Scrittori Giunti · nel Canzoniere di Umberto Saba, Einaudi, Torino 1948-2014. Cartografia (pag. 6)...

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Scrittori Giunti

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S c r i t t o r i G i u n t i

Silvia Ballestra

Vicini alla terraStorie di animali e di uomini

che non li dimenticanoquando tutto trema

Vicini alla terradi Silvia Ballestra«Scrittori Giunti»

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© 2017 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia

Prima edizione: febbraio 2017

La poesia La capra è tratta dalla raccolta Casa e campagna (1909-1910),nel Canzoniere di Umberto Saba, Einaudi, Torino 1948-2014.

Cartografia (pag. 6)Stefano Benini, Firenze

Gli eventi e i personaggi presenti in queste pagine sono narrati attraverso lo sguardo personale e la trasfigurazione letteraria dell’autrice, senza alcuna pretesa di farne una cronaca esaustiva.

Ho parlato a una capra.Era sola sul prato, era legata.Sazia d’erba, bagnatadalla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraternoal mio dolore. Ed io risposi, primaper celia, poi perché il dolore è eterno,ha una voce e non varia.Questa voce sentivagemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semitasentiva querelarsi ogni altro male,ogni altra vita.

Umberto Saba, La capra

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Remoti e fieri

L’ ultima volta che siamo stati a Castelluccio era luglio, con la fioritura della piana al suo massimo splendore. Un incidente sulla Salaria poco dopo Ac-quasanta ci aveva costretto a fare marcia indietro e salire da Montegallo invece che da Arquata come al solito. Salire da Arquata era (è?, sarà?, sarà di nuo-vo?, non so più che tempo usare, nessuno sa quali saranno i tempi) più veloce: un tunnel e una strada relativamente nuova – la strada delle Tre Valli che dalla nostra parte mette in comunicazione la valle del Tronto con la Valnerina – e praticamente, dopo aver svoltato accanto all’albergo Regina Giovanna e aver attraversato la graziosa frazione di Pretare, sei già in quota.

Salire a Castelluccio è uno spettacolo scenografi-co di pascoli, panorami, montagne – catena del Gran Sasso e della Laga, borghi, boschi, il Vettore che si scopre superato qualche lieve tornante – ma quello che ti aspetta una volta varcata Forca di Presta vince su tutto.

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Una conca piana coperta da un immenso prato battuto, sempre, da un vento deciso ma gentile che, mentre muove le nuvole bianche in cielo, cambia continuamente le luci e i toni di quel mare d’erba. Di fronte, sul fianco della montagna che separa da Norcia, una macchia di conifere forma la sagoma dell’Italia. In mezzo, sulla destra, il paesino di Ca-stelluccio svetta remoto e fiero come tutti i paesi di queste parti, in cima alla sua altura.

A fine luglio, il mare d’erba è mare verde, viola e giallo di fiori di lenticchia e fiordalisi, con strisce squillanti di rosso di papaveri. Sui fiori, ronzano a milioni gli insetti operosi.

Doveva essersi ribaltato un Tir di legname sulla Sa-laria, a quanto avevamo capito dalle poche parole dei carabinieri messi a regolare il flusso alterno, quindi ad Arquata era impossibile arrivare. Pecca-to. Bisognava salire da Roccafluvione. Bisognava passare da Montegallo, una delle sedi del Parco, un posto con un belvedere favoloso: un paese che ri-cordavo inerpicato e piccolissimo.

Che facciamo? Andiamo lo stesso? Ci vorrà di più. Andiamo. Ci sarà meno gente, meglio.

Negli ultimi anni Castelluccio è diventata una su-perstar, soprattutto con la diffusione di smartphone con fotocamera di alta qualità che ti permettono di portarti a casa e condividere scorci di quei colori e di quelle luci magnifiche.

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Per il picco della fioritura c’è sempre stato un discreto afflusso, soprattutto nel fine settimana, sia dal versante marchigiano che da quello umbro – gli accessi sono tre: da Ascoli, da Norcia, da Visso. Fa-miglie, gruppi di amici, qualche camperista, tantis-simi bikers in sciami di moto rombanti.

Quest’anno c’erano anche i pullman e, nonostante i fili leggeri messi a mo’ di transenna dagli agricoltori e i cartelli che invitavano, chiaramente, a restare lun-go i bordi delle coltivazioni, la gente dilagava in mez-zo ai campi alla ricerca dell’inquadratura migliore. E i ristoranti – che un po’ di anni fa si contavano sulle dita di una mano, erano rustici, di montagna, e servivano quasi esclusivamente salumi e grigliate – quel giorno erano pieni.

Pure il parcheggio del paese era completo; abbia-mo posteggiato sulla strada che sale a sinistra, quella che guarda al Pian Perduto. Faceva caldo. Abbiamo provato in un ristorante, completo, poi in un altro, nuovo, dietro, da cui si beccava un wifi: fra le propo-ste anche il menù vegetariano, una sorpresa assoluta da queste parti, regno di porchetta e salsicce.

Accanto c’erano operai albanesi al lavoro, ristrut-turavano una casa. Un nuovo bed and breakfast sulla scia di altri comparsi nel giro di pochi anni. Prima di partire, avevo letto un commento in rete: «In questi giorni di fiorita Castelluccio sembra via del Corso durante i saldi ma è sempre bellissimo».

Un po’ era seccante.

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«Mancano i tour con i giapponesi poi siamo a posto. Ma succede solo due settimane l’anno. È giusto che sia così.»

Certo che è giusto, ma non è sempre stato co-sì. Mi ricordo che solo qualche anno fa sulle riviste naturalistiche c’erano le foto dei «cavalli bradi» di Castelluccio; che in un catalogo di Avventure nel mondo, l’organizzazione di viaggi alternativi, fra un tour nei deserti dell’Iran e un’esplorazione dell’al-topiano etiopico, avevo trovato il giro dei Sibillini a dorso di mulo. Una cosa piuttosto selvatica. E co-munque, tolti quei giorni d’estate e i fine settimana, non incontri nessuno o quasi.

Finito il nostro pranzo con una ricotta calda al mie-le tipica di queste parti, siamo ripartiti. Non verso casa ma verso Preci, per visitare un posto dove non eravamo mai stati: l’abbazia di Sant’Eutizio. Scen-dendo verso Norcia, un lampo di bianca bellezza alla nostra destra, colto con la coda dell’occhio: una chiesa romanica, bassa, chiara, pulita, con due ro-soni, piccoletta ma possente sullo sfondo verde del-le montagne e blu del cielo. Deserta, all’apparenza serrata.

A Sant’Eutizio, un magnifico profumo di tigli e una musica incongrua proveniente da una corte oltre la chiesa, un remix di pumpa pumpa truzzo americano pieno di bassi e sintetizzatori sparato a un volume assurdo fra schiamazzi di ragazzini e

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parolacce varie che pareva la sagra della bestemmia.Era una colonia, un gruppo di scout o di oratorio

come ce ne sono a decine in Umbria e nelle Marche lungo tutta l’estate.

Dal gran caldo, una quindicina di ragazzini si in-seguivano tirandosi l’acqua di una fontanella.

Siamo entrati in chiesa, che in realtà era aperta ma assolutamente severa, spoglia, poi, cercando di evitare i lanci d’acqua di quei pazzi, siamo saliti per delle scale di pietra scavate sul fianco della montagna accanto al campanile. Da lì, con queste note per nulla gregoriane che salivano da sotto, abbiamo avvistato un capriolo che correva su una spianata sotto il paese di Preci; era bellissimo.

Fuori dal portone del monastero, scendendo sottoterra e pagando pochi centesimi a una ragazza addetta all’apertura estiva, abbiamo fatto un giro nel piccolo museo che, accanto a erbari e libri di medici-na medievali, conserva dei ferri chirurgici molto an-tichi. Sono una testimonianza importante e singolare del sapere medico: a Preci, sin dall’anno Mille, nei monasteri benedettini si era sviluppata una scuola chirurgica molto famosa, poi trasmessa agli abitanti del luogo già esperti nella norcineria e dunque abili nei tagli e nelle incisioni di suini.

Di ritorno, non sapendo se l’intoppo sulla Sala-ria fosse risolto, abbiamo deciso di non fermarci a Norcia.

È stato un errore. Non siamo neanche ripassati

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dalla bella chiesa vista all’andata di cui non sapevamo il nome.

Il nome l’abbiamo saputo adesso, appena tre me-si dopo: chiesa di San Salvatore. L’ abbiamo saputo perché è crollata. Anche Sant’Eutizio è crollata. Sono crollate tante chiese e case di Norcia. È crollata parte di Preci. È crollata Arquata. È crollata quasi tutta Castelluccio.

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Sui monti è sceso il buio

Alle 3.36 del 24 agosto una terribile scossa di terre-moto con epicentro Accumoli-Arquata ha squarcia-to la calma notte estiva.

Magnitudo 6.0 della scala Richter.Sulla costa marchigiana, siamo subito tutti in

piedi. «Vestiamoci» ho detto ai miei figli. «È un ter-remoto molto forte e dobbiamo decidere se uscire o no.»

Intanto, nel corridoio improvvisamente gelido (voci dalle scale, dai piani alti del palazzo), con i brividi alla nuca, ho acceso il telefono mentre il pa-vimento si muoveva ancora e i lampadari di tutte le stanze dondolavano vigorosamente.

Le notizie nell’immediato parlavano della nostra zona ma anche di Roma e di Rimini. Poi qualcuno ha scritto Perugia. «Se è Perugia e qui si sente così, è il disastro» ho detto, sentendo montare un’angoscia tremenda. Il pensiero è corso all’Aquila, ma qual-cuno ha cominciato a parlare di Rieti. E di Arquata.

Ha chiamato mia madre, io poi ho chiamato mia

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sorella. Non che ci fosse molto da dire: l’avevamo sentito tutti, forte e a lungo.

Abbiamo acceso tutte le luci e la televisione. Su Twitter girava già la frase del sindaco di Amatrice: «Il mio paese non c’è più».

Il lampadario del salotto, un affare floreale di Mu-rano piuttosto imponente, ha ripreso a ballare un’ora dopo mentre, ancora davanti alla tv, cercavamo di capire dove fosse l’epicentro del primo terremoto.

Altro giro, stavolta 5.4 Richter, forse più breve della prima.

A quel punto si sapeva solo di due morti e di tan-tissimi crolli ma i canali satellitari hanno cominciato a ripetere all’infinito cose già dette perché più di quello non era ancora possibile sapere.

I ragazzi sono tornati nelle loro stanze, il gatto si è stiracchiato e si è rimesso a dormire sul divano. Ho scambiato dei messaggi con la mia amica di Perugia che mi ha detto che da lei era tutto a posto.

Sul mare ha cominciato a farsi chiaro, ma non era un’alba rassicurante; era un’alba, se si può dire, cupa. L’ ho fotografata perché da tanto non mi capi-tava di vederla. Non è una bella immagine eppure non riesco a buttarla: il mare è calmo, i lampioni sono accesi, c’è una nuvoletta lunga sul filo delle luci che fra il rosa in basso e il blu che va stemperando nel giallo, ma io so che alle nostre spalle, lassù sui monti, è tutto ancora buio e non c’è, e non ci sarà, niente di buono.

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Nel corso della mattinata, nei giorni successivi, il numero dei morti sale a 299. Feriti portati in ospe-dale: 388. Paesi rasi al suolo 3: Amatrice, Accumo-li e Pescara del Tronto. Danneggiata gravemente Arquata.

Sono giorni di funerali nelle palestre, giorni di sfollati, giorni di visite delle autorità, giorni di sgo-mento.

La stagione, anche sulla costa, si chiude malissi-mo, con gente che parte subito e gente che disdice le prenotazioni. Dai rubinetti l’acqua esce grigia perché il nostro acquedotto è lassù, la nostra acqua è l’acqua del Pescara e anche le condotte, le vasche, in qual-che punto sono state danneggiate dalle scosse. La Salaria è stata interdetta al transito, il viadotto delle Tre Valli, la strada che porta a Castelluccio, è chiu-sa, l’Ente parco dei Sibillini invita gli escursionisti a non andare sul Vettore. Le frazioni di Arquata sono chiuse: è tutta zona rossa.

Intanto la terra continua a tremare, ma meno.

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I Sibillini tremano ancora

Due mesi dopo, mercoledì 26 ottobre, alle sette di sera, una scossa molto forte tira fuori di casa tutti e causa innumerevoli crolli e lesioni. L’ epicentro è fra Castelsantangelo sul Nera e Visso.

Questa volta non ci sono morti: non è notte e le persone fanno in tempo a scappare, non è estate e i paesi non sono molto popolati.

Per chi vive in montagna, lassù, alle pendici dei Sibillini, è un avvertimento potente. In molti comin-ciano a dormire in macchina, nei ricoveri di fortuna o negli edifici più nuovi e più saldi, chi può si sposta da parenti distanti dalla zona sismica.

Il mattino di domenica 30 ottobre, alle 7.40, ecco la scossa più forte di tutte: epicentro questa volta spostato fra Preci, Norcia e Castelsantangelo sul Ne-ra. Magnitudo 6.5 scala Richter (la stessa del deva-stante terremoto dell’Irpinia del 1980).

Visso, Ussita, Castelsantangelo sono già zona rossa da mercoledì, Norcia ha persone che dormo-no fuori già da agosto, quindi, anche questa volta, nessuna vittima.

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Però sono tantissimi i danni, in una zona molto vasta. Talmente ampia da essere definita «cratere».

Comuni colpiti: 131. Regioni interessate: 4 (Mar-che, Umbria, Lazio, Abruzzo). Numero degli sfollati: 40.000. Case lesionate: 200.000.

Aziende, chiese, opere d’arte, scuole, imprese, ca-se di cura, case di riposo, stalle distrutte a centinaia.

Effetti idrogeologici sul terreno: circa 4.000 dall’i-nizio dell’evento sismico; superficie deformata, se-condo il Cnr, per un’area di circa seicento chilometri quadrati; fratture larghe 60 cm e profonde un metro sul monte Porche; fratture simili a trincee in cresta al monte Vettore; lungo la valle dell’Infernaccio è com-parso un lago; a Norcia è riemerso il Torbidone, un fiume in secca da decenni; la portata del fiume Nera è aumentata del 30% con una significativa devia-zione del corso; a Ussita valanghe di rocce sbarrano una forra; nelle campagne del fermano (quindi ab-bastanza distante) sono spuntati nuovi «vulcanelli», laghi di fango che invadono i campi; abbassamento del suolo fino a trenta centimetri in varie zone fra Castelluccio, Amatrice, Norcia.

Scosse dal 24 agosto al 30 ottobre: migliaia, più o meno forti.

Morale degli abitanti: a pezzi, come tutto il resto.

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Da lontano

Chiamo un mio amico a Montemonaco, lo trovo molto abbattuto. Ha un agriturismo, mi racconta che sono andati via tutti quelli che erano arrivati per il ponte dei Morti e che a Natale non riaprirà. Mi dice: «È come se ci fosse caduta in testa una bomba gigantesca, un meteorite». Poi: «Sei a Mila-no, sì? Bene, beata te. Stai lì, ché qui la situazione è molto brutta».

Da lontano un po’ si capisce un po’ no.Le televisioni, in questo inizio di novembre, ov-

viamente ne parlano perché ci sono immagini che fanno il giro del mondo e sono scene che non posso-no non colpire – il crollo spaventoso della cattedrale di Norcia: il fatto che sia dedicata a San Benedetto protettore d’Europa viene interpretato da molti co-me una metafora terribilmente evocativa.

Dopo solo un paio di giorni, già se ne parla molto meno. Non ci sono morti e dunque la cronaca non se ne occupa più di tanto.

Cerco faticosamente notizie. In televisione le tro-

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vo a tarda notte: una bella puntata di Gazebo in cui si vedono immagini tremende del cimitero di Preci con le tombe aperte e le antiche bare all’aria, coperte di macerie. Càpito molto dopo mezzanotte su uno speciale di RaiUno in cui si parla di San Ginesio, un paese che mi è molto caro perché è il paese di mia nonna Fernanda ed è uno dei borghi più belli d’Italia. È gravemente danneggiato, si teme per la bellissima chiesa Collegiata, un capolavoro del Quat-trocento dalla stupefacente facciata.

Qualche informazione in più la danno le sedi re-gionali di Umbria e Marche della Rai, Radio3 con Fahrenheit, Sky che è sui posti dalle prime ore e, na-turalmente, internet, con i social network.

Una mia amica su Twitter, dalle Marche, mi in-forma che è crollata la chiesa di Santa Maria in Pan-tano. Scrive: «Voi direte: è una delle tante chiese, ma questa è Santa Maria in Pantano».

È un brutto colpo. In questa chiesetta sperduta su un pianoro a quaranta minuti di cammino dal piccolo borgo di Montegallo c’erano, accanto alle immagini dei profeti, rari e preziosi affreschi delle Sibille, le antiche sacerdotesse pagane depositarie di cultura e saggezza che danno il nome proprio ai monti Sibillini.

Perdute per sempre.Mi chiedo cosa ne sia dei tanti posti meravigliosi:

Montefortino, Sarnano, Fiastra, Amandola, Macere-to, Camerino, Tolentino, San Severino, le tante torri,

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i castelli, le piazze, i santuari, le mura. Le bianche mura di Norcia che erano lì da mille anni, crollate in più punti.

Le immagini dei quadri tirati giù e messi in salvo dai pompieri si susseguono una via l’altra. Tesori che vengono imballati e partono per i depositi. Chissà quando li rivedremo, dove.

Sembra un disastro di cui ancora non si conosco-no le dimensioni, i contorni, e di cui nessuno parla abbastanza.

Il silenzio che cala sul terremoto, dopo solo una settimana, è inquietante e incomprensibile. Ci so-no eventi che incalzano, le elezioni negli Stati Uniti, un referendum con probabile crisi di governo che incombe, ma nulla giustifica questo passare oltre, questo concentrarsi sulla prossima notizia.

In quei giorni, da lontano, trovo informazioni nel lavoro fatto dall’Enpa, l’Ente Protezione Animali che è a Norcia in missione e ha una seconda squadra all’opera nel teramano e nell’ascolano.

Nel terremoto di agosto, con tutti quei morti, le storie di animali mi erano sfuggite, erano scivolate comprensibilmente in secondo piano. Sui giornali era uscita qualche fotonotizia, come quella del dol-cissimo cocker biondo rimasto accucciato accanto alla bara del suo padrone durante il funerale nel pa-lazzetto dello sport di Ascoli, o quelle dei cani delle squadre cinofile che avevano lavorato senza sosta.

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Ricordavo la foto di un maltesino sistemato ai pie-di di un novantenne in barella, certe signore dallo sguardo sperso sedute sul bordo di un’aiuola con, accanto, dei gatti nel loro trasportino.

In questo secondo terremoto, invece, c’è spazio per guardare anche ad altro. A un territorio, per esempio, che vive anche grazie agli animali.

I tweet dell’Enpa, parlando di animali, raccon-tano molto di persone e luoghi. Le loro foto sono diverse da quelle che escono sui giornali dopo un po’ (politici in visita, passerelle di autorità varie…): spesso scattate con i cellulari, sono sì foto di persone e cani e gatti, ma anche di strade, paesi, di soccor-ritori al lavoro. I volontari dell’Enpa, per esempio, sono i primi a entrare a Castelluccio dopo che tutti gli abitanti sono stati evacuati in elicottero.

Da lontano, comincio ad appassionarmi alle loro storie di salvataggi e ricongiungimenti.

Sono storie piccole ma danno conforto. Se c’è qualcuno che si occupa anche degli ultimi, mi dico, c’è speranza per tutti, per tutto.