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Scriviamoci con cura I edizione - 2012 Pazienti oncologici raccontano come levare l’ancora con la scrittura... Intonazione all’estate che arriva Antologia di racconti Premio Letterario Centro di Riferimento Oncologico di Aviano

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Scriviamoci con curaI edizione - 2012

Pazienti oncologici raccontano come levare l’ancora con la scrittura...

Intonazione all’estate che arriva

Antologia di racconti

Premio Letterario

Centro di Riferimento Oncologico di Aviano

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ntologia di racconti

ISBN 9788897305033

Questa antologia raccoglie i racconti dei cinque vincitori della prima edizio-ne del premio letterario Scriviamoci con cura 2012, seguiti da alcune selezioni di storie narrate da altri partecipanti.

Nel ripercorrere le tappe della malat-tia, gli autori ci regalano delle testimo-nianze profonde, umane e soprattutto universali. Un cammino fatto di dubbi e attese, passando per la terapia e la vita in ospedale. Un percorso pieno di do-mande compiuto con determinazione e curiosità, dove il bisogno di narrare, di condividere, di rompere il muro delle frasi fatte e dell’indifferenza impone una riflessione.

Storie lucide e toccanti, in cui traspa-re la voglia di tornare a sognare, a vive-re, anche attraverso il coraggio di essere leggeri, ironici, persino sfrontati, ricor-rendo a diversi generi letterari come la fantascienza o la fiaba.

La caduta e la rinascita di chi ha con-vissuto e convive con il male. La capaci-tà di rialzarsi e affrontare il futuro con un sorriso. Una forte dichiarazione di speranza e di fiducia nella vita.

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Scriviamoci con curaI edizione - 2012

Pazienti oncologici raccontano come levare l’ancora con la scrittura...

Intonazione all’estate che arriva

Antologia di racconti

a cura delCentro di Riferimento Oncologico di Aviano

Premio Letterario

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© CRO di Aviano, 2012Centro di Riferimento Oncologico - IRCCS -Istituto Nazionale Tumori

via Franco Gallini, 2 - 33081 Aviano (Pn)tel. 0434 659248 – e-mail: [email protected]

© Tutti i diritti sono riservati.

I racconti inseriti in quest’opera sono di proprietà dei singoli autori, così come i contenuti e le opinioni liberamente espresse nei testi.

Da un’idea diPaolo De PaoliDirettore Scientifico CRO

Coordinamento del progettoIvana TruccoloResponsabile Biblioteca Scientifica e per i Pazienti CRO

Contributo diLaura CiolfiBiblioteca Scientifica e per i Pazienti CROMargherita VenturelliBiblioteca Civica del Comune di Aviano

Progetto graficoNancy MichilinDirezione Scientifica - Biblioteca CRO

EditingChiara Cipolat Mis ed Elena Giacomello Biblioteca Scientifica e per i Pazienti CRO

Premio Letterario Scriviamoci con curaI edizione - 2012Pazienti oncologici raccontano come levare l’ancora con la scrittura... Intonazione all’estate che arriva. Antologia di raccontiISBN 9788897305033

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Indice

Prefazione Paolo De Paoli. Direttore Scientifico CRO ........................ pag. 7Dare forma alle cose Giuria del premio letterario ................................................ pag. 9Una contagiosa vitalità Biblioteca Scientifica e per i Pazienti CRO.......................... pag. 11

I vincitoriOdio l’estateSara Caldarola ................................................................. pag. 15Possibile presenza di rospi sulla sede stradaleMarta Santin .................................................................... pag. 31Sono ancora in piedi (il mio ponte per superare il fiume)Giulia Rinaldi .................................................................. pag. 57Il mistero della scrittura e del mio tumoreMarcello Avanzo ............................................................... pag. 79Io e il mio primo MaestroEmanuele Montanucci ....................................................... pag. 99

Gli altri partecipantiDalla A alla ZMarina .............................................................................. pag. 154

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Appunti di un viaggio, il mio. Da gennaio 2010 a maggio 2012Sara M. ............................................................................ pag. 155Il mio “personalissimo” raccontoFrancesca ........................................................................... pag. 156Mr Clark ti scrivo“Boss” ............................................................................... pag. 157Le fate nel vaso di cristalloValentina .......................................................................... pag. 158Non è ancora seraMara ................................................................................. pag. 159Le stelle continuano a brillarePiergiorgio ......................................................................... pag. 160Come ho imparato a vivere senza stomacoRosanna ............................................................................ pag. 161I due pianetiMarianna .......................................................................... pag. 162Andata e ritorno: relazioni artificaliGraziano .......................................................................... pag. 163Le maschere di MoziaMaria Rosa ....................................................................... pag. 164Pettorale n. 7311Simonetta .......................................................................... pag. 165Caro cancro, proviamo a parlare un po’...Cherubino ......................................................................... pag. 166L’attesa del naviganteGiovanni ........................................................................... pag. 167Una montagna di ghiaccioMarina .............................................................................. pag. 168Quando mi sono ammalata...Angelina ........................................................................... pag. 169434 mm3: nemmeno una pallinaLivio ................................................................................. pag. 170

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Gente di mareSusan ................................................................................ pag. 171Il tumore fa rima con amore. Appunti disordinatidi un percorso semi-ordinato di malattiaPierpaolo ........................................................................... pag. 172La speranza e la disperazioneGiovanna .......................................................................... pag. 173DiarioMaria Francesca ................................................................ pag. 174Il grillo-grollo (ovvero i grilli di Aviano fanno criCRO)Franco ............................................................................... pag. 175Misterioso, silenzioso compagno di viaggioAntonietta ......................................................................... pag. 1762010 Ooops...Valeria .............................................................................. pag. 177È festa nel mareMarianna .......................................................................... pag. 178La mia testimonianzaTiziana ............................................................................. pag. 179Sentire la luce (estratto da L’altalena)Marina .............................................................................. pag. 180Raro tumore giudiziario al colonAntonio ............................................................................. pag. 181Storia di una donna qualunqueFranca ............................................................................... pag. 182... Ancora sarò!Gaetana ............................................................................ pag. 183Una storia a lieto fineStefania ............................................................................. pag. 184

Elenco partecipanti al premio letterario .................... pag. 187Ringraziamenti ............................................................... pag. 191

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Dare voce a chi, in vario modo, ha incontrato nel suo percorso la malattia cancro è un obiettivo che il nostro istituto ha avuto in mente fin dalla sua aper-tura.

Questa volta abbiamo pensato che fosse molto importante dare voce e scrittura ai pazienti, perché potessero raccontare la loro storia, le emozioni e i ricordi che la malattia ha suscitato in loro.

La nostra intenzione non era semplicemente quel-la di ricevere testimonianze di sofferenza: volevamo soprattutto che la scrittura fosse capace di far levare l’ancora verso un porto sicuro e accogliente, e che potesse rappresentare un modo per andare oltre; l’abbiamo considerata quasi come una parte del per-corso di terapia.

Sentire leggere ad alta voce dal gruppo degli au-tori e dei lettori volontari i racconti dei partecipanti al premio letterario “Scriviamoci con cura” 2012 è stato emozionante e coinvolgente, credo, per tutti i

PrefazionePaolo De Paoli

Direttore Scientifico CRO

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presenti a quell’evento. Con questo libro le testimo-nianze possono ora diventare patrimonio di molti. Il lettore attento saprà cogliere tra le righe aspetti fon-damentali dell’essere umano e portare a casa mes-saggi di sofferenza, ma soprattutto di speranza. In definitiva, il desiderio di levare l’ancora veramente.

Vorrei ringraziare i partecipanti al premio lette-rario, che ci hanno riempito di pagine profonde e personali. Un ringraziamento speciale va a tutte le persone che hanno contribuito in modo generoso ed entusiasta alla realizzazione del premio e del conve-gno.

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«Non potremmo premiarli tutti?» Questa è stata la prima cosa che i giurati hanno chiesto al momento della valutazione degli elaborati. Ogni racconto, in-fatti, ci aveva commosso o incuriosito o affascinato portandoci a... levare l’ancora.

No, non era possibile, purtroppo. Fu sottolineato da subito che si trattava di un concorso letterario e che, come tale, doveva essere gestito fino alla “na-turale” conclusione: la premiazione di quei racconti che più degli altri, secondo la giuria, avessero rispet-tato i criteri indicati: attinenza con il tema e lo scopo, arguzia e originalità, capacità compositiva e corret-tezza linguistica. Si doveva quindi arrivare a una valu-tazione critica fondata sul valore del testo letterario, sia pure sempre soggettiva.

Non è stato facile, ma è stato prezioso. Ogni auto-re ci ha condotto per mano nella sua storia, abbiamo condiviso sentimenti, emozioni, fatiche e dolori, de-lusioni e speranze.

Dare forma alle coseGiuria del premio letterario

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Non ci siamo sentiti mai soli perché la lettura ci ha posto a fianco degli altri giurati e soprattutto a fianco degli autori. E anche agli autori desideriamo dire che non saranno mai più soli perché lo sforzo di condivi-dere la loro storia, quella vera o quella immaginata, li ha portati nel grande flusso della narrazione, là dove la vita si presenta per quello che è veramente: l’in-treccio di tante storie che si incontrano, divergono, si sovrappongono, ma soprattutto non si perdono mai, non si dimenticano, non scompaiono.

Chi scrive lascia una traccia di sé nel cuore e nella mente degli altri, anche di coloro che non leggono, perché la narrazione è vita del singolo e dell’umanità.

E proprio per questo, siamo grati a tutti gli autori del prezioso regalo che ci hanno fatto e che custodi-remo con rispetto e attenzione. Da questi racconti è emersa la forza, propria delle parole, di dare forma alle cose, non di negarle.

Marilena Bongiovanni, volontaria CRO; Roberta Colladel, YRCA (Young Researchers at CRO Aviano); Piervincenzo Di Terlizzi, docente lettere classiche e autore; Paola Fabbro, volontaria CRO; Federica Fedrigo, infermiera di radioterapia CRO; Elena Giacomello, collaboratrice della Biblioteca Scien-tifica CRO; Lis Jorgenssen, volontaria CRO; Simona Scalone, medico oncologo CRO; Margherita Venturelli, responsabile del Servizio Cultura e Turismo del Comune di Aviano.

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Sulla scia di quella che è ormai diventata una tradi-zione narrativa al Centro di Riferimento Oncologico (CRO) di Aviano, è nato il premio letterario “Scri-viamoci con cura” 2012. Il passaggio è stato ambi-zioso: finora ci eravamo “limitati” a raccogliere e a dare voce alle testimonianze che pazienti, familiari e gente di passaggio al CRO lasciavano nei quaderni presenti in istituto. Ora si è deciso di farsi promotori di un concorso letterario per opere inedite, volto a incoraggiare e a valorizzare la scrittura di chi volesse raccontarsi a partire dalla propria esperienza di ma-lattia, senza necessariamente parlarne.

L’idea ci è venuta leggendo ciò che i pazienti sono andati scrivendo negli anni. Le pubblicazioni di testi-monianze e storie di vita relative alla malattia sono ormai numerose in Italia, al punto che nella nostra biblioteca è presente una specifica sezione che rac-coglie circa un centinaio di libri sull’argomento. E sono numerosi anche gli esperti che analizzano, da

Una contagiosa vitalitàBiblioteca Scientifica e per i Pazienti CRO

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vari punti di vista, il fenomeno dei pazienti che nar-rano di sé attraverso la scrittura. Le opinioni natural-mente sono diverse, ma è convinzione comune che il contributo che viene alla medicina dalla voce di chi è soggetto/oggetto di cura è assai prezioso, in quan-to riporta al centro della medicina le singole persone più che i singoli organi malati e, scoperta per noi im-portante fin dall’inizio degli anni 2000, persone piene di vita, di emozioni, pensieri autonomi, desiderose di esprimere la propria creatività, spesso indipendente-mente dalle condizioni di salute.

Una vitalità “contagiosa” che ha portato alla creazio-ne del gruppo Patient Education & Empowerment: un gruppo di natura multi professionale, aperto, non gerarchico, voluto dalla Direzione Scientifica del CRO per far sì che i pazienti, attraverso i loro rappresentan-ti, abbiano modo di partecipare concretamente e fin dalle prime fasi alla realizzazione di progetti e attività di ricerca, assistenza, informazione e comunicazione destinate ai pazienti. Fra le varie attività, il gruppo ha dato vita a un laboratorio di Medicina narrativa vol-to a formare negli operatori sanitari competenze di ascolto, empatia e narrazione al fine di saper cogliere e utilizzare quegli elementi di “storia” del paziente utili e necessari a costruire insieme – pazienti e ope-ratori – un percorso di cura adeguato e soddisfacente per entrambi. È all’interno di tale contesto che è nata l’idea di dar vita a un premio letterario di “letteratura dei pazienti”, con l’obiettivo di dare risalto e dignità

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alle storie di coloro che hanno iniziato a raccontarsi durante o in seguito alla malattia oncologica. Il con-corso prevedeva due sezioni distinte: una riservata agli adolescenti/giovani adulti di età compresa tra i quattordici e i venticinque anni, l’altra a persone di età superiore ai venticinque anni. I lavori pervenuti da tutt’Italia sono stati accuratamente valutati da una giuria composita con il compito di selezionare le sto-rie senza valutarne la vita raccontata.

Gli elaborati sono stati premiati nel corso del con-vegno “Leggiamoci con cura: scrittura e narrazione di sé in medicina. 2a edizione”, tenutosi presso l’Au-ditorium Concordia di Pordenone nella giornata del 12 ottobre 2012 e presentato da Michele Mirabella.

Argomento principe del convegno è stato la Me-dicina narrativa, un approccio complementare alla Medicina basata sulle prove di efficacia (EBM) che il CRO ritiene importante per la formazione dei suoi operatori.

Una menzione speciale è stata attribuita anche a due opere già edite: Amazzone di Adriana Reginato e Nel segno del cancro di Cinzia Spadola.

Tutti i pazienti che si sono messi in gioco, inviando le loro storie, diventando autori di narrazioni sono stati i protagonisti del pomeriggio del convegno. A loro va il nostro ringraziamento per averci consegna-to una parte di sé, con la speranza che tale impegno abbia avuto un significato positivo per ognuno di loro.

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Odio il caldo, il mare, la sabbia. Odio l’estate. Come cantava Bruno Martino, sì.

Io odio l’estate.La odio dal 13 luglio del 2007. La odio da quel

dannato luglio. La odio da quando, uscita dall’ospe-dale, mi ritrovai su un ponte del Tevere cullata dal te-pore dell’estate romana e abbracciata al mio compa-gno. Avevamo appena avuto la diagnosi: carcinoma duttale infiltrante con metastasi linfonodale. E quella risonanza fatta così, per scrupolo, si trasformò in una condanna. Troppo dura da sostenere, pensavamo. Troppo assurda e ingiusta.

Avevo trentun anni compiuti da poco. Avevo un forte desiderio di maternità. Avevo voglia di proget-tare nei minimi dettagli l’imminente viaggio in Na-mibia. Avevo voglia di proseguire il mio lavoro di ri-cerca all’università sulla crescita cellulare, compresa quella delle cellule tumorali. Avevo voglia di vivere. Avevo voglia di continuare a ballare. Semplicemen-

Odio l’estateSara Caldarola

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te... avevo voglia. Odio l’estate da quella sera. Odio quelle bancarelle piene di luci, di voci, di profumi che costeggiavano il Tevere, incuranti del mio, del nostro dolore. Incuranti della mia vita cambiata nell’arco di quindici minuti, incuranti dei miei progetti andati a rotoli. Incuranti di me. Di noi.

La odio da quella sera. La odio da quella notte.Passata abbracciati nel nostro letto a chiederci

perché. Perché a noi. Perché noi? Che cosa aveva-mo fatto di male? Per quale assurda legge del con-trappasso meritavamo un tale dolore? Perché a me? Perché a noi? Perché dover aver paura di morire a trentun anni? Perché dovevo rinunciare ai miei pro-getti, che avevo fatto di male? Perché dover avere la sensazione di morte sulla pelle? Perché? Pianti dispe-rati e convulsioni quella notte. Caldo, freddo, pani-co, rassegnazione, speranza, sconforto. Io crollavo e lui mi sorreggeva. Lui crollava e io lo sorreggevo. E ora? Che cosa facciamo ora? Come si affronta una diagnosi così dura e ingiusta? Perché il cancro è una malattia ingiusta. Perché il cancro è contro natura. È contro la natura stessa delle cellule. Fatte, tranne rare eccezioni, per nascere, crescere e morire. Come l’uomo, che è mortale. Perché questo vuole la natura.

Ma il cancro no. Il cancro è contro natura. È dia-bolico. Il cancro è subdolo e intelligente. Più dell’uo-mo, più del medico, più della medicina, più dei ri-cercatori che da decenni cercano di sconfiggerlo, o almeno di arginarlo.

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Cancro, tumore, neoplasia, carcinoma, trasforma-zione, bestiaccia, male del secolo, bestia nera, brutto male. CANCRO.

Che ne sapevo io del CANCRO? Pensavo di co-noscerlo per via del mio lavoro ma in realtà non ne sapevo nulla. Sapevo la teoria, sapevo dell’accumulo di mutazioni nel Dna che rendevano la cellula “im-pazzita” e malata, sapevo dei chemioterapici, sapevo dei mille articoli scientifici letti negli ultimi dieci anni, sapevo dei lavori fatti sui topi, sapevo degli oncoge-ni, sapevo delle recidive e delle metastasi. Sapevo dei mille tentativi della scienza per mettere fine a questa carneficina, moderna peste dei nostri tempi.

Sapevo tutto, ma non sapevo niente.Non sapevo come fosse fatto un “salottino per la

chemio”, non sapevo cosa fosse un port-a-cath, non sapevo che di notte avrei dormito con un cappello di lana perché senza i capelli la testa mi si congelava, non sapevo come venisse fatta una scintigrafia ossea. Non sapevo che il cortisone facesse così tanto “gon-fiare”. Non sapevo che il glucosio radioattivo fosse così bravo nello scovare anche il più piccolo grup-petto di cellule impazzite, né sapevo che durante la terapia le articolazioni potessero fare così male. Non sapevo che avrei potuto mettere “a riposo” le ovaie, sperando che il chemioterapico non le danneggiasse. Né cosa fossero realmente le vampate che d’inverno mi avrebbero fatto svegliare la notte fradicia, zuppa dalla testa ai piedi come se avessi appena ricevuto

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una secchiata d’acqua a Ferragosto. Non sapevo se avrei potuto festeggiare il Natale successivo con la mia famiglia, né tantomeno che la chemio avrebbe funzionato. Non sapevo che le vene si sarebbero così tanto indebolite, né che senza i linfonodi un braccio si sarebbe potuto gonfiare e che avrei necessitato di fisioterapia per evitarlo. Ignoravo cosa volesse dire veramente “vomitare” e non sapevo cosa significasse realmente non avere la forza di alzarsi da un letto. Non sapevo che durante la terapia sarebbe stato me-glio non andare al mare, o almeno non abbronzarsi. Non sapevo che la radioterapia potesse “bruciare” la pelle né che un capezzolo potesse essere “spostato”, né tantomeno che da quel seno non avrei mai po-tuto allattare. Ignoravo che la chemioterapia potesse rendere sterili, né che esistessero tipi differenti di tu-mori al seno. Talmente eterogenei da richiedere cure diverse. Talmente diversi da conferire aspettative di vita differenti.

Non sapevo ancora che le mie cellule impazzite esprimessero un così gran numero di recettori di membrana Erb2. E quante volte avevo letto quel nome. Quanto mi era familiare quell’acronimo. Ma fino a quel momento per me era solo uno dei tanti nomi che gli scienziati danno alle migliaia di proteine che popolano le nostre cellule.

E ora nell’arco di poche settimane avrei saputo tutto ciò e sarei diventata paziente.

PAZIENTE.

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Solo dopo questa avventura avrei capito il reale significato di questa parola. Pensavo di sapere tutto di questa malattia. Sapevo che di cancro si muore. Sapevo che la gente intorno a me mi avrebbe compa-tita con escalamzioni del tipo: «Poverina! Ma sei così giovane!», e che io avrei dovuto rispondere con un semplice: «Eh già!»

Sapevo che i miei familiari avrebbero sofferto con me e per me e che il loro dolore mi avrebbe annienta-to. Non il mio. Io non soffrivo.

Non sapevo che non avrei sofferto.Non sapevo che dopo quella notte terribile il mio

corpo e la mia mente avrebbero prodotto un ane-stetico potentissimo, capace di rendermi forte e... insensibile. Non sapevo che dopo quella notte non avrei mai più sofferto per me. Ma solamente della sofferenza che causavo negli altri. Mai, mai, mai e poi mai avrei fatto a cambio con loro. Io volevo rimanere lì. Posizione privilegiata. Podio d’onore. La poltrona di Sua Maestà. Loro sì che soffrivano. Loro sì che mi avrebbero perso. Loro sì che avrebbero dovuto con-tinuare a vivere senza di me. Io sparivo, puff.

IO non avrei più sofferto.Per loro sarebbe arrivata la vera sofferenza. Io non

avrei sentito la loro mancanza, odorato i loro vestiti, sistemato i loro indumenti, ritrovato vecchie lettere, foto di vacanze passate o bollette da pagare con im-presso il mio nome. Io non avrei dovuto sopportare il vuoto, l’angoscia, la morte. Sapere del loro dolore

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mi faceva soffrire. Solo questo. E mai, mai, mai e poi mai avrei fatto a cambio con loro. Eppure continua-vano a implorare quello scambio. Mia madre, il mio compagno, mio padre. Volevano prendere il mio po-sto, togliermi da questa sofferenza, non sapendo che il dolore maggiore lo stavano provando loro, non io.

Io tutt’al più muoio.Questo è quello che spesso mi ritrovavo a pensare.In fondo solo questa è la cosa peggiore che può capitarmi,

mi dicevo.Ma per loro no, perché loro avrebbero dovuto

continuare a vivere, o forse a sopravvivere. Il dolore più grande per un genitore, si dice, è sopravvivere ai propri figli. Sopravvivere.

Qualche mese prima di quel dannato luglio, sen-tivo dentro di me che qualcosa stava per accadere. Sono una scienziata e per natura non sono portata a credere all’irrazionalità dei presentimenti.

Ma stavolta era diverso e percepivo che qualcosa doveva accadere nella mia vita e nella vita della mia famiglia. Era tutto troppo perfetto, tutto lindo, senza macchia. E pensavo che no, ai miei genitori nulla do-veva accadere. Avevano fatto mille sacrifici insieme. Avevano vissuto insieme una vita bellissima e dove-vano continuare a farlo. Insieme. E mia sorella? Ma-dre di due gemelli meravigliosi di tre anni? No, che ingiustizia, che atrocità sarebbe stata? Io. Io sì che potevo subire qualcosa. Non capivo bene cosa: forse un problema sul lavoro, una forte delusione senti-

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mentale, il tradimento di un’amica o una malattia. Sì, lo stavo aspettando il cancro. Ero pronta. Ero qui. Forse era per questo che dal settembre precedente la diagnosi mi ero accanita (così la mia ginecologa mi disse) su quella pallina nel seno sinistro. Quella palli-na che sentivo crescere dentro di me. Palpabilissima, tonda. E sempre più grande. E la dottoressa che con-tinuava a dirmi di stare tranquilla.

«Il tuo seno è complicato, mi disse, e proprio il seno complicato è quello che non dà tumore».

Ora, non so bene nell’ambito medico cosa voglia dire complicato, né grazie a quale studio, condotto non so da quale luminare della medicina, avessero potuto trarre un assioma così perfetto: seno complicato, cancro scongiurato!

Io non mi rassegnavo. Senza ansia, senza angoscia continuavo ad autoprescrivermi ecografie e monito-ravo la crescita del nodulo come una madre fa con il proprio figlio in grembo durante la gravidanza. E quel “bambino” cresceva dentro di me. Lo sentivo io al tatto, che cresceva e lo scriveva il radiologo sul referto. Quella palla cresceva. E la ginecologa sorri-deva stizzita quando le presentavo i dati di crescita della mia “creatura”. «Sei semplicemente andata in paranoia, Sara. TU SEI SANISSIMA. Questo è un semplice fibroadenoma e non capisco perché, dopo tanti anni che ti conosco, tu ora ti sia così fissata su questa cosa».

Ma il bambino cresceva.

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Diventava grande e metteva su famiglia. E migrava in altri tessuti, si muoveva beato e incolume lungo il sistema linfatico per mettere su casa anche nel grap-polo dei linfonodi ascellari. Aveva manie di grandez-za. Un linfonodo a lui sarebbe bastato, forse, ma no. Quel bambino era cresciuto viziato, volenteroso di espandersi per mostrare la sua supremazia sulle cel-lule sane. Voleva far vedere quanto lui potesse espan-dersi e colonizzare. Un solo linfonodo non poteva bastare alla sua famiglia. La sua famiglia cresceva e con essa il numero di linfonodi “abitati”.

I primi giorni di quel luglio, mi svegliai una mat-tina con numerosi bozzi sotto l’ascella sinistra, da poco depilata. I linfonodi si saranno irritati, pensavo. Rasoio, caldo, sudore. Dannato rasoio, pensavo.

Oppure no? Forse non sono così pazza come la ginecologa vuol farmi credere? Forse ho ragione io?

E fu così che mi trovai a passare quella notte d’e-state del 2007 abbracciata al mio compagno in un pianto disperato. Non sapevo a cosa sarei andata in-contro ma dopo quella prima (e unica) notte di dispe-razione, il 14 luglio mi alzai dopo una notte insonne con una grande forza. C’erano tante cose da fare. Vi-site da prenotare. Appuntamenti da disdire, certificati da compilare e tante, tante persone da informare. La cosa più difficile sarebbe stata informare i miei geni-tori che erano in vacanza nelle Marche. Come potevo dirgli la verità al telefono? Come avrei fatto? Con che coraggio una figlia può comunicare una cosa così ter-

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ribile a una madre? Con che coraggio buttavo addos-so a mia madre questa immane sofferenza? Perché non potevo evitargliela? Perché doveva sapere? Per-ché? Non le dissi nulla per due lunghissime settimane e con il mio compagno e mia sorella cominciammo la lunga via crucis delle visite, degli incontri, dei col-loqui.

Durante quelle visite conobbi il mio oncologo. Il mio adorato oncologo che con semplicità mi spiegò ogni cosa e pianificò i successivi dodici mesi della mia vita. E mentre lui mi spiegava quali medicine avrei preso e in che quantità, io annuivo, spiegandogli che quelle sostanze le conoscevo già, che conoscevo perfettamente cosa avrebbero fatto alle cellule tumo-rali. Conoscevo alla perfezione il loro meccanismo molecolare all’interno della cellula, la loro capacità di inibire la crescita delle cellule “impazzite” ignoran-do (non sempre riuscendoci) la crescita delle cellu-le sane. I loro nomi mi erano familiari. Avevo letto quei nomi centinaia di volte. Con noncuranza, con superficialità, a volte con noia. Senza immaginare che un giorno sarebbero stati iniettati nel mio corpo da infermiere provviste di camice, mascherina e guanti lunghi e spessi. L’anticorpo monoclonale, il taxolo, il 5-fluoruracile, l’epirubicina e la ciclofosfamide. Sape-vo alla perfezione cosa avrebbe fatto nelle mie cellule impazzite ognuno di loro. Sapevo che la ciclofosfa-mide è un reagente alchilante, che il 5-fluorouracile è un antimetabolico e che l’epirubicina è un agente in-

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tercalante. Sapevo che gli anticorpi monoclonali sta-vano rivoluzionando il mondo delle cure oncologiche e che per i trecentosessantacinque giorni successivi il Trastuzumab sarebbe stato il mio amico più fedele. Un amico capace di salvarmi la vita e di allontanare nel tempo la ricomparsa della bestiaccia. Da lì a poco litri di fluidi colorati avrebbero invaso le mie vene come un fiume in piena. Fluidi “dannosi”, capaci di necrotizzare la mia pelle se fuori dai vasi sanguigni, ma, chissà perché, innocui se veicolati con attenzione nella fitta rete di vene e arterie diramate del mio cor-po. Sostanze prodotte dalla natura (come il taxolo) o “inventate” in laboratorio da scienziati volenterosi di uccidere le cellule impazzite (come il Trastuzumab).

Sapevo tutto, ma non sapevo niente.Non sapevo con che velocità mi sarei ritrovata pe-

lata. Non sapevo che anche le sopracciglia sarebbero sparite e le ciglia si sarebbero diradate rendendo il mio volto “malato”. Non sapevo che, pur mangiando poco e vomitando spesso, il cortisone avrebbe trion-fato facendomi ingrassare di quindici chili e trasfor-mandomi in un mostro gonfio e pelato. Non sape-vo che solo tre punture al giorno di Plasil avrebbero calmato i miei violenti conati e che il fegato avrebbe faticato a smaltire quei “veleni” infiammandosi e ri-chiedendo perciò l’assunzione di nuovi farmaci, in un circolo vizioso di molecole e reazioni chimiche. Non sapevo che sarei stata così stanca, che mi sarei sentita malata da sempre, incapace di ricordare il prima.

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Il prima. Cosa facevo prima? Come si viveva senza l’incubo della morte? Con che forza riuscivo a usci-re la sera fino a tardi? Quanto tempo impiegavo ad asciugarmi i capelli? Quanto balsamo usavo? Come facevo a entrare in quei maledetti jeans che ora si bloccavano sulle mie ginocchia senza volerne sapere di salire più su? Con che stupida superficialità pensa-vo che il cancro fosse una malattia da vecchi? Perché mi sentivo così brutta, prima? Ma quanto ero bella, invece, rispetto a ora. Quanto ero bella il giorno del mio trentunesimo compleanno, che bel vestito avevo scelto per la mia festa in giardino e che capelli lunghi e lucenti avevo. Che bel colorito, che bel seno mo-stravo sotto a quel vestito celeste che risaltava la mia prima abbronzatura estiva.

Il seno. L’organo simbolo della femminilità e della maternità. Simbolo per eccellenza dell’essere donna e dell’essere madre. Organo che raccoglie in sé l’essen-za della sessualità e della maternità. Organo traditore, per me. Organo capace di sfamare e dare vita, ma anche di procurare distruzione e morte. In realtà di cancro al seno non si muore. Il seno non è un organo essenziale per la vita. Senza seno si vive. Di tumore al seno non si muore, se rimane lì. Ma da lui possono partire cellule bastarde capaci di schizzare via senza alcun controllo per colonizzare organi vitali portan-do così alla morte.

E quei dodici mesi sono passati. Trecentosessan-tacinque giorni fatti di visite, terapie, vomito, dolori

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articolari, stanchezza cronica, diarrea, ma anche gioia a ogni TAC, risonanza ed ecografia a cui mi sottopo-nevo. Gioia sì, perché la terapia funzionava. Il can-cro regrediva, lasciando sul campo di battaglia cellule apoptotiche, morte sotto l’effetto delle armi chimi-che che le attaccavano, distrutte sotto l’azione dei ve-leni che erano costrette a mangiare. Affrontavo ogni controllo senza alcuna ansia. Nessuna notte insonne, nessun batticuore. La malattia mi aveva addormenta-ta, anestetizzata.

Non provavo dolore né sconforto. Ero stanca del-la mia situazione, sì. Dei continui controlli, delle te-rapie estenuanti, ma non avevo paura. Ovviamente pensavo alla morte, spesso sognavo il mio funerale. Immaginavo la chiesa piena, i discorsi dei miei ami-ci, i volti trasfigurati dei miei familiari. Ma per assur-do non temevo la morte. E l’unico dolore percepito, come già detto, era quello che provavo per le persone che mi erano accanto. Che mi coccolavano, mi accu-divano e che cercavano di passare con me più tempo possibile... come se poi quel tempo non ci sarebbe mai più stato.

E invece eccomi qui, nata per la seconda volta e riappropiatami della mia vita. Della vita di prima, fat-ta di capelli e di balli.

Oggi ho trentasei anni e odio ancora l’estate. Odio il caldo, odio il sudore che mi perla la fronte, odio l’umidità che rende appiccicosa la mia pelle come se fosse cosparsa di miele. Odio le zanzare che mi ronza-

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no attorno, odio le cicale che distrubano il mio riposo pomeridiano. Odio l’afa dell’estate romana, odio gli acquazzoni estivi che rendono l’aria ancora più gonfia e pesante.

E con un pancione enorme come il mio, tutto ciò è ancora più difficile da sopportare.

Sì. Ho una pancia enorme. Una pancia che sta crescendo senza tregua da trentasei settimane. Una pancia piena di liquido amniotico nel quale sguazza come un pesciolino Agnese.

L’ho sentita crescere dentro di me in queste lun-ghe settimane, fatte di gioie e di dolori. Dolori, sì. Alla nona settimana sono stata operata per un “boz-zo sospetto” al braccio e dopo qualche giorno, un edema toracico all’altezza del seno operato ha fatto pensare al peggio.

«Forse parliamo di metastasi, signora».E lì sì che ho avuto paura. Paura di dover scegliere

tra lei e me. Terrore di sopravvivere a lei, o, cosa an-cora più terribile, di doverla sacrificare.

Quei giorni sì che ho avuto paura di morire. Come non mai. Come mai avevo provato nella mia vita. Terrore di dover scegliere tra lei e me. Era “solo” un esserino di qualche centrimetro, allora. Ma era già mia figlia. E per lei avevo lottato. Per lei mi ero documentata e per lei il mio oncologo aveva deciso di mettere a riposo le mie ovaie inducendomi la meno-pausa durante la chemioterapia. Per lei avevo gioito anni prima nel leggere il primo referto istologico del

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mio tessuto mammario invaso dal carcinoma: tumo-re Erb2 positivo, non ormonale, c’era scritto. E io avevo allargato la bocca in un immenso sorriso, su-scitando lo sgomento del mio oncologo.

«Sara, il tuo tumore è molto aggressivo, se fosse stato di tipo ormonale avremmo potuto sfruttare più armi e avremmo potuto sperare in una prognosi più favorevole. Non riesco a capire la tua gioia, sincera-mente».

Ma io ero felice perché sapevo che non avrei do-vuto subire la soppressione ormonale per i successivi cinque anni... e tutto quello che desideravo in quel momento era un figlio. E sapere che avrei dovuto attendere tanto mi massacrava.

Alla fine cinque anni erano comunque passati (tra controlli, tentativi vari e un aborto) e ora Agnese era qui, forse, però, in compagnia della bestia maledetta. E come se il destino volesse mettermi di nuovo alla prova, mi ritrovavo a convivere con la gioia di una tanto desiderata gravidanza e l’angoscia del ritorno del cancro. Il destino aveva deciso di non rendermi la vita facile, nemmeno stavolta.

L’attesa del referto della sospetta metastasi linfo-nodale è stata snervante, ma alla fine altro non era che una “palla” di tessuto infiammato generata da una patologia dal nome bizzarro: panniculite.

Un po’ di cortisone e via!E ora Agnese pesa due chili e mezzo, è “alta”

quarantotto centimetri e scalcia come un cavallino

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imbizzarrito nella mia pancia. Tra qualche giorno la conoscerò e da grande le racconterò quanto la sua mamma l’ha desiderata. Agnese è il simbolo della vit-toria della vita sulla morte. È la speranza che ogni donna malata di tumore vorrebbe non le fosse mai tolta.

Agnese è la mia vita ritrovata e quando arriverà... sarò rinata per la terza volta!

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Questa mattina si muore di caldo! È una di quelle estati, le più calde degli ultimi cento anni, le più afo-se di sempre, come quella del 2003, come quella del 1998. Ci vorrebbero allarmare, distogliere il nostro interesse da problemi ben più gravi ma quest’estate, per me, non è più calda delle altre, non è la più afo-sa... è l’estate più stupefacente della mia vita!!!

La radio trasmette musica moderna, quella che non mi piace, quella del tormentone: come sappiamo essere stereotipati. Metto un mio cd, quello sì che mi piace, musica rock, canzoni per l’anima, ricordi che affiorano a ogni accordo, a ogni giro di chitarra.

A volte uso la musica per gridare, a volte per pian-gere, a volte solo per fissare la strada, per farmi gui-dare. Adoro guidare...

Sulla strada per Marsure stamattina incontro po-che macchine, con quest’afa spero di trovare sotto i monti almeno un po’ di refrigerio.

Sorrido quando vedo quel cartello, sulla strada.

Possibile presenza di rospi sulla sede stradale

Marta Santin

A tutti i Soli del mio mondo

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Ce n’è più di uno a dire il vero, e ogni volta che lo incontro strappo al mio cuore una lacrima e un sorriso.

POSSIBILE PRESENZA DI ROSPI SULLA SEDE STRADALE

Quella sede stradale che è stata la mia via crucis, la strada che mi uccideva poco a poco, quella stessa che mi ha aiutata a rinascere...

Non rientrava nei miei piani una primavera così, stanca, triste. Non ero in grado di fare niente, era come se mi sentissi addosso il peso di un’età che non avevo. I primi giorni di primavera mi toglievano l’aria, avevo sonno, respiravo con difficoltà, mi gonfiavo la faccia.

«E se fosse un tumore?» Così scherziamo tra i ban-chi di scuola, come chi pensa che no, non potrebbe mai succedere a noi, noi che abbiamo l’estate che ci aspetta e tutta la vita davanti, noi che eravamo appe-na affacciati al mondo e che lo avevamo ai nostri pie-di. Diedi della deficiente a quella compagna e ci risi su, ipotizzando che una sbandata in discoteca mi fosse costata al massimo una mononucleosi.

Furono quei due occhi quasi paterni a farmi tre-mare le gambe, quelli che oggi mi guardano per dirmi che sono grassa, che devo dimagrire, quelli che lo so, sotto sotto mi vogliono bene. Mio zio è medico, ado-

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ro le sue mani da medico, la sua intelligenza, la sua sti-lografica, il suo cashmire che profuma sempre di lui.

Quella mattina mi tocca il collo, impallidisce, ma i suoi occhi hanno già materializzato i miei sospetti. Pronto soccorso, rx, esami. «Dobbiamo ricoverare!» Prendo tempo, non posso, a scuola c’è una festa che quest’anno organizza la mia classe, non posso non esserci. Non mi lasciano discutere, si deve andare a fondo della cosa.

Comincia così quel periodo fatto di analisi, biop-sie, radiografie. Il mio corpo accoglie tutto, senza quasi rendersi conto. Certo il dolore è dolore, ma non mi lamento troppo, se lo faccio i miei zii mi rimproverano, dicono che sono una piaga, una che si piange addosso, quindi stringo i denti. Sono loro che mi seguono in questi primi giorni in ospedale: primo perché lo zio ci lavora e quindi abita vicino, secondo perché anche mio padre è ricoverato qui per un’ernia e mia madre quindi lavora da sola e riesce a venirci a trovare solo la sera. Sì, perché le sfortu-ne non capitano mai sole, la sofferenza si somma ad altra sofferenza. Credevo che mio padre, un omone di oltre un quintale e alto due metri, mi avrebbe sem-pre difesa e protetta, sarebbe stato per me un eroe come l’avevo sempre visto fin da piccola. Invece lui era crollato sotto il peso del suo male e sembrava quasi che io non rientrassi nel suo cerchio di priorità, che il suo dolore sopraffacesse ogni cosa, anche me e la mia paura, anche mia madre e mio fratello e la loro

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muta sofferenza. Per anni ho creduto di aver perso un padre nel momento in cui le nostre vite si sono confrontate di fronte alla possibilità di vita o morte. Ma l’esperienza insegna che di fronte al dolore ognu-no difende se stesso meglio che può, estraniandosi, alienandosi o combattendo. Forse ora so che il suo sentirsi impotente dinanzi al male lo ha reso immo-bile invece che combattente.

Mi sembrava di vivere in un limbo ovattato, dove il mio corpo non mi apparteneva, dove la mia ani-ma galleggiava sopra un fiume di stanche emozioni. Non ero recettiva, non ero razionale, vivevo le ore aspettando parole, risposte, soluzioni. Solo un fan-tasma che non aveva neppure un “pigiama buono” per “un mal de not”, ma che si divertiva a fare vasche nei corridoi per scrutare che faccia aveva la malattia e per vedere chi erano quei compagni di viaggio, a volte anche solo per far trascorrere quelle ore inter-minabili.

Mi hanno ricoverata in medicina, dove abbasso notevolmente la media dell’età, e tra tutte queste con-valescenti pazze, almeno quelle che dividono il corri-doio con me, conosco Virginia, moglie di un medico amico dello zio, malata di tumore al polmone. È lei che la sera, quando smetto di fare la contorsionista con flebo e cerotti per riuscire a mettermi a letto a pancia in giù, mi rimbocca le coperte, mi tiene la mano e mi fa un po’ da balia perché, checché se ne dica, stare in ospedale da soli è proprio triste, soprat-

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tutto a diciassette anni. I giorni da ricoverata sem-brano solo un lungo silenzioso preludio all’epilogo. Mi tolgono linfonodi, mi prelevano del materiale da qualche parte sotto allo sterno, mi allarmano per dei valori ematici. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa ma non mi fascio la testa. Non ho paura, aspetto solo di sapere. Dopo sicuramente sapremo cosa fare, lo sapranno loro, immagino.

Fa caldo e il condizionatore non rinfresca questa macchina, mi auguro che a Marsure gli zii abbiano la piscinetta gonfiabile per i nipotini, almeno ci infilo dentro i piedi.

Ho da poco imboccato la Pedemontana e lì c’è la curva dove ho lasciato sull’asfalto un po’ di pelle e un po’ di vernice bianca della Ducati 696. Sì perché la vita va vissuta, a volte anche da testoni. Non sarà che quando l’hai scampata una volta non desideri incon-sapevolmente di giocarla di nuovo ai dadi? Ed è di nuovo qui su questa strada. In un tratto in cui i rospi non sono ancora segnalati, ma di ghiaia invece ce n’è! Com’è beffardo il destino. Forse voleva farmi capi-re che dopo dieci anni dovrei cominciare ad avere cura di me. Forse non è sempre vero che l’esperien-za insegna. Era sempre estate, era troppo caldo, per quello non avevo messo il giubbotto. E ora, mentre guido la mia macchina nuova, una station wagon con una cilindrata da far ridere pure i carri trainati dai buoi, rimpiango un po’ quel rombo bicilindrico ma ringrazio

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che lì ci fosse solo uno slargo e non un muro.Sinceramente non sono mai stata una persona

tranquilla; certo non una scapestrata, ma la mia fa-miglia ha sempre dovuto fare i conti un po’ con le mie stravaganze. Moto, buchi alle orecchie. Ora mia madre sa quale significato hanno i miei tatuaggi, so-prattutto quel sole in mezzo alla schiena, non mi ha mai giudicata e ho saputo, spero, ricambiare quella fiducia e quell’appoggio che lei mi ha sempre dato, anche quando, ora lo so, deve esserle costato molto.

Avevo diciassette anni, e quella strada era sta-ta un’alternativa alla statale 13 Pontebbana che mi avrebbe portata all’ospedale di Pordenone.

Dopo dieci giorni di calvario passati lì dentro però, il premio era stato un soggiorno obbligato ai piedi del Piancavallo, in quel cubo di cemento bianco che però aveva una bellissima vista sul giardino di fronte, verde da far male.

Quando la zia mi dette il responso lo fece con calma e pacatezza, non disse mai la parola tumore, ma disse che si curava con la chemioterapia e che mi avrebbero trasferita in un altro ospedale. Rimasi sor-presa anche della mia reazione tutt’altro che logica. Credevo di essere una persona speciale, una da film. Nel 1998 i casi di tumore non erano ancora così fre-quenti nelle piccole comunità, nei piccoli paesi. Così sembravo quasi una prescelta. Che strani sistemi in-nesca la mente per difenderci. Ridicola. Mi sentivo

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potente, imbattibile, una che poteva far capire agli altri come si fa a sopportare, a non stare male. Forse in cuor mio credevo che avrei imparato e dimostrato a tutti che se le cose si prendono nel verso giusto si poteva guarire così, con la sola forza di volontà.

Piazza Caneva, oggi c’è il mercato, rallento, han-no fatto una rotonda, ormai le fanno ovunque, ti giri un attimo e tutto cambia... Potrei fermarmi a fare un giro ma sono un po’ in ritardo, voglio godermi la mattinata con gli zii, nella loro casa in campagna. Mi viene in mente una festa, d’estate, al castello, erano gli anni dell’università. Quella sera ero bellissima, o al-meno mi sentivo così, stavo bene e con Chiara e Lu-cia stavo conquistando la serata, il passato alle spalle. Nessuno sapeva, volevo cancellare tutto mentre ora mi rendo conto che non è mai del tutto possibile. Quella sera abbiamo bevuto un sacco, conosciuto un mare di persone, rivisto un sacco di gente. Il cielo era sereno, Eugenio rotolava giù dalla collina. Eravamo giovani e vivi.

Ora penso che verso il castello, dietro a quelle ban-carelle, abita la collega di mio fratello. È lei che si occuperà dei fiori del mio matrimonio. Sì, ho deciso di fare questo passo, di legare la mia vita indissolu-bilmente con quella di un’altra persona. Una perso-na che è riuscita a non farmi sentire il peso del mio passato e che mi ha aiutata a cancellare tutte le mie paure. Una persona che non ha mai dato peso a ciò

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che è successo e che forse, per questo motivo, mi ha aiutata a non pensarci particolarmente, riempiendo la mia vita con progetti nuovi e cercando di farmi stupire ogni giorno per le piccole cose. Ma oggi non è giorno di preparativi o di pensieri affannati dietro ai preparativi. Oggi si tira dritto.

Il CRO era un posto che incuteva timore solo a pronunciarlo, quasi una base militare come quella lì vicino, quasi un posto da americani, come al cinema, e nell’immaginario collettivo, nel mio in particolare, se entravi lì...

La mia stanza era piena di sole, al mio fianco c’era un angelo biondo che non mi ha mai fatta cadere, in quei giorni, nel baratro dello sconforto. Rideva, mi coccolava, mi faceva vedere le cose meno gravi di quanto fossero. Nonostante anche lei fosse nella mia stessa situazione, non mi ha mai fatto vedere un solo attimo di avere paura, e anche se forse lo faceva solo per non spaventarmi, mi ha comunque infuso molto coraggio. Aveva due figlie, diceva che era come pren-dersi cura di loro. Mi piace pensare che, negli anni a venire, sia stata io a infonderle un po’ di fiducia e di forza, quando la incontravo ai controlli, quando face-vo il tirocinio a Udine e la andavo a trovare in stanza, ma purtroppo non è bastato per farla rimanere al no-stro fianco a illuminare il mondo con il suo sorriso. Il mio cuore però continua a scaldarlo ogni giorno perché so che mi guarda anche da lassù.

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Il giorno che la dimettono inizio la prima chemio, mi sento un dio in terra, ho forza da vendere, sono al settimo cielo, io saprò reagire con coraggio, io affron-terò tutto questo anche con la testa, per non lasciarmi andare, per non cadere: non ho sintomi strani, non ho la nausea, questa merda non mi farà del male.

Lei va a casa, dalle sue figlie, da suo marito, così al primo conato di vomito sono sola, quella notte.

Non mi piace la frutta ma mi sono imposta di mangiare una mela, per le vitamine. È quella la prima cosa che vomito. Benone, neanche mi piaceva. Pur-troppo però quello è il primo colpo al mio muro di difesa, ora aspetto gli altri ma la mia convinzione di farcela svanisce giù per quel water, con quel giro di sciacquone.

Passo le ore a discutere con quel crocifisso appeso al muro, faccio domande, piango: un pianto malinco-nico, silenzioso. Non riesco a trovare conforto o rab-bia, non chiedo aiuto ma solamente perché? Mi sem-bra di impazzire, mi chiedo quali colpe ho, cosa ho fatto per meritarmi questo. Una volta, quando chiesi a un religioso perché Dio permetteva che anche i pic-coli soffrissero, egli mi rispose che espiavano le colpe dei loro genitori. Guardavo le facce dei miei che si materializzavano davanti ai miei occhi e mi chiede-vo quale assurda giustificazione usavano per spiega-re una simile ingiustizia. I miei genitori non avevano commesso alcuna colpa che giustificasse una simile sofferenza, come non ne avevo commessa io. Non

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esiste spiegazione se non la chimica del corpo. Non ci sono capri espiatori mistici. Esiste solo il proprio corpo e una cazzo di cellula che un giorno ha deci-so di diventare qualcun altro e andare per il corpo a cercar fortuna. Che poi trova un angolo di paradiso, ci mette radici e diventa un parassita di quell’organo che ha deciso di abitare, facendone, a poco a poco, un ambiente marcio in espansione, una macchia scu-ra su una mela rossa.

Ho imparato a odiare e amare quelle mura, a co-noscerne l’odore, a liberarmene non appena potevo farlo, ho imparato i piani, i reparti, i nomi dei presidi, il colore delle flebo, delle provette del sangue, l’odore della morte.

È la Settimana Santa, il mio calvario, la mia Pasqua. Devo uscire di lì, devo vedere casa. Non ricordo nul-la di quel primo viaggio di ritorno, ricordo solo che pioveva, come capitava spesso in quei giorni, sotto quelle montagne che bloccano le nuvole. E pensavo che era giusto così, che non volevo il sole a riscaldare il cuore, non c’era nulla per cui sorridere.

Oggi invece c’è il sole e, a parte una telefonata fa-stidiosa, niente oscura il mio umore. La radio conti-nua a suonare, scalda l’animo.

Andando verso est, verso il mio Sole, sulla destra, scorgo un cantiere, una vecchia casa in ristrutturazio-

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ne, manca poco perché sia finita. Una volta ho rigur-gitato sul muro di quella casa. Mi piace pensare che sia la metafora della mia vita. Ora è cambiata, bella, pitturata di nuovo. Splende!

Quante volte su quella strada mi accompagnava la nausea, quante volte lo sguardo vagava fuori dal finestrino senza guardare niente, in realtà.

Poi quell’ultima, mistica, incredibile volta non ce l’ho fatta, mia madre ha cercato un posto all’ombra mentre tornavamo verso casa e lì, all’ombra di quella casa, sulla sinistra della strada del ritorno, ho vomita-to la mia ansia, la mia confusione, la mia anima!!! La mia attesissima, ultima chemio!

I primi due mesi di cure furono terribilmente dif-ficili e dolorosi, fisicamente e psicologicamente, poi iniziai a sentirmi navigata e a capire come sopportare meglio il tutto. Riuscii anche ad andare a scuola e a concludere l’anno con successo, nonostante tutto. La mia estate non sarebbe stata poi tanto amara dopo tutto.

La mia mente ripercorre tutta la mia vita ogni vol-ta che faccio questa strada a cui sono legata in modo quasi stregato. Ho fatto quella strada per nove mesi, ogni mercoledì di quell’anno in cui avrei dovuto esse-re un’adolescente come tante, quasi una maggioren-ne che non vedeva l’ora di non essere più una ragaz-zina, con la sua prima cotta, i primi fine settimana a

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zonzo con gli amici, i primi tratti di matita e mascara sugli occhi. Occhi che cominciavano a interrogare lo specchio, per capire se sarei diventata una bella don-na, per capire se sarei piaciuta, per cercare di sentirmi attraente.

Occhi che invece guardavano passare campi col-tivati a mais, siepi che regalano refrigerio, montagne che promettono un po’ di fresco.

Nella borsa un libro, uno dei tanti che stavo leg-gendo in quel periodo, per distrarre la mente, per non guardarmi intorno. Adoro leggere, mi allontana dalla quotidianità, mi estranea del mondo. Ho anche sempre scritto un sacco ma in questo periodo vedere sulla carta la verità mi fa un po’ male, quindi scrivo fogli volanti che imprimono solo pochi pensieri, po-che immagini. Chissà, forse un giorno sarà di nuovo un’ottima terapia. Per ora lascio che siano gli altri con le loro storie a portarmi via.

Dopo il ricovero, le sedute settimanali sono delle flebo in compagnia. Mentre faccio la chemio, seduta come sui banchi di scuola, di fianco ad altre persone mi viene quasi da ridere, sembriamo polli in batteria ma leggo, continuo a leggere per non vedere le facce sofferenti degli altri, per non vedere quei veleni che tentano di intaccarci solo quel poco che ci lascerà, forse, rimanere in vita.

Lì dentro ho incrociato la mia vita con altre vite, sguardi persi con sorrisi e battute.

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Anche oggi nella mia borsa c’è un libro, un libro di architettura, un sussidio al mio progetto attuale, alla mia nuova casa. Per questo sotto questo sole d’ago-sto che ormai è alto nel cielo, guardo con occhi avidi quelle case che incontro lungo la via, quelle cambiate e quelle che sono ancora lì, ad aspettare che qualcuno le salvi, le renda nuove, mentre io prendo spunti e rubo idee.

Ho sempre avuto il bisogno di avere degli scopi da raggiungere nella vita per poter impegnare me stessa, il mio tempo, le mie idee in qualcosa: la scuola, l’uni-versità, il lavoro, la mia vita.

Quell’estate di quattordici anni fa il mio scopo era quello di guarire, di sconfiggere quel morbo che mi divorava lì, in mezzo al petto, volevo aprire il mio costato con le mie stesse unghie, divaricarlo con le mie dita e strappare con le mie mani quel masso im-mondo che mi comprimeva il respiro, mi schiacciava il cuore, mi macchiava l’anima. Non ho mai pensato, neppure per un attimo, di non farcela.

Dopo un mese di cure un’altra breccia nel mio muro. Dopo questo mese in cui i dolori e il vomito non si placavano i miei capelli cominciano a cadere. Non pensi mai che possa essere difficile come quan-do il male comincia a portarti via il tuo corpo, quan-do i crampi lo squassano, le gambe non reggono, non controlli più lo stomaco. Ma ora la mia testa sembra quella del soldato Jane. Qualcuno chiedeva se dovevo

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partire per il militare, qualche ragazza strafiga diceva che avevo un taglio da paura... avrei voluto strapparle i capelli! Ma per un po’, fino a che riuscivo a non spie-gare nulla dicevo che mi ero rasata perché mi piaceva; a volte, a chi non sa, lo dico ancora. Perché in effetti, non fosse stato così difficile da digerire in fondo alla pancia, non mi dispiaceva affatto essere rasata, dove-vo solo non pensare al perché.

Perché una donna privata della sua femminilità quando cerca di levarsi di dosso quella pelle da ado-lescente che le sta stretta, soffre se non dipende da lei. E a poco serviva truccarsi o comprare qualcosa di sexy. Io ero quello: un corpo che non mi apparteneva, dentro stupidi vestiti.

Ricordo i mesi successivi tra risate e apprensione: un’adolescente è pur sempre un’adolescente e se gli amici vanno a Gardaland perché io no? Chi se ne frega se il catetere centrale venoso non si sposa con le montagne russe o se la testa pelata non adora il sole a picco! Di chi è il problema se nelle discoteche fumano e se la frutta dovrebbe fare bene.

Non ho mai fatto nulla di “sbagliato” nelle vita e il destino mi ha ripagato così, perché dovrei impedirmi almeno di vivere? Non sono mai stata una stupida, lo so che non è giustificabile tutto quello che giusti-ficavo fare, ma non c’è una spiegazione, religiosa o atea che sia, che a quell’età possa farti ragionare sui perché. I miei perché erano gli occhi di mia madre, il suo accondiscendere più o meno i miei desideri per

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darmi un po’ di serenità: furono così pochi giorni di svago con gli amici al mare prima della chemio, furo-no serate rubate in qualche pub. Furono concessioni che solo ora, penso, le saranno costate ore di ansie e di trepidazione e che ora fanno nascere in me senti-menti di profonda gratitudine.

Possibile presenza di rospi sulla sede stradale. Ricordo ancora quel ridicolo rito, la mano destra aperta come chi presta giuramento in tribunale, la recita della fra-se tutti insieme quando a bordo di Gertrude, la mia macchina super, si iniziavano i nostri mitici sabati sera. Lungo quella strada viscida per i troppi anfibi schiacciati, dentro quelle nuvole di nebbia della trota blu, delle sorgenti del Livenza, dentro l’alcol e i cuori che battevano insieme alla musica che ci preparava alla serata.

È qui che ho rischiato di nuovo la vita, una mattina di dieci anni fa! Avevo deciso di guardare in faccia il mostro! Dopo la guarigione, la parte difficile era riprendere in mano la propria testa e cercare di non pensare più a quanto era successo. Certo risulta poco facile quando si è obbligati a fare continui controlli. Negli anni a venire non è molto facile dimenticare, e non lo è neppure quando quello che hai avuto con-tinua a precluderti alcune strade che avresti voluto intraprendere, ma mi ero prefissata di affrontare le mie paure.

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«Per sconfiggere la paura del buio bisogna spegne-re la luce e affrontarlo!», amavo ripetere. Così, dopo la laurea in tecniche di laboratorio, avevo fatto un concorso e vinto una borsa di studio al CRO, per var-care quelle porte dall’altra parte della barricata, per guardare le cose da un’altra prospettiva.

Lavorando nei laboratori dell’ospedale, riuscivo a poco a poco a non sentire più quella puzza di farmaci che mi faceva venire la nausea e riuscivo anche ad af-frontare il bar! Certo non è sempre stato facile ma mi sentivo un cowboy in sella a un toro! Stavo vincendo il mio rodeo!

Solo quella mattina, dopo il mitico cartello Possibile presenza di rospi... a tentare di farmi fuori sono delle papere in attraversamento lì, appena dopo la curva. Qualcuno davanti a me inchioda, io mi butto a sini-stra, a destra, tra me e la recinzione del laghetto, pas-sa un militare americano su una jeep. Le mie gambe tremano, avrei potuto stare li seduta nella mia mac-china per ore ma dovevo andare al lavoro e purtrop-po quella sera, niente anatra!!! Un altro scherzo sulla ruota della mia esistenza. Ma quando non è la nostra ora, non lo è proprio.

Sono un tecnico di laboratorio. Dopo la malattia volevo affrontare di petto ciò che mi era successo per esorcizzare. Non avrei mai creduto di affrontarlo davvero così da vicino. Avrei voluto studiare medici-na, ora forse me ne pento, ma all’epoca il contraccol-

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po mi impediva di affrontare attraverso gli occhi del paziente altra sofferenza. Così mi sono sempre resa utile alla causa, ma dalle retrovie. Ogni esercito ha bisogno di ottimi cuochi, no?

Il mio corpo nuovo, la mia ritrovata energia, il mio passato sconosciuto ai più. Durante l’università e ne-gli anni successivi il rito del cartello si ripeteva ogni fine settimana, andata e ritorno. Si chiudeva la porta in faccia alla settimana, a quegli esami dati o al lavoro, a tutte le preoccupazioni della nostra età quasi adulta e si andava a “buttare la gamba” al Velvet, nonostante la strada fosse sempre la stessa, nonostante la facessi ormai a occhi chiusi... Noi, a cui non piaceva la mu-sica da discoteca, noi che amavamo il rock che apre le vene e ti fa sentire vivo, noi a cui piaceva pogare, saltare, urlare come se fossimo rockstar. Mi piaceva saltare fino a non sentire più le gambe, fino a essere sudata da far paura. Sentivo che il veleno del passato usciva dai fori della pelle, che il sangue si purificava e si riempiva di ossigeno nuovo. Mi sentivo veramente VIVA.

Avevo vicino persone amiche, avevo nelle orec-chie la musica che amavo. I battiti sincopati del rock diventavano quelli del mio cuore, salivano sotto la pelle e la liberavano dai residui di veleno, lisciavano i cheloidi, spurgavano i dotti. Era un rito quasi reli-gioso che mi faceva rinascere. Ero di nuovo io, con

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il mio corpo, forse di nuovo seducente, con la mente forte di chi ha la scorza dura, di chi sa cosa c’è dietro l’angolo.

Ogni tanto i compagni della serata cambiavano e così, ogni sera, era una nuova esperienza, eravamo noi che ormai guidavamo la serata. Al Velvet quasi sempre le stesse facce, ormai un giro di gente cono-sciuta. Noi non mancavamo mai. Mio padre diceva che senza di noi non avrebbero neppure aperto e, facendo così, prendeva in giro la nostra quasi religio-sa assiduità. Io e mia cugina ci preparavamo con tre-pidazione, si aspettava chi si univa a noi e si andava. È in quegli anni che abbiamo ritessuto le fila di una fanciullezza che già ci aveva rese quasi sorelle.

La gente che mi conosceva, non mi stava vici-no per compassione, per pietà, ma perché risultavo simpatica, loquace, di compagnia. Mi stavo facendo nuovi amici, nessuno mi chiedeva niente e così pian piano rinascevo.

La musica era diventata la mia cura post chemio e allontanava il ricordo di quelle notti in cui, durante la terapie, nelle mie orecchie si scontravano suoni ed echi che mi facevano andare via di testa, che mi fa-cevano impazzire. Mi sembrava di essere in quel film dove il malato di tumore urla a Julia Roberts di far smettere quel suono assordante mentre lei non sente nulla. Per me era così.

Non vivevo più con gli effetti collaterali, avevo

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(ho) i postumi, ma sono gestibili. Crampi e formicolii si alternavano a sbalzi di umore ma nel fior fiore dei vent’anni e mi stavo riprendendo la mia vita.

Ero felice.

E come trovavo la pace qui, alle sorgenti del Gor-gazzo. Bastava svoltare a sinistra per ritardare il pas-saggio davanti al “Mostro”. Era un must per tutte le serate. Era il caffè prima di rientrare la sera, dopo una cena più o meno galante, era un posto romantico dove portare una persona speciale. Era il preludio alle serate rock, quando ci si fermava per bere qualcosa o perché eravamo in anticipo. È stato per anni caffè e brioche dopo le visite di controllo. Quel baretto tran-quillo, quello specchio di acqua azzurra da sembrare finta. Sembra che i pesci volino in quell’acqua, senza sostegno. C’è un magnetismo strano che mi lega a quel posto. Ma oggi non c’è tempo, così tiro dritto. A pensarci bene è un pezzo che non mi fermo più qui, forse perché diventando grande un po’ tutte le cose perdono la loro aura di magia, chi lo sa.

Arrivo davanti al CRO, sono quasi le undici. Ar-riverò tra un quarto d’ora a Marsure e già scalpito perché ho una sete colossale!!! All’epoca del Velvet sfrecciavo qui davanti senza neppure guardare il con-tachilometri per non avere paura, quasi per far finta di non vedere questo fantasma bianco che mi dava appuntamento al solito controllo, poi con gli anni ho

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capito che non potevo eludere quelle mura e oggi passo qui di fronte rispettando i limiti e con il sorriso sulle labbra.

Penso a chi guarda, come un tempo ho fatto io, fuori da quelle finestre, la strada sullo sfondo, quel giardino beffardo sotto i reparti. Penso alle loro vite, alle loro situazioni, tante peggiori delle mie ora come allora. Penso a cosa speravo io, penso a perché pian-gevo, penso a come mi sentivo una perdente, un topo in gabbia, un fenomeno da baraccone, un bu-rattino nelle mani di un destino che stava per vincere. L’ho pensato spesso negli anni successivi.

Il tumore non mi aveva tolto la vita ma mi aveva tolto ben altro: la mia innocenza, la mia gioventù, il mio futuro. Per un periodo sono riuscita a scordame-ne. Poi, crescendo, la paura del passato mi paraliz-zava. Tornavo a chiudermi in un vortice di tristezza, a giustificare le mie mancanze con gli strascichi del passato.

Non riuscivo a essere di nuovo come volevo, quel-la di prima, quella spensierata, quella innocente. Ave-vo perso la mia vita. Non servivano più la musica e i rock club, non serviva più fare il tecnico di laborato-rio, essere una di compagnia, brillante, l’anima della festa. Non serviva cercare di avere una vita perfetta. Ero vuota, vuota dentro, e mi spaventava che questo vuoto fosse arrivato dopo così tanti anni. Ho cercato di riempire quel vuoto con un po’ di tutto, ho ferito persone e deluso me stessa. Mi sono appoggiata a un

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programma che al CRO seguiva gli ex malati oncolo-gici: dall’analisi di me stessa uscivano rabbia e paura.

Volevo diventare donna, moglie, mamma, ma sen-tivo che il mio passato mi aveva tolto tutto. Avevo paura di ricominciare a vivere diventando grande! Credevo che la mia vita si fosse fermata, dopo aver percorso tutta quella strada piena di curve, dossi, bur-roni ai piedi di una montagna, senza avere il coraggio di intraprendere la strada per la vetta. Sapevo che la colpa era mia: io avevo lasciato che andasse così, io avevo lasciato che la chemio portasse via i miei sogni, che il passato mi impedisse di vedere chiaramente il mio futuro nella sua pienezza.

Ma sapevo cos’era quel vuoto: era il buco nel mio cerchio, era il centro del mio sole.

Oltrepasso il CRO e iniziano le curve che mi por-tano lontano, i pub americani, il mito di quella base, e poi più in là, le feste a Montereale, tra musica e vino, le mie “vacanze” a Maniago, quegli spicchi di sole pieni di felicità... Serate sempre piene di risate, di buon vino, di affetti e di qualche sigaretta, momenti di ricordi, di rimpianti, di confidenze. Quante sere passate a bere in qualche locale, con qualche amica, con qualcuno su cui volevo fare colpo, con qualcuno che sapeva tutto di me e con qualcuno che invece di me non sapeva ancora niente.

Con l’ombra dell’ospedale lì alle spalle, che crede-vo innocua ma che in realtà non mi lasciava mai.

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Il cartello indica che sono arrivata, svolto a destra, Marsure e un po’ di refrigerio, facce amiche, relax, famiglia... e magari un buon risotto coi funghi appe-na colti.

Mi viene da ridere se penso al viaggio appena fat-to. La mia mente va a ruota libera, da una cosa ne scaturisce immediatamente un’altra, da una curva un ricordo, da una siepe un aneddoto. La neve che cade da un ramo smosso dal vento ci spaventava come una valanga, un cervo che ci attraversava la strada sembrava uscito da una fiaba, la nebbia quella sera, in moto, sembrava il prologo di un film dell’orrore. Dif-ficile anche per la mia stessa mente seguire i pensieri che ne scaturiscono. Ma è incredibile come ogni volta la strada diventi una metafora di vita, come sia così facile tesserci intorno un film fatto dai fotogrammi della mente.

Credo che ognuno di noi abbia una strada che me-teforicamente può diventare parafrasi della propria vita, credo che magicamente la mia mi sia apparsa per caso lungo la Pedemontana in un giorno d’estate pieno di sole. Per qualcuno potrebbe essere un sen-tiero di montagna, per altri la scia di una barca in mezzo al mare. Non esiste un modo stereotipato per descrivere se stessi, la nostra unicità sta in ciò che ci rappresenta, nei nostri oggetti, nelle nostre abitu-dini, nel modo in cui guardiamo il sole tramontare. Basta saper assecondare i propri pensieri, seguirne lo scaturire dal di dentro e provare a capire cosa ci

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comunicano. Permettere che ci diano lo slancio per lasciarci andare e affrontare gli eventi. A me hanno raccontato questo viaggio, guidato la mia macchina lungo questa strada, mi hanno fatto affrontare, capire e metabolizzare quello che ho vissuto in questi anni.

Ieri sera, guardando uno spettacolo pirotecnico ho pensato a quante volte ho assistito a quelle esplosio-ni, da quante diverse angolazioni le ho guardate: da un monte, da una casa, da un prato... mi sono resa conto di quante volte ho avuto la possibilità di esserci in questi anni, delle persone che li hanno visti con me. E mi sono resa conto che io ho avuto la possibi-lità di vederli ogni anno, il Mio Male no!

Un piccolo movimento alla mia destra mi fa ral-lentare e voltare leggermente. Mi riporta con i piedi per terra.

La mia bimba di sei mesi sta cercando di dormire e si rigira nell’ovetto al mio fianco. Muore di caldo dentro a quel coso!!! Cerco di darle la giusta ombra, la giusta temperatura, ma è un inferno in questo abita-colo e, nonostante tutto, lei mi ripaga con dei piccoli versi e dei grandissimi sorrisi.

Non avrei mai sognato di stringere la sua piccola manina, di vedere i suoi grandi occhi azzurri ridere nei miei. Per anni temevo che, lasciando il mio corpo, quel morbo mi avesse portato via il mio sogno più grande, quello di avere un figlio. Notti intere a pian-gere, a interrogarmi, a mettere in discussione tutta la

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mia vita. Non ho mai creduto di riuscire un giorno a partorire senza sentire neppure un dolore e abbrac-ciando il frutto di quel travaglio, durato quattordici anni, sentire la mia bocca pronunciare il suo nome ma...

... scendo dalla macchina e lascio che il sole mi illumini il viso, sbatto la porta della macchina e sen-to l’aria che scompiglia i miei capelli biondi. La casa bianca, gli scuri verdi, l’erba tagliata di fresco. La piccola Caterina mi corre incontro per salutare, per chiedere dov’è la sua piccola cuginetta. Scarico i ba-gagli, il passeggino, apro la portiera e tolgo la bimba dal seggiolino, le do un bacio e la alzo come un pic-colo aeroplano, verso il cielo. Lei spalanca le braccia e ride nel sole...

Ho vinto io!Io ho Agnese!

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Sono ancora in piedi. Mi alzo per esserne sicura... sono ancora in piedi.

Andiamo con ordine, se si può parlare di ordine nel caos che contraddistinse l’anno in cui compivo trent’anni.

Cos’è un anno? Eppure quell’anno per me fu mol-to particolare.

Prima di spiegare cos’è successo, voglio chiarire a chi è successo, chi scrive e chi ero prima di quell’anno.

Ventinove anni, napoletana, mediterranea, con gli occhi chiari di mio padre e il corpo di mia madre.

«Tu non hai mai avuto il problema che i ragazzi non si girassero per guardarti!» Così mi aveva detto tempo prima qualcuno, non so se per farmi un com-plimento o, forse, solo per una malsana invidia.

Se dovessi dire cosa pensavo di me, punterei l’at-tenzione sul forte senso di ribellione che mi portavo dentro, ai perbenismi che imperavano nella famiglia

Sono ancora in piedi(il mio ponte per superare il fiume)

Giulia Rinaldi

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di mio padre, alle regole, all’omologazione, a tutto ciò che doveva esser fatto, alle convenzioni.

Ero un mare in tempesta ma arginato in un por-to... il mio porto che amavo tanto e che si chiamava Roberto. Senza quel porto, credo, non ci sarebbe sta-to neppure il mio mostro.

Quell’amore mi ha stravolto l’anima, la parte più profonda, nascosta, intima di me.

Roberto è arrivato nella mia vita come il sole d’estate e con il sole di un’estate è andato via.

Per l’improvvisa violenza con cui mi sono sentita scaraventare a terra al culmine del nostro legame, mi sono messa in discussione come donna e come per-sona, ho sofferto come mai prima, ho perso grinta, entusiasmo, peso, voce... vita.

E il mostro era in agguato. Il mostro colpisce quando meno te l’aspetti, quando sei debole, sola, in-difesa... e io lo ero.

«C’è qualcosa che non va», mi disse Roberto una sera d’estate e il mio salto iniziò.

Era in piedi quando pronunciò quella frase, in cu-cina, con le braccia incrociate, senza guardarmi.

Ricordo in modo dettagliato la scena, come un film rivisto più volte, la sua postura, il tono della sua voce, lo sguardo fisso sul pavimento, gli occhi lucidi.

Roberto lasciò in me un forte senso di inadegua-tezza. Io, che avevo sempre avuto un buon rapporto con lo specchio, non mi piacevo più, non mi accet-

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tavo. Vivevo il suo rifiuto soprattutto come rifiuto della mia fisicità.

Il nostro dolore ci sembra sempre più forte, diver-so, maggiore del dolore altrui e così sembrò anche a me. Era estate e rimasi sola in quella casa calda ep-pure dentro me non avevo mai avvertito un freddo così intenso.

Dalla finestra intravedevo i preparativi per le par-tenze, c’erano bambini, coppie, famiglie, in un’au-tomobile rossa c’era anche un grosso cane dal pelo marrone scuro. Io ero sola in quella casa, ormai trop-po grande, e guardavo dalla finestra con gli occhi di un bambino davanti al carretto dello zucchero fila-to. Tutto era immobile in quella casa o, forse, a me sembrava così. Ho paura dell’estate perché un giorno d’estate Roberto è uscito dalla porta della nostra casa e il cancro è entrato.

Foglio e penna sono stati miei compagni quel-l’estate, ma sono stati con me anche in una camera d’ospedale, in una sala d’attesa davanti a un ambula-torio e su una poltrona durante la chemioterapia.

La scrittura è stata ed è la mia ancora, il mio ponte per superare il fiume.

Scrivere è come “vomitare” sul foglio il mio dolo-re, la mia paura, le mie insicurezze, la mia rabbia, sì perché di rabbia ce n’è tanta, tutti i giorni, inevitabil-mente.

Avere un cancro a trent’anni non è facile da gesti-

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re, da digerire, da capire, da accettare. Tante doman-de, poche risposte.

Avevo trent’anni e, mentre le mie amiche facevano ecografie per seguire la crescita del frutto del loro amore, io tremavo, e tremo tuttora, su quella poltro-na rossa, davanti all’ambulatorio, prima di ogni con-trollo. Per loro ecografia significa gravidanza, vita che nasce, speranza per il futuro, per me significa cancro.

Non è giusto... ho pronunciato tante volte questa frase e troppe volte l’ho pensata, poi ho capito che bisogna vivere e godere l’istante... hinc et nunc.

A fine agosto mi attende il controllo... sarei una folle se non avessi paura, ma ora è quasi estate e non devo trascorrerla in ospedale, mi sembra già un buon motivo per sorridere.

Non è facile pensare sempre positivo e ancora oggi, dopo cinque anni, due interventi, tanti aghi, qualche falso allarme e una recidiva inaspettata, mi ritrovo fragile e impaurita come una bimba di notte al buio della sua stanza.

Parlare con chi non porta sulle sua pelle i lividi indelebili della lotta contro il mostro per me non è facile, non mi sento capita, mi sembra di ascoltare parole stupide, teoriche ma poco pratiche.

Come spiegare che basta un colore o un profumo già conosciuto e i ricordi riaffiorano e io mi intristi-sco, mi incupisco, ho paura? Gli occhi tristi di Giulia riappaiono.

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Allora mi allontano, gli altri non capiscono il per-ché e fanno congetture, ma io ho imparato a volare alto, prendo un foglio e scrivo lettere come quelle che i nostri nonni dal fronte scrivevano alle famiglie, ai figli, alla donna amata ma le mie hanno solo il mit-tente.

La scrittura e lo sport mi hanno salvato dal mal di vivere post diagnosi, quando tutto ti sembra ormai al capolinea, finito, concluso, triste e invece è solo l’inizio della tua seconda vita dove forse c’è meno leggerezza ma più consapevolezza.

Oggi mi sento una gran donna... so chi sono, cosa posso fare, conosco la mia forza, la mia determina-zione, il mio coraggio. Oggi è un afoso pomeriggio di luglio, vorrei essere al mare ma poche ore fa ho fatto l’iniezione mensile per la soppressione ovarica e non mi sento in forma. Anche questo significa il cancro... la siringa che arriva puntuale ogni ventotto giorni, mi ricorda quello che è stato. Ogni ventotto giorni, ine-vitabilmente, ripenso al mio passato ma anche al mio presente diverso da quello delle mie coetanee.

Oggi, dopo tutto il dolore, dopo aver trascorso due estati, qualche Natale e compleanno in ospedale, non mi sento libera, il cancro continua ancora a de-cidere per me.

Le mie vacanze le organizzo in funzione dell’inie-zione-day e lo stesso vale per i giorni in cui fare sport,

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ma soprattutto non sono libera di diventare madre... Lo sarò in futuro? Chissà!

La siringa per la soppressione ovarica è l’unica protezione per me in questo momento, mi ripetono i medici e io non posso fare altro che accettare, subire una decisione altrui ancora una volta. Quest’estate è la quinta che vivo in una condizione di menopausa indotta, avevo poco più di trent’anni quando ho fatto la prima iniezione. Ricordo quel giorno come se fos-se ieri, sono un po’ morta dentro.

Non sono riuscita a condividere l’intimità con un uomo per molti anni. Mi sentivo inadeguata o forse loro non erano all’altezza. Poi pochi mesi fa è suc-cesso... era quasi estate ma di certo era estate nel mio cuore. Avevo paura come se fosse la prima volta, il mio corpo era diverso dall’ultima volta che l’avevo mostrato ma soprattutto ero cambiata io.

Amo dire che c’è una Giulia pre e una Giulia post, come due gemelle omozigote ma per emotività, testa e cuore agli antipodi.

Ricordo che faceva molto caldo quella sera, o for-se il caldo percepito era dovuto all’estate che avevo dentro, ricordo che mi sono lasciata andare ma ricor-do anche il dolore avvertito... Anche questo è colpa del cancro, ho pensato. Il dolore poi è passato, quindi in questo caso ho vinto io!

Mi sono sentita finalmente “normale” quella sera... quella notte... avevo trentacinque anni e vivevo la mia età come gli altri, con leggerezza.

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Quello che per tante persone è scontato, per me oggi è meraviglioso, incredibile, incantato, magico. La mattina seguente ho preso il mio foglio e ho scrit-to, dopo tanto tempo, non della malattia ma dell’a-more e finalmente il mio viso era bagnato da lacrime di gioia.

La scrittura non mi ha mai abbandonato o for-se io non ho mai abbandonato la scrittura. Leggere un buon libro è sempre un’ottima abitudine, da in-segnante lo ripeto sempre ai miei alunni, ma scrivere lo è altrettanto. Ognuno di noi dovrebbe avere il suo block-notes pronto all’uso... scandire i momenti della nostra vita è importante ma è soprattutto terapeutico.

Mentre scrivo, guardo fuori dalla finestra, c’è una pizzeria con tanta gente che mangia, parla, scherza, ride... vive. Io qui, con i postumi dell’iniezione, mi sento diversa, anche meno fortunata e se non avessi un foglio e una penna mi sentirei sola, dolorosamen-te sola. Non rileggo quasi mai ciò che ho scritto in questi anni difficili, mi reca sofferenza, preferisco la-sciare tutto lì sulla carta quasi come se non l’avessi scritto io, come se non fosse capitato a me.

La pagina relativa alla sera dell’amore, invece, mi è capitato di rileggerla, perché voglio rivivere, attimo dopo attimo, quella che per me è stata simbolicamen-te la notte in cui ho vinto il cancro.

Il mostro ha cercato di cancellare la femminilità dal mio corpo ma ha fallito perché non mi sono mai sentita donna come in quella notte.

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Spiegare queste sensazioni a chi non sa nulla di cancro è un’impresa ardua, mi considerano una fol-le, pesantemente folle. Qualcuno si allontana, altri fingono di ascoltare, altri ancora cercano di porta-re la conversazione su argomenti meno pesanti per-ché nessuno ha voglia di parlare di cancro. Il cancro continua a essere considerato qualcosa, non si sa bene cosa, che capita agli altri.

Milan Kundera nel suo capolavoro L’insostenibi-le leggerezza dell’essere parla così della pesantezza: «La pesantezza, la necessità e il valore sono tre concetti intimamente legati tra loro: solo ciò che è necessario è pesante, solo ciò che pesa ha valore».

Pesante per me significa concreto, reale, tangibile, vero.

La scrittura è pesante quindi meravigliosamente concreta. Io scrivo mentre le voci provenienti dalla pizzeria diventano sempre più forti, le risate fragoro-se e la musica invita anche a canticchiare... atmosfera tipicamente estiva!

C’è un bambino, avrà circa sei anni, che addenta voracemente una fetta di anguria facendo gocciolare il succo sul suo pantaloncino bianco.

L’anguria, come tante altre cose, oggetti, profumi, sapori, ha per me un duplice significato.

Mi ricorda da un lato i falò al mare dove non man-cava mai. Eravamo i soliti amici, in spiaggia, d’estate, c’era la musica, gli amori nati d’estate e che spesso

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non vedevano l’autunno, facevamo il bagno di not-te e poi mangiavamo tanta anguria e bevevamo vino bianco di poco prezzo ma che ci sembrava del mi-gliore vitigno.

Dall’altro l’anguria mi ricorda anche un Ferrago-sto trascorso al CRO. Fui operata il 10 agosto, la not-te di san Lorenzo di quell’anno le ho viste davvero le stelle!

Il 15 agosto ero ancora lì... c’era il drenaggio che non voleva saperne di lasciarmi. A pranzo ricordo come se fosse ieri, arrivò un’infermiera, sorridente come se stesse servendo il pranzo in un ristoranti-no sul lungomare di Positano, e mi disse: «Meravi-gliosa creatura, oggi c’è un’appetitosa fetta di anguria come frutta perché oggi è festa anche per noi che siamo qui». Quell’anguria ebbe il potere di trasfor-mare quell’asettica stanza dell’ospedale in un chiosco in spiaggia.

Quando non si ha nulla, basta poco per gioire. Grazie al cancro ho imparato anche questo. Tante cose mi ha insegnato la malattia che credeva solo di togliere nella mia vita, invece ha aggiunto tanto.

Giulia oggi è più forte, più consapevole, più sicu-ra di sé, con un’autostima maggiore e soprattutto i problemi quotidiani, che possono minare la serenità degli altri, le sembrano tante formichine.

Tra i vari fogli del mio inseparabile block-notes, ce n’è uno dove ho appuntato i miei buoni motivi.

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Voglio condividerli con voi.

Un tramonto sul mareIl sorriso di un bambinoLa pancia pienaLa telefonata che aspettavoLa cioccolata di Gay Odin (cioccolateria di Napoli)I suoi occhi nella corsia di un ospedaleL’abbraccio che volevoLa mia famigliaQuella canzone in sottofondoUn traghetto verso IschiaColazione da Calise (pasticceria di Ischia)Le parole che volevo ascoltareI miei jeans preferiti che mi vanno ancoraUn complimento gentileUna decisione presaUn dolore superatoUn sipario che si chiudeLacrime di gioia

Anche per questi motivi voglio crederci ancora e voglio aspettare che il sole si alzi per riscaldarmi an-cora.

Con il trascorrere del tempo alcuni motivi in parte si trasformano, si evolvono, ampliano il loro raggio d’azione, ma in questi righi c’è l’essenza di ciò che vorrei ci fosse nella mia vita.

Mancano tanti pezzi al mio puzzle e non so se ri-

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uscirò mai a completare gli spazi vuoti, perché forse quel tassello si è perso o forse, per un errore di pro-duzione, non è uscito dalla mia scatola; questa è la mia spina nel cuore, il mio tallone di Achille, il mio dolore più grande.

Ma come comunicare questi miei pensieri a chi ha un corso di vita regolare... la sua famiglia, la laurea, il lavoro che desiderava fare, i suoi figli, un frigorifero sempre pieno, un cane, magari una casa al mare e, so-prattutto, ha la salute senza sapere neppure di averla.

Allora i miei discorsi possono sembrare fuori con-testo, lontani dalla mia giovane età, quasi romanze-schi e principalmente “pesanti”.

Quindi capita che io mi isoli con il libro di turno e con il mio inseparabile block-notes: la scrittura non tradisce, non giudica, non ti abbandona, non ti prefe-risce a qualcun altro, rimane al tuo fianco quando sei all’apice della gloria e quando mangi pane duro sulle scale di un porto.

Non mi fido più degli altri... ho paura.

C’è una frase di Oscar Wilde che ho letto qualche mese fa su un vecchio libro, trovato per caso in una sala d’attesa, e che ho trascritto sul mio quadernetto; diceva così: «Io non voglio cancellare il mio passa-to perché nel bene e nel male mi ha reso quella che sono oggi. Anzi ringrazio chi mi ha fatto scoprire l’amore e il dolore, chi mi ha aiutato e usato, chi mi ha detto ti voglio bene credendoci e chi invece l’ha

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fatto solo per i suoi sporchi comodi. Io ringrazio me stesso per aver trovato sempre la forza di rialzarmi e andare avanti».

Questa citazione mi ha fatto volare indietro nel tempo e mi ha fatto ricordare un episodio capitato-mi che secondo me è l’emblema della vigliaccheria e dell’ipocrisia umana. E anche questo mi è capitato d’estate...

Quando mi diagnosticarono il cancro, vivevo un’allegra e spensierata relazione con un ragazzo (ne-anche tanto ragazzo dato che all’epoca dei fatti aveva trentasette anni suonati!). Lui parlava di sentimenti forti, di progetti per il futuro, di noi, della possibilità di una vita insieme... io ero più cauta forse sempli-cemente perché non ero innamorata o meglio non ero innamorata di lui. Quando appresi la notizia la comunicai a lui il quale, in un primo momento, par-ve capire, accettare e soprattutto sembrava volesse accompagnarmi e sostenermi nella salita. E fu così fino all’operazione, ma quando capì che l’operazione non era la fine ma solo il primo tratto del cammino e che il percorso successivo si chiamava chemioterapia, fece uno, due, dieci passi indietro.

Quello che mi causò la nausea più dell’epirubicina fu la motivazione addotta dietro mie insistenze, dato che lui si era limitato a sparire anzi a partire per Ibiza.

«Giulia, mi disse, mi sono accorto che i miei sen-timenti sono cambiati, forse abbiamo corso troppo, forse... e bla... bla... bla...»

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Tutto questo mi veniva comunicato da una spiag-gia di Ibiza mentre io ero su una panchina nel parco dell’ospedale e attendevo di essere ricevuta dall’on-cologo.

E questa triste storia non finisce qui. Vi spiego.In quel momento della mia vita, le priorità per me

erano altre quindi qualsiasi frase avesse pronunciato colui il quale, fino a qualche ora prima, si definiva il mio fidanzato, mi sarebbe scivolata addosso come olio su una tavola inclinata.

Io, dopo pochi giorni, avrei iniziato, a soli trent’an-ni, il primo ciclo di chemioterapia... avrei dovuto con-vivere con tanti effetti collaterali di cui la perdita dei capelli è solo quello più evidente ed eclatante ma, a mio avviso, il meno preoccupante perché transitorio.

Trascorsero le ore, i giorni, i mesi, più in fretta del previsto; io tornai alla mia vita e ci ritornai carina fi-sicamente quanto prima, anzi forse più di prima, per-ché, mio malgrado, brillavo di una luce diversa che le altre donne non avevano.

Un giorno, mentre camminavo sul lungomare del-la mia città, lo incontrai per caso. Era solo, mi fermò, mi abbracciò, poi mi guardò come se avesse visto un fantasma e mi disse balbettando: «Come stai bene, stai bene... sei sempre bella e bla... bla... bla...»

Qualche giorno dopo ricevetti una sua telefonata per un invito a una festa. Vi lascio immaginare quale sia stata la mia reazione e la mia risposta.

Pensava, forse, che la chemioterapia mi trasfor-

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masse in un mostro con tre teste e una coda, invece aveva ritrovato Giulia più luminosa di come l’aveva lasciata afferrando un last minute per Ibiza.

Per me lui è ciò che non cerco in un uomo.Voglio che il mio cuore sia al sicuro... solo così

riesco ad abbassare le barriere che la vita mi ha co-struito, mio malgrado, intorno, muri alti e difficili da rompere, ma non per chi mi vuole bene con cuore sincero.

Mi aveva lasciato partendo con un last minute per Ibiza nel momento del dolore, della paura, della pro-va, mi aveva raccontato tante bugie, come potevo di-menticare?

Mentre scrivo, continuo a guardare dalla finestra, c’è ancora tanta gente nonostante sia già tardi.

Il bambino ha finito di gustare l’anguria e dorme tra le braccia del suo papà... un’immagine tenera e commovente. Avrei voluto un bambino, ho sempre avuto un forte istinto materno, credevo che prima o poi avrei avuto anch’io il dono della maternità.

Poi è arrivato il cancro e ha deciso per me, e questa per me è la sconfitta più grande.

Oggi ho un rapporto conflittuale con l’immagine di bambini, di mamme, di donne incinte... rimarrei ore a guardare perché sono il simbolo della vita, del domani, del futuro ma, allo stesso tempo, avverto una ferita sanguinare e quindi mi allontano.

Vedo in loro il mio fallimento, l’impossibilità per

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me di decidere su quello che dovrebbe essere il per-corso naturale di vita... io, oggi, non posso decidere se avere o non avere un figlio, non posso averlo e basta. I medici mi hanno spesso detto che se non ci saranno imprevisti, potrò riprendermi la mia vita e anche la maternità. Io però ho imparato a non crede-re alle ipotesi ma solo ai fatti... purtroppo l’ho impa-rato troppo presto!

Non amo piangermi addosso ma non posso finge-re che con il cancro la vita sia uguale a prima... non lo è. Il cancro non finisce con l’operazione, con le terapie, con i controlli... il cancro te lo porti dentro come un tatuaggio anche dopo che il chirurgo l’ha estirpato.

Come si fa a spiegare queste sensazioni a chi pensa che il cancro sia un segno zodiacale?

In pizzeria continuano a chiacchierare, scherzare, ridere... c’è un gruppo di ragazzi che ha ordinato ven-ti pizze da portare via, cinque birre e cinque lattine di Coca-Cola. Parlano di una festa in spiaggia e di un bagno di notte... avranno vent’anni e sono l’emblema della voglia di vivere, l’immagine dell’estate, la rap-presentazione della spensieratezza.

I miei vent’anni mi sembrano lontani un secolo... mi sembra che appartengano a un’altra Giulia, la mia ipotetica sorella gemella.

Ero bella a vent’anni, avevo un fidanzato molto carino e molto innamorato che mi teneva sempre la mano o mi cingeva le spalle con il suo braccio... i

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suoi gesti mi piacevano molto, mi sentivo protetta, al sicuro.

L’estate di quell’anno desideravamo partire insie-me per un viaggio ma i miei, genitori del sud, non lo permettevano e allora noi due, un weekend in cui i miei erano fuori città per affari di famiglia, partimmo per la montagna di nascosto. Furono solo due giorni ma ero felice come se avessi fatto il giro del mondo. Una sensazione di libertà e di onnipotenza.

C’è stata una parte della mia vita in cui sono stata molto vicina alla felicità.

A volte mi volto indietro, ripenso al mio passato e provo una sana invidia per quella che ero... è come se riuscissi ad attirare a me eventi giusti, piacevoli, belli, eventi di vita...

Ormai sono un po’ di anni che la mia vita non rispecchia la mia età, sono giovane, simpatica, carina, ho voglia di fare, mi sento sana eppure la mia quo-tidianità è difficile... e mi capita di vacillare ma sono solo momenti, poi basta un raggio di sole, le note di quella canzone, un abbraccio inatteso e continuo a sperare.

Il gruppo di ragazzi ha preso le pizze e le birre, uno di loro con una maglietta alla moda e un paio di jeans le ha sistemate in una delle tante automobili. Tutti insieme vanno verso il mare.

Sono giovani, spensierati e belli ed è meraviglioso guardarli. Riesco a sentire anche la musica che pro-viene da una delle macchine...

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Un senso di Vasco. «Sai che cosa penso / che se non ha un senso / domani arriverà / domani arriverà lo stesso / senti che bel vento / non basta mai il tem-po / domani un altro giorno arriverà», canta il rocker italiano e sembra rivolgersi a me che guardo dalla fi-nestra, ancora con il malessere post iniezione, come se stessi a un drive-in.

Domani vorrei andare al mare, molte persone d’estate vanno in montagna, per me l’estate è mare, spiaggia, sole. Prima dell’intervento, l’anestesista mi disse di pensare intensamente a un posto dove avrei voluto essere, così dopo l’anestesia, come per magia, mi sarei trovata lì. Io chiusi gli occhi e immaginai di essere in una spiaggia incontaminata bagnata da un mare chiaro e limpido... chissà, forse durante l’inter-vento la mia anima è stata lì. Quando ho riaperto gli occhi, dopo quattro ore in sala operatoria, non ero stanca per niente e mi sembrava di avere la salsedine sulla pelle. Vorrei anche raccontare di quel giorno in cui presi il mio block-notes e iniziai a scrivere non prosa ma versi, quasi di getto, le parole venivano fuo-ri da sole dalla mia penna. Rilessi quanto scritto e mi accorsi che sarebbe potuto essere il testo di una can-zone. Lo sarà perché ho intenzione di cercare qual-cuno che voglia regalare la sua voce alle mie parole.

Il testo della canzone è il seguente:Giulia ce l’hai fatta, ti giuro è proprio così. Quella cicatrice

sul tuo piccolo seno fa ancora male ma passerà. Ci vuole tempo,

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forza, coraggio ma passerà. Oggi sei più bella di ieri anche se hai quel dolore nel cuore che nessuno mai ti toglierà. Ma quel dolore ti rende più bella, più dolce, più donna, più come piace a me. Ti ho vista nuda guardarti allo specchio qualche giorno fa... piangevi e guardavi il tuo seno nudo allo specchio qualche giorno fa. Ma quel dolore ti rende più bella, più dolce, più don-na, più come piace a me. Continui a chiederti perché proprio a te. A te che volevi una vita normale... un amore, un figlio, una station vagon, un frigo sempre pieno e una casa al mare. A te che sorridevi alla vita e che avevi già conosciuto il dolore. Io che ne so... mia piccola, dolce, cara Giulia, non lo so. Ma quel dolore ti rende più bella, più dolce, più donna, più come piace a me. Adesso quell’ospedale è lontano, adesso ci sono io con te. Domani ce ne andiamo al mare e ti stringerò forte perché ho solo paura di perderti. Ma quel dolore ti rende più bella, più dolce, più donna, più come piace a me.

Non so se sarà una canzone di successo ma rap-presenta il successo di una giovane donna che è riu-scita a rimanere viva nonostante tutto.

C’è un proverbio irlandese che amo ripetere che re-cita così: «Se riuscirai a mantenere vivo un ramo ver-de nel tuo cuore nell’ora dell’oscurità, allora il Signo-re verrà e manderà un uccello a cantare da quel ramo all’alba del giorno». Ho cercato di mantenere verde un mio ramo anche quando il sole era troppo caldo e non c’era acqua a sufficienza, mi sono aggrappata a quell’unico ramo con tutte le forze che rimanevano nel mio corpicino straziato dalle terapie. Quel ramo,

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oggi, è verde e ha anche dei profumati fiori bianchi... io aspetto l’uccello del Signore, certa che arriverà. A volte, come adesso, piango mentre scrivo. Piango perché avrei voluto che le cose andassero diversa-mente, avrei voluto una vita degna della mia giovane età. Vado avanti, con la gioia di essere una sopravvis-suta, ma la paura, il dolore, l’angoscia, la solitudine provata rimangono dentro e mi rendono, per alcuni tratti, più fragile.

Il cancro non si cancella con un’operazione, con la chemioterapia, con esami diagnostici negativi, l’ombra del mostro rimane dentro di te e riappare, nelle mente e nel cuore, all’improvviso, quando non te l’aspetti.

Non si decide di ricominciare, non c’è un bottone da premere, non ci sono regole né mansionari, non ci sono asini né primi della classe, c’è il dolore con il quale bisogna imparare a convivere e poi, con il tem-po a superare, ma mai dimenticare.

Non so cosa mi riserverà il futuro ma conosco il mio passato e il mio presente che mi rendono più grande, più matura, più consapevole, più pesante, ci-tando Kundera, delle giovani donne della mia età, e non posso non avere una malinconia nel cuore per ciò che poteva essere e non è stato o per ciò che non è stato come avrei voluto fosse.

Questa mia testimonianza mi ha aiutato, come mi capita ogni qualvolta scrivo, a riflettere. Cosa sarà di

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me? Non lo so e ho imparato a non chiederlo. Sono stati e sono anni difficili ma io aspetto l’uccello del Signore che si poserà sul mio unico ramo ancora ver-de e canterà per me e io, forse, riuscirò a raggiungere con il mio corpo la mia anima su quella spiaggia in-contaminata dove è estate tutto l’anno.

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Sono uno scrittore dell’orrore, lo sono sempre sta-to. Quando avevo otto anni mi assegnarono il primo tema libero a scuola; ma io lo aspettavo con ansia da tempo.

Scrissi un “tema dell’orrore”, ovviamente, per la “gioia” della mia maestra di allora, che rimase vaga-mente scandalizzata dalla mia immaginazione. Non c’era sangue nel racconto, per carità, ma era pur sem-pre un racconto dell’orrore.

Raccontava di una compagnia di ragazzini che, mentre giocavano a esplorare le cantine dei loro con-domini, venivano travolti da un ignoto fluido giallo che li spazzava via, senza comunque ucciderne nes-suno.

Il mio inizio con la scrittura fu alquanto precoce ma isolato, perché dopo quel tema non scrissi più per vari anni. D’estate, però, amavo raccontare storie dell’orrore agli amici, durante le interminabili notti nel parco sotto casa, o in campeggio parrocchiale.

Il mistero della scritturae del mio tumore

Marcello Avanzo

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Non ho mai dimenticato quelle serate: quei rac-conti a voce sono stati fondamentali per la mia for-mazione di scrittore. Non esiste niente di parago-nabile al volto di chi ti ascolta mentre racconti una storia. Leggi nel suo volto il riflesso di ciò che stai raccontando, e raccontare diventa come suonare mu-sica a un concerto, come se le tue parole fossero lo strumento.

Il romanzo, alla fine, non è altro che un racconto attorno al fuoco, secondo me.

Cominciai a scrivere sul serio a quattordici anni: una storia di fantascienza, ambientata nel mondo di un gioco di ruolo che giocavo allora.

Da quel momento non ho mai smesso di scrivere.Contrariamente a tutti i miei coetanei, però, e con-

trariamente a tutti gli scrittori che ho conosciuto di persona, io non ho mai scritto di me stesso, né del-la mia vita. Ancora oggi, mi sembra strano che uno scrittore possa scrivere di se stesso.

In Italia la cosa va per la maggiore: quasi tutto quello che scrivono gli italiani è un diario oppure, nel massimo della creatività, un diario romanzato. Per cui mi sono sempre sentito un alieno in mezzo agli altri scrittori, e li ho sempre evitati. A volte mi sono letteralmente nascosto da loro e non ho mai scritto né di me stesso né della mia vita.

Questa è la prima volta che lo faccio, non senza un certo imbarazzo.

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Perché anche se sto scrivendo come si deve, per “deformazione professionale”, in realtà non ritengo certo che questa sia una buona lettura. A chi dovreb-be interessare la mia vita? Perché? Perché sono finito per passare per l’oncologia? È successo a un sacco di gente, e praticamente tutti hanno una storia da rac-contare peggiore della mia. Io sono solo una goccia nel mare.

Eppure, la vita dovrebbe essere la cosa più impor-tante che un uomo possa avere. Giusto?

Sbagliato.Non è così per tutti.Di sicuro non è così per gli scrittori.Lo scrittore vero sente spesso di non esistere. Per

lo scrittore vero, certe cose che non esistono sono molto importanti, perché possono cambiargli la vita.

Certe cose che non esistono possono diventare più importanti della realtà stessa. In fondo sono il suo lavoro.

E possono diventare più importanti di lui.Ecco perché finora non avevo mai scritto della

mia esperienza con il tumore.Ma per farlo, devo continuare a raccontarvi il mio

personale rapporto con la scrittura.All’inizio scrivi come tutti gli altri, cioè usando la

ragione. Ti inventi storie, allo stesso modo in cui ti inventi la lista della spesa. È normale, siamo gli unici animali fatti per usare la ragione, per cui è ovvio ini-ziare usando la ragione.

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Poi ti accorgi che spesso, scrivendo, succede qual-cosa di “magico”.

Davanti agli occhi ti appaiono mondi sconosciuti, idee che non sai da dove provengano eppure, dopo averle rilette e averci riflettuto, capisci che sono sem-pre “superiori” a quelle che sei grado di scrivere “vo-lutamente”. Allora, se hai il coraggio di farlo, quando ti ricapitano queste “magie”, stavolta, invece di bloc-carle, provi a esplorarle.

Così un giorno finisci la tua sessione di scrittura come se fossi appena uscito da un sogno, e non ri-cordi nemmeno cosa hai scritto, ma solo quello che è successo in quel sogno. E, per la precisione, tu non hai scritto quel sogno, ma ti sei solo limitato a trascri-verlo. Così capisci che scrivere “da svegli” può anche generare letture carine... Ma la vera arte viene fuori solo quando ti annulli completamente nella scrittura, fino a non esistere più.

Annullarsi è difficile e, cosa che pochi scrittori confessano, fa veramente paura. I personaggi si muo-vono da soli, succedono cose che la tua mente “non è in grado di immaginare”, e una voce dentro di te continua a pensare di fermare tutto, perché tu stai scrivendo un “romanzo”, un romanzo che speri sia bello, di successo, eccetera... Mentre invece il film che ti sta scorrendo sotto gli occhi è privo di controllo e sfugge da ogni logica di successo... Oppure non ha proprio senso. Quando succede è il caso di frenarlo un po’, ma solo un poco.

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È come cavalcare un cavallo imbizzarrito: se non lo lasci un po’ andare non lo cavalcherai mai, ma se ne perdi troppo il controllo, finirete per farvi male entrambi. Più sei fedele, nonostante tutto, al sogno che ti scorre davanti, migliore sarà il libro, ed è questa la vera difficoltà di scrivere.

I grandi scrittori si abituano a scrivere sempre così, in quel sottile margine che c’è tra il romanzo che “si scrive da solo” e il delirio puro, che non porta da nessuna parte.

Alla fine, una mattina, ti svegli e capisci che meno l’autore si intromette nel suo romanzo, meglio scrive, così un giorno finisci per non esistere più: non sce-gli la storia, non scegli il genere, non scegli niente di niente.

E quel giorno, finalmente, sei diventato un vero scrittore. Già.

Non ho mai scritto della mia vita perché Anna Frank ha avuto una vita interessante, di certo non io... Non so se ho reso l’idea. Alla fine, credo che la differenza tra uno scrittore vero e chi non lo è, sia tutta qui. Lo scrittore vero è al servizio di qualcosa di più grande, e lo è sempre.

Io l’ho trovato veramente, qualcosa di più grande, e l’ho trovato scrivendo.

E mentre lo scrivevo non avevo certo in mente la mia esperienza in oncologia... Perché, come ho detto, l’ho scritto mentre non esistevo.

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Ma per spiegarvi veramente come sono andate le cose, devo partire da una lettura che mi ha cambiato la vita.

Negli anni Ottanta Stephen King scrisse un libro che si chiamava Pet Semetary. Oltre a essere un ca-polavoro, mi ha fatto scoprire uno dei pochi scrit-tori che sia mai riuscito a spiegare come si scrive. Se non avessi mai letto il suo saggio di scrittura creativa, On Writing, adesso brancolerei ancora nel buio della scrittura, il buio in cui le idee buone ti vengono fuori solo una volta ogni tanto, a caso, perché non sai dove cercarle dentro di te. Senza quel libro forse avrei per-fino smesso di scrivere.

Adesso invece ho trentacinque anni, ho scritto set-te romanzi, una miriade di racconti, e anche se non ho pubblicato quasi niente, non ha alcuna importan-za: io continuo a scrivere e a lavorare per migliorar-mi, ogni giorno, come se iniziassi sempre da zero. In questo modo, se mai un giorno dovessi avere una vera occasione di diventare uno scrittore professioni-sta, sono sicuro che non la sprecherei.

Pet Semetary, il capolavoro di King, parla di una fa-miglia americana. La famiglia ha appena traslocato e vive vicino a un sentierino che conduce al “cimitero degli animali”, il cimitero dove i bambini del paese, da circa un secolo, seppelliscono i loro piccoli defun-ti. Ma oltre la collina che sovrasta il cimitero degli animali, si nasconde un cimitero ben più antico: è il

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cimitero indiano della tribù Micmac, dove chi viene sepolto torna tragicamente in vita. Ovviamente, chi “torna” dal cimitero, torna più simile a un demonio che a un essere umano, e l’esistenza del cimitero vie-ne tenuta nascosta dai pochi anziani del paese che conoscono il segreto di quel luogo maledetto.

Tale segreto, però, arriverà alle orecchie di Louis, il padre della famiglia che è appena venuta a vivere lì. E quando il piccolo Gage, il figlio maschio del-la coppia, morirà tragicamente sotto le ruote di un tir, Louis non riuscirà a resistere al tragico richiamo dell’occulto... Non riuscirà a resistere alla speranza, vana, di poter sovvertire la regola più antica del mon-do, e cioè che non importa quanto amiamo il nostro caro, se muore... Non tornerà mai. E tale assurda, blasfema speranza lo manderà dritto verso un desti-no orribile, perché Louis sa bene a cosa sta andando incontro, ma non si fermerà mai...

Non sono un grande scrittore ed è difficile rias-sumere un romanzo intero, specialmente un capola-voro, ma tutto sommato credo di aver reso l’idea del perché Pet Semetary sia un libro tanto sublime. L’idea non è tanto quella del cimitero che fa risorgere chi ci viene seppellito... L’idea vera è quella della tenta-zione. Nessuno di noi sarebbe in grado di resistere alla speranza, vana, di cancellare la morte del proprio figlio, perché non accettare la morte è tanto naturale quanto la morte stessa.

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Ma da dove arrivavano le idee di King? Come face-vano a essere tanto potenti? Perché aveva scritto Pet Semetary? Vent’anni dopo averlo scritto, riprendendo-lo in mano, King ebbe una illuminazione. Vent’anni sono tanti e King non aveva scritto quel libro con la ragione... L’aveva trascritto. Non aveva la minima idea dell’origine delle sue idee.

Comunque sia, un giorno capì.Scoprì di cosa parlava quel libro, di cosa parlasse

veramente, e lo scrisse nel suo saggio di scrittura.

Quando scrisse Pet Semetary, King era uno scrittore cocainomane e alcolizzato. Aveva appena iniziato la sua carriera, ma non sembrava così promettente e la vita, con i figli piccoli e una situazione economica appesa a un filo, gli sembrava tutta in salita.

Voleva bene alla sua famiglia... Ma anche alla droga. La droga, la cocaina, lo aiutava a sentire meno il peso dei problemi, lo aiutava a scrivere di più e a scrivere meglio perché, come tutti gli eccitanti, aumenta la tua concentrazione... Mentre intanto ti ammazza.

Però King era convinto di avere tutto sotto con-trollo, e non aveva alcuna intenzione di smettere. Era in un tunnel che lo stava portando verso una morte certa, ma come tutti i veri drogati, sperava di uscirne in qualche modo senza smettere di drogarsi.

Così King, senza saperlo, scrisse di un uomo che lottava con la morte, e quell’uomo era lui. Il “film” che la scrittura gli stava proiettando davanti agli occhi

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era il disperato grido con cui la sua mente cercava di dirgli: ciò cui non sai resistere, ti ucciderà. Stai morendo... E sta succedendo ora.

King, senza saperlo (se l’avesse fatto razionalmen-te, non ci sarebbe mai riuscito) scrisse la cosa più difficile che possa scrivere qualunque essere uma-no: scrisse un libro intero sulla morte, mentre stava accadendo. Ecco perché Pet Semetary sconvolge e dà brividi a tratti insopportabili. Ecco perché è uno dei pochi libri che si ricorda per tutta la vita: perché è un autentico capolavoro.

Nello stesso istante in cui lessi l’intuizione di King, ebbi la stessa illuminazione riguardo al mio secon-do romanzo. Avevo appena smesso di leggere la sua, avevo ancora il suo volume in mano, quando ebbi la mia.

Il mio Pet Semetary si intitola Zero Punto Zero, e lo scrissi a ventitré anni. In quel periodo, per riuscire a competere con gli scrittori che stimavo, mi ero dato un programma di tre romanzi: tre romanzi, e sarei riuscito a scrivere come si deve.

Avevo bene in mente tutta una serie di tecniche di scrittura che non sapevo utilizzare, e visti i progressi compiuti fino ad allora, avevo calcolato che mi ser-vivano altri tre romanzi interi, scritti come si deve, solo per arrivare allo stesso livello di certi autori che prendevo come modello.

Insomma “tre romanzi sacrificali” e in teoria ognuno avrebbe dovuto essere migliore del prece-

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dente. Per qualche strano motivo, invece, il migliore fu il primo dei tre. Invece che un libro usa e getta, come poi divennero gli altri due, ne venne fuori la cosa migliore che avessi mai scritto. Ecco perché poi l’ho corretto, tagliato e ricorretto... Per i successivi dodici anni anni.

Andavo avanti con i miei nuovi lavori, ma ogni tanto riprendevo in mano il mio preferito, e lo cor-reggevo di nuovo dall’inizio alla fine, pagina per pa-gina, un po’ come fece Manzoni con I promessi sposi. L’ultima revisione, l’anno scorso, dodici anni dopo la prima, mi ha lasciato più soddisfatto del solito e forse è stata l’ultima... Forse.

Ma andiamo avanti.Il mio Zero Punto Zero parla di una caccia all’uomo.

Il protagonista è Gabriele Lupo, un criminologo che insegna all’università di Padova. È una vera e propria autorità della criminologia, e ha appena teorizzato l’esistenza di un nuovo tipo di maniaco criminale: “l’assassino seriale”, una specie di via di mezzo tra il serial killer e il criminale della Uno bianca, o il crimi-nale di guerra.

Insomma è un incrocio tra un comune malato di mente e una persona perfettamente lucida, che ucci-de perché gli piace.

Gabriele Lupo fa il consulente per l’Unità analisi crimini violenti della polizia, e oltre a insegnare all’u-niversità, lavora a stretto contatto con la squadra di polizia che cattura quel tipo di assassini o stupratori

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seriali. In essa Lupo ha un vero ruolo investigativo: li segue sui luoghi dei crimini, partecipa alle loro riu-nioni e, pur essendo un esterno, fa praticamente par-te della squadra.

Ma la nuova caccia all’assassino si riempie di oscu-ri presagi.

L’ultimo criminale catturato dalla squadra, anche grazie all’aiuto di Lupo, e il nuovo, ancora latitante, sembrano condividere una specie di linguaggio in co-dice, una serie di simboli che ruotano attorno allo Zero.

Si conoscevano? Facevano parte di una setta? Do-mande cui Lupo non riesce a trovare una risposta.

Nel finale del libro Lupo, un agente di polizia e la psicologa dell’Unità analisi crimini violenti vengono sequestrati dal nuovo serial killer.

Il maniaco ha rubato l’identità di un agente ame-ricano dell’interpol, Jeffry Loomis (probabilmente assassinato), e la sua vera identità non viene mai rive-lata per tutto il libro.

Jeffry attira e rinchiude i tre personaggi principali del libro, incluso se stesso, dentro un sotterraneo, as-sieme a una bomba innescata.

Il falso agente dell’FBI non disinnescherà l’ordi-gno finché i tre colleghi (e amici) non si uccideranno l’un l’altro, e solo uno di loro sarà rimasto in vita. Sono le regole del suo “gioco”, e niente al mondo lo fermerà: o avrà un “vincitore” del suo gioco, o lasce-rà esplodere la bomba.

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E mentre i tre colleghi “giocano” (si studiano, per capire se veramente uno di loro avrà il coraggio di uccidere gli altri due, pur di convincere il maniaco a disinnescare la bomba), Jeffry comincia una lun-ga serie di discorsi, che per Lupo sfoceranno in un vero e proprio lavaggio del cervello, pieno di rivela-zioni: Jeffry conosce tutte le teorie di criminologia dello stesso Lupo, e anche più di lui. Insomma Jef-fry sarebbe molto di più di ciò che lascia intendere... Principalmente perché ha ragione, ha ragione su ogni cosa nonostante sia solo un maniaco, e nonostante Lupo abbia passato tutta la vita a studiare proprio le cose di cui l’assassino sta parlando.

Una volta che i tre hanno capito che non possono ferire il loro sequestratore (perché è la loro unica spe-ranza di sopravvivenza), questo comincia a torturarli, e le rivelazioni di Jeffry stavolta cominciano a riguar-dare il passato di Lupo, di nuovo cose che il maniaco non dovrebbe sapere, e che lasciano intuire che forse Jeffry è molto più di un semplice uomo.

Tra delirio e realtà, Lupo finirà per credere che le pareti della stanza sono il suo corpo e che il con-teggio alla rovescia della bomba (lo Zero) sia la fine della vita, la morte cui tutti, presto o tardi, saremo destinati comunque.

E quando finalmente Lupo troverà il modo di vio-lare le regole del gioco, l’uomo lo punirà condannan-dolo a una fine peggiore perfino della morte stessa.

Questa, grosso modo, la trama del mio libro.

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La cosa “terribile” di Zero Punto Zero, a parere dei miei amici che l’hanno letto, è che il “cattivo” non fa assolutamente niente di paranormale. In altre parole, se io decidessi di non firmare il libro e spacciarlo per una storia vera, nessuno al mondo avrebbe motivo di non crederci, e questo, secondo i miei amici, rende estremamente inquietante tutto ciò che il libro contie-ne. Ma torniamo a noi.

Quando lessi come King aveva capito di cosa par-lava il suo Pet Semetary, io capii di cosa parlava il mio Zero punto Zero. E adesso, se avete voglia di prosegui-re, ve lo dirò.

Ho sempre avuto una camminata asimmetrica. Da quando sono in grado di ricordare la mia vita, non sono mai riuscito ad avere la stessa forza in entrambe le gambe. Anche la mia mano e tutto il braccio destro sono sempre stati leggermente più deboli.

Oltre all’andatura leggermente claudicante e a do-ver imparare a scrivere con la sinistra (anche se cere-bralmente sono destro), ho sempre avuto anche un gran bello sfregio in testa, che ringraziando il signore è sempre somigliato a una banale calvizie. O meglio, adesso lo ringrazio perché sono un trentenne, e a trent’anni avere una calvizie è normale, ma quando avevo cinque anni, avere una calvizie faceva di me poco più che un freak, un fenomeno da baraccone, perché NESSUN bambino soffre di calvizie.

Nel massimo dell’idiozia, ricordo un ragazzo che

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mi chiese se erano i miei genitori a rasarmi perché volevano che diventassi frate, e un professore del li-ceo che mi chiamava “lo zoppetto” davanti a tutti (esclusi i miei genitori, ovviamente). A quindici anni i ragazzi (e qualche professore arteriosclerotico) sono crudeli, la vita è fatta così.

Per me, tutto questo era un mistero.Durante la mia prima infanzia pensavo perfino

che fosse naturale. Pensavo, in sostanza, che tutti i bambini che non si impegnano a camminare bene finissero per zoppicare, perché era quello che mi di-cevano continuamente i miei genitori: «Vedi che se ti impegni non zoppichi? Impegnati di più».

Solo più tardi cominciai a capire che mi era succes-so qualcosa, perché solo io ero così.

Riguardo alla cicatrice in testa, a un certo punto cominciai a raccontare, a chi me lo chiedeva, di una caduta, o di un incidente in macchina, ma la verità è che io non sapevo un bel niente, e siccome i miei genitori non vollero mai spiegarmi, io ritenni giusto non chiedere.

Poi a diciotto anni, arrivò la visita di leva.Io e mio padre, d’accordo, decidemmo che fare il

militare non mi interessava, e che avremmo usato la “faccenda della testa” per evitarmi la naia.

Il giorno dopo la prima visita di leva, i militari vo-levano la documentazione supplementare riguardan-te la mia “situazione”. Per nascondermi cosa avevo

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avuto mio padre l’avrebbe consegnata di persona il giorno dopo.

Ma io, quella sera, presi la mia decisione. Volevo sapere cosa avevo avuto e avevo trovato il modo di sapere senza chiedere. Così, quella sera, avrei rubato i documenti: quella sera o mai più.

Quando andai a fare finta di dormire, il cuore mi batteva già. Aspettai nel letto fino a notte fonda, guardando continuamente l’orologio. Quando non ce la feci più, sgusciai fuori dal letto e andai in salotto.

Aprii lo zaino che mio padre aveva preparato per il giorno dopo, rubai la cartellina che doveva conse-gnare, e chiusi lo zaino. Poi mi rinchiusi a chiave in bagno. Me lo ricordo come se fosse ieri.

La luce del bagno sembrava fortissima, proprio come la stanzetta dove erano stati sequestrati i tre protagonisti del romanzo che avrei scritto cinque anni dopo.

Esitai un attimo. Il cuore mi batteva in gola quasi dolorosamente. Pensai che se avessi resistito alla ten-tazione, avrei continuato a vivere come prima. Pensai che sapevo cosa lasciavo, ma non sapevo a cosa an-davo incontro, e una parte di me aveva paura. Paura? Ero terrorizzato.

Aprii la cartellina.Lessi di un bambino “normo reagente”, che pian-

geva se incitato a muovere la gamba o il braccio destri. Lessi di una madre che si accorse del rigonfiamento

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sul cranio di suo figlio, e che lo segnalò al medico di famiglia. Lessi di una operazione a cervello aperto, e di un chirurgo che frugava dentro la mia scatola cranica. Il bisturi si infilò nel cervello – il mio cervel-lo – andando a incidere sull’emisfero sinistro. Aspi-rarono il sangue. Lessi la descrizione del tumore, la disposizione delle sue cellule. C’era anche il disegno del mio cranio, con le incisioni tracciate dal chirurgo. C’era la descrizione della massa tumorale asportata. EPENDIMOMA.

Sangue, cervella e tumore, un tumore che non pa-reva essere maligno. Non pareva che ci fosse segno di metastasi. Poi lessi di una rimozione della massa tu-morale avvenuta con successo. Lessi quanto sangue avevo perso durante l’intervento, e che al risveglio sembravo vigile, e che non sembravo mostrare segni di danni neurologici permanenti: «Il bambino respira regolarmente e reagisce agli stimoli».

Fu la cosa più potente, più devastante che avessi letto in tutta la mia vita. Mi mancò il fiato. Inspiravo ed espiravo come una caldaia rotta. Mi abbassai sul lavello per cercare di respirare, mentre piangevo in silenzio. Mi ricordo tutto benissimo.

Finito di leggere, vidi le stelle, come se avessi un principio di svenimento. È difficile dimenticarlo. Lo ricordo come se fosse successo ieri, e fa male solo ripensarci.

EPENDIMOMA, tumore benigno, solo raramen-te a esito letale. Il mio demonio.

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Un demonio che ne sapeva molto più di me, che sapeva chi ero veramente, e che in qualche modo sembrava quasi ridere di me.

Jeffry è quella cartellina.Sono stato fortunato.Devo essere stato fortunato per forza, perché me

lo dicono continuamente tutti.Il tumore avrebbe potuto uccidermi – anche se

è raro che un ependimoma arrivi a tanto – oppure avrebbe potuto darmi problemi di linguaggio, o di memoria, o fare di me un ritardato, o un paraplegi-co non autosufficiente, e quello sì che sarebbe stato terribile.

Adesso invece cammino in maniera asimmetrica solo quando sono brillo, o molto stanco. Questo gra-zie allo sport; dopo i diciotto anni sono diventato un tipo sportivo. Fino a ventun anni invece, quando qualcuno mi conosceva per la prima volta, mi chiede-va immancabilmente se mi ero fatto male a un piede. Lo facevano tutti, ma proprio tutti. La cosa finì tra i venti e i ventitré anni, grazie allo sport. Adesso è una vita che “la famosa domanda” non me la fa più nessuno.

Forse la mia adolescenza è stata un poco più dif-ficile di quella di altri, sì... I ragazzini sono crudeli a quell’età, e con me avevano qualche arma in più per esserlo; ma alla fine, sono orgoglioso della persona che sono diventato. E soprattutto ho trovato in tutto questo qualcosa che mi ha reso più forte.

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Perché per scrivere bisogna avere una visione che va oltre. Per scrivere bisogna sempre dire la verità e, credetemi, io adesso adoro la verità. Ho un vero culto della verità. La differenza tra il cinema e i libri è che al cinema l’eroe salva sempre la bella, mentre nei libri, invece, gli scrittori non ti raccontano MAI caz-zate. Per scrivere ci vogliono due palle così, e sicco-me adesso adoro la verità, quando il film della scrit-tura mi scorre davanti agli occhi, non ho mai paura, nemmeno quando diventa un cavallo imbizzarrito.

Quello che per il lettore è “duro da leggere” per lo scrittore è stato “tremendo da scrivere”... E se adesso sono forte, un po’ lo devo anche a ciò che sono stato.

E poi, grazie alla scrittura non penso così spesso alla mia vita. Quando scrivo penso solo a quello che incontro scrivendo perché, come vi ho detto, io non creo nulla. E quando non so nemmeno da dove pro-venga, lo adoro ancora di più. Quando incontro qual-cosa di veramente grande lo abbraccio con tutto me stesso, e lo ritengo più importante di qualunque altra cosa della mia vita. Mi lascio travolgere fino a scom-parire, e lascio che mi suoni come uno strumento.

Sono io a trovarmi nelle sue mani, non viceversa.È la scrittura così come la vivo io, e qualche volta

la amo perfino più di me stesso.E il fatto che abbia avuto un tumore, tanti anni fa,

ormai è acqua passata.

[email protected]

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Il ricordo di quella forte emozione si perpetua tut-tora nella mia mente. Accadde così: dapprima ci fu un bagliore accecante, poi apparve qualcuno o qualcosa che, varcato il muro di luce, si posò accanto a me e disse: «Percorreremo assieme la via del perdono».

Provai in un primo momento un timore indescri-vibile, ma poi mi bastarono quelle parole per passare subito in uno stato di pace sublime, di sicurezza, pro-prio come da piccoli ci si sente avvolti nel calore di un abbraccio materno...

Sono passati già nove mesi dalla mia ultima degen-za al CRO di Aviano...

L’esperienza della malattia oncologica ha rivoltato il mio essere come un guanto.

Oggi scrivo queste righe in assoluto silenzio. La mia mente è una casa appena svuotata, nella cui quie-te risuonano ancora gli echi di un passato prossimo e intenso.

Io e il mio primo MaestroEmanuele Montanucci

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Se accostassi la mia immagine attuale a quella pre-cedente la mia malattia, scorgerei due individui in-variati soltanto nell’aspetto. Quanto al resto tutto risulterebbe essere mutato, soprattutto lo sguardo: quello vecchio apparirebbe cupo e tormentato, gli occhi nuovi luccicherebbero di luce viva, come corpi celesti.

La malattia è stata per me purificazione, redenzio-ne, esorcizzazione. È stata una maestra che senza mai proferire parole, concetti o ideologie è stata in grado di svelare più di quanto siano in grado di rivelare mil-le insegnamenti. È stata uno sciamano, una cura, una terapia spirituale, la panacea che cercavo da tempo. È stata la rivoluzione, il cambiamento, la circostanza che mi ha rivelato certi segreti che ora ho voglia di identificare con la verità...

Accadde in novembre, nella città in cui sono nato, Catania, in un giorno di sole prorompente come quello di giugno. Il fatto che vi fosse un sole così non è di certo un dettaglio trascurabile: l’estate, ai miei occhi, ha un fascino “poetico”, e ne ha ancor di più se si insinua nei mesi che non le appartengono.

Era proprio di “poesia” che avevo bisogno quel giorno. Me ne resi conto nel pomeriggio quando, tut-to inebriato, parlai ai miei familiari della straordinaria visione: «Ho visto un angelo!» dissi loro, ma qualcu-no, forse mia madre, mi rispose piangendo: «Cosa?

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Un angelo? Oddio, no Emanuele, ti sbagli! Era il me-dico che ti riferiva il suo responso; e non ti parlava certo di miracoli, ma di un demone, il demone di tutti i mali!»

Capii, dunque, che se non fosse stato per quel sole la visita del medico si sarebbe rivelata soltanto una visita. E invece Iddio volle che vi fosse l’estate quel giorno, affinché ricevessi la notizia per mezzo di una visione.

La diagnosi della malattia mi turbò parecchio. Iniziai a pensare al dolore che tutto questo avrebbe causato ai miei cari. L’incertezza e la paura si fecero prepotentemente strada nella mia testa quando, pen-sando alla vibrazione del sole che cuoceva la terra, all’azzurro del cielo sbiadito, al coro regale delle ci-cale, capii che ciò che mi stava accadendo stava av-venendo per un preciso motivo e io ero chiamato ad affrontarlo con coraggio e fede. Sarebbe stata l’espe-rienza più terribile e al contempo meravigliosa della mia vita...

Come avrete già intuito il mio nome è Emanuele. Oggi ho ventiquattro anni, mentre allora, vale a dire quando mi fu diagnosticato il tumore, ne avevo ven-tidue.

Non è la prima volta che mi capita di parlare della mia malattia. È sempre un piacere per me farlo, forse perché credo di avere molto da dire in proposito. Mi spiego: avendo avuto con il mio male un approccio

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che mi ha tenuto un po’ più ai margini della sofferen-za, ho supposto che varrebbe la pena condividere la mia esperienza...

Ma sebbene rappresenti per me un’occasione di condivisione, talvolta intavolare questo discorso mi mette a disagio. Ho notato che certe volte la gen-te con cui ne parlo inizia a distogliere lo sguardo, o strizza gli occhi come a volermi fulminare, oppu-re mi fissa come se stesse parlando con un folle; e non mancano neanche quelli che iniziano a grattarsi il palmo della mano, quasi a volermi picchiare. Man mano ho avuto modo di capire che sono le mie pa-role a suscitare queste reazioni. Per me è diventato ormai talmente naturale concepire la malattia come un dono, come un angelo o come l’ebbrezza di una scintilla divina, che ho trascurato il particolare fon-damentale, che il mio punto di vista possa infastidire qualcuno. Effettivamente se mi metto nei panni di chi per esempio ha perso una persona cara per col-pa di un tumore, mi rendo conto che il mio parere può risultare sgradevole. Addirittura compatirei la sua voglia di prendermi a pugni! Ma d’altra parte ci tengo a precisare che anch’io ho assistito alla perdita di persone care per colpa del cancro; che anch’io ho amici malati che soffrono; che anch’io sono stato un malato oncologico...

Prima di essere forgiato nella fucina degli infermi oncologici condividevo l’idea del cancro visto come

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un demone, un mostro, una bestia feroce. Sono tut-tora d’accordo nel considerarlo una piaga che affligge l’intera umanità; so che non risparmia nessuno, e che se non ha pietà neppure per i bambini, figuriamoci se ne può avere per i giovani o per i padri e le madri di famiglia; però l’ho accettato e ho deciso di affron-tarlo con tutta la forza che avevo, senza dubitare mai che l’avrei sconfitto.

Con ciò non voglio dimostrare niente a nessuno. Al contrario, ho soltanto voglia di abbracciare tutti quelli che soffrono e trasmettere loro il mio calore. Con la condivisione della mia esperienza anelo a dare un contributo nella conversione della sofferenza dei malati in gloria e nel lavoro alla prevenzione dei tu-mori.

La prevenzione, fortunatamente, è già attiva nel campo della ricerca, negli ospedali, nei centri di vo-lontariato e nelle scuole. Ma la cosa che mi rattrista è che, nonostante questo, ancora c’è gente che non si prende cura di sé. Fare prevenzione vuol dire tu-telare il nostro prezioso diritto alla vita, dovremmo far nostra l’idea che vivere è il dono più grande che ci è stato fatto ed è nostro dovere proteggerlo... pa-radossalmente anche da noi stessi che molto spesso sembriamo inclini all’autodistruzione.

Per fare un banalissimo esempio, pur sapendo delle conseguenze devastanti del fumo, e nonostan-te le continue campagne “anti-tabacco”, la vendita dei tabacchi si mantiene sempre costante. È chiaro

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che c’è qualcosa che non va. Forse dovremmo avere il coraggio di “investire a lungo termine” sulla pre-venzione. Un noto scrittore siciliano diceva che biso-gnerebbe partire dai maestri elementari per debellare finalmente la mafia. E la stessa cosa credo la si possa dire anche per il cancro e per tutte le altre malattie. Con ciò non voglio dire che è necessario tormentare i bambini parlando di malattie e prevenzione. La cosa importante da fare è mantenere puro il loro cuore e indirizzarli verso una crescita priva di frustrazioni; emarginarli da tutte quelle idee folli che tormentano l’uomo. Ma perché questo investimento vada in por-to è necessario il notevole contributo dei genitori o di chi aspira a esserlo. Secondo me la prevenzione dovrebbe partire proprio dal concepimento del bam-bino. Se oggi siamo circondati da persone che odiano se stesse è perché sono state odiate o violentate dal loro concepimento alla loro gestazione, dalla loro na-scita alla loro infanzia. Questi bambini frustrati e ini-biti saranno quelli che formeranno una società mala-ta, una società fatta di persone che si suicidano, che avvelenano il proprio corpo, che si mettono in divisa valorizzando la guerra, che maltrattano i bambini, le donne, il prossimo e persino loro stesse... siamo cani che si mordono la coda!

Lo studio della psicogenealogia si occupa proprio di questo interessante aspetto della psicologia umana...

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Se ho accolto il cancro come un ospite gradito e non come una disgrazia ci sarà stato pure un motivo. Tuttora non so bene se l’ho fatto più per la cristiana convinzione che nulla ci perviene che non ci fosse mandato dal cielo, oppure perché mi sono affidato alla saggezza del mio corpo, il quale, senza godere di razionalità, l’aveva accolto e nutrito. Però, confesso di essere più incline all’idea di averlo accettato per-ché inconsciamente l’avevo desiderato credendo che un po’ di subbuglio nelle spiagge della mia solitudine avrebbe attratto in soccorso i miei cari e il mio cuore deserto si sarebbe finalmente ripopolato d’amore.

Era successo il giorno di san Martino. Mi ricor-do che quella notte in ospedale non sono riuscito a prendere sonno. Ho passato tutte le ore a riflettere sulla notizia che mi avevano dato. Mi riusciva difficile crederci...

Nel buio la stanza era avvolta da un silenzio irrea-le, come quando nevica in città... In quella usurpante assenza di rumori risuonavano forti i lamenti di do-lore dei miei familiari, della mia compagna e dei miei amici, che malgrado la loro distanza riuscivo a perce-pire appieno. Ero preoccupato per loro. Non volevo che annegassero nell’angoscia per qualcosa che ave-vo provocato io stesso. Loro questo non lo sapeva-no, non sapevano che mi ero procurato quell’aspirina appunto per guarire e continuare a stare ancora con loro. Non sapevano che se non l’avessi fatto, prima o

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poi, sarei morto sul serio. Ero preoccupato perché i loro occhi, soggiogati dal dolore, percepivano soltan-to l’aspetto esteriore del male, non il suo paradossale potere curativo. Ma come potevo pretendere altro da loro... Sono sicuro, debole come sono, che se mi fossi trovato al posto loro forse non sarei riuscito a essere altrettanto forte. Per questo li ammiro.

Quella notte ho meditato sull’istintiva reazione che mi aveva indotto a cercare consiglio nel mio stes-so corpo. Nel turbamento della notizia avevo cercato involontariamente di mettere a fuoco la mia malattia dal punto di vista del mio corpo, chiedendomi cosa farei se godessi della saggezza millenaria del mio corpo?

La risposta era letteralmente in me. Stando all’im-provviso calo di peso del mio corpo, ho appurato che il mio organismo aveva rinunciato alle sue sostanze nutritive per condividerle con l’intruso. Insomma, aveva accolto e ospitato lo straniero.

Quando ci si ammala di tumore usare l’intelletto è sempre conveniente. La mente ricorre alla calma e alla scienza e prepara il corpo all’attacco: in questo modo si avranno più probabilità di guarire. Ma siamo sicuri che la razionalità sia l’unica tattica vincente? E se fosse così, perché allora il nostro organismo, che obbedisce a un istinto cosmico, si astiene dal suo nu-trimento per essere caritatevole con gli stranieri che si insinuano presso di lui e per giunta senza chiedere permesso?

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A seguito di questa riflessione mi sono reso conto di due cose. Intanto che se volevo trionfare dovevo imitare il mio corpo, quindi dovevo allearmi con l’in-truso e non rigettarlo; seconda cosa, che la concezio-ne del bene e del male che vige nell’universo può non corrispondere a quella dell’uomo. È per questo che, secondo me, spesso ci ritroviamo a soffrire per cose che consideriamo assurde soverchierie divine. Quan-te volte malediciamo Dio per averci serbato qualcosa di orribile? Ma in funzione a quale parametro di valu-tazione qualcosa può essere giudicata orribile o me-ravigliosa? Perché la formazione di un tumore non dovrebbe elargire, per esempio, la stessa suggestione del processo evolutivo che ha mutato i primordiali organismi monocellulari in esseri pluricellulari?

Queste e molte altre sono state le riflessioni che mi hanno accompagnato fino all’indomani...

Il mattino seguente dovevo sottopormi a una biop-sia... Le cifre decrescenti contenute in quella data, 12 novembre 2010, suggerivano la necessità di ritornare sui propri passi e meditare bene sul da fare. Dopo lo scompiglio del giorno prima, sarebbe stato giudizio-so riordinare le idee e rassettare le emozioni. Sicché, quel venerdì, cominciai la mia giornata vagando per i corridoi del reparto di Malattie Infettive in cerca di spunti: il traffico dei pensieri non si attenuava dal mattino precedente...

Mentre il tonfo dei miei passi scandiva il ritmo di

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una marcia apatica e insalubre, ho avuto come l’im-pressione di non sentirmi recluso, nonostante fossi già rinchiuso dentro quell’ospedale da tredici giorni. Ma perché?, mi chiedevo stupito. Perché non mi viene vo-glia di uscire fuori e correre fra i campi? Che mi sta succeden-do?

Non avvertire in ospedale la nostalgia degli spazi aperti è alquanto turbante, specie per una persona che come me ama vivere l’aria aperta, adora il sole, e starebbe ore ad ascoltare la meravigliosa orchestra della natura. Meditando ho capito che stare rinchiuso là dentro o stare rinchiuso là fuori non faceva alcuna differenza. Mi spiego: in quel periodo la mia vita si stava aggrovigliando come un filo di seta abbando-nato al vento del deserto... Era dal conseguimento della maturità al liceo che lo splendore della mia vita viveva nell’ombra di gigantesche nubi grigie.

Tastare il campo degli adulti era stata per me un’e-sperienza traumatica. Con il tentativo di inserirmi nella società non ho fatto altro che raccogliere ton-nellate di fallimenti che finirono per spegnere l’en-tusiasmo di quell’età. Di colpo ho visto sgretolare davanti ai miei occhi tutte le cose in cui credevo; ho visto consumare tutto il mio essere come carta lascia-ta alle fiamme. Il mondo mi era diventato ostile.

Il male, pertanto, non poteva scegliere momen-to migliore per venire ad abitare in me: firmare un contratto con un forestiero famelico poteva rappre-sentare una valida alternativa a una vita ormai priva

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di significato. Talvolta penso come sarebbe stato se il male avesse scelto una circostanza meno propizia, per esempio un momento della vita in cui si crede che tutto stia proseguendo per il verso giusto: credo che sarebbe crudele vedersi strappare dalle mani una vita piena di successi a causa di una malattia...

Proviamo a immaginarcelo insieme. Immaginiamo di trovarci all’improvviso colpiti da un tumore men-tre, chessò io, stiamo costruendo col nostro partner la vita di domani, mentre stiamo conseguendo il pre-mio dell’opera più bella; mentre stiamo scrivendo il nostro romanzo, stiamo collocando il primo mattone del nostro futuro; mentre siamo assorti nel nostro lavoro, nella nostra quotidianità, o in quelle faccen-de che impegnano tutte le ore del giorno; ecco, im-maginiamoci di udire una notizia così sconvolgente in queste beate circostanze. Io credo che il suono di quelle parole ci piomberebbero addosso come un or-digno nucleare, oppure come quelle piogge di fuoco descritte nella Bibbia. Riuscite a concepire quanto sa-rebbe orribile? D’un tratto vedremmo tutte le cose, anche quelle che consideravamo indispensabili, im-prorogabili, imprescindibili, perdere lentamente di significato. Credo che a quel punto ci sentiremmo frastornati, impotenti, impauriti, senza scampo...

Ebbene, dal momento che la notizia del tumore mi fu data mentre mi sentivo già frastornato, impotente, impaurito e senza scampo, tutta questa tempesta di emozioni non ho potuto fare altro che immaginarla...

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Però poi mi fermo un attimo e penso: se ci am-malassimo all’improvviso mentre tutto sta andando dritto, saremmo comunque sicuri della nostra felici-tà? Siamo certi che quella contentezza non sia una maschera che nasconde un’altra personalità, vale a dire quella che è stata da sempre inibita? Nella nostra vita sta filando tutto liscio secondo la personalità che ci è stata imposta o secondo quella autentica? Siamo avvocati, registi, ingegneri, artisti perché vogliamo o perché hanno voluto? Siamo sicuri che la nostra car-riera sia la carriera che vogliamo o che il nostro lavo-ro sia il lavoro che cercavamo? Siamo sicuri di esserci fatti la famiglia che volevamo? Siamo sicuri di vivere la nostra vita e non la vita che gli altri hanno voluto che vivessimo?

A metà mattinata ancora non si era fatto vedere nessuno per l’intervento. Quindi ho smesso di cam-minare e sono ritornato in camera. Per fortuna l’altro letto era vuoto; non mi piace condividere la stanza con gli estranei...

La passeggiata contemplativa per i corridoi del re-parto non mi aveva aiutato a cogliere appieno il mes-saggio trasmessomi dalle cifre decrescenti del giorno. Pertanto ho staccato la spina all’intelletto e ho lascia-to che tutto si compisse naturalmente.

Non passarono che pochi minuti, ed ecco squillare il cellulare: «Non farti toccare da nessuno. Firma le dimissioni che sto passando a prenderti!»

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La voce di mio padre mi ha scosso, sono precipi-tato nel panico! Mi sono alzato di scatto dal letto e ho cominciato a percorrere la stanza da cima a fon-do senza alcuna conclusione. Sembravo un canarino impaurito dentro una gabbia strettissima. Con quelle parole mi sono reso conto, per la prima volta, della gravità della situazione.

Mentre io facevo della mia reclusione in ospedale l’occasione per filosofare sulla mia vita, sul perché della malattia, là fuori si stava mobilitando un eserci-to di persone soltanto per me.

Il mio forte e incipiente senso di colpa cominciò a inasprirsi. Pensavo a loro, i miei cari, disperati e in preda al panico; e a me, un re ignobile confinato nel suo sfarzoso castello, un pensatore insolente rinchiu-so nella sua torre d’avorio che gode della condizione di trovarsi in un delicato frangente.

Da quando il radiologo aveva sospettato di neo-plasia, la mia famiglia, e non solo, si era mobilitata per andare alla ricerca di quante più informazioni possibili al riguardo. La maggior parte dei pareri, so-prattutto esperti, puntavano sul trasferimento presso un centro specializzato, un istituto oncologico per fare la biopsia.

Quel venerdì sono uscito dopo quasi due settima-ne dall’ospedale... che sollievo però, forse mi sbaglia-vo sul fatto che stare ricoverato fosse la stessa cosa che stare all’aperto.

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Mi sono goduto il fine settimana a casa nell’attesa dell’imminente ricovero. Per fortuna il centro che si sarebbe dovuto occupare del mio caso ha velocizza-to le pratiche e il mercoledì della settimana entrante ero già ricoverato presso la IOM (Istituto Oncologi-co del Mediterraneo) di Viagrande, un comune a un paio di chilometri da casa mia.

La mattina del ricovero sono stato accompagna-to e vigilato dall’occhio fumante dell’Etna che, come sempre, era stato in grado di trasmettermi coraggio. Lo sguardo di quel meraviglioso vulcano, la sua im-mane presenza, sono imprescindibili per la mia esi-stenza, vitali quanto il fascino poetico dell’estate! E come se la sua unica mansione del giorno fosse solo quella, una volta entrato nel nuovo ospedale ho visto dalla finestra che l’immenso vulcano si era già dissol-to tra le nubi.

Avevo varcato la porta automatica dell’istituto in una tipica giornata autunnale: nuvole grigie in cielo e foglie brune danzanti sui prati.

Una volta dentro seppi sin da subito che quell’al-loggio, pullulante di professionisti e statue animate dai tristi profili, sarebbe stata per un po’ la mia casa. Gli occhi della gente, ricoverata e non, guardavano me, giovane infermo, con uno stupore e una com-passione pieni d’amore: mi sentivo coccolato dai loro sguardi. Di tanto in tanto qualcuno si avvicinava e mi sussurrava agli orecchi «Tieniti forte, piccolo» op-pure «Sii coraggioso, e tutto andrà per il meglio...»

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Quella gente che neppure conoscevo, mi parlava con un affetto e una sensibilità sorprendente. La loro te-nerezza mi ha fatto capire che, in fondo, il pianeta non era poi così tanto ostile con me...

Il mattino seguente, giovedì diciassette, lo ricordo ancora, mi sottoposero alla biopsia. Il sabato ritornai a casa nell’attesa dell’esito dell’esame istologico.

Passarono circa dieci giorni prima che le mani deli-cate e sottili della dottoressa dell’Anatomia Patologi-ca mi consegnassero il risultato dell’esame. Lo studio istologico aveva evidenziato la presenza di malattia neoplastica attiva: il radiologo dell’ospedale non si era sbagliato.

Mentre cominciavo la cura chemioterapica alla IOM, la notizia del mio tumore dilagava fra amici e parenti. Giunse persino a Milano, nella cui città vive-va, o forse ancora vive, un ex collega di mio padre di origine siciliana. Erano molto amici, e quando seppe di me gli disse di un certo centro oncologico ad Avia-no. Ne parlò così bene che mio padre, e in seguito anche tutta la mia famiglia, si convinse di trasferirmi in Friuli.

Le sue parole avevano messo il CRO di Aviano al centro di tutti gli istituti oncologici d’Italia e a pari li-vello di quelli d’Europa e del mondo. Lui, il collega di mio padre, aveva la mamma ricoverata laggiù e, come si sa, soprattutto in questi casi, l’unione fa la forza...

Quindi la mia famiglia ha iniziato il rito persuasivo

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che avrebbe dovuto avere la funzione di convincer-mi. Temendo che non mi sarei spostato facilmente dalla mia Sicilia, si erano preparati a una dura bat-taglia. Presto però poterono appurare la superfluità della loro arma filosofica: con grande sorpresa, mi hanno scoperto propenso a lasciare la mia terra per la mia salute. Mi sono fatto convincere quasi immedia-tamente da quella proposta, titubando soltanto una notte.

Arrivai a farmi somministrare soltanto una dose di chemioterapia al centro di Viagrande. Dopodiché, due giorni prima della vigilia di Natale del 2010, volai dritto ad Aviano.

Così cominciò la mia straordinaria avventura, in un luogo di straordinaria umanità: Aviano. Ma dove si trova Aviano?, mi chiedevo, mentre con lo spirito sprovveduto afferravo la maniglia della valigia e par-tivo verso la speranza.

Il mio approdo ai piedi delle Alpi Carniche ha cor-risposto con il consolidamento dell’incipiente rap-porto di amicizia che avevo stretto con la mia malat-tia. Sono arrivato al punto di parlarle.

Avevo identificato il mio tumore con qualcosa di superiore al mio pensiero. È entrato nella mia vita scompigliando tutti gli equilibri, o squilibri, umani che regolavano la mia quotidianità.

Davanti a un fenomeno così tanto potente si può provare paura oppure si può restare tanto affascinati

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da volere imparare il suo segreto. In questo caso, si assume automaticamente il ruolo di un discepolo as-setato di conoscenza.

Pensando erroneamente che il potere delle entità più potenti provenga da un’erudizione profonda, si inizia a intavolare un discorso famelico con il nuovo idolo, a fargli domande e a rovistare nella sacca del suo Sapere. Ed è più o meno la stessa cosa che ho fatto con il mio primo Maestro in assoluto, la malat-tia. Ho cercato di indagare nella speranza di racimo-lare delle risposte interessanti da sfruttare a favore della mia crescita spirituale. Così mi scoprivo sovente a formulare, con lo sguardo puntato diritto al petto, domande come chi sei? Cosa posso imparare da te? Qual è la tua missione? Perché hai scelto anche me?, oppure a por-gere richieste come insegnami il tuo potere! Fammi diven-tare potente come te!

Per tutta risposta la malattia ha continuato a fare indisturbata il suo corso: mentre io aspettavo che al-tre visioni soddisfacessero la mia richiesta, in cambio non ho ricevuto altro che noie: il patimento fisico per esempio, la nausea inferta dai farmaci chemiote-rapici, la perdita dei capelli, il disagio del soggiorno in una terra lontana; quindi la nostalgia di casa, della mia famiglia...

Insomma, come risposta, soltanto il silenzio to-tale: niente parole, né sogni, né tantomeno visioni simili a quella dell’11 novembre, dove almeno c’era qualcuno o qualcosa che mi parlava.

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Era Natale, dunque, e natale sarebbe divenuta quella nuova città per me, Aviano, dalla quale due anni più tardi sarei risorto in un nuovo essere.

Mentre fuori il mondo era intento ad addobbare le vie delle città con lampadine, festoni e fantocci barbuti, io, nel silenzio della sofferenza, stimolavo la saggezza di questa entità percepibile soltanto dai sin-tomi e dagli esiti degli esami.

Il fatto curioso è che persino il suo silenzio mi affascinava: tale atteggiamento rendeva il mio Mae-stro, la malattia appunto, degno dell’appellativo che gli avevo attribuito. Ma presto questo suo nobile ri-serbo finì per farmi infuriare: Accidenti, sono un malato oncologico, aiutami, no? Non vedi che sto cercando di trarre un insegnamento profondo da te, vienimi incontro, piuttosto che restare zitto con quel tuo fastidioso atteggiamento di superio-rità! Cominciai a perdere le staffe! Sapevo bene che il cammino che volevo intraprendere era impossibi-le da percorrere nella solitudine. Sentivo la necessità di una guida spirituale, di un maestro che fosse di-sposto ad accompagnarmi fino alla luce. Per di più non potevo contare sull’appoggio di una presenza umana, e capite bene il perché: ero convinto che mi sarei imbattuto in personalità che non volevano ac-cettare la natura divina della malattia, soprattutto se si fosse trattato di parenti o amici. Immagino che mi avrebbero silenziosamente aggredito, che si sarebbe-ro offesi, e che quindi non si sarebbero impegnati a prendermi per mano e accompagnarmi in questa via

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sconosciuta. E io, debole com’ero, sia nel corpo che nello spirito, non avevo bisogno di aggressività, ma soltanto di comprensione... e non avevo neppure bi-sogno dello stupido atteggiamento del mio Maestro, perbacco!

L’astio nei riguardi della mia infermità proseguì fino al nuovo anno, esattamente fino al 10 gennaio. Questa data mi aveva suggerito di smetterla con il mio risentimento e iniziare ad acquisire una certa sta-bilità morale, più coscienza. 10.01.11: la somma del giorno e del mese dà come risultato undici, la cifra dell’anno: era proprio questa consonanza numerica che avevo interpretato come segno di stabilità.

Quel lunedì mi trovavo a casa, giù in Sicilia. Tra una somministrazione di farmaci chemioterapici e l’altra, i medici del CRO mi dimettevano concedendomi la nobilissima libertà di ritornare a Catania nell’attesa della prossima seduta. In quei dieci giorni mi capi-tava, più volentieri nelle giornate di sole, di uscire a ossigenare il mio corpo. Quel giorno mi era venuto a prendere mio padre a casa. Non ricordo esattamente in quale luogo dovevamo andare, forse in farmacia, ma la cosa che non posso dimenticare è che, senza quasi accorgermene, mi sono ritrovato nell’abitacolo dell’auto insieme a mia madre e mio padre.

Prima di partire da casa avevo chiesto a mia madre se sarebbe stata disposta a venire con noi. Alla mia richiesta ella ha reagito rispondendo un bel sì.

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Molti anni or sono che vivo a casa soltanto con uno dei miei genitori, e quel giorno il fatto di esser-meli ritrovati insieme sembrò quasi una magia. È stato per me un incantato ritorno nel meraviglioso universo della mia lontana e serena infanzia...

Ora, se non fosse stato per la mia malattia, po-tevo soltanto sognarmelo che quei due mi avrebbero concesso un onore così grande. Mi vien voglia di ri-provarci adesso che, fortunatamente, sono guarito e vedere cosa mi rispondono...

Fu proprio questa mia grande e altrimenti impen-sabile conquista a stabilire la fine del mio astio nei riguardi del mio Maestro. Con questo episodio mi ero reso conto che la mia malattia non agiva esplicita-mente, bensì di soppiatto. Il suo era un linguaggio si-billino che io dovevo decodificare per ricevere i suoi insegnamenti... In momenti come questi ci si rende conto di quanto si è insensibili e miopi al cospetto dei grandi miracoli del giorno.

Il silenzio del mio Maestro aveva partorito più mi-racoli di quanto riescono a fare mille parole mistiche. Ma in fondo, a cosa servono soltanto le parole? È più efficace un silenzio portentoso o una frivola poesia? Ritornando ad apprezzare il potere straordinario del mio Maestro mi sono accorto che quello di riavvici-nare i miei genitori – anche se mio padre e mia madre si sono sottoposti al gioco più per compassione che per volere – non era stato il suo primo miracolo.

Aveva cominciato a compierli già dall’anno pri-

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ma, per esempio quando ero ricoverato alla IOM. La misericordia che si leggeva nello sguardo di quella gente nella hall mi aveva già fatto sentire accettato nuovamente dal mondo. Era da anni che mi corrode-va dentro la sensazione di essere un intruso in questo pianeta, in questo universo. Ovunque andavo avevo l’impressione di essere respinto come fossi un cane randagio. Mentre questo miracolo, opera della mia malattia, mi ha illuminato, e mi ha insegnato che non sono venuto al mondo ma, come gli altri esseri uma-ni, sono stato chiamato dal mondo, il che è differente.

Pensando alle parole della straordinaria visione di novembre sono giunto alla conclusione che tutte le malattie sono provocate appunto dal fatto che l’uo-mo non sa e non vuole perdonare. Percorreremo assieme la via del perdono, vale a dire ti aiuterò affinché tu possa per-donare, perché il perdono è l’unica medicina per una cura defi-nitiva. Ma purtroppo non sempre riesce facile farlo...

A proposito della visione, già a gennaio ho po-tuto appurare che la malattia stava mantenendo la sua promessa: mi stava aiutando a percorrere la via del perdono. Nel giro di tre mesi mi aveva già insegnato che il mondo e l’universo non possono essere ostili con l’uomo, perché l’essere umano è frutto di una volontà cosmica. Nessuno di noi è una fatalità o un imprevisto, poiché tutti siamo inscritti in un preciso progetto cosmico, anche gli assassini. La voce di que-sto insegnamento ha avuto i suoi echi positivi: per

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prima cosa mi ha indotto ad avere più stima di me stesso, in quanto essere chiamato dal mondo; poi mi ha preparato a rispettare gli altri e a perdonare le loro debolezze; e infine mi ha insegnato a non fare più del mondo uno schermo su cui proiettare la mia pellico-la, bensì una fonte di energia positiva.

A maggio mi ero sottoposto già a quattro cicli di chemioterapia. Ogni ciclo comprendeva due sedute, una a distanza di ogni quindici giorni. In teoria, fa-cendo qualche calcolo rapido, dovevo essere già al quinto ciclo, ma considerando che il mio organismo talvolta richiedeva qualche giorno in più per smaltire la tossicità epatica, mi trovavo indietro di un mese.

Erano passati dunque cinque mesi e mi ero sot-toposto soltanto a quattro sedute. Ho potuto notare che questi numeri non erano casuali: sommando il numero dei cicli a quello dei mesi viene fuori il nu-mero nove. Il nove è descritto da Alejandro Jodo-rowsky, un artista poliedrico cileno nonché studioso di Tarocchi, come il numero della crisi che stabilisce la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo. Io la tro-vo interessante questa simbologia. Pure nel Vangelo il numero nove ha lo stesso valore simbolico: Gesù viene crocifisso alle nove di mattina e, senza ombra di dubbio, la crocifissione rappresenta la fase parossi-stica della sua vita, perché appunto lo condurrà verso una nuova fase: la resurrezione.

Il mese di maggio sarà il mese della crisi della mia

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malattia, il mese che stabilirà la fine di una fase e l’i-nizio di un’altra. A dimostrazione di questo cambia-mento, l’esito dell’esame tomografico eseguito il 10 maggio, il giorno di sant’Alfio (Alfio è il mio secondo nome) che evidenzierà persistenza di malattia. Mi ero sottoposto a questo esame perché alla fine di ogni due cicli era previsto il monitoraggio della malattia. La nobile mansione spettava all’occhio perlustrante della PET (l’acronimo di questa indagine) che si ese-gue all’interno di una “caverna” asettica alla quale si accede a bordo di una branda mobile. Era la terza volta che facevo la PET: la prima risaliva all’esordio della malattia, precedente alla cura chemioterapica; la seconda invece alla fine dei primi due cicli.

Mentre il mio oncologo mi dava la notizia io ten-tavo invano di trattenere il peso del mondo che mi crollava addosso. Credevo di essere arrivato già a buon punto con le cure, ma la chemioterapia non aveva avuto la forza per affrontare da sola la potenza del mio Maestro.

Vi chiederete, perché mai desiderare la morte del proprio maestro? E io vi rispondo che per quanto si possa accettare la propria malattia, è dura per un malato oncologico che crede di volgere al termine delle cure sentirsi dire dal medico: «La terapia non ha funzionato del tutto. C’è ancora presenza di malattia attiva, e quindi dobbiamo cambiare terapia e dosag-gio». A quel punto si teme di non essere fisicamente e psicologicamente pronti a ricominciare daccapo. Si

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capisce di essere veramente stanchi per riaffrontare il tutto. Tuttavia è comprensibile che cinque mesi pos-sano apparire veramente pochi rispetto agli standard di tempo richiesti per la guarigione da questo tipo di malattie. Così mi sono rimboccato le maniche, ho rin-vigorito il mio spirito e mi sono preparato a ripartire.

Il nuovo trattamento chemioterapico rappresente-rà l’inizio del nuovo ciclo. L’ho iniziato nella bella sta-gione, e per bella stagione intendo l’estate. Come ho già alluso in precedenza per me l’estate è la stagione propizia per affrontare qualsiasi cosa. Già dalle prime somministrazioni ho rivelato alcune differenze tra questa e la precedente terapia. Oltre alla durata delle sedute, quattro giorni anziché cinque ore, gli effetti collaterali dei farmaci erano molto più consistenti. È stata in questa seconda fase che posso dire di aver veramente assaggiato l’amaro sapore della chemiote-rapia. La debilitazione motoria e fisica, l’inappetenza determinata dalla nausea, il vomito stimolato dal forte odore del cloro contenuto nel raccoglitore delle uri-ne, le dolorose ulcere del cavo orale che alteravano il gusto a tal punto da avvertire insipido persino un cuc-chiaio di sale, il malumore generato dal malessere fisi-co, il vomito rimesso in pubblico all’aeroporto, hanno caratterizzato i quattro mesi della nuova terapia.

Il nuovo trattamento sarebbe servito a ridurre la massa della malattia e a favorire la mobilitazione del-le cellule staminali che sarebbero state poi raccolte e

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congelate in previsione dell’autotrapianto del midollo.

In quell’estate del 2011, mentre cercavo di tratte-nere i conati di vomito, mi sono dedicato a riflettere sul numero nove. Già le stesse cifre contenute nell’an-no 2011 potrebbero fare affiorare questo numero: se sottraessimo all’undici il due, avremmo come risulta-to il nove. Questo numero “parossistico” sembra che mi abbia accompagnato sin dagli esordi della malattia: il tumore mi fu diagnosticato nel mese di novembre che, secondo l’anno latino (che iniziava da Martius, Marzo), corrisponde al nono mese. Esattamente due anni più tardi, il 12 novembre, sarò fuori dall’isola-mento dopo l’autotrapianto del midollo: quindi di nuovo al nono mese. Nel nostro calendario invece il mese di novembre è indicato dal numero undici. Se a questa cifra volessimo sottrarre il numero degli anni che ho impiegato per debellare la malattia, ci ritrove-remmo a fare la stessa operazione fatta con le cifre dell’anno 2011: undici, numero del mese, meno due, numero degli anni, uguale: nove.

Mentre fuori dalle finestre echeggiava il coro delle cicale, insieme a queste complesse riflessioni mate-matiche mi domandavo se stessi delirando oppure se la ripetizione del numero nove fosse un fatto reale. In effetti tutto ciò può sembrare una forzatura, ma se un imbroglio è in grado di trasformare la mono-tonia della realtà in qualcosa di magico, allora sono

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del parere che vale la pena affidarsi all’inganno. Oggi, agosto 2012, a distanza di nove mesi (ecco, senza far-lo apposta riappare il numero nove), mi rendo conto che se è vero come dice il tarologo cileno, cioè che questo numero segna nei tarocchi la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo, mi viene da dubitare sul fatto che si è trattato soltanto di un imbroglio sacro o di una coincidenza: come fare a meno di identificare la malattia con il numero nove? Non è forse una fase parossistica della vita di un uomo che cambia total-mente il suo essere?

Ma il mio Maestro non si è limitato soltanto a farsi vivo nel giorno giusto del giusto mese e del giusto anno. Ho cercato di dimostrare, con alcuni esempi, che la mia malattia ha risolto tanti di quei problemi che mi avevano spinto a creare, inconsapevolmente, la mia stessa infermità.

La straordinaria esperienza della malattia mi ha fatto luce su tante cose. Per esempio ho capito che alla base di ogni infermità, oltre agli effetti dell’in-quinamento, dell’alimentazione malsana, dello stile di vita frenetico, vi sia appunto un malessere spirituale, una possessione demoniaca che la “Dea Infermità” intende esorcizzare. E siccome ognuno di noi, volere o disvolere, si identifica con quello che crede di es-sere e con ciò che gli appartiene, compresi i dolori e le angosce, al momento in cui arriva un angelo che ci dice percorreremo assieme la via del perdono (vale a dire

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liberati attraverso il perdono del peso che la famiglia, la società, la storia, ti hanno caricato addosso senza volerlo), percepia-mo subito in quell’entità un’energia negativa, demo-niaca, qualcosa che intende smentire il nostro stesso essere. Ma del resto chi sarebbe disposto a seppellire la propria identità per poi rinascere e ricrearne un’al-tra autentica? Ho capito, dunque, che la malattia fa paura perché porta a galla quanto noi invece abbia-mo cercato di reprimere per tutta la vita. E deposi-tare nel fondo del pozzo del nostro cuore migliaia di frammenti immondi comporta un peso eccessivo che a un certo punto il nostro stesso corpo non può più sopportare. Quindi reagisce, e attraverso il volto della malattia ci dice liberati! Purificati, perché il peso del tuo cuore è inutile quanto nocivo. Ci rivela che il cuore, al contrario della mente, è una parte di noi che deve es-sere piena, deve traboccare sì, ma non di sentimenti immondi bensì di amore.

Accettando questa visione ho iniziato a percepire il malato, e quindi a percepire anche me stesso, non come una vittima bensì come una persona che si è appena immessa in una fase di transizione, che sta assistendo a una rivoluzione dentro di sé, a un cam-biamento radicale che sta per avviarsi in un nuovo ciclo che se accolto nel suo cuore gli potrà assicurare la guarigione definitiva dello spirito.

Qualche mese prima che la PET mi rivelasse l’osti-nazione della mia malattia, mi ero tristemente vantato

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sul “Quaderno dei pensieri” che l’Area Giovani del CRO mette a disposizione per i giovani pazienti di essere mesto per il fatto che la mia malattia stava vol-gendo al termine. Se la memoria non mi inganna ave-vo espresso questo mio umore a metà del terzo ciclo, scrivendo più o meno queste parole: Se guarisco non potrò più dedicarmi a cose belle come raccogliere dalla strada una pigna caduta dall’albero per evitarle una triste sorte sotto le ruote di un’automobile... Cosa avevo voluto dire con quelle parole: avevo voluto alludere alla condizione privilegiata del malato, una condizione che sarebbe inconcepibile per chi gode di buona salute. Una per-sona malata, che si può astenere dalla frenesia im-posta dalla società, ha infatti più tempo da dedicare a queste cose più semplici e genuine. Può compiere gesti che durante la vita non ha mai fatto perché ri-tenuti di gran lunga secondari rispetto a quegli oneri prioritari come può essere ad esempio l’accumulo di denaro. Quindi i gemiti nostalgici che avevo trascritto su quelle pagine non erano segnali di una follia immi-nente. Il fatto di essermi sentito triste perché credevo mi stessi avviando verso la guarigione, non era altro che un campanello d’allarme alla società contempo-ranea, perché è assurdo che bisogna ammalarsi per smetterla di condurre una vita frenetica e dedicarsi a un tramonto, a fare una carezza sul volto triste di un mendicante, ad aiutare un pedone anziano o, perché no, a salvare una pigna dalla strada...

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E quell’estate pensando a quanto avevo scritto sul quaderno qualche mese prima, ho potuto ingoiare, addirittura mentre cercavo di trattenere il vomito, il duro colpo infertomi dall’esito positivo della PET. Ho capito che se la terapia non era riuscita a debella-re il mio tumore era perché io stesso non ero ancora pronto per guarire. Evidentemente era troppo presto per me. Non avevo ancora intenzione di fare a meno degli insegnamenti del mio Maestro; sentivo di avere ancora molto da imparare da lui...

E la malattia, la mia guida spirituale, comprenden-do questo mio bisogno mi ha concesso ancora un po’ del suo tempo...

Che il mio spirito aveva ancora bisogno di qual-che correzione dal mio Maestro, lo attestava proprio l’umore che avevo descritto sul quaderno. Se ancora non volevo guarire per evitare di tornare alla vita che mi ero lasciato alle spalle, e quindi per continuare a raccogliere pigne dalla strada, allora significa che fino a quel momento non avevo afferrato il messaggio della malattia. La malattia ci insegna che dopo la guarigio-ne è necessario tirare su l’ancora e ripartire; ma se ci avviamo nella stessa direzione di prima allora si è trattata di una sosta inutile, quella fatta in mezzo all’oceano della nostra vita. Nei cinque mesi successi-vi imparerò proprio questo: Se mi sono fermato l’ho fatto perché queste acque mi stavano conducendo dritto al naufragio. Vorrà dire che una volta placata la tempesta, dovrò cercare un altro mare!

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La guarigione sta appunto nell’evitare assoluta-mente di riprendere lo stesso cammino. Se non si ha il coraggio di fare questo, allora non si può iniziare la ricerca di vie più adatte al nostro nuovo essere. Si tratterebbe di entrare come in un circolo vizioso, perché accade più o meno così: quando l’ultimo esa-me non evidenzia più la presenza di malattia attiva, si entra in uno stato di contentezza ineffabile, di libe-razione, di ebbrezza. Con il passare del tempo però, scoprendosi finalmente fuori dalla congregazione dei dannati, si cede alla tentazione di riprendere le vec-chie abitudini. Quindi ci si immerge nuovamente nel vecchio lavoro caustico, si ripiomba nel girone vizio-so dell’alimentazione malsana, dell’alcol, del fumo, si torna a mascherare la propria identità per un più faci-le inserimento nei meccanismi depravati della socie-tà. Insomma si ritorna nello stesso ambiente mefitico che ci aveva condotti dritti in ospedale. Ecco perché secondo me chi consegue questo tipo di guarigione è come un cane che si morde la coda, perché significa che la malattia non gli è servita a niente, è stata soffe-renza inutile, sprecata.

Se l’infermo non si guadagna le chiavi del cam-biamento l’esperienza della malattia non lo condurrà verso la guarigione definitiva.

A mio vedere, quando ci ammaliamo è inutile che ci affidiamo passivamente alla professionalità dei me-dici. Lo specialista può sopprimere i sintomi, debella-

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re la malattia, consegnarci nelle mani i mezzi per una guarigione apparente. Ma per annientare definitivamente la causa della malattia ed evitare dunque la ricompar-sa di altri sintomi suppongo sia necessario collabora-re con il lavoro del medico.

“Metterci in malattia” non significa solo conce-derci un po’ di riposo dal nostro lavoro spirituale. Semmai, al contrario, la malattia dovrebbe servirci a staccare la spina dalla routine quotidiana e dedicar-ci letteralmente anima e corpo al lavoro spirituale. Se non “ci ammalassimo con questo intento” le cure che ci proporrebbe la scienza risulterebbero ineffi-caci... Anzi, mi correggo: risulterebbero efficaci, ma non definitive. La cura definitiva non la si trova negli ospedali o al mercato; la Guarigione viene diretta-mente dal cuore; pertanto, stando allo stato attuale della coscienza umana, credo si possano contare sulle dita le persone destinate a raggiungerla.

Io, per esempio, mi sono ristabilito, ma rientro tra quelli che non ci sono riusciti: il mio livello di coscienza è ancora molto basso. Finora mi sono li-mitato a elaborare gli insegnamenti elargitimi dalla malattia, tutto qui. Anche se ho interpretato la mani-festazione del male come fosse un sogno e ho con-templato e accettato i messaggi che ne ho ricavato, non significa che sia giunto allo splendore della mia coscienza e quindi alla guarigione. Per conseguire la guarigione definitiva, secondo me, bisognerebbe andare oltre l’interpretazione.

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Sarebbe necessario passare subito a perdonare le cause del male, vale a dire la storia, la società, la no-stra famiglia, così da debellare i sentimenti malati; una volta ripulito, il nostro cuore sarà pronto a farci morire. Attenzione: per “morire” non intendo ficcar-ci dentro una bara e imputridire fino a diventare un mucchio di ossa, no. Per morire, intendo seppellire, una volta per tutte, il nostro vecchio essere che si è formato all’insegna della frustrazione, dell’inibizione, della recitazione. Per morire, intendo gettare via il co-stume che ci hanno obbligato a indossare, e rivendi-care la nostra vera personalità che ci è stata usurpata dalla storia, dalla società, dalla nostra famiglia. Se ne sono impossessati, l’hanno profanata e l’hanno mes-sa al loro servizio.

Questa enorme carenza ha alimentato in noi un sentimento vivo che però resta latente: la rivendica-zione. Quando finalmente decidiamo di riottenere la purezza primordiale del nostro vero essere, vediamo la malattia venirci incontro e assisterci nella nostra mis-sione. Alla fine ci farà riottenere la nostra vera per-sonalità. Dopodiché spetterà a noi se preservarne la purezza, oppure se affidarla di nuovo nelle mani dei nostri usurpatori.

Mi reputo tra quelli che non sono riusciti a conse-guire la guarigione definitiva perché, malgrado fossi riu-scito a percepire la mia carenza, a farmi aiutare dalla malattia e a riottenere quanto mi avevano sottratto, ora non riesco a trovare il coraggio di preservarne

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la purezza. Custodire intatta la nostra personalità si-gnificherebbe scendere a molteplici compromessi, e io, perdonate la mia codardia, non mi sento ancora pronto per farlo...

Tuttavia, anche se a un certo punto ho abbando-nato la guida del mio Maestro (anche se, spero, non definitivamente), mi rallegro di avere ricevuto il suo prezioso insegnamento. Quanto meno ho imparato a ricercare la fonte delle nostre malattie, che risie-de sempre, almeno così ho potuto intendere, nella desolazione di un cuore sofferente; ho potuto spe-rimentare questa verità attraverso i miracoli che ha compiuto per me, durante il periodo della malattia.

Mi ha fornito delle risposte chiare, agendo diret-tamente nella mia vita piuttosto che ricorrere alla vacuità delle parole. Persino quest’ultimo aspetto è stato un insegnamento: smettere di proferire parole e iniziare ad agire! L’impronta non si lascia dicendo di volere lasciare un’impronta, ma imprimendo il passo nella terra.

Se mi permetto di affermare che la fonte delle nostre malattie risiede sempre nella desolazione di un cuore sofferente è perché la malattia ha risolto in me condizioni psi-cologiche che prima mi corrodevano l’anima. È stato un po’ come se il tumore, vedendomi abbandonato a me stesso, mi avesse scrollato all’improvviso e, con voce amichevole e dolce, mi avesse detto: Sono la tua divinità interiore e ho assunto il volto della malattia perché,

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come sai, è attraverso l’intossicazione che si impara a rego-lare l’alimentazione... Ti starai chiedendo il perché di tutto questo e io ti rispondo con ulteriori domande: quante volte ti sei chiesto come farti accettare dal mondo? Quante volte hai fallito e per questo ti sei etichettato perdente? Quante volte hai desiderato che la tua famiglia ti accettasse per quello che sei e non per quello che avrebbe voluto che fossi? Quante volte ti hanno rimproverato di essere un’inutilità, un bambino senza speranze, un intruso che si appropria dell’amore degli altri; di essere una persona che ha molto più di quanto merita... di aspirare a cose inutili come l’arte, la contemplazione, l’amo-re per la natura? Quante volte ti hanno consigliato, o meglio preteso, di imboccare strade più solide e meno chimeriche per il tuo futuro? Quante volte hai sussurrato aiuto e nessuno ha mai percepito il tuo grido? Quanti non hanno creduto in te, nelle tue potenzialità e ti hanno visto fallire e per questo godere del fatto di essere degli impeccabili profeti? Quante volte ti ho visto addormentare nella posizione di un defunto per provare a immaginare quante persone avrebbero vegliato la tua morte, se tante, poche, o forse nessuna? Quante volte ti sei chiesto: Sono in grado di affrontare il dolore? Sono abbastanza ma-turo per questo? E se è così perché mai nessuno ha voluto lasciarmi la mano per attraversare sulle strisce pedonali della vita? Perché non mi hanno lasciato spiccare il volo verso il sole dei miei sogni? Perché mi hanno tenuto rinchiuso nella gabbia dell’iperprotettività? Perché non mi hanno creduto in grado di camminare da solo senza la stampella dei genitori? Perché mi credono incapace, inutile? Perché? Ebbene, io ti dico: Perdona, e si compierà il tuo miracolo! Non serve a niente nutrire ran-

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core nei riguardi di chi ti ha fatto patire delle carenze, poiché questi non sono colpevoli. Chi ti ha fatto soffrire è gente che ha sofferto, pertanto la colpa non è di nessuno, non risiede in nessuno di voi esseri umani. La colpa è un demone che vi siete inventati. Gli errori che commettete sono gli errori di altri che peccano per gli errori dei loro avi. La sola responsabilità che vi dovete caricare addosso è quella di perdonare e porre fine a questo circolo vizioso. Così solo smetterò di manifestarmi a voi sotto forma di malattia. Se terrete lindo il vostro cuore mai più alcun male potrà contagiarvi e io potrò mostrarmi in tutta la mia bellezza! Compiate dunque il vostro miracolo così da porre fine a questa piaga che vi accompagna da secoli...

Stando all’insegnamento del mio Maestro, ho ca-pito che sono stato io stesso a crearmi una malattia, affinché fossero finalmente colmate le carenze che avevano desertificato il mio cuore. Dal momento che riesce difficile rinfacciare alle persone che amiamo il fatto di non essere stati in grado di amarci, cerchiamo di domare la ferocia di questo rancore. Ma la voglia di liberarlo è ancora più forte, quindi si va alla ricerca di qualcosa o qualcuno che lo faccia al nostro posto.

Le azioni delle persone che ci hanno fatto del male, qualunque fosse la loro età, sono innocenti come quelle di un bambino. Pertanto è difficile rim-proverare la dolcezza della loro innocenza: sarebbe come riprendere un lattante per la sua sventatezza... il che è sciocco! Inoltre chi sono io per condannare? Anche se ho riconosciuto una “colpa” a qualcuno, chi sono io per scagliare la prima pietra?

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Il male, dunque, è venuto ad abitare in me perché io stesso l’ho convocato. Lo so, è stato un gesto igno-bile, ma volevo che qualcuno lanciasse al posto mio il grido della mia desolazione. Ero, e forse lo sono ancora, fin troppo chiuso nel mio orgoglio per gri-dare aiuto al mondo, troppo sensibile per addossare all’altro la colpa della mia desolazione.

Così ho preferito affidare il mio grido di dolore a un intermediario. E sarà proprio la voce della malat-tia a parlare al mondo della mia desolazione, quel no-vembre del 2010, a dire, con quella sua voce spaven-tosa, con quel suo volto orribile e con il suo potere di riuscire a imporsi su tutte le leggi, quanto io non ero riuscito a fare invece con la mia di voce, con il mio di volto, sopraffatto dalla mia debolezza...

Basta! ha gridato in un ruggito leonino quella mat-tina di autunno. La potenza della sua voce fu così forte che nessuno poté fare a meno di sentirla.

Una volta assicuratasi l’attenzione di tutta l’uma-nità, la malattia prese le mie difese dicendo: Il mio ragazzo non è un perdente, e neppure un’inutilità. Se credete di prendervi ancora gioco di lui, vi sbagliate di grosso! Ora ci sono io a difenderlo, e finché mi vorrà al suo fianco, nessuno oserà offenderlo, ferirlo, schernirlo... Io ho intenzione di rimanere qui con lui fino a quando non sarò sicura che abbia ricevuto tutto quello che non ha avuto da voi. Orsù, andate via, sparite per adesso! Sciò sciò! Lasciatelo in pace, e tacete, almeno fino a quando ci sarò io qui a vegliare il suo cuore...

Davanti al potere di quella straordinaria entità mi

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sono sentito, per la prima volta nella vita, protetto e difeso da qualcuno... Ecco perché ho identificato subito la mia malattia con quello che sarebbe stato poi il mio Maestro, perché è stata la prima a porsi tra me e quel branco di lupi che ha sempre desiderato sbranarmi.

Che bello essere finalmente protetti: io, piccolo e inerme, al riparo di un paladino gigante, potente e saggio, che mentre mi allontana dal pericolo dimena le mani per dare la caccia a quei cani voraci: Andate via! gridava scuotendo con la sua voce la terra, nutri-tevi piuttosto del vostro cuore per placare la vostra fame, via da qui!

Non appena convocato il male si è messo subito al servizio del mio spirito. Grazie alla sua venuta ho potuto acquistare il coraggio necessario ad attuare dentro di me un mutamento radicale.

Quando ho visto l’afflizione nel volto di coloro che credevo non mi amassero, ho smesso di provare rancore. L’idea che il male potesse portarmi via da loro li aveva distrutti. Li ho visti piangere, e per me quel pianto è stata la dimostrazione tangibile del loro amore. Ho smesso di provare rancore perché sono sicuro che se davvero non mi avessero amato non avrebbero sofferto in quel modo... Perché condan-narli? E chi mi dice che non sia stato io a farli soffrire chiedendo loro un amore che non potevano darmi?

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Quando il male ha tirato fuori il mio spirito batta-gliero ho riacquistato la stima di me stesso. La forza del guerriero sta nella perseveranza, nella potenza, nel coraggio, ma anche nella strategia, nel saper rico-noscere che talvolta non si può vincere la battaglia se ci si ostina a lottare da soli; che a volte è necessario escogitare una tattica astuta, inconcepibile, che può addirittura spingere a una coalizione col nemico. Si può ricorrere a tutte le armi possibili immaginabi-li, la seduzione, l’inganno, la persuasione, affinché si possa ritorcere contro l’energia all’avversario. E con la stessa umiltà strategica del guerriero, eccomi di colpo alleato con il mio tumore e aggiudicarmi così la vittoria. Trionfante, potei finalmente dimostrare a me stesso di non essere in fondo né un perdente, né tantomeno un’inutilità.

I miei familiari, per esempio, hanno sempre desi-derato che fossi un tantino più responsabile, come dire, più adulto, più autosufficiente, più concreto. Il fatto è che di rado mi hanno dato carta bianca. Infatti, se da un lato esigevano che spiccassi il volo, dall’altro mi tenevano rinchiuso nella gabbia dell’iperprottetti-vità. Ma poi è arrivato il tumore che, al contrario di loro, mi ha dato l’occasione di mettermi alla prova. Il tumore, in fin dei conti, è una belva da domare in so-litudine. Per quanto gli altri ti possano stare vicino, ti possano consolare e accompagnare nel tuo calvario, se io, malato oncologico, mi intestardisco pensando di non farcela, non ce la farò. Ebbene, facendocela

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ho dimostrato a me stesso di essere maturo. Sin dap-principio, ho cercato di assicurare alla mia famiglia di potersene stare tranquillamente in tribuna e assiste-re da lontano alla mia lotta contro il toro. Ero sicu-ro, con quello spirito da matador che mi ritrovavo, di poter affrontare, con a disposizione il solo mantello rosso, la furia dell’animale.

Quando ho capito che grazie alla contemplazione e alla pace sarei riuscito a estrarre molti insegnamen-ti dalla mia malattia, ho attribuito il giusto valore al tempo che ho dedicato, e continuo a dedicare, all’ar-te, alla meditazione, all’amore per la natura... Non ho mai avuto il coraggio di definirmi “pensatore”. Sin da piccoli ci insegnano che è necessario aspirare a cose più concrete perché un uomo possa eccellere o sopravvivere. Però sono quasi sicuro che se aves-si ascoltato tutti quelli che mi avevano consigliato di smetterla di anelare a queste inutilità, l’esperienza della mia malattia si sarebbe rivelata sterile. Avrei sof-ferto inutilmente crogiolandomi nei miei problemi. Di certo non avrei lavorato per trasformare l’energia del patimento nella mia forza. Comportandomi da “femminuccia” ho dimostrato invece a me stesso di essere un guerriero intrepido e vittorioso.

Quindi essere contemplativi e spirituali non è una perdita di tempo, bensì un pregio, un investimento a lungo termine, un lavoro, una tattica battagliera che darà i suoi frutti nel momento opportuno.

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Quando il tumore mi ha messo di fronte alla mor-te, ho smesso di attenermi al patetico ruolo della vit-tima...

Che meraviglia addormentarsi finalmente abban-donandosi alla dimensione rivelatrice dei sogni an-ziché recitare nella solitudine il penoso ruolo del defunto. A che sarebbe servito ormai immaginare quante persone avrebbero vegliato la mia morte? Oh, se avessi ascoltato la voce della mia coscienza... tut-te le mie notti non sarebbero state sciupate... Perché stai sprecando il tuo tempo a cercare pietà nell’altro? Svegliati, Emanuele! Non è desiderando la morte che si ottiene l’amore altrui! L’unico modo per ricevere è saper dare! Smettila di fare il pagliaccio con le mani giunte al petto! Alzati e agisci subito, ora, nella notte! Va’ ad aprire le porte all’amore anziché alla malattia e alla decomposizione! Sei vuoi morire, fallo, ma non per imputridire, bensì per permettere al tuo corpo e al tuo spi-rito di rinascere!

Insomma, la malattia mi ha aperto gli occhi. Ha distolto il mio sguardo dalla parte inibita del mio essere che mi faceva soffrire, mettendomi davanti a quella in cui risiedono la forza, il coraggio, l’amore. Mi ha rimproverato per essermi crogiolato tutta la vita nella mia sofferenza, cercando la soluzione dei miei problemi al di fuori di me. Mi ha insegnato che se intendo ottenere qualcosa è inutile che continui a compiacermi del fatto di non riuscirci. Che così non arrivo da nessuna parte, se non nella malattia. Che sarebbe necessario agire, scacciare via con coraggio

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i miei boia; smettere di pretendere che gli altri, o al-tro, facciano quanto invece spetta fare a me. Mi ha inculcato la via del perdono perché solo così potrò proteggermi dai fallimenti, dal dolore, dalla malattia.

Tante cose ha fatto per me il mio Maestro, ma an-cora doveva arrivare la fase più difficile, quella finale: l’autotrapianto.

Come ho già detto in precedenza, la soluzione dell’autotrapianto mi è stata prefigurata a maggio, lo stesso giorno in cui il medico mi informava dell’ef-fetto insoddisfacente del primo trattamento chemio-terapico.

Prima di allora, parenti di malati oncologici o gli stessi ex pazienti, mi avevano già parlato in diverse occasioni di questa sibillina procedura. Io non ave-vo neppure la minima idea di cosa fosse, ma questi me l’avevano descritta come una procedura delica-ta e alquanto fastidiosa. Sebbene non sapessi ancora che un giorno sarei stato nella lista di coloro che si sarebbero sottoposti a quell’atroce procedura, quelle parole mi avevano fatto precipitare nell’angoscia. Mi avevano parlato di lunghi periodi di isolamento in un apposito box al quinto piano del CRO. Mi avevano descritto il tormento della solitudine e degli effetti collaterali della spietata terapia ad alte dosi. Mi ave-vano detto delle giornate che si passano a vomitare, a fuggire in bagno per le terribili e improvvise scariche

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diarroiche, della febbre, della difficoltà nel mangiare e nel bere, del patimento della fame e della sete e dei terribili crampi intestinali causati dall’atroce muco-site che interessa anche il cavo orale. Insomma, mi avevano fatto capire che i pazienti destinati a quella procedura non erano altro che dei poveri dannati dati in sorte a uno dei gironi più crudeli della malattia oncologica.

Sicché, quando l’oncologo mi disse che bisogna-va ricorrere all’autotrapianto mi sono caduti i capelli prima del tempo. Fortunatamente, quando mi espose con accuratezza e straordinaria professionalità a cosa sarei dovuto andare incontro, sparì l’angoscia e il co-raggio riaffiorò a galla. Lui mi aveva parlato più o meno delle stesse cose, ma adoperando una certa de-licatezza. Dal momento che il medico non anelava ad alcun elogio – al contrario invece degli ex pazienti o dei loro parenti che andavano alla ricerca di adulatori per il loro “eroismo” –, non si sforzò di enfatizzare gli incomodi dell’autotrapianto, ma si prese la briga di spiegarmi tutti i processi, le funzioni e, perché no, di prepararmi ai disturbi che ne potevano derivare.

Con il racconto dell’ultima fase della mia malattia, l’autotrapianto, appunto, stiamo volgendo al termine di questa mia testimonianza. Con questa procedura ho visto dispiegare un altro ventaglio di insegnamen-ti. Ogni procedimento, ogni momento di questa fase mi offrirà, come del resto l’intera esperienza della malattia oncologica, innumerevoli segni ansiosi di es-

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sere interpretati dalla parte più saggia del mio essere.Avevo preso oramai una certa dimestichezza con

questo tipo di interpretazione, pertanto mi riuscì na-turale decifrare la simbologia dell’autotrapianto. Ne captai la natura metaforica sin dalla primissima fase: la raccolta delle cellule staminali.

Alla fine del terzo ciclo della nuova terapia mi sottoposi a questa procedura di raccolta. Fu molto semplice: dapprima mi impiantarono un catetere a due uscite nella safena femorale, dalla quale sarebbe stato prelevato del sangue periferico in cui circolano appunto le cellule staminali. Poi mi portarono in una stanza “dai rumori di fabbrica” e collegarono due tu-bicini dalla cannula a un macchinario. Quindi inizia-rono la raccolta. Da una delle due uscite del catete-re il sangue si immetteva nella “dimora asettica” per poi rientrare nel mio organismo dall’altro tubicino. Vedevo il mio liquido rosso uscire per poi rientrare, apparentemente intatto nel mio corpo, invece in una sacca del macchinario, in piccola parte, si raccoglieva un fluido che sembrava caramello. Questa sostanza bruna erano le mie cellule staminali che sarebbero poi state congelate nell’attesa della reinfusione.

Mentre vedevo il mio sangue compiere questo moto orbitale avevo come l’impressione che mi stes-si purificando. Sembrava che il fluido vitale della mia anima stesse transitando per la camera del cuore, per essere poi decontaminato dalle frustrazioni, dalle pa-ranoie, dalle angosce, dai risentimenti, dalle idee folli.

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Alla fine dell’ottobre del 2011 mi fu somministrato un ciclo di chemioterapia ad alte dosi che ha distrutto le cellule midollari del mio corpo. Il mio cuore aveva purificato il fluido vitale della mia anima, trattenendo tra le sue pareti pulsanti le componenti più sublimi del mio essere quali il perdono, l’amore, l’amicizia, la misericordia, la fede. Sapeva che con l’insegnamento della malattia avrei deciso un giorno di distruggere il mio vecchio essere, quindi aveva pensato bene di preservarli per impiantarli poi nel nuovo essere che sarei divenuto.

All’alba del mese di novembre, i medici prosegui-rono con la reinfusione delle cellule staminali. Il pro-cesso durò circa cinque ore, mentre nell’aria si senti-va un forte odore di “cipolla fritta” sprigionato dalla sostanza conservante utilizzata per il congelamento delle cellule. Questa è la procedura fondamentale, è il principio dell’autotrapianto: la terapia ad alte dosi distrugge tutte le cellule nella certezza di eliminare anche i residui tumorali. Se non si ricorre alla reinfu-sione l’organismo del paziente non sarà più in grado di ripristinare la normale produzione delle cellule: il che lo condurrebbe dritto al composanto.

Mentre le cellule staminali si sistemavano al loro posto, il mio corpo risentiva dell’effetto devastante della terapia. Di giorno in giorno, anzi di ora in ora, lo sentivo sempre più debole. Prima che la produzio-ne cellulare ritornasse a funzionare, sarebbero pas-sate ancora parecchie settimane e in questo periodo

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si patisce la letargia del sistema immunitario. Siamo abituati ad avere un corpo in grado di proteggersi dagli attacchi esterni, come infezioni, batteri, virus. Quando però la nostra fortezza non ha i mezzi per proteggersi è necessario preservarlo dall’esterno. E fu questo il motivo dell’isolamento.

Entrato in questa fase parossistica è seguito il silen-zio. Immaginate di chiudere all’improvviso le porte con l’esterno, di isolarvi dai suoni umani, della natura e dal frastuono dei pensieri. Immaginate di superare i confini dell’atmosfera e di immergervi di colpo nel vuoto dell’universo. Ecco, quella sensazione che state immaginando è più o meno la stessa che ho provato nei primi istanti dell’isolamento. La chiusura ermeti-ca dello sportello risuonò forte come il fragore di un ordigno nucleare, dopodiché mi resi conto di esse-re inscritto nello spazio delimitato di un universo di venti metri quadri, in cui tutto era a mia disposizione, dove vigevano le mie leggi, dove potevo creare il mio tempo e il mio spazio.

Ora, mi chiedo, come non godere di un privilegio come questo? Perché mi avevano parlato dell’auto-trapianto intimoriti dalla solitudine? La solitudine è una grande agevolazione per la crescita del nostro spirito. I più grandi asceti sono passati dal deserto prima della realizzazione; pertanto perché dovrebbe spaventarci l’isolamento? Io ho passato uno dei mo-menti più contemplativi della mia vita dentro quel box delle alte dosi: la solitudine è non sapere stare con se

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stessi, dice il tarologo cileno. Ma è anche vero che non ho trascorso tutte le ore a pensare. Di tanto in tanto, rilassavo la mia mente leggendo, scartando i canali più interessanti del digitale, aggiornandomi sulla rete o scrivendo qualche pensierino.

Spesso però, sentivo il bisogno di abbandonarmi... Non è facile reggere un corpo che non sa più di-fendersi. Oh, quanta pena per te, mio nobile tempio! Io ti ho ridotto così, con il mio basso livello di coscienza! Quanta pena... Mi hai accompagnato con la tua saggezza, con il tuo istinto cosmico, divino, insegnandomi a non arrendermi mai e adesso... adesso ti sento corrodere lentamente dalla tossicità del mio lato più umano... Ma io so che tu ce la farai! Non ti sei mai arreso! Orsù, fatti forte! Lottiamo insieme!

Tutta la parte interna della bocca era spaccata come il più arido dei terreni; il ritmo cardiaco bat-teva il tempo dell’oppressione; il tubo digerente e gli intestini bruciavano come fossero attraversati dal più potente degli acidi; i muscoli delle gambe e delle braccia erano divenuti dei rivestimenti di carta di riso. In quelle condizioni mi riuscivano difficili e antipa-tiche anche le cose più naturali e che, generalmente, riescono a darti sollievo: fare la pipì, per esempio, o farsi una doccia, lavare i denti, rinfrescarsi, mangia-re, bere. I bisogni fisiologici diventavano capricci del corpo, quando la sofferenza mi faceva delirare. Perché dovrei portarti a orinare se ogni qualvolta che senti l’odore di ammoniaca mi stimoli il vomito? Perché non mi vieni incon-tro? Non vedi che questi odori mi provocano malessere? Perché

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hai cambiato l’odore alla pipì, al sudore e alla mia pelle? Per-ché tutto puzza di marcio nonostante ogni mattina mi faccia la doccia? E perché mi fai patire la fame e la sete se quando ti do da mangiare e da bere restituisci tutto al piatto o al bicchiere? Cosa vuoi da me? Perché non riesco più a soddisfare i tuoi bi-sogni? Perché tu non riesci a soddisfare i miei? Smettila adesso! Quindi scoppiavo in lacrime e, rincresciuto, iniziavo ad accarezzare la mia pelle... Perdonami... non smetterò mai di amarti...

Fortunatamente non sempre precipitavo in questo delirio. Anzi, direi che in quei venti giorni di degen-za sono riuscito a mantenermi cosciente, cosciente al punto di dare un senso a tutto ciò...

La puzza di marcio che aleggiava nell’aria deri-vava dai sedimenti putrefatti che avevo accumulato nel fondo del pozzo del mio cuore. Quel fetore era il marciume che aveva sopportato la mia anima per ventitré anni.

Quando si stipano le impurità in un angolo del no-stro sacro intimo, viviamo beati perché non ne perce-piamo il tanfo; ma quando finalmente decidiamo di aprire il deposito, liberarlo di tutta quanta l’immon-dizia per poi detergerlo, lucidarlo, profumarlo e de-stinarlo ai gioielli della nostra anima, ci accorgiamo di quanto torbido fosse il lago della nostra intimità.

Il trapianto mi ha dato l’occasione di bruciare to-talmente la mia interiorità e di ripiantare sulla stessa terra, fertilizzata dalle ceneri del passato, i semi dei frutti migliori che erano maturati, in passato, nel giar-

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dino della mia anima. La raccolta delle cellule stami-nali aveva coinciso con la raccolta dei frutti migliori; il trattamento con la terapia ad alte dosi con l’incen-dio del passato e con la morte del vecchio essere; l’isolamento con la gestazione in un nuovo grembo (asettico e non caldo e accogliente come quello di una madre); la reinfusione delle cellule staminali con il trapianto dell’orto nella nuova terra; il recupero mi-dollare, infine, con la rinascita del nuovo essere.

Il nuovo Emanuele, nato il 12 novembre 2011 (era un sabato, proprio come il 12 marzo 1988, data della mia ufficiale nascita), giorno della fine dell’isolamen-to, ha ripercorso nei mesi futuri tutte le fasi di una vita intera: è nato che aveva il corpo ricoperto di una leggera peluria, dorata e morbida come quella degli angeli; sarà ogni giorno in compagnia di persone cu-riose di vedere il nuovo essere, il neonato; sarà cir-condato dall’affetto che si può dare soltanto ai bam-bini; dovrà proteggersi dal freddo, dovrà evitare di ingerire alcuni cibi, dovrà proteggere la sua pelle de-licata dai raggi solari, dovrà indossare biancheria ste-rile e asettici dovranno essere l’ambiente in cui vive e le cose con le quali entrerà in contatto; vedrà il suo corpo ricoprirsi lentamente di un pelo più folto in una fase che ho definito “neopubertà” e la sua testa di capelli nuovi e morbidi come quelli di un bambino. Il compito che gli spetterà sarà quello di mantenere pulita la sua anima, di approfittare della rinascita per cambiare la sua vita agendo nella realtà come se ne

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fosse lui stesso l’artefice. Dovrà dare ascolto agli im-pulsi più puri e innocenti, dovrà credere nella loro realizzazione, dovrà essere in grado di emanciparsi dalle passioni e sfruttare la sporcizia del mondo a suo favore e a favore dell’umanità. Dovrà parlare della sua malattia, di questa esperienza straordinaria e do-vrà comunicare al mondo che, se non siamo in grado di percepire i miracoli del giorno, allora il grande mi-racolo sarà la sofferenza.

Con questa testimonianza intendo appellarmi a tutti i malati dicendo loro: Comprendo il vostro dolore, la vostra sofferenza; anche io sono stato uno di voi! Ma quello che vi raccomando è di perseverare col vostro coraggio. Avete già fatto tanto caricandovi addosso la vostra malattia, giac-ché avete avuto l’eroismo di contestare, attraverso il male, una grande carenza. Ma adesso andate avanti! Non scoraggiatevi! Non precipitate nell’angoscia e nella depressione! Tenete duro in ogni momento perché la malattia non smette neppure un istante di insegnarvi qualcosa! È totalmente a vostra dispo-sizione, a vostro servizio. Non sarebbe giunta a voi se non avesse voluto adempiere alla missione che le avete assegnato. Sfruttate questa sofferenza, non sprecatela! Non cadete nella tentazione di soffrire inutilmente soltanto perché qualcuno vi ha inculcato che è attraverso il tormento che si raggiunge il paradiso. Non serve a niente accettare il patimento come fosse una croce. Trasformate questa sofferenza in energia. Fatela diventare la vostra morte e la vostra rinascita! Quando sarete fuori dalla malattia, non ritornate indietro, ma andate avanti,

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magari scegliendo una via più adatta a voi, lontana dalla ma-lattia e dal sudiciume!

Con questa mia storia vorrei anche rivolgermi ai familiari dei malati. Quando la malattia colpisce qualcuno della nostra famiglia non fermiamoci alla commiserazione. Tendiamo piuttosto a partecipare attivamente al suo dolore. Il nostro caro ammalato ha bisogno di essere consigliato, di essere accompa-gnato nel suo viaggio. Sovente, quando ci troviamo impigliati in una disgrazia di queste, ci lasciamo so-praffare dal dolore, soffriamo per il nostro infermo ma sostanzialmente non lo aiutiamo. Piangiamo, gli porgiamo dell’acqua, contattiamo per lui tutti i me-dici e tutti i centri possibili; ci mettiamo a disposi-zione per accompagnarlo, gli andiamo a fare visita, gli portiamo dei fiori, facciamo tante cose bellissime per lui ma che da sole non lo aiutano. Se a questo aggiungessimo un dialogo profondo, saremmo dei familiari perfetti. Dovremmo provare a fermarci un attimo e concentrarci per iniziare a pulsare insieme al suo dolore. Una volta sincronizzati con il suo ritmo, potremmo metterci all’opera. Gli faremo capire così di essere, anche nel nostro piccolo, coinvolti nella formazione della sua malattia. Gli confesseremo ma-gari che non siamo stati capaci di dargli quanto inve-ce aveva bisogno che gli dessimo. Riconosceremo di avere pensato a dargli tanto ma nulla che gli potesse corrispondere. Insomma, gli diremo di essere anche noi gli artefici di qualche sua carenza, magari proprio

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di quella che egli ha voluto rivendicare con la ma-lattia. Gli chiederemo dunque perdono e ci faremo perdonare. Così combinati possiamo aiutarlo a inter-pretare la sua malattia e tutte le sue manifestazioni come fosse un sogno.

Un altro appello è rivolto alla scienza medica e mi servirò della mia esperienza al CRO. Io ho avuto la grande fortuna di essere stato curato ad Aviano. Il CRO è risultato essere un centro d’avanguardia che brulica non di professionisti bensì di uomini. Que-sto è importantissimo: fondamentalmente il malato non ha bisogno soltanto di esperti ma anche di es-seri umani. Ed è ciò che io ho trovato ad Aviano. Questo centro mette in risalto innanzitutto la parte umana del paziente: lo accoglie, lo ospita, lo coccola; sperimenta tutte le cose possibili e immaginabili per trasformare la sua degenza in un confortevole sog-giorno. Organizza eventi, gli assegna sempre il ruolo di protagonista; lo accarezza, lo ascolta, lo consola...

E mentre si dedica a tutte queste cose meravigliose si occupa della parte patologica della malattia, e per farlo mette a disposizione i migliori medici, i miglio-ri tecnici, i migliori operatori, le migliori strutture e le migliori tecnologie. Lì dentro ogni cosa sorride, anche i macchinari! Sembrerà incredibile ma è pro-prio così! Nulla è lasciato al caso: ogni colore, ogni mobiletto, ogni chiodo alla parete ha la funzione di allietare la degenza del malato e di consolare il dolo-re dei familiari. Hanno realizzato per i ragazzi l’Area

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Giovani un reparto inconcepibile, suggestivo, che trasforma l’esperienza della malattia oncologica in un momento della vita significante. Tantissimi sono i ricordi che custodisco di quel centro, e mi piacerebbe menzionarne almeno due. Uno risale alla mia prima degenza: mi ricordo che la prima volta che sono stato ricoverato lì, come ormai saprete, era il periodo di Natale e all’interno della struttura si percepiva un at-mosfera magica. Alla dimissione ho provato un’ina-spettata tristezza. Lì dentro ero stato bene, ero stato coccolato, ascoltato... Questa sensazione la percepivo quasi ogni volta che il medico mi consegnava nelle mani le dimissioni. Ciò mi ha permesso di affievolire la triste routine di dare, ogni quindici giorni, un colpo di chiave alla porta di casa, per poi stringere tra le dita flebili la maniglia del bagaglio che mi sarei trascinato fino ai piedi delle Prealpi Carniche.

L’altro ricordo, invece, risale al mio ultimo rico-vero. L’esperienza dell’autotrapianto, che mi aveva-no prefigurato come una visita passeggera all’inferno descritto da Dante, si rivelò essere, grazie ai medici e ai paramedici, una delle esperienze più belle delle mie degenze al CRO. Il malessere fisico del paziente immunodepresso è stato controllato con una scru-polosità materna. Non ho avvertito alcun bisogno di esigere nulla, di reclamare niente, di esplicare qualsia-si fastidio, perché il loro potere sta proprio in questo, nel capire le necessità del paziente ancor prima che questo le esponga. Una volta captate, si mobilitano a

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servirlo come fosse il più nobile dei re.Per concludere, mi sono servito di questi due ulti-

mi esempi e della breve descrizione dell’impressione che mi ha ispirato il CRO di Aviano, per lanciare il mio appello alla scienza medica. Il modello del CRO, a mio parere, si può tenere in considerazione nel caso della nascita di nuovi centri o della ristrutturazione di quelli già esistenti, per trasformare la croce della malattia nel trofeo della vittoria.

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Come parlare della malattia senza pronunciarne il nome? Come trasformare il dolore in una straordinaria esperienza di vita? Come, infine, alleggerire il peso che schiaccia a terra e levare l’ancora e partire?

È riconosciuto un margine di libertà, tra ricoveri e terapie, dove può ancora librarsi alto il pensiero e farsi parola che con-sola, che distrae, che commuove, che diverte.

La parola è un dono per chi la scrive e per chi la legge. Scri-vere, posare il cuore su una pagina bianca, affidandole angosce e speranze, si rivela un mare di incontri felici dove ognuno riconosce nell’altro una parte di sé e ne condivide un tratto di strada, favorendo in tal modo la magia dell’incontro.

Così è stato per tutti coloro che hanno atteso con viva cu-riosità e sincera emozione sul molo della Biblioteca Pazienti la nave stipata dei racconti del premio. Per la commissione, tutti i racconti giunti al porto del CRO sono stati, nella loro diver-sità, da accogliere come dei regali. E grande è la gratitudine, dunque, per i pazienti che hanno accettato di raccontarsi e, in tal modo, di dare voce a tutti, anche a coloro che sono rimasti trattenuti dall’ancora.

A questo punto, non esiste verso più consono all’occasione di quello di una poetessa americana, che con la sola forza dell’im-maginazione sapeva compiere lunghi e straordinari viaggi re-stando in ascolto del cuore, Emily Dickinson: Non c’è nave che possa come un libro...

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C’è un altro genere di dottore, quello che oltre a fare il possibile per “farti stare meglio” ti dà l’impres-sione di avere accanto qualcuno che si interessa a te [...] la sensazione piacevole di non essere un numero fra tanti o di essere dimenticati appena fuori dalla stanza, perché appena può, viene a vedere come stai o se ti serve qualcosa, dando la sua disponibilità, cre-do, anche oltre il dovere professionale.

Dalla A alla ZMarina

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A me viene in mente una cosa che mi disse Mia all’inizio del cammino: «Prendi con te solo quello che ti serve per stare meglio, tutto il positivo che ci trovi, e riempici lo zaino. Ne avrai bisogno».

Appunti di un viaggio, il mio: da gennaio 2010 a maggio 2012

Sara M.

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Ricordo con piacere l’idea, dei miei figli e di mio marito, di ritinteggiare la facciata esterna della nostra abitazione. Sarà stato questo un loro stratagemma per non allontanarsi da casa e non lasciarmi sola al-l’interno.

Così, eccoci alle prese con ponteggi improvvisati, lunghe aste con in cima improbabili pennelli, schizzi di vernice ovunque e quant’altro si possa pensare.

Però che bello, dopo circa vent’anni rivedevo le pareti esterne della mia casa rimesse a nuovo. Io sta-vo chiusa all’interno, rigorosamente all’ombra, ascol-tavo il loro vociare, non mi sentivo sola, capivo che questo loro arrabattarsi tra barattoli di vernice e pen-nelli non era altro che il modo per dimostrarmi af-fetto.

Il mio “personalissimo” raccontoFrancesca

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I pazienti di sesso maschile richiedono spesso l’accompagnamento di uno o più congiunti, mentre le pazienti femminili tendono ad affrontare da sole l’impatto con esami e terapie. Ancora una volta le donne dimostrano una forte capacità di sopportazio-ne e un gran coraggio...

Mr Clark ti scrivo“Boss”

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Tante volte, spiega la protagonista, sembra facile l’esistenza, la immagina come un vaso di cristallo, ap-parentemente bello ma fragile...

... Non con una semplice fiaba si cancella la vita traumatica di una persona, ma la si può risollevare, facendola sorridere, dimenticando per un po’ la sua immagine spezzata.

Le fate nel vaso di cristalloValentina

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Già ero fatalista e positiva, lo sono diventata anco-ra di più. Ho capito che le avversità assomigliano a un uragano che non soltanto ci tiene lontani da luoghi in cui saremmo potuti andare, ma ci strappa di dosso anche tutto il superfluo cosicché ci vediamo come realmente siamo e non come ci piacerebbe essere. E vivo intensamente ogni attimo pensando poco al passato. [...] Mi dico che la morte è lasciare il posto a qualcun altro. Se è arrivato il mio turno va bene. Non ho rimpianti. Ho avuto una vita bellissima. Ma que-sto non significa rassegnarsi, lotto eccome!

Non è ancora seraMara

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Un giorno ti senti leggero, sfrondato da tutto. Sei come un albero spoglio, non hai chioma che pesi. Sei semplice, senza accessori. Sei meno complesso. Ciò che mi è stato tolto, moralmente, era superfluo. Sono io e basta! Ho rami spogli, ma sono in equilibrio.

Le fronde mi farebbero pendere da una parte all’altra.

Le stelle continuano a brillarePiergiorgio

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Gli anni sono passati e ogni anno ho aggiunto un mattone in più alla speranza di essermi lasciata per sempre alle spalle la malattia...

... Nel frattempo sono diventata una persona mol-to più positiva nei confronti degli altri e, come succe-de più o meno a tutti coloro che vivono un’esperiena molto forte, ho trovato una nuova visione della vita che affronto con molto più entusiasmo di prima...

... Posso dire di aver sperimentato che ci sono esperienze nella vita che cambiano per sempre il cor-so delle cose. Non necessariamente in peggio, se si riesce ad accettarle. Perché la vita è anche questo.

Come ho imparato a vivere senza stomaco

Rosanna

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Il Pianeta delle quattro stagioni giornaliere era si-tuato molto vicino a quello delle quattro stagioni an-nuali, ma l’uno ignorava l’esistenza dell’altro.

Gli astronomi che scrutavano il cielo dalla sera alla mattina avevano sempre puntato i loro cannocchiali lontani e non si erano mai curati di guardare sopra la propria testa. Così non avevano scoperto quello che sarebbe stato facilissimo scoprire, destinando cia-scun pianeta a credersi l’unico pianeta dell’universo.

Il Pianeta delle quattro stagioni giornaliere era molto piccolo: aveva piccoli mari, piccoli prati. Pic-coli monti, piccolissimi abitanti... per non parlare de-gli animali e degli insetti; mentre il Pianeta delle quat-tro stagioni annuali era grande, molto grande e aveva grandi tutte quelle cose.

I due pianetiMarianna

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Germano Magnanimo in quei giorni di agonia aveva vissuto la sua vita in un sogno irreale, anche quando si risvegliava per alcuni giorni, lui immagina-va di avere una famiglia, una moglie, Etna Pasquino, ricevendo da lei tanto amore, due cani affettuosi che come due bambini lo consideravano il loro papà, dei parenti e amici che lo andavano a trovare, uno zio che lo ascoltava e parlava con lui senza farlo passa-re come un folle. Era tutto quello che tante persone avrebbero voluto avere. Una vita fantastica da artista, era l’intellettuale, lo zoticone, il povero. L’emigrato, il principe, il giullare, il campione, l’uomo gentile, l’ar-rogante, il debole, il forte, era tutto e non era nessu-no, in quella vita invisibile per altri ma importante per lui.

Andata e ritorno: relazioni artificaliGraziano

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Quando mi squilla il telefono a chiamare è sempre un alieno, dal sistema solare o da più lontano, che chiede l’aiuto del supereroe terrestre Matteo, dispo-nibile a partire subito per uccidere il drago dalle cento teste che succhia tutte le riserve d’acqua di Mercurio o il tirannosauro che cattura tutti i piccoli marziani. Non mancano mai le opportune nonché virtuali at-trezzature che vengono caricate sull’astronave prima di ogni missione. Il supereroe mette in campo i suoi superpoteri e porta con sé cento guerrieri e le aqui-le Aldomar, aquile aliene con caschetto, fornite di astronavi a loro volta. Missili a propulsione nucleare armati, conto alla rovescia e decollo.

Ogni volta due o tre missioni diverse, due o tre storie diverse, ogni volta invento nuovi problemi e nuove soluzioni e trascorriamo insieme delle ore gra-devolissime.

Le maschere di MoziaMaria Rosa

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PETTORALE N. 7311: questo è il numero che mi sono appena appuntata sulla canotta per correre la mia “corsa per la vita”, e stavolta le tabelle torneran-no a scandire ritmi, frequenze cardiache, recuperi... come prima, di nuovo con il vento nei capelli!

Pettorale n. 7311Simonetta

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Sinceramente tornerò, spero, nel sole a far l’amore aspirando l’odore di resina... non vorrei tornare... per ora come cenere, perché quell’erba e quei fiori sono ancora rigogliosi e le montagne intorno ancora così belle e il cielo sempre più azzurro... dài amico, cerca di capire... io ci ho provato a convincerti... in fondo, se anche tu ti abbandonassi una volta a essere più ro-mantico gli uomini non ti odierebbero come ti odia-no... impara un po’ anche tu... la vita è bella in fondo, anche tu potresti prenderti delle altre soddisfazioni... amico mio... almeno riaddormentati... buona notte.

Caro cancro, proviamo a parlare un po’...

Cherubino

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Non tutti i silenzi sono uguali.E non tutti scendono nell’anima come gocce di

miele.C’è il silenzio che Alighiero ben conosce e ormai

ha nominato suo fedele compagno di vita, balsamico rifugio dalle sferzate delle tempeste, benefico prete-sto per guardarsi dentro e poi sollevare lo sguardo fino a portare la sua amata razionalità a immedesi-marsi con il cielo.

Ma c’è un altro silenzio, nobile e dignitoso, fatto di profondità immense da cui è impossibile risalire.

L’attesa del naviganteGiovanni

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Una montagna di ghiaccioMarina

Grande, maestosa, resistente e dura quasi come la roccia; fredda di fronte a ogni evento, chiaramente trasparente ma impenetrabile allo sguardo che, anche se attento e profondo, non riesce a scoprire cosa c’è al suo interno. Uno scossone la stacca dalla banchisa facendole perdere l’unico contatto fisso che aveva. Diventa un iceberg alla deriva che mostra solo una piccola parte di sé, nascondendo sott’acqua il grosso del suo essere che è in ogni caso ciò che lo fa galleg-giare; in balia delle correnti e d’altri climi, dove una semplice pioggia non va a rafforzare la sua corazza, ma al contrario pian piano la dilava, la assottiglia fino a scoprire ciò che realmente è... una semplice goccia d’acqua che si perde in un mare.

Ha ancora una speranza per non svanire nel nulla, cercare e trovare quel contatto perduto, tornando al suo posto, ricostruendosi più trasparente di prima.

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Io sono una persona trasparente e, fin dall’inizio, dopo averlo detto prima a me stessa, ne ho parlato con tutti, non mi sono mai vergognata di essere am-malata e mai sentita compatita, perché impedivo alla gente di commiserarmi, la forza morale mi ha sem-pre aiutato nella lotta contro questa “bestia”. È fon-damentale. Ovviamente più passava il tempo, più mi accorgevo di avere dei momenti non facili, pensavo alla fragilità del nostro corpo oltre che dell’animo.

Quando mi sono ammalata...Angelina

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...rigiravo la letteradove era scrittose qualcosa in meaveva camminato,era cresciuto, rubatoe come tarlo scavato.434 mm3 era scrittodai 59 di prima...

...e remenavo la letaraandove era scritse calcossa ta mivéva ’ncora caminàcressù, robàe como carol sgavà.434 mm3 era scritda 59 che era...

434 mm3: nemmeno una pallinaLivio

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Quanto a noi, possiamo accogliere l’augurio di Josè Saramago nel suo libro Viaggio in Portogallo, che ciascun viaggiatore «faccia il proprio viaggio secon-do un proprio progetto, presti minimo ascolto alla facilità degli itinerari comodi e frequentati, accetti di sbagliare strada e di tornare indietro o, al contrario, perseveri fino a inventare inusuali vie d’uscita verso il mondo».

Non potremo fare viaggio migliore.Affidiamo allora i nostri fiori a chi sappia badarvi,

e partiamo!

Gente di mareSusan

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Il punto importante è che nessuno dovrebbe esse-re lasciato solo a decidere sul suo percorso di malat-tia, non abbiamo né l’esperienza, né le cognizioni... invece è quello che capita troppo spesso: «Decida lei se operarsi o meno...»

Il tumore fa rima con amoreAppunti disordinati di un percorso

semi-ordinato di malattiaPierpaolo

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Uscita dalla sala operatoria e ripresa la speranza che tutto sarebbe andato per il meglio, avevo capito due cose: la prima è che avevo la ferma intenzione di lottare contro questo male, la seconda è che la mia vita non sarebbe tornata mai più quella di prima. As-sistita con tanto amore da mio marito e dalle mie fi-glie, sono tornata a casa con la paura nell’attesa della risposta del prelievo. Era risultato positivo.

La speranza e la disperazioneGiovanna

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Mi ricordo che quando sono stata ricoverata la pri-ma volta, oltre a tutte le accurate attenzioni mediche che mi riservavano per la terapia, mi raccontarono la storia serale della buona notte con una gentilezza mai vista prima e ogni volta che vengo al CRO è sempre la stessa cosa... forse anche di più.

DiarioMaria Francesca

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Cro, pare, lo facciano soltanto i grilli di Aviano ma non tutti, solo quelli, per l’appunto, che si trovano vicino al CRO, l’ospedale di Aviano, quello bianco posto lungo la strada Pedemontana. Fanno dunque cro i grilli delle radure a fianco dei parcheggi del CRO. Questi grilli, allora, sono chiamati anche grolli. Il grillo-grollo di Aviano fa, per l’appunto, oltre a cri, anche cro, mentre il grillo comune (Gryllus campe-stris) fa solo cri.

Il grillo-grollo (ovvero i grilli di Aviano fanno criCRO)

Franco

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L’avere vicino tante persone amiche, il rendermi utile agli altri, il comporre poesie, l’affidare al diario sensazioni ed emozioni di giornate “particolari”, con la mia creatività, mi hanno “ricaricato” dentro, facen-domi ritrovare fiducia in me stessa e nel futuro.

Misterioso, silenzioso compagno di viaggio

Antonietta

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La mia rabbia aumenta ogni giorno. La dottoressa la chiama depressione e sostiene che scrivere mi aiu-terà a fare ordine nei miei pensieri e, un po’ alla volta, a stare meglio. Per ora non è così, ma cerco di vivere alla giornata senza farmi troppe domande.

2010 Ooops...Valeria

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I Musicisti, chini sui loro spartiti, non si erano ac-corti di nulla e avevano continuato a suonare musi-che talmente belle che le stelle del cielo si sporgevano a gara fin sopra le loro teste, per non perderne nep-pure una nota.

Quando due grosse Tartarughe, sbucando da un ammasso di Saraghi, raggiunsero il trono e si posizio-narono ai suoi lati, si capì chiaramente che tra esse e la piccola doveva esserci un legame speciale.

Alla loro vista, infatti, la Bambina, che fino a quel momento era stata così ferma da apparire finta, co-minciò a battere le manine e a ridere.

È festa nel mareMarianna

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Da allora, tra un controllo e un altro, sono passati altri due anni. Ci sono dei giorni tristi, ma riesco a piangere solo quando sono sola in casa, per non far preoccupare i miei cari.

Dopo il pianto parlo con me stessa e, pensando a tutti i giovani ammalati, tra me e me mi ritengo fortunata: in fondo io sono riuscita ad arrivare fino a sessant’anni.

La mia testimonianzaTiziana

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Nel buio della nottegli occhi spalancatinon dormonoe cercano nel vuotouna luce che non c’è

Chiudendoli elasciandoti guidarenon da quello che vedima da quello che sentiscoprirai la luce che cerchi

Che è dentro di te

Sentire la luce(estratto da L’altalena)

Marina

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Quello che rimane e persiste ancora oggi è la mia paura del dolore fisico, che credo sia un problema che tenderà a diminuire con il passare degli anni, fino a scomparire del tutto. Difatti è per questo che prefe-risco avere la protuberanza alla pancia dovuta al rilas-samento dei muscoli, anziché farmi operare con un facile intervento chirurgico per rendere la pancia più presentabile ed esteticamente perfetta.

Raro tumore giudiziario al colonAntonio

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In ospedale non si sta neanche male: vestite dei nostri pigiami e vestagliette colorate, ci muoviamo con un certo agio dentro e fuori la stanza. Io poi, abituata a cucinare abbastanza male, trovo gradevole persino il cibo, tanto che spesso mangio quello delle mie compagne, più esigenti di me. Tra una medica-zione e l’altra ci sono le visite dei parenti e, quando siamo sole, tante piacevoli confidenze in un clima di affettuosa solidarietà. Inoltre, a parte le frequenti interruzioni per i controlli medici e le cure delle in-fermiere, posso concedermi anche il lusso di leggere quasi più che a casa, perché qui non devo occuparmi delle faccende domestiche.

Storia di una donna qualunqueFranca

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Ancora sarò...sarò pugno chiusostringerò tra dita fortiavide di vitale nottie il rosa delle albe a venireprima che la voce del silenziomi leghi alle ombre del già statoprima che fiumi di secondimorti al temporivivano nel cuoreper straziarlo...

... Ancora sarò!Gaetana

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Scrivere può diventare utile quando aiuta a soffer-marsi a riflettere sulle cose. Il pensiero che si va for-mando nella mente è evanescente e, come può mo-strarsi intenso e nitido in un certo momento, in un altro può sbiadirsi e pian piano sparire. È l’importan-za, il valore che assume in quel momento particolare che lo rende vivido e a tinte vivaci. Credi che pos-sa rimanere sempre così e invece, come per tutte le cose, il tempo lavora e muta le sensazioni che prima erano forti, cambiando addirittura gli stati d’animo. Forse questo si può semplicemente riassumere e sin-tetizzare col verbo metabolizzare, cioè digerire quel che ti accade. Le cose comunque rimangono dentro, ma tu ci cresci sopra. Diventano humus per la tua vita.

Una storia a lieto fineStefania

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Arioli Tiziana Lacchiarella (MI)La mia testimonianzaAvanzo Marcello VicenzaIl mistero della scrittura e del mio tumoreBarbaranelli Francesca Vetralla (VT)Il mio “personalissimo” raccontoBetteto Pierpaolo Castagnola (TI)Il tumore fa rima con amore. Appunti disordinatidi un percorso semi-ordinato di malattiaBorriero Mara Sandrigo (VI)Non è ancora sera“Boss” Bollate (MI)Mr Clark ti scrivoCaldarola Sara Roma Odio l’estateCanazza Graziano Gambolò (PV)Andata e ritorno: relazioni artificialiCroce Antonio Ripa di Porta Ticinese (MI)Una vita miracolataEggelton Susan Cessalto (VE)Gente di mare

Elenco partecipanti al premio letterario

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Esopsito Gaetana Casal di Principe (CE)... Ancora sarò!Fari Antonio Singen (Germania)Raro tumore giudiziario al colonFiorino Rosanna Pomezia (RM)Come ho imparato a vivere senza stomacoFornasier Marina Arzene (PN)Una montagna di ghiaccioDalla A alla Z ricordiL’altalenaGazzarri Franco VeneziaIl grillo-grolloGian Walter TriesteHo voglia di cantareGlavich Livio Staranzano (GO)434 mm3: nemmeno una pallinaGolin Valeria Porcia (PN)2010 ooops...Martin Valentina Oderzo (TV)Le fate nel vaso di cristalloMarzotto Angelina Cordovado (PN)Quando mi sono ammalata...Menghetti Sara Rivignano (UD)Appunti di un viaggio, il mio, da gennaio 2010 a maggio 2012Menta Simonetta UdinePettorale n. 7311: la corsa per la vita

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Miana Cherubino Voltago Agordino (BL)Caro cancro proviamo a parlare un po’...Miniussi Giovanna Staranzano (GO)La speranza e la disperazioneMontanucci Emanuele Alfio Aci Sant’Antonio (CT)Io e il mio primo MaestroPreviti Maria Rosa (RORY) PalermoLe maschere di MoziaPulzatto Bagolin Antonietta Oderzo (TV)Misterioso, silenzioso compagno di viaggioRinaldi Giulia NapoliSono ancora in piedi (il mio ponte per superare il fiume)Romanato Piergiorgio Fontanafredda (PN)Le stelle continuano a brillareRonzitti Stefania RomaUna storia a lieto fineSantin Marta Conegliano (TV)Possibile presenza di rospi sulla sede stradaleScozzari Marianna Sciara (PA)È festa nel mareI due pianetiTorrisi Maria Francesca CataniaDiarioVilla Giovanni Concorezzo (MB)L’attesa del naviganteZucchetti Franca CremonaStoria di una donna qualunque

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Il convegno e il premio letterario si sono potuti realizzare grazie al contributo di tutti i pazienti auto-ri, del gruppo Patient Education & Empowerment, del Centro Attività Formative, del gruppo di lettori volontari al CRO, dei volontari delle associazioni atti-ve al CRO (in particolare ANGOLO), della giuria del premio e della Biblioteca Civica di Aviano.

Si ringraziano tutti gli enti che hanno concesso il loro patrocinio per la buona riuscita del convegno.

Infine un particolare ringraziamento alla signora Rosalba per averci ricordato l’importanza di ogni sin-gola esperienza attraverso le parole di Elisa: «Goditi quel preciso istante incurante del dopo, del domani, di quello che può succedere poi».

La stampa di questo volume è stata finanziata con fondi del 5 per mille devoluto al CRO, del progetto Patient Edu-cation e della L.R. 25/2006, in virtù del riconoscimento di “interesse regionale” della Biblioteca CRO.

Ringraziamenti

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2012Tipografia Sartor srl

Stampato su carta certificata FSC MIXED CREDIT

Il marchio FSC® identifica i prodotti contenenti legno provenienti da foreste gestite in maniera corretta

e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici

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Scriviamoci con curaI edizione - 2012

Pazienti oncologici raccontano come levare l’ancora con la scrittura...

Intonazione all’estate che arriva

Antologia di racconti

Premio Letterario

Centro di Riferimento Oncologico di Aviano

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12 Scriviam

oci con curaA

ntologia di racconti

ISBN 9788897305033

Questa antologia raccoglie i racconti dei cinque vincitori della prima edizio-ne del premio letterario Scriviamoci con cura 2012, seguiti da alcune selezioni di storie narrate da altri partecipanti.

Nel ripercorrere le tappe della malat-tia, gli autori ci regalano delle testimo-nianze profonde, umane e soprattutto universali. Un cammino fatto di dubbi e attese, passando per la terapia e la vita in ospedale. Un percorso pieno di do-mande compiuto con determinazione e curiosità, dove il bisogno di narrare, di condividere, di rompere il muro delle frasi fatte e dell’indifferenza impone una riflessione.

Storie lucide e toccanti, in cui traspa-re la voglia di tornare a sognare, a vive-re, anche attraverso il coraggio di essere leggeri, ironici, persino sfrontati, ricor-rendo a diversi generi letterari come la fantascienza o la fiaba.

La caduta e la rinascita di chi ha con-vissuto e convive con il male. La capaci-tà di rialzarsi e affrontare il futuro con un sorriso. Una forte dichiarazione di speranza e di fiducia nella vita.

Scriviamoci con cura A

ntologia di raccontiPrem

io letterario 2012

Leval’Ancora

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Pazie nt i o ncologici racconta n o c ome le va re l ’ anco ra con la scrittura