ mo-nello ma veramente simpatico e infine gli ritornò in mente Harry. Era stato, persino, il suo migliore amico.

Già, con lui parlava tanto, si confidava e si divertivano tantissimo. Allora la sua vita era felice. Poi era avvenuto qualcosa che si perdeva nelle nebbie della memoria: una telefonata, un mostro lo perseguitava, il parroco della chiesa gli diceva strane parole e gli toccava la fronte, facendo il segno della croce.

Un giorno il padre entrando a casa annunciò: - Ci trasferiamo a Washington, vedrete sarà bellissimo.

Purtroppo però si sbagliava. Neal aveva perduto tutti i suoi cono-scenti, ogni adattamento si era rivelato triste e difficile. I suoi nuovi compagni di classe erano cattivi con lui e lo prendevano in giro. Ricor-dando i bei tempi di Boston, Neal la notte piangeva disperatamente. Però non voleva fare capire niente ai suoi genitori e a suo fratello Billy e quindi fingeva che a scuola andasse tutto bene.

A Chicago andò meglio. Neal abbandonò quei compagni cattivi e con il cuore pieno di speranza iniziò a frequentare una nuova scuola. Qui incontrò Fred e Richard, due cugini divertentissimi con cui fece amicizia. Il terzetto formato da Fred, Richard e Neal era il più simpa-tico della scuola e ricercato da tutti gli altri ragazzi. Dopo l’esperienza triste di Washington, Neal ritrovò il sorriso, ma non doveva durare a lungo. Quel mostro riprese a perseguitarlo. Neal sentiva strane voci e vedeva ombre inquietanti. Nel frattempo la famiglia si trasferì a New York. Qui stava ricominciando e sembrava che tutto andasse per il meglio.

La festa era stata un successo. Aveva persino conosciuto una ra-gazza carina che gli aveva lasciato i suoi contatti. Con quella pelle candida e il suo odore di vaniglia ancora in testa, uscì di casa. Bighel-lonando per le vie del quartiere, incontrò due ragazzi della sua età che giocavano a basket in giardino.

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Uno di loro gli chiese: - Ti va di unirti a noi?E lui per tutta risposta prese il pallone e provò il tiro, facendo

canestro. Il ragazzo gli disse: - Io mi chiamo Ivan e sono russo, lui è Cri-

stiano. Era un ragazzo alto, con i capelli biondi, aveva gli occhi chiari e la

bocca proporzionata. Cristiano, invece, era il tipico sudamericano dal-la carnagione bruna come i capelli e la corporatura segaligna. Appena finirono un minitorneo uno contro l’altro la madre di Ivan chiese ai ragazzi se volessero mangiare qualcosa. Accettarono ed entrarono in casa. Mentre facevano questa pausa, arrivò arrabbiato un uomo grande e grosso, dal forte accento slavo.

Probabilmente ubriaco urlò alla madre: - Perché non hai lavato la mia camicia? È la quarta volta in due settimane. Non ce la faccio più!

I ragazzi uscirono di corsa.Ivan iniziò a raccontare che i suoi facevano così da quando si era-

no trasferiti dalla Russia. Neal cercò di consolarlo: - Non ti preoccupare, capita a tutte le

coppie di avere un brutto periodo. I trasferimenti sono sempre difficili. Io ne so qualcosa: sono già al quarto!

Anche Cristiano era nato altrove, a Portorico, e i suoi si erano già separati. Gli adulti pensavano solo a loro stessi, mentre invece erano loro ragazzi a trovarsi nella situazione peggiore. Non potevano far altro che subire le decisioni dei genitori. Avevano annuito.

Da allora i tre si rivedevano spesso, scuola o litigi dei genitori permettendo, e anche la necessità di raggranellare un po’ di denaro. Cristiano lavorava alcune ore in un fast food a qualche isolato da lì e Ivan distribuiva i giornali del mattino. In uno dei suoi giri era stato lui stesso a indicare a Neal un ristorante, con un cartello con scritto “cercasi cameriere”.

Il ragazzo, dopo la scuola, decise di passarci. Desiderava tanto un lavoro, soprattutto in quel momento che i suoi erano disoccupati,

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e dei soldi tutti suoi, poter comprare quello che voleva, tra cui uno smartphone. Era da tanto che il ragazzo si fermava a guardarne uno in vetrina.

Così entrò nel locale e si ritrovò davanti il proprietario con tutta probabilità, che disse: - Cosa fai qui, ragazzo ?

Neal con un po’ di ansia rispose: - Sto cercando lavoro. Sa a chi posso chiederlo?

L’uomo ribatté: - Stai tranquillo, non ti mangio mica. Sono il pa-drone e per me puoi iniziare a lavorare da domani.

Il ragazzo ne fu entusiasta. Così, ogni giorno, dopo la scuola, do-veva recarsi al ristorante, servire i piatti ai tavoli, pulirli, buttare la spazzatura, dare da mangiare al cane del padrone, disinfettare i bagni, andare a comprare il cibo al supermercato e stirare le tovaglie. All’ini-zio fu difficile, poiché doveva svolgere anche i compiti di scuola, poi però, si adattò.

Arrivò il tanto aspettato fine mese e Neal riuscì ad ottenere il suo stipendio. Prima di andare ringraziò ancora una volta il proprietario.

Poi si precipitò ad acquistare il telefono. Il colore che aveva scelto il giovane era oro. Ogni volta che lo guardava, i suoi occhi si illumi-navano di giallo. Tornato a casa, lo fece subito vedere alla madre che se ne mostrò furiosa.

Lo prese dall’orecchio e gli disse: - Sei impazzito? Il ragazzo rispose: - È solo un cellulare. Cosa potrà mai succede-

re?La madre non lo stette a sentire e, per paura che il ragazzo fosse di

nuovo “attaccato dal demonio”, lo trascinò dal prete.Percorsero a gran falcate la strada che li separava dalla chiesa,

durante la quale la madre non volle sentire ragioni. Quindi, la donna chiese al prete di fare un discorso al figlio. Padre Brown preoccupato, li portò con sé in sacrestia.

Pronunciò gravemente: - Cos’hai da raccontarmi? È successo qualcosa?

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E il giovane contrabbatté con voce arrabbiata: - Non è successo nulla. Ho solo comprato un telefono. È mia madre che ne fa una trage-dia, perché crede che possa entrarci il demonio.

Il parroco concluse: - Va bene, Neal, ti credo e se il demonio ti attacca, per non farti trovare impreparato, ti lascio questa immaginetta della Madonnina.

- Grazie, - rispose - ma come faccio a convincere mia madre a tenere il telefono?

- Ci penso io. - concluse il parroco.Tuttavia la madre fece di testa sua e riportò lei stessa il cellulare

al negoziante.E così era finito l’idillio tra lui e i suoi genitori iniziato con il suo

lavoretto. Avevano pensato che era indice di grande maturità da parte sua dare una mano in quel momento di difficoltà e poi anche quella tipologia era stata di loro gradimento. Infatti, loro, sin da giovani, ave-vano sempre lavorato come cuochi presso ristoranti, bar, chioschi e al-tre attività simili e, con il tempo, avevano migliorato sempre di più la loro cucina. Avevano anche imparato ricette straniere molto richieste.

Questo consentì loro di trovare lavoro abbastanza facilmente, anche nei ristoranti giapponesi e messicani. Di conseguenza, con il passare degli anni, la madre riuscì ad accumulare dei risparmi per rea-lizzare il suo sogno: aprire un locale tutto suo che rispecchiasse le sue origini italiane.

Il ristorante ebbe parecchio successo, e anche negli orari più im-probabili era difficile trovare tavoli liberi. Purtroppo, però, dopo il tra-sferimento della famiglia, le condizioni economiche peggiorarono, e non permisero l’apertura di un nuovo locale nella nuova città.

Ogni giorno, quando Neal tornava da scuola, trovava i genitori con il viso affranto, e capiva che la loro sofferenza era legata al fatto che non navigavano nell’oro e che faticavano a trovare un nuovo lo-cale. Spesso gli tornavano in mente i momenti in cui lui e il fratellino aiutavano i genitori nel locale che avevano prima, e questi ricordi lo

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rendevano triste, perché ripensava a tutto ciò che adesso non avevano più. Ricordava anche le ore trascorse nella vecchia casa, in cucina, con la mamma che, con tanta pazienza, insegnava a lui e a Billy qualche ricetta, e anche le sue espressioni e le mani in testa quando loro com-binavano disastri.

- Mamma mia! - diceva sempre. E lui e Billy scoppiavano a ridere per la sua pronuncia italiana.Finalmente un giorno, rientrando da scuola, Neal e Billy trovarono

a casa i genitori raggianti. Li scrutarono con occhi interrogativi. Fu la madre a parlare per prima: - Abbiamo una notizia bellissima

da darvi. Da stasera lavoreremo in un ristorante famoso, conosciuto in tutto il mondo: l’Hardrock.

E il padre proseguì: - Siamo felici non solo perché, dopo tante ricerche, abbiamo trovato un lavoro, ma anche per un altro motivo: ci impiegheranno in un turno notturno e ciò ci permetterà di farvi trovare un buon pranzetto all’uscita di scuola, di stare con voi nel pomeriggio e di seguirvi con i compiti. Trascorreremo tutta la giornata con voi. Poi la sera, dopo aver cenato insieme e avervi dato la buonanotte, andremo a lavorare. E quando vi sveglierete, il giorno dopo, ci troverete a casa.

Neal non era affatto tranquillo all’idea di restare da solo tutte le notti, ma non lo diede a vedere: - Mi sembra una soluzione perfetta. Basta che non fate troppo gli appiccicosi. Ho bisogno dei miei spazi io. - aggiunse tra il serio e il faceto.

Il padre lo afferrò per il collo fingendo di ingaggiare battaglia e frizionandogli per bene la testa: - Ah, è così che parli ai tuoi genitori?

Finalmente Neal si divincolò sorridendo: - Dai, mi scombini i ca-pelli.

- Femminuccia! - gli lanciò il fratello, andando ad abbracciare fe-lice i genitori.

La giornata proseguì serenamente. Intorno alle 21:30, la madre e il padre di Neal e Bill erano pronti per andare al lavoro.

Si recarono nel salone, dove i due fratelli trascorrevano la maggior

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parte del loro tempo, per fare le ultime raccomandazioni ai loro ragaz-zi, anche perché non li avrebbero rivisti fino al giorno dopo.

- Che fate ancora senza pigiama? Non avete visto che ora sono? - disse la mamma, indicando l’orologio che portava al polso.

- Mamma, è ancora presto! Non abbiamo sonno. - si lamentò Bill.- Nessuna discussione. Noi stiamo andando al lavoro, e voglia-

mo stare sereni. - rispose il padre, con tono autoritario - Quindi non perdete altro tempo: indossate il pigiama, lavate i denti e sistemate la cartella con i libri per domani.

I ragazzi, pur se con qualche smorfia di disappunto, obbedirono.La mamma diede un bacio ad entrambi. Il piccolo ricambiò l’ab-

bracciò, mentre il grande lo tollerò di buon grado.- Mi raccomando! Non andate a dormire tardi, e non state troppo

tempo davanti la tv. - disse accarezzandoli. Poi, i genitori uscirono di casa, chiudendo bene la porta.I due fratelli, dopo un po’, si addormentarono nelle loro camere.Neal si svegliò all’improvviso. Il telefono stava squillando. Chi

poteva essere a quell’ora? Guardò l’orologio: era mezzanotte passata. Un po’ stordito si ricordò di essere solo a casa. Confusamente un qua-dro gli si dipinse a tinte sempre più nette: i suoi genitori erano andati a far scegliere a Billy il suo regalo di compleanno, come promesso; la madre aveva insistito perché venisse anche lui, ma invano. Sì, era così.

Si alzò barcollando e massaggiandosi la testa. Aveva appena avuto un brutto sogno, ma non ricordava bene di cosa si trattasse. Cammi-nava calpestando ogni tanto qualche tavola di legno traballante. Il ru-more rimbombava nella casa vuota e silenziosa. Raggiunse il telefono e rimase in attesa.

Sentì una voce rauca che conosceva fin troppo bene. Era davvero lui? Come aveva fatto a trovarlo di nuovo? Mentre ascoltava, le parole del demonio rimbombavano nella sua testa e il suo battito cardiaco aumentava. Un brivido di paura gli pervase mente e corpo e di scatto riattaccò, guardandosi intorno in preda al panico.

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Aveva l’impressione che le pareti oscillassero, così avvertì un leggero senso di nausea che lo disorientò per qualche istante. Fece qualche passo avanzando nel corridoio, ma un rumore lo bloccò. Pro-cedette ancora, svoltò l’angolo e lo vide.

Era lì davanti a lui: si trovava faccia a faccia con il suo peggior in-cubo. Neal fece qualche passo indietro e inciampando nelle sue stesse pantofole cadde a terra. Intanto Lui si avvicinava, sussurrava qualche incomprensibile parola e gli tendeva la mano come ad invitarlo ad avvicinarsi. Rimase qualche secondo immobile a guardarlo, senza riu-scire esattamente a realizzare quello che stesse accadendo. Poi, come attraversato da una scossa elettrica balzò in piedi.

Iniziò a correre goffamente, voltandosi ogni due passi per vedere dove fosse. Non riusciva a vederlo, eppure percepiva la sua presenza. Sentiva il suo fiato nel collo e un’ondata di brividi gli percorse il cor-po dai piedi fino alla nuca. Scese precipitosamente le scale e facendo un salto arrivato agli ultimi quattro scalini. Girò a destra e giunse in soggiorno. Si buttò a terra, nascondendosi fra il divano e le tende per cercare di ripararsi. Sentiva i suoi passi ma non riusciva a comprende-re perché non riuscisse a vederlo sbirciando da sopra i cuscini. Iniziò a strisciare sugli avambracci fino a raggiungere uno dei tanti camini della casa. Per terra era rimasto un tappeto di cenere, così dovette ten-tare più volte di alzarsi senza scivolare.

Appena riuscì a poggiare saldamente i due piedi per terra ricomin-ciò a correre. Uscì dal soggiorno, svoltò a sinistra ed entrò in cucina. Si nascose dietro il frigorifero e appoggiò le spalle alla parete per ripren-dere fiato. Attese immobile qualche rumore per capire dove fosse, ma l’unica cosa che riuscì a sentire fu il suo cuore battere violentemente contro il petto come se non aspettasse altro che uscire e scappare.

La luce che illuminava la stanza era scadente ma fece comunque quello che gli parve più sensato e istintivo in quel momento. Mise le mani sopra il piano cucina sperando di far meno rumore possibile e iniziò a cercare alla cieca qualcosa che potesse tornargli utile. Affer-

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rò un mestolo e poi un mattarello prima di riuscire ad impugnare il coltello. Percepì poi dei passi superare la cucina e vide le ombre del demonio risalire le scale.

Gli diede qualche minuto di vantaggio poi anche lui si avviò ver-so il piano superiore. Saliva lentamente le scale strisciando la spalla lungo la parete e con il terrore che uno degli scalini in legno potesse cedere sotto il suo peso. Appena poggiò la punta del piede sinistro scorse la sagoma della figura girare per entrare dentro la sua stanza.

Fu scosso improvvisamente da un sentimento di rabbia e odio in-controllabile. Senza pensarci piombò all’interno della stanza e chiuse la porta violentemente. Tenne alzato davanti a sé il coltello e lo trovò lì, immobile che lo guardava con uno sguardo malvagio. Voleva met-tere fine a tutte le sofferenze e ai sacrifici subiti solo per colpa sua. Voleva una vendetta e non poteva aspettare un minuto ancora. Si pre-cipitò furiosamente contro di lui e, senza pensarci due volte, lo colpì violentemente. Il demonio cadde terra in una pozza di sangue provo-cata dal coltello che pochi istanti prima gli aveva attraversato il petto.

Neal era rimasto in piedi paralizzato e, come se non riuscisse a credere che la scena sotto ai suoi occhi fosse opera sua, si fece scivo-lare dalle mani il coltello. Lo vide rimbalzare sul pavimento rumoro-samente. Si lasciò andare e atterrò per terra sulle ginocchia, mentre si guardava le mani sporche incredulo. Poi cedette e il suo viso venne inondato di lacrime.

Neal tenne lo sguardo fisso su Billy che era a terra sanguinante col coltello nel petto. Il rumore della serratura della porta che si apriva, poi la voce, quasi un sussurro, della madre serena. Una risatina sof-focata. Passi che si avvicinavano. Neal non osava guardare. Guardare significava scoprire il suo stesso orrore nel volto di lei. Anche suo padre era a fianco, lo sapeva, lo sentiva.

Quindi solo un urlo ripetuto e lancinante riempì quel suo silenzio pieno di voci: - Cosa hai fatto! Perche?

Neal continuò a guardare il corpo del fratello piangendo, ondeg-

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giando e tenendosi la testa che sembrava scoppiargli. Sentì le sirene avvicinarsi. Poi la loro casa fu un brusio indistinto di mille voci e mille mani che frugavano, che toccavano, che gli ponevano domande che sarebbero rimaste senza risposta.

Suo padre si ribellò: - Voglio stare con mio figlio! Un uomo in divisa lo strattonò e allontanò. Altri due presero il

ragazzo e lo ammanettarono. Lui era un corpo senza volontà.Al suo fianco un poliziotto diceva: - Non è possibile, il ragazzo

deve venire con noi. - lo prese con forza e lo portò fuori.Riconobbe il parroco, un’ombra nera accanto alla madre accascia-

ta su una sedia. Ma era davvero sua madre? Il volto e il corpo erano i suoi, ma il suo spirito sembrava svanito del tutto, altrove. L’ombra nera si staccò da quel corpo e gli si accostò, mentre lo trascinavano via.

Neal finalmente aprì bocca. Gli uscì un suono flebile, appena per-cettibile.

- Non sono stato io. Il demonio è tornato e ucciderà ancora.Così che dovette ridirlo e dirlo ancora finché il prete gli accarezzò

una spalla. Infine pronunciò una frase che più volte era risuanata nei pomeriggi in quella bella chiesa in fondo al vialone.

E come in sogno riascoltò: - Exsurgat Deus et dissipentur inimici ejus: et fugiant qui oderunt eum a facie ejus. Sicut deficit fumus, defi-ciant: sicut fluit cera a facie ignis, sic pereant peccatores a facie Dei.

Passarono giorni, l’attesa era insopportabile.Ma una mattina gli fu annunciato che era stato trasferito all’ospe-

dale psichiatrico per fare delle cure.Non era la notizia più bella del mondo, ma a Neal di certo piaceva

più del carcere minorile. La partenza fu programmata per il giorno stesso. Al ragazzo fu permesso di salutare la famiglia. Tuttavia, nessu-no venne a trovarlo.

Una volta arrivati all’ospedale, la guardia scese dalla macchina e

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con passo deciso si avviò verso il grande portone.- Puoi entrare. - gli intimò facendogli cenno con la testa.Ma Neal non rispose. Prese un bel respiro e guardò da cima a fon-

do quella che da li a poco sarebbe diventata la sua nuova casa. Niente di speciale, un semplice ospedale malandato, dalle mura color grigio sporco e con tutte le serrande chiuse. Con il cuore in mano incomin-ciò ad avanzare verso il grande portone che permetteva di accedere all’immenso edificio.

Una volta dentro gli venne assegnata una stanza dove rimase per tutto il resto della giornata. La notte non fu delle migliori, gli attacchi di insonnia si facevano sentire. Il mattino seguente, mentre provava a guardare attraverso le fessure delle serrande ormai spezzate che oscu-ravano parzialmente la finestra, arrivò una dottoressa che, con molta noncuranza aprì la porta facendola sbattere contro il muro. Era molto concentrata sul foglio che teneva in mano.

- Alle 11:00 si presenterà una dottoressa per visitarti. - annunciò dopo qualche istante di imbarazzante silenzio.

Neal si limitò ad annuire e continuò a guardare cosa succedeva fuori, finché non sentì la porta chiudersi alle sue spalle. Le ore pas-savano in fretta, anche se non se ne rendeva conto, poiché l’unico orologio della stanza segnava perennemente le 17:00. A un certo punto qualcuno interruppe il silenzio, bussando alla porta. Era la dottoressa che doveva visitarlo. Non servì risponderle per farla entrare, poiché le guardie entravano quando volevano. Bussare era solo una formalità.

La donna era vestita totalmente di bianco e aveva dei folti capelli biondi raccolti in uno chignon che le scoprivano il viso facendo ri-saltare i suoi occhi color cielo. Neal li notò subito, gli trasmettevano sicurezza e tranquillità. Finora erano stati l’unica cosa bella di questo posto. Si sedette davanti a lui mentre due robuste guardie posizio-navano una grande videocamera sorretta da un cavalletto poco più a destra della dottoressa. Non era una sorpresa che non glielo avessero annunciato. Se c’era una cosa che Neal aveva imparato in posti come

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questo, era che la gente faceva quello che voleva senza dar retta a per-sone considerate malate o pericolose.

- Sta riprendendo. - disse infine una delle due guardie alla dottores-sa, mentre si posizionava davanti alla porta seguito dal suo compagno.

La donna, che a differenza di tutte le altre persone viste finora sem-brava gentile, annuì accennando un sorriso e prese un libretto in cui sembravano segnate le varie domande. Improvvisamente Neal sentì un colpo al cuore, solitamente non era nervoso, ma stavolta si sentiva soffocare dalla paura. Non disse nulla. Rimase seduto sulla scomoda sedia di legno vicino alla finestra.

- Prima domanda. - disse la dottoressa facendo notare che nel suo block notes era cerchiata più volte in rosso – Da quanto tempo senti questi disturbi?

La parola “disturbi” suonò molto superficiale alle orecchie di Neal. Per lui era stato un vero e proprio incubo, ma si limitò a rispondere senza far notare il proprio disagio.

- Non ho disturbi. - si oppose freddamente Neal - È da quando ho nove anni che un demonio mi tormenta, nessuno vuole credermi. Quella notte mi ha inseguito.

- Non c’era nessuno. Non sono state trovate tracce di altre persone. Non c’è mai stato nessuno. - chiarì con molta calma la donna.

- Ma mi ha chiamato. Deve esserci il numero nel tracciato telefo-nico… - sostenne Neal con decisione.

- Neal, ascolta, voi non possedete un telefono. Non avete il con-tratto. Non lo avete da tempo ormai. - rispose la dottoressa.

Improvvisamente diventò tutto confuso, non capiva perché, ma Neal non riuscì più a seguire il filo del discorso. C’erano troppe voci, voci cupe e fredde. All’inizio non riusciva a focalizzare la situazione. Ma bastò poco per riconoscere quella voce. Quella voce che l’aveva torturato per anni, quella che l’aveva fatto finire in ospedale. La stessa che aveva ucciso suo fratello.

Le lacrime cominciarono a rigargli il viso, sapeva che non sarebbe

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riuscito a fermarla.- Cosa è successo quella notte?Fu l’ultima frase che riuscì a sentire, dopo di che il mostro che

era in lui prese il sopravvento. Quei grandi occhi color nocciola si trasformarono in due fessure piene di odio e rancore, le sopracciglia si inarcarono e assunse una postura insolita, aggressiva, le gambe si piegarono leggermente, la schiene si curvò. La dottoressa indietreggiò e le guardie cominciarono ad agitarsi.

- Neal, ritorna in te, Neal… - disse la donna cercando di mantenere la calma.

Ma Neal non sentiva ragioni. Immediatamente le guardie lo bloc-carono e fecero uscire la dottoressa. Non era più Neal, era il mostro che ormai da tempo lo perseguitava. Era la sua seconda personalità.

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Scrivo in giallo

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Gloria Fichera - Roberto Oancea - Lorenzo Reganati - Francesco Trischitta - Alice Verdura

Omicidio al Bar dello Sport

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56 II L - Scrivo in giallo

Londra ospita una miriade di luoghi da visitare: the London Eye, Bacingham Palace e il Moma sono solo alcune delle tante tappe a cui non si puo rinunciare se si è in vista in questa magica citta. Nonostante il gran numero dei suoi beni culturali, molti non rinunciano alla vista del Wembley Stadion, uno degli stadi piu importanti in Inghlterra. È, infatti, il baseball uno degli sport piu amati dalla popolazione inglese.

Un giorno al Super Sport, un bar per fanatici di sport, si presentò Jerome Clarke, un giovane di ritorno dallo stadio dopo un’importante partita di baseball. Una volta entrato, iniziò ad attrarre l’attenzione dei presenti parlando di come era riuscito a predere possesso della palla colpita da Jack Rooselvet Robinson. Tutti, anche i non appassionati, furono colpiti dalla storia raccontata dal ragazzo. Questi si recò in bagno per non uscirne più. Dopo un paio di bicchieri di birra, quattro persone in ascolto del racconto si sedettero in un angolo del locale arredato con comodi divani intorno ad un maxischermo.

Era già passato molto tempo da quando il giovane Jerome Clarke era entrato nella toilette. Tutti i clienti del bar si chiedevano che fine avesse fatto, soprattutto un gruppetto interessato alla palla autografata da Jack Rooselvet Robinson. Il signor Simons, un uomo di una certa età, magro e basso, quasi senza capelli, che frequentava abitualmente il locale, entrò in bagno per lavarsi le mani. Sentirono i suoi cardini stridere nell’aprirsi e, quasi senza volerlo, i presenti fissarono la porta per veder sbucare le teste di Clarke e del signor Simons, ma fece ca-

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polino solo quella del vecchio Simons, bianca come la cera. Sembrava avesse visto un fantasma.

Cominciò a parlare balbettando: - Il… siiignor Claarkee è… è… è MORTO!!!!

Tutti i clienti assunsero un atteggiamento preoccupato, pensando che ci fosse un assassino nel locale. Il signor Smith, amico del signor Simons, che si trovava accanto a lui, anche lui anziano ed avventore del bar, chiese: - Com’è morto Jerome Clarke, Simons?

E sempre balbettando il vecchio rispose: - È… è staatoooo assas-siinaaatooo… – e subito dopo svenne.

Quindi, erano ormai confermati i loro peggiori timori. Molti cer-carono di lasciare il locale ma vennero fermati, perché ognuno di loro poteva essere il colpevole che cercava di svignarsela dal luogo dove la sua voglia omicida aveva preso il sopravvento. Il signor Smith, che aveva preso il comando della situazione, ordinò ai clienti più calmi di non permettere a nessuno di lasciare il bar, mentre lui andava ad avvertire la proprietaria.

Mara Jeffrey, una donna di quarant’anni, bassa e magra, con i ca-pelli neri, lunghi e lisci, che aveva ereditato il bar da suo nonno, ma che lo voleva vendere ad uno di quei milionari a cui interessava molto l’investimento, rimase sbigottita da quello che le avevano riferito. Di certo non sarebbe stata una buona pubblicità per il suo locale. Senza perder tempo chiamò l’ambulanza per il signor Simons, che venne portato via ancora privo di sensi al Central Hospital. Mentre già la scientifica si occupava del cadavere, sulla scena del crimine venne mandato ad investigare il noto ispettore di polizia Campabell.

Mick Campabell, ispettore di fama, di circa quarant’anni, di cui diciotto passati al servizio della polizia, era un uomo alto e forte con i capelli biondi e occhi azzurri, quindi molto attraente.

La proprietaria lo accolse dicendo, con voce melliflua: - Finalmen-te è arrivato, ispettore…

- Ho cercato di fare il prima possibile. – rispose serioso l’investi-

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gatore.- Prego venga dentro, le voglio presentare colui che mi è venuto ad

informare dell’accaduto.- Salve, sono il signor Smith. – disse il vecchio porgendo la mano

all’ispettore.Questi domandò con freddezza: - È lei che ha trovato il corpo? - No, è stato il mio amico Simons, che hanno appena portato via in

ambulanza, perché ha avuto un malore. – rispose quello. - Bene… agente Rogers, accompagni il signor Smith in commissa-

riato, perché renda la sua deposizione e vada poi in tutta fretta al Cen-tral Hospital ad interrogare il signor Simon e lo convochi per domani mattina alle 9:00 in commissariato, che lo voglio sentire io stesso.

Detto questo l’ispettore si allontanò, dirigendosi verso la scena del delitto, seguito dalla donna.

La signora mostrò il luogo del ritrovamento e disse: - Ebbene, qui si trova il cadavere.

La vittima era ancora seduta sul water con la faccia appoggiata alla porta ed un coltello piantato nella schiena, immerso in una pozza di sangue che era colato anche al di fuori della porta.

L’ispettore domandò alla proprietaria: - Ha visto qualcosa di stra-no prima dell’omicidio?

- Beh, in effetti sì… sono venuta in questa stanza per bere qual-cosa e ho visto tutti i clienti seduti lì dove ci sono i divanetti. Credo che la vittima avesse qualcosa di raro, mi sembra una palla firmata da qualche campione di baseball. Inoltre ho sentito dire che quei quattro laggiù sono entrati nel locale poco prima della vittima.

- La ringrazio. – rispose l’investigatore.La donna si allontanò e finalmente il cerchio si stringeva. Il caso

aveva i suoi sospettati.

Il mattino presto del 30 giugno alle ore 7:00 al bar dello sport si trovava la squadra di Campabell per analizzare minuziosamente la

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scena del crimine.Nel frattempo alla morgue si ottennero i risultati dell’autopsia che

rivelò all’ispettore dei dati importanti, il cadavere aveva una tasca pie-na di oggetti personali e l’altra invece vuota e deforme, cosa molto strana; l’ispettore comprese quindi che il movente era la pallina e chi ce l’aveva era l’assassino.

Alle ore 9:00 l’ispettore era pronto per interrogare il signor Simon e il signor Smith.

L’ispettore iniziò a parlare: – Che cosa è successo ieri sera? E il signor Simon rispose: – Sono andato in bagno a lavarmi le

mani, quando vidi un’enorme macchia di sangue sul pavimento che proveniva da dietro la porta del bagno di fronte a me. Bussai ma non rispose nessuno, quindi aprii la porta e trovai il corpo senza vita di Clarke.

Continuando il discorso il signor Smith disse: – A quel punto il mio amico corse fuori dal bagno per raccontare ciò che aveva visto, fino a quando non perse i sensi. E questo è tutto ispettore.

– L’ispettore si rivolse al signor Simon: – Può confermare, Simon? – e l’interpellato annuì.

A quel punto Smith riprese la parola con aria autoritaria: – Caro ispettore, so che sospetta di noi, ma la vorrei informare che è impos-sibile, perché io e il mio amico prima di recarci al bar siamo passati dalla banca a prelevare £100. Guardi abbiamo anche la ricevuta. - e gliela mostrò - E quindi, come ho detto, è impossibile che noi siamo entrati nel bar con delle armi. Altrimenti, come avremmo fatto a entra-re in banca passando dal metal detector senza problemi? Inoltre, dalla banca al bar ci sono appena pochi secondi di strada, giusto il tempo di attraversare da un marciapiede all’altro. Si informi pure.

L’ispettore vedendo tanta convinzione nei volti del signor Smith e del signor Simon, li congedò con un perentorio e ambiguo: – Potete andare, ma tenetevi a disposizione.

I due salutarono rispettosamente e se ne andarono.

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Fu la volta degli altri avventori: Rutter, Zeno, Frobiscer e Lewis. Questi gli iniziarono a parlare di incontri di box, calcio, tennis e quant’altro, lasciando il povero ispettore totalmente frastornato.

Quest’ultimo, infatti, non aveva nessuno strumento di verifica di ciò che dicevano, perché non se ne intendeva. Da diciotto anni di ser-vizio non gli era capitato mai di dover chiedere una mano a qualcuno: andava più che fiero del suo lavoro e del fatto che lo compiva da solo. Sfortunatamente però, quel giorno era costretto a farsi aiutare. Decise allora di trasferire il commissariato nel bar Super Sport, confidando che qualcuno dei fanatici avrebbe potuto confermare l’alibi di almeno uno dei quattro sospettati.

– Dobbiamo recarci subito nel luogo del delitto, state tranquilli, viaggerete con l’auto della polizia. - sentenziò Campabell.

Nessuno contestò. In pochi minuti i cinque uomini furono in quel luogo. In quel momento, nel modernissimo negozio c’era solo un ra-gazzo, che guardava nel televisore una partita di calcio.

Con voce rauca l’ispettore disse: - Ragazzo, vieni, ti devo fare qualche domanda.

Spaventato il ragazzo raggiunse i cinque uomini, ma fu subito rassicurato dal signor Frobiscer. Egli aveva una cinquantina di anni ma, oltre per la quasi totale mancanza di capelli, sembrava molto alla mano e sicuro di sé.

Con voce minacciosa Zeno gli domandò il nome: - Ehi “mammo-letta,”come ti chiami? – e si alzò davanti a lui, voleva intimorirlo con il suo possente fisico.

– P-Paolo, s-s-ignore. – balbettò spaventatissimo. A guardarlo sembrava davvero una “mammoletta” come lo aveva

definito il suo interlocutore. Capelli lunghi, basso e magrissimo. In-dossava un apparecchio fisso e gli occhiali. Il volto era lentigginoso e con qualche brufolo. Vestiva con una T-shirt rossa e i jeans. Tendeva a distogliere lo sguardo dal volto di mezz’età di Zeno, per posare poi i suoi occhi verdi sugli articoli del negozio del bar.

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Rutter esclamò con un tono non tanto sobrio: - Basta con queste idiozie, io sono Fabian Rutter e se non vi dispiace io vorrei tornare al mio vino, quindi muoviti P-paolo o come diamine ti chiami a dimo-strare la mia innocenza. Io ero a quell’incontro di box e ti posso dire chi ha vinto, è stato il mio idolo, “Spezzaossa”.

Campabell chiese conferma, ma sfortunatamente ottenne una ri-sposta più che deludente.

– Mi dispiace molto s-signor investigatore m-ma io n-non mi in-tendo di b-box e non lo guardo, non posso d-dare una risposta. – for-mulò il balbuziente.

A questo punto toccò al signor Frobiscer: - Penso che tu segua almeno il tennis, no? Comunque ha vinto Cromions Nicholas esatta-mente al terzo set.

La parola toccò al signor Zeno: - Personalmente io stesso ho gio-cato a bowling, ho pure vinto il trofeo, eccolo.

Una volta mostrato tutti si rincuorarono. Ora i sospetti erano solo due. Venne quindi il turno di Lewis. Quel ragazzo robusto non ave-va detto nulla fino a quel momento, sembrava molto formale, ma se si abbassava lo sguardo si vedeva una scatola di popcorn che teneva stretta, come se contenesse tutte le sue ricchezze o comunque qualcosa di importante.

Raccontò quindi la sua giornata: - Per quanto riguarda me, caro signore, io sono andato ad una partita di base..., oh no scusate, questo bar mi fa sentire a disagio, volevo dire ad una di calcio, Napoli-Juven-tus, risultato 1-0…

In quel momento fu interrotto da Rutter che urlò: - Sì, sì, ottimo! Ho appena trovato il mio autografo, fatto da Spezzaossa, sono salvo, fiuuu. Comunque la partita è finita 0-1, per la Juventus, caro Lewis.

Per un minuto tutti guardarono il riccioluto, ma il silenzio fu inter-rotto da una replica dell’ultima partita della povera vittima. Si vedeva esattamente, due file dopo il povero Jerome Clarke, il signor Lewis! Ormai la sua colpevolezza era evidente. Si alzò per giustificarsi, ma

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fece cadere il tanto amato sacchetto di popcorn. Fra gli stuzzichini si intravedeva una pallina autografata. Ecco la prova che cercava l’ispet-tore.

Il signor Lewis colto dall’ansia, sudando freddo, tremante e palli-do, non poté fare a meno di confessare. Le prove che lo incolpavano erano schiaccianti, e anche il senso di colpa, quindi cominciò a parlare.

- Desideravo troppo quella pallina del mio giocatore preferito Jack Rooselvet Robinson – e poi con un respiro continuò – mio padre, essendo un appassionato di baseball, quando stavo compiendo dodici anni, volle regalarmi la palla di Jack Rooselvet Robinson. Ma anche della gente pericolosa e potente, che apparteneva a una gang, la voleva prendere. Così, mentre mio padre stava tornando, fu ucciso da cinque malfattori a colpi di carabina e gli presero la pallina che era dentro una scatoletta con scritto “per il mio caro figlio Alfie”. Quei delinquenti non furono mai presi. Io e la mia famiglia sentimmo quegli spari e andammo a vedere. Appena riconobbi mio padre, andai subito lì vici-no scappando dalle mani di mia madre e vidi quella scatoletta con la firma di “Jack” ed il segno della gang “I Bulldogs”. Io per distrarmi mi appassionai al baseball. Non perdevo neanche una partita di Jack e iniziai a mangiare per compensare il mio vuoto, ma mia madre mi fece andare da un psicologo. E mangiai meno, ma rimase la passione soprattutto per il pop-corn, perché era il cibo preferito di mio padre e continuai a vedere le partite di quel giocatore. Ma ogni volta che non riuscivo a prendere quella palla, sentivo il mio dramma diventare ogni partita più grande, più forte. Di male in peggio, quelle sedute molto costose ridussero sul lastrico mia madre. Lei ne morì ed io piansi per giorni e non potei andare dallo psicologo, quando ne avevo più biso-gno. Seguivo le partite di Jack viaggiando ovunque fino ad arrivare in questo stadio. All’inizio della partita, come sempre aspettavo met-tendomi nel punto dove era più probabile che arrivasse la mia pallina. Finalmente al trentatreesimo minuto, ecco la sua battuta. La palla sem-pre più in alto, ma sapevo che sarebbe caduta. Scese, ma ahimè finì tre

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metri più in alto, in grembo ad un signore. Io ci rimasi malissimo, più di ogni altra volta. Appena finita la partita andai subito a supplicarlo davanti all’uscita, con tutti gli spettatori che uscivano. Gli chiesi di darmi quella pallina, raccontando la storia che vi ho appena narrato. Quello la ripose in una scatoletta, con lo stesso simbolo della gang dei Bulldogs, mi rise in faccia dicendomi: “Io non darò questa palla a nes-suno, soprattutto agli sconosciuti e ai falliti come te.” Rise di nuovo e poi continuò: “Mi fai pena tu, i tuoi problemi e la tua famiglia.” E se ne andò. Io mi misi a piangere. Mi volevo suicidare. Quindi un altro sentimento più forte sorse in me: la rabbia ed il senso di vendetta. Or-mai avevo capito. Era uno di quella gang che aveva ucciso mio padre ed avrebbe avuto la mia vendetta, dopo dieci anni rubati. In un attimo presi la mia auto e lo seguii. Trovai parcheggiata la sua macchina vi-cino a questo bar, entrai ed aspettai il momento perfetto. Quell’uomo si vantava di aver soffiato la palla a un tizio sfigato. Bevve qualcosa e andò alla toilette. Nascosi il coltello che avevo con me dentro il pacchetto di pop-corn che avevo ordinato. Ha avuto solo quello che si meritava.

Così lo arrestarono. L’ispettore riferì alla Centrale di quella gang di delinquenti. Ri-

sposero che avrebbero indagato e riaperto il caso di omicidio di dieci anni prima.

L’ispettore rimase a bere qualcosa e nel frattempo la proprietaria lo ringraziò e gli parlò in privato. Così quando uscì dal bar, Campabell si ritrovò con un appuntamento galante, per dimenticarsi della confes-sione e dell’omicidio.

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Jessica Arulappu - Lodovica Mauceri - Elisa Pechaycaren - Davide Ruta - Giuliana Scuderi

Zampette in pericolo

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Era una giornata calda e afosa ad Alberga (paesino in provincia di Savona sul mar ligure), e Nick, Chris, Tom, Alex, e Sonia stavano giocando a calcio nella villetta di Tom e Alex. Questi erano gemelli di dodici anni. Uno aveva gli occhi azzurri e i capelli corti e prediligeva le materie sportive e da grande voleva diventare un calciatore pro-fessionista. Invece l’altro aveva gli occhi verdi i capelli lunghi e gli occhiali e voleva lavorare come astronomo.

Quando la squadra rossa formata dai gemelli e Nicolò stava per-dendo la partita, Tom allora corrugando la fronte disse: - State imbro-gliando!

E Sonia fece cenno di no, mentre palleggiava con il pallone di Tommaso. Dopo tre quarti d’ora la partita era ancora 7-0 per la squa-dra blu, i ragazzi furono molto stanchi.

Ma Nick non li fece arrendere incitandoli con frasi ad effetto come: - Non mollate ragazzi!

E gli altri componenti della squadra rispondevano senza esitazione con il sudore alla fronte: - Sì!

Dopo un’altra ora Alex affaticato protestò perché non sapeva gio-care: - Non è giusto, io non so giocare e sono molto stanco, per una volta vorrei fare quello che viene meglio a fare anche a me!

Gli altri non furono molto d’accordo, soprattutto Tom, da sportivo della comitiva, allora disse: - Tu sei solo un cervellone, fatti da parte, libro pappamolle!

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Allora Alex ribatté: - Fatti sotto, imbecille!E l’altro gli rispose: - Provaci, se hai il coraggio di farlo oppure lo

devi chiedere alla professoressa! Stavano per prendersi a pugni, quando alla fine avvicinò Nick.

Lui era amico dei due e aveva dodici anni. Con grandi occhi marro-ni, capelli castani, alto e magro era un ragazzino visto e leader della combriccola.

Quindi gridò: - Statemi a sentire adesso, voi due siete gemelli e anche se avete caratteri e abilità diverse insieme fate un’ottima squa-dra, quindi chiedetevi scusa e finiamo questa partita che Sonia ci sta stracciando, ok? - era bravo a risolvere conflitti.

Dopo quindici minuti i ragazzi riuscirono a vincere la partita per un punto. Nick tornò a casa con la bici insieme a Sonia. Lei aveva dodici anni ed era magra e alta, aveva grandi occhi castani come i capelli. Era una vera furbetta e si comportava da maschiaccio. Lei e Nick abitavano vicinissimo, tanto che le loro madri si scambiavano ricette. Muovendosi videro prima la loro professoressa di classe e la salutarono.

Carlo, il postino, con voce arrogante stava urlando: - Via, cagnac-cio, vattene via! – poiché il cagnaccio in questione gli stava mordic-chiando tutte le sue lettere.

Sonia fece notare a Nicolò che quel cane somigliava tantissimo alla sua dolce cagnolina Caramella, ma Nick le garantì che non era lei, perché quel cane non portava, come il suo, il collarino rosa. Poi scorsero Alfonso, il pescivendolo, che si imbestialì con un bellissimo micino, di razza persiana con gli occhi blu.

Gli aveva rubato una sardina, così gridò: - Brutta bestiaccia, come hai osato a rubare del pesce dal mio negozio! - cercò di dargli un colpo di bastone con una scopa, ma non ci riuscì, poiché lui era molto grasso e poco agile.

Dopo che ebbe accompagnato l’amica, Nick andò a casa e trovò Caramella distesa sulla soglia di casa sua senza collare e che respirava

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appena. Il suo cuore batteva sempre più lentamente. Allora se la prese tra le braccia e si mise a correre dal veterinario più vicino a casa sua. Il dottore non potè che confermargli che ormai il cuore di Caramella non batteva più ed era stata uccisa da veleno per topi. Lui uscì dalla clinica in lacrime con la sua piccolina tra le braccia e corse, corse e ancora corse verso casa, non faceva caso al mondo che lo circondava, ma soltanto a lui e lei che riposava ormai morta tra le braccia. Arri-vato a casa, prese delle assi e costruì una tomba, ve la mise dentro e vi depose all’interno una rosa rossa, colta dal giardino di sua madre, e infine chiuse la tomba. Quindi la seppellì e le diede l’ultimo saluto.

Chiamò a i suoi genitori su Skype, dando loro la bruttissima noti-zia e lì si sfogò mettendosi a piangere e a gridare. Subito dopo chiamò i suoi amici dando loro la bruttissima comunicazione e gli disse che dovevano indagare sul caso, perché nel paesino erano già successi de-litti simili ai cani o ai gatti dei loro vicini.

Sonia confermò: - Vero. È successo una cosa simile alla zia del mio vicino di casa, ma in quel caso era un gatto.

Chris aggiunse: - Pure a mia zia è successa una cosa simile con una cagnetta.

Nick alla fine aggiunse: - Che ne pensate di creare una squadra per trovare il sospettato?

Tutti risposero: - Sì, ci sto!

Dopo la morte di Caramella Nick non andò più a scuola per diversi giorni fingendosi malato. Non usciva più il pomeriggio con i suoi ami-ci e si rifiutava di andare a fare le commissioni per sua madre.

Un giorno gli disse infuriata: - Nicolò Leonardo Platone Gorgia, vai subito a prendere il pesce altrimenti ti tolgo i videogames per un mese!

A quel punto Nick non poté dire altro per il bene della sua X-box, quindi si vestì e andò alla bottega di Alfonso, il pescivendolo cinquan-tenne obeso. Nick lo trovava inquietante iniziando dalla testa quasi

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pelata, di cui restavano solo capelli grigi scompigliati, all’espressione da pazzo, nascosta quasi del tutto da enormi baffi che partivano dai re-stanti capelli. Indossava sempre lo stesso grembiule sporco di sangue di pesce e resti di code e teste che lo rendevano riconoscibile a distan-za di metri per via dell’odore pestilenziale che emanava.

Arrivato alla bottega notò subito delle sogliole, il suo pesce pre-ferito, ma, visto lo stato del bancone in cui erano poggiati i pesci, preferì evitare di scegliere quel tipo di pesce. E quando era pronto per ordinare, notò il postino Carlo entrare. Era sporco e con i capelli scompigliati.

Appena Nick lo vide precipitarsi dietro il bancone insieme ad Al-fonso. Per sapere di cosa confabulassero quei due si mise gli aurico-lari, ma non fece partire la musica e riuscì a capire tutto quello che dicevano.

- Ho ammazzato il cane della famiglia Gorgia. Il prossimo obietti-vo è la casa dei Bianchi dove si trova il gattino Minou!

- Perfetto, sarò felice di occuparmi di quel micetto!Dopo aver ascoltato tutto con grande rabbia e preoccupazione,

prese il pesce cercando di essere il più naturale possibile e corse da sua madre per darle la spesa, ma lei lo trattenne.

- Dove sei stato tutto questo tempo, ci vuole tanto a comprare del pesce?! Non hai nemmeno preso le sogliole…

Ma mentre la madre continuava a fargli la ramanzina, lui era scap-pato per andare da Sonia. Non rispondendo nessuno, andò a casa di Chris, dove di solito si riunivano e lì trovò tutti quanti ad osservarlo, come se fosse pazzo.

Tuttavia, lui senza dar retta agli altri disse: - Sonia, Minou è in pericolo!

I cinque ragazzini si trovarono a casa di Sonia, si sedettero tutti intorno ad un tavolo e iniziarono a chiacchierare.

Il primo che iniziò a parlare fu Nick che raccontò ai suoi amici le scoperte che aveva fatto dicendo: - Il postino!

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All’improvviso scese il silenzio e tutti iniziarono a guardarlo come se fosse un pazzo nel manicomio con una camicia di forza che si spiac-cicava sulle sbarre alla ricerca di fuga.

Non osarono dire niente, a parte Alex, che sotto voce, gli chiese: - Il postino cosa? Sai qualcosa che non sappiamo noi?

Nick si girò verso Alex e gli altri risposero dicendo: - Non avete notato che più volte il pescivendolo ha scacciato con violenza i gatti? Mi sembra palese che entrambi abbiano molto rancore verso questi animali e per questo motivo hanno deciso di avvelenarli.

Nick continuò tutto euforico prendendo una lavagna con le ruote. Afferrò un pennarello, e chiese agli altri di fare silenzio e iniziò a disegnare formulando la sua ipotesi su quello che era veramente ac-caduto. Per prima cosa cominciò dire agli altri che il cane della signo-rina Owen era morto la settimana prima, il gatto del signor Conti tre giorni prima mentre la sua cagnolina Caramella era stata avvelenata come sapevamo il giorno prima. Poi prese la cartina del quartiere e segnò i luoghi dei delitti facendo notare che quelli erano esattamente i percorsi che Carlo il postino e Alfonso il pescivendolo, facevano abitualmente: il primo per consegnare le lettere il secondo per chie-dere ai vicini su volevano ordinare del pesce fresco. Qualcuno di loro si chiese se anche gli altri animali morti come Caramella erano stati avvelenati come Caramella.

Nessuno riuscì a rispondere e per questo chiamarono la polizia. Al telefono rispose Giovanni, giovane poliziotto amico dei cinque, il quale ascoltò la loro versione dei fatti e poi rispose che probabilmente avevano ragione. Oltre tutto il gatto di sua madre era stato ucciso e lui stava indagando. Prima di riattaccare il telefono la riassicurò dicendo loro che sarebbe andato avanti con le indagini. I ragazzi entusiasti si misero d’accordo e proposero ad Alex di tenere un’imboscata ai due presenti colpevoli.

Così, i ragazzini e Giovanni quella sera andarono a casa di Sonia: - Ciao ragazzi, entrate pure, fate come se foste a casa vostra.

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Chris si tolse le scarpe e si sdraiò sul divano con i piedi sopra il tavolino da caffè.

E Alex lo rimproverò: - Chris, non credo che Sonia intendesse questo!

Tom replicò al fratello: - Sì, lo sappiamo, Chris non è proprio un gentiluomo… - emise un sonoro rutto e poi chiese, come se nulla fosse - Quando arriva la pizza?

Tutti quanti scoppiarono a ridere. Dopo pochi minuti tra chiac-chiere e risate suonò il campanello.

Giovanni disse: - Vado io.Quando aprì la porta vide un uomo, o meglio ne intravide i capelli,

poiché petto e viso erano nascosti dietro sei scatole di pizza. Nick si accorse che Giovanni e il ragazzo delle pizze avevano una strana inte-sa quasi che si conoscessero da tempo.

Allora andò accanto all’uomo: - Mi scusi, per caso ha visto due uomini aggirarsi intorno a questa casa?

L’uomo notò che il ragazzino aveva capito che non era un vero fattorino.

Rispose: - No, e francamente non so come due uomini possano aggirarsi in un quartiere così tranquillo… e sorvegliato. - abbassò la voce verso la fine della frase - Buona serata!

Nick guardò Giovanni in modo molto titubante, poi tornò in sa-lotto dai suoi amici e disse: - Ragazzi, Giovanni ci sta nascondendo qualcosa!

E Alex domandò: - E che cosa? Nick rispose: - L’ho visto mentre parlava con il ragazzo delle piz-

ze, ma non era la solita chiacchierata tra cliente e fattorino, avevano un’aria molto sospetta, credo anche di aver intravisto una pistola.

Tom perplesso: - E con questo, cosa vorresti dire? Nick lo guardò e con una voce spezzata: - Voglio dire che secondo

me Giovanni collabora con quei balordi di Carlo e Alfonso. Anche il fattorino per me è un complice.

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Chris iniziò ad agitarsi e a mettersi le mani nei capelli: - Giovanni? Non può essere. Lui non farebbe mai una cosa del genere! Io non ci credo, non ci credo.

Nick affranto: - Non capite? Giovanni è un nostro caro amico e noi crediamo in lui, ma è un adulto e ovviamente ha dei segreti che non racconterebbe mai a dei ragazzini.

Sonia, che non aveva ancora aperto bocca, alzò lo sguardo verso il suo amico e gli chiese: - Sei proprio sicuro?

Nick però si sedette sul divano e abbassò la testa: - No. Non sono sicuro. Potrei anche sbagliarmi…

In quel momento Giovanni entrò in salotto con in mano le pizze e si schiarì la gola. Aveva capito che era in una brutta situazione.

Facendo finta di niente: - Allora ragazzi, sono arrivate le pizze. La prima è per Tom che è molto affamato.

I ragazzini lo guardavano in cagnesco e Nick rivelò: - Sappiamo tutto.

Giovanni posò le pizze sul tavolino: - Ragazzi, sapete che non posso raccontare gli affari della polizia, soprattutto a dei ragazzini. Appena si fosse concluso il caso, vi avrei raccontato tutto.

Alex puntandogli il dito contro: - Affari della polizia? Per chi ci hai preso? Sono affari loschi, traditore!

Tom si accodò al fratello: - Non ti credevo complice di Carlo e Alfonso!

Giovanni scoppiò a ridere e spiegò: - Ma di che state parlando? Complice di quei due? Ma ragazzi, io…

- Guardate! - Chris che si era affacciato alla finestra aveva visto due figure aggirarsi in giardino - Saranno sicuramente Carlo e Alfon-so! Stanno cercando di avvelenare il gattino di Sonia.

Con uno scatto veloce Giovanni uscì di casa, puntò la pistola con-tro gli assassini e urlò la leggendaria frase: - Mani in alto!

I due saltarono in sella al motorino di Carlo e scapparono: - Carlo, quelli pensano che riusciranno ad acchiapparci. Poveri illusi!

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- Non ti preoccupare amico, il mio scooter sfreccia più del vento… E iniziarono a ridere fragorosamente quando, arrivarono sul fondo

del vialetto e una volante della polizia li bloccò. Continuarono a ridere e cercarono di imboccare una traversa a sinistra, ma un’altra volante sbarrò loro la strada. Cercarono di girare a destra ma altre pattuglie bloccarono tutti i passaggi, finche i due non capirono che erano circon-dati e non c’era più nulla da fare.

- Alfonso, credo che ci dovremmo arrendere.- Le femminucce si arrendono. Da una macchina scese il capo della polizia, uomo robusto e alto

che disse: - Alto là! I due si intimorirono e si fecero ammanettare. Il ragazzo delle piz-

ze andò incontro a Giovanni ed esordì: - Li stiamo portando in cen-trale.

Nick esclamò: - Lo sapevo che non era un vero fattorino!In coro i ragazzi si rivolsero a Giovanni: - Scusaci, non dovevamo

dubitare di te. - Non vi preoccupate ragazzi. Vi voglio bene!

Il giorno seguente il capo della polizia e il sindaco, a Nick, Tom, Alex, Chris e Sonia assegnarono una medaglia al valore. Venne anche elargita una cospicua somma di denaro ai genitori dei ragazzi per rin-graziarli di aver catturato gli assassini dei cuccioli.

I ragazzi posero tantissime domande sul conto dei malviventi al capo della polizia, ma lui li rassicurò: non sarebbero usciti prima dei sei mesi e successivamente sarebbero stati sorvegliati dai poliziotti.

Dopo un po’ Giovanni decise di offrire a tutti i presenti un gelato e insieme andarono in gelateria.

Purtroppo dopo sei mesi Alfonso e Carlo uscirono per buona con-dotta, ma dovettero ancora scontare la loro pena ai servizi sociali che durava ancora tre anni.

I genitori di Nick vedendolo triste gli comprarono un cane e lo

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chiamò Zuccherino, anche se Caramella rimase lo stesso nei suoi ri-cordi.

Ormai adulti Nick, Tom, Alex, Chris e Sonia seguirono il loro so-gno di iscriversi all’Accademia di Polizia. Sarebbero diventati la mi-gliore unità del Commissariato di Polizia di Alberga.

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Flavio Battaglia - Neha Mauracheea - Emanuele Ravanelli - Piergiorgio Scavo - Sara Verzì

Assassinio a Beverly Hills

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Sembrava una serata tranquilla a Beverly Hills, quando ad un trat-to si sentì un rumore improvviso, un rumore di limousine che si ferma-va proprio davanti all’ingresso di una sontuosa villa. Era una grande casa con una spiaggia privata, parecchi ettari di parco curatissimi, una vasta piscina sul retro, un’ampia veranda sui fianchi, funzionalissime recinzioni ed un ottimo servizio di sicurezza.

Era la villa di Adam Selon, trent’anni, giovane, gli occhi chiari, bello come un attore di Hollywood, ma soprattutto molto ricco. Era nato da una famiglia benestante a Orlando dove, dopo essersi laureato, era stato vice-sindaco.

Dalla limousine scese un’elegantissima e giovane ragazza che disse di essere una delle dodici persone invitate proprio da Adam. Si trattava di Bella Crags, rampolla della nobile famiglia californiana e, quando raccontava di lavorare nell’albergo di papà, a nessuno sfuggi-va che si si trattava della prestigiosa catena internazionale pentastel-lata. Trent’anni, alta, capelli biondi, portava gli occhiali e aveva gli occhi verdi. Dai giornali di gossip tutti sapevano che il papà l’aveva fatta laureare al Pitzery College con il massimo dei voti, ma a sentirla blaterare di quisquiglie si dubitava che fosse stato merito della sua grande cultura.

Subito dopo arrivò con un elicottero John Philips, diceva di essere un agente immobiliare, trentasette anni, era basso e magro, capelli neri e occhi castani. Era una persona rigida e sicura di sé.

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Giunse anche l’ispettore Jack Pantellas su una costosissima Jeep. Quarantasette anni, era sposato e aveva due figli, un maschio e una femmina di cui non faceva che parlare. Era evidentemente in sovrap-peso e tarchiato, ma non erano i suoi maggiori difetti. Appena apriva bocca passava per ciò che era: un tonto senza limiti. La sua carriera la doveva, infatti, alla stirpe di poliziotti da cui veniva. La jeep, invece, alle bustarelle che accettava. Salutò con una strizzatina d’occhi la Cra-gs che era, in realtà, un agente sotto copertura dell’FBI e con la quale si era trovato a lavorare tempo addietro.

Si aggiunsero anche le tre sorelle omozigote, Hannah, Georgia e Julia McPherson, con uno sfarzosissimo yatch. Trentadue anni, alte e magre, capelli castani e ricci, occhi verdi e sorriso smagliante. Erano nate a Dallas da facoltosi petrolieri.

Arrivò anche, accompagnata da suo nipote, la celebre giallista Louisa Brennow, settantacinque anni, bassa e magra, capelli bianchi, portava il bastone, gli occhiali e gli occhi verdi.

Tra gli invitati vi era, inoltre, Bawan Fatuli, ex ministro della Tan-zania, con una Bentley. Quarantaquattro anni, portava iscritta nella sua pinguedine il suo benessere economico, guadagnato grazie al sistema di corruzione con il quale aveva operato nel suo paese.

Giunse poi George Spina, uno scienziato, in sella ad una Harley d’annata. Robusto, capelli neri e poco lunghi, quarantacinque anni e occhi verdi.

Si aggiunsero, quindi, i coniugi Richard e Paula Shawa. Richard era chirurgo di cinquantanove anni, ultramiliardario e proprietario di molti terreni. Era bassino e smilzo, gli occhi azzurri e i capelli tinti biondi. La moglie era una ricercatissima modella e attrice, venticin-que anni, magra, capelli biondi e lunghi, occhi azzurri, maliziosa e snob. Per ultimo giunse David Pen, imprenditore, cinquantadue anni. Era alto e magro, muscoloso ed affascinante. Era proprietario di una famosissima catena di fast food. Nonostante svolgesse una vita molto frenetica, aveva molto tempo per curare il suo aspetto fisico. Era nato

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a Washington da una famiglia benestante. Dopo essersi laureato in economia aveva investito nel suo primo fast food.

Furono finalmente accolti nel salone principale: era gigantesco, con numerose comode poltrone di colore azzurro pastello e divani stracolmi di soffici cuscini. C’era pure un grande schermo di 47 pollici per vedere film in ultra hd e in 3d. Ognuno parlò con gli altri facendo presto conoscenza.

- E lei quindi è originario della Tanzania? - chiese urbanamente il chirurgo.

Sì, ne ho passate tante laggiù, ma penso proprio che gli Stati Uniti siano diventati la mia nuova patria d’elezione. - aggiunse l’ex ministro scherzando.

- Per esempio, ho alcuni terreni da vendere, perché so che è un buon momento. Ora cerco acquirente, ma io non voglio trattare: il prezzo è quello che decido io! - affermò spavaldamente.

- Peccato, lei sa che io sono sempre disponibile, se vuole fare una piccola riduzione. - aggiunse l’imprenditore Pen.

Adam giunse nella stanza e richiamò l’attenzione degli ospiti: - Buonasera a tutti e benvenuti! Vorrei ringraziarvi per essere venuti a questa serata per rincontrare i miei amici, coetanei e addirittura lontani parenti. Detto questo vorrei accompagnarvi per un breve giro della mia umile dimora. - concluse con falsa modestia.

Si incamminarono e visitarono la casa: dagli immensi ettari di parco curatissimi, all’enorme piscina in mattonelle dorate fornita di acquascivoli, trampolino e sdraio; fino alla veranda laterale aggettan-te su una spiaggia privata con tutti i comfort. Molti ospiti notarono facilmente i sistemi di sicurezza: telecamere a ogni angolo, i muri di recinzione e le due sole vie di uscita (il portone e il mare). “Se qui ci dovesse essere un omicidio saremmo al sicuro, l’assassino non scap-perebbe!” pensò ironicamente John Philips.

Giunti nuovamente all’interno, si prepararono subito per la cena. “Forse sarà solo una mia impressione, ma perché non ci ha fatto visi-

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tare il piano superiore? Ha per caso qualche segreto?” si domandò la scrittrice di gialli. Chick e Chak erano giunti nella sfarzosissima sala da pranzo in stile liberty con il carrello dei piatti pronti per essere ser-viti, quando mancò improvvisamente la luce. Scappò un urlo a Paula Shawa per la paura.

- State calmi signori, i miei collaboratori provvederanno subito a rimediare. - disse con tono forte il proprietario.

Nel giro di pochi minuti i due inservienti fecero tornare la corren-te.

- Molto strano, signor Selon, scatta un black-out, ma le case dei vi-cini hanno la luce e nessuno di noi si è alzato per spegnere il contatore generale, quindi deve essere di certo stato qualcun altro. - lo provocò Louisa Brennow.

- Oh no, stia tranquilla, signorina. Può essere stato un hacker an-che a mille chilometri di distanza. Ne sono stati segnalati parecchi in questo mese. - rubò la parola Hannah.

Dopo che tutti si furono tranquillizzati, Chick finì il suo controllo di sicurezza e disse affannosamente: - Signor Selon, non ci potrà cre-dere, ma la cantina è allagata.

- È impossibile! Sembra la giornata della sfortuna. Signori, mi di-spiace ma devo assentarmi per sovrintendere i lavori nel seminterrato. - si scusò Adam.

Oh no. Il proprietario lascia soli i suoi ospiti. Ma che razza di sera è questa? Complimenti per il grande senso di ospitalità. L’avessi saputo prima, non sarei neanche venuta. - rispose snobbando gli altri l’attrice.

- Signora Shawa, Adam ha bisogno di salvare la sua casa e ha gentilmente chiesto il nostro consenso e noi glielo daremo. - rispose decisa Julia.

- Grazie tante per il supporto. E ora scendo subito, prima che sia troppo tardi. - confermò il proprietario.

Dopo circa un’ora scarsa di preparazione e lavoro, mentre gli ospi-

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ti chiacchieravano nel corridoio e nella stessa sala da pranzo, il gio-vane Adam e i servitori svuotarono pian piano il seminterrato e Chak chiuse il lavello che provocò l’allagamento.

- Finalmente ce l’abbiamo fatta! - esultò Adam, per poi constatare - Mi sembra tutto a posto. Ora possiamo salire.

Quando il proprietario torno su, la scrittrice chiese: - Scusa, Adam, se vuoi io potrei dare un’occhiata ai tubi... mio marito era un idraulico e io lo aiutavo sempre.

- Ti ringrazio tanto, Louisa, sarebbe carino da parte tua. - Allora do un’occhiata e vi raggiungo al più presto.Così scese. “Bene, deve per forza essere stato qualcuno di noi! Ma

chi? Va be’, qui intanto è tutto in regola. Ora dovrei andare sopra.” pensò tra sé e sé.

Mentre era nel corridoio si accorse che in un angolo in penombra c’era qualcosa per terra. Si avvicinò piano piano.

- Ahhhhhh! - urlò l’anziana. C’erano i corpi dell’ex ministro e del chirurgo. Accanto giaceva

anche la corda con cui evidentemente erano stati soffocati. Presto tutti accorsero e dovettero prendere atto di un’orribile verità: tra loro c’era un assassino che aveva strangolato ben due uomini!

Passarono alcuni istanti dal ritrovamento dei cadaveri del signor Shawa e di Bawan Fatuli, ex ministro degli esteri della Tanzania. In tutta la sala regnava un brusio inquieto. La signora Shawa piangeva a dirotto e alcuni dei presenti cercavano di consolarla.

Ma lei gridò: - Lasciatemi stare! Mio marito è morto! - e tacque singhiozzando.

John Philips propose ad ognuno di raccontare il proprio punto di vista sull’accaduto.

Iniziò Bella Crags: - Stavo parlando con Hanna Feckerson di la-voro, quando la folla del salone si spostò improvvisamente ed io la seguii. Fu allora… fu allora che io vidi i corpi inerti.

John Philips, rimasto freddo, essendo stato anche lui artefice di

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alcuni omicidi nel passato, stava iniziando la sua versione. Nessuno si accorse che due dei presenti si erano allontanati: si trattava del pro-prietario, Adam Selon e dello scienziato, George Spina, che si erano trasferiti in una stanza alla fine del corridoio del secondo piano.

Adam disse: - Qui dovremmo essere al sicuro.Lo scienziato rispose: - Concordo. Possiamo iniziare l’affare. - ed

iniziarono a trattare per il prezzo.Nella sala da pranzo, Bella Crags domandò: - Avete notato che

manca qualcuno?Philips intervenne: - Sì, vero, mancano Adam e quello strano

scienziato.E proprio mentre pronunciava quelle parole caddero addormenta-

ti quasi contemporaneamente: lui, Bella Crags, John Philips, Louisa Brennow, Paula Shawa, Julia e Hanna Feckerson.

Dopo lo stranissimo svenimento di alcuni degli ospiti, Georgia si insospettì: - Sorelle, ascoltatemi, queste persone non possono essere svenute per caso. Alcuni, magari i più anziani, non avranno retto la faccenda, ma guardate quel giovanotto, John Philips. Si capiva chiara-mente che avesse sangue freddo! Quindi propongo di abbandonare il caso dell’omicidio per occuparci di quest’altro. Siete d’accordo?

- Certamente! Ma, ragazze, anche il poliziotto e l’imprenditore sono ancora svegli, e il poliziotto mi sembra un poco tonto, quindi lo dovremmo tenere d’occhio. - aggiunse Hannah.

- Allora, Georgia, tu guarda l’ispettore, Hannah, tu controlla i cor-pi addormentati e aggiornaci se trovi oggetti sospetti, e io osserverò bene l’imprenditore, prima di arrivare a conclusioni affrettate. - diede disposizioni Julia.

E così fecero: Georgia intrattenne il poliziotto con falsi raccon-ti della sua gioventù; Julia non distolse gli occhi dall’uomo e Han-nah controllò senza farsi notare ogni singolo invitato steso per terra. Quest’ultima notò del sangue, all’altezza della schiena, nel vestito di Louis Brennow. Senza essere per niente turbata, richiamò subito le

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due sorelle per svelar loro le novità. - È letteralmente incredibile! - esclamò - Ho scoperto una cosa in-

teressante: queste persone si sono addormentate perché qualcosa li ha punte. Insomma nel loro corpo, è stato iniettato un sonnifero. Deduco, dunque, che qualcuno tra il poliziotto e l’imprenditore abbia lanciato loro delle freccette soporifere.

Tutte e tre le sorelle erano esterrefatte, ma prima che potessero dire qualsiasi cosa, Hannah svenne e cadde supina. Le altre due ge-melle notarono una piccola freccetta verde vicino al polpaccio. Subito capirono che erano proprio loro le prossime vittime. Georgia si sentì pizzicare all’altezza della coscia e in quello stesso istante perse i sensi. Julia ebbe solo il tempo di pensare tra sé: “Ma dov’è lo scienziato? E Adam?” E subito dopo cadde anche lei sul pavimento, priva di sensi.

Il poliziotto sentì le loro urla, ma ancora prima che si muovesse in quella direzione David Pen gli puntò di scatto una piccola pistola d’acciaio spara frecce soporifere.

- Mi dispiace, ma lei ha visto troppo e io non vorrei finire nei guai, quindi sogni d’oro e buona perdita della memoria! - aggiunse.

E così gli sparò dritto nella pancia provocando un rumore che sembrava proprio quello di una freccetta che colpisce il tabellone.

Pantellas, però, portava un busto, quindi la freccetta non toccò per niente la pelle. Comunque, lui fece finta di accasciarsi svenuto. L’imprenditore raccolse dal suo corpo e da quello delle gemelle le freccette, poi andò al tavolo del salone a bere dell’acqua e ad assumere un medicinale, dando le spalle agli addormentati.

Il poliziotto, in un insolito lampo di furbizia, sgattaiolò nel corri-doio e si diresse al piano superiore. Dopo esservi arrivato in fondo e aver dato uno sguardo ad ogni stanza di nascosto, trovò ciò che cer-cava. Adam e lo scienziato si scambiavano soldi e una sostanza molto strana che posarono in una valigetta di metallo. Sentì in un sussurro il termine “uranio”, la cui vendita privata negli Stati Uniti d’America era illegale. Allora corse subito sotto, afferrò Bella Crags da sotto le ascel-

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le e con grande fatica la trascinò nel corridoio. La schiaffeggiò finché non si fu svegliata e gli restituì la gentilezza con un “e che modi!”. Inoltre, non ricordava niente di quella serata.

- Pantellas? Dove sono e cosa ci faccio qui? - domandò.- Mi ascolti, siamo stati invitati da un delinquente che traffica ura-

nio, un imprenditore ci ha lanciato contro delle freccette soporifere e con una qualche diavoleria che fa scordare tutto. Tra poco scenderan-no, noi li dobbiamo fermare e chiamare i rinforzi. - spiegò l’ispettore.

Poco mancò che la donna lo credesse matto da legare, ma per quanto improbabile, lei si era, comunque, addormentata in modo ano-malo, aveva perso la memoria e portava i segni di un’iniezione proprio nel braccio. Decise così di fidarsi.

- Ascolti, se devo credere a quello che mi ha detto lei, li dovremmo cogliere di sorpresa e bloccarli. Per l’FBI, ovviamente, ci penserò io stessa al momento opportuno. - e i due si nascosero.

Quando Adam e il suo compare scesero, videro tanti corpi privi di sensi per terra e David che beveva dell’acqua vicino al tavolo. Quan-do quei due entrarono per fare delle domande all’uomo, la ragazza e l’ispettore li sorpresero urlando contro di loro: - Fermi tutti. Sappiamo ogni cosa.

Ah sì? E cosa sapete, signor mongolino d’oro? - chiesero all’uni-sono i malviventi.

Che spacciate uranio e che ci avete fatto svenire per fuggire. Co-munque mi chiami “poliziotto”. - rispose Jack.

E così quei tre scapparono fuori. Li rincorsero fino alla spiaggia. Lì tanto la donna che l’ispettore puntarono contro di loro le pistole che avevano sempre indosso.

David Pen allora confessò di aver organizzato quegli omicidi per-ché voleva comprare i terreni di Fatuli e Shawa. Loro, però, non ave-vano voluto abbassare il prezzo che era esageratissimo. Così, aveva pensato di ucciderli e trattare con gli eredi che sarebbero stati ben più arrendevoli.

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La spia contattò l’FBI per la faccenda dell’uranio. I tre malviventi vennero portati in prigione, mentre tutti gli altri ritornarono alle loro rispettive case con una nuova, sconcertante storia da raccontare.

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Karim Ben Amer - Damiano Garofalo - Monica Milanese - Roberto Pirone - Giuliano Puleo

Inoffensiva

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Era una mattinata grigia e tempestosa del mese di novembre, e piazza Dam la piazza principale di Amsterdam, era piena di turisti che visitavano il museo delle cere e scattavano delle foto al National Monument e al Palazzo Reale. Intorno all’imponente Palazzo Reale si snodavano le vie dello shopping ricche di negozi e di bar tra cui l’Hard Rock Cafè che quella mattina era popolato come sempre da passanti.

Ad un tratto l’animazione generale del locale venne interrotta da un disperato grido di donna che si udì provenire dal bagno. Alcuni clienti rimasero traumatizzati e immobili, con il loro caffè in mano. Altri coraggiosamente andarono a vedere cosa fosse successo.

Agli occhi degli avventori si presentò una scena orribile. Una don-na era imbavagliata, mani e piedi legati per mezzo di una corda, e non indossava né gonna né slip. Accanto a lei giaceva distesa a terra il corpo senza vita di un uomo barbuto, alto e magro. I clienti del bar, tra cui l’abitudinario detective Alexander Visser, slegarono la donna, la fecero rivestire e uno dei clienti le mise addosso il suo cappotto e le offrì una cioccolata calda. Nel frattempo il barista avvertì sia l’ambu-lanza sia la polizia che arrivarono tempestivamente.

All’arrivo della polizia la giovane vittima era ancora tremante, se-duta su uno sgabello, con i suoi capelli lisci e biondi che le coprivano il volto, gli occhi grandi e scuri gonfi di lacrime e con le mani esili reggeva la tazza di cioccolata calda. Il commissario Elmer van Der Meer, appena entrato, si fece fornire le sue generalità. Si trattava di

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Brigit Jansen. I poliziotti entrarono nel bagno per ispezionare la scena del crimine, mentre il detective Visser, amico di vecchia data di van De Meer, dopo averlo salutato e informato su quanto aveva visto, in-terrogò la ragazza prima che fosse condotta in ospedale.

- Signora Jansen, riesce a dirmi cosa sia successo?Lei rispose piangendo: - Ero in bagno a lavarmi le mani. Tutto ad

un tratto, qualcuno mi afferra e inizia a picchiarmi. - È importante che mi spieghi cosa è successo bene dopo essere

stata afferrata. - continuò a parlare il detective. - Lui mi ha legata, imbavagliata e violentata. Poi si è accasciato a

terra dolorante e ha smesso di respirare. Dopo aver risposto alle domande la donna fu condotta in ospedale.Il detective e il commissario si attardarono ancora nel locale da-

vanti a un caffè fumante.- Allora, Alexander, come vanno gli affari?- Non mi lamento, amico mio, anche se a parte delle squallide

storie di letto non ci sia poi molto di cui occuparsi.Van De Meer gli schiacciò l’occhio: - Non è troppo tardi per en-

trare in polizia, sai, e qui ne vedresti delle belle, se è il sangue che ti attira… Comunque, qui mi pare che la situazione sia chiara come la luce del giorno, anche un bambino lo capirebbe. Tra l’altro il morto, Claas Mulder, è una nostra vecchia conoscenza, un delinquente che stava più dentro che fuori. Piccoli furti, detenzione illegale di armi. Insomma, non rimpiangeremo la sua mancanza.

- Già. - rispose l’altro pensieroso.- Non sembri convinto.- In effetti, non so, mi sembra tutto troppo… perfetto. Un’orgia di

indizi, se capisci cosa intendo.- Non del tutto, temo.- Vedi, Elmer, è come se tutto fosse stato apparecchiato per la poli-

zia: il colpevole recidivo, la vittima, il movente, il luogo così centrale, i testimoni… tutto troppo facile.

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Il commissario fece spallucce: - Per me sei paranoico. Per una volta che non dobbiamo spaccare il capello in quattro, non ho nessuna intenzione di crearmi problemi da solo. Comunque, se ha stuzzicato la tua curiosità, libero di seguirmi in commissariato.

Ci rifletté un attimo su: - Sono abbastanza scarico… accetto.In centrale una mezz’ora dopo li raggiunse anche la donna. Veniva

direttamente dall’ospedale, il trucco sbavato sul volto e gli abiti spor-chi e sgualciti. Il referto che consegnò certificava la violenza subita, con la squallida contabilità dei suoi ematomi. Lei si sedette testa chi-na, l’espressione contrita e cominciò a raccontare.

- Dovevo sbrigare delle commissioni in centro. Poi la pioggia im-provvisa mi ha spinta a entrare in quel bar. Saranno state le 9.00 circa. Ho preso un caffè e sono andata in bagno. Mentre aprivo la porta, ho sentito qualcuno che mi afferrava alle spalle e mi sospingeva dentro. - si fermò, quasi singhiozzando tenendosi il volto tra le mani - Oh, è stato orribile, orribile! Non me l’aspettavo, non ho saputo reagire.

- Conosceva quell’uomo? - chiese il commissario.- No, no, mai visto prima. Deve avermi vista nel bar e seguita. Io

non avevo nemmeno notato che fosse lì dentro. Poi mi ha messo una mano davanti alla bocca e quindi mi ha imbavagliata e legata. Il resto è tutto confuso nella mia mente. Mi ha picchiata e violentata. Non so nemmeno quando ha smesso. Ho visto che aveva difficoltà a respirare, si teneva un braccio e infine si è accasciato sul pavimento. Poco dopo ho sentito bussare alla porta e, dato che nessuno rispondeva, quella signora è entrata ed ha urlato. - finì l’ultima frase in lacrime, abboz-zando un sorriso che piegò in una nuova smorfia dolorosa.

- Va bene, va bene, signora. Per noi è tutto chiaro. Quel malvivente ha avuto quel che si meritava.

Il commissario la accompagnò alla porta e tornò alla scrivania.- Allora? - si rivolse al detective.- Non saprei. Non sono ancora convinto. Non ho che delle sensa-

zioni per il momento. Per esempio, hai notato quel sorriso al termine

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della deposizione? - Bah, sarà stato una reazione scomposta dovuta allo shock.- Inoltre, ha sostenuto di non aver visto quell’uomo nel locale.

Eppure, io sono quasi certo che fossero seduti vicini nel bancone…- Sai quante volte sarà successo anche a te…- Infine, la porta non chiusa a chiave.- Mulder sarà stato troppo infoiato per preoccurarsi si questo det-

taglio.- Forse hai ragione, Elmer. Ora devo proprio andare.Si strinsero la mano amichevolmente, riproponendosi di vedersi

una di quelle sere per una birra.Il detective appena uscito dalla stazione di polizia, sentì un bri-

vido. Era una giornata molto fredda. Decise di andare dal giornalaio, ormai suo amico. Bart Menis, così si chiamava. Era un uomo invec-chiato, di circa sessantacinque anni. Molto basso per le sue origini. Aveva però le capacità di un trentenne, forse per le tantissime mele che mangiava a qualsiasi ora del giorno? Be’ come si diceva: “Una mela al giorno leva il medico di torno.” Le strade erano vuote, Bart infatti canticchiava.

- Buongiorno Bart! - Oh, Alexander, che bello vedere qualcuno! Con questo freddo,

sono tutti rintanati a casa al calduccio... ecco tieni. - e gli consegnò il giornale.

In prima pagina lesse:

Marito muore, moglie incassa.

Sotto un immagine di Birgit Jansen. Sì, era lei, i suoi splendenti capelli biondi erano inconfondibili. Visser continuò a scorrere l’arti-colo.

Il conosciuto architetto George Pawell è rimasto vittima

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di un’aggressione. La polizia non fornisce dettagli in merito. La moglie, Birgit Jansen, si ritrova padrona di un’enorme fortuna.

Alexander rivide come in un flashback la donna in commissaria-to... sì, aveva addosso abiti firmati e molti gioielli...

- Ma allora, - si chiese l’ ispettore - Perché si trovava in un bar di terz’ordine?

Salutato Bart Menis, si recò sul luogo del delitto. Lì, cominciò a rovistare nella pattumiera e trovò una siringa di circa 10 ml. Inso-spettito decise di mandarla ad un suo amico della scientifica per farla analizzare e capire se avesse a che fare o meno con il caso della donna.

Dopo aver spedito la siringa (quella che secondo lui era l’arma del delitto usata dalla donna per uccidere il presunto aggressore) a uno dei suoi agganci alla scientifica Visser decise di seguire nuovamente la donna.

Ci volle un po’ di tempo prima di ritrovarla ma alla fine riuscì a ritornare sui passi della signora Jansen. La trovò a girare per la Jorda-an (rinomata meta turistica di Amsterdam) tranquilla e senza segni di shock per via del presunto rapimento. Arrivò in piazza Dam, dove per poco non la perse di vista. Quindi, ebbe l’impressione che la donna si fosse accorta di essere seguita, allora il detective entrò alla stazione centrale, senza perderne le tracce. Trascorsa mezz’ora la donna entrò in un negozio aperto da poco sulla riva del Prinsengracht (uno dei canali meglio frequentati della città). Non vedendo (e non riuscendo a sentire) ciò che accadeva dentro, prese il rischio di avvicinarsi. La donna si avvicinò alla cassa, parlò un poco con il proprietario (durante tutto ciò, Visser era nascosto dietro ad una pila di cianfrusaglie), dopo due minuti di conversazione con l’uomo la vedova uscì. Visser aspettò cinque minuti, poi ormai stanco si avviò verso casa.

Al detective non sembrava possibile che la donna (specie dopo la violenza che affermava di aver subìto) si fosse girata mezza città in tutta tranquillità e senza nemmeno spaventarsi degli uomini che

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la guardavano con aperto desiderio. In particolare, quando la signora Jansen si trovava nel negozietto di fronte al canale, il commesso aveva fatto certe battutine che a momenti avevano fatto ribollire il sangue dello stesso Visser, nonostante fosse abituato a sentire questo genere di volgarità (specie dai malviventi che era solito arrestare). Questi fatti convincevano sempre di più il detective che la donna avesse architet-tato. tutto ma come dimostrarlo? In fondo le sue erano solo teorie futili supposizioni. Non aveva ancora indizi a sufficienza per convincere l’ispettore del fatto che la donna avesse finto di essere stata molestata e che magari potesse anche a fare con la morte del marito.

Ma vi era possibilità materiale di fingere uno stupro? Poiché, se questa ipotesi era irrealizzabile, allora si era sbagliato e aveva anche accusato una donna innocente che oltre ad aver perso il marito aveva anche subito violenze di tipo orrendo. Certo se al contrario la don-na era colpevole ma fosse impossibile provarlo, allora una criminale sarebbe stata lasciata a piede libero. Non poteva sopportare nessu-na delle due cose, così decise di fare qualche telefonata. Per primo chiamò un suo amico ginecologo e gli chiese se fosse o no possibile per una donna simulare di aver subito delle violenze sul proprio corpo, all’esterno (lividi graffi e lacrime) e all’interno (tracce di sperma e organo riproduttivo circondato da infiammazioni e lividi). Lui rispose che sarebbe stato molto difficile, ma, se la donna in questione prima di picchiarsi e di graffiarsi e di piangere (o con una sostanza creata appo-sitamente o semplicemente riuscendo a fingere il pianto), fosse andata a letto con l’uomo accusato di averla molestata, allora sì, in quel caso, sarebbe stato possibile ricreare questo scenario.

In questo modo ebbe la prima conferma. Per essere ancora più sicuro decise di ascoltare anche il parere di uno psicologo, al quale chiese se si potesse recitare così bene da far credere di essere in stato di shock da molestia sessuale. Questo affermò che accadeva spesso.

Era perfetto. Mancava solo l’ultimo tassello: l’arma con cui la donna avrebbe dovuto uccidere il finto rapitore. Evidentemente il suo

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aggancio alla scientifica aveva un sesto senso, perché proprio in quel momento Visser ricevette una telefonata da quel suo conoscente che affermava di aver riscontrato nella siringa delle impronte che corri-spondevano a quelle della signora Jansen.

Intanto il detective continuò a indagare sulla morte del marito della signora Jansen. Per scoprire di più, decise di andare alla villa Pawell. Dopo aver rovistato tra le siepi del giardino, vi trovò un col-tello a doppia lama con tracce di sangue, la probabile arma del delitto.

Scomodò nuovamente il suo amico della scientifica per l’analisi del DNA e di eventuali impronte digitali. Venne a sapere così che le impronte che erano presenti sul manico della lama corrispondevano a quelle di Mulder, il presunto aggressore della Jansen, e che il sangue apparteneva proprio a George Pawell, il marito della Jansen. Allora si rivolse al commissario van Der Meer perché riaprisse il caso. Una nuova e più accurata autopsia accertò la presenza di un foro di siringa nel cuoio capelluto di Claas Mulder.

La donna fu arrestata e sottoposta al terzo grado, dopo il quale crollò, rivelando tutta la verità. Aveva ingaggiato Mulder per uccide-re suo marito, inscenando in quell’occasione una finta aggressione. Quindi aveva attirato Mulder in quel bar con lusinghe erotiche. Aveva fatto l’amore con lui e durante l’amplesso gli aveva piantato una si-ringa di acqua e sale in testa. Il suo cuore si era fermato poco dopo. A seguire, si era svestita e aveva picchiato la fronte contro le pareti e si era provocata le restanti lividure con un ombrellino tascabile. Per finire si era imbavagliata e aiutandosi con la maniglia della porta si era passata una corda tutt’intorno al corpo.

- Non mi rimase altro che aspettare e che qualcuno vedesse la sce-na. Nessuno avrebbe sospettato una versione diversa da quella che avrei fornito... - si interruppe gelida - Nessuno, tranne quel maledetto detective.

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Ringraziamenti

Ringrazio il Dirigente Scolastico dell’I.C. Cavour di Catania, Prof.ssa Marinella Leonardi, per la fiducia al progetto; la Prof.ssa di Arte, Edvige Politi, per gli utili suggerimenti alla costruzione di alcu-ni soggetti grafici; e, infine, tutti i ragazzi che, pur essendo obbligati dalla qui scrivente coordinatrice di progetto, hanno partecipato con passione e dedizione.

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Postfazione

La scrittura collettiva ha antecedenti letterari di lustro, non ulti-mi i Wu Ming, Kai Zen, Paolo Agaraff o ancora più indietro il futurista “Gruppo dei Dieci”. Nel caso presente, tuttavia, il mio obiettivo era differente.

Desideravo, infatti, far scrivere divertendo, stimolare la creatività e far provare l’ebrezza della redazione di un racconto lungo a giovani mani inesperte.

Per prima cosa ho lanciato un concorsino di idee, tanto di genere horror, come del giallo, precedentemente trattati con letture integrali, analisi e saggi brevi di classici (Lo strano caso del Dottor Jekyll e Signor Hyde di R. L. Stevenson e Dieci piccoli indiani di A. Christie). Tra queste i partecipanti hanno scelto le loro preferite (o sono stati inseriti in gruppi bilanciati sulla base delle loro abilità) e hanno ela-borato una sceneggiatura dettagliata, suddivisa in tanti episodi quanti erano gli scrittori.

Successivamente i ragazzi hanno lavorato insieme per le descri-zioni delle ambientazioni e dei personaggi comuni.

Quindi, ho assegnato a ciascuno un episodio da redigere per una lunghezza media di una facciata A4 in times new roman 12, (qui ridot-to a “11” per necessità di stampa) con scelta narratologica della terza persona onnisciente al passato remoto (in The dark side of the moon si è tentato il punto di vista interno del protagonista). I ragazzi sono stati

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guidati nell’autocorrezione formale o di incoerenze contenutistiche.Non ultima hanno affrontato anche l’ardua prova della ricerca di

un titolo: evocativo, ma non rivelatore.Infine, i loro lavori limati hanno formato quest’antologia di rac-

conti in GIALLO E NERO che è stata corredata anche di copertine, da loro stessi realizzate e progettate, seguendo talvolta acuti suggeri-menti dell’insegnante d’Arte.

L’impegno profuso è stato tanto, dalla prima all’ultima fase, e il risultato complessivo molto gradevole.

Quindi, questi ragazzi tra i dodici e i tredici anni si meritano dav-vero un grande apprezzamento tanto da me quanto da voi lettori

Cinzia Di Mauro

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Indice

Scrivo in GIALLO e NERO 1

Scrivo in nero 2La tela di Manet 3Qui un nuovo mondo vi attende 19The dark side of the moon 30

Scrivo in giallo 52Omicidio al Bar dello Sport 53Zampette in pericolo 62Assassinio a Beverly Hills 72Inoffensiva 82

Ringraziamenti 91Postfazione 92

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Cosa si cela dietro l’acquisto di un quadro? Perché si ode un grido di donna al centro di Amsterdam? Quali segreti promettono le note di una canzone pop? Questi sono solo alcuni dei misteri da svelare o degli orrori da leggere col fiato in gola di questa Antologia in GIALLO e in NERO.

Ragazzi tra i dodici e i tredici anni hanno giocato con la loro fantasia, mettendo in scena incubi e casi da investigare. Quali novelli Stevenson o Christie vi condurranno verso la profondità del loro mondo creativo che combatte le paure, facendosene artefice.

Quando si entra in un laboratorio di scrittura e si mescolano storie, ambienti e personaggi, si scopre che da questa mirabile alchimia tutto può accadere, persino di realizzare qualcosa che persista (in echi pre-senti e futuri) al di là dell’autore.

Miracolo che accadrà anche in questo caso? Comunque sia, cari lettori, preparatevi al brivido!

III F e II L della scuola secondaria - I.C. Cavour Catania

Antologia di racconti gialli e horror2016