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B I B L I O T H E C A E D I Z I O N I - R O M A 2/2003 2/2003 Scrittori italiani Bimestrale del Sindacato libero scrittori italiani

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B I B L I O T H E C A E D I Z I O N I - R O M A

2/20032/2003

Scrittorii t a l i a n iBime s t ra l e d e l S i n d a c a t o l i b e r o s c r i t t o r i i t a l i an i

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2 Francesco Mercadante – Testo e nota della Convenzione CISL-SLSI

4 Antimo NEGRI – Lettera aperta di un socio al presidente

5 Pierfranco BRUNI – Pomilio candidato nel ’73 alla presidenza del SLSI.

L’accettazione e il rifiuto

7 Giano ACCAME – In memoria di Alfredo Cattabiani

8 Turi VASILE – Antonio Piromalli, fratello separato

10 Alfredo MIRABILE – Un addio a Giordano Corsi

11 Francesco MERCADANTE – Per l’ottantesimo di Peppino Pellegrino

15 Claudio QUARANTOTTO – Piccolo trattato di gastroideologia

18 Ennio INNOCENTI – Esegesi e teologia cattoliche: le tesi di Radaelli

21 Cecilia GATTO TROCCHI – «L’Africa porta sempre qualcosa di nuovo»

25 Dante MAFFIA – Il caso Pignatelli

26 Fortunato ALOI – Attualità della salvaguardia della lingua italiana

27 Fortunato PASQUALINO – Il Vangelo a passo d’asino

29 Iniziative del Sindacato. Concorso

30 Franz Maria D’ASARO – Assalto allo spazio (poema)

32 Luciano LUISI – Il viaggio, La madre, Cosa resta, Insieme (poesie)

33 Giulia PERRONI – (poesie)

34 Miranda CLEMENTONI – (poesie)

35 Nino PICCIONE – Il racconto protagonista della scrittura

36 Maria SANDIAS – Cosí vidi il mare per la prima volta

38 Luigi TALLARICO – Mario Sironi e le due tensioni: arte e politica

40 Francesco Alberto GIUNTA – Egitto: voci e pensieri di scrittori contemporanei

42 Vincenzo LATTANZI – In missione a Kabul

44 Recensioni

48 Notizie

Bimestrale del Sindacato libero scrittori italiani

Anno I, numero 2, luglio-agosto 2003

Abbonamento annuale per sei numeri:Italia € 35,00 Estero € 60,00. Abbonamento soci sostenitori:

Italia € 60,00. Vaglia postale o assegno bancario/po-

stale intestato a:Sindacato libero scrittori italiani, corsoVittorio Emanuele, 217, 00186 Roma

Fascicolo singolo € 6,00

DIRETTORE

Francesco Mercadante

DIRETTORE RESPONSABILE

Nino Piccione

COMITATO DI DIREZIONE

Franz Maria D’AsaroPierfranco BruniLuigi TallaricoFrancesco CanforaCecilia Gatto-TrocchiMara Ferloni

IN REDAZIONE

Sabino CaroniaGiuseppe PapponettiSilvia CapoRaffaella CitterioFederico De SantisEnrico Graziani

IMPAGINAZIONE

Studioagostini

COPERTINA

Pier Augusto Breccia

STAMPA

Abilgraph, via Ottoboni, 11, Roma

© Scrittori italiani

Direzione, redazione e amministrazione: C/so Vittorio Emanuele, 21700186 Romatel. 0668301367 – fax 0668211973 e-mail: [email protected]

Autorizzazione del Tribunale di Roman. 109/03 del 17/03/2003

Il fascicolo è illustrato con opere di Mario Sironi di cui si ètenuta a Roma la mostraAnni della solitudine 1940-60(Palazzo Valentini 10 maggio - 31 agosto).

Avvertenze:1 - Si collabora per invito delladirezione.2 - Le opinioni espresse nei singoliscritti non impegnano la rivista.

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CONVENZIONE CISL-SLSI

NOTA AL TESTO

1. Il 7 luglio u. s. una delegazione del Sindacato liberoscrittori italiani (SLSI), composta da Francesco Mercadan-te (presidente), Franz Maria D’Asaro (segretario generale),Pierfranco Bruni (vicepresidente), Francesco Canfora (di-rettore amministrativo) e Vincenzo Tallarico (vicesegreta-rio), è stata ricevuta dal Segretario generale della Confede-razione italiana sindacati lavoratori (CISL) Savino Pez-zotta e dal Segretario confederale Sergio Betti. Scopo dellariunione la firma del documento, che si pubblica nella co-lonna accanto, dove si riproduce il testo di un accordo, sot-toscritto dalle parti con un tocco di solennità.Delle trattative in corso si sapeva da tempo: presidenza esegreteria generale non hanno mancato di diffondere in-formazioni aggiornate tra i membri del Comitato naziona-le e della Giunta esecutiva, come risulta dai verbali dellesedute in data novembre 2000, giugno 2001, dicembre2002, marzo 2003.Nettamente prevalenti le manifestazioni di consenso all’ini-ziativa. L’opposizione di un membro autorevole del comita-to nazionale ha contribuito in primo luogo a più mature ri-flessioni; in secondo luogo al censimento nominativo delleopinioni favorevoli, rispetto all’opinione dissenziente, col ri-sultato della più ampia, stabile, motivata convergenza.Non a caso abbiamo seguito un iter, scadenzato sui tempilunghi: e tutto ciò senza veri contrasti, dopo che si delineada parte della CISL già con la segreteria D’Antoni la solu-zione auspicata. Un consigliere d’eccezione, il prof. Giu-seppe Acocella, al quale siamo lieti di tributare un rinno-vato pubblico ringraziamento, ha contribuito al felice ini-zio del dialogo.

2. Perché la CISL? Ed in via preliminare perché una “perd i-ta di libertà”, per un sindacato, che “nasce libero” e tale in-tende rimanere? È proprio necessario, dopo “trent’anni disolitudine, traghettare dall’insularità più aristocratica ver-so un affollato «porto di mare»? E la CISL, istituzione così as-sorbente, non crea inevitabilmente, dentro di sé e intorno asé, le condizioni della gregarietà, della subalternità?Risposta semplice. Geloso, intenso, costante l’attaccamentodi questo Comitato nazionale e di questa Giunta esecutivaalla identità del Sindacato, nelle sue tradizioni e nelle sueconsuetudini gentilizie: coltivate però fino a che il cepponon sia minacciato da subitaneo inaridimento. Nulla siperde, se si trapianta un’essenza vegeta, ma non più tantoflorida, su un terreno più favorevole.Fiducia, quindi, coerenza, orgoglio delle origini, capacitànon necessariamente gattopardesca di cambiare per noncambiare: ecco i nostri sentimenti. Quella libertà della vigi-lia e della festa, che nel 1970 spinge un gruppo di intellet-tuali cattolici, cattolico-liberali, crociani, gentiliani, evolia-ni, socialdemocratici ecc., raccolti intorno a Barolini, ascindere la propria causa da quella di un sistema di sogge-zioni, che fu anche denunciato come “cultura della resa”;

TESTO DELLA CONVENZIONE

TRA

la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori CISL,con sede in Roma, via Po, 21 rappresentata dal Segreta-rio generale Savino Pezzotta

e

il Sindacato Libero Scrittori Italiani SLSI, con sede inRoma Via Vittorio Emanuele, 217 - (palazzo Sora), rap-presentato dal Presidente Francesco Mercadante

PREMESSO CHE

a) La qualifica di scrittori si estende a una categoriasempre più numerosa di operatori culturali, ben al di làdegli autori che vivono col reddito dell’opera dell’inge-gno, sia esso un libro di narrativa o un manuale scola-stico, un libro giallo, un’opera teatrale, una collabora-zione giornalistica, una vignetta, una qualsiasi fantasiasperimentale della creatività spontanea.

b) Gli scrittori italiani risultano organizzati nelle se-guenti tre associazioni sindacali più note: Sindacato na-zionale scrittori, Sindacato libero scrittori italiani eUnione nazionale scrittori e artisti.

c) Allo stato attuale gli scrittori non sono assistiti da unpotere contrattuale degno di questo nome, specialmentese messo in rapporto alle esigenze imperative di tuteladella loro specifica professionalità, esigenze che essicoltivano invece nella stragrande maggioranza, utiliz-zando qualifiche prioritarie come quelle di giornalisti,insegnanti, avvocati ecc.

d) Due dei sindacati sopra menzionati, il Sindacato na-zionale scrittori e l’Unione nazionale scrittori e arti-sti, risultano stabilmente collegati a un sindacato gene-rale di riferimento: rispettivamente la ConfederazioneGenerale Italiana Lavoratori CGIL, per il Sindacatonazionale scrittori, e la Unione Italiana LavoratoriUIL, per l’Unione nazionale scrittori e artisti. L’una el’altra associazione traggono dal sindacato di riferimen-to la base per la determinazione concreta della loro rap-presentatività sindacale, nelle sedi in cui assumono tut-ta la loro funzionalità le differenze di quota.

e) Rappresentanza e tutela degli interessi degli scrit-tori di cui al S.N.S. e alla U.N.S. trovano pertanto nel-le associazioni specifiche di categoria quel referenteprossimo che associa alla propria la visibilità benmaggiore di CGIL e UIL, nelle varie sedi sia della con-trattazione e sia della promozione culturale.

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Convenzione CISL-SLSI

quella libertà, scritta nel nostro codice genetico, chi potràmai togliercela? Chi ci proverebbe mai? Tanto più che un’i-stituzione come la CISL, nel mondo sindacale italiano e in-ternazionale, è ascritta emblematicamente in quota alla li-bertà, è il sindacato delle masse di lavoratori, che tributa-no il loro suffragio al primato della persona, alzando unabarriera invalicabile a difesa della società civile, come so-cietà aperta, contro statalismi, collettivismi, totalitarismi.

3. A bussare siamo stati noi, ma la CISL ci ha accolti abraccia aperte. Non ha dato peso alle nostre tergiversazio-ni, alle nostre riluttanze quietistiche, poco giustificabili,tra l’altro, dopo che la più recente delle organizzazioni, laUNS, si era sollecitamente accordata con la UIL. La spintadecisiva, negli ultimi tre mesi, è venuta dalle urgenze del-le “relazioni internazionali”. Al tavolo delle riunioni congli altri due sindacati è emersa la nostra debolezza. Vi ab-biamo posto riparo esibendo le credenziali della nostracontiguità, ancora non formalizzata, alla CISL.La ripartizione del fondo SIAE alle tre organizzazioni – unminimo vitale per il SLSI – è stata effettuata secondo criteridi rappresentatività, definiti sul continuum CGIL–Sindacatonazionale; CISL–Sindacato libero; UIL-Unione nazionale.Nulla di fittizio, da parte nostra, ma eravamo in difetto.Per noi del SLSI il 7 luglio 2003 è una grande giornata: enon solo per noi, secondo i più espliciti riconoscimenti diPezzotta e di Betti. È un’operazione, che nasce bene, rego-lata egregiamente essa pure, nel suo piccolo, dal principiodi sussidiarietà. Nulla muta nella nostra identità, ma nonè più un’identità alle prese con le innumerevoli incognitedel suo elitismo. Nel rispetto del principio di sussidiarietà,adesione, associazione, integrazione rafforzano la nostraautonomia, conferendole un più ampio respiro nell’orga-nizzare il presente e nel programmare il futuro. Facciamoun solo esempio. Al segretario generale Savino Pezzotta e alsegretario Sergio Betti abbiamo segnalato i molti limiti,d’altronde noti e largamente criticati, della legge Bacchelli.Una pressione per le opportune modifiche oggi il SLSI puòimmaginare tra gli obiettivi, che, nati nella cerchia dellesue esperienze e delle sue competenze, possono essere fattipropri dalla CISL e sostenuti attraverso le opportune con-vergenze con le altre organizzazioni e con gli altri sinda-cati, da una volontà unitaria, che non si arresti, intimidi-ta, alle soglie del Parlamento. Altro esempio. Ci sono state leelezioni alla SIAE. I nostri candidati, inseriti in altre liste,meritavano una struttura organizzativa, che ne promuo-vesse un più ampio successo. Sarà per il prossimo turno.

4. Il patto con la CISL, per noi della Giunta esecutiva, è unevento, e su questa linea, tracciata con ironia, intendiamopresentarlo e illustrarlo ai soci tutti. Nessuna enfasi: manessun timore di mettere sulla carta l’aggettivo storico perun accordo, che sfugge con ogni evidenza alle maglie dellacronaca.

Francesco MERCADANTE

TUTTO CIÒ PREMESSO

tra la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori(C.I.S.L.) e il Sindacato Libero Scrittori Italiani(SLSI) (in seguito le parti)

SI CONVIENE E SI STABILISCE QUANTO SEGUE:

1. La Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori(CISL) e il Sindacato Libero Scrittori Italiani (SLSI),dando seguito alle intese preliminari intercorse tra leparti, si riconoscono reciprocamente titolo, ruolo e fun-zione di sindacato di riferimento, la CISL per il SLSI eil SLSI per la CISL.

2. Detto riconoscimento impegna le parti alla più lealee fattiva collaborazione, ferma restando l’autonomiaorganizzativa e amministrativa del SLSI nella confor-mità al suo Statuto, che qui espressamente si richiama,nelle disposizioni relative alla apoliticità e alla acon-fessionalità del SLSI, garanzia irrinunciabile di plurali-smo per i suoi iscritti.

3. Detto riconoscimento:a) decorre dalla data della firma della presente con-venzione;b) è a tempo indeterminato;c) obbliga le parti all’esclusività della scelta;d) conferisce al Sindacato Libero Scrittori Italiani ilcriterio per il calcolo della sua rappresentatività;

4. Una commissione paritetica di sei membri designati dal-le parti, provvederà alla integrazione della presente con-venzione con accordi che regolino i molti aspetti giuridici,amministrativi, organizzativi e logistici del reciproco rico-noscimento, anche sulla traccia di istanze e disponibilitàgià espresse nel corso delle trattative orali e scritte.

5. Le parti si impegnano a dare la massima pubblicitàalla presente convenzione sui propri organi di stampa eattraverso ogni altro mezzo di diffusione della notizia(riunioni, congressi, conferenze, ecc.).

Roma, 7 luglio 2003

Firmano:

Per la C.I.S.L. Per il S.L.S.I.Il Segretario generale Il Presidente

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Caro Presidente,

ho letto con molto interesse il documento relativo al-la Convenzione intervenuta tra la CISL, rappresen-tata dal Segretario Generale Savino Pezzotta, e ilSLSI da te autorevolmente rappresentato.Era necessaria – comunque, non ulteriormente rin-viabile – la soluzione del problema di trovare per ilSLSI un sindacato di riferimento per determinarnepiù concretamente la rappresentatività sindacale,per tutelare più seriamente la specifica professiona-lità e rendere più efficacemente operante il poterecontrattuale degli associati.Personalmente, come colui che ha avuto modo di col-laborare al prestigioso organo, fondato da Giulio Pa-store, della CISL, “Le conquiste del lavoro”, in cui hosempre potuto ravvisare una palestra di libertà distampa, e come autore della gloriosa Casa Editricedella CISL, “Edizioni Lavoro”, non posso non ralle-grarmi vivamente del fatto che il SLSI il sindacato diriferimento l’abbia trovato nella CISL.

Le ragioni di questo mio rallegramento? Anzi tuttoquella – e spero che sia una ragione valida – di unostudioso che, pur tutelato da una professionalità ac-cademica, ha sempre avuto modo di occupare nelSLSI uno spazio interattivo di libera azione cultura-le, sperimentando personalmente la fedeltà degli as-sociati alle norme statutarie relative all’apoliticità,all’aconfessionalità e alla democraticità.Vedo che, nel secondo punto della Convenzione, il ri-chiamo a queste norme è esplicitamente e giusta-mente fatto. Ed è un punto, questo, da fermare condecisione. Almeno se è vero che la CISL è il Sindaca-to lavoratori del nostro Paese che, più di tutti gli al-tri, persevera nel compito di difendere gli interessieconomici e professionali dei suoi iscritti senza in-cursioni improprie nell’area politico-partitica.Si accenna, ovviamente, ad incursioni, che a qual-che Sindacato – come la CGIL, in cui trova la suacollocazione da sempre il Sindacato NazionaleScrittori – fanno correre il rischio di oscurare senon di smarrire la sua fisionomia più propriamen-te sindacale, tra le turbolenze no-global della piazzae la vertigine ludica dei girotondi.

Sono pervenuto, caro Presidente, al momento nodaledel mio discorsetto, che non vuole essere affatto di oc-casione. In quanto lavoratore intellettuale, lo scritto-re entra in quel mondo ormai sempre più complessoche è il mondo del lavoro. È in questo mondo e solo inquesto mondo che lo scrittore ha bisogno di una rap-presentatività sindacale robusta, energica, ad uncerto punto anche coraggiosa, che tenga unita la qua-lità alla quantità, per qualità intendendosi la cultu-ra e per quantità la decisione politica. Con la CISLpiù vicina, il SLSI, naturalmente pur nella sua auto-nomia organizzativa ed amministrativa, guadagnauna più alta capacità di rappresentare e tutelare l’o-pera dell’ingegno. Del resto, esso vuol essere un Sin-dacato libero, per ciò stesso aperto ad accogliere insé, per rappresentarlo appunto e tutelarne gli inte-ressi, il protagonista di un’avventura culturale ri-spettabile, quali che siano la sua appartenenza poli-tica e la sua militanza ideologica.Ne deriva al SLSI una più moderna caratterizzazio-ne, degna di particolare considerazione in un mo-mento della vita civile e culturale del nostro Paese,in cui non è più lecito alzare una barricata tra unlavoratore intellettuale “di destra” ed un lavoratoreintellettuale “di sinistra”.

Spero che la commissione paritetica di cui al punto4 della Convenzione faccia un lavoro proficuo per-ché l’azione del SLSI proceda, costruttivamente,lungo il sentiero che la Convenzione traccia, con unequilibrio, che va ben al di là della succinta formu-la giuridica. Questa novità viene da lontano, ed ar-riva, se posso dirlo da vecchio socio, al momentogiusto, raggiungendo il punto d’intersezione esattotra politica e cultura. È cosa assolutamente feliceper la mia intelligenza l’adesione ad un Sindacato,che non valga né un’opzione acriticamente ideolo-gica né una scelta di parte politica: ma una sfidarinnovata a tessere rapporti fecondi, facendo la spo-la, tra Società e Cultura.

Un saluto cordiale dal tuo

Roma, 22 luglio 2003Antimo NEGRI

Lettera aperta di un socio al presidente

Antimo N E G R I

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Di Mario Pomilio, lo scrit-tore che più di altri, inquesto tempo di sradi-

cate appartenenze, ha testimo-niato, nei suoi testi, il senti-mento della profezia e dell’atte-sa, del bisogno di capire l’umil-tà della parola nella consapevo-lezza della storia che è semprestoria di umanità, sono state ri-trovate (nel decennale dellascomparsa) tre lettere inedite,custodite dal Centro Studi e Ri-cerche “Francesco Grisi” e orapubblicate nel volume Spiritoe verità per conto delle Edizio-ni del Centro CSR; nelle qualisostanzialmente si parla delrapporto tra società, impegno,politica e ruolo della letteratu-ra. Risalgono la prima al 1970 ele altre due al 1973. Sono tuttee tre indirizzate allo scrittoreFrancesco Grisi. Si parla dellascissione del Sindacato Nazio-nale Scrittori e dell’adesione daparte di Pomilio al nascenteSindacato Libero Scrittori.Adesione che ci fu e non ci fuper motivi che non furono solodi ordine letterario. Queste let-tere documentano come Pomi-lio fosse attento al dibattito cul-turale di quegli anni (ci si rife-risce ai primi anni Settanta, ap-punto) e seguisse da vicino leevoluzione dei fatti prendendodelle precise posizioni, raggiun-te, in primo luogo, con la suapaziente ricerca linguistica e lasua forza creativa ma anche, ein secondo luogo, con una co-scienza civica che lo poneva alcentro dei dibattito tra gli intel-lettuali.

*

La scissione del Sindacato Na-zionale Scrittori sanciva un rap-porto necessario tra politica ecultura. E Pomilio lo evidenzia,nelle lettere, con molto corag-

gio. Afferma che “il vecchio sin-dacato diventerà impraticabi-le”. Lo dichiara nella lettera da-tata Napoli 2. XII. 70. Ma nellostesso tempo sottolinea a Grisi:“Temo che, per necessità di co-se e al di fuori della vostra vo-lontà, anche il nuovo sindacatofinisca per definirsi in sensopolitico...”.Cosa propone in fondo Pomilio?Qui subentra lo spirito della tol-leranza e della riconciliazione.Pomilio scrive queste preciseparole: “...l’ideale, a mio parere,sarebbe oggi un raggruppamen-to il quale provochi una ricon-fluenza di quanti sono interes-sati alla letteratura...”. Fartrionfare la letteratura al di làdi ogni schieramento. Invita in-somma a ricreare un nuovo spi-rito unitario in nome della let-teratura per non correre il ri-schio “che tanti scrittori diven-tino tante anime sparse in cer-ca di tetto”. Si poneva costan-temente davanti a queste rifles-sioni che avevano un loro sensosul piano letterario e puntavaad un confronto tra i vari ade-renti ai due Sindacati.L’uomo Pomilio era tutto den-tro lo scrittore cattolico, chepuntava all’armonia, alla sere-nità, allo stare insieme comeuomini e quindi come scrittori.Tra Pomilio e Grisi ci fu un belrapporto, improntato alla mas-sima lealtà. Entrambi, comun-que, sono parte integrante diuna linea di tendenza lettera-ria, che è quella della testimo-nianza religiosa in una lettera-tura che ha come perno centra-le l’identità cristiana.

*

La seconda lettera, datata Na-poli, 17-5-73, contiene una noti-zia, rimasta per decenni nell’om-bra: notizia, che ci consente di

piantare una pietra miliare nellastoria del Sindacato. Nella pri-mavera del 1973 Diego Fabbri sidimette dalla Presidenza con ungesto clamoroso. La rottura ècon Grisi che, risentito, partesubito alla ricerca di un succes-sore. Officia Pomilio, scrittore disuccesso certamente all’altezzadelle autorevoli figure di Baroli-ni e di Fabbri. Che magnificacombinazione, che trinomio per-fetto proseguire con Pomilio! Senon che, raggiunto dalla propo-sta improvvisa e assalito dalla«bruciante necessità di deciderelì per lì», l’autore del QuintoEvangelio prende tempo, i clas-sici tre giorni, da sabato a mar-tedì. Troppi, per Grisi. La telefo-nata – poi la lettera – di accetta-zione arriva con un brevissimoritardo, ampiamente giustificatoe accompagnato da una nota dirammarico. È così che il SLSIperde un’occasione – il Sindaca-to, almeno quanto Pomilio – chenon si ripresenterà. Probabil-mente Grisi, e tutto il Comitatocon lui, avrà contato sull’entu-siasmo di Pomilio, che non ci fu;mentre ci fu una più riflessiva,più ponderata, ma perciò stesso,vista a posteriori, più persona-lizzata accettazione formale. Il sì di Pomilio, minimamentetardivo, cade peró nel vuoto,forse per consentire – attesa va-na – a Diego Fabbri di recedere.Esattamente dopo cinque mesi,Grisi torna alla carica. DiegoFabbri autorevolmente non havoluto saperne.Non abbiamo elementi per direse Grisi abbia preso contatti, perla candidatura alla presidenza,con altri scrittori: correva voceche si fosse rivolto a Bargellini.Sapeva dove mettere le mani. Inottobre Pomilio rifiuta, e lo facon la prontezza, che gli eramancata a maggio. Egli ritieneche la proposta di ottobre sia un

ripiego: e si mette a fare, improv-visando, una lezione di politicadella cultura. Tira fuori di nuovo,lasciandole in piedi, le obiezionidi maggio: quelle stesse che dalui erano state superate una do-po l’altra, nell’atto di dire di sì.

*

Nella terza lettera Pomilio re-cupera tutto il suo aplomb, lie-to di essere un presidente man-cato, cioè dello scampato peri-colo. La lettera è scritta a mac-china ed è datata 14 ottobre1973. Dopo appena tre righe dipremesse Pomilio annunciache, “valutati dunque il pro e ilcontro, non me la sento propriodi accettare”. Si riferisce chia-ramente alla carica di presiden-te: e si tira da parte, come chiha un buon motivo per dire: “amaggio non mi avete voluto voi,a ottobre non vi voglio io”.“Già il ruolo che mi proponid’assumermi mi spaventa, inquanto farebbe di me quasi unabandiera”. Ma a maggio non eralo stesso ruolo? Ed aggiunge,sparando a zero, come se il Sin-dacato nel frattempo abbiacambiato identità: “ma oltre aciò ti confesso che, come il Sin-dacato Nazionale si è qualifica-to in un modo che non mi trovad’accordo, cosi, mi pare, il Sin-dacato Libero, contro la suastessa volontà, è venuto occu-pando uno spazio nel quale nonmi riconosco”. Ricompare l’uo-mo non più con la sua analisilucida, ma con i suoi sentimen-ti, con la sua nobile ambiguità.Chiude infatti la lettera conqueste parole, indirizzate all’a-mico Grisi: “Se una cosa m’hatormentato, in questi giorni,non è stata tanto la perplessitàsulla decisione da prendere,quanto il pensiero di dover ri-spondere con un no a una pro-

s t o r i a d e l s l s i

Pomilio candidato nel ’73 alla presidenza del slsi.L’accettazione e il rifiuto

Pierfranco BR U N I

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posta dietro la quale sentivo lastima e l’amicizia che mi porti.Sono certo tuttavia che questarimarrà intatta”. E l’amicizia trai due non fece alcuna piega.Queste lettere inedite sono, inrealtà, un documento, che sipresta a una duplice lettura:una prettamente letteraria (loscrittore con la sua autonomiae il suo bisogno di libertà) e l’al-tra decisamente metapolitica.La caratterizzazione ideologicainfastidisce Pomilio, che, puressendo politicamente vicino acerti ambienti cattolici, separa idue momenti. E mai li ha sepa-rati con maggiore intransigen-za, e forse con maggior sacrifi-cio, come nell’ottobre 1973,con un rifiuto certamente me-tapolitico. Scrive in Il Nataledel 1833: “... ci sono tristezzeche sembrano perdere la me-moria di sé e non sanno piùd’essere tali; o meglio, entrato afar parte d’una più generaleabitudine alla mestizia, dovel’anima rifiuta d’istinto di rico-noscerle o diventa incapace didistinguerle”. Le lettere tra Po-milio e Grisi meriterebbero piùampio esame, che ne trattassecome di un “pezzo” di memoriache racconta un “pezzo” di let-teratura.

TRE LETTERE DI POMILIO

Napoli, 2.XII.70

Carissimo Grisi,sono felice che il libro diColucci ti sia piaciuto e cheil tuo giudizio coincida colmio, e ti ringrazio di quantostai facendo e di quanto fa-rai in vista della sua pubbli-cazione.Anch’io avrei voglia di ve-derti, ma sono costretto arinviare di settimana in set-timana un possibile viaggioa Roma.Ho seguito come si può se-guirle da lontano le vicende

sindacali e la mia convinzio-ne è che il vecchio sindaca-to venterà impraticabile.Escludo dunque di rinno-varne la tessera ed ascludodel tutto per conseguenzadi collaborare col Fianca-stelli. Anche altri, qui, se-guiranno il mio esempio.Più difficile mi riesce invecepel momento stabilire l’ul-teriore da farsi. Se cioè con-sento con voi nei motivi chevi hanno guidato nella vo-stra azione. Temo che, pernecessità di cose e al di fuo-ri della vostra volontà, an-che il nuovo sindacato fini-sca per definirsi in sensopolitico, frenando molti chepure so che usciranno dalvecchio, per cui l’ideale, amio parere, sarebbe oggi unraggruppamento il qualeprovochi una riconfluenzadi quanti sono interessatialla letteratura, e dunquedella massima parte degliaderenti al nuovo sindaca-to, a cominciare da te, svuo-tando in pari tempo il vec-chio di tanti che vi sono ri-masti per pigrizia. Io pensoche la situazione possa ma-turare in tal senso, ricer-cando la premessa per unaunità sindacale, ed è per ta-le ragione che pel momentosono ancora in sospeso edesito ad aderire al nuovosindacato. È imminente cioèil momento in cui, posti difronte al rinnovo della tes-sera, molti di coloro che so-no rimasti al vecchio postosi guarderanno in faccia do-mandandosi: che fare? E al-lora forse sarà possibilegettare le basi di una inte-laiatura che, per le ragionistesse che li hanno mossi,non dovrebbe trovare in-sensibili coloro che hannopromosso la creazione delsindacato nuovo. È giusto,io penso, aspettare quel mo-mento, se non si vuole chetanti scrittori diventinotante anime sperse in cercadi tetto.Può darsi che io sbagli pro-

spettiva. Ma sono certo che,giudicandomi dalla mia buo-na fede e dalla lealtà con laquale ti ho parlato, mi per-donerai questa sospensivache del resto, per come èmotivata, può mettermi inuna posizione di forza neiconfronti di tanti amici chesono rimasti nelle vecchiefile.Ti ho parlato, ripeto, leal-mente e so che tu lo apprez-zerai come io ho apprezzatoil tuo coraggio. Del resto,ripeto, occorrerebbe veder-si, e molti argomenti riusci-rebbero più chiari.Arrivederci, di nuovo ungrazie e un caro abbracciodal

tuo Mario P.

* * *

Napoli, 17.5.’73

Caro Grisi,come tua moglie ti avrà det-to, io poi ti telefonai loscorso martedì, e cioè l’8maggio, per dirti che erodisposto ad accettare. Tuamoglie però mi disse che titrovavi a Bologna, ed io al-lora la pregai di avvertirtidella mia telefonata. Certa-mente però era troppo tar-di, e tu avevi deciso altri-menti, se no mi avresti ri-chiamato. L’errore è statomio, che mi son preso evi-dentemente troppo tempoper riflettere: ma tu capiraiche volevo ponderare tutto,mentre la tua telefonata miaveva posto di fronte allabruciante necessità di deci-dere lì per lì, disorientando-mi. Del resto, mi presi appe-na due giorni, da sabato amartedì. Comunque non tiscrivo per esprimerti unmio rammarico, ma sempli-cemente per confermarti –qualora per caso tua moglieavesse dimenticato di av-

vertirti – che non ero venu-to meno alla mia promessa.E scusami del ritardo.Con la solita amicizia, salu-tandoti caramente.

Mario Pomilio

* * *

14 ottobre 1973

Carissimo Grisi,ti avevo chiesto di poter ri-flettere sulla tua proposta.L’ho fatto: e siccome giusta-mente tu hai da essere av-vertito in tempo per pren-dere le tue decisioni, mi af-fretto a scriverti.Valutati dunque il pro e ilcontro, non me la sento pro-prio di accettare. Già il ruo-lo che mi proponi d’assu-mermi mi spaventa, in quan-to farebbe di me quasi unabandiera. Ma oltre a ciò ticonfesso che, come il Sinda-cato Nazionale si è qualifi-cato in un modo che non mitrova d’accordo, così, mi pa-re, il Sindacato Libero, con-tro la sua stessa volontà, èvenuto occupando uno spa-zio nel quale non mi ricono-sco. Se accettassi, sarebbeper acquiescenza, per l’ami-cizia che debbo a te e ad al-tri fondatori del S.L.S., enon per convenzione. Ed ècertamente la cosa che tumeno vorresti.Scusami, e credi comunquenella mia riconoscenza. Seuna cosa m’ha tormentato,in questi giorni, non è statatanto la perplessità sulladecisione da prendere,quando il pensiero di doverrispondere con un no a unaproposta dietro la qualesentivo la stima e l’amiciziache mi porti.Son certo tuttavia che que-sta rimarrà intatta.Con un affettuoso abbrac-cio.

Tuo Mario Pomilio

s t o r i a d e l s l s i

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In questa rivista «Scrittori italiani» devo lasciare deipersonali ricordi su un grande scrittore da pocoscomparso, Alfredo Cattabiani. Venne a Roma nel

1961 introdotto da Mario Marcolla al primo Incontro ro-mano della cultura tra scrittori italiani e stranieri di de-stra, che avevo organizzato per il Centro di Vita Italia-na. In una Torino dominata dal conformismo resisten-ziale apparteneva alla cerchia di giovani non conformi-sti di destra che frequentavano Augusto Del Noce. Siera laureato con una tesi su De Maistre. Norberto Bob-bio, correlatore, l'aveva buttata per terra con rabbia.Un altro ragazzo in quel clima si sarebbe spaventato.Cattabiani ricordò divertito quell'episodio, imparando-ne un paio di cose. La prima: che con la sua scelta diidee gli correva l'obbligo d'essere coraggioso. La se-conda: che non gli riusciva difficile.Nato per la letteratura, con una vocazione all'editoriaaccanto a quella per la scrittura raffinata e profonda,utilizzò come editore esordiente le conoscenze che po-tè fare nei nostri incontri. Avevo invitato un bel gruppodi scrittori francesi (tra gli altri Gabriel Marcel, MichelDeon, l'editore Roland Laudenbach della «Table Ron-de», Dominique de Roux, che si portò dietro la vedovadi Céline) e americani (John Dos Passos, Thomas Mol-nar, James Burnham, Russell Kirk, Bill Buckley, l'edito-re Regnery e altri). Tra i primi libri che pubblicò, conuna prefazione a parafulmine di Carlo Bo, vi fu l'esplo-sivo La grande paura dei benpensanti dedicato daBernanos all'ingenuo scrittore antisemita Drumont. Ilruolo storico di rottura che ebbe nell'editoria come di-rettore dei libri Rusconi è sin troppo noto. Fu lui a por-tare Del Noce fuori da un pubblico di specialisti. Rega-lò alla Rusconi anche un successo economico col librodi Tolkien, che non ci piaceva: entrambi convinti che imiti abbiano un fondamento storico, non sopportavamoleggende inventate.Ci ritrovammo a «Il Settimanale», dopo che Rusconi,trovandolo compromettente, lo costrinse a emigrare aRoma in cerca di lavoro. Quando chiuse «Il Settimana-le» fece la scelta coraggiosa e un po' folle di vivere so-lo di collaborazioni, scrivendo articoli e libri. Ci riuscìsino quasi alla fine applicandosi con la capacità di lavo-ro a cui si deve un corpus di opere che stava ormai co-prendo quasi tutti i campi dell'immaginario con Calen-dario (1988), Simboli, miti e misteri di Roma(1990), Santi d'Italia (1993), Lunario (1994), Flora-rio (1996), Planetario (1998), Volario (2000) e Zoa-

r io (2002). Un'opera più importante di quella di Zolla,perché più concentrata sulla tradizione mediterranea,che è la nostra sola possibile tradizione. Le curiositàesotiche saranno pure interessanti, ma rivelano sco-perte recenti, non tramandate.Devo alle sue insistenze il primo libro che ho pubblica-to, Socialismo tricolore (1983), con l'Editoriale Nuo-va diretta da Renato Besana, e anche Una storia dellaRepubblica (2000) con la Bur di Rizzoli diretta daFranco Grassi. Lo ricordo per testimoniare quanto Cat-tabiani fosse abituato a pensare agli altri. Persino nellamalattia si distraeva dalla morte cercando di far asse-gnare premi agli amici, con un legame ideale che pren-deva senso dall'esigenza di difendere spazi di libertà al-trimenti negati. Fu il motivo dell'adesione al Sindacatolibero scrittori italiani, appartenendo a quel tipo di gen-te a cui nessuno ha mai regalato la libertà, perché se ladovette conquistare giorno per giorno, per tutta la vita.

a l b o l a p i l l o

In memoria di Al fredo CattabianiGiano AC C A M E

A f o r i s m iFrancesco CA N F O R A

Tappeto: i l vest i to pudico del nudo pavimento.

Fidars i è bene, non f idars i è megl io , specia l -mente se s i par la con se stess i .

Io : pr ima persona per coniugare ogni verbo.

Viaggio in paradiso: un v iaggio desiderato, cheperò tutt i prefer iscono r inviare.

La presunzione è la sorel la del l ’ambiz ione e lamadre del la superbia .

Autogiust i f icazione: i l modo più sempl ice persent irs i buono.

Quando s i vanta la propria g ioventù di spir i to ,la vecchia ia è in agguato.

I l l ibro, come i l cane, è i l migl iore amico del-l ’uomo, ma l ’uno può mordere la carne e l ’a l trolo spir i to .

La memoria del la grat i tudine: un r icordo chescompare velocemente.

Maldicenze: le not iz ie che corrono veloci .

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Sarà perché sono nato aipiedi del Faro di SaliRaineri in quella falce di

terra che si protende a prote-zione della città a cui essa die-de il nome di Zancle sarà per-ché da li mi bastava allungarela mano con la fantasia perchémi sembrasse di toccare conl’indice l’Aspromonte saràperché nella notte di plenilu-nio la luna apparendo da die-tro i monti mutava lo Strettoin una grande strada scintil-lante di argento da invitarmiad attraversarla a piedi o con ipattini a rotelle coi quali alloracorrevo sull’asfalto sarà per-ché ho passato due anni dellamia adolescenza a Crotone en-tro le mura dei Castello di Car-lo V contemplando dall’altodei suoi spalti le navi di tutto ilmondo andare e venire per ali-mentare e alimentarsi dei con-cimi della Montecatini; saràperché subii il fascino dellecolonne volte ad oriente nelCapo che porta il loro nome;sarà perché sul finire degli An-ni Trenta divenni amico di uncoinquilino del mio stesso iso-lato, il 468, a cui la Patria biso-gnosa di ferro per le “iniquesanzioni” aveva divelto le in-ferriate; sarà per tutto questo,e in particolare per l’ultimomotivo che io ho considerato econsidero i calabresi fratelliseparati.Quell’amico era appunto cala-brese e studiava a Messina efu il primo a insegnarmi l’affi-nità tra classicismo e moder-nità, la perenne attualità del-la cultura greca, madre, comeMnemosine, di tutte le arti.Egli vive nei ricordi di quantilo conobbero, lo stimarono e loamarono; si chiamava AntonioPiromalli, ora anima di Dio.

Nell’anno del nostro incontronon ero stato ancora educatodalle eloquenti lezioni di Gio-vanni Sciavicco, professoredi lingua e letteratura grecaal Regio Ginnasio Liceo “Giu-seppe La Farina” e già Anto-nio mi aveva introdotto nelfascinoso mondo dei liricigreci. Era tempo di primave-ra e noi passeggiavamo nellaCirconvallazione fiancheg-giata dalle case in legno delVillaggio Svizzero dai tettispioventi in attesa di una ne-ve che non cadeva mai. Nelcrepuscolo si esaltavano gliodori della terra e si accen-devano le luci dei dirimpettaidi Calabria. Antonio mi reci-tò dei versi in greco e me litradusse secondo Valgimigli.Li ricordo ancora. Tramon-tata è la luna; - tramontatesono le Pleiadi; - a mezzo èla notte; l’ora passa, - io so-no qui, sola. Li recitò senzaenfasi ma riuscì a trattener-mi la malinconia di Saffo ad-dolcita dal profumo del gel-somino d’Arabia che i ragaz-zi, in bouquet detti “sponse”,portavano in mano con l’in-tenzione di dedicarli alle ra-gazze, non osando tuttaviadecidersi a quell’offerta d’a-more.Ci sedemmo su un parapettodella strada mentre gli altri ele altre proseguivano il pas-siu come da noi è detto ilpasseggiare avanti e indietro,l’andirivieni. Io mi sentivopreso dai languori della pu-bertà che mi davano uno sta-to d’animo di fastidio e di at-tesa e che rimpiango soloora, inafferrabili e irripetibilicome sono. Antonio mi sem-brava fuori da quella crisi,più maturo della sua giovane

età. Recitò qualche altro ver-so di Saffo: Ecco, scende dalcielo Eros - avvolto in unaclàmide di porpora. Ricor-do che fu quella la sera in cuisentii per la prima volta laparola “ermetismo”. Il suodiscorso da lirico antico siera fatto critico e contempo-raneo. Mi spiegò che la poe-sia ermetica aveva recupera-to il lontano gusto del fram-mento. Queste e tante altredivagazioni me lo rendevanomaestro, sebbene ci separas-sero due anni di età. Mi parlòdella tragedia, delle sue radi-ci nella poesia lirica, che coni cori ciclici, i nòmos e i diti-rambi si era trasformata, gra-zie alla follia dionisiaca, indramma delle passioni condue, tre, fino a quattro prota-gonisti destinati a scontrarsitra loro. Mi raccontò la leg-genda di Arione di Metimnache incanta con la musicadella sua cetra un delfino e lorende complice della sua eva-sione dai pirati portandolo ariva sul suo dorso. Mai di-menticherò i suoi racconti,tra colti ed eruditi, tanto chea riapprenderli dagli studiscolastici prestavo loro il fa-scino ispirato da lui.Perché racconto questo co-se? Perché desidero sottoli-neare quanta parte Antonioha avuto nella mia formazio-ne, quanto a lui debbo delmio amore per la poesia, can-to, pianto e follia da dar lucealla opaca realtà quotidiana.Più tardi capii che la MagnaGrecia di cui facevo parteuniva, più ancora del proget-tato ponte, la Calabria alla Si-cilia e che lì vivevano e vivo-no spiriti eletti, nascosti emanifesti, di cui Antonio Pi-

romalli era per me il Corifeo.Poi lui partì soldato, in guer-ra, e per decenni non lo vidipiù. Ho già raccontato comeun giorno riapparve per resti-tuirmi un libro prestatogliquaranta anni prima; e comeda allora riprendemmo queiconversari in apparenza ozio-si, vero nutrimento della no-stra giovinezza.Una sera cenammo insieme inun ristorante detto “Il Glicine”a Corso Trieste e parlammo alungo come si conviene a dueamici ritrovatisi dopo tantotempo; mangiammo più paro-le che cibo; lui mi raccontòdella sua carriera accademicache lo aveva portato al Nord equindi restituito al Sud; nonmi parlò però dei suoi viaggioltreoceano. Io gli dissi dellamia febbrile attività tra teatroe cinema alla vana ricerca del-l’ubi consistam. Ma fatal-mente i nostri discorsi scivo-larono sui temi astratti di untempo, il che equivaleva aconversare sul nulla. Eravamorimasti quasi soli nella salettache ci era stata riservata; inun angolo c’era un commen-sale giunto in ritardo e che cidava le spalle. I sofisti affasci-navano entrambi e valutam-mo insieme l’affermazione di

Antonio Piromal l i , f ratel lo separato

Turi V A S I L E

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Protagora secondo cui l’uomoè misura di tutte le cose, an-che di quelle che non sono. Ame pareva che si celebrassecosì la solitudine dell’indivi-duo; lui ampliò l’argomentoall’idealismo, al relativismo.Per me Gorgia restava al cen-tro del mistero con la sua as-serzione circa l’incomunica-bilità. Non sto a ripeterequello che ci dicemmo, io, alsolito, accalorandomi, lui pa-catamente. Un cameriere siera fatto sull’uscio e parevavolesse scacciarci coi gli oc-chi. Quando lo capimmo, sal-dammo il conto e uscimmo.Era una di quelle notti di giu-gno quando nelle strade diRoma circola, irresistibile, ilprofumo del tiglio. Gli apriilo sportello della mia mac-china per farlo entrare; miaccorsi che un individuo siera accostato nell’ombra;confesso di essere stato inti-morito dalla sua aria circo-spetta che mi parve losca.“Devo chiedervi scusa - dissequell’uomo - e dirvi grazie”.E si spiegò. “Scusa perchétutta la sera ho origliato aivostri discorsi: grazie perchémi avete fatto capire che c’èmolto, forse tutto, al di fuoridella mia misura”. Specificòdi essere un viaggiatore dicommercio genovese e chequella sera si era fermato oc-casionalmente a cenare inquel ristorante, dove si pro-poneva, tra un piatto e l’al-tro, di fare i conti della suagiornata. E invece lo aveva-mo costretto a fare i contidella sua vita. Cosi disse e siallontanò in fretta come se sivergognasse di quello che ciaveva confidato. Antonio miguardò con quel suo sorrisodolce e ironico: “Non sai maidove vanno a finire le paroleche noi pronunciamo, flatusvocis, fatte di vento e chenon significano niente, o chesignificano tutto per chi le

ascolta”. Stavo ingranando lamarcia, e lui diceva scherzo-samente: “E poiché eravamoal ristorante, possiamo direche non si vive di solo panema anche di chiacchiere”.Ecco, non ho difficoltà ad am-mettere che la nostra amici-zia di fratelli separati era ba-sata sulle chiacchiere. Ungiorno che gli avevo chiestochiarimenti sul Gruppo ’63,mi spedì per posta, come erasua consuetudine, una seriedi biglietti scritti con grafiacontorta e incerta, tuttavialeggibilissima. Vi aggiunse al-cune notizie sul movimentosiciliano Antigruppo, con-trapposto al primo sebbenecome questo radicato nellaideologia marxista. A vocepoi rilevò con sottile ironiache un rappresentante delGruppo, paladino della noncomunicazione, si era rivelatoun grande comunicatore tele-visivo! “È cosi, — mi disse —si inventano dottrine per po-terle contraddire con disin-voltura. Guarda Seneca —disse — grande moralista perpoter combattere i suoi pro-pri vizi.”Incapace e contrario comesono alle celebrazioni e allecommemorazioni formali, ioraccolgo nella mia memoriale tessere del mosaico che milegano a lui. Potrei continua-re, a rischio di apparire ba-nale con mille piccoli episo-di: in realtà in quegli aneddo-ti si rivelava a me un animosensibile, un carattere schivoma aperto, privo di scontro-sità, uno spirito tollerante.Raramente affrontò con meargomenti della sua vita pri-vata, solo un paio di voltesottolineò la cura amorevolecon cui suo figlio e sua nuoracustodivano la sua solitudi-ne. Come ho detto l’altra vol-ta, confidò a mia moglie nonso se per merito di lui o di leile vicende di una nostra crisi

familiare. Mia moglie ne tras-se un giudizio molto positivo,una ammirazione per la suagenerosità e comprensione,per la superiorità morale espirituale, che glielo reserocaro quanto caro era a meper altre vie.Contravvenendo alle abitu-dine tra fratelli, anche se se-parati, non litigammo mai,né polemizzammo, neppurenei casi in cui non eravamod’accordo. Non parlammomai, per esempio di politica,né di religione per le quali lenostre idee fortemente di-vergevano. Debbo attribuiresolo a lui la discrezione, sim-bolo di gentilezza. Un giornocitò una battuta di Diego Fa-bri: Un amico va preso cosicome è, va accettato senzatentare di cambiarlo, ché sa-rebbe violenza... . Era unachiara allusione alla nostraamicizia. Non parlammo cosìmai di amore, o di donne co-me si suol dire grossolana-mente. Avevo, sì, letto unasua lirica giovanile, in cuiera forse racchiusa unaesperienza autobiografica agiudicare dal tono elegiaco enostalgico, ma era stato unflash subito spento dagli in-teressi principali delle no-stre conversazioni, mirabil-mente alimentate dalla suacongeniale vocazione didat-tica. Per il resto egli eraschivo e pudico, con puntedi sottile ironia.

Concluderei qui il mio ricor-do di Antonio Piromalli semia nipote Liza, che sta met-tendo in ordine la libreriadello studio, non mi svento-lasse sotto gli occhi un libric-cino scoperto per caso dietrouna fila compatta di grossivolumi. Leggo il titolo: Anto-nio Piromalli - La ragazza diFerrara. È un esemplare diduecento copie “numeratipro manuscripto ad perso-

nam non venali...”. Sulla pri-ma pagina, una dedica auto-grafa a me “con affetto” e unadata: “Natale 1997”. Devoaverlo confuso in mezzo adaltri doni più vistosi ma mol-to meno preziosi. Cerco di ri-farmi della mia leggerezza e loleggo subito. E finalmente ca-pisco quel che già sapevo. Nel-l’intimità di quell’amico cosi ri-servato, scarso di espansioni,finalmente espresso, vaga, co-me egli stesso conferma nellalirica introduttiva, “un profu-mo sottile di cosa che nonesiste - ma sopravvive...”. Laragazza di Ferrara non haneppure un nome (forseZoia?); ma per lui è X. Appa-re in bicicletta in un paesag-gio sfumato in ville esistentie non, in occasioni diverse: ilsole gioca tra i suoi capelli;sul viso un volo di sottilissi-me efelidi; “la bocca qua-drangolare”. Si instaura unrapporto senza spazio nétempo: fatto di incontri ca-suali, di apparizioni anche insogno, un rapporto infinito diamore. “Perché mai ti strin-si al mio cuore – dureràquesto amore – cantava unafanciulla invisibile nel Carne-vale di Venezia de I quader-ni di Malte Laurids Briggedi Rainer Maria Rilke. X co-me Micòl del G iardini deiFinzi Contini? X, il segreto,come segreta è la poesia, diAntonio Piromalli, misuraanche delle cose che non so-no? Quella misura che avevaturbato il commesso viaggia-tore genovese di fronte a “IlGlicine”.

Ho raccontato tutto questoper tentare di trasmetteread altri quel che ho persocon la sua morte. Ma quandosarà reso possibile, lo cer-cherò e, trovatolo, gli dirò:“Antonio sono venuto a re-stituirti quello che mi haiprestato in vita”.

a l b o l a p i l l o

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Conobbi Giordano Corsi all’università, lui già lau-reato, io appena matricola. Simpatizzammo quasiimmediatamente - prima di diventare sinceri ami-

ci - grazie alla nostra passione per il cinema, che ci ac-comunò poi per tutta la vita. Giordano aveva l’incarico“politico” di fiduciario della sezione cinatografica deiGUF (Gruppo Universitario Fascista) di Messina: lui cheera di animo e di educazione assolutamente non fascisti.Ricordo con nostalgia e tenerezza il nostro primo in-contro in occasione della proiezione semiciandestinadei film Il cappello di paglia di Firenze di RenéClair. Giordano aveva trovato chissà dove una copia in9 mm del film e aveva noleggiato un piccolo rudimen-tale proiettore. Riusciva a mala pena a usarlo. Proie-zion semiclandestina, perchè gli spettatori fummo intutto cinque o sei in religioso trepido silenzio, proccu-pati che il film non si rompesse a causa della rugginedel proiettore.Dopo mille insistenze e reiterate promesse, riuscì a ot-tenere una cinepresa 16 mm. Con un solo obiettivo. Gi-rò alcune scenette di prova, spedite a Roma per lo svi-luppo e realizzò un paio di documentari. Uno impor-tantissimo, in collaborazione con l’istituto di fisiologiadell’Università, ebbe un premio in sede nazionale.

Dopo la guerra, funzionario della televisione per i pro-grammi culturali, divenne il mio referente per l’attivi-tà cinematografica che avevo iniziato, prima che mitrasferissi a Roma. Fu anche tra i sostenitori e gli sce-neggiatori dei film Il Cappotto diretto da Lattuada,che avevo patrocinato e promosso.Un maledetto malinteso e la cattiveria altrui ci tenne-ro lontani per alcuni anni. Quando ci riavvicinammo fucome se ci fossimo allontanati il giorno avanti, perchéeravamo amici.Il padre di Giordano era stato uno storico cultore del-le antiche e recenti memorie locali. Giordano ne avevaereditario la passione. Possedeva un archivio ricchissi-mo di documenti e di fotografie rare e straordinarie,che coltivava con la passione dell’erudito quale era. Al-cuni documenti e fotografie li ha pubblicati, altri sonoandati ad arrichire i fondi enti messinesi.Da quando era in pensione e si era «provincializzato»,come amava dire. Ci telefonavamo spesso.Da una ventina di giorni il suo telefono non risponde-va più. Pensavo che fosse partito, che fosse andato arifugiarsi in un luogo più fresco per mettersi a riparodal caldo di questi giorni.Ho saputo per caso che era morto, in silenzio e solo.

Un addio a Giordano CO R S I

Alfredo MI R A B I L E

A f o r i s m iFrancesco CA N F O R A

Gli anni spesi per r imanere g iovani non al lontanano gl i anni che arr ivano per diventare vecchi .

Le regole vengono poste per poter stabi l i re le re lat ive eccezioni .

“Spremuto come un l imone”: i l imoni protestano per i l catt ivo trattamento.

Autoqual i f icazioni : un modo per grat i f icars i .

Appel lo scolast ico: v io laz ione del la pr ivacy.

Arma bianca: un bianco leta le .

Curr iculum vitae: i l lungo elenco di c iò che non s i è fatto.

I l per icolo del le ver i tà non gradite è quel lo di passare per menzogne.

Autonomia di pensiero: errare in maniera diversa dagl i a l tr i .

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Il noviziato eroico. 1. Mi sia consentito premettereche un omaggio a Peppino Pellegrino per il suo ottan-tesimo non a un amico e collega dovrebbe essere affi-

dato, ma a un congresso. Grato al Sindaco di Milazzo ing.Antonino Nastasi, grato all’Assessore prof.ssa StefaniaScolaro, traccerò le linee scarne di una silhouette piùche di un ritratto in bianco e nero, giovandomi del tripli-ce titolo, che mi deriva dal poter io rappresentare qui: a)la scuola italiana, come un unicum: ma più specialmen-te, per ragioni, che riprenderò tra breve, l’università ita-liana, l’accademia; b) la scuola rosminiana, di filosofia edi spiritualità, ben diffusa nel meridione estremo d’Italia,a partire da Galluppi, fino a Lilla, Nicotra, Gentile, p. Giu-stino da Patti, Angelina Lanza, Rizzo, La Via, Sciacca, DiCarlo, Bonafede, Caramella; c) ed infine la provincia no-stra, quest’angolo di Sicilia, questi monti peloritani, so-vrastati dalla roccia di Pizzo Salvatesta, questa piana fer-tilissima, che ha per capitale Milazzo, verità che un com-paesano, come me, nato sui margini, in un paesino, cita-to tuttavia con onore nei “Beati Paoli”, nel paesino diFurnari; e poi vissuto tra il continente americano, in Ar-gentina, quattro anni; Castroreale, dieci anni; Barcellona,cinque anni; Messina, dieci anni più sedici di pendolari-smo, riconosce con la più viva e lieta partecipazione, met-tendo a tacere ogni riluttanza campanilistica.Venivo qui poco fa per il mar di ponente, e già il faro delCapo, laggiù, era acceso. Ai familiari, con cui mi accom-pagnavo, ho confidato che qui, in vista di questo mare, diqueste isole, di Vulcano, di Tindari non posso più venire.Troppo violento l’ingorgo delle emozioni. La notte quelfaro mandava messaggi a un bambino, che correva da unaterrazza all’altra, per contare i battiti di quell’unico cuoredi luce, a destra Milazzo, a sinistra Tindari, di fronte Vul-cano, visti dal piano panoramico di sant’Agostino sullemura della panoramicissima città di Castro. Nel “mar framezzo” le lampare, e sullo sfondo Stromboli con le suetriviali, abitudinarie, ma pur sempre festose incande-scenze d’ogni sera, o quasi. Quel bambino di settant’annior sono, che si è risvegliato in me poco fa al calare delleombre, si interroga ancora su quei messaggi cifrati, tuttiluce, eppure così tenebrosi. Né il fanciullo di allora né ilvecchio di ora, dopo tanto tempo, li hanno ancora capiti(per connessioni e integrazioni vedi: Turi Vasile, Il Se-maforo, SPES, Milazzo 1998).

2. Quando abbiamo stretto, Pellegrino ed io, il foedus fra-ternum? Non c’è una data, ma solo una vita, dura da una

vita. Con i compagni di liceo tutto comincia e tutto finisce,salvo l’incanto breve e la nostalgia lunga, alla prima svoltaverso il proprio orticello da coltivare, ciascuno il suo, an-che tra chi resta negli stessi luoghi: figurarsi tra chi si sper-de di qua e di là, tra chi si sposta e si sradica, andando adabitare la «Sicilia esterna». Ci conosciamo, Pellegrino e io,esattamente da sessantuno anni. Si troveranno lettere, da-tate primavera del ’42 al più tardi. Ne ricordo una, scrittada me sotto l’influenza di Evola, che vorrei ritrovare e bru-ciare, ora per allora, tanto era il tossico di quell’addottri-namento. È da quella remota età della fantasia che ci sia-mo trattati come se sapessimo quello che saremmo diven-tati, non da lì alla laurea o da lì al concorso, ma da lì… al-l’eternità. Il foedus fraternum fiorisce spontaneo sul vec-chio muro di un liceo classico di provincia, intitolato a Lui-gi Valli, poeta e scrittore di qualche fama, seguace del Pa-scoli, imparentato con famiglie importanti di Barcellona.In quel liceo Peppino si iscrive, per frequentare la sezioneA, nella quale insegna Satullo, il grande italianista, giàmaestro di Pugliatti e di Quasimodo, non di La Pira, allie-vi dell’Istituto Jaci a Messina, circa venti anni prima. Sa-tullo era notoriamente antifascista, ma non politicizzava lalezione d’italiano. Se del caso, credo di ricordare, finiva ilprogramma, come prescritto, con una lezione sull’oratoriadi Mussolini.Altissimo è il prezzo, che un ragazzo milazzese che ha illiceo classico nella sua città, paga per mettersi alla scuo-la di un professore di italiano nel liceo classico di una cit-tà vicina, facendo da pendolare a piedi una diecina di chi-lometri e col treno i restanti diciotto. In questa decisionedel liceale, che, ancora acerbo scolaro, non rinuncia a di-stinguere insegnante da insegnante e a preferire la catte-dra di un italianista, che ha un suo metodo, che ha so-prattutto una sua estetica, fusa perfettamente con la di-dattica, Pellegrino c’è già tutto, il Pellegrino duro e purodai quindici agli ottanta anni, sempre lo stesso esigente“uomo di lettere”, pronto a pagare di persona. La didatti-ca di Satullo esercita la maggiore efficacia, simile a quel-la di una medicina amara, nella correzione del compito diitaliano. Nessuna pietà, rigore anzi estremo, dinanzi allaprosa di gonfiore dannunziano, o di leziosità parnassiana,con eventuali cedimenti all’orfismo; e tutto ciò anche percontrastare la retorica del regime, che si stende primache sul paese sulla scuola come un’ala funebre. Di un in-dirizzo critico verso un tipo di sensibilità alla poesia, chetra breve, tra il ’43 e il ’44, avrebbe spinto Pellegrino al-l’abbracio con una scrittrice, totalmente priva di monda-

Per l’ottantesimo di Peppino Pellegrino

Francesco ME R C A D A N T E

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nità letteraria, le premesse, almeno quelle di massima, sicollegano sotto traccia all’insegnamento di Satullo (sulquale notizie e osservazioni preziose in PUGLIATTI, Paroleper Quasimodo, Ragusa 1984).Da quale retroterra spunta la passione di Pellegrino perla letteratura: passione che precede e spiega, nel licea-le, la scelta di Satullo, e non viceversa? L’amico ci haprivato e ci priva ancora di ogni soccorso di notizie au-tobiografiche. Ma non è difficile immaginare le avven-ture di un precocissimo, insaziabile lettore di libri, checede al disordine dell’autodidatta. È questo il momen-to in cui l’età rende magnificamente: un ragazzo diquindici-sedici anni, che indovina il cavallo vincente,recandosi a lezione da Satullo, fa già tutto da sé con unsuccesso, che certo si prolungherà, sempre che duri,però, la buona stagione.Letterato sulla breccia a diciotto anni, compagno e col-lega fantasioso, ammirato da tutti, Pellegrino non guar-da in faccia nessuno di noi colleghi minori e minimi. Eb-bi la fortuna inaudita di ottenere da lui in prestito un vo-lume, mi diede niente di meno che il Virgilio di SainteBeuve, da restituire entro dieci giorni; e mi diede, di Val-gimigli, La mia scuola, da un lunedì a un sabato.

3. Nel ’42 avviene il riconoscimento pubblico, seconda eultima fase del noviziato eroico: Peppino Pellegrino scri-ve sul «Meridiano di Roma», l’autorevole settimanale let-terario, diretto da Cornelio Di Marzio. Il giovane passaper la porta principale e si costituisce in un ambiente, do-ve i suoi maestri, i suoi autori, ci sono tutti. Traggo a ca-so dalla lista dei collaboratori i nomi di Anton Giulio Bra-gaglia, Alberto Consiglio, Giacomo Debenedetti, NelloQuilici, responsabili della redazione; Alicata, Ansaldo,Bellonci, Bigiaretti, Bodrero, Bontempelli, Bottai, DiegoCalcagno (ai milazzesi questo nome dirà qualche cosa),Gianfranco Contini, Silvio D’Amico, Flora, Giovanni Gen-tile, Ezio Maria Gray, Guttuso, Jacobbi, Concetto Mar-chesi, Elsa Morante, Moravia, Anna Maria Ortese, Anto-nio Piromalli, Quasimodo, Sinisgalli, Mario Spinella (an-che questo nome suscita qualche eco, non a Milazzo, maa Messina), Trombadori, Ungaretti, Vigorelli. E ho letto,ripeto, con molte censurabili ma inevitabili omissioni.Pellegrino entra nella cerchia dei collaboratori a vent’an-ni. Sarà stato di gran lunga il più giovane in quell’elenco:e non lo ha raccomandato nessuno. Una tale rassegna dipersonaggi, alcuni dei quali in odore di eresia, già passa-ti probabilmente nelle file o della fronda o dell’opposizio-ne clandestina, prova che il settimanale non segue una li-nea di rigido controllo ideologico delle ortodossie. “Leconcezioni di Di Marzio erano sotto molti aspetti simili aquelle di Bottai, anch’egli credeva che il fascismo doves-se far posto a tutte le tendenze culturali, per incoraggia-re in modo speciale le idee e gli stili nuovi e di avanguar-

dia. La sua rivista forniva ospitalità a quanti preferivanooperare costruttivamente entro i confini del regime, manon ebbe mai la statura, né godette mai l’immunità di«Critica fascista» e di «Primato»”. Per quanto fosse dameno delle riviste «storiche», con quei nomi in catalogoil divario si apriva da un lato e si colmava dall’altro.Sul «Meridiano di Roma» Pellegrino pubblica un articolosu Valgimigli e un secondo articolo su Quasimodo. È uninizio, del quale può dirsi, con frase fatta, che Pellegrinocomincia dal punto in cui gli altri finiscono. Nel merito,l’articolo annuncia la grande conquista del noviziatoeroico di Peppino Pellegrino: Manara Valgimigli. Dal1942 al 2002 tutto ciò che di celebrativo in senso alto, daparte di un “caro amico e come figlio” – così Valgimigli inuna lettera a Pellegrino, la prima, del 1947, per la mortedella madre – l’allievo realizza in onore del maestro didecennio in decennio, è stato edificato come un monu-mento, pietra su pietra, qui a Milazzo. Discepolato leg-gendario. La spinta gli viene da Piero Sgroi, il grecista,che nel liceo di Barcellona Pozzo di Gotto rappresentacon maggiore genialità per il mondo antico ciò che Sa-tullo per il mondo moderno. C’era gente simile, in un li-ceo di provincia, quello stesso da me frequentato qual-che anno più tardi senza più così larga benedizione, pe-rò sempre con benedizione. Fui infatti allievo nel ’43-’44per filosofia in terza B (nella mitica terza B!) di FilippoBartolone, non ancora laureato in giurisprudenza, checon Satullo e Sgroi compone – e continuerà sempre acomporre idealmente – un magnifico trio.Del legame con Valgimigli, il cui approfondimento in se-de estetica, filologica, letteraria, persino in sede biografi-ca riempirebbe un intero volume, qui c’è da richiamareun passaggio importante. Comincia con Piero Sgroi nel1939, come s’è appena detto; prosegue con Bruno Lava-gnini a Palermo nel 1942-43, per Pellegrino primo annodi università (sotto le bombe!). Ecco il passaggio: “con laguida amorosa di Bruno Lavagnini, leggiamo il Fedone”.“Opera di assoluta poesia”. “Una rivelazione”. “Dopo que-sto incontro con Socrate, Valgimigli [l’opera di traduzio-ne e commento, non ancora lo scrittore] divenne mioamico. Mi procurai tutti i suoi scritti. Mi abbonai all’”Ecodella stampa” per avere anche gli elzeviri e i saggi che ve-niva scrivendo in quotidiani e riviste. E mi si scoprì, viavia, il fiore dell’intelligenza nella Scuola italiana: LuigiRusso, Momigliano, Marchesi, Pasquali; e nella cultura:Renato Serra, Pancrazi, Trompeo; e nella narrativa: Pan-zini, Baldini…”. Gesto da gran signore, da Gattopardo,abbonarsi all’«Eco della Stampa»! Solo che chi lo fa non èun Gattopardo, non ha soldi, sconta con un mese – se ba-sta – di lezioni private il suo chisciottismo. Da Valgimigli,al termine del noviziato eroico, premio e privilegio di tan-te fatiche, riceve l’iniziazione alla «religione delle lette-re», con le sue misteriose attinenze.

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«Poesia assoluta» esclama Pellegrino, leggendo il Fedo-ne, ma recuperata e restituita, essa poesia, dal fiat crea-tore di un filologo-poeta, sul quale l’amico Giorgio Pas-quali detta nel 1943 questo giudizio, pubblicato nel gior-nale che Pellegrino legge ogni mattina: «Valgimigli daltempo di Bologna si è svolto per istrade, che allora nes-suno si sarebbe sognato di profetargli. Andato colà daLucca, dov’era cresciuto non senza contrasti con l’am-biente ligio alla tradizione, piccino, beghino, per diveni-re scolaro del Carducci, dunque italianista, ne uscì (perinflusso del Pascoli?) grecista. Più tardi ha vissuto inpieno una filosofia, l’idealista, di cui né Carducci né Pa-scoli avrebbero capito nulla. Ha commentato e tradottopoesia e filosofia greca, foggiandosi per le sue versioniuna prosa che è italiana ed è greca ed è bella ed è sua»(PASQUALI, Carducci in cattedra, «Corriere della Sera»,29 luglio 1943; ora in PIERACCIONI, Manara Valgimigli-Giorgio Pasquali: storia di un’amicizia. 1912-1952,SPES, Milazzo 1989, p. 80). Quattro aggettivi, che pesa-no, detti da Pasquali, tanto più se incrociati con quelli,giunti nel frattempo, e non certo aggiuntivi, di Pancra-zi, Momigliano, Valeri ecc.Valgimigli introdurrà Pellegrino in un ambiente di intel-letti sovrani, distribuiti più o meno tutti sull’asse Pado-va-Bologna-Firenze: Carducci, Pascoli, Severino, Acri,Serra, Panzini, Ambrosini, Missiroli; Pasquali, GiosuèBorsi, Pistelli, De Robertis, Manacorda, Pancrazi, Cec-chi, Baldini, Russo, Devoto ed altri, come don De Lucae La Pira, ad esempio, reduci dalle pagine, già chiuse,del «Frontespizio». È la risposta all’angustia della pro-vincia, il distacco senza la fuga, senza lo strappo dolo-roso, diserzione da un lato, esilio dall’altro.Giorgio La Pira, vincitore di cattedra giovanissimo dopola laurea a Firenze, avrebbe potuto – gli fu rivolto invi-to formale – tornare all’università di Messina, in quellasua città, dove aveva conosciuto e frequentato Betti,dove s’era formato, dove s’era diplomato, dov’era tuttoil suo mondo. Rispose di no: e destinatario del rifiuto,espresso con rammarico ma senza strazio, sarà, frater-namente, Pugliatti. Verrà poi la volta, in cui lo stessoPugliatti, che della sua città diventa il «gigante» – nelsenso tipicamente messinese del dio fondatore – con lasua figura di scienziato, letterato, scrittore, collezioni-sta, caposcuola riconosciuto, accademico dei Lincei, ti-tolare di eminenti cariche pubbliche, principe del foro edel «Fondaco», saprà opporre un rifiuto eguale e con-trario, deludendo quanti colleghi insigni gli propongonodi staccarsi da quel focolare con la sacra formula:ascende superius. No, non può salire più su, chi è giàsulla cima, e porta con sé la «città sul monte». L’esem-pio di Pugliatti sarà largamente seguito. Per il poco chepossa interessare, il sottoscritto, allievo trasversale, mafedelissimo di Pugliatti, non si è salvato. Nel 1956 lascio

la Sicilia, ma con un vincolo. Non lascio, infatti, l’uni-versità. Vivo a Roma, insegno a Messina, fino al 1969. Almomento di trasferire a Roma anche l’insegnamento,Pugliatti capirà, approverà, ma negherà il beneplacito:lo dico con un rinnovato sentimento di profonda grati-tudine.A Roma mi aspettava la cattedra, ch’era stata di Capo-grassi. Da un altro punto di vista, tutte le mie carabatto-le di pensatore, nel loro modesto imprinting, messinesierano e messinesi sono rimaste; con questa differenza aloro svantaggio, l’essersi disperse tra un luogo e l’altronell’epoca dei «Non luoghi», come s’intitola l’opera di Au-gé; tanto che la loro modestia è senza alibi, non può es-sere nascosta dietro il paravento della vita di provincia.

4. Ad un convegno del ’70 Pellegrino svolge una relazio-ne sulla religiosità di Valgimigli. Sono passati trent’annidall’abbonamento all’«Eco della Stampa»: orbene, da in-telletuale maturo, che ha felicemente superato i cin-quant’anni, il relatore Pellegrino trova nel Sabato santo(nella raccolta Il mantello di Cebete) “il racconto piùricco di religiosità nella narrativa europea del nostro se-colo”. Così, esplicitamente, con interiettiva sincerità, siesprime nel 1970, così confermerebbe nel 2002, rinno-vando quello slancio di felicità, che è solo suo. Pancraziaveva scritto all’uscita del libro: «Ad alcuni capitoli [...]penso che si potrebbe dare, senza paura, appuntamentoanche tra cent’anni»: giudizio riprodotto sul risvolto del-la seconda edizione (1952). Se Pellegrino esagera, gli tie-ne una mano sul capo, incoraggiandolo, il recensore piùin autorità soprattutto per la sua proverbiale discrezione.Ancora un cenno al «Meridiano di Roma», dove gli arti-coli pubblicati da Pellegrino, come abbiamo detto, sonodue, il primo su Valgimigli, il secondo su Quasimodo: perribadire che nella gerarchia delle riviste militanti il setti-manale occupa un posto d’onore.Ruolo redazionale importante vi aveva svolto GiacomoDebenedetti, autore di tutta una serie di saggi, tessuticol filo di un’estetica, che non è più quella idealistica.Vi avrà fatto caso Luigi Russo, critico e maestro pisa-no, che Pellegrino ascolta quasi con la stessa docilità,riservata a Valgimigli (collaboratore di «Primato», puravendo firmato nel 1925 il «Manifesto Croce»). L’ita-lianista Pellegrino non può fare a meno del magisterodi un italianista, individuato sulla doppia linea delcommento ai classici d’italiano – Machiavelli, Leopardi,Manzoni, Verga – e del contributo alla soluzione di fon-damentali questioni di metodo, specialmente attinential rapporto poesia-religione. Si aggiungano gli estri po-lemici, le stravaganze, le radici solide nella nostra ter-ra, ed ecco Pellegrino, con la sua religione, incardina-to alla Normale di Pisa. Gran nome, sicuramente, quel-lo di Luigi Russo; Pellegrino legge «Belfagor» dal pri-

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mo numero. Non vi trova però esattamente una “scuo-la di metodo”, bensì di dottrinarismo marxista dalletinte accese, propagandistiche addirittura, tanto daprovocare disagio non già solo nella vecchia destracrociana, ma nella stessa sinistra.Nel ’55 Luigi Russo sulle colonne di «Belfagor» si occu-pa di Debenedetti (a sinistra da sempre, e non da con-vertito), sparandogli addosso la domanda: “Debenedet-ti ha ripreso in questo volume tutti i saggi pubblicati nel«Meridiano di Roma»: perché non ci ha messo anchequello sulla prosa di Mussolini?”. Apriti cielo. Debene-detti sa di avere uno scheletro nell’armadio. Ma c’è tut-ta o quasi l’intellighentia nelle sue condizioni (basta ri-guardare più sopra l’elenco dei collaboratori al settima-nale di Cornelio Di Marzio); e soprattutto non è quel ta-le rivoluzionario delle ventitré e tre quarti, che indossail marxismo come un costume di scena, a potergli rivol-gere certe domande.Vorrei chiedere ora a Pellegrino, seduto qui davanti, see come gli torna dal lontano passato una reazione, chegli sia rimasta, all’articolo su Mussolini scritto da De-benedetti nel maggio 1937, anniversario della procla-mazione dell’impero. Agita giustamente il capo – aquanto vedo – per protestare costernato: «Ma che co-sa mi chiedi?».Dall’attacco di Luigi Russo Debenedetti si difende, ap-pellandosi alla testimonianza credibile di quanti ricor-dano che egli, ebreo già in pericolo, non era stato liberodi scrivere o non scrivere quell’articolo: il quale articoloera infine a due facce. E meno male che il capo del Go-verno e duce del fascismo lo guarda senza girarlo dal ro-vescio, concedendo pubblicamente il suo apprezzamen-to. A quell’epoca Debenedetti non ha un gran nome,tranne che nell’ambiente torinese, dove però nessuno sisalva dalla lingua di censori che fanno interdiwione peramor di censura: gli stessi, che tormenteranno con ac-cuse ingiuste il gobettiano Santino Caramella. Quanto all’apologia di regime, il critico, che sarà prestocolpito dalle leggi razziali, e cerca dunque di non dare ar-mi al nemico, se la cava senza neppure il ricorso alla «si-mulazione onesta». A proposito della Vita di Arnaldonomina Verga, ma con una strategia tutta da decifrare,perché la morale della favola è che Mussolini “scrive piùgrande del vero”: e quindi non è verista. Sottilissima lalusinga, nella sconcertante ambiguità della formula:“scrive più grande del vero”. Ed ha il coraggio di aggiun-gere, il critico torinese: “io amo gli scrittori che scrivonopiù piccolo del vero”. E quindi dice tra le righe pericolo-samente ciò che gli è lecito dire nel ’37, in un numero del«Meridiano di Roma», che più celebrativo non potrebbeessere. Dice: io amo gli scrittori-scrittori: Proust, in pri-mo luogo, come tutti sanno, Verga, Svevo, Tozzi, Saba: epiù tardi, Elsa Morante, Carlo Levi ecc.

5. Lessi i due articoli di Pellegrino a tamburo battente,appena giunti in edicola. Ce li siamo amministrati comeun fondo comune nel gruppetto barcellonese, compostodi chierichetti. I più vicini eravamo: Mimma Pirandello,Millemaci, Mazzeo, Accetta, Benedetto D’Amico, Alosi,Sebastiano Genovese: ogni tanto Bartolo Cattafili e dipassaggio Nello Cassata. Dibattiti a non finire, speciedopo l’arrivo in libreria, complicato in quegli anni diguerra, di Ed è subito sera, che si lesse anche come untriste vaticinio, sulle note di Lilí Marlene. Quante volteavrei voluto guardare il tormentato articolo su Quasi-modo, nel corso del tempo: e non ho potuto. Pellegrinonon li ha mai più ristampati, i due articoli, chissà per-ché. Uno che comincia così, uno che indovina tutto nelmomento decisivo, durato un fecondissimo decennio,della sua conquista di una posizione letteraria persona-lissima, ricca delle più ampie potenzialità, all’improvvi-so si dà alla tradizione orale. Ho riletto i due articoli,consultando la collezione del settimanale alla BibliotecaNazionale di Roma.«Perché non pubblichi le cose tue?». Ho fatto tantevolte all’amico – per i titoli che me ne venivano dal foe-dus fraternum – la domanda. Mi è stato risposto: hopatito, patisco non puoi immaginare quanto. E poi do-ve metti la scuola, l’editoria, la missione in Sicilia? Af-fari tutti, enfatizzati sicuramente, ma di tanto peso, dicosì marcata incidenza pubblica, da togliermi ogni vo-lontà di replica. Quando però dopo oltre cinquanta an-ni rileggo – alla Biblioteca Nazionale – l’articolo su Val-gimigli (più ermetico, ovviamente, quello su Quasimo-do), so cosa pensare di un ingegno, che agli appunta-menti decisivi risponde a modo suo: ma risponde.Siamo in presenza di un’eccezione alla regola. Né Satul-lo né Sgroi – tanto per non andare lontano – potrebbe-ro essere giudicati su una linea diversa, che non sia pre-cisamente, secondo specifiche modalità – di eccezionealla regola. Ogni eccezione un caso, ogni caso di questotipo – paradigmatico quello di Bazlen – un’eccezione. Miviene in mente un nome, quello dello storico, che fu ildialettico più acuto, una vera e propria forza della natu-ra, nei dibattiti alla «Biblioteca Filosofica» di Palermo, etanta devozione gli tributarono insieme, tra gli altri, Gio-vanni Gentile, Giuseppe Amato Pojero, Fazio Allmayer,Orestano, Maggiore: sto parlando di Mons. Onofrio Trip-podo. E perché non associargli il nome dello stessoAmato Pojero, del quale possediamo a stampa solo iPensieri, oltre che interessantissime le «lettere a Vaila-ti»; «modica quantità», rispetto a una montagna di ine-diti? Ma se «senza la produzione», caro Peppino, ci daitanto filo da torcere, – e ci aspetta ancora il lungo trat-to di strada, tutta a tornanti bellissimi, che ci separa dal-la «Casa» di Angelina Lanza – l’eccezione alla regola,quanto e come tu la incarni, sia la benvenuta.

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La Sinistra ha perso la“sua” Cultura, ma hatrovato, o ritrovato, la

cucina, e non solo quella “sua”.Il Bilancio segna un “meno”,sotto una voce, e tanti, anzitutti “più”, sotto un’altra. Dalpunto di vista quantitativo,l’attivo è indiscutibile. Tra ifornelli e i forni a microonde,la destra ha subito la sua piùgrande sconfitta: una Waterloogastronomica e gastrosoficaannunciata e meritata.La cucina di Destra, addirittu-ra, è scomparsa. Non è “nean-che un fantasma che si aggiraper l’Italia”, una presenza ecto-plasmatica, che può far sperarein una prossima ventura mate-rializzazione. È un’Assenza ebasta. Di un grande e trionfalepassato, non le resta che unpresente fatto di niente e cosìsia. Anzi un non-presente che,fra l’altro, sembra la premessadi un non-futuro. Sicché ilcampo, anzi la zona– cucina, èrimasta della Sinistra.Ma procediamo con ordine.Prima di parlare dei risultatistudiamo le cause, le premes-se. Lasciamo, per ora la crona-ca e passiamo alla storia. Per-ché se l’istituzionalizzazione el’ufficializzazione della conqui-sta della Cucina da parte dellaSinistra è di oggi, la “lungamarcia” dei sinistri fra vitelli altartufo, gnocchetti al ragù d’o-ca, germani reali allo spiedocon polenta e altre sfizioserie,è cominciata da lontano. Ed èuno dei meriti e dei successidel radical-chic.È questo dandy populista, que-sto figlio del capitalismo e delcomunismo, questo alieno chefrequenta e ama, a distanza, laclasse opera, l’artefice del mi-racolo. È il radical-chic che, findagli anni Cinquanta, ai tempidel miracolo economico ma an-che del poverismo teorizzato e,

spesso, anche praticato dallaSinistra politica, che scopre lafilosofia e il piacere del gusto, ildiritto della Gola, le gioie dellaBuona Tavola.All’inizio, naturalmente e pru-dentemente, per non darescandalo in un mondo cheesalta per necessità o virtù oper far di necessità virtù, l’eti-ca del lavoro, e il dovere dellaparsimonia, e condanna il lus-so e i festini gastronomici delCapitale (non quello di Marxma quello dei vecchi e nuoviricchi), l’operazione si pre-senta debitamente camuffata.Ci si limita, cioè, a celebrarele gite fuori porta, a base diporchetta e vino dei Castelli, adifendere la cucina genuina,tipica e perciò economica (al-lora era così), alla portata ditutte le tasche e, quindi, perdefinizione proletaria. È essauna Cucina dei Poveri o diquelli che si sono appena la-sciati alle spalle la povertà. Èuna cucina che ha come idea-le la quantità e come luogo,non ancora “di culto”, l’osteriae il ristorantino economico,dove si paga poco e si mangiamolto.La svolta, imprevedibile cometutte le vere svolte, e a primavista stupefacente, avvienecon la scoperta che, oltre allacucina dei poveri, c’è anche laCucina Povera. È il passaggiodalla pratica alla teoria, dallanutrizione alla gastronomia,dal regno dalla quantità aquello della qualità.Perché la cucina povera non èfatta soltanto di cibi genuini,tipici, popolari ed economici,ma anche di ingredienti rari edintrovabili, perché antichi oraffinati, di ricette che vengo-no dal passato, di piatti ripe-scati nel grande serbatoio del-la storia gastronomica, o addi-rittura della preistoria.

Le conseguenze di questa au-tentica rivoluzione non sonopoche né insignificanti. Nellacucina di sinistra, altre allaQualità, entrano la Tradizionee l’Elitarismo.Mangiare povero non è più unanecessità, ma una scelta. Nonmangia povero soltanto il pove-ro, ma anche il ricco. Anzi,“quella” Cucina Povera, teoriz-zata e filosofizzata, il poverospesso non se la può nemmenopermettere. Il ristorantino raf-finato, esclusivo, magari ospi-tato in un palazzo del cinque-cento o nelle cantine di unarocca medievale, è fuori dallasua portata. Anche se l’arreda-mento si riduce a qualche tavo-laccio e il servizio è in stile roz-zo-paesano, con i camerieriche ti sbattono il piatto davan-ti con rozza incompetenza, persottolineare che non vengonoda una Scuola alberghiera, eogni tanto si lasciano scapparequalche parolaccia in dialettostretto. Ma è tutta apparenza,scena, teatro. Il prodotto diuna attenta programmazione.Alla Cucina Povera debbonocorrispondere un Arredamen-to Povero (anche se il tavolo èun fratino autentico, compratodai frati del vicino convento) eun Servizio Povero (anche se ilcameriere è il figlio del padro-ne e non fa il pastore ma lo stu-dente universitario).L’insieme, però – cibo, fratino epaesanità – si presenta all’inse-gna del Ritorno al Passato, del-la tradizione Culinaria, della ri-scoperta del cibo che fu, dellarivolta del cibo contro il ciboche è. Insomma, alla generaleRivolta contro il Mondo Moder-no e Capitalista, esaltata dallaSinistra applicata alla legitti-mazione della Cucina Povera,dà il suo contributo decisivol’etnologia di sinistra come tut-ta o quasi tutta la cultura del

tempo, almeno quella più pre-senzialista o massmediatica. Lofa rivalutando usi e costumi dicomunità e tribù australiane,amazzoniche, africane, india-ne, esquimesi, irochesi. Chehanno tutte una cucina inevita-bilmente naturale, povera, ge-nuina, tipica o “locale” (comesi incomincia a dire) e al di fuo-ri della produzione capitalisti-ca, di massa. Ossia, senza pro-dotti in serie, cibi in scatola,liofilizzati, omologati, normaliz-zati, precotti, prefritti, presala-ti, preaffettati e chi ha più“pre”, più ne metta.Il Nemico, quindi, è quello disempre: il Capitalismo, soste-nuto e propagandato dalla Bor-ghesia. Che magari ha avutouna parte essenzialmente rivo-luzionaria (“eine revolutionäreRolle”) nella storia, come de-creta il Manifesto del partitocomunista, e finanche nella sto-ria gastronomica, ma che oradeve farsi da parte, per lasciarela scena al Proletariato. Il qualeperò, sorpresa!, scopre e valo-rizza il mondo preborghese, al-meno in cucina; quello che laBorghesia aveva giustamente emeritatamente distrutto, se-condo Marx ed Engels.Perché, non solo al futuro so-stituisce il passato, , ai “doma-ni che cantano” gli “ieri che cu-cinano”, ma all’internazionali-smo preferisce il localismo, al-l’universale il particolare, allaclasse il popolo o addirittura latribù, al comunismo il naziona-lismo, alla società degli egualila comunità dei diversi, al cibouguale per tutti le portate di-verse per ciascuno. Ma, allora, all’Uomo Nuovo delMarxismo, non corrispondonoil Cuoco Nuovo, la Gastrono-mia Nuova, il Gourmet Nuovo?No. A quanto pare l’interna-zionalismo e egualitarismo so-no destinati a trionfare ovun-

P iccolo trattato di gastroideologiaOvvero come la Sinistra ha rubato il posto a tavola della Destra

Claudio QU A R A N T O T T O

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que, meno che a tavola. Anzi,l’internazionalismo gastrono-mico viene attribuito, comeuna colpa, alla Destra. È lei,infatti, che progetta e cerca direalizzare il Cuoco Globale, loChef a una dimensione, laMacdonaldizzazione planeta-ria, che porterà al piatto uni-co, in tutti i Paesi e i Conti-nenti, da New York a Pechino,da Roma a Mombasa.Il fatto è che nell’Uomo Nuovomarxista si scopre improvvisa-mente che batte un Cuore an-tico tradizionalista.Me è la stessa politica di sini-stra che dà una mano alla cu-cina di sinistra. Il XX con-gresso PCUS, con la denunciadel “Culto della personalità” edelle “deviazioni” dello stali-nismo, ha compromesso ilruolo di Stato-guida del-l’Unione sovietica. Le notizieche vengono dai Paesi satelli-ti rendono sempre meno cre-dibile ed auspicabile il “mo-dello unico” di società sociali-sta. Togliatti, a Mosca, propo-ne la “via italiana al sociali-smo”. Che contribuisce a le-gittimare e rafforzare la “viaitaliana al gastronomismo”.Se perfino Botteghe Oscurereclamano la loro “diversità”e “singolarità” – sia pure conle prudenze e i retropensieridel caso – non si vede perchénon possano farlo, a maggiorragione, le Cucine Oscure.Cucina Povera e Slow Food:cambiano le parole ma la musi-ca è sempre la stessa: si chia-ma gastroideologia. Capovol-gendo la regola fissata da Lé-vi–Strauss, nel passaggio daun mito all’altro, qui l’ossatu-r a cambia, il codice si inverte,il messaggio si conserva e siconferma. Perché la CucinaPovera nasce sotto il segnodello Spazio; lo Slow Food èuna coniugazione del Tempo.La Cucina Povera è locale, an-zi localistica; lo Slow Food è,sempre in teoria, complesso.La Cucina Povera è Pulcinella,lo Slow Food è Oblomov; laCucina Povera è Sparta; lo

Slow Food è Atene. La CucinaPovera evoca ancora il Regnodella Necessità, anche quandone è l’erede legittimo e grotte-sco; lo Slow Food è già il Re-gno della Libertà. Non soltantoperché presuppone il TempoLibero e Lungo da dedicare alpasto, alla degustazione del ci-bo, ma impone l’autocoscienzaalimentare. Non si mangia piùquello che si deve – per regoladietetica o dogma religioso –ma quello che si vuole, bastarispettare l’imperativo catego-rico dello Slow, della Lentezza,che fa contemplare il cibo e in-duce a meditare sulla “Cibità”.Ossia, la proprietà suprema eineffabile del cibo, l’idea pura einnata del cibo, il suo archeti-po potente e ineffabile. Infine,la Cucina Povera è povera dicibi e di piatti, anche quando ècara o molto cara; mentre loSlow Food è ricco di cibi e dipiatti, necessari per occupare itempi lunghi della consuma-zione, e che possono apparte-nere a tutte le culture gastro-nomiche e perfino all’inculturadella cucina internazionale.Per principio, infatti, lo SlowFood è indifferente al cosa simangia e attento al come simangia, visto soprattutto nellasua dimensione temporale.Il suo simbolo, in versione “ne-ra”, che è addirittura una in-versione di codice, è un film:La grande bouffe (La grandeabbuffata) di Marco Ferreri,uscito nel 1973.È la cronaca grottesca di unsuicidio collettivo, in un’orgiadi cibo e di sesso. Anzi, attua-to attraverso il cibo, propizia-to da pasti pantagruelici, da-vanti a tavole imbandite comecornucopie alimentari, altariinnalzati alla religione gastro-nomica, attorno ai quali si ce-lebra la gastromessa funebre.Un rito, insomma, diretto perdi più da una sacerdotessagrassa e voluttuosa. I quattrogastrosuicidi, percorrono laloro via iniziatica e macabra,che li porta dal Cibo alla Mor-te, guidati dal Sesso.

Niente o poco di nuovo, all’ap-parenza. Il tutto ricorda quelcapolavoro critico dedicato al-l’arte romantica che è “L amorte, la carne e il diavolo”di Maio Praz. Basta operareuna semplice e naturale esten-sione semantica con la parola“carne”, ossia riconoscerle unduplice significato, aggiungen-do a quello di “sesso” quello di“cibo”. Rimane fuori il Diavolo,che ha tanta parte nel romanti-cismo, ma poco nel post–ro-manticismo. Qualche ricorren-te scoperta di “sette sataniche”e “messe nere”, con le occasio-nali riscoperte del “triangolomagico” europeo non bastanoa giustificare la sua esistenza,nemmeno solo massmediatica.Né bastano le pontificali di-chiarazioni di fede nella realtà,individualità e pericolosità diquesto angelo decaduto e ma-ledetto per cambiare la situa-zione. Perché, questi atti di fe-de sono rari e suscitano soltan-to tempeste in un bicchierd’acqua, scatenate da giornali etv, che durano lo spazio di unTg o di un talk show.Del resto, la golosità, anche seremane nell’elenco dei vizi ca-pitali, accolto dal Nuovo Cate-chismo, ha perso molto del suocarattere negativo, specie ri-spetto agli altri vizi. Chi è anco-ra disposto a condannare la in-nocua golosità o a metterla sul-lo stesso piano della pericolosaira, dell’insopportabile super-bia, della ignobile invidia? Per-fino il tentativo di trasformarlada peccato religioso in peccatosociale è miseramente aborti-to. I milioni di bambini del Ter-zo e Quarto Mondo, che ognianno si ammalano per sottonu-trizione e muoiono di fame,non hanno fermato lo sviluppodella gastroideologia o ridottole rubriche dei periodici dedi-cate alla Buona Cucina, che ilpiù delle volte è una cara o ca-rissima cucina.Sicché, nonostante tuttosembri provare il contrario,nella “Grande abbuffata”, se,e ripetiamo se, c’è il Diavolo,

non è il Cibo né il Sesso, ma lavecchia Pulsione di morte dimarca freudiana. Anzi, para-dossalmente, il Cibo vieneesaltato nelle sue diverse fun-zioni positive, eudemoniche,euforiche, e, in particolare,analgesiche. Non è la causadella morte e nemmeno lopsicopompo, ma anzi è l’unicoe il miglior modo per affron-tare la morte felicemente, persconfiggere l’angoscia del pri-ma e la paura del dopo. Il ci-bo, insomma, è visto come ul-timo atto vitale prima dell’at-to mortale, il canto del cignodell’epicureo,prima di mette-re il capo sotto l’ala, per nonvedere e non sapere, e la-sciarsi trasportare dalla cor-rente del fiume, che può es-sere soltanto il Lete.È la Grande Abbuffata, infatti,che propizia, anche se non pro-pone, lo Slow Food. Una Gran-de Abbuffata, naturalmente,che non è quella cinematogra-fica, ossia attorno a una tavolache non prevede posti per LaCommare secca pasoliniana oil Commendatore mozartiano.Un sogno, non un incubo. Unrito vitale, non un rito fune-bre; in cui la triade luttuosaMorte, Carne e Diavolo è so-stituita dalla Triade festosaLusso, Calma e Voluttà. Nonimporta che questa sia, in-contestabilmente, una for-mula di Destra. Perché moltinon lo sanno e quelli che losanno non ne soffrono perniente. Anzi, spiegano la cosanon come un prestito dellaDestra alla Sinistra, ma comeuna riscoperta e un recuperoda parte della Sinistra di unsuo valore, originario e di-stintivo, perduto per stradadurante una delle tante “de-viazioni” del diritto o megliosinistro cammino*.

* Il presente brano è tratto dal libro

Claudio QUARANTOTTO, Piccolo trattatodi gastroideologia, ovvero come la Si-nistra ha rubato il posto a tavola allaDestra, di prossima pubblicazione.

s a g g i s t i c a

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Mario Sironi, I costruttori, (Ministero dell’Industria).

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Prima che i cristiani redigessero i loro scritti sacri(quelli, appunto, del Nuovo Testamento) ebberosotto gli occhi i libri sacri del popolo ebreo. Le éli-

tes culturali elleniste, probabilmente, li conoscevano nel-la ottima traduzione greca alessandrina (detta dei Settan-ta), la stessa cui fanno riferimento i libri del Nuovo Testa-mento. I cristiani colti non potevano certo sottovalutareche Gesù aveva più volte citato quei libri ebrei, conside-randoli massimamente autorevoli e divinamente ispirati, eche, proprio a causa dell’interpretazione contrastante diquei testi, Gesù fu giudicato reo di morte. Del resto gliapostoli di Gesù sottolinearono, a partire da Pietro, pro-prio quel contrasto, sicché tutto il Nuovo Testamento neè pervaso. Tuttavia i cristiani tennero religiosamente carii libri che contenevano la profezia divina della vera iden-tità di Gesù. Neppure la zavorra dell’epica ebrea o il bas-so livello dell’etica antica, certamente ostici per cristianiromani e per cristiani provenienti dal platonismo e dallostoicismo, neppure il ritualismo sanguinolento raccoman-dato da quei libri, convinsero la nuova Chiesa di Gesù ademarginare i libri dell’Antico Testamento, sicché il tenta-tivo di Marcione, nonostante i varchi da lui aperti, andò avuoto. Restò però il contrasto esegetico. L’interpretazioneesegetica segnò la differenza religiosa.

2. Il dogma tridentino sull’ispirazione divina e l’immunitàdall’errore dei libri del canone biblico parve già offeso da-gli esegeti modernisti del primo Novecento e Pio XII inter-venne ripetutamente con documenti magisteriali per indi-rizzare positivamente l’esegesi cattolica in concomitanzacon un crescente influsso dell’esegesi protestante, la qua-le era spesso sotto ipoteca filosofica spuria.Quando io studiavo teologia (ancora Pio XII regnante)era già chiaro che De Lubac apriva l’esegesi cattolica adinterpretazioni fluttuanti e che Lyonnet poneva problemiche urtavano interpretazioni esegetiche dogmaticamentedefinite. Ma con Giovanni XXIII divenne cardinale unesegeta gesuita che favoriva l’apertura all’esegesi ebrai-ca: Bea. Sotto Paolo VI l’ex Sant’Uffizio si dette un nuovoregolamento e si associò due commissioni consultive enegli anni assistemmo all’inclusione in tali organismi, unoteologico ed uno esegetico, di vari teologi ed esegeti as-sai disponibili all’accoglienza d’interpretazioni di deriva-zione ebraica.Ci furono reazioni qualificatissime tra gli esponenti dell’e-segesi cattolica, ma i media recepirono il nuovo indirizzocon amplificazioni che non badavano a sottigliezze. Si for-

zarono anzi le direttive conciliari sull’esegesi in genere esull’apprezzamento delle religioni non cristiane (e dell’e-braismo in particolare).Le questioni che affioravano erano capitali. Gesù e gliapostoli da Lui garantiti si erano sbagliati? Scribi e fari-sei che condannarono Gesù erano nell’assoluta, radicalee incolpevole ignoranza della rivelazione divina concer-nente Gesù? Le categoriche affermazioni di Gesù sullaNuova Alleanza e sul nuovo popolo universale dei cre-denti continuatori della fede di Abramo, erano stateequivocate dalla Chiesa?Dal tempo di Giovanni XXIII esegeti ebraici hanno avutodiffusione favorevole tra i cattolici; dal tempo di Paolo VIpensatori laici cattolici, dietro l’esempio di Maritain, simostrarono disponibili alla benevola accoglienza di pen-satori ebrei, ma con Giovanni Paolo II si è giunti ad unadirettiva davvero culminante: la commissione biblica, or-ganismo consultivo della Congregazione per la dottrinadella fede, ha emanato una istruzione esegetica, in cui sigiunge a raccomandare l’utilizzazione della psicoanalisinella lettura della Bibbia.Varie voci critiche si sono levate contro tutto questo movi-mento e io vi ho aggiunto la mia, per quanto modesta essasia. E non la nascondo neppure qui, ora.Anzitutto ho utilizzato giornali e riviste per criticare teo-logi ed esegeti francesi, olandesi e tedeschi. I novatoriitaliani dipendevano da loro. Poi ho tradotto in italianoun libro di critica sistematica contro Maritain. Questo li-bro era stato edito da un filosofo/teologo argentino (J.Meinvielle) e aveva avuto una edizione francese, ma inItalia era assolutamente ignorato. Io lo pubblicai col tito-lo Il cedimento dei cattolici al liberalismo e vi aggiun-si una famosa critica di Messineo, una demolitrice criti-ca di P. V. Barbiellini Amidei, che Fausto Belfiori avevaavuto il merito di rilanciare, e un mio puntuale resocon-to su un convegno filosofico filomaritainista, resocontorilanciato da varie riviste. Il mio volume ha trovato letto-ri e consensi superiori a ogni previsione.Inoltre ho tradotto e diffuso, in due edizioni, un altro librodi Meinvielle col titolo Influsso dello gnosticismo ebraicoin ambiente cristiano. In seconda edizione ho aggiuntouna appendice, che è un libro, in cui critico le superiori di-rettive di cedimento all’esegesi ebraica. Anche questo vo-lume ha avuto largo consenso. Ho diffuso in cinque edizio-ni una critica sistematica della psicoanalisi, con la parteci-pazione solidale di cinque professori universitari. In questostudio sono messe a nudo le matrici gnostico-cabalistiche

r e l i g i o n e e c i v i l t à

Esegesi e teologia cattoliche: le tesi di RadaelliEnnio IN N O C E N T I

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della psicoanalisi e i principali complici italiani del suo ac-creditamento nella Chiesa.Ho diffuso varie edizioni di un mio studio intitolato Lagnosi spuria in cui mostro l’importante apporto dell’ese-gesi ebraica nel fenomeno gnostico che ha pervaso la cul-tura cristiana.Infine, avvalendomi della preventiva lettura e dei benevoliconsigli di esegeti di massima stima (come Spadafora, Ga-rofalo, Zedda, Gherardini) ho diffuso in nove edizioni conl’apporto illustrativo di vari artisti, un commento al Vange-lo, cui è seguito un commento agli Atti degli Apostoli.Il primo, intitolato Vangelo e coscienza, scritto insiemeallo psichiatra Giuseppe Vattuone, defunto nel 1994, èimpostato essenzialmente nella rivendicazione dell’origi-nale coscienza di grandezza prodotta dal Vangelo in op-posizione all’ingiusta e colpevole coscienza d’inferioritàdegli oppositori di Gesù. Esso scandisce l’essenziale ri-velazione trinitaria imperniata sull’identità di Gesù emette in rilievo le inequivocabili profezie di Gesù sulnuovo regno rifiutato dagli ebrei e destinato all’interogenere umano di tutti i secoli.Il secondo intitolato Gesù a Roma, è impostato essenzial-mente sulla dimostrazione della contumacia ebraica e del-la crescente accoglienza romana, predestinazione dellacattedra di Roma alla diffusione del Vangelo.In occasione del conferimento del Primo Premio Lettera-rio Nazareno a Francesco Spadafora, per il suo libro sullaResurrezione, toccò a me l’onore del discorso celebrativo.In quel discorso io nominai vari esegeti romani, che, dalleloro cattedre, nell’Urbe!, oscuravano, o perfino negavano(con grande soddisfazione, suppongo, dell’esegesi ebrai-ca), la Resurrezione di Gesù, esegeti che Spadafora avevaaffrontato e confutato nel suo libro.Il cardinale che presiedeva l’incontro si lamentò poi conme del fatto che io avessi nominato quei dottori, ma io glirisposi che non avevo nulla da temere e neppure il pre-miato Spadafora. Questa libertà di critica è disponibile, sesi vuol pagare appena qualcosa: bisogna prendersela, sen-za stare a piagnucolare sui nostri tempi decadenti.

3. Le numerose voci critiche che si sono pubblicamentelevate contro le indicate tendenze esegetiche sono, amia conoscenza, soprattutto di ecclesiastici, dei quali iosono l’ultimo. Ma ora si è levata, robusta e nitida, anchela voce di un laico. Robusta in quanto si è espressa noncon qualche articolo, bensì con un libro di ben 400 pa-gine, nitida, poi, perché molto meditata e inequivocabil-mente indirizzata.L’autore, Enrico M. Radaelli, non vanta nessun titolo ac-cademico d’accredito specifico, ma la sua scienza filoso-fica, teologica ed esegetica è invidiabile. Il titolo del libroè Il mistero della Sinagoga bendata e si riferisce a no-te raffigurazioni artistiche medioevali in cui l’esegesi

ebraica (la Sinagoga) veniva rappresentata, appunto, conuna benda sugli occhi, incapace di vedere quel che l’ese-gesi cattolica (la Chiesa) invece vede e adora.La sostanza del libro verte esattamente sui problemi cheabbiamo sopra indicato, focalizzando sia la rivelazioneevangelica del mistero trinitario, sia la profezia evangeli-ca della sostituzione dei nuovi credenti che subentranoal vuoto lasciato dagli ebrei increduli, profezia fondativadella Chiesa di Gesù. Ci sono pagine strettamente ese-getiche, pagine piuttosto speculative, pagine frontal-mente polemiche.L’esegesi di Radaelli è indubitabilmente patristica, armoni-ca col magistero impegnativo dei pontefici romani, assolu-tamente incontestabile secondo i criteri tradizionali dellateologia cattolica.Il discorso speculativo di Radaelli, stretto nelle dieci pagi-ne del par. 26, io condivido pienamente. Se la memoria nonmi falla, il mio amato maestro B. Lonergon argomentava si-milmente, con tutto l’armamentario metafisico medioevaleche egli possedeva in modo esemplare.Ma il lettore non allenato ai criteri della teologia cattolicanon deve equivocare: non si tratta di una dimostrazione fi-losofica, ma di una concatenazione che si snoda all’inter-no della fede, dati certi presupposti divinamente rivelati.Anche le argomentazioni che Radaelli propone, basatesulle attribuzioni delle divine persone, sono “di conve-nienza”, ma fanno onore alla sua intelligenza e cultura erendono un buon servizio per il lettore che ama meditare.A Giovanni Paolo II Radaelli rivolge domande accorate,ma al predicatore della casa del papa il nostro autorenon perdona nulla (e ha tutte le ragioni). L’autore rico-nosce, invece, al Card. Ruini la percezione del problemache lo angoscia.Dal punto di vista letterario il libro apparirà criticabile(soprattutto per la prolissità, ma anche per lo stile e perla stessa struttura), ma queste sono questioni minori.L’editore milanese Effedieffe, come tutti i piccoli editori,non riesce a rendere il libro facilmente accessibile (pas-si che vi abbia lasciato dentro una cinquantina di men-de), tuttavia ha fatto opera meritoria.Questo libro di Radaelli mi pare un “segno dei tempi”:un laico colto, maturo, cosciente dei suoi diritti eccle-siali, usa della “libertà di critica ammessa nella Chiesa”precisamente per rendere un servizio alla Chiesa, peraiutare a riflettere e ponderare meglio lo zelo, con la so-la preoccupazione della fedeltà all’ortodossia, vissutacon amore indubitabile.È probabile che egli non abbia risposta, perché gli interlo-cutori che egli chiama in causa si ritengono intangibili epensano abitualmente che “i ragli dell’asino non arrivanoin cielo”.Non ha importanza: il seminatore non deve voltarsi indie-tro: altri raccoglieranno.

r e l i g i o n e e c i v i l t à

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Mario Sironi, studio per la realizzazione del mosaico L’Italia corporativa, (collezione privata).

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L’arte primitiva è statavariamente interpre-tata e considerata. Co-

me è noto lo studio di popolidiversi è stato preceduto inOccidente dalla scoperta del-l’esotico, dell’oscuro, del mi-sterioso. L’Africa, selvaggia etenebrosa, fu inizialmente larealtà mitologica dell’hic suntleones, e solo successivamen-te luogo di conoscenza siste-matica. L’esotismo alimentòun’ambivalenza creativa, mi-sta di attrazione e di paura ecreò le prime immagini di luo-ghi impervi, di dinastie barba-riche, di cannibalismo, di ma-gia nera. Eppure l’Africa eser-citò un fascino fatale, cui fuimpossibile resistere. Già Pli-nio il Vecchio riportava undetto greco dal valore emble-matico: “semper aliquid noviAfricam adferre”, l’Africa por-ta sempre qualcosa di nuovo.Nel Medioevo i navigatori eu-ropei si spinsero lungo le co-ste a sud del Sahara e descris-sero meraviglie straordinarie,rivelarono splendori mai vistidi regni grandiosi. Viderostrade tracciate con cura,fiancheggiate da filari di albe-ri e da lussureggianti campicoltivati, videro uomini in ve-sti sfarzose, principi e princi-pesse. Inoltrandosi, trovaronograndi regni ben organizzati,palazzi intagliati e decorati,sculture suntuose, templi or-dinati da uomini potenti o dasignore vestite di seta... DalMedioevo al Rinascimento lerelazioni dei navigatori narra-rono di civiltà in pieno splen-dore, armoniosamente costi-tuite, di arti plastiche e pitto-riche straordinarie, di donne

favolose e di uomini saggi...Le capanne risultarono esserecapolavori d’intreccio e d’in-taglio, ogni vaso, ogni attrez-zo, ogni cucchiaio era un’ope-ra d’arte. Tutto questo fu documentatoe trascritto, mentre le opered’arte dei nativi entrarono neimusei. Tale ammirazione fu intaccatadalla necessità di procurarsimano d’opera a costo zero. Fula modernità ad inventare l’in-feriorità di alcuni popoli e nonil Medioevo, affascinato e in-curiosito dal misterioso e dal-l’esotico, intriso di culturaclassica che rispettava le di-versità, convinto che Dio nel-la creazione avesse dimostra-to amore per la varietà mera-vigliosa.La modernità aveva bisognodi produrre e di “razionalizza-re” il rapporto mezzi/fini:spendere il minimo e ricavareil massimo. La tratta deglischiavi, mano d’opera a costozero, doveva essere giustifi-cata con ideologie appropria-te e violente. Tra le tante in-venzioni ideologiche la piùfalsa fu considerare i popoliprimitivi privi di storia, di isti-tuzioni, di estetica e collocar-li automaticamente dalla par-te “della natura”. Nell’Otto-cento si è passati dal disprez-zo alla bonaria curiosità perl’esotismo barbarico, fino adarrivare alla sopravvalutazio-ne della avanguardie nove-centesche nei riguardi dell’ar-te “selvaggia”. Solo con l’antropologia cul-turale si è tentato di valutarel’arte primitiva nella sua giu-sta misura, evidenziando che

le varie forme artistiche con-densano ed esprimono l’inte-ro assetto culturale di ognigruppo etnico. Le opere d’ar-te vanno considerate a parti-re dall’analisi del contestoculturale in cui venivanofruite e prodotte. In tal senso“l’incomprensibilità” dell’ar-te apparentemente astrattadi numerosi popoli di inte-resse etnologico viene a rive-lare i suoi segreti, ben noti aimembri delle comunità inquestione: l’arte non è maiincomprensibile né soggetti-va, ma si fonda sulle “filoso-fie” dominanti del gruppo et-nico. Le Muse volano ovun-que ed ispirano anche gli ar-tisti anonimi del cosiddettoTerzo Mondo. Le Muse sonosempre in azione e veglianoattivamente sugli artisti esulle comunità. La compren-sione dell’arte ci conduceineluttabilmente a conside-rare la metafisica delle cultu-re cosiddette primitive. I po-poli con tecniche materialielementari hanno visioni me-tafisiche complesse e sistemidi pensiero per nulla primiti-vi e non rappresentano maiincerti balbettii del pensieroumano all’alba dei tempi. Lepitture degli aborigeni au-straliani su corteccia, legno eroccia resterebbero incom-prensibili se non si conosces-se l’escatologia di quei popo-li che considerano un princi-pio spirituale immortale inognuno di noi ed un esseresupremo che ha dato forma esignificato al mondo. La vastissima produzione diarte legata al culto degli ante-nati si comprende solo se si

considera la fede generalizza-ta nell’anima immortale. Glispiriti dei defunti, presenti ereali nella sfera dell’invisibile,possono essere propizi ai vi-venti o nefasti e vanno onora-ti con riti che impongono unavasta ed articolata produzioneestetica. Solo la decifrazionedei sistemi di pensiero dei po-poli permette di comprenderel’arte e di apprezzarne il giu-sto valore.Gli artisti “primitivi” ricono-sciuti e apprezzati dall’interacomunità, non danno sfogo,come nell’attuale moda occi-dentale, ai loro pruriti perso-nali (quasi sempre erotici onichilisti) e nemmeno ritrag-gono naturalisticamente il vi-sibile (non ve ne sarebbe bi-sogno). Gli artisti danno vitaall’invisibile, essendo convintiche un’opera bella richiamisulla terra le potenze miste-riose che regolano il cosmo.Ogni opera d’arte è un incan-tesimo o una preghiera, com-prensibile ai membri della co-munità: la metafisica e l’este-tica sono altamente condivisee conosciute da tutti.

L’impegno dell’artista è ripro-porre i motivi tradizionali, li-mitando il suo interventocreativo all’assetto formale.Secondo varie tribù, nude esprovviste di macchine, comegli Indios, i Boscimani o gliaborigeni australiani, la bel-lezza è il potere attraente deldivino. La mostruosità è parte inte-grante della bellezza esatta-mente come sosteneva loPseudo Dionigi, che eviden-ziava nel mostruoso l’ombra

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«L’Africa porta sempre qualcosa di nuovo»

Ceci l ia GAT T O TR O C C H I

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della perfezione e la sua allu-sione per difetto. L’arte non è un privilegio del-le società opulente e altamen-te organizzate. Etnie e popolial puro livello di sussistenzadedicano le loro energie a vi-vere esperienze artistiche cheglorificano gli spiriti invisibilie venerano le potenze divine.Presso le società primitive lamaggior parte del tempo è de-dicato alle opere artistiche:maschere scolpite in legno,statue, intagli, costumi, dan-ze, musica, teatro, poesia oc-cupano un tempo decisamen-te più ampio che la ricerca dicibo, la giustizia e la guerra.L’arte si manifesta come pre-ghiera, volta ad esprimerenon un futile senso esteticoma a garantire la salvezza col-lettiva.Nel mondo dei primitivi l’arteè sempre “astratta”: non ri-trae la realtà naturale, ma l’in-visibile, dando forma alle po-tenze divine, agli antenati,agli animali sacri totemici eagli ammaestramenti misteri-ci e morali. L’arte è operativa,energetica, essa agisce, chia-ma gli dei, li onora e li rendedisponibili alle richieste degliumani.

L’arte rappresenta un com-plesso insieme in cui sonopresenti rituali, mitologie, sta-tue, oggetti, musica, canto,danza e poesia. L’arte degliaborigeni australiani, dei do-gon africani, degli inuit dell’A-laska, dei boscimani del Kala-hari in Africa, è un’arte creataentro etnie al puro livello disopravvivenza, pressate dallacontinua ricerca del sostenta-mento e tuffate in ambientiinospitali e desertici eppure èla più lontana dalla natura,dalle rappresentazioni reali-stiche o puramente descritti-ve. I sistemi di pensiero ri-guardanti l’arte sono espressi

indirettamente presso moltipopoli che non hanno elabo-rato un’estetica riflessiva mache hanno precise idee sul va-lore artistico e semantico diun’opera. In occidente l’opera d’arte èun unicum individualissimoed irripetibile; altrove è l’e-spressione di forme estetichee di valori collettivi e condivi-si. In alcune comunità dellostato indiano dell’Orissa, com-poste da popoli mongolici piùo meno meticciati si riscontraun grande sviluppo di dipintimurali, la cui funzione è magi-ca e religiosa. Servono a pre-vedere il futuro e a guarire lemalattie. Quando una personasta attraversando un periododi crisi fisica o spirituale, evuole uscirne, chiama il pitto-re (che è anche indovino eguaritore) perché decori unmuro della casa con grandi di-segni, sia figurativi che deco-rativi. Egli resta ospite delcliente, passa lì le notti per fa-re dei sogni che rappresente-rà fedelmente sul muro dellacasa. Eppure i dipinti non ri-trarranno i frutti del suo in-conscio particolare. Egli ri-proporrà i canoni rigidissimidella sua tradizione e la mito-logia salvifica dei testi sacri.L’elaborazione individuale delmodello non è che l’aderenzapiù profonda al modello stes-so. Tale esempio dovrebbecancellare l’idea che l’artistaprimitivo sia spinto dall’istin-to o dall’inconscio. I dipintidell’Orissa, pur fatti da autoridiversi, sembrano eseguitidalla stessa mano: non solo icontenuti mitici sono equiva-lenti, ma la tecnica e le solu-zioni formali.

Tra i nativi australiani l’artistanon solo garantisce la pioggia,ma la sua bella opera determi-na la nascita di bambini, poi-ché il serpente arcobaleno

trasporta sulla terra mediantela pioggia gli “spiriti bambini”e li deposita presso le sorgen-ti da cui entreranno nei sognidei padri per poi nascere.Malgrado questa idea energe-tica e funzionale dell’arte, lagente tiene in grande consi-derazione gli artisti, li nutre, limantiene e li onora se sonovalidi, la gente capisce gli stilie gli assetti formali. Accetta leinnovazioni se sono gradevolie discute d’estetica.

In Africa le sculture e le ma-schere sono inserite in com-plessi cerimoniali e sono og-getti sacri. Essi sono tabù, esono circondati da un poteremistico. Se vogliamo fare unparagone con noi, le scultureprimitive non stanno nei museima nelle chiese: sono tutteopere miracolose perché ten-gono in piedi il cosmo e assicu-rano la vita agli esseri umani.Che hanno fatto gli occidenta-li? A partire dall’inizio del No-vecento si è creato un riccomercato di arte esotica e i na-tivi sono stati derubati dei lo-ro tesori, strappati dai conte-sti liturgici in cui erano creatie fruiti. La celebre spedizionefrancese tra i Dogon del Maliin Africa vide i ricercatori im-pegnati in furti ed estorsioniin grande stile. Lo stesso ac-cade per i nativi americani, imalesi, i melanesiani e tutti gliafricani. La moda dell’esoti-smo comportò una depreda-zione sistematica dei beni cul-turali primitivi.

Molti rituali scomparvero per-ché erano stati rubati o sot-tratti gli oggetti di culto ne-cessari. Così a nord del Ghanaalcuni ricercatori sottrasserole sculture del rito Sigma, og-getti circonfusi di potenti ta-bù, nel vedere che i bianchimanipolavano gli oggetti sen-za essere fulminati dagli dei, i

capi del villaggio caddero nel-la più profonda costernazionee alcuni si lasciarono moriredi fame. Oggi esiste un’arteper i turisti che mantiene soloun pallido ricordo della gran-de arte rituale del passato. Per riempire i musei delle ca-pitali con maschere, sculture,pali sacri e teschi istoriati, so-no state compiute, nei paesidel Terzo Mondo, vere e pro-prie razzie da parte di etnolo-gi ed intellettuali: da Griaule aMalraux, da Heskovitz a Lei-ris. Tali furti sono stati com-piuti senza capire che l’artedei primitivi non sta mummi-ficata nei musei ma opera nel-la vita quotidiana, nei riti enelle cerimonie, negli incan-tesimi e nelle preghiere. Nel Novecento la rivalutazio-ne dell’arte primitiva provocòdiversi paradossi. L’arte afri-cana, malese, indiana e ocea-nica fu presa come esempiodagli artisti occidentali, sma-niosi di attaccare la tradizio-ne. Le avanguardie attinsero apiene mani all’arte primitiva:presero i colori violenti, l’as-senza di prospettiva, la di-mensione astratta che sem-brava incomprensibile. Ungruppo francese fu chiamatodei fauves. Questa passioneper il selvaggio nascondevavari equivoci. Si pensò di get-tare l’esotismo contro la tradi-zione. L’arte primitiva è inve-ce totalmente tradizionale:l’artista africano o malese ri-pete sempre lo stesso model-lo, ripete un’arte millenarianon apportando che pochissi-me personali modifiche. Uti-lizzare un’arte tradizionaleper combattere la propria tra-dizione è stato il paradossodelle avanguardie.

Vari elementi culturali diffe-renziano la sfera dell’arte inOccidente e tra i popoli di in-teresse etnologico. In Occi-

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dente l’artista tende ad esse-re un professionista specializ-zato. Noi pensiamo all’artistae all’artigiano come a dueprofessionalità molto distin-te. Anche il critico più ostilenon definirebbe Picasso comeun “artigiano dei pannelli ditela”. Inoltre Picasso non èstato un abile cacciatore, néun disboscatore di primo pia-no. Difficilmente si è fatto co-involgere in battute di pescaalla balena. Tra i popoli di in-teresse etnologico esistonoartisti che sono anche pesca-tori, cacciatori o fabbri. Inambito non occidentale le ca-se, le barche, l’attrezzatura diogni tipo è prodotta in basead una notevole autonomiadelle comunità locali. Da noitutto ciò che usiamo è statoprodotto altrove da personedi Taiwan o di Bombay chenon conosciamo con procedi-menti che non sappiamo ripe-tere. Nel villaggio di Sewera-chi, sulla Sierra Tarahumaranel Messico, ogni donna è an-che un’abile tessitrice distuoie e ogni uomo è in gradodi costruirsi la casa e di inta-gliare il mobilio come da noiognuno sa leggere e scrivere.Un ragazzino tarahumara in-comincia ad usa il coltellinoda intaglio quando da noi unbambino comincia ad usare lapenna. Il tarahumara sapràscolpire ad un buon livello esaprà anche riconoscere unartista veramente dotato.

L’analisi dell’arte di interesseetnologico permette com-prendere che la frantumazio-ne dell’estetica nel Novecentopotrebbe essere arginata conil supporto dell’umile contri-buto degli anonimi artisti del-la foresta e del deserto, inten-ti a rappresentare i significatiprofondi della metafisica edella teologia delle propriecomunità. Cosa è accaduto in

Occidente dalla metà dell’Ot-tocento? Quando, come haprofetizzato Hegel, l’arte èmorta sostituita dall’ econo-mia politica (la prosa delmondo!), alle figure ideali delBene, del Vero e del Bello sisono sostituite le figure uma-ne (troppo umane!) del Mer-cante, del Critico e dell’Arti-sta. È il Mercante d’arte chevaluta il “bene” e il prezzo, è ilCritico che avalla ciò che è“vera” arte, e infine l’Artistasempre malato di narcisismoe presunzione, si arrabatta adinventare trovate pseudo-ori-ginali che stiano al posto delBello. Alla forza e alla potenzadella tradizione si è sostituitoil più vago soggettivismo. L’estetica romantica ha decre-tato che l’arte deve esprime la“sensibilità” dell’artista e ba-sta. Lo slogan “l’arte per l’ar-te” sta già a significare “l’arteper il mercato”. Ma nel Suddel mondo le cose non stannocosì. L’arte per i primitivi è spec-chio non della natura circo-stante o delle transitorie pas-sioni umane, ma di veritàeterne. Sotto l’involucro delleforme si nasconde il significa-to, appreso dalla mente attra-verso un ammaliante gioco dispecchi. Il mondo delle imma-gini è il riflesso di una realtàpiù profonda a cui si ispirano isistemi di pensiero che sor-reggono gli esiti artistici. Nelle danze per gli orishà de-gli Yoruba, nelle decorazionidei Wola in Nuova Guinea,nelle maschere Poro della Li-beria vi è innegabilmente unavalenza estetica e simbolica. Isimboli potenti ispirano lerappresentazioni culturalidella vita sociale in moltissi-me etnie, superando la con-trapposizione tra arte e arti-gianato. In Cabilia, tra i mas-sicci montani del Maghreb,nelle più umili capanne la pa-

drona di casa possiede un te-laio per tessere: due rulli dilegno sorretti da due montan-ti, una semplice cornice ta-gliata dai vicini frassini da unartigiano. Il rullo superiore èchiamato “rullo del cielo”,quello inferiore rappresentala terra. Quando le contadinemontano il telaio offrono allevicine e ai passanti mandorle,fichi secchi, datteri, la stessaofferta del banchetto di nozzedi cui anche noi manteniamoun pallido ricordo con i con-fetti alle mandorle. La monta-tura del telaio è un matrimo-nio tra i due rulli che simbo-leggiano con la loro unione lenozze del cielo e della terra. Iltelaio ha sette canne per man-tenere in asse gli incroci:quando il tessuto è terminato,si taglia il filo come si taglia ilcordone ombelicale dopo ilparto e si pronuncia la stessaformula. Il tessuto è un partonato dalle nozze del cielo edella terra. Quando le donneprestano giuramento dicono:“per il telaio delle sette ani-me!”. Cielo e terra si congiun-gono e danno frutto nelleumili capanne maghrebine.Anche il piatto del cus-cus èdecorato con simboli che rap-presentano il cosmo e le ani-me: al centro una farfalla sti-lizzata (l’anima), sui bordi isegni “astratti” delle acque,delle montagne e delle nuvo-le; infine dei rombi a scacchibianchi e neri rappresentanole offerte per i morti. Il ciboserale che vi è deposto èun’offerta propiziatrice e unappello alla fecondità dellaterra, vegliata dai morti. Nelle concezioni estetiche oc-cidentali si è operato un dis-tacco tra la gente comune eun’esigua élite che “capisce”l’arte contemporanea, che ap-prezza l’artista in quanto puòesprimere se stesso, facendofuori ogni minimo riferimento

all’arte “edificante” o “letifi-cante”. A questa élite appar-tengono i docenti di estetica edi storia dell’arte… i qualimentre gioiscono dell’incom-prensibilità dell’arte contem-poranea, si applicano a spie-garla in chiave psicologica. Come acutamente rileva Co-omaraswamy, (Come inter-pretare un’opera d’arte,Milano, Rusconi. 1989) l’e-quivoco nasce dall’aver sosti-tuito allo studio dell’arte l’in-dagine sull’uomo artista, sul-l’oscurità e spesso sulla pato-logia psicologica: “questeguide nelle tenebre dell’illeg-gibile trovano un seguito am-pio e soddisfatto nelle filedella maggioranza degli arti-sti contemporanei, ovvia-mente lusingati dell’impor-tanza attribuita alle genialitàindividuale. A questo si ag-giunge il mercato che fa sor-gere e tramontare i geni a se-conda delle quotazioni diborsa…”.La gente comune d’altro can-to priva (giustamente) direali interessi verso le con-torsioni psicologiche degliartisti, considera l’arte con-temporanea una stranezzaper i ricchi ed in pratica, sene disinteressa. L’arte dellepopolazioni non occidentalisi pone come una terza via,poco nota e inficiata da pre-giudizi come una presuntaincomprensibilità delle ope-re primitive. L’arte dei popo-li non occidentali è compren-sibilissima una volta cono-sciuto a fondo il sistema d’i-dee che esprime. L’occiden-tale, privato di un sistema diriferimento unitario, scambiail linguaggio simbolico perincomunicabilità e crede chel’artista melanesiano costrui-sca le sue maschere peramore del superfluo o persoddisfare la sua soggettivitàinquieta. I geniali artigiani

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della foresta o del desertosono guidati da una diversaconcezione “filosofica”, sin-tetizzata da Lao Tze tremilaanni fa: se anche il visibile hadei vantaggi, è l’invisibile chelo rende “utile”. I cosiddettiprimitivi, lungi dall’essereschiacciati dalla dura realtàmateriale, sono dei filosofi edei mistici per natura. Il visi-bile dell’arte: statua, ma-schera, tempio, danza chesia, ha certo dei vantaggi(cementa la solidarietà so-ciale, accelera gli scambi, ri-distribuisce i beni, riduce letensioni) ma ciò che rende ilvisibile veramente utile è ilsuo sfondo invisibile, sacro,divino.

Per quanto gli scienziati so-ciali si siano sforzati di respin-gere nelle zone ambigue dellapatologia o dell’infanzia pro-lungata la spiritualità primiti-va”, essa erompe prepotente-mente nelle opere d’arte.Questo dato dovrebbe da solobastare ad affermare in pienacoscienza che i selvaggi nonesistono. Gli esseri umani so-no uguali in valore intellettua-le ed estetico. Dicono gli Yo-ruba: “Dio ci ha creato conbellezze diverse”, ma pursempre con bellezze. I selvag-gi non sono mai esistiti, per-ché l’uomo non si è evolutosecondo la bestemmia evolu-zionista che lo fa partire dallescimmie dell’Africa (anzi da

nostra Madre l’Ameba) pergiungere all’uomo biancoadulto e civile, di stirpe anglo-sassone. In lingua yoruba il concetto dibello è reso con la parola oda-ra che significa anche utile,buono, dinamico. Un’operad’arte o anche una persona èdefinita odara quando ha del-le determinate qualità di as-hè, di forza, di potenza, dienergia spirituale.Nel mondo dei primitivi l’ar-te è astratta e simbolica inquanto dà forma alle potenzedivine, agli antenati, agli ani-mali sacri totemici e agli am-maestramenti misterici emorali. L’arte è soprattuttoenergetica in quanto richia-

ma sulla terra le potenze mi-steriose che regolano il co-smo. L’artista tra gli aborigeni au-straliani accede al regno miti-co degli dei, al “tempo del so-gno” quando realizza pitture,sculture, attrezzi, disegni cor-porali o cicatrici iniziatiche.L’arte infatti è sempre inseri-ta in un processo rituale cheè la riattualizzione del tempomitico. Popoli allo stremo delle forzededicano le loro energie a glo-rificare gli spiriti invisibili e avenerare le potenze divine at-traverso le opere d’arte, checon modalità diverse esprimo-no significati intelligibili epensieri perfetti.

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Mario Sironi, Paesaggio urbano, 1922 c., (collezione privata).

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Ogni tanto capita di leggere sui giornali che nonesistono, da un po’ di tempo a questa parte,grandi poeti italiani, maestri che traccino un sol-

co nuovo e duraturo e facciano scuola. Una menzogna,basterebbe leggere con attenzione questo nuovo libro diTommaso Pignatelli per accorgersi di trovarsi dinanzi auna personalità spiccata, a un poeta colto, raffinato, pro-fondo, nuovissimo seppure ancorato alla scelta del dia-letto campano ibrido tra lessico tradizionale (secentescoe settecentesco) e linguaggio popolare moderno.Natalino Sapegno e Tullio De Mauro lo avevano messo inevidenza quando Pignatelli pubblicò, circa dieci anni fa,la sua prima raccolta dal titolo Pe cupià ’o chiarfo (perimitare l’acquazzone), che ebbe un successo enorme estrappò i consensi di Franco Loi, Arnaldo Colasanti, Gio-se Rimanelli, Franco Brevini, Giacinto Spagnoletti, Cesa-re Segre, Maria Corti, Alfredo Stussi, Gianfranco Folena,Andrea Zanzotto, Pietro Gibellini, Luigi Reina, per faresoltanto qualche nome illustre. Finalmente la poesia,senza timori riverenziali di nessun genere nei confrontidelle scuole imperanti, delle nuove (e spesso finte) ten-denze, si imponeva col canto pieno sorretto da un fortepensiero filosofico, senza mai sconfinare nel teorico.La conferma del suo spessore – ma ce n’era bisogno? –Pignatelli la dà con questo nuovo libro (Palluttia l’ab-beccedario – Rotola il sillabario, Roma, Lepisma,2003, pp. 64, Euro 10,00), che affronta i problemi cru-ciali dell’uomo toccando momenti di rara bellezza. Inognuna delle liriche c’è una sottile trama di ragionamen-ti, la sintesi di lunghe meditazioni che sfociano in versinitidissimi e potentemente suggestivi.Non è vero, dunque, che la poesia abbia perduto la stra-da maestra. Si legga Un dizionario dei contrari, unadelle composizioni più riuscite, più complete e si vedràcome la lezione dantesca sia diventata sostanza fulgentedi un percorso che non conosce soste. Pignatelli sa en-trare con piglio deciso nelle misteriose trame della real-tà e subito dopo uscirne per portarsi all’interno di unrapporto metafisico che non si arrende al cospetto deglienigmi e tenta di squarciare il velo che copre avveni-menti, sensazioni, speranze, certezze.Palluttia l’abbeccedario offre versi inesauribili, versiche da una parte racchiudono certezze infinite e dall’al-tra pongono dubbi altrettanto infiniti. Jorge Luis Borgesdirebbe che si tratta di versi che hanno un senso sia perla ragione e sia per l’immaginazione. Ed è proprio così.Del resto per quale motivo dovremmo decifrare gli enig-

mi di Pignatelli? Non abbiamo necessità di decifrarli,dobbiamo piuttosto lasciarci andare alla lettura, abban-donarci alle parole desuete “recuperando la loro magia”.Ci ricorda Lara Maffia nella sua circostanziata Prefazio-ne al libro che Pignatelli “è in assoluto il più grande poe-ta della neodialettalità”. Io aggiungerei che è senza dub-bio, evitando la divisione tra poeti dialettali e in lingua,uno dei maggiori poeti europei e ciò sia detto al di là de-gli eventuali incarichi politici che Pignatelli ha avuto nelcorso della sua vita. A noi interessa il poeta e se bisognacreare il caso perché la poesia trionfi e affermi la sag-gezza del suo incanto e la persuasione della sua straor-dinarietà ben venga, altrimenti no. Far rumore attorno alruolo o agli incarichi rivestiti da uomo è la negazione del-la poesia e della vita. La poesia esce, per sua natura, dacatalogazioni, da subordinazioni, da qualsiasi gestionedel potere. La poesia esce, per sua natura, da intelligen-za segreta che sa scandagliare le segrete e occulte di-vergenze dell’uomo e portare allo scoperto gli incantesi-mi che fuggono frettolosamente verso l’ignoto. Pignatel-li è un poeta che sa liberare il canto con estrema dolcez-za e con altrettanta estrema forza. Il suo linguaggio ha laperfezione del cristallo di Boemia, la stessa pastosa lu-centezza. E ciò che dice è il distillato su lunghi anni diesercizi culturali e spirituali macerati nel silenzio e nel-l’attesa della morte. Credo che accanto a Pignatelli pos-sono stare poeti come Rilke, come Hölderlin, come Ce-lan. Non esagero. Lo so che i lettori quando si esalta unpoeta italiano sono pronti a storcere il naso e diventarediffidenti, scettici. Peccato, perché prima di diventarediffidenti e scettici bisognerebbe leggere. Ecco, si leg-ga Pignatelli e si vedrà che siamo su alte vette. A noi in-teressano i poeti, la loro essenza, il loro saper scende-re nelle profondità abissali, il loro saper tramutare inbellezza persino la perfidia della morte, perfino le de-lusioni, il dolore. L’intensità di queste liriche travolge e acceca, lacera edesalta. Nella recente tradizione della poesia italiana nonc’è nulla di simile. Forse un certo Campana o il Luzi diSu fondamenti invisibili o forse certe pagine di A tan-to caro sangue di Raboni. Ma su questa strada il discor-so si farebbe troppo lungo e inutile. Oggi mi fermo al pri-vilegio di poter salutare un libro che trovo irripetibile ne-gli esiti, luminoso e lacerante, un esempio di come lapoesia, se è tale, sa creare dal nulla quella umanità ne-cessaria affinché il cammino della vita non sia un sem-plice andare verso il nulla.

I l caso Pignatel l i

Dante MA F F I A

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La “vicenda” relativa alla lingua italiana ed alla suasalvaguardia non risale certamente ad oggi. È un te-ma antico e sempre nuovo anche perché attraverso

la lingua si difende l’identità di un popolo. E ciò sapevanobene i Romani ed altri popoli che, una volta sconfitto il ne-mico, per assoggettarlo completamente, cercavano di im-porre la loro lingua, quella del vincitore. E, nel caso dei Ro-mani, la storia degli Etruschi è emblematica. Di qui la dif-ficoltà, da parte degli studiosi del mondo etrusco, di cono-scere tanti aspetti delle “vicende” di questa “gente” a cau-sa del difficile approccio alla lingua etrusca. Di qui la legit-tima esigenza da parte dei vari popoli di tutelare la proprialingua dai tentativi egemonici altrui. E ciò anche per evita-re che l’uso diffuso di termini stranieri potesse “inquinare”l’autenticità di una lingua. Certo ciò potrebbe portare an-che a forme esasperate di difesa. Però la tutela della linguanon può non essere un fatto legittimo. In Italia, nel perio-do tra le due guerre, si avvertì – anche in relazione al cli-ma tipico di quel periodo storico – l’esigenza di difenderela lingua dall’ingerenza di termini stranieri in una crociatacontro “i barbarismi”. Si riteneva che spesso si ricorresseai termini stranieri anche quando non ve ne era il motivo,offrendo la lingua italiana precise e chiare parole… alter-native. Una lingua, come la nostra, ha dalla sua una riccagamma di termini, per esprimere e definire la realtà, cosache non si trova in tante altre lingue del mondo. Ed allora? Proprio per queste ragioni, durante il periodo in cui avevoassunto responsabilità di sottosegretario durante il primogoverno di centro-destra presi l’iniziativa (si era nel 1994)di dare vita ad una Commissione per la difesa della lin-gua italiana. A far parte della quale chiamai i maggioristudiosi della lingua italiana (De Mauro compreso), av-viando un lavoro che stava dando positivi risultati, anzi checertamente li avrebbe dati, se non si fosse chiusa anzitem-po quella legislatura. Il dibattito che si venne ad aprire sul-la materia è stato interessante come testimoniano gli attiprodotti e i documenti messi a punto. Tra i nomi di presti-gio non posso non menzionare quelli del latinista prof. Gio-vanni Baffoni, che teneva il coordinamento tra gli illustricattedratici, il prof. Tullio De Mauro, il prof. Giovanni Nen-cioni, Presidente dell’Accademia della Crusca, il latinistaprof. Francesco Sabatini, i calabresi prof. Aldo M. Moracee il prof. Tullio Masneri e tante altre personalità culturali digrande rilievo. Bene, quella iniziativa trovò qualche criticaprevenuta: si disse che non era concepibile la difesa dellalingua per decreto, mentre qualche quotidiano nazionalecosì salutò quell’evento: “All’armi, siam puristi!”. Si ebbe

successivamente a livello di alcuni senatori, nello scorciodella scorsa legislatura, un’ulteriore iniziativa che noncompletò del tutto l’iter necessario. Alla Camera nel frat-tempo (siamo sempre alla XIII legislatura) una mia propo-sta di legge (n. 4649), presentata il 2 marzo ’98, ripropo-neva il discorso della “tutela e promozione della lingua ecultura italiana”. Qualche altra iniziativa analoga venivapresa da colleghi di altri gruppi parlamentari. Nel frattem-po, in occasione del varo della legge quadro (n. 169) sullatutela delle minoranze linguistiche, riuscimmo a porre, al-l’articolo I° della stessa, la questione che la lingua ufficialedel popolo italiano era “la lingua italiana”. E ciò per evita-re eventuali fuorvianze, soprattutto in un momento in cuisi parlava di secessione.Bene, è passato tanto tempo da allora. Oggi Marcello Ve-neziani pone, anche nella sua qualità di componente il cdadella RAI, il problema di evitare le numerose sigle di tra-smissioni (Rai educational, Rai fiction ecc…) in lingua in-glese per un recupero delle stesse nella nostra lingua. È unargomento interessante da sostenere, anzi adesso più chemai da portare avanti, cosa che abbiamo denunciato, a piùriprese, in Parlamento. D’altronde, se la massima espres-sione della democrazia, il Parlamento, consente che sisvolgano lavori sotto la sigla di “Question Time”, che im-magine offre di sé? Quella di una istituzione che non tute-la nemmeno la lingua di quel popolo, di cui è la più altarappresentanza. Non ha forse ragione Francesco Alberini,quando in un articolo di pochi anni fa sosteneva che “unpopolo che rinuncia alla sua lingua perde anche l’anima”?.La difesa della lingua è un dovere, se si vuole rimanere ve-ramente liberi.

Attual i tà del la sa lvaguardia del la l ingua i ta l iana

Fortunato AL O I

Mario Sironi, Paesaggio con aeroplano, 1917, (collezione Cidac).

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Eccomi! Pronto! Hello? Più o meno così – come noi al telefono – Abramo,Mosè, i profeti avrebbero risposto alla voce arca-

na che comandava, istruiva, prometteva, minacciava.Abramo avrebbe detto addirittura “Pronto”, “Ready”nell’inglese della New American Bible, che nelle sue va-rie edizioni continua a fregiarsi della nota di presenta-zione e della rispettiva benedizione papale di Paolo VI.Hello, Mister God è invece di qualche disinvolto ascol-tatore dell’Esercito della Salvezza (“Salvation Army”). Inogni caso, per i credenti il Signore Iddio, Creatore delcielo e della terra, è in tutte le lingue a portata di voce,Tutto-Ascolto, Sapienza e Compassione. Spicca nelle Sa-cre Scritture il verbo udire, sentire, ascoltare, richiama-to di continuo. Shemàh Israel! (Ascolta Israele) è lapreghiera che ogni buon israelita porta nel cuore e reci-ta mattina e sera. Insomma, stando al significato etimo-logico dei termii greci tèle (cioè distante, da lontano) ephonè (suono, voce), la Bibbia si direbbe in buona par-te telefonica, composta di colloqui a non finire tra Dio ei suoi portavoce, gli uni e l’Altro distantissimi fra di loroe pur vicini, quasi fiato a fiato. Incredibile è come si sia-no potuti registrare, trascrivere, trasmettere tantissimisacri discorsi fin da quando non si aveva altro che il pas-sa parola e si era ben lontani dal disporre degli attualimezzi di telecomunicazione, con cui si ha ormai quasitutto a portata di voce e a vista continua nel mondo.L’avvento di Gesù turbò sotto molti aspetti il rapporto chesi era stabilito con la voce divina. Egli parve scoprire lecarte di un gioco con cui si barattavano fin troppe paroleumane per parole di Dio. A tale proposito Gesù dice chia-ramente: “Voi non avete mai udito la sua voce, né avete vi-sto il suo volto”. Nel dire ciò si rivolgeva alla gente lì pre-sente. Però non escludeva gli altri e lo stesso Mosè, la cuilegge non sempre sarebbe stata nella verità. Nel prologodel vangelo secondo Giovanni infatti sta scritto che, se“per mezzo di Mosè fu data la legge”, però con Gesù sonogiunte “la grazia e la verità” nella cui luce la legge devecompiersi a servizio dell’umanità. Gesù osò presentarsi luistesso come parola, voce, nonché come volto di Dio, cheallo stesso Mosè si era mostrato solo di spalle, non di fron-te. “Follia, bestemmia!”, si gridò. Gesù replicò che allorafollia e bestemmia dovevano considerarsi le Sacre Scrittu-re, le Profezie, ch’egli non faceva altro che sviluppare ecompiere fino alla coerenza più ampia della biblica con-vinzione di essere l’eletto di un popolo eletto. In virtù ditale sacrosanta bestemmia si è potuto chiamare PadreNostro l’Onnipotente. Gesù chiese ai Giudei: “Non sta

scritto nella vostra Legge: Io dico voi siete dèi?”. Non si èstati creati con Adamo a immagine e somiglianza di Dio?Più che i Galilei, che in Gesù vedevano “il figlio del car-pentiere... fuori di sé”, ben “molti Giudei credettero inlui”. Il Sinedrio se ne allarmò e Caifa più deciso di tuttisentenziò e cercò che fosse tolto di mezzo il “bestem-miatore”: il quale, seguito com’era dalla gente, avrebbepotuto richiamare la temutissima attenzione dei Romanie il loro intervento, con la conseguente distruzione delTempio e della nazione.Andatigli incontro armati di pietre, i Giudei finirono colsentirsi coinvolti nella parola di Gesù, tanto da lasciarsicadere di mano le pietre nel processo all’adultera, aven-do scoperto nel proprio intimo una legge di coscienza edi grazia al di sopra della stessa Legge di Mosè, oltre chedi Cesare. Gesù in seguito si confidava coi Giudei primase non più che con i propri apostoli. Sempre nei Vangelisi legge di Gesù che riferisce ai suoi: “Figliuoli... come hogià detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove io vado,voi non potete venire”.Il terrore dei tumulti popolari, che avrebbero potuto pro-vocare l’intervento dei Romani, indusse Caifa e il Sine-drio a liquidare il caso Gesù alla chetichella, evitando ilpiù possibile di fare notizia o storia. Insistentemente neiVangeli si ripete da parte dei grandi sacerdoti e del Sine-drio di stare alla larga dalla irrequieta “gentaglia”. Più chedi un processo si trattò di un affare, che convenne sia alSinedrio sia a Pilato. La bestemmia più grave nel fattac-cio sarebbe stata lanciata dai sommi sacerdoti davanti aPilato: “Non abbiamo altro re che Cesare”. E furono lorocon le proprie guardie e non altri a gridare: “Crocifiggi,crocifiggi”: un gruppetto poi arbitrariamente gonfiato infolla immensa dalle tradizioni, con la nefasta conseguen-za dell’accusa di deicidio inflitta al popolo ebraico.

*

Tra Bibbia essenzialmente telefonica e mondo di telefo-nanti e di televedenti, non sono mancate le telefonate ingran parte amichevoli. Tanto per cominciare, ecco al tele-fono un amico il quale, sulla scia di un noto saggio diFreud, ha chiesto quale sarà mai “l’avvenire di un’illusione”come quella dell’atteso sovrumano Messia che dovrebbevenire o tornare, se è già stato sulla terra. Mi è sfuggito dirispondergli canticchiando una canzone del secolo scorso:“Illusione, dolce chimera sei tu, che fai sognare, sperare eamare tutta la vita”. Favola per bambini, la religione? E conciò? Più volte Gesù chiama bambini i suoi discepoli e an-

l e t t e r a t u r a e r e l i g i o n e

I l Vangelo a passo d ’as inoFortunato PASQUALINO

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nuncia: “In verità vi dico, se non cambiate e non diventatecome bambini, non entrerete nel regno dei cieli”. Forsetutte le religioni sono in fondo illusioni, favole. Ebbene,l’Onnipotenza Divina potrà ben colmarle di verità liberatri-ce e salvifica, alla fine. Intanto si continui a sognare, a spe-rare e soprattutto ad amare. Per il resto, a cantarcela conCalderon della Barca, quest’umana esistenza, “sogno o ve-rità che sia, scegliamo il bene operare, ché il bene non èperduto neanche nel sogno. Così quando ci risveglieremo– sempre che Dio lo voglia – ci ritroveremo fra amici”.Saputo dell’indagine che vengo svolgendo su Gesù, l’ami-co ha ironeggiato se stia io affrontando “il supergiallo delfiglio di Dio” alla maniera del tenente Colombo dei vecchitelefilmetti, tra storielle di casa, moglie, figli, e la maniadelle piccole cose; insomma briciole, come quelle di cui sinutrivano i cagnolini ai quali Gesù – canzonando il razzi-smo di certi “figli” d’Israele – paragonò la Cananea: mi-nuzzoli, che pur consentono di risalire ai pasti consuma-ti dai signori nei loro banchetti. E perché no? Il tenenteColombo, chiamato Columbo negli Stati Uniti, dove achiusura del duemila gli è stata dedicata l’intera seratatelevisiva: lui, trasandato nel paese più ricco del mondo,mite e disarmato nel cuore della più grande superpoten-za militare, là dove dappertutto anche nei grandi magaz-zini potete acquistare armi liberamente; lui, con un rot-tame d’auto dove lussuose macchine sovrabbondano, sidirebbe un evangelico segno di contraddizione. L’ironicochiede se, come di solito nei gialli, ci scapperà l’omicidiofatto passare per suicidio. E sì, Giuda, il prediletto di Ge-sù, secondo Mazzolari: forse il primo martire cristiano.

*

Giusta la prassi del nostro tenente, prenderemo l’avviodal grande fatto o misfatto compiuto: dal capitolo finaledel Vangelo di Giovanni, epilogo degli epiloghi piuttostoinquietante. Ripercorreremo i sentieri evangelici a passod’uomo o, se si vuole, a passo d’asino, magari recupe-rando qualche segno della pazienza, della saggezza, del-la pace che il disprezzato quadrupede allora rappresen-tava in Oriente: diversamente dal cavallo, l’animale dellafollia e della guerra. Cercheremo di vedere Gesù con isuoi stessi occhi oltre che con quelli di quanti gli eranoappresso; non perciò con le lenti d’ingrandimento a vol-te deformanti delle tradizioni e delle dottrine, che ri-spetto alla realtà evangelica sono come le marmellate, ifrullati, i liquori a confronto della frutta, ormai per lo piùsoppiantata dai suoi derivati.Si diceva del Sinedrio e di Caifa che, d’accordo con Pila-to nel liquidare il caso Gesù, badarono bene a non averetra i piedi il popolo, a non fare notizia e storia. Da partesua anche Gesù cercava di non fare cronaca e storia.

Scansava il più possibile la folla. Scappò via verso lamontagna quando sulle rive del mare di Galilea “circacinquemila uomini” tentarono di acclamarlo re. Ai disce-poli e ai ‘miracolati’ raccomandava silenzio. Vano è cer-care su di lui la solita rituale storicità. D’altra parte, for-se la realtà, la verità per essere tale deve per forza stori-cizzarsi? Se così fosse, dovremmo negare l’esistenza atantissima umanità la cui vita da sempre si è svolta fuo-ri dei notiziari e degli annali ufficiali, fatti di solito a ser-vizio del potere politico dominante. Di Gesù si ebberoracconti orali, passati di bocca in bocca prima di veniretrascritti alla meno peggio nel greco allora corrente: rac-conti che si rivelano veraci, grazie anche a certe imper-fezioni, come quelle di un fiore vivente al confronto conun fiore di plastica. Si sa che di solito nel mondo lo stileperfetto è del falso più che del vero.

*

Qualcuno ha scritto: “Solo un ebreo può parlare di Je-hoshua ebreo, detto Gesù”. Non ha però specificato secosì è o deve essere per dirne bene o male. Perché nelcaso di Gesù, egli stesso chiarì che nessuno è profeta inpatria. Egli infatti dai suoi non fu preso tanto sul serioquanto invece dagli altri, da stranieri e pagani. Né lui futenero coi suoi. Li contraccambiò con le sferzate deiprofeti.Qui si cercherà di lasciare che il più possibile sia lui stes-so a parlare di sé e a raccontarsi. Il tutto, secondo i van-geli canonici. A bene indagare, per esempio nelle para-bole, si scopre un vasto risvolto autobiografico di Gesù.Egli nelle parabole è quasi sempre il protagonista, dalbuon samaritano all’operaio dell’ultima ora. In alcuneconfida intimamente in sé stesso più che nei discorsi: co-me nella parabola del figliol prodigo, con cui non solotraccia il proprio identikit, ma rivela la più sentita e poisofferta teologia del Padre. Egli infatti avrebbe volutoche per sé e per l’umanità peccatrice si compisse laparabola, e che col ritorno al Padre misericordioso siavesse il banchetto, non il Golgota. Umano, fin troppoumano seppur divino, Gesù? Chiunque lui sia e chiunquesia ciascuno di noi, egli ha detto che a un certo punto ciattirerà tutti a sé, e saremo insieme.“Allora, dopo questi fatti...”. Così si legge nell’epilogoevangelico (Gv. XXI), da dove inizia la nostra indagine,con rilettura dei testi sacri sul filo del loro realismo nar-rativo di base.

Per gentile concessione della casa editrice Armando-So-

vera anticipiamo il primo capitolo della nuova opera di

Fortunato PASQUALINO, I Vangeli a passo d’asino, in cor-

so di pubblicazione

l e t t e r a t u r a e r e l i g i o n e

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i n i z i a t i v e d e l S i n d a c a t o

C O N C O R S O 1. È bandito un concorso riservato ai soci del Sindacato libero scrittori

italiani, che siano in regola con l’iscrizione per l’anno 2003.2. Gli scrittori interessati possono concorrere con un’opera inedita di:

a) poesia; b) narrativa; c) drammaturgia; d) saggistica; e) storia; f)politica; g) letteratura per l’infanzia; h) sceneggiatura; i) divulga-zione scientifica.

3. I testi dovranno essere spediti per raccomandata entro e non oltre il31 dicembre 2003 presso la direzione della rivista «Scrittori Italiani».

4. Il premio sarà conferito entro il 31 marzo 2004 da una Giuria compo-sta dal presidente, dal segretario generale e da tre membri eletti nelproprio seno dai componenti del Consiglio nazionale del S.L.S.I.

5. Sarà premiato un solo vincitore tra tutti gli scrittori in concorso nel-le varie sezioni, estratto a sorte da una cinquina, che sarà resa pub-blica a conclusione dei lavori della Commissione.

6. Il sorteggio sarà eseguito nel corso della premiazione pubblica.7. Il premio consiste nella pubblicazione dell’opera in volume a carico

del Sindacato nelle edizioni «Bibliotheca». 8. Agli altri quattro concorrenti selezionati per la cinquina spetta la

menzione onorevole. Sarà poi a loro richiesta accordata tutta l’assi-stenza ai fini di un’eventuale pubblicazione.

9. I giudizi della Giuria sono insindacabili, anche in caso di mancatoespletamento, in via eccezionale, delle procedure.

10. A concorso chiuso, i testi restano a disposizione dei concorrenti peril ritiro.

Mario Sironi, bozzetto di scenografia, inedito, tecnica mista, cm 35x50, (collezione privata).

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Meno nove, meno otto, meno sette”Il conto alla rovesciaè già nastro di ghiacciosul cratere del cuore,è paralisi umidache inchioda l’astronautaal piombo dei minuti.

“Meno sei”Tutt’intorno, dentro e fuori,la ballata dell’attesamassa, densità, peso dei corpi,calore specifico, pressionemilioni di televisoria cannocchiale sul tuo missile:la madre, la moglie, i figliuna sete seccacome sabbia rovente nella gola,il tam tam alle tempiee un’immensa solitudineche si allarga lentacome un ventaglio di mercuriosull’umanità che ti guarda.

“Meno cinque”Il conto alla rovescia,che ti ricorda all’improvvisolo scorrere dei nodisul lunghissimo filodel tuo primo aquilone,si romperà come allora,in un grido di carta,proprio come in quel giorno sbalordito,e sarai nell’anticamera della velocità lucea sperare l’incontro negli spazicon quel giocattolo bianco e rossosmarrito nel cieloall’alba di una stagione di profezie.

“Meno quattro”Ecco le memorie senza tempo,i compagni di scuola,la prima bambina con la pelle di sale,il conto del lattaio,i fiori da innaffiare il cinese calvo che bela nel giardino del pastore,

la precaria gravidanza della gatta,ma anche questi centigradida controllare sulla frequenza degli strumenti,queste quarantamila antenne viveda indovinarementre trafiggonol’immenso appuntaspilli del cieloe nemmeno un pensiero per Democritoné per i cavalieri di Gengis Khan,ma questa voce di dentroscatenata dalla magia di un direttore d’orchestrache già ti rabbrividisce l’animacon incognite trionfali.

Ci siamo: “Meno tre!”Un cerchio d’orizzonte,fresco di coriandoli e fontane,ricamato di fiaccole e presepi,è l’ultimo fiato gridato fortedalla ragnatela delle torrial lucido metallo,già fremente d’ansia e di vaporiverso i limiti della trasparenza.

“Meno due!”Gli attimi brucianonel tamburo fatto d’ariae di glaciale silenzio;si dissolvono in ritmi stratosfericicon il ronzio elettronico premonitoresino ad annegarti la memorianei colori dei pulsanti luminosi.

“Meno uno!”Il quadrante esplode d’arcobaleniil lampo s’indovina appena,gli ultrasuoni si sposano ai cristalli-lucee il sibilo diventa mostroche urla dai motorifili di stagno fuso.

“Vi a !”

.......................................................

All’ultima curva della Terra

l a p a g i n a d e l l a p o e s i a

Assalto a l lo spazioFranz Maria D’AS A R O

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già non hai più volto:sei un eroe fluorescentepietrificato dalla spirale della gravitazione,come superstite di musei antichipronto a schizzareoltre le frontiere dell’avveniree forse fino ai diecimila secolidella nebulosa di Andromeda,per umiliarcicon la tua maschera di martire.

Le stelle disegnano i profili di pruanel deserto della volta celestefrusciante di silenzi perenni.Morbida slitta l’astronavetra polvere d’orodella notte infinitache è un lago di lune.

Ma il tempo non ha più oreoltre i traguardi dell’ignoto,dove il presente si annulla nell’eternitàin lunghissimi e immobili singhiozzi elettrici.Tutto si ferma in uno sbadiglio senza fineagli incroci sideralidove il tempo è un cerchio che non si brucia,non ha bilance né compassi,né vetri da rompere e né vocali da riempire.E così la luce, che non ha fuoconé tinte, né ombrelli da colorarené cavalli di piombo da argentare.

Solo, libero dal sangue,solo, nelle profondità del grande vuotoche chiude i timpani, blocca il pensieroe incatena l’istinto,solo, nell’ordinario caos delle stelle mute,delle velocità afone, delle urla da abbottonare,solo, nello spazio che è un labirinto di paura,dove i fari per gli astronaviganti,

da Sirio a Polluce, da Antares a Procione,non hanno approdi segreti, né pozzi di speranza,né brividi di mistero né balie latine.

Con un ancestrale istinto di superbiastai lastricando di promessela Via Lattea,ma non conosci la resa angosciosa di Keplero,figlio della strega innocentee padre dell’armonia cosmica,che infrangerà anche il tuo sognoquando ti risveglierai sul pianeta in cui sei natoche è tutto costruito per tee che ha ancora tanto bisognodel tuo ingegno, del tuo amore,delle tue tartarughe,della tua audacia, del tuo odio.Del tuo seme.

Il conto alla rovescia,il conto del lattaio,i fiori da innaffiare,i titoli dei giornali,la madre, la moglie, i figli,il cagnolino a casa.Lo vedi come sei miracolosamente uomo?Un giocoliere sulla palla del mondo,carpentiere della galassia, ma non signore dell’Universo.

Fra poco, dopo lo schiantosulla barriera delle scintille atmosferiche,un lampo di fuoco ti accenderà il cuoree tornerai terrestre.Ma adesso già sai che eri uomo senza fede:sei ancora stella al guinzaglio del soleche ti trattiene nella curva eterna dello spazioper non farti illudered’esser libero nei regni non tuoi.

l a p a g i n a d e l l a p o e s i a

“Peccato che io non sia poeta e che lei non sia astronauta, perché io non ho saputo descrivere ciò che lassù ho avuto il privilegio di poter ammira-re, e lei ha saputo invece descrivere così bene ciò che ha saputo soltanto immaginare. Guardando soprattutto dentro il cuore dell’astronauta”. Pa-role a Franz Maria D’Asaro rivolte dall’astronauta americano John Glenn, protagonista nel 1962 del volo orbitale a bordo della capsula «Mercury»,ricevuto tre anni dopo a Roma in Campidoglio per iniziativa dell’allora sindaco Amerigo Petrucci. Glenn commentava, con quelle parole, Assalto al-lo spazio di D’Asaro, poema che un’attrice americana aveva poco prima recitato in omaggio all’astronauta, presente l’autore.Apprezzato e antologizzato in Italia e all’estero, il poema entra nei repertori teatrali di Paola Borboni, Riccardo Cucciolla, Carlo D’Angelo, VirgilioGazzolo, Ubaldo Lay ecc., artisti che nel corso degli anni ne rinnovano il successo dinanzi a un pubblico, sensibile al fascino della grande poesia. Inquei versi il futurismo, rivissuto genialmente con un tratto non più protonovecentesco, vuole la sua parte; ed attira anche l’attenzione un contro-canto segreto di pudica ma solenne religiosità, quasi a smentire il goffo materialismo istituzionale del più celebre eroe sovietico, quel Gagarin, le cuitrionfalistiche dichiarazioni di ateismo ebbero a scatenare una valanga di polemiche. (f. m.)

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l a p a g i n a d e l l a p o e s i a

LUCIANO LUISI

IL VI A G G I O

Saperlo! Ma a chi rivolgersi, a chi chiederlo? Poter guardare in faccia uno,uno soltanto che è tornato qui dal viaggio, a raccontar-lo. Ma nessuno

che è entrato in quella stanza ne scoprìl’uscita, mai. Né mai da quel radunosilente, voce sfuggita salìa darci la certezza che ad ognuno

toccherà la mercede che gli spettaper l’amore che ha dato (e c’è lassùuna mano che giusta la soppesa),per come il vento che l’investe accetta,sordo al sangue, alla terra, senza piùpaura, ormai, sul viale della resa.

LA MA D R E

E quando ormai non vivrò più di corsami fermerò (chiamato?) alla bottegadove ogni giorno entravi con la borsadella spesa, e se il tempo non mi nega

la memoria, ti chiamerò (chi pregapuò cancellare la vita trascorsa)pure sapendo che quella bottegada tanto non c’è più. Tu nella borsa

le caramelle affannata cercheraiper il tuo bimbo, reggendoti i fianchidolenti, ma guardandomi vedrai –

povera mamma coi capelli bianchi –che è più vecchio di te tuo figlio, e avraiferma una lacrima negli occhi stanchi.

CO S A RE S TA

Cosa resta di me, di ciò che fui– bimbo, ragazzo, giovane – (stagionesfocata, cancellata) in questi buitornanti della vita? La ragione

indaga inutilmente su coluiche più non riconosco. Che passionebruciava cuore e sangue ai tempi in cuinon potevo sapere in che burrone

cadono gli anni, fino a quando cedonoallo sconforto! E non importa allorache a volte un’illusione chieda spazio

se i miei sensi, anche nell’erta, più non credononei prodigi, non credono che ancoraqualcosa torni, e di questo mi strazio.

IN S I E M E

Lo dicono tutti (ed io come potreinon crederlo?) che noi ci si rivedalassù, insieme, quel giorno, e che sapreitrovarvi tra la folla e che succeda

come fossimo al bar: tu coi trofeisul buffo cappellino, il babbo in predaall’emozione, commosso, come ai beigiorni lontani… E accadrà poi ch’io veda

– io che sono di voi ormai più vecchio –per compensarvi del lungo aspettarmi,me tornato bambino in quello specchio

dove mi chino alla vostra sembianzaascoltando quel trepido chiamarmiche accende, inconsumata, la speranza.

Luciano Luisi è nato a Livorno e vive dall’adolescenza a Roma dove è stato giornalista culturale alla televisione. Ha insegnato Storia dell’Arte al-l’Accademia di Foggia. Ha curato molte monografie di scrittori e artisti. Fra le sue molte raccolte di poesia: Racconto e altri versi, Guanda, 1949;Piazza grande, Cappelli, 1953; Un pugno di tempo, Guanda, 1967, La Fenice, 1968, premio Chianciano; La vita che non muta, premio Pandol-fo 1980; tutte confluite in La sapienza del cuore, Rusconi, 1986 (19873) che ha vinto dieci premi. Fra le successive: Il doppio segno, poesie peri pittori, Schena 1994 e Il silenzio, Book Editore 1999. La farfalla vanesia, poesie per bambini, Paideia, Firenze 2000. Luisi ha tradotto duecen-to poesie d’amore di tutte le letterature in Luna d’amore, Newton Compton 1989, tascabile 1994; e ha scritto il romanzo Le mani nel sacco, Ca-munia 1992, e accresciuto, Book 2001; e la raccolta di conversazioni Lo scrittore e l’uomo, Mucchi editore 2000.

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Ci sono impulsi nella carneche dobbiamo accoglierealtri allontanarecome si fa con gli insetti molestima dobbiamo capire che non tuttorassomiglia a cappellini nell’amoree se non c’è cattiveriale costruzioni sono debitrici del fangoma per questo ci vogliono uomini raffinatiil cui maggior segretostretto fra il lavoro e la menzognarimanga per sempre vita.

Ed Emily capì che il mondonon sempre accoglie il genio femminileebbe cuore per chiudersi in convento(come Amleto consiglia)sognando in un ardore di rinunzia,dando fuoco al suo intimo,vendetta-azzurracome il mare.

È di fiamma il costato dell’universo.Per altri passi la Rivelazione

Discernimento è fare luce al buiocurare ortensie dare acqua al giardino,ma che strano tempo è questo!La preghiera ha svuotato di sé le grondaie.

Ogni tanto la donna ripensa al suo principetra un piatto da lavare e l’altro,la sua dignità pone arcioni d’argentopennacchi di luce irripetibilitra il tintinnare delle stovigliee si stupisce di conservare ancora nell’intimoun riverbero della sua grandezza.Nel sole crepuscolare che indora i margini del davanzalel’Idea la sua fiamma Dio stessocosì inaccessibileviene a Leie la rapisce in un sogno.Lasciate alla consapevolezza delle fogliel’accrescimento delle stagioni.

L’incanto bianco della notte buiaFreme tra i ramiin vestizioni d’ombra, vola un uccello o dorme su una rosa.

Non ci fu una favolapiù bugiardadi quella di Cenerentolanon che l’acqua non possa screpolare le dita,essa è benedettae messa in conto è anche la fatica,ma fisso il tempo e fissa la funzionesubalterna misura dell’esistere.Cenerentola con la scarpinadalla reggia maternase ne vadatra la cenere e il freddoappena incontri il suo principe:È più veritiera così la favola!

l a p a g i n a d e l l a p o e s i a

GIULIA PERRONI

Giulia Perroni (Milazzo 1941). Poetessa, attrice, operatrice culturale. Vincitrice del Premio Montale per gli inediti nel 1991, ha pubblicato diversilibri di poesia: La libertà negata (Il ventaglio, 1986); Il grido e il canto (Campanotto, 1993); La musica e il nulla (Campanotto, 1996, premioVincenzo De Simone, VIII edizione); Neve sui tetti (Campanotto, 1999); La cognizione del sublime (Campanotto, 2001, premio speciale S. Do-menichino); Stelle in giardino (Campanotto, 2003). Ha promosso incontri culturali al teatro Al Borgo, al teatro Cavalieri e li promuove all’Alephe al Cafè Notegen. È presente in numerose antologie in Italia e all’estero.

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POSSIBILI TENEREZZE

Predazione notturna è il mio possibile sguardoche in te si posaper rinnovare la possibile tenerezzache l’usura del tempo corrode ormaiin striature bianche.

Il desiderio, artiglio inafferrabile, si consuma nei miei pensierie lo struggimento dell’attesa,che rigenera la sorgente del sangue,si interpone ai miei sensi inquieti.

Mi alimenta soltantoIl nostro pacato procedereLento dei giorniChe perdura ed avvolgeLa completezza della nostra vita.

IL DELIRIO DELLA LUNA

Arresa nell’ansia di un presagio insondabileAttraverso il desiderio dei tuoi pensieri,letture esigue che il vento del temposfoglia ormai in parole scomposte.

Eppure mi assale la passione della precarietà,quella presenza-assenzacomplice di impeti invincibili.

Trasvola nella notte un’armonia infinitae mi stordisce il delirio della luna,come desiderio che incanta l’anima.

Trapassa il mio respiro la sete infinita di teora che le tue carezze pulsanosoltanto nel grembo del ricordo.

LA LUNA NEI TUOI OCCHI

Sorpresa dal tuo passoche mi rincorre con avida leggerezzaaccelero il mio andareper quel sentierodove le acacie si divaricano e si intreccianonella loro danza d’amore.

La terra è tramatura di seta,letto odoroso di umori acri,territorio d’accoglienza che rigenerail nostro preludio d’amore.

La mia pelle e la tua,rugiada di poesia,irrora l’attimo che si rinnovanella quiete storditamentre la luna si inabissa nei tuoi occhi.

IL DOLORE DEL DISTACCO

Disancorata, sorpresaper quei ritorniche il tempo lievitava nel silenzioe la tua forma illesa,dall’oscuro procedere del giorno,si intricava a scompigliareattimi d’amore che serravo tra le mani.

Consenso, pudoree poi scrigno aperto al tuo varcomentre il sangue accelerava il suo ritmoche nel silenzio s’avventuravaa guardare l’altra sponda.

E fu accoglienza di mille labbrala mia bocca carnalesogno narrato dall’attesadopo il dolore del distacco.

l a p a g i n a d e l l a p o e s i a

MIRANDA CLEMENTONI

Miranda Clementoni, umbra di nascita, risiede a Roma dall’infanzia. Presidente nazionale del Movimento per la diffusione della poesia in Italia, ha fon-dato i premi nazionali di poesia e saggistica “Calliope” e il premio nazionale di poesia e giornalismo “L’uomo e il futuro”. Tra le sue opere poetiche, Co-me molecole (1969), Segni nel nulla (1971), Pianto di corallo (1975), Forme di vita (1980), Appena orme (1985), Ipotesi e sintesi (1989), Il fu-turo della memoria (1993), L’eco del tempo (1997), La via della distanza (2000), Graffiti dell’anima (2003). Ha pubblicato anche opere di criticad’arte, sociologia, ecologia e sceneggiature per documentari e balletti. Numerosi i premi ricevuti. È presente in numerose antologie, le sue liriche sonostate tradotte in greco, inglese, francese e spagnolo. Alcuni suoi testi sono stati oggetto di tesi universitarie.

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Il racconto nasce con l'uo-mo. Si può dire che l'uomostesso sia il racconto che

Dio comincia nel primo e con-clude nel sesto giorno. Anchela Bibbia racconta... In princi-pio era il racconto... Passanoper il racconto l’ordine, l’ar-monia e la perfezione, che si-gillano il fiat creatore.Da sempre si racconta: è un'e-sigenza insita nella naturaumana al punto che, quandoancora non esiste la scrittura,si fa ricorso alle immagini sim-boliche, ai graffiti.Quando poi la scrittura è ri-uscita a racchiudere nei segnile emozioni, i sentimenti, oltreche gli eventi, allora il raccon-to prende una dimensione piùalta, crea il mondo del mito.Gli scrittori hanno subito inte-so che bisognava trasmettereinsieme alla realtà anche ilmessaggio, il fermento dellospirito.In Italia prende corpo una tra-dizione che poi però, per stra-ni eventi, non darà grandifrutti, perché sarà la poesia inversi a vincere, naturalmentecon quei racconti tutti parti-colari che sono i poemi caval-lereschi.Il Novellino è certamente ilprimo vero nucleo narrativodi grande significato, quello acui attinge Boccaccio per ilsuo capolavoro. Poi, a partequalche esperienza comequella, per esempio, dei Sac-chetti, o di Masuccio salerni-tano, il racconto va perdendola sua peculiarità e diventa al-tro da sé, con implicazioni ediversificazioni che non sicessa mai di indagare.

* * *

In tempi relativamente recenti,nell'Ottocento, il racconto ritor-na a far sentire la sua forza gra-zie alle esperienze degli Scapi-gliati (Dossi, Tarchetti, Boito,Praga), ma anche agli scrittoriche guardavano alla realtà, pri-mo fratutti Verga e poi De Ro-berto, Capuana, Misasi. Da allo-ra non c’è stata mai più sosta, ilracconto è ritornato ad essere ilvero protagonista della scrittu-ra perché, come ha scritto Pie-ro Chiara, è una misura estre-mamente difficile da realizzare,il luogo in cui non si può ecce-dere in nulla, perché ogni ele-mento deve essere perfetta-mente al suo posto e saper dia-logare con l'altro. Sostengonoquasi tutti i critici del Novecen-to, che il racconto è perfino piùdifficile da realizzare di unapoesia, perché la poesia sipreoccupa della sintesi e basta,il racconto invece deve badarea coinvolgere, a porgere dei fat-ti, a trovare una rispondenza traluoghi, personaggi, sentimenti elinguaggio. Deve avere, insom-ma, una rigorosa unità di tono,di accento, di stile, di trama.Scrivere racconti significa attin-gere alle sorgenti della propriafantasia, mettere in moto gli in-granaggi elementari della pro-pria vocazione di cantastorie.Naturalmente di tanto in tantoritorna l'opposizione al raccon-to per strane e insondabili ra-gioni. Per esempio, negli annisettanta le Case Editrici, quasitutte, si rifiutavano di pubblica-re raccolte di racconti adducen-do la scusa che i libri non si sa-rebbero venduti. Non credo che

fosse soltanto un vezzo, comun-que era una contraddizione,perché mentre si invocava labrevità delle narrazioni (vistoche la vita è sempre più freneti-ca e il tempo danaro) nello stes-so momento si prediligevano iromanzi al racconto. DanteMaffia all'epoca pensò di dedi-care un intero fascicolo della ri-vista «Il policordo» al racconto,intitolando Perché il raccon-to?. Intervennero in molti, scrit-tori di varie tendenze, e tutti fu-rono d'accordo nel ritenere ilracconto, se riuscito, l'operad'arte di scrittura più compiuta.Ora si può anche non essere deltutto d'accordo con simili affer-mazioni, forse troppo apoditti-che, certo è che il racconto èsempre un miracoloso e perfet-to prodotto dell'intelletto e del-l'anima, che svela i reconditipensieri e le emozioni di chiscrive e di chi legge. Chi rac-conta invoca la simbiosi, lacomplicità totale del lettore,che non può sottrarsi al coin-volgimento. Quando poi moltiscrittori, parlo sempre dell'Ita-lia, hanno dato prova di scrive-re racconti davvero stupefacen-ti (Pirandello, Bontempelli,Panzini, Alvaro, Pavese, Vittori-ni, Moravia, Cassola, Chiara,Soldati), l’atteggiamento delleCase Editrici è un po' mutato, ladiffidenza si è appianata e il rac-conto ha ripreso fiato, al puntoche adesso sono molte le CaseEditrici che accettano di inve-stire sul racconto.

* * *

Ma che cos'è, di nuovo, unracconto? È, come sosteneva

Moravia, una intuizione che"schiude il campo del narrareal puro scorrere dell'esistere,come volesse scandirne, perun attimo, in brevi segmentinarrativi, lo sgocciolio deltempo, i mutamenti, o, perdirla con un'espressione chesi è poi caricata di molteplicisignificati, la tranche de vie".Le parole virgolettate sono diEnzo Siciliano, tratte dallaPremessa a Racconti italianidel Novecento. Affermazionipiù o meno simili vengono or-mai fatte da molti critici. Si èpresa coscienza che alcunepagine di Giuseppe Pontiggia,di Vincenzo Consolo, di Leo-nardo Sciascia, di Dante Troi-si, di Beppe Fenoglio, di AnnaMaria Ortese, di Silvio D’arzo,di Domenico Rea, di VascoPratolini, di Turi Vasile di giu-seppe Bonaviti non sono dameno delle grandi costruzioniromanzesche di infinite sa-ghe. Insomma, se il raccontonasce come un unico fiato e sidispone sinfonicamente intutte le sue parti, non ha nul-la di meno di un grande ro-manzo. Una miniatura del Co-dice Purpureo Rossanese puòstare alla pari con un quadrodel Caravaggio, un oro di Cel-lini non ha niente di inferiorea un’opera di Raffaello. Hascritto Solgenitsin che unadonna di statura normale, an-zi un po’ meno del normale,se ha tutti gli attributi al po-sto giusto è senza dubbio piùbella e affascinante di unastupenda Amazzone, perché,tra l’altro, la donna piccola èpiù a portata di mano, più indirezione del cuore.

o s s e r v a t o r i o

Il racconto protagonista della scrittura

Nino P I C C I O N E

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Grandissimo, immensotra le ali rosa del gol-fo di Castellammare

e del golfo di Balestrate, az-zurro e vivo.Così vidi il mare per la primavolta. Così lo ricordo.Stranamente non provai sgo-mento davanti a quella im-mensità, fu come se trovassiuna risposta a quello cheavevo dentro. È ciò che provo ancora, cheho provato sempre in tuttiquesti anni, quando vedo ilmare: la sensazione di esserearrivata dove dovevo arriva-re, l'improvviso acquietarsidi confuse malinconie, lagioia di vivere in pieno unmomento di vita, senza rim-pianti, senza l'ansia irrequie-ta di essere già in un mo-mento successivo.Qui, in questo grande frago-re di onde, nel gioco bambi-no di schivare l'acqua che inmodo ineguale avanza sullasabbia, nel vento di sale e dischizzi che ti entra nei capel-li, nel cuore e tu ridi di un ri-so che è il riso del mondo, unriso che tu avevi dimentica-to, e non sei niente in queimomenti, hai perso l'età, ilprima e il dopo, sei solo re-spiro, sei solo la vita. Sei vivadi azzurro, di sale, di vento,di spuma di mare, di sole chesi fa oro sulla sabbia secca edè arcobaleno sull'umido dellabattigia.È qui, sulla riva del mare cheincontro l'infinito e sentol'infinito che, leggero e gra-ve, mi porto dentro; è in rivaal mare che dico, senza unmoto di labbra: “Mio Dio!”.

Camminando sulla riva delmare, quel primo giorno, an-davamo da Alcamo Marina aBalestrate. Eravamo una co-mitiva numerosa di adulti,giovani e bambini.Durante la mia infanzia, lepasseggiate a piedi eranotanto frequenti: andavamo alFegotto per trascorrere incampagna il Lunedì dell'An-gelo, andavamo a San Gaeta-no dai Filippi o allo SpiritoSanto dai Ferrara, ci arram-picavamo per scorciatoie chela nonna Elena chiamava “isentieri delle capre” fin sulmonte Bonifato e, in alto, fi-no alla Torre.Merenda a Balestrate e ritor-no: questo era il programmadi quel pomeriggio. Io eropiccola e mi tenevano permano. Zampettavo, cercandodi adeguare il mio passo aquello degli adulti, ed ero fe-lice di sentire l'acqua sui pie-di, felice della mia nuditàquasi completa; mi ubriacavodi tutta quella luce, quel fra-gore, quel vento: il sole delpomeriggio era sul mare.Al ritorno mi portarono, aturno, a cavalluccio, papà epoi altri giovani che mi pren-devano e mi sollevavano sul-le spalle, quasi in un gioco. Ilsole, grandissimo, sparivalentamente nel golfo di Ca-stellammare; man mano checalava nell'azzurro, il rosaavanzava sulla montagna enel cielo, avanzava sullaspiaggia. Tutto il mondo erarosa e dolce.Nella memoria, è in quel ma-re, in quella quiete di riappa-cificazione che vedo il sole

tramontare e il giorno pie-garsi alla limpida dolcezzadel crepuscolo.

* * *

Prendemmo l'abitudine ditrascorrere parte delle va-canze ad Alcamo Marina per-ché, secondo il dottore Roc-ca che era il nostro dottore,“i bambini avevano bisognodi mare”. Alcamo Marina dis-ta pochi chilometri dal pae-se: allora aveva una piccolastazione ferroviaria e pochecase, sparse sul litorale o sul-la collina.Prendevamo in affitto unacasa che, in genere, era unacasa modesta, tutta da arre-dare, così portavamo dalpaese lo stretto necessario evivevamo “con lo spirito delcampeggio”, diceva papà.Quasi tutte le case, quelledella vecchia tonnara e quel-le della collina, erano co-struite secondo l’usanza ara-ba: dipinte di bianco, unbianco intenso di calce, confinestre piccole e alte rispet-to al livello del pavimento eun cortile interno, con unatettoia che proteggeva i for-nelli a legna e l’acquaio. Lecase erano quasi sempre rag-gruppate, separate una dal-l'altra da un intervallo brevedi spazio che impropriamen-te si poteva chiamare strada.Sia le finestrelle, alte sullaparete, che le viuzze angu-ste, rispondevano all'esigen-za primaria di difendersi dalcaldo, dal vento d’Africa chedi frequente investiva la co-sta per tre giorni consecutivi

e di creare delle fresche zo-ne di ombra.La spiaggia era grandissimacon sabbia sottile e dorata, ledune, piccole e morbide, era-no coperte da leggera vege-tazione mediterranea, qua elà c'erano gigli bianchi cheprofumavano l’aria e bo-schetti di canne che davanoal vento un’eco di voce: avolte pareva un canto ugua-le, a volte era il suono di vio-lini, un suono che si spezza-va, si spezzava, nel tentativodisfarsi alto, come un gridonel cielo.Andavamo in spiaggia prestoal mattino, perché papà dice-va che quelle erano le oremigliori, avevamo la sensa-zione di essere i primi: laspiaggia era segnata da lineeappena accennate, come pic-cole onde che si allargavanoverso l’interno, un disegnosimmetrico lasciato dallabrezza della notte; qua e là,chiarissime, le impronte pic-cole delle zampe degli uccel-li; sulla riva i granchi si muo-vevano con quel loro stranoprocedere angolare, senzapaura. Me la ricordo comeuna spiaggia infinita, biancadel biancore del sole che, avolte, era difficile sostenere;me la ricordo come unaspiaggia ricca di conchiglieda raccogliere e di piccolevongole da cercare, affon-dando le mani nella sabbiaumida della battigia.La voce del mare dominavatutto, ed io mi sentivo cosìpiccola davanti a quella dis-tesa blu, immensa, che nes-suno poteva sognare di chiu-

n a r r a t i v a

Cosí v idi i l mare per la pr ima voltaMaria S A N D I A S

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dere in un abbraccio e dimettersi dentro. Era meglioarrendersi, perdersi nellosbattere quieto o violentodelle onde, in quel blu di ma-re che lontano diventava bludi cielo, farsi leggeri e la-sciarsi andare a quell'infinitoche attirava, come una cala-mita, quel piccolo specchiod’infinito che si svegliava e sidilatava nella nostra materia-lità. Questa è leggerezza,questa è liberazione, legge-rezza di vento fra i cespugli efra le canne, leggerezza dispuma di mare, leggerezza dipulviscolo d'oro nella lucedel sole, leggerezza nel volodegli uccelli che toccavanoappena il pelo dell'acqua,leggerezza di un riso bambi-no, qui e ora.Quando c'era scirocco il ma-re si quietava e diventavalimpido e pervinca e spessoun piccolo esercito di medu-se, anch’esse pervinca, bel-lissime nella loro trasparen-za, nella trasparenza dell’ac-qua, si avvicinava alla riva.Erano da temere per il liqui-do irritante e velenoso cheemettevano. Guai a toccareuna medusa. A volte sulla ri-va li trovavamo infilzati inuna canna quei corpi di opa-line, frutto di una caccia or-gogliosa. Fluttuavano lentenell'acqua della battigia. Pernoi bambini erano le primeimmagini della morte, dellanon vita, accettata senza stu-pore dal consenso generale.“È morta” dicevano, mentreci invitavano a fare un passopiù lungo per superare l'o-stacolo, scavalcandolo. Cosìeravamo educati alla consa-pevolezza della vita e dellamorte, introdotti alla neces-sità di una verità a due facce,garanti l’una dell'altra, pre-senti, sempre insieme, inse-parabili, nel nostro semplicepercorso quotidiano. La me-dusa afflosciata sulla riva è

morta, ma quella appena piùavanti tutta immersa nell'ac-qua, turgida di colore, è vivaed è vivo l'uccello che volabasso sul mare, è vivo ilgranchio che si nascondenella sabbia, è vivo lo scara-faggino nero che si avvicinaal tuo piede, è viva la vita neltuo piede che si ritrae, neltuo moto di paura, nella glo-ria del sole che abbacina ilmondo.Il nostro ombrellone era az-zurro, a strisce appena con-trastanti, e la sua ombra ap-pariva preziosa e confortantenella luce chiarissima delmattino. Facevamo il bagnopresto ed era un bagno bre-ve, regolato dall'orologio dipapà. Non insistevamo nem-meno per godere ancora del-la “gioia dell’acqua”: la mam-ma guardava il palmo dellenostre mani e i polpastrelli ediceva: "Dovete uscire".Papà era pronto sul bagna-sciuga per guidarci in unacorsa ristoratrice. Era stranovedere papà in costume dabagno: aveva braccia e gam-be lunghissime e le spallepiccole rispetto all'altezza edera tanto magro. Correva da-vanti a noi con le sue lunghegambe e con i gomiti strettial busto e pareva un grandeuccello che aveva perduto leali. Noi gli correvamo dietroe io cercavo di mettere i pie-di sull'orma grande dei suoi.Cosí, fra gli schizzi, i mieidue fratelli ed io seguivamopapà e la corsa e queglischizzi e quella specie di ga-ra con i cavalloni che batte-vano a riva ci muovevano alriso e dopo un pò le labbra ele guance erano coperte disale. Avanti avanti verso Ca-stellammare, imitando papànello slancio delle gambe,nella posizione dei gomiti. Avolte arrivavamo fino al fiu-me, al Fiume Freddo, ed eraun incanto vedere l’acqua

che si versava nell’acqua e ilfiume che diventava mare.Era un piccolo corso d’acquache conoscevamo pietroso,d'estate, nelle campagnedella contrada Fegotto, chesi arricchiva, nel suo proce-dere, di altri torrentelli eavanzava fra orti e canneti,placido, fino al mare. Davan-ti a quel fiume sostavamostanchi per un po’ e io miperdevo ad osservare quel-l'inciampare dell'acqua con-tro le canne e il gioco delleluci e dei riflessi del mondocircostante che le piccoleonde componevano e scom-ponevano. Come per il fuo-co, guardare l’acqua è ri-schiare di smarrirsi in un in-canto.All'ombrellone la mamma cicopriva con i grandi asciuga-mani che aveva tenuto stesial sole e ci aiutava a cambia-re i costumi che erano di la-na pesante e grondavano ac-qua per ore. Era il momentodel goccino di marsala perrecuperare le energie spese,poi l'uovo sodo e la frutta.Potevamo giocare. Spessopapà si univa a noi. Con luicostruivamo dei bellissimicastelli di sabbia con le torrie il fossato che l'onda delmare riempiva. Papà non sa-peva parlare ai bambini espiegare le cose e raccontarele storie, quello che ci univaa lui era il lavoro in comune.Ci dava ordini seri ma nonera mai severo e raramenteperdeva la pazienza, noi era-vamo contenti di ubbidire, diimparare: “Prendi un sec-chiello d'acqua”. “Serve sab-bia bagnata”. “Vai a cercaredelle cannucce”. Con manileggere faceva le finestre alletorri e i merli in cima. Alla fi-ne il castello era pronto conle torri, il fossato e il pontelevatoio e tutti i bambini sifermavano ad ammirare.Quando è venuto il tempo,

ho ritrovato dentro di me glischemi di quei castelli perfarli con i miei figli bambini.[...]

* * *

La domenica arrivavano adAlcamo Marina i contadini;arrivavano sulla spiaggia coni carretti, spaiavano il mulo esistemavano il carretto sulleruote posteriori, poi, sulleaste del carro stendevano unlenzuolo che fungeva da ten-da, da riparo d’ombra in quelgiallo infinito di sole.I bambini avanzavano timo-rosi all’orlo del mare e allun-gavano il piede a toccarel’acqua: gli adulti li incorag-giavano, ma anche loro, abi-tuati alla terra, erano sgo-menti a contatto con l'im-mensa mobilità del mare.Buttavano nell'acqua le ca-mere d’aria e dicevano ai fi-gli: “Nata”. “Nata”. “E i bam-bini, perduti nel giro di gom-ma, zampettavano come cuc-cioli, attenti a non bere l’ac-qua salata. Le donne, spe-cialmente le vecchie, si ba-gnavano in sottana, qualcunausava un pezzo grosso di sa-pone e si insaponava e si ri-sciacquava. Giocavano dovel’acqua era bassa, quasi se-dendosi sul fondo del mare;giocavano a schizzi e grida-vano, tornate bambine. Chemeraviglia in un paese, sem-pre assetato, che meravigliaquell’abbondanza d’acqua!Gli uomini, a volte, spingeva-no nel mare anche le bestie.Quel mare, chiuso tra Bale-strate e Castellammare, eraun mare infido, percorso dastrane improvvise correnti,con il fondale liscio e setosoche si apriva, qua e là, in im-prevedibili buche di gorgo.Era un mare troppo vasto. [...]

Da La casa era bellissima [tit.

provv.], in corso di stampa, ed Manni.

n a r r a t i v a

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La rassegna romana diMario Sironi sugli “An-ni della solitudine

1940-1960)”, curata da Vitto-rio Sgarbi, vuole dimostrareche l'alto valore delle opere,siano esse le “Periferie urba-ne” o la “Carta del lavoro”, le“Apocalissi” o “L’Italia corpo-rativa”, non hanno subito undeperimento di ordine arti-stico, a contatto con gli even-ti esaltanti o depressivi delquotidiano. Infatti la mostraallestita alla Provincia, conl'intervento di MariastellaMargozzi e Romana Sironi,docurnenta un periodo finoranon affrontato in sede espo-sitiva, ma che è stato intensoe insieme drammatico perchi, dopo aver subito il crollodegli ideali, ha profondamen-

te avvertito lo "sforzo imma-ne di vivere, di resistere conquesto cuore schiantato dal-l'enorme fatica di esistere -ha scritto Mario Sironi in unanota del 1945 - dopo che tut-to s’è rotto in questi mesi,tutto: non sono rimaste chemacerie e paura".Senonché, da un artista cheaveva chiesto alle superfíci diuna tela o di un muro, allamateria plastica e alle paretiarchitettoniche la "corrispon-denza di un'idea", in quanto"corrispondenza di uno stile"(e lo "stile è vita", diceva),non ci si poteva aspettareuna manifestazione di recli-nato o compiaciuto abbando-no intimista - come è statoingiustamente detto - dal mo-mento che anche la sofferen-

za è un'attività che muove leidee e che ha il suo puntod'avvío da una realtà, in cui ilpresente non è temporale: è– gentilianamente - atto, cioèvalore, non un fatto di porta-ta meccanica. Ed ecco per-ché la rassegna, pur nellaconsapevolezza del curatoreche le opere esposte sono na-te in un momento di soggetti-va solitudine, non viene me-no alla dimostrazione dellaperfetta "corrispondenza" trale idee nicciane e soreliane,non perite nella presenzialitàdella “tragedia" e "violenza"dell'uomo, e le leggi intransi-tive dell'arte.Proprio perché in Sironi latensione delle idee non è se-parata dalle tensioni dei sen-timenti, dalla passione, per

cui anche quando il soggettosoffre o partecipa attivamen-te alla gioia della creazione,cerca il valore dell'arte espiega nell'opera il pensierocon cui l'uomo si infutura.Sicché la “corrispondenza”tra le due tensioni, quellasoggettiva delle passioni eoggettiva delle idee, quelladell’etica e dell’estetica, infi-ne della cultura e della politi-ca, trovano anche in questarassegna, datata, ma non li-mitata, il legame tra il valoreeterno della poesia e quellooriginario e continuo deitempo, onde consolidare –son sue parole – “1'unità distile e la grandezza di linee,al vivere comune”.È stato usato il termine vitto-riniano di “tensioni”, per rì-badire quello che il direttoredel “Politecnico” aveva dettoa Roderigo di Castiglia aliasTogliatti, e che cioè le richia-mate “due tensioni” di cultu-ra e politica, in quantoespressioni della realtà, sìsvolgono sul piano della sto-ria, e come tale vanno riferitealla eternità di un presentecontinuo, non appartenendoad un’“anima” diversificatanei vari momenti. In effettiSironi, con la stessa "anima",ha risolto il dualismo ricor-rente tra l'autonomia dellapoesia e l'attualità della sto-ria, tra la decorazione e lafunzione, tra il potenziale el'attuale, saldando all'eposarcaico la realtà concreta, al-la plasticità della facciata ar-chitettonica la considerazio-ne di una spazialità intesa co-me aria della storia, che ri-porta nel nostro presente levoci di epoche lontane.Invero Mario Sironi, convintoche il linguaggio del pittore edel poeta è linguaggio stori-

a r t i f i g u r a t i v e

Mario Sironi e le due tensioni: arte e politicaLuigi T A L L A R I C O

Mario Sironi, studio per Allegoria del lavoro, 1931, (collezione privata).

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cizzato, non legato ad unaastratta e inattuale purezza,da una parte, avverte “l’asprae tormentosa” condizione del-le “Periferie urbane”, divenu-te, attraverso la pratica nega-tiva dell’industrialesimo otto-centesco, “sconfinato deposi-to di fatica”, come Carlo Cat-taneo definiva il territorio. Edall'altra, innalza a dignitàd'arte la gravitas del mosaicodell'“Italia corporativa” e lapotestas della vetrata della“Carta del lavoro”, realizzataquest'ultima negli anni in cuiil tempo della storia istituzio-nalizzava – senza disperdernela tensione lirica – la pariteti-cità dei lavoratori, protagoni-sti assenti delle “Periferie”, edel lavoratore-guerriero chedifende la sua casa, nel basso-rilievo dei “Popolo italiano”,posto nel Palazzo dell'infor-

mazione a Milano. A confermache i lavoratori e i produttorirappresentano non solo i sog-getti dell'economia, ma la su-periore condizione che egua-glia chi lavora, in quanto lavo-ra, al pensatore, all'artista, al-lo scienziato, come rappre-sentato nell'affresco dell'“Ita-lia tra le arti e le scienze” del-lo Studium Urbis.

Ma presto arriva il momentodella "solitudine", in cui l'arti-sta è alle prese con un rendi-conto che non è soltanto in-dividuale, ma che è legatoagli eventi ineluttabili dellastoria. E se Sironi, per laguerra, abbandona i muri e lemegalografie espositive eperciò i simboli della comuni-tà, è anche vero che affrontala tormentata pittura da ca-valletto all'indomani di un

evento per lui sconvolgente eche segna la fine di un sogno(un “azzardo”?) con la scon-fitta dell'Italia e dell'Europa.Ha ricordato Fortunato Bel-lonzi, nella monografia Elec-ta del centenario che, allor-ché va a visitare Sironi, dopola fine della guerra, lo trovacon la faccia sofferente e losguardo incupito, fisso sulsuo lavoro incompiuto epreoccupato per il nostro de-stino di popolo e per lo scac-co subito dall'Europa.Per Sironi in quei giorni –scrive Bellonzi – l'“argomen-to” più importante di cui dis-cutere non è l'arte, “ma, ap-punto la condizione dell'Ita-lia”. È questo l’“argomento”risolutivo della sua “solitudi-ne”, per cui in quei giorni ter-ribili – accettati senza abiurené pentimenti – ogni espres-

sione pittorica si tramuta inimplosione e la forma si dis-solve in un'informe materiacromatica. Ora l'artista è ve-ramente rimasto solo e nel-l'attesa della morte, lascia sulcavalletto un'opera non fini-ta, in cui i corpi sono ridotti agrumi e a linee sfilacciate, le-gata alla serie delle “Apoca-lissi”, l'apocalisse giovanneache della storia indica arca-namente il giudizio ultimo,cioè la catastrofe.A questo punto è lecito do-mandarsi, forse retoricamen-te: un artista come Sironi –che non ha creduto all’“armo-nia” dell'uomo greco e che siè ispirato al carattere roma-nico e perciò all’uomo impe-gnato da sempre a convivere(e lottare) con la tragicitàdella vita – non si era già po-sto al di là della solitudine?

a r t i f i g u r a t i v e

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Mario Sironi, Montagne, 1954. Olio, cm 60x80.

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La nascita del romanzo in Africa è un fatto che an-cora divide letterati e antropologi. Gli scrittoriafricani del primo e del secondo Novecento sono

tutti figli di una visione coloniale del mondo ancestra-le. Si è creata una situazione di fatto che ha reso ne-cessario il cambiamento, l’acculturazione l’accettazio-ne di sistemi di pensiero e di produzione diversi daquelli autoctoni. “Questa condizione di esilio ha spintogli scrittori africani a creare un territorio mitico che co-stituisce una nuova patria/matria. E tale è infatti il ro-manzo che accoglie nelle sue valenze simboliche lafrattura tragica dello scrittore, la sua condizione di ine-vitabile esule” (pag. XIV dell’Introduzione di Itala Viana “I viandanti della strada” di Chinua Achee). Il fer-mento d’idee, generate dalla acquisita indipendenza,determinò fra gli intellettuali arabi, sia d’Egitto sia delMaghreb e di altre realtà letterarie africane, la necessi-tà di scrivere in diverse lingue per arricchirle del patri-monio culturale acquisito fin dall’infanzia.Nel vasto panorama degli scrittori del Nord Africa unposto particolare occupano gli scrittori egiziani. Neltracciare i profili di taluni letterati ricordiamo la scrit-trice che prese posizione contro l’integralismo: NA-WAL AL SA’ DAW, nata nel 1932 in un villaggio del Ni-lo, poco lontano dal Cairo, laureata in medicina e spe-cializzata in psichiatria, ha pubblicato nel 1978 il libroverità “Firdaus”, opera che le ha procurato censure eobbligata all’esilio. Rientrata in Egitto nel 2001 è stataaccusata di apostasia. “Firdaus” è la storia di una don-na egiziana che ha conosciuto nella vita ogni sorta dimiserie e di umiliazioni. Condannata a morte per l’as-sassinio di un uomo (pena eseguita nel 1974) si è ri-fiutata di chiedere la sospensione della pena trince-randosi dietro un silenzio assoluto. Soltanto a Nawal,psichiatra e scrittrice, ma soprattutto donna, raccon-terà la sua storia con sincera disperazione, superandoil muro di ostilità dietro cui la prigioniera si era chiu-sa. Nawal offre a Firdaus la voce che la riscatterà dalsilenzio in cui, altrimenti, la sua vita e la sua morte sa-rebbero sprofondate. La scrittrice è nota per aver pub-blicato, oltre a numerosi racconti, “La donna e il ses-so”, “L’uomo e la sensualità”, “La femminilità e l’origi-ne” e “Il volto nudo della donna araba”. “Firdaus” pub-blicato a Beirut in arabo nel 1978, è stato tradotto inItalia e messo in circolazione da Giunti Firenze nel1989, riscuotendo subito un grande successo e signifi-cativi divieti i molti paesi arabi.

E tra tanti scrittori di spicco:

BAHA TAHER: nato nel 1936 da una famiglia originariadi Karnak, nell’Alto Egitto. Scrittore tra i più noti dellanuova generazione di letterati che si ispirano nelle loroopere ai principi di libertà e di giustizia sociale, è autoredi alcuni romanzi tra cui “A oriente del palmeto” e di si-gnificative raccolte di racconti, come il suo più famoso:“L’altra notte ti ho sognato”, nonché “Zia Safia e il mo-nastero”, (pubblicato in Italia da Jouvence Soc. editoria-le Roma 1993), un intreccio avvincente di avvenimenti edi nostalgie nei ricordi del protagonista bambino e poiadulto ambientati nell’Egitto contadino degli anni ses-santa. Taher si distingue per il suo stile diretto, concisoe impregnato di poesia.

EDWAR AL – KHARRAT, nato ad Alessandria d’Egitto nel1926 da famiglia copta. Attivo nel movimento rivoluzio-nario egiziano, sconta due anni di carcere. Nel 1968 fon-da una rivista d’avanguardia “Gallery ’68’” che si contrap-pone all’estetica classica di Mahfuz. Ha pubblicato nume-rosi libri, tradotti in molte lingue, tra cui “Alessandria,terra di zafferano”, “Muri alti”, “L’ora dell’orgoglio” e il no-tissimo “Le ragazze di Alessandria”, (pubblicato in Italiada Jouvence Soc. Editoriale Roma 1993), è il monologointeriore che porta all’animo del protagonista, nell’Egittotra la Seconda Guerra mondiale e gli anni ’60, i più bei ri-cordi delle ragazze incontrate negli inquietanti anni del-l’adolescenza e della giovinezza … Al – Kharrat per il suostile surrealista e simbolista è certamente uno tra gli in-novatori della letteratura araba contemporanea.Si tratta di autori che parlano con profonda partecipa-zione e senso critico di dissenso, di lotta nell’ambito delproprio territorio e che si scaldano nella denuncia.

Altro prestigioso autore, poco conosciuto in Italia, è:YUSUF IDRIZ, nato nel 1927 in un villaggio del Delta,tra il canale di Suez e il ramo orientale del Nilo, si lau-rea al Cairo ed esercita la professione di medico. TahaHusayn, il maggiore scrittore egiziano dell’epoca, nel1954 introdusse la sua prima raccolta di racconti, ro-manzi, teatro, saggi. Ha collaborato fino alla morte, av-venuta nel 1991, con il quotidiano laico “El Ahràm”.Suoi temi più frequentati sono: l’abiezione, la violenza,la scissione interna, la separazione tra ciò che è intimoe ciò che è sociale e pubblico. Nei suoi racconti Idristratta di infanzia, religione, sesso, miseria degli ambien-ti popolari di paese o di periferie cittadine.

Egitto: voci e pensier i d i scr i ttor i contemporanei

Francesco Alberto GI U N TA

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YUSUF Ash-SHARUMI ha trascorso mezzo secolo nelmondo letterario tra studi di critica letteraria, traduzio-ni, ricerche e racconti brevi di cui negli anni ’60 è consi-derato uno dei pionieri. Ha pubblicato più di dieci rac-colte di poesia, tra cui I cinque amanti, Lettere ad unadonna, La ressa, Leggerezza di spirito, Caccia nelcuore della notte, L’ultimo grappolo, La madre e ilmostro e Le basi musicali.Ha scritto anche un ‘diwan’ in prosa dal titolo L’ulti-

ma sera. Infine, ha pubblicato più di venti volumi dicritica letteraria, occupandosi dello sviluppo e del ri-sveglio del racconto, di diversi letterati e pensatoridel mondo arabo. Ha compiuto molti studi sulla lette-ratura dell’Oman, Personalità d’Oman, ecc., operache ha composto nel periodo in cui è stato Consiglie-re culturale in Oman (1986-1990). Notizie tratte da“Al-Bayan” (Il Manifesto, Emirati Arabi Uniti),12.5.2002.

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Mario Sironi, Periferia, 1921, olio, cm 38x25, (collezione privata).

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Vorrei svolgere alcune brevi riflessioni in chiavecritica, partendo dalla mia esperienza afgana maconsiderando anche gli ultimi miei tre anni di la-

voratore migrante qualificato. È indubbio che nell’attuale esperienza afgana ma an-che, come dicevo, nelle esperienze di lavoro pregresse,condotte in ambienti “internazionali” e quindi, per de-finizione, apolidi, manchi e sia in generale carente (maper la verità non è neanche richiesto) quel grado di ap-profondimento e di elaborazione interiore, insommaquel mettere in dicussione se stessi, che è tipico dellaproduzione intellettuale. Eppure mi sono trovato e mitrovo a svolgere ogni volta, compiti cosiddetti di “con-cetto”, per cui tale carenza non può attribuirsi al con-tenuto del lavoro. Penso piuttosto, come Capograssi profondamente in-tuiva, che l’estrema mobilita e flessibilità richieste,queste sì, per poter lavorare in ambienti multiculturalied in paesi diversi e la permanente disposizione inter-na ad essere impiegato in contesti e situazioni diffe-renti (il “rimescolamento” di Capograssi) non garanti-scano anche solo per un oggettiva mancanza di tempo,calcolata secondo l’orologio fisiologico della riflessione,il raggiungimento di un punto di equilibrio dal qualepoter avviare una seria e responsabile elaborazione in-tellettuale e progettuale. In conseguenza, i frutti derivati da questi contesti ca-ratterizzati da una mobilità permanente, che è poi lacondizione attesa di tutti i processi di superficiale mo-dernizzazione, sono contagiati da un peccato orginaleche pregiudica lo scopo finale. Essi cioè non sono ingrado di produrre o anche solo di indurre un vero cam-biamento, ma si limitano a trasferire quei caratteri disomma agitazione di cui sono provvisti.Sono in missione a Kabul per la terza volta. Dall’iniziodell’anno sono impegnato in una iniziativa, coordinatadal governo italiano, di riabilitazione del sistema giudi-ziario in Afghanistan. È un impegno considerevole daparte del nostro paese che, oltre a svolgere una attivitàdi cooperazione bilaterale nel campo giudiziario, ha an-che assunto sulla base di accordi presi a Tokyo nel gen-naio 2002 l’oneroso compito di coordinare l’insieme deicontributi dei donatori internazionali destinati al setto-re giustizia.

Così dallo scorso gennaio faccio la spola tra l’Europa el’Afghanistan, ed il dato più visibile alla mia coscienzain questo gioco alternato di partenze, arrivi e riparten-ze è l’estrema permeabilità che la mia mente è costret-ta a sviluppare.Questa osservazione apparentemente scontata mi èstata suggerita dalla lettura di un pensiero di GiuseppeCapograssi, che proprio giorni fa mi è capitato sotto losguardo mentre tornavo a reimmergermi in quella pu-rissima fonte, in quel lavacro sacro della coscienza edella conoscenza, che sono i Pensieri a Giulia.Nel pensiero riletto a caso, scritto dall’autore nell’ecodi una poesia di Carducci sullo “sferragliamento volga-re dell’epoca moderna”, Capograssi confessa tutta lasua idiosincrasia agli spostamenti, che comportano un“continuo rimescolamento di sé” (cito a memoria) e ladolorosa necessità di dover ritrovare ogni volta un pun-to di equilibrio nel luogo d’approdo.Il continuo migrare, sia pure per motivi di lavoro, pro-duce un indebolimento delle radici dipendente dal ri-mestamento della coscienza e del suo sostrato più inti-mo, le abitudini, che pregiudica irrimediabilmente l’e-quilibrio di vita in generale ed, in particolare, cosa pe-nosissima per Capograssi, la riflessione intellettuale.Questa la mia premessa per introdurre il caso afgano.Quasi due anni dopo la fine del regime talebano, tuttele iniziative e le attività previste per portare democra-zia, libertà e sviluppo in Afghanistan ed il coro propa-gandistico che le sostiene (anche in relazione al casoIraq) sembrano ignorare la situazione reale di un paesein cui c’è una insicurezza crescente e una grande sfi-ducia nel futuro.Il governo di transizione guidato, secondo quanto pre-visto dagli accordi di Bonn del dicembre 2001, da Ha-mid Karzai stenta a guadagnare riconoscimento oltre lacapitale e per noi occidentali inoltrarsi nelle provinceafgane o perfino in alcune aree periferiche di Kabul èsempre fonte di pericoli ed imprevisti non facilmentecalcolabili. Non c’è giorno in cui non si abbia notizia di scontri piùo meno intensi in alcune aree del paese tra sacche diresistenza talebana e forze militari internazionali maanche tra fazioni interne rivali; e per quanto la capaci-tà offensiva talebana sia stata notevolmente indebolita

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In miss ione a KabulVincenzo LAT TA N Z I

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dall’intervento militare della coalizione alleata nell’ot-tobre 2001, essa non è stata irrimediabilmente com-promessa ma si è trasformata in una persistente ed in-controllabile attività di resistenza che rende dense dioscuri presagi le notti di Kabul.Il test quotidiano dell’Afghanistan è così un costanterichiamo alla guerra, alimentato, da una parte, dagliechi di fronti ancora aperti, dalle notizie di mine cheesplodono, di colpi sparati in pieno giorno a Kabul adun check-point, dell’imam che arringa la folla per cac-ciare gli invasori occidentali, e dall’altra, dalla visioneraccapricciante degli scheletri del passato (i relitti mi-litari della guerra con i sovietici e del conflitto internosuccessivo), che si accampano con violenza a turbarela cornice rassicurante di un paese recuperato allanormalità. Il sentore della guerra è corroborato dalla presenzadelle forze militari internazionali, che in Afghanistanstanno conducendo quella che in gergo si definisceun’operazione di peace-enforcing (e non di peace-keeping come sostenuto), il tentativo cioè di ristabili-re condizioni pacifiche di convivenza attraverso un usodissuasivo della forza.Questo compito non è agevole. La principale difficoltàrisiede innanzitutto nella impossibilità oggettiva dicontrollare un paese che non è dotato di vie interne dicomunicazione e le cui montagne, gli estesi altipiani, legole profonde, i deserti sono stati per secoli sottratti alcontrollo dell’autorità centrale e soggetti all’imperio digruppi tribali appartenenti a differenti etnie.La frammentazione tribale trova però all’interno un de-nominatore comune ed un motivo di convergenza nellafede granitica al verbo dell’Islam, secondo le due fontistoriche della tradizione sunnita e sciita, e l’altrettantorigorosa accettazione della Sharia (la legge islamica)quale supremo principio di organizzazione e di regola-mentazione sociale e giuridica. Allo stesso tempo questo processo determina versol’esterno una frattura irrimediabile con la sensibilitàoccidentale, generando quel punto d’attrito fonda-mentale, irriducibile a qualsiasi composizione di natu-ra dialettica.Infatti, per un verso la Sharia appare a noi occidentalila negazione in radice di tutte le conquiste liberali e diquell’immenso patrimonio di tolleranza e libertà ad es-se correlato. L’attacco non si consuma solo ad un li-vello teorico ma più ancora assume le forme di una ag-gressione al cuore della nostra civiltà, con lo scopo dipregiudicarne l’esistenza. Per altro verso, gli afgani fa-ticano a riconoscere dignità di interlocutori a coloroche non hanno nessun fine assoluto e cercano di sot-trarsi incessantemente all’ineluttabilità del destino ed

anzi hanno fatto del relativismo culturale e quindi del-la dimensione temporale il luogo della edificazionestorica.La storia è invece per gli afgani una accumulazione a-temporale di eventi che si allarga secondo un anda-mento concentrico ed in cui, attraverso la ripetizionedegli usi e dei costumi dei padri, è agevole sentire l’i-spirazione religiosa, la parola indefettibile del profeta.Il rituale del muezzin che per cinque volte al giorno ri-corda ai fedeli con un monito preciso che è tempo didistogliersi dalle attività quotidiane per dedicarsi aquell’unica veramente degna e senza tempo, la pre-ghiera, contraddice irrevocabilmente i nostri ordini diinteressi e le direttrici occidentali d’orientamento del-l’agire sociale. Il richiamo del muezzin a cui non ci si può sottrarre,che si impone con l’imperatività ed il rigore di ciò cheè eterno, spegne sul nascere qualsiasi disposizione cri-tica dell’individuo, rendendolo partecipe della realizza-zione di un disegno superiore di cui egli è però stru-mento attivo. L’Islam assume quel volto duro e solitario che rende lenostre notti insonni e che fa chiedere ad alcuni di noise non sia vero che “conquistare l’Afghanistan non èdifficile, mentre difficile è rimanerci”. D’altra parte i so-vietici furono costretti ad abbandonare questo paesedopo dieci anni di sofferenze indicibili, mentre gli ame-ricani hanno già tragicamente subito più vittime nell’a-zione attuale di ristabilimento della pace che durantel’attacco dell’ottobre di due anni fa.

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Mario Sironi, Periferia, 1920, (collezione privata).

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Gianni BONGIOANNI

Qui radiotevere RomaSovera Edizioni, 220 pp.,euro 16,50

Il titolo attira. La copertinaidem, con un occhio di don-na dal magnetismo inquie-tante che non ti molla. Il sot-totitolo mette qualche so-spetto che il gioco sia pesan-te, le tinte forti: 1944. STO-RIA DI RADIO, D’AMORE EDI MORTE.Il risvolto di copertina non èda meno: ...il giovane vive inpoco tempo accadimenti edemozioni che i più non in-contrano in una vita. Succes-so, rapida carriera, amori(ma anche quell'amore-ma-lattia che, rifiutato, fa pensa-re al suicidio come fine delpenare) e perfino un quasigiallo di cui proprio lui do-vrebbe essere il killer.Invece poi, sorpresa, lo stileè fuido, onesto, leggibilissi-mo, sempre dal taglio fine.Sì, c'è la radio e l'amore e lamorte, ma tutto a buon dirit-to, ben radicato in mondi vi-vi e veraci, cose vere, cosesempre troppo particolari,troppo speciali per esserefrutto di fantasia. Bongioan-ni controlla bene la sua pro-sa. Può permettettersi con-taminazioni, cambi di mar-cia, considerazioni linguisti-che, divagazioni senza toglie-re efficacia al timbro di unascrittura molto sua, né all'u-nità stilistica dell'opera. Inol-tre sa raccontare, dosare gliingredienti. Aver fatto cine-ma per una vita gli ha inse-gnato l'arte dei dialoghi ful-minei, dei fatti essenziali.Sempre forti, veri, i perso-naggi femminili, sempre ric-che, sottili, sfaccettate lestorie d'amore e altrettantoinafferrabili, ambigue, con-tradditorie, atrocemente im-prevedibili (non è così anche

la vita?). Di grande acutezzae verità poi la rappresenta-zione di quell'universo dis-torto, folle, che la guerra siporta dietro.Un “come eravamo” (Deuslaudetur) senza eroi, cui sia-mo costretti a credere, in-tramato com'è di umanità, dipietas cristiana, di intelli-genza del cuore, ben diversoda quanto hanno tentato cifarci credere certe vulgateche hanno imperversato alungo.E poi finalmente, dopo unoscuramento durato mezzosecolo si svelano i segreti diRadio Tevere. Una sorta discoop. Perché, è triste dirlo,se una storiografia seria vo-lesse occuparsi di quella pa-gina di storia della radio(che è più che mai StoriaItaliana) non troverebbe al-tro che un titolo sull’«Unità»del 25 giugno '45: DIECI AN-NI A QUELLI DI RADIOTE-VERE e il resoconto di unprocesso a tre persone, duedelle quali però non hannoniente a che vedere con R.Tevere. No, ora si trova lavoce R.T. su Google, ma sa-rebbe meglio non ci fosse.Dopo vediamo. I destini sono inesorabili. C'èchi è condannato alla visibi-lità e chi all'ombra eterna. Enon solo gli umani. Radio Te-vere ha il destino dell'om-bra. Ben quattro ore e mezzaal giorno, sentita da moltitu-dini di italiani oltre che intutto il mondo, è citata spes-so dalla Staliniana Radio Mo-sca, tuttavia riesce a vederela luce, prosperare rigoglio-samente, morire e poi passa-re alla storia (si fa per dire,ben pochi ormai sanno diche si tratti) nella più com-pleta invisibilità.Partiamo dalla fine.Finita la guerra, incredibil-mente nessuno ne parla più,

se ne perde ogni memoria.Eppure dal giugno '44 alla li-berazione milioni di italianialle 20,30 di ogni giorno sin-tonizzavano la radio su quel-la lunghezza d'onda.In quei giorni, i più neri dellanostra storia (l'Italia tagliatain due, il Nord sotto Hitler,paravento il Mussolini di Sa-lò, il Sud con gli Alleati) lasurreale pazza scatenata Ra-dio Tevere è una sorta di oa-si nel deserto che aiuta nonpoco la gente a sopportare, atirare avanti nella tragediadella guerra.Ma perfino allora vive nelbuio più nero, ufficialmentenon esiste, il Minculpop ordi-na ai quotidiani di ignorarla.Idem all'altra radio, quellaufficiale (notare che i dueprogrammi sono cucinatinello stesso edificio, a Mori-vione, Milano). Ben vengadunque questo ottimo QuiRadiotevere (l'aggettivo è diGiorgio Bocca), ...un libropieno di verità (LucianoCanfora), a fare la dovuta lu-ce, pur tra le maglie delladensa vicenda umana di ungiovane che si agita per sfug-gire alle retate tedesche eper affermarsi, mentre cercadisperatamente di capire co-sa diavolo possa essere que-sta cosa stupenda e atroceche chiamano vita. Si può dire che il libro è ilfilm di quell'avventura, datala persona dell'autore, vissu-ta appunto dal giovanissimoBongioanni immerso fino alcollo nelle cose della tra-smissione, poco attento aipericoli del dopo (qualcunoha pagato con la vita, altri colcarcere e relative finte ese-cuzioni, per gioco o perstrappare nomi). Radio Tevere, diciamolo, èstata l'ultima bizzarria diquel geniale mediaman cheera Mussolini. Idea non sua.

Ma lui se ne innamora (i duridi Salò sono contrari) e ri-esce a imporla perfino ai te-deschi. Quale la trovata dibase? Intanto presentarsi come ra-dio pirata: non si deve sape-re da dove venga, chi la fac-cia. Poi, parola d'ordine: faretutto quello che non si puòfare sotto il fascismo. Quindisoltanto musica jazz (severotabù allora) e poi satira, alle-gria, umorismo (le miglioripenne, Carletto Manzoni,Marcello Marchesi, Enzo diGuida, e altri). E notiziari“obiettivi” (soltanto due mi-nuti ogni ora). Obiettivi nelsenso che in tempo di guerraè già grasso che cola sentirparlare di vittorie e sconfittedelle due parti. Il tutto but-tato là come niente fosse davoci giovani a ritmi indiavo-lati. Cioè una vera chicca,una bomba in campo radiofo-nico. Molto più di quantonon sia stata (con tutto il ri-spetto, ma decine di anni do-po) la svolta di Alto gradi-mento. Bomba (quella di al-lora) che cade in un regimedi radio 'nazionale' mortife-ra, dove imperversano lanoia e il più rigido, risentitofascismo, con voci che piùlittorie non si può, e pro-grammi musicali fermi aCampagnola bella. Risultato: nessuno ascoltapiù il nazionale.Le sole trasmissioni frequen-tate in quel periodo a Norddi Roma sono Radio Londra eRadio Tevere. Come Mussolini sia riuscito aottenere tanta mano liberada un cerbero di nome Wolfche Hitler piazza a vigilare lesorti della Repubblica Socia-le Italiana non è chiaro. Quelche ècerto è che Radio Teve-re, per incredibile che possasembrare, è l'unico ente diinformazione della R. S. I.

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che non ha censura tedesca,né del Minculpop. Qui dispiace dover contraddi-re Google, ottimo motore di ri-cerca Internet peraltro, oltread essere la sola fonte in fattodi Radio Tevere, la quale Goo-gle liquida l'argomento conpoche avvelenate parole... so-lo formalmente Eiar (la Rai diallora) in realtà espressionedella Propaganda Staffel.Ma quando mai? Ma neancheper idea, signori di Google,tutto sbagliato.Chi vi ha venduto la patac-ca?, la buonanima del P.C.?Per cortesia leggetevi il libroe fidatevi di uno storico delcalibro di Luciano Canfora selo giudica pieno di verità.Cambiate il lemma di cui so-pra prima che si scateni lapolemica su Radio Tevere (siscatenerà, statene certi) ene usciate sbugiardati.La Propaganda Staffel diGoebbels non c'entrava perniente.Se R.T. era espressione diqualcuno, lo era di Mussoli-ni, che chiamava la trasmis-sione la mia creatura. Guar-da caso, nel libro non mancaun personaggio che, abba-gliato da alti compensi, pas-sa dall'Eiar alla PropagandaStaffel, ma non ci fa unagran figura (l'Eiar pagavapoco, il nostro protagonistanota che il suo primo com-penso è come quello di unoperaio Fiat).Ma forse abbiamo parlatotroppo di Storia e troppo po-co della complessa, tormen-tata vicenda umana, dellasua carica di fatalità, di quel-l’attesa di morte che si respi-rava allora nell’aria e diquanto altro le dense paginedi questo libro molto specia-le sanno rendere al meglio.È un libro che ci consegnaun autentico scrittore.

n. p.

Aldo ONORATI,I cinque pilastri della stoltezza (considerazioni diun immorale),Armando, Euro 12,00

È questo il titolo (e il provo-cante sottotitolo) della nuovaopera di Aldo Onorati, ed. Ar-mando, prefata da BiancaSpadolini e Bruno Benelli,con postfazione di SalvatoreMerra (in quarta di copertinaun lusinghiero giudizio diGiorgio Barberi Squarotti).Una provocazione. Certo, mac'è chì dice trattarsi dì un li-bro “religioso”, in quantoOnorati si arrende al misteroche ci circonda e invita all’u-miltà, cioè a tener conto an-che degli altri esseri viventi,poiché il pianeta è un tuttoinscindibile, in cui una leggedi interdipendenza lega i treregni della natura. L'uomo,forte dell’assunto di domina-re animali e piante e minerali,credendosi il re del creato,sta dando fondo non solo allerisorse non rinnovabili, masta alterando il clima e inqui-nando forse irreparabilmenteil giardino del sistema sola-re... Ecco, quello di ritenersiil padrone del mondo con li-cenza di distruggere, è unodei pilastri della stoltezza glialtri quattro sono: credereche solo l’uomo è l’essere do-minante sulla Terra, mentregli studi recenti dimostranoche pure gli animali lo sono,ma Onorati si spinge più inlà, dichiarando che lo stessopianeta è intelligente e vivo;poi, il fatto che l’uomo si ar-roghi l’esclusiva di possedereun’anima immortale fa na-scere dei dubbi nell'autore, ilquale esamina pure l’altra fa-coltà umana, cioè la “ragio-ne”, dimostrando che essaspesso serve solo a prendereatto della propria sconfitta.Da ultimo, l’uomo che si è

fatto a immagine e somi-glianza di Dio, riducendo ilCreatore a propria immagi-ne, poiché non certo noi sia-mo in grado di salire a Lui edi imitarLo nella sua bontà.Dunque l’uomo è vanitoso,superbo, distruttore. MaOnorati non parla da solo:porta a suffragio delle sue te-si filosofi, scrittori, scienzia-ti, pensatori consultati neimillenni, tanto che PaoloPinto scrive, a proposito, cheil libro di Onorati è un fertilecolloquio con i più grandispiriti di ogni tempo. E so-prattutto un grido di allarmepoiché la seconda parte è de-dicata all'ecologia (una spe-cializzazione del nostro auto-re, il quale ha diretto, perAnnando, proprio una colla-na in materia e ha scritto unlibro di successo molti annifa: Ecologia, Cassandra delDuemila). Un ammonimen-to all’uomo a considerarsi unelemento del creato e nonpadrone con licenza di deva-stare e sottomettere gli altriregni, le diverse forme di vi-ta, dalle quali, invece, do-vrebbe apprendere l’organiz-zazione perfetta e la lungimi-ranza a non sterminare e di-struggere. Soprattutto – dabuon contadino di generazio-ni – la sua attenzione è rivol-ta al regno vegetale, dal qua-le dipende tutta la catena dialimentazione. Nei corollari,c'è una ironica, amara, diver-tente “Lettera ad un sapien-te”, in cui Onorati, prenden-do di mira un immaginarioprototipo che si dà arie di co-noscere i misteri della vitasolo perché, magari, sa benela grammatica italiana ridu-cendo tutto lo scibile a que-sta sola piccolissima parte, lopone in ridicolo dimostrandoche lui è unicamente untronfio e borioso megaloma-ne, poiché la vera sapienza è

di chi si mette in linea coidettami della natura, ricono-scendosi una creatura al paridegli animali e delle piante,all'unisono con gli elementivitali del pianeta (aria, ac-qua, reazioni chimiche, piog-gia, neve, equilibrio ecologi-co dato da un’intelligenzainafferrabile che domina l'u-niverso).È un’opera di chi ha un’animareligiosa (d'altronde, in altreopere Onorati ci dà questa mi-sura del suo misticismo: IlDio ritrovato, ed. Armando;L’isola di frate amore, ed.Sovera; e la lontana sillogepoetica L’orgoglio della cre-ta). Onorati sente dolorosa-mente il travaglio che il globoterracqueo sta vivendo: noisiamo su una navicella spazia-le a cui è dato un tanto di ri-sorse e non più; se le dilapi-diamo, sarà la fine; se inqui-niamo, uccidiamo il pianeta, ela storia dell'uomo avrà fine.Altro che considerazioni di unimmorale! Certo, se per “mo-rale” prendiamo la logica con-sumistica e guerrafondaia dioggi, la rincorsa al denaro e alsuccesso a tutti i costi, l'arri-vismo machiavellico e lo sfrut-tamento micidiale della Terra,allora chi denuncia questestorture sembra un immorale.Ma quello di Aldo Onorati è ilgrido d'amore di chi tenta disalvare il salvabile e non si fapiù illusioni. Diciamo per inci-so che inolte opere di Onoratisono state tradotte in varielingue, specie lo studio suirapporti tra pedagogia esport; ora è uscito in Roma-nia, a cura di Gorge Popescu,il traduttore di Montale, Un-garetti, Pasolini e Sciascia, unlibro dal titolo Sincopale iu-bir i i, che raccoglie le due piùnote sillogi di Onorati (Lesperanze illecite e Le sillabeconfuse dell'amore).

n. p.

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Maria PATTI,Frammenti socio-culturalinell’Ottocento e don Giu-seppe De Gennaro da Cor-leone, vol. I, Scripta variagraece et latine di donGiuseppe De Gennaro, vol.II, Ila Palma – Palladium,Palermo 2003

Fresca di stampa è nelle libreriel’ultima fatica di Maria Patti,scrittrice, poetessa e storiogra-fa. L’opera è stata pubblicata indue volumi ben curati ed in di-gnitosa veste tipografica da IlaPalma Editrice di Palermo incondizione con la Palladium diCorleone. Il primo volume haper titolo: Frammenti socio-culturali nell’Ottocento e donGiuseppe De Gennaro daCorleone. Il secondo: Scriptavaria graece et latine di donGiuseppe De Gennaro.La professoressa Maria Patti siè cimentata in un’ennesima im-presa che lascerà profondetracce nelle storia della culturacorleonese. “Solo una studiosadel livello di Maria Patti – scrivelo storiografo Giuseppe Virga-damo – poteva dare l’avvio adun’opera di così grande respiroletterario e di notevole interes-se storico. Un gioiello della sto-riografia corleonese che condu-ce il lettore a rivivere i sogni e ivalori di un passato che appar-tiene alla nostra storia e che èfondamento e sostegno dellanostra cultura e delle nostretradizioni”.Maria Patti è autrice di numero-si libri di poesia, saggi, discorsi,monografie e memorie. La criti-ca si è ampiamente occupatadella sua multiforme attivitàletteraria. Scrive ancora il Vir-gadamo: “La riscoperta delleproprie radici, la salvaguardiadella memoria, l’amore per ilmondo classico, sono beni pre-ziosi cui Maria Patti non è dis-posta a rinunciare. L’antico fa-scino della poesia greca e latinaavvolge l’autrice che non trala-scia mai di misurarsi in occasio-

ni di dialogo e di riscoperta conautori classici, di indiscussa no-torietà”.L’opere in due volumi di MariaPatti, interamente dedicata allavita e alle opere del letteratoGiuseppe De Gennaro da Cor-leone, merita di essere letta edivulgata. È stata scritta contanto amore, passione e compe-tenza. Una lettura stimolanteche alimenta nel lettore fascinoe curiosità. L’autrice è degna diessere annoverata tra i protago-nisti della cultura siciliana.

n. p.

Teresa SERRA, L’uomo pro-grammato, Giappichelli edi-tore, Torino 2003.

L’ultimo lavoro di Teresa Serras’ispira a questa massima diGoethe: “l’uomo che non sa dar-si conto di tremila anni, rimaneal buio e vive alla giornata”. Il li-bro è un dialogo a quattro voci,ognuna delle quali svolge unasua riflessione filosofica, per ri-spondere agli “interrogativi,che la vita quotidianamente po-ne e che toccano temi scottanticome quelli della bioetica e del-l’ambiente” (p. IX).Il campo dell’umano è ricondot-to dai quattro autori verso unavisione antropologica della vita,che richiama molto da vicinoScheler. Il tema dell’“homo”con tutti i suoi apparati sociolo-gici ed economici, è visto attra-verso il processo di una huma-nitas che “alla fine, però, assu-me una sua normatività, spin-gendo l’uomo a dimensionarsi eridimensionarsi su un singoloaspetto della sua realtà” (p. 5).Il discorso si eleva quando laSerra tocca specificamente lamateria dell’etica, tenendo achiarire il nesso tra teoria eprassi, tra teoria del diritto e fi-losofia del diritto. È qui che laSerra espone, con largo riferi-mento a letture hobbesiane,una teoria antropologica incen-trata sulla multiformità dell’uo-

mo, concepito non come purarazionalità logica, ma comerealtà umana, ossia in sostanzastoria, tradizione e libertà. Ache cosa si riduce allora la li-bertà dell’uomo? L’autrice intra-vede una speranza, fondata sulfatto “che il diritto possa farconvivere la realtà umana, co-me storicamente si è data, conquella tecnologica che nella sto-ria attuale continuamente si dà”(p. 37). Collegato al senso diumano è poi il senso di identitàe, su questo tema, ha scrittoAnna Di Giandomenico che,con lineamento speculativo,traccia la bozza di un progettodell’identità, posta in relazioneal suo contrario, l’alterità. Par-tendo da un passo di Cotta, spe-cifica: “La relazione ad alterumrappresenta, pertanto, la condi-zione senza la quale il soggettonon potrebbe essere definitonella sua specificità, poiché ènella cognizione della diversitàche si rivela all’essere la sua so-stanziale finitudine e particola-rità” (p. 78). Seguendo questalinea, la Serra riannoda il dis-corso citando Hans Jonas e lasua “costruzione pianificata diesseri viventi” per approdare al-la differenza tra progettualità eprogrammabilità sul piano del-l’umano; e si chiede: “chi voglia-mo che l’uomo sia?” (p. 101).Siamo così arrivati al cosiddettopensiero tecnomorfo. Spetta aMario Sirimarco affrontare alleradici la questione ecologica.Partendo da Bacone e Cartesioe dal principio che esalta il do-minio sulla natura attraverso ilsapere, arriva fino a Ulrich Beckche, parlando della società delrischio, ha scritto: “Là dove fini-sce la natura (…) è in quel mo-mento che passiamo dalle ango-sce rispetto a quello che la na-tura può farci alle angosce ri-spetto a quello che noi abbiamofatto alla natura” (p. 153). Siri-marco, in sostanza, propone ditradurre in istituti giuridici effi-caci tutte quelle rivendicazioniche “restano nel limbo delle

buone intenzioni”, dato che esi-stono ancora fattori che tutela-no la visione dell’uomo e dell’u-manità. Il dialogo a quattro vocisi conclude con il Chiaro di lu-na di Isabella Serra. L’autrice dialtri racconti inediti, narratricedella voce inquieta della co-scienza, ripercorre il viaggiodell’uomo attraverso la vita e, lavita si tinge dei colori del desti-no. Il viaggio nella notte delprotagonista “il professore” èscandito solo dai ricordi, dalcambio delle sentinelle di guar-dia e dai continui e lunghi inter-rogatori. Il professore è in so-stanza l’“uomo programmato”,lo scienziato che, per un istantecrede di poter sconfiggere leforze della natura, di sostituirsiall’insostituibile, e per assurdo,come nel racconto, di sconfig-gere anche la morte. Il suo con-fessare è un “non confessare”dato che “non aveva nulla daconfessare” e “la morte era sta-ta sconfitta per sempre e nes-suno, proprio nessuno, potevapiù raggiungerla per nessunmotivo, né poteva far sì che al-tri la raggiungessero” (p. 182).È forse questa una vittoria? Nelracconto di Isabella Serra si ce-la il mistero della vita, c’è unosforzo straordinario per com-prendere il senso della vita cheè legato da un filo sotterraneoal senso della morte, raffiguratacome una donna senza volto. “Enon ha volto perché nessunoconosce il suo mistero” (p.185). Dal racconto affiora unsenso identitario che scava inprofondità per riportare in su-perficie le radici della propriaappartenenza e della propriamemoria. Il tema del viaggio, ri-corrente in molto letteratura, èil simbolo dell’inquietudine edella speranza che accompa-gnano la quotidiana esistenzadell’uomo. È un viaggio al co-spetto della luna che “in mezzoal cielo mostrava la sua facciaimpassibile” (p. 189); è il cam-mino dell’uomo nel tempo.

Enrico GRAZIANI

r e c e n s i o n i

Page 48: Scrittori italiani 2 definitiva 2-2003.pdf · 2020. 11. 24. · 1 2 Francesco Mercadante – Testo e nota della Convenzione CISL-SLSI 4 Antimo NEGRI – Lettera aperta di un socio

Mario Sironi, Collage e tecnica mista, 1913, cm 18x22.

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Sabato 21 giugno,nel Duomo Antico, al Castello,Milazzo, per iniziativa della lo-cale sezione del Movimento Cri-stiano Lavoratori, e col patroci-nio del Comune di Milazzo edell’Azienda Autonoma di Sog-giorno e Turismo, si è svolto unConvegno nazionale su GiorgioLa Pira: La profezia avverata.Ha presieduto il senatore CarloCostalli, Presidente nazionaledel M.c.l. Relatore: Gianni Gio-vannone, Firenze. Interventi diGaetano La Pira, Pozzallo; Ma-ria Grazia Dormiente, Presiden-te dell’Associazione “Giorgio LaPira. Spes contra spem”, Poz-zallo. Hanno porto i saluti il Sin-daco ing. Antonino Nastasi,l’Assessore alla Pubblica istru-zione prof.ssa Stefania Scolaro,e il presidente della sezione lo-cale dott. Andrea Nastasi. Do-menica 22 giugno nel DuomoAntico, al Castello, Milazzo, si èproceduto alla consegna deipremi ai vincitori della IX edi-zione del Concorso nazionale“Giorgio La Pira” di Letteraturae di Giornalismo. Per la sezioneNarrativa, saggistica e poesiaedita, vincitore è risultato CarloSgorlon, Udine. Per la sezionePoesia in dialetto siciliano, Sal-vatore Cagliola, Pachino, con lapoesia Canta ’a notti. Per la se-zione Giornalismo, è risultatovincitore Turi Vasile, Roma, col-laboratore del «Tempo» e del«Giornale».

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Mito contemporaneo, futuri-smo e oltre - Vicenza, BasilicaPalladiana, fino al 27 luglio.

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Capolavori d’arte dal Neoliticoalla dinastia Tang, provenientidalla Fondazione “GiovanniAgnelli” - Torino, Palazzo Ma-dama, Museo Civico d’ArteAntica, fino al 29 settembre.

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Venezia- Palazzo Correr - Pittu-ra/Painting da Rauseenberg aMurakami, fino al 2 settembre.

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Aosta- Centro Saint-Benin: FeliceCasorati, fino al 7 settembre.

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Clonazione dei Bronzi - Refe-rendum in Calabria. «Sei favo-revole alla riproduzione deiBronzi di Riace?». È il quesitodel referendum promosso dalComune e dalla Provincia diReggio Calabria, organizzazio-ni sindacali ed associazioniculturali contro la decisionedella Regione di riprodurre ledue statue custodite nel mu-seo reggino «Magna Grecia».Sulla proposta della Regionec’è stata una sorta di rivoltapopolare sfociata anche inazioni giudiziarie ed infine nelreferendum popolare.

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Il 7 luglio nei saloni d’onore del-la Dino Editore, in via AppiaAntica a Roma, è stato presen-tato il volume 110 lettere inedi-te di Mussolini alla sorella Edvi-ge. Relatori: Franz Maria D’Asa-ro, Pietro Maria De Mezzo, Ro-mano Mussolini. Con l’occasio-ne è stata annunciata la pubbli-cazione del memoriale segretodi Claretta Petacci, Il mio duce,a cura di Franz M. D’Asaro.

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Martedì 8 luglioa Palazzo de Carolis a Roma èstato presentato il volume Ladestra e gli ebrei. Una storiaitaliana, di Gianni ScipioneRossi (Rubbettino, 2003).Hanno partecipato: Anna foa,ernesto Galli della Loggia eMarcello Veneziani, coordina-tore Giuseppe Parlato.

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Pierfranco Bruni ha pubblica-to un volume su Cesare Pave-se, Il viaggio omerico di Cesa-re Pavese, ed. Il Coscile, pp.156, 10 euro.

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Parigi.Alla Maison Européenne de laPhotographie, una panoramicasugli scatti migliori realizzati datre maestri dell’obiettivo: SarahMoon, Jim Dine e Sandrine DeNicolai. Fino al 15 settembre.Info: 0033144787500.

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Milano.Livio Fontana, medico e colle-zionista, ha donato l’operaCrocifissione di Giuseppe Zi-gaina alla Galleria d’Arte Sa-cra dei Contemporanei di VillaClerici. Il dipinto viene espo-sto con altri quindici del mae-stro friulano e di autori comeBucci, Ceretti, Rambelli. Ora-ri: tutti i giorni 9,30-18,30.

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Milano.Un centinaio di manufatti tes-sili, provenienti dalla collezio-ne Montgomery, sono alla bi-blioteca di via Senato per te-stimoniere l’arte popolarenipponica tra Sette e Nove-cento. Fino al 31 dicembre.Orari 10-18; chiuso il lunedì.

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Verona.Louis Dorigny (1654-1742).La storia di un pittore dellacorte francese a Verona, rac-contata attraverso le sue ope-re alla Sala Boggian del Museodi Castelvecchio. Aperta finoal 2 novembre. Orari: 8,30-19,30; lunedì 13,30-19,30.

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Bologna.Duecento incisioni, di autoricome Schiele, Braque, Du-champ, Kandinski, Dalì o DeChirico, dalla collezione Lu-ciana Tabarroni,saranno rac-colti alla Pinacoteca Naziona-le per una ricognizione sullagrafica del ’900. Fino al 21settembre. Orari: 9-19; chiusoil lunedì.

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Serra de’ Conti (AN). Maestriitaliani del XX secolo. Nell’an-tico chiostro di San Francescodella cittadina marchigianauna significativa scelta di arti-sti italiani, dal primo Boccionia splendidi dipinti di CorradoCagli, da Mario Sironi a PericleFazzini, da Casorati a De Chiri-co, fino ad Afro, Turcato e Ve-spignani. Fino al 31 agosto.

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San Miniato (PI).Bonaparte o Buonaparte?«Napoleone e gli antenati to-scani di San Miniato» è il sot-totitolo della rassegna a carat-tere storico allestita in variesedi cittadine. Fino al 30 otto-bre reperti, documenti e testi-monianze tentano di far lucesul mito deml condottiero còr-so nei suoi legami con la re-gione. Orari: 10-13 e 14-19;chiuso il lunedì.

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San Gimignano.L’ebbrezza di Noè. Partendodalla suggestione di un’operadi Bartolo di Fredi nella Colle-giata del Duomo, sedici artisticontemporanei si confrontanosul tema del vino alla Galleriad’Arte moderna e Contempo-ranea “Raffaele De Grada” finoal 28 settembre. Orari: tutti igiorni 11-17,40.

Raffaella CITTERIO

n o t i z i e

Mario Sironi, studio per La famiglia, 1929-30.