Scritte con il sangue di Gerolamo Fazzini estratto

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Vita e parole di testimoni della fede del ventesimo e ventunesimo secolo.

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Gerolamo Fazzini

SCRITTE CON IL SANGUE

Vita e parole di testimoni della fededel XX e XXI secolo

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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2014 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)

ISBN 978-88-215-9134-1

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Ai miei figliLuca

e Ana Maria

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perché il luogo in cui stiamo per entrare è sacro. Altrimenti ri-schieremmo di calpestare i sogni dei popoli. O, cosa ancora più grave, potremmo dimenticare che Dio era lì prima ancora del nostro arrivo”.

(Da: S. D’Ambra, Testimone del dialogo. Salvatore Carzedda mis-sionario martire nelle Filippine, Emi, 2002, pp. 80-81)

ANDREA SANTOROFili d’erba nella steppa

Quando, il 5 febbraio 2006, è stato ucciso a Trabzon (Tur-chia) da un giovane estremista musulmano, la notizia ha fat-to il giro del mondo. In quel momento i rapporti tra occi-dente e islam erano a dir poco tesi, in conseguenza dei ter-ribili attentati dell’11 settembre e della reazione americana. Eppure la vita e il messaggio che don Andrea Santoro ha lasciato sono tutti nel segno della volontà di pace, dialogo e incontro.

Quello con il Medio Oriente, per don Andrea Santoro è stato un amore a prima vista. Il giovane sacerdote diocesa-no, nato a Priverno (Latina) nel 1945, soggiorna per qualche mese in Terra Santa sia nel 1980, prima di iniziare la sua attività di parroco nella periferia di Roma, sia nel 1994, pri-ma del trasferimento nella chiesa dedicata ai Santi Fabiano e Venanzio. In quegli anni romani si spende in campo pa-storale ed ecclesiale, e intraprende la costruzione di una chiesa dedicata a Gesù di Nazareth, accanto alla quale pre-vede anche un piccolo eremo a disposizione di chi vuole ri-tagliarsi tempi e spazi di silenzio e riflessione.

Nel 2000, all’età di 55 anni, parte come fidei donum per la Turchia e, prima di lasciare Roma, fonda l’associazione “Finestra per il Medio Oriente”, per sostenere spiritualmen-

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te le missioni in quel Paese e favorire il dialogo. Risiede prima a Edessa, poi a Trebisonda, dove da qualche tempo non c’è più un sacerdote. Don Andrea sistema e riapre la chiesa, provocando screzi con le autorità locali e reazioni di intolleranza. Oltre a un’intensa attività pastorale, si dedica in particolare ai giovani e alle donne, soprattutto armene e georgiane, costrette a prostituirsi.

Il 5 febbraio 2006 don Andrea sta pregando nella sua chiesa, quando viene colpito mortalmente alle spalle. Uno dei proiettili trapassa la Bibbia in lingua turca che teneva tra le mani: oggi quella reliquia è conservata nel Seminario Maggiore Romano a San Giovanni in Laterano.

La madre di don Andrea, Maria Polselli vedova Santoro, ha dichiarato di «perdonare con tutto il cuore la persona che si è armata per uccidere il figlio» e di provare «una grande pena per lui essendo anch’egli un figlio dell’unico Dio che è amore». L’anno dopo l’uccisione di don Santoro, il cardi-nale Camillo Ruini annunciò l’intenzione della diocesi di aprire il processo di beatificazione.

«Roma-Trabzon, 22 gennaio 2006Carissimi, voglio cominciare con delle cose buone, perché è giusto lodare Dio quando c’è il sereno e non soltanto invocare il sole quando c’è la pioggia. Inoltre è giusto vedere il filo d’er-ba verde anche quando stiamo attraversando una steppa.Ecco dunque alcuni fili d’erba verde. Qualche giorno prima di rientrare in Italia, nell’ora della visita in chiesa si è presentato un folto gruppo di ragazzi piuttosto vocianti e rumorosi. Ci sono abituato: per ottenere silenzio e rispetto basta avvicinar-si, ricordare loro che la chiesa è, come la moschea, un luogo di preghiera che Dio ama e in cui si compiace. Un gruppetto di 4-5 ragazzi, sui 14-15 anni mi si sono avvicinati e hanno cominciato a farmi domande: “Ma sei qui perché ti hanno ob-bligato?” “No, sono venuto volentieri, liberamente”. “E per-

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ché?” “Perché mi piace la Turchia. Perché c’era qui una chie-sa e un gruppo di cristiani senza prete e allora mi sono reso disponibile. Per favorire dei buoni rapporti tra cristiani e mu-sulmani...”. “Ma sei contento? (hanno usato la parola “mutlu” che in turco vuol dire felice)”. “Certo che sono contento. Ades-so poi ho conosciuto voi e sono ancora più contento. Vi voglio bene”. A questo punto gli occhi di una ragazza si sono illumi-nati, mi ha guardato con profondità e mi ha detto con slancio: “Anche noi ti vogliamo bene”. Dirsi: “Ti vogliamo bene”, den-tro una chiesa, tra cristiani e musulmani mi è sembrato un rag-gio di luce. Basterebbe questo a giustificare la mia venuta. [...]Un’altra volta entrano due ragazze: “Padre mi riconosce?”, mi fa una. “Si, certo!” “Lei una volta mi ha detto che Gesù non ha mai usato la spada, è così?” “Si, è così”. “Maometto – mi fa – l’ha usata è vero, ma solo come ultima possibilità...”. “Gesù – le rispondo – neanche come ultima possibilità. Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi, disse, e lui stesso s’è fatto agnello per guadagnare i lupi. Se contro la violenza usi la violenza si fa doppia violenza. Male più male uguale doppio male. Ci vuole il doppio di bene per arginare il male. Se scoppia un incendio che fai? Butti legna?” “No, acqua”. “Ecco appunto. Ma non è facile. Questo però è il Vangelo. Nelle mani di Gesù non c’è la spada, ma la croce...”. Mi ha seguito attenta, ma frastornata. Perché mi meraviglio? Quanti cristiani sono non solo frastor-nati, ma neppure guardano più la croce? Non colgono più la sapienza, la forza, la vittoria della croce. Si sono convertiti al-la spada: nella vita pubblica e in quella privata. Se lo fa un mu-sulmano, in fondo non è strano: segue il suo fondatore. Ma se lo fa un cristiano, non segue il proprio fondatore, anche se ha croci da ogni parte, al collo, in casa e su ogni campanile.Ora vi faccio intravedere qualcosa della steppa in cui mi è fa-ticoso a volte camminare, ma in cui volentieri do tutto me stes-so, cercando di essere io stesso un filo d’erba, anche se a vol-te mi sento una rosa piena di spine pungenti. Quando avverto che per difendermi dalle spine tiro fuori le mie, mi rimetto sot-to la croce, la guardo e mi ripropongo di seguire il “mio” fon-

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datore, quello che non usa né spada né spine, ma ha subìto e l’una e le altre per spezzare la spada e toglierci le spine del ri-sentimento, della inimicizia, dell’ostilità. Gli chiedo di farmi grazia del “suo” Spirito per tenere a bada il mio. [...]Una famiglia di musulmani diventati cristiani prima che io ar-rivassi a Trabzon mi ha parlato del pianto dei loro bambini a scuola quando si diceva ogni sorta di male dei cristiani. Ne hanno parlato con l’insegnante ricevendo le scuse e un impe-gno di maggiore onestà e correttezza. Un padre di famiglia, registrato musulmano sul documento di identità (in Turchia sulla carta di identità è annotata la religione), desidera ritorna-re alla fede cristiana dei suoi antenati. Ma si scontra con gli insulti e le minacce di alcuni del suo villaggio. “Se mi as-salgono e io rispondo, sono ancora cristiano?” mi chiedeva preoccupato e pensoso. “Sì – gli rispondevo – perché il Signo-re capisce la tua debolezza. Ma ricordati che a noi cristiani non è lecito “l’occhio per occhio e dente per dente”. Noi siamo di-scepoli di Colui che porta le piaghe su tutto il suo corpo e che ha detto a Pietro: “Rimetti la spada nel fodero...”. Contro il peccato Gesù ha eretto come baluardo il suo corpo sacrificato e il suo sangue versato. Il cristianesimo è nato dal sangue dei martiri non dalla violenza come risposta alla violenza”.Un giovane che per motivi sinceri e retti si era accostato alla Chiesa non ha resistito all’ostilità degli amici, dei famigliari, dei vicini di casa e alle “premure” della polizia che pur garan-tendogli piena libertà (“la Turchia è uno Stato laico, sei libe-ro”, gli hanno detto) gli chiedeva comunque perché andava, cosa accadeva in chiesa e se conosceva tizio e caio...Consentitemi ora una riflessione a voce alta, alla luce di quan-to vi ho raccontato. Si dice e si scrive spesso che nel Corano i cristiani sono ritenuti i migliori amici dei musulmani, di essi si elogia la mitezza, la misericordia, l’umiltà, anche per essi è possibile il paradiso. È vero. Ma è altrettanto vero il contrario: si invita a non prenderli assolutamente per amici, si dice che la loro fede è piena di ignoranza e di falsità, che occorre com-batterli e imporre loro un tributo... Cristiani ed ebrei sono ri-

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tenuti credenti e cittadini di seconda categoria. Perché dico questo? Perché credo che mentre sia giusto e doveroso che ci si rallegri dei buoni pensieri, delle buone intenzioni, dei buoni comportamenti e dei passi in avanti, ci si deve altrettanto con-vincere che nel cuore dell’islam e nel cuore degli Stati e delle nazioni dove abitano prevalentemente musulmani debba esse-re realizzato un pieno rispetto, una piena stima, una piena pa-rità di cittadinanza e di coscienza. Dialogo e convivenza non è quando si è d’accordo con le idee e le scelte altrui (questo non è chiesto a nessun musulmano, a nessun cristiano, a nes-sun uomo) ma quando gli si lascia posto accanto alle proprie e quando ci si scambia come dono il proprio patrimonio spiri-tuale, quando a ognuno è dato di poterlo esprimere, testimo-niare e immettere nella vita pubblica oltre che privata. Il cam-mino da fare è lungo e non facile.Due errori credo siano da evitare: pensare che non sia possi-bile la convivenza tra uomini di religione diversa oppure cre-dere che sia possibile solo sottovalutando o accantonando i reali problemi, lasciando da parte i punti su cui lo stridore è maggiore, riguardino essi la vita pubblica o privata, le libertà individuali o quelle comunitarie, la coscienza singola o l’as-setto giuridico degli Stati.La ricchezza del Medio Oriente non è il petrolio ma il suo tes-suto religioso, la sua anima intrisa di fede, il suo essere “terra santa” per ebrei, cristiani e musulmani, il suo passato segnato dalla “rivelazione” di Dio oltre che da un’altissima civiltà. An-che la complessità del Medio Oriente non è legata al petrolio o alla sua posizione strategica ma alla sua anima religiosa. Il Dio che “si rivela” e che “appassionatamente” si serve è un Dio che divide, un Dio che privilegia qualcuno contro qualcun altro e autorizza qualcuno contro qualcun altro. In questo cuore nello stesso tempo “luminoso”, “unico” e “malato” del Medio Orien-te è necessario entrare: in punta di piedi, con umiltà, ma anche con coraggio. La chiarezza va unita all’amorevolezza.Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere “si-

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gnori” della casa, a farsi ultimo per risultare primo, in un Van-gelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’or-goglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina col potere, è un vantaggio da non perdere. È un “vantaggio” che può sembrare “svantaggioso” e perdente, e lo è agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di con-quistare il cuore del mondo. Diceva San Giovanni Crisostomo: “Cristo pasce agnelli, non lupi”. Se ci faremo agnelli vincere-mo, se diventeremo lupi perderemo. Non è facile, come non è facile la croce di Cristo sempre tentata dal fascino della spada. Ci sarà chi voglia regalare al mondo la presenza di “questo” Cristo? Ci sarà chi voglia essere presente in questo mondo me-diorientale semplicemente come “cristiano”, “sale” nella mi-nestra, “lievito” nella pasta, “luce” nella stanza, “finestra” tra muri innalzati, “ponte” tra rive opposte, “offerta”di riconcilia-zione? Molti ci sono ma di molti di più c’è bisogno. Il mio è un invito oltre che una riflessione. Venite! [...]

don Andrea».

(L’ultima lettera di don Andrea. Da: A. Santoro, Lettere dalla Turchia, Città Nuova, 2006, pp. 226-235)

MEKBEL SAIDL’uomo solidale

Giornalista algerino, musulmano, ha pagato con la vita un suo coraggioso gesto di solidarietà verso due suore cat-toliche spagnole – le missionarie agostiniane Caridad María Alvarez ed Esther Alonso – assassinate il 23 ottobre 1994 ad Algeri da estremisti islamici. Un articolo sul quotidiano Le Matin, scritto in loro difesa e come affettuoso ricordo, decreta la sua fine: il 27 ottobre anch’egli viene barbara-mente ucciso, nella capitale algerina.

Di lì a poche settimane, il 25 novembre, i vescovi d’Al-

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SHAHBAZ BHATTIIn difesa dei diritti

Difensore dei senza diritti e dei credenti delle diverse re-ligioni. Questo il compito che si era dato Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze del Pakistan, il Paese dove Asia Bibi, cristiana, condannata a morte per blasfemia, è in car-cere dal 2009 in attesa di sentenza. Bhatti è stato ucciso il 2 marzo 2011 da un commando di estremisti islamici; la no-tizia ha suscitato enorme scalpore in tutto il mondo. Già, perché Shahbaz Bhatti non era uno che passasse inosserva-to: la sua determinazione e il suo coraggio, uniti a una fede cristallina, lo avevano reso un punto di riferimento per la comunità cattolica pachistana, facendolo però diventare, al contempo, un bersaglio per la violenza dei fondamentalisti.

Nato nel 1968, fin da giovane Shahbaz si sente chiamato a battersi per i deboli: all’università si impegna per aiutare i pochi studenti cristiani spesso oggetto di aggressioni; fonda un’associazione a favore delle minoranze, la All Pakistan Mi-norities Alliance. Nel 2005 si impegna per soccorrere i terre-motati dopo il sisma che colpisce la regione del Kashmir. Nel 2008 è l’unico ministro cattolico nel governo formatosi dopo le elezioni. Bhatti cerca di modificare la contestata legge sul-la blasfemia, interpretando strumentalmente la quale gli estre-misti accusano moltissime persone in modo ingiusto.

Nel gennaio del 2011 viene ucciso Salman Taseer, go-vernatore del Punjab, reo di essersi schierato per Asia Bibi e a favore della libertà religiosa. Poche settimane dopo, Bhatti è a Islamabad e sta viaggiando sulla sua auto, senza scorta. Un gruppo di uomini mascherati lo blocca e gli spa-ra. Sul luogo dell’attentato c’è un biglietto, in cui un’orga-nizzazione che raggruppa diverse frange armate fondamen-taliste islamiche rivendica l’assassinio.

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Il testimone del suo coraggioso impegno è stato raccolto dal fratello Paul che, rientrato in Pakistan dall’Italia, dove viveva e lavorava, si sta battendo, anche a livello politico, per i medesimi ideali del fratello martire.

«Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cat-tolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casa-linga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli inse-gnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifis-sione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse a offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui ver-savano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un ve-nerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chie-sto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Ge-sù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni par-lino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desi-derio è così forte in me che mi considererei privilegiato qua-lora – in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiuta-re i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vi-vere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese.Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di im-

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prigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terro-rizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa, hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristia-ni e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio pa-dre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa po-vera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Te-stamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando ri-fletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la no-stra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: “Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi”. I passi che più amo della Bibbia recita-no: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto se-te e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venir-mi incontro. Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati».

(S. Bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, 2008, pp. 39-43)

GHASSIBÉ KAYROUZUcciso per un segno di croce

Seminarista maronita libanese, Ghassibé Kayrouz viene ucciso la vigilia del Natale del 1975 all’età di 25 anni.

Era nato a Nabha, un villaggio sulle montagne, in una

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