Scienze, filosofia e teologia di fronte al problema ambientale · pantheon induista, è...

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Seminario Scienza e Teologia 2009 Istituto di Scienze Religiose Vicenza Etica ed ecosistema Scienze, filosofia e teologia di fronte al problema ambientale Marcello Ghilardi Concezioni di natura nella religione e nel pensiero orientali: India, Cina, Giappone 1. Premessa: filosofie o religioni? 2. Il concetto di natura nel pensiero indiano 3. Il concetto di natura nel taoismo 4. Il concetto di natura nel buddhismo: dall’India al Giappone 5. Perdita di centralità del soggetto 6. L’analogia della rete 7. Il problema della storicità 8. Una prospettiva interculturale: il pensiero di R. Panikkar

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Seminario Scienza e Teologia 2009

Istituto di Scienze Religiose Vicenza

Etica ed ecosistema Scienze, filosofia e teologia

di fronte al problema ambientale

Marcello Ghilardi

Concezioni di natura nella religione e nel pensiero orientali: India, Cina, Giappone

1. Premessa: filosofie o religioni? 2. Il concetto di natura nel pensiero indiano 3. Il concetto di natura nel taoismo 4. Il concetto di natura nel buddhismo: dall’India al Giappone 5. Perdita di centralità del soggetto 6. L’analogia della rete 7. Il problema della storicità 8. Una prospettiva interculturale: il pensiero di R. Panikkar

1. Premessa: religioni o filosofie?

Uno dei primi problemi con i quali ci si confronta, nell’approccio alle questioni

delle “religioni” dell’Asia orientale, è la possibilità di ascriverle senza problemi all’ambito delle religioni di matrice medio-orientale o occidentale, oppure tenerle di-stinte da queste, e annoverarle piuttosto tra i sistemi di etica o di pensiero. Se una tale questione non presenta particolari difficoltà nel caso dei sistemi complessivamente riuniti sotto la dicitura di induismo (una insieme estremamente variegato di credenze, forme rituali, concezioni della vita e del mondo), già meno evidente è (o è stato fino a poco tempo fa) la soluzione del dilemma per quanto riguarda il buddhismo, il taoismo, il confucianesimo. Se da un lato queste tradizioni rimandano ad aspetti che la socio-logia della cultura riconosce come chiaramente legati a pratiche di carattere religioso, dall’altro non si danno chiare demarcazioni (né dottrinali, né didattiche, né testuali) tra forme di ascesi religiose, strategie argomentative di tipo razionali, e pratiche de-vozionali. La netta distinzione tra religione, filosofia, scienza non sembra aver mai interessato troppo il mondo della saggezza orientale, che si è lasciata coinvolgere meno da distinzioni disciplinari di quanto lo sia stato il mondo occidentale si è occu-pata:

- dell’ortoprassi e non tanto dell’ortodossia; - del come rispetto al che cosa (la domanda tipica si è “come faccio a…” piuttosto

che “che cos’è…?”); - di una conoscenza funzionale alla prassi, ed ad essa subordinata, piuttosto che a

una conoscenza teoretica “disinteressata”. Le tradizioni dell’India, in Cina e in Giappone possono quindi essere considerate

sistemi di pensiero, dal momento che impiegano discorsi che cercano di costituirsi ra-zionalmente e di rendere conto delle proposte etiche mediante forme di argomenta-zione razionale; ma anche religioni, dal momento che il fine è la salvezza dell’essere umano, e non (o almeno non soltanto, non principalmente) una descrizione dell’ordine del mondo o dei meccanismi di funzionamento della mente e della cono-scenza. Un aspetto rilevante, tuttavia, è che la salvezza è sempre intesa come una sal-vezza dall’ io, piuttosto che una salvezza dell’io.

Inoltre, l’attenzione costante portata alla corporeità deve far ricordare il ruolo de-cisivo che la dimensione materiale, fisica riveste anche nelle tradizioni di impronta più marcatamente metafisica (come per alcuni sistemi indiani).

Infine, va ribadito il fatto che la stessa domanda che interroga la differenza tra un sistema religioso e un sistema filosofico, o che indaga l’articolazione che li pone in-sieme, emerge dal contesto culturale occidentale; in altri termini, è un tipo di preoc-cupazione e di questione che non si pone neppure, al di fuori di tale contesto, e mette in scena quindi dei meccanismi proiettivi sulle altre culture di cui bisogna essere con-sapevoli.

2. Il concetto di natura nel pensiero indiano

Nell’insieme multiforme dei sistemi filosofico-religiosi dell’India, che difficilmente si possono ri-condurre a un’unità monolitica, per quanto denotino alcuni tratti comuni, il concetto di “natura” viene reso principalmente da tre termini: Prakŗti (dalla raice prakr-, “fare, produrre, formare, compiere”) viene in genere tradotto come “natura” o “fonte originaria”. In particolare nel sistema sāmkhya

(uno dei sei darśana, o visioni “sistematiche” che si definiscono in India entro il V secolo) si tratta di uno dei due principi eterni che compongono l’universo: la natura, appunto, unica, non cosciente, da un lato, e le anime individuali (puruşa), infinite, semplici, coscienti dall’altro. Tra questi due livelli – che, banalizzandone in parte la complessità, potremmo definire “materiale” e “spirituale” – esiste una differenza on-tologica, ma gli esseri umani e in generale tutti i viventi partecipano di entrambi. Māyā (dalla radice mā-, “misurare, tracciare, produrre, creare, manifestare”) indica nei Veda la capacità delle divinità di mutare aspetto, ma anche la meraviglia di fronte ai molteplici aspetti dell’universo. Assume poi anche il significato di “illusione”, e più spesso viene citato in questa accezione. Nel darśana del vedānta (“fine dei Ve-da”), che propone una visione non-duale della realtà, māyā è la realtà relativa e illu-soria contrapposta alla realtà assoluta del brahman (principio assoluto, impersonale ed eterno) e si identifica con l’ignoranza; essa determina dunque la credenza nell’apparenza immediata delle cose, come se si trattasse di oggetti indipendenti e di-sponibili alla manipolazione e allo sfruttamento, ma che pure possono esercitare sull’uomo afflizioni e forme di dipendenza. Tuttavia, māyā resta punto di partenza imprescindibile per elevarsi alla corretta comprensione della realtà e alla visione del mondo come emanazione dell’Assoluto; in questo senso viene anche considerata co-me il potere creativo di Dio (manifestazione personale del brahman) con cui Egli dà vita al mondo, svelandosi e insieme celandosi attraverso di essa. Śakti (dalla radice śak-, “essere capace, essere possibile, potenza, abilità, energia, forza poetica”) è l’energia creatrice di Dio, il suo aspetto “femminile” (spesso, nel pantheon induista, è personificata nella sposa di una divinità maschile, ad essa com-plementare) grazie a cui si dispiega il “gioco” (līlā) della manifestazione cosmica. Dall’originaria purezza e trasparenza, l’energia creativa si “opacizza” scendendo nel-le varie forme che da essa prendono vita: minerali, vegetali, animali, sostanze psichi-che e spirituali.

La natura è dunque da intendersi, nel contesto indiano, come un luogo ampio, che comprende in sé visibile e invisibile, fisico e psichico, ed estende i suoi confini ben oltre il regno fenomenico, di ciò che è percepibile mediante i sensi.

In essa vige una sostanziale continuità: non c’è alcun “taglio” ontologico (sensibi-le/ sovrasensibile, fisico/metafisico), ma un dispiegarsi per gradi, dal più denso e o-paco al più rarefatto e spiritualizzato.

Infine, essa dà luogo a una tensione positiva nei confronti di un altrove, al di là dei fenomeni, che esiste in continuità con essi ma che ne è la radice prima, il principio, e che si configura come il luogo della realtà per eccellenza, non dipendente dal fluire mutevole delle apparenze.

3. Il concetto di natura nel taoismo

Le idee di ordine, di totalità, di efficacia informano tutto il pensiero cinese: non conta tanto conoscere la natura per agire su di essa e trasformarla, quanto comprendere la sua processualità interna, il movimento incessante di alternanza dei suoi principi fondamentali yin陰 e yang陽, ‘principi’ passivo e attivo.

Ogni realtà è in sé ‘totale’: ogni elemento riflette l’intero uni-verso, e la materia e lo spirito non appaiono affatto come due mondi che si oppongono, ma dimostrano la caratteristica di ogni ente: la compresenza di un aspetto visibile, manifesto (yang) e uno latente, invisibile (yin). Il Tao (“via, cammino”) corrisponde al principio regolatore dell’universo, a cui ogni cosa in natura

si conforma, ma da cui spesso l’uomo rischia di devia-re. Più che a una legge eterna a cui adattarsi, esiste una sorta di modello (etico) a cui conformarsi.

Il Tao non è un principio creatore, quanto l’idea del-la regolazione nell’alternanza degli opposti comple-mentari di yin e yang; non è la loro somma, ma l’effettuarsi dei loro scambi reciproci. Svolge il ruolo di un potere regolatore: non crea gli esseri, ma li fa es-sere così come sono, regola il ritmo delle cose. In ogni realtà sta il Tao, e nel Tao sta ogni realtà. L’energia (qi気) di ogni ente circola e si trasforma: il mutamento

(yi) è alla base del funzionamento del cosmo, della vita stessa di ogni essere. Yin e yang non sono contrapposti, ma si completano l’un l’altro, si perfezionano a vicenda, nell’uno è già presente l’altro, almeno in potenza. La stessa attività mentale non è or-dinata dal principio di non contraddizione, quanto da un principio di armonia di con-trari (he). L’ordine efficace che governa il pensiero e l’azione è fatto di contrasti, ma non di opposizioni irriducibili.

Invece di constatare successioni di fenomeni, i cinesi registrano alternanze di a-spetti. Se due aspetti appaiono legati tra loro, non è alla maniera di una causa e di un effetto: piuttosto, sono tra loro accoppiati come lo sono il diritto e il rovescio, come

l’ombra e la luce. L’idea di successione è sempre subordinata a quella di interdipen-denza.

Ogni evento che viene identificato è ricondotto a rubriche, più che a generi o spe-cie; il sapere non consiste infatti nell’astrarre o nel generalizzare, ma nell’inventa-riare, nel collezionare una serie infinita di casi specifici: la morale e la fisica sono ri-comprese all’interno della storia – intesa come descrizione di variazioni – l’unica di-sciplina che ci permette di avere una sicura comprensione del reale sulla base del loro concatenarsi nella processualità del Tao. Bene e male non sono intesi in senso speci-ficamente morale, ma in rapporto all’adeguamento al corso del Tao: ‘bene’ è il pro-cesso, l’alternanza, mentre ‘male’ è tutto ciò che è statico, rigido, immutabile.

Una sorta di passione per l’empirismo ha consentito al pensiero cinese di saper os-servare minuziosamente il concreto, senza separare mai l’umano dal naturale, e il na-turale dal sociale: l’ordine dell’universo non è affatto distinto dall’ordine della civiltà. Gli uomini hanno soltanto bisogno di modelli, e siccome l’universo stesso è un siste-ma di comportamenti, ad esso ci si deve rifare per capire qual è la giusta condotta da seguire nella vita etica.

Il termine cinese che in genere viene tradotto con “natura” è ziran 自然, alla lettera «così da sè», o «ciò che spontaneamente si dà». A questo concetto sono infatti as-sociati quello di spontaneità e quelli – apparentemente più distanti, perché riferiti a un contesto che noi definiremmo “culturale” – di libertà e di bene.

Nel pensiero cinese la cosmologia e la visione della natura, che informeranno lo sviluppo della concezione giapponese, si basano sull’idea di qi 気, il soffio vitale (tradotto anche con i termini di energia, spirito, animazione) che opera e circola in ogni tipo di realtà, visibile o invisibile. La logica circolatoria è binaria e alternata: alla condensazione segue la rarefazione, all’inspirazione l’espirazione. Il qi è il principio dell’energia che dà vita e forma ad ogni cosa nell’universo, senza soluzione di conti-nuità tra esseri umani e rocce, piante o animali; nemmeno le realtà spirituali sono e-scluse dall’insieme delle realtà ricomprese dal soffio. Ecco perché non vi può essere alterità, distanza, tra la dimensione umana – anche nei suoi aspetti più propriamente morali, sociali, culturali – e quella della natura che la attornia: tutto è ugualmente permeato di qi. Non esiste nemmeno «demarcazione tra salute fisica […] e salute mo-rale: coltivando il nostro qi, lavoriamo alla nostra coltivazione morale personale» (A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Torino 2001, p. 253).

Cosa altrettanto importante, tutto è in perenne movimento e in genesi continua.

Cifra caratteristica delle «diecimila cose» (万物, in cinese wanwu) che compongono il mondo è l’essere in trasformazione: il qi non è né materia né spirito, è energia che si attualizza in differenti forme a seconda del grado di maggiore o minore condensa-zione.

Per cogliere il funzionamento e la processualità della natura, in Cina si è tradizio-

nalmente impiegata una coppia di opposti complementari, nota per la rappresentazio-ne visuale nel diagramma del taiji (太極, in giap: taikyoku): yin (陰) e yang (陽), prin-

cipio “femminile”, umbratile, freddo, e principio “maschile”, solare, caldo. A partire dal IV-III sec. a. C. questi due principi iniziano a ricoprire il ruolo di agenti primor-diali che regolano la generazione e la trasformazione del cosmo. Nel capitolo 42 del Daodejing (道徳経), attribuito a Laozi, è scritto che «Il Dao genera l’Uno, l’Uno il Due, il Due il Tre e il Tre i diecimila esseri»: il Due nato dal Dao indica proprio la dualità di yin e yang, che nella loro alternanza instaurano il dinamismo intrinseco alla vita e alla natura nel suo complesso

Associati a questi due principi dinamici, rivestono una grande importanza i cosid-

detti Cinque Agenti (o Elementi, o Movimenti), wuxing (五行). Nella classificazione descritta da Sima Qian (145-86 a.C.) nella sua opera Shiji (Memorie di uno storico), si formò una vera e propria scuola di pensiero per studiare questi concetti, la “scuola dello yin/yang e dei Cinque Agenti”.

Come ha notato il sinologo Marcel Granet, «invece di constatare successioni di fenomeni, i cinesi registrano alternanze d’aspetto» (M. Granet, Il pensiero cinese, Milano 1973, p. 246): il ritmo alternato di yin e yang, contrazione ed espansione, di-scesa e risalita, è il ritmo dello stesso qi che anima l’universo. Il qi che si espande e si muove è yang, il qi che si ripiega su se stesso e torna alla quiete è yin.

In questa dimensione di dualità complementare e non mutuamente esclusiva o ra-dicalmente oppositiva, i Cinque Agenti delineano la dimensione interagente e proces-suale della natura:

I cinque agenti sono: acqua, fuoco, legno, metallo, terra. È nella natura dell’acqua inumidire e

scorrere verso il basso, in quella del fuoco di bruciare e di innalzarsi in aria, in quella del legno di esser curvato e raddrizzato, in quella del metallo di essere duttile e di accettare la forma che gli si imprime, in quella della terra di prestarsi alla coltivazione e alla mietitura.

Shujing (Classico dei Documenti), cap. Hongfan (Grande Piano) cit. in A. Cheng, op. cit., p. 257.

Soprattutto, ciò che risulta importante nello studio dei Cinque Agenti è il movi-

mento per cui, secondo una precisa concatenazione, c’è «generazione» l’uno dell’altro (il fuoco genera la terra riducendosi in cenere, la terra produce i metalli, il metallo si liquefa fondendosi, l’acqua nutre il legno, il legno genera il fuoco brucian-do) e, secondo un altro ciclo, c’è «conquista» l’uno dell’altro (l’acqua spegne il fuoco, che fonde il metallo, che taglia il legno, che ara la terra, che argina l’acqua). Il signi-ficato funzionale delle Fasi naturali indica come nulla in natura sia irrelato, privo di rapporti con ciò che lo circonda, e che anzi gli è costitutivo. Secondo una logica che si esprime ai suoi massimi livelli di elaborazione teorica nel taoismo filosofico (道家, Daojia) e nel buddhismo della scuola Huayan (華厳, Kegon in Giappone). Il Lushi Chunqiu (Primavere e autunni del signor Lu, V-IV sec. a.C.) presenta il ciclo dei Cinque Agenti in correlazione con il succedersi delle dinastie, a riprova dello stretto rapporto tra naturalià del processo e dimensione storica e culturale delle vicende u-mane: anche in quest’ambito è sempre attiva la presenza delle leggi di funzionamento della natura processuale delle cose.

I CINQUE AGENTI ( wu xing) : CORRISPONDENZE Elemento LEGNO FUOCO TERRA METALLO ACQUA Stagione PRIMAVERA ESTATE FINE ESTATE AUTUNNO INVERNO Processo NASCITA CRESCITA TRASFORMAZ. DECLINO STAGNAZIONE Energia VENTO CALORE UMIDITA’ SECCO FREDDO Colore VERDE ROSSO GIALLO BIANCO NERO Sapore AGRO AMARO DOLCE ACRE SALATO Odore RANCIDO BRUCIATO DOLCIASTRO ACRE MARCIO Organo pieno FEGATO CUORE MILZA POLMONE RENE Organo cavo CISTIFELLEA INT.TENUE STOMACO INT.CRASSO VESCICA Senso OCCHIO LINGUA BOCCA NASO ORECCHIO Tessuto TENDINI VASI MUSCOLI PELLE/PELI OSSA Emozione COLLERA GIOIA MEDITAZIONE TRISTEZZZA PAURA

4. Il concetto di natura nel buddhismo: dall’India al Giappone

È bene ricordare che l’idea di un “pensiero buddhista”, inteso come un tutto organico e sistematico, è una sorta di astrazione concettuale. Ciò nondimeno è possibile parlare di una tradizione buddhista facendo ri-corso a criteri di coerenza e di ade-guatezza, nel senso che si possono rintracciare in tutte le scuole bud-dhiste i lineamenti fondamentali che le fanno partecipare a una “tradizio-ne” unitaria. Questi lineamenti pos-sono essere ricondotti al cosiddetto buddhismo originario – individuato nei testi del Canone buddhista in lingua pali, re-datto tra il V e il I secolo a.C. Lo stesso termine “buddhismo” ha origine solo nel XIX secolo, quando gli studiosi anglosassoni coniano la parola Buddhism per tradurre il sanscrito buddhadharma, che corrisponde molto poco all’idea di un corpo strutturato di dottrine, come sembra suggerire la parola occidentale. Essa indica piuttosto l’insieme degli “insegnamenti del Buddha” (buddhadharma), trascritti o narrati da suoi discepoli diretti o, più probabilmente, da monaci e maestri che dopo la morte del Buddha storico, Siddharta Gautama (560-480 a.C. circa), ne hanno trasmesso e diffu-so il messaggio. Dunque, parlando della visione complessiva del buddhismo – o del buddhismo cosiddetto “classico” – non si intende qui comprendere tutte le scuole e i loro punti di vista, che divergono talvolta in modo sottile, talaltra in modo più eviden-te; tuttavia, l’appartenenza di ciascuna di queste scuole al complesso di insegnamenti del Buddha permette a buon diritto di evidenziare dei denominatori comuni, validi in modo generale.

Le tre principali (e generali) linee di tradizione del buddhismo sono il Theravada (detto anche

Hinayāna, o “Piccolo Veicolo”), il “sentiero degli anziani”, formatosi subito dopo la predicazione del Buddha (VI-V sec. a.C.); il Māhayāna (“Grande Veicolo”), diffusosi soprattutto nell’Asia orien-tale a partire dal I sec. a. C.; e il Vajrayāna (“Veicolo del Diamante”), sviluppatosi soprattutto in Tibet a partire dal VI sec. d.C.

Ciò che permette di intendere una particolare asserzione, o una soluzione a un

problema, come conforme alla “visione buddhista” è, in primo luogo, un riscontro di tale asserzione nelle fonti canoniche (il Canone e i commenti che sono stati redatti nel corso dei secoli), e in secondo luogo l’assenza di forti controesempi, in seno alla tradizione, che la mettano in discussione. Nella considerazione di un caso problema-tico, al confronto con le scritture e con i loro commentari dovrà necessariamente ac-compagnarsi un’indagine e una verifica personale: il discernimento individuale, per

quanto riguarda ogni singolo caso, è il criterio discriminante per decidere la confor-mità di una scelta nei confronti dell’insegnamento buddhista. La condotta morale au-tentica non consiste infatti in una assolutizzazione dei testi canonici, in una loro ido-latria, ma nell’esercizio consapevole della propria coscienza critica.

Concetti fondamentali Dharma: letteralmente, “ciò che sostiene”; come significati principali ha 1) l’idea

di legge cosmica; 2) la dottrina del Buddha; 3) norma di comportamento; 4) contenu-to mentale; 5) realtà in generale, fisiche, mentali e spirituali.

Anātman (an + ātman, lett. “non sé”): carattere insostanziale di ogni realtà, che si

dimostra in ultima analisi priva di un fondamento ontologico saldo e indifettibile, ma piuttosto è sempre parte, anello di una catena di relazioni che la determinano.

Pratītya samutpāda: “coproduzione condizionata”, o “insorgenza condizionata”.

Il processo di interrelazione e concatenamento di ogni elemento, l’uno con l’altro. Ogni fenomeno non è in sé sussistente, autonomo, ma è determinato e condizionato da una serie virtualmente infinita di cause e relazioni che ne implicano la natura e le azioni.

Da cosa è composto ogni dharma, cioè ogni “realtà” (fisica, mentale, spirituale)? 5 tipi di aggregati (skhanda):

1) aggregato della materia (rupaskhanda): 4 elementi e derivati, 6 sensi (5 organi di senso + facoltà mentali)

2) aggregato delle sensazioni (vedanaskhanda): piacevoli, spiacevoli, neutre, deter-minate dal contatto tra organi di senso e oggetti corrispondenti

3) aggregato delle percezioni (sannaskhanda): coscienza delle sensazioni, per cui si prova desiderio, avversione, indifferenza

4) aggregato delle diposizioni (sankharaskhanda): azioni volontarie, in vista di uno scopo, abitudini consolidate

5) aggregato della coscienza (vinnanaskhanda): coscienza per ogni percezione o sen-sazione

4.1. La concezione giapponese: tra shintoismo e buddhismo Nelle epoche arcaiche della cultura giapponese (Jōmon, epoca preistorica durata

fino al V-IV secolo a.C.; Yayoi, 300 a.C.-300 d.C.; Kofun, 250-538 d.C.; e Asuka, 538-719 d.C.), di cui restano numerosi reperti archeologici, si svilupparono e diffuse-ro forme di animismo che implicavano un rapporto e una concezione della natura par-ticolari, cui si possono avvicinare lo shintoismo o l’animismo proprio del popolo Ai-nu, sopravvissuto nel nord del Giappone fino a poche decine di anni fa.

In queste forme di animismo si pensa che la divinità dimori negli elementi natura-li. In particolare monti, rocce, vecchi alberi, corsi d’acqua sono considerati sacri in quanto yorishiro, luoghi in cui dimora la divinità, come si può vedere ancor’oggi nei templi shintoisti: luoghi e elementi che fungono da ricettacolo per la divinità, la ac-colgono e ne vengono abitati, operando una sorta di mediazione tra l’umano (il vil-laggio) e il divino (la montagna o il mare).

Nello shintoismo originariamente il tempio non era un edificio stabile, ma una

struttura che veniva montata al momento della festa e poi smontata e riposta. Il luogo sacro, sede del numinoso, era piuttosto un albero o una roccia, e veniva indicato da segni di identificazione come particolari corde intrecciate (shimenawa) o una sorta di grandi cancelli detti torii : essi mostravano come la natura stessa fosse la sede del di-vino, a cui si poteva avere accesso mediante una soglia, un limen.

È solo a partire dall’introduzione del sistema di scrittura cinese, tuttavia, che pos-

siamo rinvenire vari termini con cui si nomina la «natura». È solo dall’epoca Meiji (1868-1912) che il termine shizen (自然) si impone come sinonimo dell’occidentale «natura». In quella fase storica decisiva per la cultura giapponese, in cui divenne ne-cessario introdurre il pensiero e la scienza occidentali traducendone i testi e i concetti, shizen divenne appunto il termine per dire l’inglese nature. Parole come shizenkan (自然観) «visione della natura», shizenkankyō (自然環境) «ambiente naturale», shizen-kagaku (自然科学) «scienze naturali» sono termini giapponesi moderni concepiti ap-positamente per tradurre termini occidentali e in cui la natura viene intesa come l’«oggetto» della ricerca scientifica.

In precedenza la lingua giapponese conosceva altri termini per dire «natura»: si usava il binomio tenchi (天地), letteralmente cielo-terra, oppure si indicava la natura con i termini di origine taoista banyū (万有) «i diecimila esseri» o banbutsu (万物) «le diecimila cose»; si impiegava il termine shinrabanshō (森羅万象) «i diecimila feno-meni di foreste rigogliose», o ancora si parlava di zōka (造化), «ciò che è crea-to/trasformato»: non però nel senso che si attribuisce in Occidente al termine creazio-ne, in cui è presente una forte matrice giudaico-cristiana. In Estremo Oriente «creato» è piuttosto ciò che, trasformandosi, viene ad apparire, si dà e, offrendosi allo sguardo (in quanto fenomeno), dà luogo ad una serie di altre generazioni (dalla terra nasce la pianta, da cui nascono le foglie, i fiori e quindi i frutti; dai frutti nascono i semi, che creano altre piante, in una processualità continua senza origine e senza termine).

Con l’introduzione della scrittura cinese arrivano in Giappone anche le scritture

buddhiste e con esse si diffonde un’immagine della natura caratterizzata dall’idea di impermanenza (無常, mujō) che mano a mano si sovrappone alla concezione animista tradizionale. Si impone così un pensiero secondo cui la natura viene percepita come qualcosa di fondamentalmente transeunte, effimero e bello al tempo stesso (e bello proprio in quanto effimero). È in epoca Heian (794-1185) che si cominciano ad ap-prezzare i mutamenti naturali da un punto di vista estetico: ad esempio nella prima metà del Kokinwakashū (Raccolta di poesie antiche e moderne, 920 ca), la prima del-

le ventuno antologie imperiali di poesia, le descrizioni delle stagioni, dei fiori, della luna e così via, rispecchiano questa nuova sensibilità. Nel Genji monogatari (Storia di Genji, 1001 ca) di Murasaki Shikibu (X-XI sec.), nel Makura no sōshi (Appunti del guanciale) di Sei Shōnagon (ca. 966-1017) oltre che nei diari delle dame della corte di Kyōto di quel periodo la natura viene sempre vista a partire da una tale concezione di matrice buddhista, per cui il mono no aware, il «pathos delle cose», è l’espressione che dice il senso di stupore per la caducità del mondo, l’essere effimero di ogni ele-mento della realtà la quale tuttavia, pur nella sua malinconica bellezza, resta degna di amore e provoca un trasporto emotivo irresistibile. Mono no aware si coglie ad e-sempio nella struggente malinconia provata contemplando la bellezza dei fiori, ad e-sempio di ciliegio che sfioriscono dopo soli tre giorni dalla fioritura, sapendo che è quello il momento in cui la loro bellezza raggiunge l’apice dell’intensità; nell’amare il trapassare nel ricordo di ogni sensazione o sentimento, accettando il fluire incessan-te del tempo come ciò che vi è di più intimo e costitutivo.

Nel frattempo, il buddhismo giapponese sviluppa nuove teorie che riconducono il concetto di natura nella sfera dei significati del buddhismo stesso. Si sviluppava ad esempio la dottrina secondo cui vale il principio di sōmokujōbutsu (草木成仏), anche «l’erba e gli alberi diventano Buddha», perché possiedono in sé la buddhità ovvero la qualità/capacità del risveglio. È questa un’idea di origine cinese, che modifica l’originario assunto indiano secondo il quale la salvezza dal dolore ha senso solo per gli uomini. È una teoria che si sviluppa nel passaggio alle scuole buddhiste del San-ron (“tre dottrine”: Tendai, Kegon e Zen), venendo talora anche fortemente criticata. Questa teoria penetra facilmente in Giappone, innestandosi nella corrente indigena dell’animismo. Già il monaco Kūkai ne parla, anche se la scuola che la elabora e svi-luppa in modo davvero profondo è il Tendai, in paricolare la corrente dello honkaku-shisō.

Ogni realtà (materiale o spirituale) può quindi diventare buddha, tutto ciò che è possiede i germi dell’illuminazione. Inizialmente il monaco Kūkai (774-835) nello scritto Shōjijissōgi (Il vero significato del carattere pronunciato) sostiene che questo mondo in generale è hosshin (法身), corpo del dharma, idea questa che ha fortemente influenzato la visione della natura successiva in Giappone: la natura stessa è il «corpo del dharma», dell’insegnamento del Buddha. Il risveglio si trova dunque in germe in ogni elemento del reale e non serve il richiamo ad una dimensione trascendente.

In epoca medioevale si sviluppa ulteriormente la dottrina del sōmokujōbutsu e si

considera il mutamento (生住異滅, shōjūimetsu, nascita-continuazione-mutamento-trapassare) di erbe e piante come manifestazione del risveglio. Anche nei brani del teatro nō (能) è presente l’espressione sōmokukokudo-shikkaijōbutsu (草木国土悉皆成

仏). Significa che anche l’erba, gli alberi, il suolo (le cose inanimate in genere) pos-sono diventare buddha come ogni altra realtà. Non significa che per gli esseri umani la natura così com’è sia buddha, ovvero illuminazione “allo stato attuale”: essa si scopre tale se vista con gli occhi di chi diventa buddha.

L’influenza dello zen si estende a partire dal XIV secolo, e appare chiara nel detto yanagi wa midori, hana wa kurenai (柳は緑、花は紅), «i salici (sono) verdi, i fiori

rossi»: è un verso molto amato dai giapponesi, che esprime lo stato d’animo del ri-sveglio. Inoltre lo zen influenza fortemente la rappresentazione della natura in pittura, introducendo numerose influenze taoiste.

In epoca contemporanea, il filosofo giapponese Nishida Kitar ō (1870-1945) nella

sua prima opera Uno studio sul bene (Zen no kenkyū, 1911) usa ancora un termine come sansensōmokuchūgyokinjū (山川草木虫魚禽獣 ), letteralmente «monti-fiumi-erbe-alberi-insetti-pesci-uccelli-animali», che sembra voler definire la natura enume-randone gli elementi anziché esprimendone un’idea d’insieme. In quest’opera, Nishi-da dedica un capitolo proprio alla trattazione della natura, e scrive:

La realtà è solo una e si mostra in varie forme a seconda dei modi diversi di vederla. Dicendo

«natura» si pensa con ciò ad una realtà oggettiva del tutto indipendente dalla nostra soggettività, ma in senso rigoroso una tale natura è un concetto astratto e non è mai vera realtà. Il vero essere della natura è il reale concreto dell’esperienza immediata in cui soggetto ed oggetto non sono ancora se-parati. Per esempio, ciò che noi pensiamo davvero come erba e piante, sono erbe e piante fornite di colori e forme vivide, sono il nostro reale concreto intuitivo. Quando invece rimuoviamo momenta-neamente l’aspetto dell’attività soggettiva da questo reale concreto, possiamo pensare che esso sia natura puramente oggettiva. Facendo progredire questo modo di pensare fino alle estreme conse-guenze troviamo la natura intesa nel più rigoroso senso adottato dagli scienziati, qualcosa di estre-mamente astratto ossia lontanissimo dal vero manifestarsi della realtà. […]

La natura in quanto realtà veramente concreta non è qualcosa che si costituisce in assenza di un’attività unificante. Ma allora anche la natura possiede un sé. Anche un albero o un animale e i vari mutamenti di forma e movimenti in cui si esprimono non sono solo insignificanti agglomerati di materia o movimenti meccanici. Ogni mutamento e ogni movimento possiede una relazione in-scindibile col proprio intero e per questo può essere considerato come manifestazione di un sé uni-ficante. Per esempio, le zampe, gli arti, il naso, la bocca e così via possiedono tutti uno a uno una stretta relazione con il fine che è la vita dell’animale e non si può comprenderne il senso separata-mente. Quanto meno per chiarire i fenomeni animali e vegetali bisogna ipotizzare una tale forza u-nificante della natura. I biologi spiegano in generale i fenomeni biologici per mezzo dell’istinto vi-tale. Ma una tale attività unificante non è presente solo negli esseri viventi, anche nei cristalli delle sostanze inorganiche appare già più o meno questa attività. Tutti i minerali, infatti, sono forniti di una particolare conformazione cristallina. Il sé della natura ovvero l’attività unificante diventa sem-pre più evidente mano a mano che dai cristalli delle sostanze inorganiche si passa agli organismi vegetali e animali (il vero sé appare per la prima volta nello spirito). […]

La forza unificante che è la vita di una tale natura, non è solo un concetto astratto che noi creia-mo col nostro pensiero, quanto piuttosto è un dato di fatto che viene manifestandosi nella nostra in-tuizione. Guardando un fiore che amiamo o un animale cui ci lega un sentimento di familiarità, im-mediatamente cogliamo un qualcosa di unificante nella sua interezza. Questo è il sé di quella cosa, il suo noumeno. Gli artisti sono quelli che eccellono al massimo grado in questo tipo di intuizione. Gli artisti intuiscono a colpo d’occhio la verità delle cose, colgono un qualcosa di unificante. Ciò che gli artisti rendono visibile non è il dato di fatto superficiale, bensì il noumeno costante che si ce-la in profondità alla radice delle cose. […]

In breve, la nostra unificazione soggettiva e la forza unificante oggettiva della natura origina-riamente sono la stessa cosa. Se vista in termini oggettivi, si tratta della forza unificante della natura, se invece in termini soggettivi, è l’unificazione di conoscenza, sentimento e volontà.

(K. Nishida, Uno studio sul bene, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 78-82)

Se dunque il sostantivo shizen significa «essere-così a partire da sé», un breve confronto con il significato del termine occidentale di «natura» può fornire delle pri-me indicazioni per individuare alcune caratteristiche della concezione di natura in Giappone.

a) Se physis, φύσις, (da φυειν, phyein, generare) e natura (dal verbo latino nascor) rimandano nel mondo greco e romano all’idea di «nascita», del «nascere», si noterà subito questo aspetto manca nel termine sino-giapponese shizen. È presente l’idea di spontaneità, ma non c’è quella di nascita; si dà piuttosto un «esser-così» all’interno di un divenire processuale che non conosce un momento di creazione o di nascita.

b) Nella concezione sino-giapponese è assente l’idea della natura come creazione di qualcosa d’altro da sé, che si tratti della plasmazione di una materia informe già data (come fa il demiurgo di Platone) o che si tratti di una creatio ex nihilo da parte di Dio (come nella tradizione cristiana). La natura è qui vista come un processo senza inizio né termine, un divenire spontaneo e libero in virtù di se stesso.

c) L’idea che la natura, in quanto spontaneo «esser-così a partire da sé», sia libera processualità indica un’altra differenza essenziale rispetto alla visione occidentale che, dai presocratici a Platone e Aristotele, dal pensiero alchemico medievale alla filosofia naturale del Rinascimento, fino alla concezione della filosofia e della scienza moder-na, tende a identificare la natura con la materia o con gli elementi materiali che la compongono: acqua, fuoco, terra, aria: anche se il pensiero cinese tiene in considera-zione gli elementi naturali che compongono la natura, infatti, questa non è sentita come hyle, υ{λη, materia bruta che attende una forma che la spiritualizzi, ma come insieme di movimenti che si danno generazione e distruzione reciproca, senza un principio e senza un fine da raggiungere.

d) Il fatto che la natura in Cina e Giappone non sia stata vista come materia bruta, dominata dalla necessità meccanica, ma piuttosto come spontaneità e libertà spiega inoltre come essa non sia considerata in opposizione alla cultura o al culto rituale dell’uomo. Se cultura deriva dal latino colere, «coltivare», e rimanda quindi alla te-chne, τέχνη, al lavoro dell’uomo, in Estremo Oriente l’ideale compimento della cultu-ra consiste nel raggiungimento della naturalezza, della spontaneità priva di affettazio-ne, che si può imparare dalla natura facendo tutt’uno con essa. L’artista compiuto, il maestro, è infatti colui che compie il suo gesto rinnovando il continuo flusso dell’energia, del soffio vitale che permea ogni realtà. Se in Cina questa «naturalezza» o spontaneità viene indagata soprattutto per mostrarne i risvolti etici, in Giappone – sempre a partire dall’influenza cinese – sembra prevalere l’aspetto estetico, ovvero la visione dell’arte come spontaneità del gesto che si raggiunge tramite la pratica assi-dua. Inoltre tipicamente giapponese sembra essere non solo la naturalezza come spontaneità del gesto artistico, ma anche una percezione degli elementi naturali in quanto estetici di per sé. L’acqua in quanto acqua, il fuoco in quanto fuoco – non in quanto metafore di atteggiamenti morali e neppure come materia bruta – vengono as-sunti come oggetti estetici belli in se stessi.

5. Perdita di centralità del soggetto L’’io’ è anche l’’altro’, l’altro è anche l’’io’: tanto quello che questo sono parimenti affermazione e negazione. Allora esistono o non esistono realmente l’’io’ e l’’altro’? Che l’’io’ e l’’altro’ non sia no in contrapposizione dicesi il perno del Tao […]. Invero ogni essere è altro da sé, e ogni essere è se stesso. Questa verità non la si vede a partire dall’altro, ma si comprende partendo da se stessi. Così è stato detto: l’altro proviene dal se stesso, ma se stesso dipende anche dall’altro.

Cfr. Zhuangzi, Cap. II, Milano, Adelphi 1982 Tutte le realtà sono insostanziali Tutte le realtà sono impermanenti (sabbe dhamma anattā, sabbe dhamma anicca).

Dhammapada, § XX, 279

Nel lessico del pensiero cinese classico non esiste un termine specifico per circo-scrivere il “corpo” in modo univoco. I caratteri che vengono utilizzati identificano, in modo di volta in volta leggermente diverso, da differenti angolature, la “forma” este-riore che si manifesta, xing 形, l’“individualità personale”, shen 身, e l’“essere costi-tutivo”, ti 体 (spesso abbinato alla sua “funzione”, yong 用, oppure all’energia, qi 氣, di cui è concretizzazione e condensazione). Soltanto in epoca moderna, proprio al fi-ne di tradurre la nozione occidentale di corpo (body, corps, Körper-Leib) in cinese si utilizza il composto shenti 身体, che cerca di integrare le stratificazioni di senso del termine europeo. Anche nel cinese classico, in realtà, esiste il termine shenti, ma que-sto binomio viene usato piuttosto per indicare una condizione complessiva di accordo e armonia tra le parti che compongono l’individuo umano, fisica, sensoriale, psichica, emotiva.

In Giappone la situazione è analoga, dal momento che la scrittura giapponese a-dotta gli stessi caratteri di origine cinese. Accade così che il pensiero dell’arcipelago venga fortemente influenzato da quello del continente, e riprenda in molti aspetti le tradizioni taoista e confuciana. In giapponese “corpo” si può scrive generalmente con due caratteri distinti: karada 体 (pronunciato anche tai, dalla pronuncia cinese ti), che indica il corpo nel suo aspetto solido, fisico, materiale (quello che in tedesco si direbbe Körper); e mi 身 (o shin, dal cinese shen), il corpo vitale, di carne, “soggetto” di esperienza (il tedesco Leib). I due caratteri possono essere accoppiati anche in que-sto caso a formare il composto shintai 身体, che si può tradurre in generale come “corpo”: un abbinamento impiegato soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento per tradurre i testi filosofici europei. Talvolta, in giapponese si impiega anche il termine nikutai 肉体, che letteralmente indica il “corpo-carne”, cioè il corpo fisico, quando si vuole insistere sulla sua dimensione materiale. L’espressione shinjin ichinyō 心身一如, usata in special modo in ambito buddhista, è un ulteriore esempio della concezione secondo la quale gli elementi di “spirito” (seishin 精神) e “corpo” (shintai 身体) siano

sempre necessariamente uniti (ichinyō 一如): l’insegnamento buddhista contesta infat-ti la pretesa assolutezza o incondizionatezza dell’anima o di un principio spirituale indipendente dal corpo e dalla sua impermanenza.

Nella nozione di shintai sono ricomprese le dimensioni che potremmo definire di

corpo sensibile, di spirito e di mente. La loro distinzione analitica è estranea alla mentalità giapponese: anche il termine che si traduce normalmente con “cuore”, “mente” o “spirito”, cioè kokoro 心 (xin in cinese), offre un esempio della visione si-nergica e integrata della mentalità cinese e giapponese. Kokoro è infatti al tempo stesso 1) l’organo fisico, che pompa il sangue; 2) il “cuore” nel senso metaforico, come parte essenziale e più riposta di un individuo o di una cosa; 3) la “mente”, l’attività intellettiva; 4) la “dimensione spirituale” propria di un persona, ma anche di un oggetto o di una situazione. Lo spettro semantico di questo termine è quindi e-stremamente ampio e articolato, e comprende ambiti che per il pensiero occidentale restano ben distinti e quasi contrapposti, come per esempio l’ambito intellettuale e quello emotivo o spirituale.

Il Giappone trae dalla Cina alcuni aspetti fondamentali, rielaborandoli in modo o-

riginale. Attingendo al “fondo” cinese si può riscoprire la matrice di un pensiero che non separa anima e corpo, che li lega anche nella stessa formulazione concettuale e linguistica: «la Cina […] non ha mai pensato separatamente l’anima e il corpo, bensì uno stesso soffio-energia che, condensandosi, forma i corpi e, raffinandosi e purifi-candosi, forma lo spirito» (F. Jullien, La grande immagine non ha forma, tr. it., An-gelo Colla, Vicenza 2004, p. 217).

“Corpo” assume dunque in queste tradizioni di pensiero una rilevanza più sfumata e allusiva, meno legata alla dimensione quantitativa e misurabile, e soprattutto denota una formazione sempre in movimento, in divenire, mai nettamente distinta o distacca-ta da una controparte invisibile, intangibile, non misurabile; non vi è alcuna forma di dualismo, bensì l’intreccio e la relazionalità continua, l’attualizzazione costante di forme (xing 形), che di volta in volta assumono concretizzazioni particolari e solo temporaneamente definite. «Se lo si concepisce globalmente, ciò che io chiamerei il mio “corpo” diventa dunque qui […] l’attualizzazione particolare in continua modi-ficazione che, in quanto tale, mi costituisce pienamente e forma la mia sola identità possibile» (F. Jullien, Nutrire la vita, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 75).

Anche il concetto di identità ne viene trasformato. “Io” non sono più un compo-

sto individuato e definito una volta per tutte, monade isolata o autocoscienza che si riconosce a partire dalla distinzione e dall’opposizione nei confronti di altre identità autonome, ma un flusso processuale in continua trasformazione e relazione. Non pos-siedo un’essenza unica e peculiare, ma sono piuttosto la cangiante animazione di un’energia vitale che assume, nel tempo, configurazioni inedite. La mia identità esiste, certo, grazie anche alla memoria e a una certa continuità dei processi trasformativi, tuttavia essa è relazionale in senso forte, poiché non esiste al di fuori di un intermina-bile scambio tra livelli diversi, visibile/invisibile, materiale/immateriale, sensibi-

le/intangibile. E l’animazione che mi muove è dovuta alla tensione di polarità com-plementari, yin e yang, che non potrebbero mai sussistere l’una senza l’altra, o l’una prima dell’altra, ma che si attualizzano, si disgregano e si ricombinano insieme. Non ci sono quindi un “corpo” e un’“anima” ben distinti e più o meno indipendenti; esiste e si anima un complesso vitale, una continua trans-formazione processuale, che va colta, curata, pensata nella sua globalità. 6. L’analogia della rete

Le differenti tradizioni dell’Asia orienta-le hanno fatto spesso ricorso ad immagini, metafore, analogie nel tentativo di spiegare gli aspetti più complessi degli insegnamenti, aspetti che spesso sfuggono a una possibilità di trattazione puramente concettuale e for-malizzata. Un’analogia che tenta di spiegare attraverso immagini fisiche cosa si intenda con “interrelazione” o “mutua inclusività” è quella, ben nota nella letteratura buddhista, dell’oceano e delle onde:

È come la metafora dell’acqua e delle onde: le forme, che sono alte o basse, sono le onde;

l’umidità, che è identica, è l’acqua. Le onde sono onde e non sono altro dall’acqua – le onde stesse manifestano l’acqua. L’acqua è acqua che non differisce dalle onde – è l’acqua a formare le onde. Le onde e l’acqua sono una cosa sola, eppure questo non cela la loro differenza. L’acqua e le onde sono differenti, eppure questo non cela la loro unità. In virtù della loro manifesta unità, essere l’acqua è essere nelle onde; in virtù della loro manifesta differenza, porre attenzione alle onde non è porre attenzione all’acqua. Come mai? Perché l’acqua e le onde sono differenti eppure non sono differenti.

(Tu Shun, Cessation and Contemplation, in T.Cleary, Entry the Inconceivable, p. 58) Le onde stanno a significare le forme molteplici, i fenomeni empirici che “acca-

dono”, mutano, si danno alla percezione dei nostri sensi nella loro impermanenza e varietà di modalità espressive. Sono gli “oggetti” esperiti normalmente, che danno corpo alla “apparente concretezza” del mondo e permettono alle nostre azioni quoti-diane di compiersi facendo affidamento sulle strategie ermeneutiche convenzionali, in base alle quali cogliamo tali azioni e manifestazioni come se fossero dotate di un’essenza propria, indipendente. Ma le onde non sono se non in virtù dell’acqua, da cui traggono la loro forma, da cui hanno origine e verso cui ritornano: non esistono le onde se non all’interno dell’acqua, che costituisce il loro “orizzonte di possibilità”, la loro condizione d’essere. E non esistono nemmeno in quanto singolarità, perché un’onda è tale solo in relazione alle altre onde, che in base a quella si conformano, e che nelle stesso tempo quella stessa esse formano. Il nocciolo della riflessione sta tutto qui: la dialettica dell’uscita dall’originaria condizione del Vuoto, dal regno

“noumenico” in cui ciò che è è, senza discriminazione, e del ritorno ad essa attraver-so la negazione e la mediazione nel mondo fenomenico, trova la sua soluzione nella comprensione dell’identità che è insita nella differenza, poiché tutto ciò che possia-mo esperire o pensare è solo in quanto è in relazione con tutto ciò che ad esso è e-sterno, estraneo, diverso. Le onde non “sono” l’acqua, ma esse senza l’acqua non sa-rebbero; esse rappresentano una particolare determinazione dell’acqua, che svela se stessa, si dimostra alle nostre capacità percettive, in quanto onde: e per questo è leci-to dire che l’acqua non sarebbe senza le onde, poichè è solo per mezzo delle onde che essa è in grado di manifestarsi, di agire. Di nuovo appare in tutta la sua forza e la sua pregnanza di significato per il pensiero cinese più genuino, fin dalle sue origini, quell’idea di movimento, di processualità, come unica ed autentica condizione d’essere delle cose: per darsi effettivamente, tanto un fenomeno quanto il principio che ne sta alla base deve essere in divenire, in “processo” appunto.

Il richiamo alla vacuità dei fenomeni e di ciò che ne costituisce la base, la forma, il fondamento, è esplicito in numerosi passi dello stesso sûtra, oltre che nelle parole dei suoi commentatori:

Tenendo conto che ogni cosa È priva di esistenza intrinseca, Ed essendo ogni apparire di una loro origine, ed ogni loro sparire Unicamente una descrizione provvisoria, [Ci si rende conto che] tutte le cose sono non nate, Tutte le cose sono imperiture […] La natura delle cose è fondamentalmente vuota e nulla, Senza alcun attaccamento o discriminazione. La vacuità di una natura intrinseca è Buddha; Non può essere fissato nel pensiero. La natura di ogni cosa Non ha origine e non ha fine. (The Flower Ornament Scripture, pp. 373-374; 376; 448). E successivamente: A questo punto dunque non c’è più dualismo, E nemmeno c’è unicità; […] Nessuna mediazione e nessuna dualità, E nemmeno alcuna non-dualità: Tutto nel mondo è vuoto. (The FlowerOrnament Scripture, cit., p. 381-382) La più pittoresca e famosa rappresentazione metaforica del regno dell’inter-

penetrazione tra fenomeno e fenomeno è costituita dalla cosiddetta rete di Indra, cita-ta in diversi testi dalla tradizione hindu e buddhista.

La rete di gioielli celeste di Kanishka, o Indra, Imperatore degli Dei, è chiamata la rete di Indra. Questa rete imperiale è costituita tutta di gioielli: poiché i gioielli sono splendenti, riflettono reci-procamente le immagini di ogni gioiello, appaiono nei riflessi dell’uno e dell’altro, riflesso su rifles-so, all’infinito, e tutti appaiono insieme in un gioiello, e coì per ognuno di essi […]

Questo gioiello è in grado di mostrare il riflesso di tutti i gioielli d’un tratto, nello stesso istante – e proprio così come accade per questo gioiello, così accade per ogni altro gioiello: il riflesso si moltiplica e moltiplica ancora, senza fine. Questi riflessi che moltiplicano i gioielli infinitamente sono presenti tutti in un unico gioiello e si mostrano chiaramente – quello non occulta questo.

Se ci si pone in un gioiello, allora ci si pone in tutti i gioielli in ogni direzione, moltiplicati all’infinito. Come mai? Perché in un gioiello si trovano tutti i gioielli. Se c’è un gioiello in tutti i gioielli, allora pure ci si sta ponendo in tutti i gioielli. E lo stesso ragionamento vale al contrario, applicato alla totalità. Dal momento che da un gioiello si entra in tutti i gioielli senza lasciare quel singolo gioiello, allora tramite tutti i gioielli si entra in un singolo gioiello senza lasciare quest’unico gioiello.

(Fa-Tsang, «Return to the source», in T. Cleary, Entry the Inconceivable, p. 163) Questa immagine rende chiaramente l’idea di come ogni singolo elemento della

rete, ogni gioiello, sia assolutamente essenziale al permanere dell’intera rete. To-gliendo un solo gioiello, tutta la serie di rapporti, la serie infinita dei riflessi così strutturata, verrebbe a cadere – non ci sarebbe più alcuna rete.

Analogamente, la correlazione di tutti i gioielli si combina a formare un unico gioiello, dal momento che uno è l’aspetto della totalità, e questa non sarebbe se non ci fosse ogni singolo elemento. La rappresentazione visiva della relazione che lega indissolubilmente tutti i gioielli prosegue con una sorta di esperimento mentale:

Se non si crede che un gioiello a sud-ovest si trovi in tutti i gioielli nelle dieci direzioni, basta

sporcare con una una macchia il gioiello a sud-ovest. Quando un gioiello è macchiato, ci sono mac-chie su tutti i gioielli in tutte le direzioni. Dal momento che ci sono macchie su tutti i gioielli nelle dieci direzioni, ci si rende conto che tutti i gioielli si trovano in un singolo gioiello. Se qualcuno di-ce che tutti i gioielli nelle dieci direzioni non sono un sigolo gioiello a sud-ovest, [si pensi:] potreb-be una singola persona macchiare simultaneamente tutti i gioielli nelle dieci direzioni? Anche con-siderando la possibilità di macchiare tutti i gioielli nelle dieci direzioni, si tratta di un singolo goiel-lo. […] Quando è completo uno, tutto è compiuto.

(Fa-Tsang, «Return to the source», in T. Cleary, Entry the Inconceivable, pp. 66-67). L’inter-immanenza di tutte le cose fa sì che esse si possano considerare insieme

“riflettore”, o specchio – ogni elemento riflette gli altri – e “riflesso”, o immagine – ognuno è “manifestazione” di tutti, in quanto da tutti dipende la sua esistenza. In quest’ordine di pensiero c’è totale “compenetrazione” anche tra ciò che appare, in senso letterale, e ciò che è nascosto: il manifesto svela l’occultato. Così come la parte in luce della luna, mostrando se stessa, afferma la presenza anche della parte in om-bra, il mondo empirico rende conto con la sua stessa presenza di quello noumenico del principio.

La considerazione simultanea di tutte le implicazioni determinate da un singolo ente è evidentemente impossibile per gli strumenti conoscitivi della mente umana; ciò che importa, piuttosto, è una considerazione analogica di tali rapporti, senza volerli effettivamente pensare nella loro esistenza, ma tenendo conto della portata illimitata

della trama relazionale sottesa ad ogni “nodo” della rete, che può di fatto condurre a tutti gli altri. Il punto di vista che separa tra loro gli oggetti d’esperienza e gli eventi che li coinvolgono resta valido dal punto di vista pratico, ma deve venire ricompreso e pensato ponendolo a partire da una prospettiva più ampia e non dualistica.

In questo senso, non si può nemmeno parlare, a rigore, dell’esistenza di un “am-

biente”, inteso come qualcosa di esterno e diverso dall’individuo; qualcosa che lo cir-conda e lo avvolge, ma da cui il soggetto resta comunque distinto. L’analogia della rete suggerisce l’idea che tutti siamo, al contempo, elementi dell’ambiente e l’ambiente stesso. Questa immagine può essere accostata a quella moderna di sistema, e ne fornisce per certi aspetti una sorta di versione ante litteram. 7. Il problema della storicità

Uno dei punti di contatto delle varie tradizioni dell’Asia, dall’esteriorità rappre-sentata dall’Occidente permette di coglierle nelle loro affinità prima e più che nelle loro differenze interne, è dato dall’intreccio dell’ambito conoscitivo con quello etico. La conoscenza e lo sviluppo delle capacità cognitive hanno senso e sono utili sono in funzione di un loro impiego pratico, di una loro messa a frutto nelle relazioni con gli altri esseri umani e, più in generale, con il mondo intero.

Utilizzando dei concetti tipici della tradizione buddhista (ma presenti già in quella hindu), si tratta della mutua relazione e reciproca dipendenza di prajña (conoscenza, sapienza, saggezza) e karuna (amore, com-passione, benevolenza, agape, caritas).

Ogni approccio (anche “solo” conoscitivo) senza amore all’altro, al mondo, all’insieme che possiamo definire “natura” è una sua violazione più o meno esplicita; viceversa, ogni approccio privo di conoscenza diviene una forma di seduzione più o meno immorale, o un emotivismo privo di sostanza.

La capacità di integrare conoscenza e amore permette a chi pratica un particolare sentiero, una “via” di illuminazione (hindu, taoista, buddhista) di trascendere la suc-cessione cronologica degli istanti e accedere a una forma di comprensione del mondo che ha nella dimensione della mistica – ancorché fondata sulla pratica, e non mera contemplazione passiva – il suo punto culminante.

Tuttavia, un limite che le tradizioni dell’Asia orientale dimostrano rispetto alla ri-

flessione contemporanea è la mancanza di interesse a sviluppare una struttura logica in grado di tener conto della storicità dei fenomeni da considerare. Le diverse conce-zioni della natura sono infatti generalmente astoriche, e pur considerandola come svi-luppo, processo, dinamismo, non la intendono come dotata di una dimensione evolu-tiva. Un maestro del buddhismo zen come Eihei Dōgen (1200-1253) poteva conside-rare la natura come specchio della dimensione illuminata propria di ogni essere, e la frase dello zen secondo cui «i fiori sono rossi, i salici verdi» mostrare con la forza di un’evidenza perfino banale l’esser-così del mondo, la cui intima essenza si coglie in modo intuitivo. Ma l’approccio alla natura deve cambiare, se la si considera non a-

vulsa dal progresso storico e tecnologico, ma legata ad esso, modificata, talvolta an-che sconvolta. È ancora specchio della «natura di Buddha» la tundra contaminata dal-le radiazioni dopo l’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl? È possibile consi-derare come un momento del fluire spontaneo del Tao l’effetto serra dovuto ai CFC presenti nell’atmosfera? Sono semplicemente un effetto dell’alternanza regolare di yin e yang lo scioglimento dei ghiacci o l’espandersi dei deserti in alcune zone dell’Africa e dell’Asia?

La riflessione di alcuni pensatori giapponesi, raccolti inizialmente intorno alla fi-

gura di Nishida Kitarō, ideale iniziatore della cosiddetta «scuola di Kyōto» ha cercato a partire dagli anni Venti del secolo scorso di integrare la pratica e l’esperienza del buddhismo e la tradizione confuciana, quali forme tipiche della cultura giapponese, con le categorie di pensiero proprie della filosofia occidentale, nel tentativo di creare modalità inedite di riflessione filosofica e nuovi concetti, utili per pensare la contem-poraneità. Nishida si spinge ad affermare che la chiave di interpretazione della natura (intesa al modo “occidentale”) si trova nel rapporto storico che l’uomo istituisce con essa, come se l’uomo fosse in ultima istanza l’elemento attraverso il quale l’intero ambito naturale riflette se stesso, pensa se stesso, autodeterminandosi come tale (cfr. Ronri to seimei (Logica e vita), in Tetsugaku ronbunshū daini 哲学論文集第二 [Saggi filosofici 2], 1939).

8. Una prospettiva interculturale: il pensiero di Raimon Panikkar Panikkar e la crisi del mondo moderno Raimon Panikkar (1918-) è un teologo militante, le sue speculazioni sono sempre

volte a risolvere problemi sociali concreti. Se ha indagato a fondo nella sua opera maggiore, Il silenzio di Dio, le radici teologiche dell’ateismo, lo ha fatto nella con-vinzione che su queste radici poggino le basi di buona parte dei malesseri del mondo moderno. Sarebbe quindi fare un torto all’opera di Panikkar non prendere in conside-razione quella parte della sua teorizzazione che riguarda la critica alle maggiori ideo-logie del mondo moderno – in particolare all’ideologia tecnologica: la tecnocrazia – e le proposte concrete per superare i problemi ed i conflitti da esse suscitati. Il malesse-re dell’Occidente ha radici teologiche, è innanzi tutto un malessere spirituale, e può essere risolto solamente attraverso un rivolgimento completo, una metànoia, del no-stro modo di percepire la realtà.

Le radici teologiche della crisi moderna Si è riflettuto relativamente poco sulle radici teologiche della crisi spirituale e ma-

teriale che attanaglia l’uomo moderno, producendo infiniti conflitti di ogni genere e facendogli percepire in modo sempre più crescente di vivere in un universo alienante ed alienato. Queste radici rimandano, secondo Panikkar, ad epoche lontane, allo stes-so fondarsi delle tradizioni abramiche sul principio di proprietà, cioè sul dualismo,

sulla contrapposizione. Tutto il decalogo non è che la sacralizzazione del principio di proprietà: ama il tuo Dio, ama la tua donna, ecc. Per non parlare della distinzione più radicale, quella fra l'uomo e la natura: l'uomo è l'eccezione e il padrone del creato. Non è un caso, dunque, che proprio in occidente sia nata la tecnologia, vero cancro del mondo moderno, cioè una concezione dualistica della realtà, dove ciò che conta è separare, isolare, oggettivare, per poter meglio quantificare e, quindi, manipolare del-le "cose". La tecnologia non è che l'ultimo risultato di una mentalità che aveva già portato il mondo semitico a "privatizzare" Dio, la religione, la cultura. Non è che l'ul-timo risultato di un pensiero che pretende di pensare tutto, di dire tutto, di ingabbiare in concetti tutta la realtà, persino Dio, magari sostanzializzandolo, riducendolo ad es-sere.

La scienza moderna La crisi che ‘'uomo contemporaneo sta attraversando è, per Panikkar, una crisi di

“frantumazione” scaturita, in primo luogo, da quella frantumazione della conoscenza realizzatasi con la nascita della scienza moderna. La scienza, nel mondo moderno, perde il suo valore salvifico e si riduce a conoscenza (presunta) oggettiva. Non è più, come nell'antichità, e ancor oggi nelle autentiche vie spirituali, comunione con la re-altà e realizzazione di se stessi. Nell'antichità, progredire nella conoscenza della realtà voleva dire progredire nella conoscenza di se stessi; la "nuova scienza" nata con Gali-lei, invece, non ha più il fine di capire, bensì solo di calcolare e prevedere, e, con Ba-cone, di dominare la realtà (Novum Organum 1, 70). Con essa ci si chiede come fun-zioni la realtà, non come sia. Perso il legame con la teologia e con la dimensione qua-litativa della vita, la scienza diventa puramente quantitativa, riduzionista, calcolatrice e manipolatrice. Essa non ci parla più di verità, ma di maggiore o minore precisione, maggiore o minore probabilità. L'abbaglio è costituito dallo scambiarla, invece, come l'unico criterio di giudizio veritiero sulla realtà, e sulla sua base esaminare poi la scienza degli antichi o di civiltà diverse da quella occidentale.

Tecnica e tecnologia Non bisogna però confondere tecnologia e tecnica: la tecnica è un'arte (poietikê

technê), nella quale l'intelligenza umana si integra nella materia per produrre un arte-fatto (ceramica, musica, poesia, un edificio, ecc.) che migliori il benessere e la bel-lezza della vita umana. Si deve essere ispirati per produrre qualsiasi tipo di attività tecnica, è necessario il pneuma (spirito). La tecnologia sorge quando allo spirito si sostituisce la ratio, cioè il logos, nel suo senso più ristretto di razionalità discorsiva. A questo punto nella technê si introduce l’aritmetica, cioè un ritmo (il risultato di una mens, mensura), e allora il risultato della tecnica può essere riprodotto indefinitamen-te quando se ne conosca la sigla numerica. Ogni artefatto ha il suo stile e, in un certo senso, è unico, anche quando se ne producano più esemplari. Però c'è un momento in cui il cambiamento quantitativo introduce un mutamento qualitativo. Questo muta-mento avviene attraverso l'utilizzo di macchine, cioè strumenti di secondo grado, che finiscono poi per imporre all'uomo le proprie regole. La tecnologia, da strumento, giunge a trasformarsi in fine: l'uomo cessa di essere un artigiano, la cui arte è caratte-

rizzata dalla creatività, e diventa un lavoratore; non lavora più ad una sua opera per il proprio benessere, ma per qualcuno che non conosce e con cui probabilmente non andrebbe d'accordo, al prezzo di un salario.

Il tecnocentrismo La tecnologia non è universalizzabile come se fosse un universale culturale, non è

neutra. Può germinare soltanto in un terreno moderno e può crescere solo in un clima occidentalizzato. L'universalizzazione della tecnologia implica l'occidentalizzazione del mondo e la distruzione delle altre culture, che si basano su visioni della realtà in-compatibili con i moderni presupposti della tecnologia. Il fatto che questa incompati-bilità non sia stata notata e che si sia pensato che la tecnologia potesse adattarsi allo stile di vita di diverse culture, dimostra come non si sia realizzato un vero dialogo in-terculturale. Ha prevalso la credenza in una evoluzione lineare della specie umana.

La tecnocrazia: l’ontonomia impossibile La tecnologia è autonoma, sia dall'uomo sia dalla natura, dice Panikkar. L'uomo si

sta svegliando dal sogno di poter dominare il sistema tecnologico, a tal punto che o-ramai non crede più possibile liberarsi da esso. E' questo che detta lo stile di vita, i valori dominanti e i ritmi della collettività, e perfino una gran parte delle forme di pensiero, per non parlare della corsa agli armamenti, della crescita delle multinazio-nali e della proliferazione delle macchine, che nessuno sembra poter fermare. La macchina di secondo grado ha le proprie regolarità, che non dipendono né dalle leggi della natura né da quelle dell'uomo. È l'uomo che deve adattarsi alle leggi della mac-china, diventando così prigioniero di un tempo e di uno spazio che sono pure astra-zioni scientifiche. L’interdipendenza fra uomo e cosmo, l'equilibrio armonioso, “on-tonomo” (il nomos dell’on – l’ordine intrinseco dell’essere), non è più possibile nel-l'epoca della tecnologia.

Strumento e macchina La tecnica si riferisce al mondo degli strumenti (utensili), la tecnologia, invece,

appartiene al regno delle macchine. Il potere dell'utensile viene dall'energia umana, quello della macchina dall'esterno. Panikkar fa poi un'ulteriore distinzione fra mac-chine di primo grado, che utilizzano l'energia naturale incanalata (animali, legno, ac-qua, vento) in modo tale da poter essere ancora sottomesse alla volontà umana, e macchine di secondo grado, prodotto tipico dell'era tecnologica, che utilizzano l'ener-gia naturale trasformata (chimica, forza atomica, ecc.).

La macchina di secondo grado è qualitativamente differente dalla prima, ha i suoi propri ritmi, le sue proprie leggi, indipendenti dai fabbricanti e dagli operatori. Non è qualcosa che possa essere semplicemente disinserito. Essa, inoltre, presuppone una visione della natura, postgalileiana e postnwtoniana, nella quale i concetti di massa, forza, velocità e specialmente accelerazione (e, perciò, anche di gravitazione) deter-minano le strutture e i comportamenti umani e quelli cosmici. È una visione, appunto, meccanicistica della natura, nella quale, cioè, l'universo è una grande macchina e l'uomo un sua parte.

L'omocentrismo La tecnologia presuppone che l'uomo sia essenzialmente differente e superiore alla

natura. Non è un caso che la tecnologia sia sorta in un mondo governato dalla conce-zione semitica dell'universo, dove l'uomo è padrone della natura, una eccezione nella creazione. Non è un caso che si usi comunemente il termine "sfruttamento": agricolo, minerario, ecc. Ciò rimanda anche all'origine della scienza moderna, finalizzata non al sapere, ma al potere, non alla conoscenza, ma al dominio della natura.

L'interventismo Il metodo proprio della tecnologia è la sperimentazione, l'intervento sulla realtà.

L'esperimento consiste nel modificare almeno una delle variabili di un sistema osser-vato per poi accertare una variazione dell'intero sistema. L'esperimento rende possibi-le il calcolo della variazione e delle variabili e si basa nello stesso tempo su questo calcolo. In questo modo non si conosce in realtà la cosa, s'impara a conoscere soltan-to una certa reazione dei rapporti tra cose entro quadri predefiniti. L'esperimento è principalmente una possibilità di dominio, di calcolo, di previsione, ma non esprime molto sulla natura delle cose, sulla realtà, sulla nostra propria natura. L'attività umana, da questo punto di vista, non è considerata una collaborazione con i ritmi della natura per lo sviluppo personale e per l'armonia dell'universo, ma come un lavoro visto co-me una produzione, modificazione, dominazione.

L'oggettivismo La tecnologia presuppone che la realtà sia oggettivabile e dunque sottoposta al

pensiero. La tecnologia è la cristallizzazione e l'oggettivazione dei concetti. I concetti possono essere fissati in macchine, le quali garantiscono poi un funzionamento co-stante e preciso, come la macchina del nostro cervello. Questa oggettivazione rende la realtà immutabile e costante, in modo tale che la conoscenza scientifica sia sempre più stabile. La scienza moderna è la guardiana dell'essere, l'essere non può scappare. Così si possono costruire macchine che funzionino e l'uomo se ne può fidare. Che la scienza contemporanea abbia superato grossolani paradigmi di oggettività non dice niente sul piano della tecnologia. Sarebbe possibile la tecnologia se i processi re-ali non seguissero le leggi della logica o addirittura quelle della probabilità?. Il crite-rio di verità, o meglio di precisione, su cui si basa la sperimentazione scientifica è la ripetibilità e la ripetibilità presuppone un tempo costante e omogeneo. Senza di esso nessuna macchina potrebbe funzionare, nessuna grande città moderna potrebbe esi-stere. Lo spazio ed il tempo nel quale si muovono le macchine sono, a differenza di quelli umani, neutri e universali. Proprio per questo la tecnologia si crede universal-mente esportabile: una macchina può essere adattata a un luogo o ad un altro, purché le si calcolino i diversi valori dei parametri -come forza di gravità, temperatura, ecc.- nei diversi luoghi.

Anti-animismo e nominalismo Per la civiltà tecnologica la materia è morta; ha le sue proprie leggi, che sono in-

dipendenti dalle leggi della vita e da quelle dell'uomo. La tecnologia è violenza con-tro la natura. Il nominalismo suppone che tutto quello che possiamo conoscere della realtà sia espresso in nomi, che sono solamente etichette o segni appiccicati alle cose. In questo modo la tecnologia crea un mondo di entità quantificabili, con le etichette per la loro manipolazione adeguata. Il nominalismo epistemologico della scienza si converte così nel nominalismo ontologico della tecnologia.

Quantificabilità, controllo e strumentalizzazione Il regno della scienza moderna è ciò che è quantificabile, essa agisce misurando,

cioè dividendo. Non pretende nemmeno di spiegare il mondo, semplicemente misura dei comportamenti e, scoprendo alcune costanti, prevede vari avvenimenti. La tecno-logia fa qualcosa di più che calcolare: moltiplica. È il mondo della quantità e dell'ac-celerazione, il mondo del più quantitativo. Senza accelerazione la tecnologia è impos-sibile. Il tempo è soltanto un fattore quantitativo che è piegabile all’accelerazione. Quello che non può essere misurato, che non può essere contato, non “conta”.

La caratteristica epistemologica della tecnologia è quella della conoscenza come potere. "Sapere è potere", come disse Bacone, e, nella molteplicità delle opinioni, sol-tanto io posso essere il criterio ultimo. Mi è necessario, perciò, tenere sotto controllo la mia opinione e quella degli altri: potrebbero essere sbagliate e questo è pericoloso. La tecnologia permette questo controllo, offre potere. La competitività, la corsa agli armamenti, per esempio, è inerente al complesso tecnocratico; è condizione necessa-ria per sopravvivere. La tecnologia è il mondo dei mezzi, degli strumenti. Essa pro-duce in continuazione strumenti, sempre nuovi, sempre migliori. Non importa a cosa servano, se siano realmente utili, l'importante è usarli. Noi stessi siamo strumenti.

La cultura moderna La cultura moderna ha reso tutto monetizzabile e dipendente dall'economia: il

tempo, l'educazione, il matrimonio, il nutrimento, la mia salute, le mie credenze, la mia felicità. Tutto ha un coefficiente economico, ossia, in altre parole, quantificabile. Ciò che accomuna tecnocrazia e paneconomicismo è la visione quantitativa della vita. L'uomo -secondo l'antropologia che sta alla base di queste convinzioni- non è che un insieme di bisogni. Se gli si offrono i mezzi per soddisfarli, l'uomo è felice. Questo tipo di mentalità e di cultura non è universale né universalizzabile. E non lo è né da un punto di vista qualitativo, per i motivi sopra esposti, né da un punto di vista quan-titativo: il 6% della popolazione mondiale consuma il 40% delle risorse disponibili e ne controlla il 60%. Le possibilità e le risorse del pianeta sono limitate. Nella prima metà del secolo il sistema economico mondiale era relativamente aperto. Ora il siste-ma è chiuso e in un sistema chiuso ogni aumento in una regione comporta una dimi-nuzione in un'altra. Viviamo un aumento costante di entropia. Il nostro stile di vita non può essere mantenuto su scala mondiale. Nel complesso tecnocratico ogni pro-gresso implica un regresso in un altro ambito. La cultura moderna contiene in se stes-sa il germe della propria autodistruzione. È proprio quel desiderio di assoluto, di infi-

nito, che la sorregge, ciò che provocherà la sua inevitabile fine. Quando il desiderio di assoluto non si esprime nella sfera, appunto, dell'assoluto, ma in quella del relativo, del materiale, non può che diventare una specie di cancro autodistruttore, perché ciò che è limitato non può sostenere uno slancio infinito.

Alternative alla cultura moderna Vi sono tre modi per affrontare il problema della modernità, secondo Panikkar: 1. Riforma Consiste nel pensare che questa cultura si possa riformare, magari utilizzando una

tecnologia più adeguata. Panikkar stesso aveva in un primo tempo aderito a questa prospettiva, coniando addirittura il termine tecnicultura. Ancora nel 1970, quando pubblicò Il Silenzio di Dio, era di questa opinione. Pensava, in maniera troppo inge-nua e ottimista, che la macchina potesse essere coltivata, nel senso della cultura. Ma la macchina di secondo grado ha un'autonomia che l'uomo non è più in grado di con-trollare e dirigere. Ci si dice: solo momentaneamente la tecnologia crea fame, sfrutta e distrugge le culture non industrializzate, fa numerose vittime dappertutto, ma ritro-verà il suo equilibrio una volta che sarà più perfezionata. Non esiste un'omeostasi tecnologica di questo tipo e non è solo l'argomento morale che vi si potrebbe opporre: gli uomini non sono semplici elementi di una posta storica più alta. Vi si oppone an-che l'esistenza di altre culture che si rifiutano di avere una simile concezione dell'uo-mo e della realtà. Altra ingenuità è credere che alcuni aspetti della tecnologia possano essere un mezzo per salvaguardare la vita, che si possa utilizzare la tecnologia non per le cose letali, ma per quelle buone. Questa mentalità non solo manifesta proprio quella volontà di dominio (la "ragione armata", dice Panikkar), propria della tecnolo-gia, che abbiamo applicato a tutte le cose e che ora cerchiamo di applicare alla stessa tecnologia, ma si illude che il male, dopo esser stato creato, funzioni anche come ri-medio a se stesso. È un altro aspetto di quel fatalismo, proprio della cultura moderna, che considera la tecnologia oramai ineliminabile, indispensabile. Come dire: ora sei coinvolto e non c'è altro rimedio che continuare a comprare i nostri prodotti, perché abbiamo creato le malattie e adesso ti vendiamo le medicine.

2. Deformazione Vuol dire fare una critica totale, anatemizzare, non salvare niente, distruggere tut-

to. Anche questo tipo di critica, come il precedente, rimane ancora all'interno della mentalità moderna, tecnologica. Anche questa è ragione armata, è violenza.

3. Trasformazione É una metamorfosi, una mutazione radicale della forma (morphê). Non vuol dire

riformare un po', cambiare questo o quello, ma realizzare un cambiamento radicale, una metànoia, una vera rivoluzione della mente, del cuore e dello spirito. Voler fare soltanto qualche aggiustamento e riformare il sistema significa solo prolungare l'ago-nia. Emanciparsi veramente dalla tecnologia vuol dire saltare al di là di questa cultura che l'ha creata.

L’Occidente da solo non lo può fare, e l’Oriente ancora meno: c'è bisogno di un incontro di culture. È qui che si rende indispensabile il dialogo “intrareligioso” co-

me condizione per la salvezza dell'umanità. La mutua fecondazione delle culture è l'unica cosa che ancora potrà salvarci .Non esiste infatti un'alternativa globale, così come non esistono, né forse sarebbero desiderabili, una cultura globale, una prospet-tiva globale, una lingua ed una religione universali, un unico ordine mondiale perfetto, politico o economico. Ci sono solamente alternative provvisorie, secolari e pluraliste.

La nuova innocenza Panikkar non propone un ritorno indietro ad una specie di primitivismo, ad un Pa-

radiso perduto, non ha una visione romantica del passato o della natura. Invita, invece, a trovare una “nuova innocenza”, un modo di conoscere e vivere che non crei con-trapposizioni, dualismi, come quello fra soggetto e oggetto tipico della cultura occi-dentale moderna, e così non ferisca, non manipoli la realtà. Invita cioè a rinunciare a quella volontà di potenza, a quella smania di dominio sulla realtà che ha guidato per secoli l'umanità conducendola sull'orlo del baratro e ad abbracciare una visione del mondo fondata sulla relazione. Per realizzare la nuova innocenza è fondamentale, per Panikkar, ripristinare una relazione "cosmoteandrica" fra le tre fondamentali dimen-sioni della realtà ed una visione contemplativa dell’esistenza.

L’intuizione cosmoteandrica Il divino, l’umano e il terrestre sono le tre dimensioni irriducibili che costituiscono

il reale, cioè qualsiasi realtà in quanto tale. Tutto ciò che esiste presenta questa strut-tura, triplice e unica, espressa in queste tre dimensioni che si generano reciprocamen-te ma non sono riducibili l’una all’altra. Vi è un’unica relazione, benché intrinseca-mente triplice, che esprime la costituzione ultima della realtà: è questa l'intuizione co-smoteandrica. Panikkar è consapevole di riformulare, in questi termini, un principio ben noto alle varie tradizioni spirituali e che egli stesso ritrova, ad esempio, nella concezione cristiana della Trinità o in quella buddhista della pratityasamutpada. La realtà mostra questa triplice dimensione: un aspetto metafisico (trascendente o apofa-tico), un fattore noetico (o cosciente, pensante) e un elemento empirico (fisico o ma-teriale). A livello umano, poi, questo principio si esplica nei tre fondamentali modi di percepire la realtà: l’esperienza sensibile (aisthêsis), l’esperienza intellettuale (noêsis) e l'esperienza sovraconoscitiva e globale che trascende il pensiero (mystika). La vi-sione cosmoteandrica o relazionale della realtà supera sia il monismo sia il dualismo, tanto che potrebbe essere definita non-dualista, ed è il frutto, in ultima analisi, di un’esperienza mistica, e come tale ineffabile, che rimanda ad un dimensione contem-plativa venuta meno con la cultura moderna.

Lo spirito contemplativo Sembra che la nostra società sia mossa da cinque grandi incentivi che sono messi

radicalmente in discussione dallo spirito contemplativo. 1. Il cielo in alto (il qui opposto all’altrove) La vita contemplativa mette in discussione la religiosità tradizionale che troppo

spesso si accontenta di rinviare ad un aldilà i veri valori della vita. I contemplativi

non hanno bisogno del "cielo lassù in alto" poiché per loro la Vita perfetta è presente già qui ed ora: tutto è sacro, ed essi trattano le cose sacre come fossero profane e le cose profane come fossero sacre. Il loro agire non è finalizzato ad ottenere la perfe-zione o qualche ricompensa, la contemplazione non si preoccupa del domani, non de-sidera nulla in più di quanto già possiede: se vi fosse qualcosa da desiderare, signifi-cherebbe che non si è raggiunta ancora la contemplazione. Il contemplativo non è mosso dal denaro, non perché lo disprezzi, ma perché non ne ha desiderio. Per questo una civiltà che esige denaro per vivere è anticontemplativa.

2. La storia davanti a noi (l’ora opposto al dopo) La vita odierna è preparazione per il futuro, per il tempo che deve venire. Tutto è

imperniato sul poi, è proteso in avanti, verso la meta, verso il premio, attraverso u-n'incessante competizione. Anche la religione da soteriologia è divenuta escatologia. Siamo perennemente in movimento, e più in fretta si va meglio è, così da guadagnare tempo. La temporalità ossessiona la nostra epoca; il fattore tempo è l'aspetto della na-tura che bisogna vincere. L'accelerazione è la grande scoperta della scienza moderna. Il contemplativo arresta il corso del tempo, non si interessa del poi ma dell'ora. Anche quando il contemplativo dedica la sua attenzione a qualcosa che concerne il futuro, agisce con una tale concentrazione nel presente che l'atto successivo è del tutto im-prevedibile. Il contemplativo non spera in un'eternità dopo, ma vive l'eternità ora. Non fugge il tempo, ma ne sperimenta la pienezza: ogni istante, ogni ora, contiene in se tutto il passato e tutto il futuro.

3. Il dovere del lavoro (l’atto opposto al prodotto) L'odierna dipendenza dal lavoro sta diventando un'epidemia che contagia tutta

l'umanità. Devi lavorare perché la tua esistenza non ha alcun valore in se stessa; per-tanto devi giustificare la tua vita rendendola utile. Sei reale nella misura in cui lavori e produci. Sarai giudicato in base ai risultati del tuo lavoro. Forse potrai scegliere il tipo di lavoro che ti è più consono, ma non perché in questo modo tu realizzi te stesso, la tua natura, bensì perché, se lavori con piacere, renderai di più e con minor fatica. Non ci si aspetta che tu esplichi la tua vera natura, ma che tu produca, facendo anche qualcosa di diverso da te stesso, qualcosa che possa venire oggettivato ed essere reso accessibile e interscambiabile mediante il denaro. Devi guadagnare ciò che consumi, altrimenti sarai considerato un parassita, un buono a nulla. Ogni cosa ha un prezzo e devi guadagnare abbastanza per pagare quel prezzo. La moneta è ciò che permette la quantificazione di tutti i valori umani e rende così possibile ogni tipo di transazione. Nel mondo tecnologico moderno il lavoro è il primo dei tuoi obblighi: il lavoro di-venta un fine, e questo fine non è la realizzazione dell'uomo, ma la soddisfazione del-le necessità del lavoro. Il contemplativo dà priorità all'attività, non al lavoro, in modo che qualsiasi lavoro dovrà avere significato in sé, altrimenti non verrà compiuto. Il ri-spetto per ogni essere e per la sua costituzione, caratteristico dell'atteggiamento con-templativo, farà sì che ogni atto sia anche una collaborazione e una comunione con le forze vitali della natura, un perfezionamento tanto di chi produce quanto di quel che è prodotto. Inoltre il contemplativo rinuncia ai risultati stessi del lavoro, compiendo ogni sorta di attività per amore dell'atto stesso e non per ricavarne qualcosa, il che non esclude la consapevolezza di compiere opere parziali in vista di un tutto.

4. Il potere delle cose grandi (l’intimità contrapposta all’esteriorità) La mentalità quantitativa moderna privilegia la grandezza: siamo spronati a salire

sempre più in alto in termini di importanza, di potere, di successo; dobbiamo avanza-re per poterci sentire qualcuno, ottenere fiducia in noi stessi ed ispirarne agli altri. Il progresso è un concetto quantitativo: ottenere il massimo è l'ideale. Il contemplativo privilegia la concentrazione, ossia il raggiungimento del proprio centro. È consapevo-le che, se non si è capaci di trovare il centro della realtà in se stessi, si sarà inevita-bilmente protesi schizofrenicamente fuori di sé nel tentativo di raggiungere degli ipo-tetici centri esterni. Ma in questo modo si raggiungerà tutt'al più il vertice, non il cen-tro.

5. L’ambizione del successo (l’essere paghi opposto al trionfo) Ambizione è una parola chiave nel mondo d'oggi, che si traduce, specie in occi-

dente, nel bisogno di successo a livello sociale. Il successo in una società tecnologica è divenuto un valore oggettivato, quantificato, facilmente misurabile in termini di po-tere finanziario. Non si tratta di soddisfazione personale, ma di successo oggettivato. Il contemplativo agisce senza una motivazione esterna all'azione che compie.

Un novenario politico Possiamo sintetizzare il progetto politico di Panikkar in nove punti: 1. Demonetizzare la cultura Il mondo reale non è fatto di prodotti monetizzabili, e ciò non riguarda solo i valo-

ri spirituali, ma anche le realtà materiali. Dover pagare l'acqua, l'alimentazione, e fra poco anche l'aria, è segno di una cultura malata. La monetizzazione di ogni valore culturale è la naturale conseguenza della quantificazione della prospettiva umana. Ma la realtà resta incommensurabile per qualunque intelletto.

2. Demolire la torre di Babele Lo sfrenato potere del mercato concentra tutti i prodotti in un numero sempre più

ristretto di organismi. La tendenza centripeta del nostro tempo è frutto di una conce-zione meccanicistica e quantitativa dei valori culturali. La civiltà tecnocratica tende alla costituzione di un impero mondiale a scapito delle diversità, del pluralismo cultu-rale. In una visione olistica ogni persona, come pure ogni cultura, è il centro della re-altà globale. Noi siamo il centro dell'universo perché, in quanto microcosmo, siamo un riflesso del tutto, e lo possiamo essere solo se non ci attribuiamo una dimensione propria e restiamo aperti ad una circonferenza sempre più grande. Il centro soffoca quando traccia una circonferenza intorno a sé. Allo scopo di decentralizzare la cultura, abbiamo bisogno di individui sempre più integrati e di società umane sicure di sé. Le bio-regioni, intese come ecosistemi relativamente completi, offrono a questo proposi-to un paradigma adeguato.

3. Superare l’ideologia degli stati nazionali Si tratta di evitare sia una nazione-stato di dimensioni gigantesche, sia una prolife-

razione di stati nazionali isolati. Il problema non è solo politico: è teologico. Due de-terminate società possono vivere in un rapporto ontonomico (relazionale) soltanto se vi è un terzo elemento che le coordina, soltanto se esse fanno parte di un tutto che è maggiore delle sue parti, ma che esige il benessere delle parti per poter essere un tutto

armonico. L'impero, che un tempo svolse questa funzione unificatrice, poteva sentirsi sovrano perché si fondava su un principio divino superiore ad esso.

4. Ricondurre la scienza moderna entro i propri limiti Ciò dovrebbe avvenire mediante la scoperta di un vero ordine ontonomico della

realtà. I limiti della scienza moderna sono sia epistemologici sia ontologici, oltre che oggettivi e soggettivi. Nonostante l'appellativo di “scienza”, la scienza moderna non è identificabile con essa nella sua dimensione più ampia, non coglie la realtà in modo integrale. Non ha un intrinseco potere salvifico.

5. Sostituire la tecnocrazia con l’arte Al pari della scienza moderna, la tecnologia ha preso in prestito un termine tradi-

zionale e lo ha rivestito di un nuovo significato. La tecnocrazia rende impossibile al-l'uomo gestire il proprio destino. Il mega-meccanismo preordina, mentre i suoi esperti, dotati di lunga preparazione altamente specializzata, possono solo azionarlo, impo-tenti persino a volgerlo in direzioni e usi diversi da quelli consentiti dai meccanismi interni del sistema tecnocratico. Produzione di armi, inflazione, crescita delle mega-lopoli, trasformazione dell'agricoltura in industria agricola, sono tutte leggi fatali del sistema, per fare solo qualche esempio. Arte è ciò che articola la vita e la unifica me-diante la creazione artistica della persona. Il senso della vita è di fare di ognuno di noi un'opera d'arte. Ognuno di noi dovrebbe essere in grado di esprimere se stesso, di co-struire se stesso in simbiosi positiva con il resto della realtà.

6. Superare la democrazia con una nuova kosmologia L'uomo è una persona, un nodo in una rete di relazioni e non un individuo auto-

nomo. Abbiamo bisogno di elaborare una nuova antropologia; essa però esige un nuova concezione del cosmo, anzi del kosmo, inteso come percezione della realtà. Ogni cultura ha un senso diverso del cosmo. La causa principale della crisi odierna va ricercata nel conflitto latente di "kosmologie", dentro e intorno a noi. Potremo evitare la tirannia solo se si affermerà una nuova kosmologia, una visione cosmoteandrica.

7. Recuperare l’animismo Animismo è l'esperienza della vita in continuità con la natura. Ogni entità naturale

è cellula vivente, parte di un tutto e riflesso del tutto al tempo stesso. Non solo le piante e gli animali sono viventi, ma anche le montagne e le rocce; come lo spirito, anche la materia è vivente. L'animismo è il superamento di tutte le visioni meccanici-stiche e razionalistiche del mondo.

8. Far pace con la terra Nessun tentativo di ripristino ecologico del mondo riuscirà, finché non arriveremo

a considerare la Terra come nostro corpo e il corpo come nostro Sé. Ovviamente "no-stro" non va inteso nel senso di proprietà privata e individuale, come identificazione con un ego psicologico. Il problema ecologico è strettamente teologico e viceversa. Il movimento ecologico non è che un altro modo tecnologico di sfruttamento più razio-nale e duraturo della terra. Pace non significa sguardo idilliaco o idealistico di totale passività. Quando l'uomo segue la natura, non sfrutta, ma cresce e si evolve. La pace con la terra richiede collaborazione, sinergia.

9. Recuperare la dimensione divina

Bisogna superare tutti i teismi: monoteismo, deismo, politeismo, panteismo, atei-smo, cioè qualsiasi concezione che voglia localizzare il divino in un luogo speciale. Sia che questo luogo non esista (ateismo), sia che questo luogo stia al di sopra, al di dentro o dappertutto. La realtà tutta è di natura cosmoteandrica.

Bibliografia di Raimon Panikkar: R. Panikkar, Il silenzio di Dio, Edizioni Borla, Roma 1985, 357 pp. R. Panikkar, La Torre di Babele, Edizioni Cultura della Pace (ECP), Firenze 1990, 190 pp. R. Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza, Cittadella Editrice, Assisi 1993, 184 pp. R. Panikkar, La nuova innocenza, Coop. Editrice Nuova Stampa (CENS), Milano 1993, 193 pp. R. Panikkar, Saggezza, stile di vita, Edizioni Cultura della Pace (ECP), Firenze 1993, 192 pp.