Schiericamente Un Commento Ad Ateismo e Cristianesimo Di don Bruno Forte

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SCHIERICAMENTE: Un commento all’intervista Ateismo e cristianesimo di don Bruno Forte di Salvatore Bellantone 1

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Dopo undici anni, l'autore riprende la celebre intervista "Ateismo e cristianesimo" di don Bruno Forte, per addentrarsi nella questione "Fede, religione, pensiero".

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SCHIERICAMENTE: Un commento all’intervista Ateismo e

cristianesimo di don Bruno Forte

di Salvatore Bellantone

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Premessa

Il Commento all’intervista Ateismo e cristianesimo di don Bruno Forte, nasce sul finire del

2009. Ho conosciuto l’intervista in esame grazie alla dott.essa Patrizia Ferraro – amica e collega

di studi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Messina – con la

quale da anni dialoghiamo e ci scambiamo letture relative alla questione “Fede e ragione”. Tra i

suoi tanti suggerimenti di lettura, l’intervista Ateismo e cristianesimo ha avuto un senso diverso.

Innanzitutto, perché è una questione che ho a cuore da tempo. In secondo luogo, perché giunge

qualche mese dopo il mio lavoro di tesi di Laurea sull’apostolo Paolo, indagato a partire dalla

prospettiva nietzscheana della volontà di potenza.

Don Bruno Forte tenne l’intervista Ateismo e cristianesimo il 7 gennaio del 1998, presso la

trasmissione “il Grillo” di Rai Educational1. Il mio Commento a quest’intervista, che in tal sede

propongo, arriva dopo ben 11 anni. Nonostante la distanza temporale, ritengo importanti le

questioni discusse da don Bruno Forte. Il Commento, infatti, nasce da questa prerogativa:

l’eterna attualità del dibattito non tanto sul tema ateismo e cristianesimo bensì sulla questione

fede e religione (o religioni, se si preferisce), le quali costituiscono due realtà distinte e separate

che raramente si sfiorano in modo sano e costruttivo. In questo senso, al di là del linguaggio

poco accademico e della immediata apparenza, il Commento non si rivolge a singole persone per

screditarle, piuttosto mira a tener vivo il dibattito riguardo al tema “fede, religione, pensiero”.

Scritto nelle sembianze di un’opinione personale, dedico innanzitutto la diffusione del

Commento alla dott.essa Ferraro la quale, a suo modo, ne costituisce l’origine. In secondo luogo,

al dott. Natale Zappalà – amico e collega anche lui della Facoltà di Lettere e Filosofia

dell’Università di Messina – che ha fortemente reclamato la pubblicazione di questo lavoro.

Infine, alle persone per me care, agli amici e a tutti coloro che, se lo riterranno opportuno,

leggeranno quanto segue.

Salvatore Bellantone

1 ? L’intervista in esame si trova sul link: http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=89.

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Senza dubbio, autodefinirsi un “mendicante del cielo” ha qualcosa di poetico. Ma chi è il mendicante? Come dice la parola stessa è “colui che dice con la mano”, che chiede la carità, un barbone, un povero che vaga sulla terra di città in città, di via in via, disperato e speranzoso a un tempo. Disperato, perché ha deciso di stare solo con se stesso, con la propria storia e il proprio passato, con le proprie domande, le proprie paure, rabbia, malinconia, domande, sofferenza, debolezza ecc.; speranzoso, perché sfida in ogni attimo tutto questo e attende qualcosa che gli cambi la vita. Forse aspetta un dono, un’offerta da parte di chi si ferma a guardarlo e gli dà qualche spicciolo – mentre tende la mano in cerca di qualcosa per comprarsi da vivere – che è nascosto dietro quegli stessi spiccioli che riceve: un sorriso, uno sguardo, un gesto con la mano, un dialogo breve ma intenso col quale fare luce intorno alla totalità della propria esistenza passata e interiore e ricominciare nuovamente a vivere proprio da là dove aveva lasciato la propria vita. Quando si dà qualcosa del genere a un mendicante che s’incontra per strada, ci si sente felici, fieri, carichi di gioia per averlo aiutato in qualche modo, con qualche euro, qualcosa da mangiare o qualche parola. Ma alla fine, chi aiuta l’altro, non fa altro che aiutare se stesso. Ecco perché ci si sente tanto felici. Qualcosa ha interagito con noi, ha smosso dentro di noi tutto quel mondo tanto simile a quello del mendicante – che lo ha spinto a fuggire da se stesso, dal proprio passato e dalla propria vita – e c’ha fatto capire qualcosa, c’ha spinto a vivere, amare, sognare, a lottare più di prima. Non incontreremo più quel vagabondo, ma siamo sicuri di aver fatto scattare qualcosa anche in lui che potrebbe cambiare il suo destino e le sue scelte, e siamo felici. Però, mentre noi abbiamo tante possibilità per rivedere noi stessi e la nostra storia che scriviamo a ogni passo che facciamo – perché non viviamo in condizioni estreme come quel mendicante – quell’uomo solitario invece ne ha pochissime e, il più delle volte, preso dalla necessità di sopravvivere, di difendersi dagli uomini e dalle condizioni climatiche, nonché da se stesso e dal mare di ricordi e di sentimenti grigi che riaprono vecchie ferite come fossero nuove, quell’uomo non riesce a trasformare la propria vita a partire dal nostro incontro. Ogni incontro, per lui, finisce per essere un incontro qualsiasi. Per quanto ogni incontro sia intenso e sincero, il mendicante finisce per trasformarsi in un “dimenticante”, perché dimentica quello che ha capito e sentito in quell’incontro e in ogni altro. E torna a vivere come se non c’avesse mai incontrato, in attesa dell’incontro che cambierà la sua vita, di nuovo disperato e speranzoso a un tempo, fino alla fine, alla propria fine e a quella del suo dire-con-la-mano “aiuto”. Spesso questo succede anche a noi. Dimentichiamo l’incontro del vagabondo e l’inizio del cambiamento che avviene in noi a partire da quel momento e torniamo a vivere come prima, se non peggio. Bruno Forte si definisce “un uomo che dice con la mano” però “del cielo”. Quindi un barbone, un vagabondo “appartenente al cielo” (o proiettato verso quella direzione), che vaga in questo mondo per riconoscere i segni nascosti e segreti del divino e vivere secondo quello che i segni celesti stessi significano. Cerca quei segni, pensa assiduamente a essi, domanda di essi. Questa ricerca, riflessione, interrogazione del divino, a un certo punto della vita, si trasforma nel suo opposto speculare: la ricerca diviene un trovare, il pensare diviene un contemplare, il domandare diviene ottenere delle risposte. E tutto questo provoca nella vita un’estrema metamorfosi che è il fare esperienza di quei segni celesti, incontrarli e per mezzo di essi, incontrare e fare esperienza del dio vivente: il Cristo. Bruno Forte dice, in sintesi, che da quel momento ha iniziato a fare esperienza della propria fede nel Cristo. È nell’ottica di questa fede che si accresce il suo desiderio di pensare. Non vuole conoscere più ciò che definiamo “mistero, ignoto, segreto” bensì, citando il pensatore Paul Evdokimov, vuole illuminare la propria coscienza a partire dal mistero del dio vivente di cui ha iniziato a fare esperienza, a partire dalla fede. Vuole pensare secondo l’ottica di dio. Che cosa? L’argomento centrale della sua riflessione diviene adesso quello che accomuna tutti (credenti e

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non), il viaggio della vita assieme alla sua direzione ultima e al verificarsi di questo momento ultimo: la morte. La questione della vita e della morte chiama in causa, naturalmente, quella dell’identità di ogni singolo uomo (ci si riferisce a un video, che non possiedo, proposto ad alcuni ragazzi per farli pensare a queste domande). Questa è la domanda centrale cui Bruno Forte vuole rispondere.

Bisogna precisare che, diversamente dal mendicante terreno, il mendicante del cielo dice con la propria mano “ti aiuto”. Definendosi tale, Bruno Forte vuole aiutare coloro che incontra nel proprio vagabondare terrestre e che si fermano assieme a lui, offrendogli del tempo. Nel contesto della dichiarazione di fede nel Cristo che fa nelle prime righe di questa intervista, l’aiuto che vuole fornire ai “passanti” si dà, ovviamente, nella prospettiva della fede cristiana (secondo la sua esperienza personale). Ma con la propria retorica, Bruno Forte nasconde magistralmente che è in questa traiettoria che vuole rispondere alla domanda in esame. Prima di vedere in che modo snoda la questione e dove vuole arrivare, è necessario “cogliere” il senso della definizione “mendicante del cielo” e il “silenzioso paragone con il mendicante terreno” che Bruno Forte fa, riferendo a se stesso. Se il mendicante terreno è ciò che sta scritto sopra (e quello che non c’è scritto e che aggiungerebbe qualcun altro), allora il “mendicante celeste” possiede le medesime caratteristiche. Quello che accomuna entrambe le figure è, prima di tutto, il fatto che entrambi sono “uomini” (e non un terrestre e un marziano). Il mendicante del cielo è un uomo che vaga sulla Terra disperato e speranzoso come quello terreno però, diversamente dall’altro, non chiede aiuto: lo offre. È disperato, come quello terreno, perché ha deciso di stare solo con se stesso, con la propria storia e il proprio passato, con le proprie domande, le proprie paure, rabbia, malinconia, domande, sofferenza, debolezza ecc. É speranzoso, perché sfida in ogni attimo tutto questo mediante la fede nel Cristo. Il mendicante celeste vuole donare a chi gli concede tempo un sorriso, uno sguardo, un gesto con la mano, un dialogo breve e intenso, per fare luce intorno alla totalità dell’esistenza passata, interiore e futura dei passanti, attraverso la fede nel Cristo. Ciò che il mendicante celeste dona all’altro (passante) lo fa gratuitamente perché la gratuità è uno degli elementi che caratterizza il credo cristiano. Il genere di aiuto che offre è donare la testimonianza della fede: è questo e soltanto questo che il mendicante del cielo può donare, al fine di provocare nell’altro il risveglio o l’inizio della fede nel Cristo. Nel far ciò, si sente felice, gioisce, si sente appagato perché mette in pratica l’evangelo cristiano. Ma, di fatto, il proprio rallegrarsi non è altro che il continuare ad aiutare se stesso, mediante la fede nel Cristo. L’altro (passante), al quale offre il dono della testimonianza della fede, rappresenta per il mendicante celeste l’unico tramite per concretizzare e attuare la propria fede e, in questo modo, “guarire” dal proprio passato, da se stesso e da tutti quei sentimenti che agiscono negativamente sulla propria persona. In breve, nel salvare l’altro, alla fine, l’altro salva il mendicante del cielo da sé. In questo senso, nella prospettiva della fede, la testimonianza della propria fede nel Cristo che il mendicante celeste attua, è l’unica terapia efficace per guarire se stesso dallo stato di malessere che abita in lui. In estrema sintesi è: sopravvivere. L’ottenimento della vita eterna che scaturisce dalla sua fedeltà all’evangelo cristiano – fedeltà che si dimostra nell’attuare la fede così com’è stabilita – è un interesse secondario rispetto allo stato di benessere di cui gode dal momento stesso in cui comincia a testimoniare la fede nel Cristo in poi. Quando il benessere svanisce – e prevale di nuovo il malessere di sé e del proprio passato – il mendicante celeste ha bisogno di nuovo di andare a testimoniare la propria fede nel Cristo e così guarire ancora una volta da sé. E così via. In breve, se non ci fosse l’altro (passante) ad ascoltarlo, il mendicante del cielo sarebbe spacciato: morirebbe o si perderebbe in preda allo stato di malessere che dimora in lui. Sarebbe senza cura, senza farmaco (oggigiorno pochissimi sono i “testimoni” che vagano di città in città “per curare e curarsi” – come prevede l’evangelo – e la terapia di sé per mezzo dell’altro avviene nei confessionali delle chiese – cosa che l’evangelo non prescrive). Infine, una volta che il mendicante celeste “sta bene” per aver curato l’altro, quest’ultimo non è più necessario e può essere dimenticato tranquillamente, perché quello che interessa al

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mendicante del cielo è il benessere auto-suscitatosi per mezzo della cura dell’altro. Trovato il benessere, addio all’altro o, come si dice da queste parti, chi si è visto si è visto.

Chiuso questo breve chiarimento del paragone tra mendicante celeste e terreno, si può riprendere l’analisi del modo in cui Bruno Forte snoda la questione dell’identità di ogni singolo uomo (svolta silenziosamente nell’ottica della fede cristiana), della vita e della morte. Segue la visione di un filmato. La prova che la prospettiva assunta da Bruno Forte è quella della fede – quindi la sua posizione non è neutrale come vuol far credere – è il filmato stesso. Dal momento che manca in tal sede, bisogna rifarsi alla trascrizione di esso:

“PRESENTATORE: Il credente è pensoso. Pellegrino nella notte della fede, non dovrebbe mai dimenticare che ha a che fare con il Dio vivo. L'oggetto del suo indagare, prima di essere qualcosa, deve essere riconosciuto come qualcuno, che, rivelandosi, non si è soltanto detto, ma si è più altamente taciuto. Rivelandosi Dio si vela, comunicandosi si nasconde. Lottare con questo Dio è, al tempo stesso, la debolezza e la forza del credente, dove Dio inquieta, come l'assalitore notturno dell'esperienza di Giacobbe al guado, lì l'uomo è veramente interrogante e vivo nella sfida. Lungi dall'essere un'ideologia rassicurante, la fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando, ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare e proprio per questo di esistere per gli altri. Si può allora affermare che il credente non è che un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. E non sarà anche l'ateo un credente che ogni giorno vive la lotta inversa di cominciare a non credere? Non certo l'ateo banale, volgare, ma chi vive la lotta vera con coscienza retta, chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce l'infinito dolore dell'assenza di Dio, non sarà l'altra parte di chi crede? E se c'è una differenza da marcare, non sarà dunque quella tra credenti e non credenti, ma l'altra, tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza del pensiero, di continuare a cercare per credere, sperare ed amare e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentate dell'orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia, al pensiero dell'ultimo orizzonte e dell'ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, è degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della verità e il coraggio di tendere ad essa fino alla fine, oltre la fine.”

Stando alla trascrizione del filmato, vien da chiedersi: l’argomento in questione è l’identità umana, la vita e la morte in una prospettiva neutrale per credenti e non credenti – come Bruno Forte afferma sopra – oppure la fede? Perché snodare la questione sopra posta nell’ottica della fede? Adottare uno scenario del genere non significa, forse, politicizzare la questione? Portare l’acqua al proprio mulino? Che tipo di discorso neutrale può seguire se l’argomento in questione sembra essere la fede anziché l’identità umana, la vita e la morte? In hoc signo vinces! Non è il caso di commentare la trascrizione sopra riportata. Quest’ultima dimostra che Bruno Forte non affronta neutralmente i temi dell’identità dell’uomo, della vita e della morte, ma esclusivamente il tema della fede, del credere “dalla prospettiva della stessa fede”. Affrontando questo argomento “a parte presa”, Bruno Forte crea genialmente una connessione tra ateismo e fede nel Cristo, per mettere in evidenza che il credente «non è che un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere», mentre l’ateo è «un credente che ogni giorno vive la lotta inversa di cominciare a non credere». L’ateo sarebbe «l'altra parte di chi crede». Ma quale ateo? Non quello banale, non quello volgare, afferma Bruno Forte, «ma chi vive la lotta vera con coscienza retta, chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce l'infinito dolore dell'assenza di Dio». Mio caro Bruno, ci sono atei e atei. Lei giustamente fa di tutta un’erba un fascio, però deve capire che nella vita esiste la diversità e la molteplicità. In questo senso, esistono degli atei “cristiani” – come il sottoscritto – che vivendo la lotta con coscienza retta, cercano dio, lo trovano e, avendolo trovato, non possono patire nessun dolore infinito per via della sua assenza.

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Questi atei che, diversamente da quanto Lei afferma, hanno trovato dio lottando vivamente con coscienza retta, “pensano” che il dio di cui stiamo parlando non coincide con quello cristiano, ma nemmeno con quello indiano, musulmano, ebraico, are krishna, taoista, buddista, scintoista e chi più ne ha più ne metta. Piuttosto, è un dio che trascende ogni singola religione di umana fattura, vale a dire sconfina da qualsiasi limitazione possa dargli l’essere umano. Se questo dio definisse il proprio volto secondo le caratteristiche che gli danno gli uomini, sarebbe un dio multicolore, multiforme, multifaccia. A meno che, giudicando la questione dell’identità del divino all’interno della rispettiva religione d’appartenenza, non si affermi “il vero dio è di carnagione rossa, con le trecce verdi, gli occhi fucsia, il naso piramidale, la bocca ottagonale ecc., mentre quello degli altri è sbagliato. È giusto solo il nostro.”. In altre parole, i credenti di ogni singola religione considerano “vero” il proprio dio a scapito di quello degli altri culti. In questo modo, tutti degradano il dio altrui e tutti si ritengono gi unici possessori della verità del volto di dio. E dio, che è dio, può andare appresso a noi? Possibile che dio “si trucchi” simultaneamente così come noi, per ogni religione a un tempo, ci sforziamo di credere che sia? Naturalmente, il dio vivo e la verità di cui Lei parla sono intesi esclusivamente secondo una prospettiva cristiana. Ma vi sono alcuni atei – come il sottoscritto – che si definiscono tali in quanto pensano che nessuna religione può rappresentare veramente il volto di dio. Dio è per tutti o per nessuno. È assurdo pensare che dio è dio soltanto per alcuni mentre per chi non crede nel preciso canone di un determinato culto non lo è. Dio, se c’è, non si pone il problema del proprio volto, di regole e comandamenti. È assurdo pensare, ad esempio, che quando si elegge il papa, dio, che è in ogni cardinale e vota per mezzo di ogni cardinale, si pone il problema “umano, troppo umano” di far risultare alcuni voti per uno e alcuni voti per un altro candidato, altrimenti la votazione non è valida. Dio non ha di questi problemi, ma và al di là dell’uomo e, in questo senso, è impossibile conoscere quel che pensa, come pensa ecc. Se poi un credo dice: “Dio ha parlato, ha stabilito questo, quest’altro e quest’altro ancora…”, è un problema del credo stesso e dei credenti, non di tutti gli uomini che possiedono altre convinzioni religiose o non credono in nessuna religione. Secondo lei, la differenza non è tra credenti e non credenti, «ma l'altra, tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza del pensiero, di continuare a cercare per credere, sperare ed amare e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentate dell'orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia, al pensiero dell'ultimo orizzonte e dell'ultima patria». Quindi chi si sforza di pensare una ragione per credere nel Cristo, possiamo dire, “è una brava persona”, mentre chi non fa questo o si ferma o si accontenta della risposta negativa finora trovata “è un cretino”. Scusi un attimo: che dire di tutti gli atei che, affrontando coraggiosamente la lotta del pensiero, lo studio della storia politica dell’umanità e delle religioni, ritengono il dio di ogni religione un’invenzione del rispettivo iniziatore o di un manipolo di successori al fine del potere, delle ricchezze e della degustazione delle terrestri beatitudini? È ovvio, anche questi “sono cretini” perché rifiutano di pensare la verità cristiana – che in termini cristiani si dice: “abbandonarsi alla fede nella verità rivelata a Tizio, Caio e Sempronio”. Questa differenza mi fa ridere e preferirei si fermasse alla differenza precedente tra credenti e non credenti. In una cosa le do ragione, l’uno è l’opposto speculare dell’altro e non può vivere senza l’altro, «l'uno è parte viva dell'altro». Ma quest’asserzione va inserita in un contesto più ampio. Se esistono credenti cristiani, ebraici, musulmani, indiani ecc., allora esistono anche non-credenti relativi a uno specifico credo, dunque atei-cristiani, atei-ebraici, atei-musulmani, atei-indiani ecc. La Sua tendenza è simile a quella di un qualsiasi altro credente di qualsiasi altra religione: ridurre tutto alla sola prospettiva religiosa d’appartenenza. Che onestà intellettuale! Se esistono tutti questi atei relativi alla religione tradizionale, etnica o culturale in cui si cresce, è possibile che esistano atei di ogni religione? Che hanno letto qualcosa o praticato altre religioni e, continuando a pensare alla questione del dio, hanno deciso che nessun credo possieda la verità sul dio? Se questo è possibile, deve rivedere le Sue interpretazioni, non solo quelle presenti nel testo dell’intervista sotto esame. Lei sostiene che non è possibile pensare un ateo

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totale e universale: «credo che nessuno, seriamente pensante, oserebbe fare l'affermazione così totale e universale, che Dio non c'è». Ma chi glielo dice? Ha conosciuto tutti gli abitanti del pianeta? Gliel’ha detto il Suo dio? Chi è “seriamente pensante”, come Lei dice, nel risalire all’origine di ogni cosa, arriva a un bivio: da un lato, immagina che il mondo è stato creato da dio; dall’altro, pensa che il mondo si è auto-creato. Queste varianti significano che in principio o c’era dio o c’era niente. La tradizione ha discusso per secoli questo problema e ha considerato “sensata” la prima ipotesi a scapito della seconda. “Ci dev’essere per forza un essere superiore, antecedente al mondo e con poteri infiniti per creare il mondo! È assurdo pensare che dal niente possa nascere il tutto, senza l’intervento di un qualche essere superiore, dunque senza l’intervento di dio!”. Così si giudica la questione. Ma è lecito pensare che dal niente si generi il tutto? Che l’essere superiore/creatore del mondo non è quello cristiano e di nessun’altra religione? Che esistano tante divinità? Che questo mondo è infinito? Che è stato creato da extraterrestri? Che è sorto con il big-bang ecc.? O sono tutte sciocchezze e il mondo è stato creato dal dio cristiano punto e basta?! Allo stesso modo, è “follia, stupidità” pensare che non siamo razionalmente capaci di saperlo e possiamo soltanto ipotizzarne la nascita? Il credente, di qualsiasi religione, sa com’è sorto il mondo perché glielo dice la propria fede, nella quale deve credere ciecamente, altrimenti non è fede ma soltanto una “personalizzazione spietata della religione per scopi personali e a volte anche ridicoli”, ad esempio per dire: “Ho ragione io, tu no”. Ognuno è libero di pensare e di credere in quello che vuole. Quello che mi spaventa, è che proprio Lei, Bruno Forte, si è messo a dare responsi a questi ragazzi che l’hanno intervistata, facendoli smarrire nel pregiudizio retoricamente mascherato che, dal testo dell’intervista, sembra caratterizzarla! Spero di sbagliarmi e di leggere male! Magari di persona lei non dice queste cose, magari ha cambiato idea…o forse ne dice di peggio?! Mah! Mi auguro di no! Comunque, andiamo avanti. Escludendo la bocciatura dell’ateismo radicale che Lei giudica “banale”, fortunatamente afferma «credo che oggi la passione, la fatica sia piuttosto quella dell'agnosticismo, cioè della fatica di conoscerlo, della fatica di aprirsi alla sfida del mistero. Ma anche il credente in qualche modo è un agnostico, nel senso che anche nel credente c'è una dimensione profonda di oscurità e di mistero. Guai se il credente pensasse di avere tutto chiaro e di avere la risposta pronta per tutto». Già! Se si considera la religione nel suo volto giuridico-istituzionale, dunque come uno Stato dentro lo Stato – è questo il caso del cattolicesimo – il credente deve agire secondo i dettami delle leggi religiose cui appartiene, altrimenti non è un buon credente. Se invece la si considera nel suo aspetto dogmatico-cultuale, vale a dire come “fede in una precisa verità”, il credente deve “credere” obbligatoriamente nella verità rivelata e riconosciuta dai gestori della propria religione, altrimenti non sarebbe un buon credente. Quindi, tutto quello che il sacerdozio di una specifica religione stabilisce come verità – rivelata o convenuta – è la dottrina stessa che fa si che esista quella religione specifica. Se non si crede a questa verità, non si è credenti. Il fatto che una verità religiosa sia tale, implica l’edificazione di una teoria generale dell’esistente con la quale tutto l’esistente stesso è spiegato, dall’inizio alla fine. In questo senso, il credente deve necessariamente pensare di avere tutto chiaro, secondo la dottrina stessa che impara, riceve e in cui crede (verità religiosa). Se poi, mio caro Bruno, Lei afferma che il credente non deve pensare di avere tutto chiaro e la risposta pronta a tutto, allora riconosca in minima parte l’origine e la dipendenza “umana, troppo umana” dell’affare religione – naturalmente lei si riferisce alla Sua, quella cristiana – l’impossibilità di spiegare la totalità dell’esistente – altrimenti non si spiegherebbero i miracoli e le varie apparizioni di santi sparse sulla faccia della Terra – e, con stupore del sottoscritto, ammetta che anche nella fede c’è bisogno del buon senso. L’agnosticismo pensa che non è possibile conoscere dio. Se lei afferma che il credente dev’essere un agnostico, non si rende conto di quel che dice. In questo modo, Lei sostiene che il credente deve essere consapevole che non è possibile conoscere dio. È naturale, qui non s’intende che un giorno, per strada, un credente è fermato da un altro che gli porge la mano e gli dice: “piacere, sono dio!”. Però, se la radice della parola “conoscere” implica la “visione chiara”

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da cui scaturisce la sapienza, dire che il credente è un agnostico significa che non può giungere alla visione della verità della propria fede. Quindi, dicendo questo, Lei rischia di negare i miracoli, le apparizioni dei santi e compagnia bella, rischia cioè di negare il simbolo per eccellenza della fede cristiana, che può essere visto sia qui e ora nelle chiese, nelle scuole, nelle case ecc.; sia spiritualmente tornando indietro con l’occhio interiore (dell’anima) – o del pensiero, se si vuole – sino al momento della sua suprema manifestazione: la crocifissione e resurrezione. Se fossi in Lei, eviterei di dire che il cristiano è un agnostico, perché in questo modo non solo si nega al credente la possibilità di avere visione della verità rivelata della fede cristiana, ma soprattutto si rifiuta il cuore pulsante di tutto il cristianesimo: il Cristo morto in croce e risorto. Se il cristiano è un agnostico, allora non può conoscere dio, ossia non può accettare che dio si è manifestato all’uomo nel mondo per mezzo del proprio figlio, morto in croce e risorto. Dire che il credente è un agnostico è la fine della fede cristiana. Per fortuna (la Sua, mio caro Bruno), la ragazza (Marta) a cui ha risposto non ha capito le conseguenze allucinanti della Sua asserzione! Beh, io direi peccato… Povera Flavia, le chiede cosa ne pensa della differenza tra credenti praticanti e non, e Lei, non sapendo cosa dire, si mette a parlare delle ideologie e del secolo breve? Temeva forse di dire qualcosa che avrebbe allontanato il giovane uditorio dalla Sua propaganda cattolica? Aveva paura che condannando i non praticanti, l’uditorio l’avrebbe condannata e le avrebbe detto: “Arrivederci, prete come tutti gli altri!”?! Ma i giovani non sono così stupidi. Per questo motivo, il Suo silenzio riguardo ai non praticanti è stato comunque inteso come una risposta, e precisamente negativa. Davide le pone una domanda molto sensata: “l’ateismo è una fede rovesciata?”. Lei riconosce che è vero, però torna a fare l’errore di prima pensando che esiste un solo ateismo – e non molti, tutti diversi tra loro – considerandolo “una condizione di infinito dolore dell’assenza di Dio”. Ho già risposto al riguardo e non voglio tornare in merito. Quando parla di ateismo, Lei sembra un gattino che gioca col proprio gomitolo di lana… Quello che mi sorprende è che, finalmente, Lei accenna (almeno) ai temi del senso della vita e della morte di cui si era dimenticato. Peccato che lo fa a proposito dell’ateismo, sostenendo che l’ateo accetta l’indifferenza nei confronti di questi grandi temi ad opera dei giovani. Vale la pena ricordarle che, esistendo molte tipologie di ateismo, non è detto che tutti accettino la dimenticanza dei giovani di porsi delle domande relative alle cose ultime? Certo che ne vale la pena! Esistono degli atei – come il sottoscritto – i quali pensano che le questioni del senso della vita e della morte non siano argomenti risolvibili esclusivamente secondo le interpretazioni fornite dalle varie religioni, ma è possibile farlo anche al di fuori di esse. Quello che accomuna le religioni è che tutte risolvono le domande intorno alle cose ultime proiettandosi verso dio (naturalmente ciascuno al proprio). Alcuni atei pensano che è possibile rispondere a queste stesse domande in maniera diversa, vale a dire evitando di volgere lo sguardo verso dio. In altre parole, pensano che il senso della vita e della morte non solo non è presente dentro le cose – come vuole ogni teologia – ma non esista affatto. Ogni essere umano è libero di stabilire da sé il senso di tutto altrimenti perderebbe senso la vita stessa e la libertà umana (ammesso che esista. D’altronde, da cosa dovremmo essere liberi?). Gli uomini, l’universo intero, gli avvenimenti piacevoli e spiacevoli, tutto è privo di significato. É il singolo uomo che lo stabilisce, basandosi sui propri sentimenti, sul proprio modo di ragionare, sul proprio tempo, sulla propria storia e così via. Ognuno è libero di stabilire che senso ha vivere o morire, però quando si fa parte di una comunità/società è necessario porre dei paletti oltre i quali le convinzioni di alcuni a proposito della vita e della morte non vadano in contrasto con quelle di altri, provocando il caos e la distruzione della stessa comunità/società. A questo punto necessita, mio caro Bruno Forte, fare un chiarimento (visto che Lei non esplicita mai la sua posizione). Quello di cui si lamenta, di fatto, è che i giovani non si pongono queste domande “per risolverle secondo la prospettiva cattolica”. Quindi, la Chiesa non fa proseliti. Tuttavia, chi glielo dice che i giovani non si pongono queste domande? Li conosce tutti i giovani? Perché deve sempre generalizzare? E se molti giovani adottassero una soluzione

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all’enigma delle cose ultime diversa da quella che lei propone? E se molti pensassero che il senso della vita e della morte non esiste? Se pensassero che è il singolo uomo a plasmarlo e a conferirgli valore in modo personale? Che sono gli uomini a crearlo e ad attribuirgli validità per le società che abitano? In sintesi, se ritenessero più vera questa ipotesi anziché quella delle religioni, compresa la sua? In breve, mentre Lei non accetta che i giovani possano pensarla diversamente da Lei e da santa romana chiesa, gli atei come me accettano l’idea che qualcuno la pensi diversamente e creda fortemente in quello che pensa. I giovani, mio caro Bruno, la sanno lunga e non sono così ignoranti e stupidi come Lei crede, ma sono molto svegli e sanno riconoscere chi li prende per i fondelli e chi no. Naturalmente, non tutti. Alcuni si lasciano abbindolare dai classici discorsi da prete, altri studiano, si fanno una propria opinione intorno a molte cose (comprese quelle ultime) e, quando si trovano le solite risposte bell’e pronte, non perdono tempo nemmeno a sbadigliare. Piuttosto, si ricaricano di energia per stabilire da sé il senso di tutto e costruire un mondo migliore rispetto a quello fatto dai politici e dai preti di ogni religione. Infine, e qui le do ragione, ci sono anche quei giovani che se ne fregano non solo delle ultime cose e del senso della vita e della morte, ma di tutto. In questo caso, la colpa non è degli atei né dei preti ma di nessuno. Chi è ben pensante, riconosce che può esistere anche questa posizione, questa decisione. Il problema riguarda, però, chi non è stato artefice della propria decisione di astenersi da ogni domanda intorno alle cose ultime ecc. Beh, quello che Lei deve capire è che nessuno ha il diritto (o il dovere) di andare da questi ragazzi e fargli la predica per fargli cambiare idea! Non solo non può il prete, ma nemmeno l’ateo. Ognuno è libero di pensarla come vuole. E quando questa decisione la si è subita e assorbita indirettamente, il problema non è nostro ma del diretto interessato. A noi, preti e atei, tocca solo essere pronti a fornire la nostra personale visione delle cose nel caso in cui qualcuno ce lo chiede. Se non ce lo chiedono, lasciamoli in pace! Inoltre, a noi tocca pensare all’educazione dei giovani, là dove ci è concesso, e far sì che qualcuno si ponga queste domande. Punto! Uno studente anonimo le chiede a proposito di coloro “che hanno cercato e non hanno trovato” e Lei ha bisogno di fare un giro di parole intorno alla scrittura e alle sacre scritture – da buon prete – per sottolineare che la ricerca del divino avviene solo ed esclusivamente nelle/a partire dalle sacre scritture. Quanto è neutrale signor Bruno! Per quanto alcune persone sono disposte all’apertura e alla ricerca – e questo fortunatamente lo riconosce – spesso, come Lei dice, non sono toccate dalla grazia, vale a dire non trovano dio né la fede. Lei dice che è un mistero che non riesce a comprendere ma, di fatto, non si espone, per una questione di autodifesa fideistica. Dal punto di vista religioso, la fede non è qualcosa che l’uomo trova da solo, ma è un evento incalcolabile che avviene malgrado l’uomo: è dio che, gratuitamente, si svela all’uomo, donandogli, sempre gratuitamente, la fede. Da teologo cattolico, naturalmente, Lei intende la fede e l’incontro con dio in questo senso. Ammettere che entrambi possano avvenire diversamente da come voi preti legiferate, significherebbe riconoscere che non possedete la verità di tutto e che non avete il monopolio del sacro. In breve, che il singolo non ha bisogno di intermediari per raggiungere o sfiorare soltanto dio. E questo provocherebbe la fine della categoria degli ecclesiastici di ogni specie. Perciò Lei si accontenta di dire che dio si trova come voi prescrivete. Tuttavia, ci sono queste persone che cercano dio al di fuori delle religioni. Alcune lo trovano, altre no. Per alcune il volto di dio coincide con l’immagine fornita da questa o quella religione, per altre non corrisponde affatto con il dio di nessuna religione. Quelle persone poi, che non lo trovano pur avendolo cercato, sono da condannare? Magari trovano qualcos’altro: l’amore, la giustizia, il sacrificio, la speranza e tante altre motivazioni che li spingono a vivere per costruire un mondo migliore per tutti. Naturalmente, ci sono anche quelle persone che non cercano e quelle che al posto di dio e di motivazioni positive trovano altre ragioni della vita: la guerra, il potere, la ricchezza, il successo, il dominio del pianeta o dell’universo ecc. Per quanto anche queste persone, in teoria, meritino di essere rispettate, tuttavia ciò che hanno trovato nella loro ricerca li spinge a originare un comportamento, un modo di esistere che, in pratica, lenisce la libertà e i diritti altrui, contribuendo in vari modi a rendere questa vita un inferno. Dal momento che non esiste una verità assoluta delle cose – questa è la posizione di alcuni atei come

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il sottoscritto – ognuno è libero di cercare o di non cercare, e di trovare quello che reputa meglio. Però, se non si contribuisce in qualche modo a rendere i giovani consapevoli della ricerca e della più serena, raziocinante e neutrale modalità del cercare – e il contributo riguarda preti e non – si corre il pericolo che in futuro sorgano altri Hitler, Stalin e altri tiranni come quelli della nostra storia. Per questa ragione, l’importante non è, ai miei occhi, giungere alla conoscenza del dio, ma educare i giovani di ogni tempo alla libertà e al rispetto di tutti, al buon senso e alla serenità del pensare. Ovviamente, se Lei proponesse questo correrebbe il rischio di distruggere la sua chiesa…per questo motivo, Lei non dice affatto una cosa del genere e preferisce difendere la casacca… Anche Veronica le fa una bella domanda – “chi è il vero credente?” – ma Lei, naturalmente, deve mettersi a giocare con etimologie fasulle per fare colpo sull’uditorio…il vero credente è Giacobbe? Solo perché lotta con l’angelo? E che dire di Abramo? Non le piace? Strano, dal momento che Lei interpreta il concetto di verità all’ebraica, da emet, e non alla greca, da aletheia. La verità sarebbe fedeltà? E Giacobbe è più fedele di Abramo? Possibile che Lei non sa scegliere nemmeno le Sue “icone”? La verità, ai suoi occhi, sarebbe non qualcosa che si possiede, ma qualcuno che ci possiede: dio. Quindi, la verità è una possessione? Basta lasciarsi possedere da dio e si è nella verità? E la si conosce? – Peccato mi vengano proprio in mente l’inquisizione, le crociate, la caccia alle streghe, il potere temporale dei papi, la donazione di Costantino ecc. – In questo contesto, tutti i crimini commessi dagli ecclesiastici nel corso della storia, non sono opera loro, ma di dio che li possiede e li fa essere nella verità? Dio stesso, dunque, avrebbe commesso queste azioni nefande contro il genere umano per mezzo di coloro che ha posseduto? La verità, in questo senso, è tutto lo scempio che è accaduto nel corso della storia ad opera del clero, posseduto da dio? In altre parole, a dio piacerebbe commettere tutto quello strazio? Uccidere persone che la pensano diversamente, che “lo” pensano diversamente? Che hanno voluto vivere libere? Che hanno voluto conoscere, sperimentare, aiutare, credere diversamente da quanto dice santa romana chiesa, cioè dio (perché dio possiede santa romana chiesa)? Se lei intende questo, ho il voltastomaco! Ah! No! Lei dice la verità è un patto, un rapporto con dio. Ecco perché preferisce Giacobbe ad Abramo. Abramo fa tutto quello che dio gli comanda, credendogli senza dubbio alcuno. Giacobbe invece lotta con l’angelo, perché ha dei dubbi, ma alla fine cede dinnanzi alla forza del divino e si abbandona a lui. Mentre Abramo renderebbe l’idea di un credente che non si fa mai domande, troppo obbediente – il gioco non vale la candela, che senso avrebbe dio se il credente facesse tutto quello che gli è detto, senza mai trasgredire o avere ripensamenti – Giacobbe rappresenta una tipologia di credente che resiste, si pone delle domande, vuole vincere contro dio ma alla fine deve “ri-conoscere” che dio è troppo forte e non può avere la meglio su di lui. “Ah! quanta goduria per aver vinto la battaglia! Hai visto…” – questo direbbe dio – “…quanto sono forte? Guarda che muscoli! Chi è il miglior culturista del mondo se non io?” O meglio, se non il prete di turno?! E sì, mio caro Bruno Forte, perché questo nascondono le Sue risposte retoricamente costruite! Il prete ha bisogno di godere, di provare benessere, di salire al settimo cielo e su, ancora più su, per dirsi: quanto sono bello, forte, ingegnoso, sapiente, astuto, attore ecc.! Il miglior credente è chi all’inizio sta sulle difensive e poi si lascia andare ai responsi dei sacerdoti, affidandosi completamente a loro e infondendo in loro il benessere che tanto desiderano provare e riprovare e riprovare ancora finché morte non separi prete e benessere! Ma se la verità è un patto, un rapporto, non è meglio guardare ad Abramo piuttosto che a Giacobbe? Abramo compie l’alleanza con dio: lui promette di aver fede, dio promette a lui la discendenza, la terra promessa e di non dimenticare più i rubinetti aperti, provocando il diluvio; inoltre, l’uno promette all’altro e viceversa di aver fede nell’altro. In questo senso, non sarebbe meglio scegliere Abramo? “E no, caro ateo!” – Lei mi risponderebbe – “Come posso io, super-prete, aver fiducia nel credente?! Lui, piuttosto, dopo un po’ di lotta e di corteggiamento, deve rimettere tutta la sua fiducia in me! Deve abbandonarsi a me, sicuro di non potermi vincere! Sicuro che le cose stanno così come dico io! È il credente che si deve accordare con me, ma sono io a dettare le condizioni! Forse siamo mica uguali, che io sto alle sue condizioni come lui sta

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alle mie?! Io sono un superprete! Il più bello! Il più capace! Il più! Mica sono un rabbino o un mullah o un monaco tibetano! Però, se si abbandona lo prendo per i fondelli dicendogli: vince chi perde, mica vince chi vince! Capito credente? Hai vinto tu!”…e di fatto, queste belle parole dimostrano il contrario, che ha vinto il prete e il credente ha perso e basta la battaglia per la propria dignità e libertà dai preti! Dica la verità, mio caro Bruno: non è proprio questa la ragione per cui Lei si rifà a Giacobbe?! Non è proprio questo il dio che sente dentro di Lei e con cui è in rapporto giorno e notte? Non è lei stesso il suo proprio dio?! Ma allora, la verità è il lavaggio del cervello che Lei fa a tutte le sue pecorelle! È il sistema chiaro e perfetto che con la Sua dote da strasapiente affina in ogni istante! La verità è la possessione che Lei opera sui suoi credenti! Se è così, il vero credente, allora, è un “credulone”, mentre la verità è l’infinita favola che Lei e i suoi compagni ecclesiastici inculcate agli uomini da millenni, rincitrullendoli più di quanto già lo siano (riferito a chi si lascia persuadere dalle sciocchezze dei preti)! Beh, se così stanno le cose, mi spiace che questi ragazzi abbiano continuato a farle delle domande, perché le hanno dato la possibilità di perfezionare l’immortale superfavola detta “cristianesimo”! È questo che le ha fatto pensare ogni domanda dei ragazzi! Ma ogni cosa ha il proprio tempo e, come vede, è finita la pacchia! Dal momento che non si fa capire – da precisare, solo coi ragazzini si può mettere fare il colto e costruire i suoi lunghi giri di parole coi quali non si capisce di cosa si sta parlando, se di carne o di pesce – Stefania le chiede “chi è l’ateo?” (ormai i temi del senso della vita e della morte possono andare a dormire nel freddo letto dell’oblio). Lei continua, secondo la Sua personale prospettiva “neutrale”, a generalizzare e a lavare il cervello dei ragazzi: «Se per ateo si intende colui che presuntuosamente nega Dio, dice: "Dio non c'è", - beh, la Bibbia ne ha dato la definizione - “è solo lo stolto che dice così”». Ai Suoi occhi, dunque, l’ateo presuntuoso o meno sarebbe uno stupido? Chi, invece, non è stato sfiorato da dio stesso – perché è dio che concede il dono della fede, non è l’uomo che razionalmente si convince dell’esistenza di dio, sperimentandone la presenza nel creato – è un sofferente, un uomo di cui avere compassione, pietà. È facile porla in questi termini! Convincere gli uomini che l’esperienza di dio – e della fede – è una speciale concessione operata da dio stesso, significa svilire quello strumento che Lei tanto celebra e pone a fondamento della sua distinzione tra credenti e non credenti: il pensiero. “L’uomo, per quanto pensi e si scervelli, non è capace di giungere all’idea di dio, non è capace di pensarlo” – questo vogliono dire le sue farneticazioni! Peccato le religioni o le filosofie orientali sostengano l’inverso! Ma a lei conviene impostare la questione in questo modo perché il dio che protegge e di cui si fa portavoce – il dio dei preti – è quello della bibbia! Un dio che, sia nell’antico sia nel nuovo testamento, si mostra agli uomini perché lo vuole lui, non perché gli uomini lo cerchino! Che razza di dio è questo dio che non si lascia trovare dagli uomini e si manifesta loro solo quando vuole lui?! Ma soprattutto, per ordinare regole, comandi, prescrizioni, ammonizioni, cartellini rossi ed espulsioni a vita dalla terra promessa o dal paradiso terrestre?! Che dio è quello che nell’A.T. se la spassa a vendicarsi, a punire, a uccidere e a far soffrire gli uomini, solo perché non si comportano come vuole lui? Da un lato, non si è rivelato ad alcuni popoli e pretende che questi vivano come lui vuole; questi non lo fanno e lui li stermina. Dall’altro lato, ai popoli cui si è rivelato, dà le proprie leggi e appena qualcuno non si lava, mangia maiale, dà una carezza a una donna o alla propria figlioletta che ha i propri flussi mestruali, lui li castiga, li punisce e gliene fa passare di tutti i colori? Che c’entra il dio dell’A. T. con il Messia Gesù del N. T.? Ma non siete stati voi preti stessi a dire che c’è una certa continuità tra Vecchio e Nuovo Testamento? Non vi siete massacrati le meningi per rintracciare nell’A. T. tutti i segni profetici che rinviano al N. T. e al Messia Gesù? E perché? Per dimostrare che la nuova religione – cioè la nuova casta sacerdotale – è superiore e migliore rispetto a tutte le altre? Qual è la differenza, in questo senso, tra quello che fanno i musulmani – ritenendosi la vera religione – e quello che avete fatto voi? A dirla tutta – ma voi non lo farete mai – non è forse quel dio dell’A. T. una creazione di Mosé? E il dio del nuovo che, stranamente pentitosi di tutto il male che ha fatto agli uomini solo perché i loro avi hanno mangiato il frutto proibito, non è forse un’invenzione di Paolo di Tarso? La dottrina cattolica non è forse un’architettura ben

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congeniata e perfezionata nel tempo a partire dal concilio di Nicea in poi? Non è forse una fantasia dei padri della chiesa? Come ho detto altrove, lo ripeto: possibile che dio pensi in modo umano e non in modo divino? Possibile che abbia dei sentimenti di rabbia, pudore, egocentrismo, potere, amore ecc. come gli uomini? Non sarebbe meglio dire una volta per tutte che questo dio è soltanto opera vostra? Dunque, che tutti i sentimenti di questo dio non sono altro che quelli vostri, ossia della casta sacerdotale? Gesù, che voi dite sia l’incarnazione del padre e dello spirito, non era altro che un uomo comune che ha detto soltanto una cosa: “il regno dei cieli è già qua: è l’amore”. Questo significa: “basta con gli intermediari e i moderatori, rivolgetevi direttamente a dio e, per farlo, amate il prossimo. In questo modo, esperirete dio”. In sintesi: fine di ogni chiesa! Ma a voi non poteva stare bene, altrimenti come guarire dal proprio malessere, tramutandolo nel benessere di giocare con gli uomini, comandarli, dominarli? Così, sulla scia di Paolo, continuaste a trasformare la figura dell’uomo Gesù nel Messia, stabiliste il Credo ecc. e v’impossessaste del mondo intero. Amen! Tutti si convertirono di spontaneamente, ragionando o per mezzo di guerre sante, torture e paure, mentre coloro che oggi non credono divengono dei poveretti impossibilitati a conoscere dio mediante il pensiero! Soffrono, poveri loro! Stanno male perché sperimentano l’assenza di dio! E voi come rispondete? Intanto li convincete di ciò; poi, li curate, gli battete sulla spalla, gli spiegate le ragioni di questo stato di profonda sofferenza, li avvelenate con le vostre prediche e i vostri ragionamenti fantastici e, alla fine, spingete pure loro ad auto-convertirsi, stabilendo nel loro pensiero il vostro dominio, le vostre false parole, le vostre chimere. Ecco che significa ai vostri occhi – mio caro Bruno – dire che l’ateo è un sofferente! Convintolo di ciò, è già vostro! Ma come detto spesse volte, non tutti gli atei sono uguali! E, soprattutto, non tutti gli uomini sono deboli né una facile preda! In particolar modo i ragazzi di oggi non sono così imbecilli da lasciarsi convincere dalle Sue belle frasi fatte e dal Suo bel vestitino! Anche se Lei afferma che l’ateo peggiore è chi è indifferente alla questione di dio, troverà ragazzi che le diranno: “Ma che te ne importa?! Perché devi farti il problema di tutti, di ogni singola persona?! Ma non puoi lasciarla in pace e libera di assumere l’atteggiamento che vuole dinanzi alla questione del divino?” Quante persone incontriamo che non credono nel dio delle religioni, credono in un proprio dio oppure se ne fregano del divino, eppure non fanno del male ad altri? Persone che non compiono reati? Queste persone hanno più coraggio, serietà e raziocinio di noi! Perciò, mio caro Bruno, non generalizzi e non dica fesserie. Chi non vuole più pensare a dio, non lo pensi: è libero di farlo. Ma le stupidaggini devono essere la Sua specialità! Rifacendosi alla differenza tra credenti e non credenti introdotta da Bobbio, vale a dire tra pensanti e non pensanti, Lei sostiene – con la sua splendida arte della parola che dice e non dice – che pensante è soltanto chi ha ricevuto il dono della fede (dal prete, naturalmente, non da dio). Solo chi crede, chi ha fede è nelle condizioni di pensare dio e la propria fede. Chi non ha vinto il premio dei premi, povero lui, è un disgraziato, uno “stolto” che non è capace di pensare. – Mah! Mi vien da vomitare di nuovo…ma stavolta per le risate! – Lei conclude la risposta alla domanda di Stefania dicendo: «ma dove questo incontro si compie?» (cioè l’incontro con dio). Nessun ragazzo fa eco alla domanda che Lei suggerisce loro, perché sanno già dove avviene questo incontro: in Chiesa, nel confessionale, al catechismo, negli oratori ecc. Dio è solo la metafora di voi stessi, preti, e della vostra folle ambizione di giocare a controllare gli uomini, perché non trovate altro da fare! Figuriamoci se dio s’incontra soltanto come dite voi! E allora una provocazione: perché non vi ha telefonato e non vi ha nemmeno mandato un sms quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, morivano milioni di persone? Perché non vi ha scritto una lettera e non ha mandato nessun Michele o Gabriele per dirvi, ad esempio: “Non temete figliuoli, ora prendo Hitler, poi Stalin e li schiaccio l’uno contro l’altro, testa contro testa!”? Perché non è intervenuto? Ah già, perché questo vostro dio interviene quando vuole lui! Ma non è anche il dio degli ebrei? Dunque, gli stava bene la Shoah?! Altra domanda: con la morte e resurrezione del Messia, non è finito ogni male?! Non siamo tutti salvi? E allora perché parlate ancora di peccato? Risposta: così le pecore tornano all’ovile di loro spontanea volontà e voi preti vivete felici e contenti (mentre i non-preti soffrono sulla terra le pene dell’inferno)! Sintesi: non siete voi a gestire gli affari di dio né dio s’incontra

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come voi dite. Dio è al di là delle religioni, non sta con nessuno ma con tutti, lasciando gli uomini a risolversi i problemi di soli. Chi lo vuole, lo cerca e lo trova in modo solitario e personale, senza interferenza alcuna. Naturalmente, questo dio non pensa in maniera umana bensì divina. Questo significa che non si fa alcun problema morale, vale a dire di bene e di male, termini sensati solo per gli uomini (relativi). Dio? Questo lo dice bene signor Bruno: è un mistero anche per Lei! Perché? Perché diversamente da tante altre persone, magari atee a loro modo e strapensanti, lei non l’ha mai incontrato o, se le è passato al fianco – chissà quante e quante volte – non se n’è nemmeno accorto! Veronica le fa un’altra domanda importante – “come può il non pensante ritornare al pensare?” – ma Lei, preso dalla suo desiderio di possedere l’uditorio mediante l’arte della fantasia religiosa, non risponde alla domanda e continua il suo discorso di convincimento e conversione proprio da dove l’aveva lasciato: «ma dove questo incontro si compie?», cioè quello con dio e con la fede? E qui possiamo dire addio non solo agli argomenti iniziali mai esaminati, ma anche a ogni pretesa neutralità e oggettività! Qui non le interessa più alcun dialogo tra credenti e non oppure, come le piace precisare, tra pensanti e non pensanti! Qui torna a galla il desiderio sacerdotale di dominare gli uomini mediante il simbolo per eccellenza del vero (cristiano), che getta nell’ombra ogni altro simbolo religioso, ogni interpretazione e contemplazione del divino diversa da quella cattolica: l’eucarestia. È nel pane spezzato e nel calice di vino, ai suoi occhi, che ogni uomo trova non solo la verità, ma anche il volto dell’altro, cioè quello di dio. Dio che condivide la vita umana e si compromette sperimentando la sofferenza degli uomini! E per quale ragione? Per amore degli uomini! Prima li odia, s’arrabbia per il frutto proibito, li scaccia dall’Eden e gli fa patire in terra le pene dell’inferno (non solo morte, sofferenza e malattia, ma anche mediante la legge mosaica, inviolabile e tuttavia mai rispettabile in pieno). Poi cambia idea, capisce di aver fatto una baggianata e, per rimediare, diventa uomo per mostrare agli uomini la via per tornare a lui, all’Eden e per ottenere conforto e speranza! Sì signori! Mentre prima il creato era il riflesso dell’ira divina, adesso riflette l’amore di dio! Anzi di più! Tutto è già scritto da tempo, è un piano prestabilito affinché dio riveli il proprio amore nel mondo! La materia stessa che compone l’universo è l’amore! Perciò, per corrispondere a dio e intravedere il suo vero volto bisogna amare! Solo chi destina la propria vita all’altro, per amore, trova dio! Perché in fondo che interessa dell’altro quando, amandolo, quel che si trova non è l’altro ma è dio stesso? Perché interessarsi di chi soffre, di chi è malato, di chi ha bisogno di noi? “Sì interessa!” – dite voi preti – ma solo per fare esperienza di dio e del suo amore! Ma di fatto in questo modo voi vi guadagnate il benessere tanto desiderato, mentre gli uomini comuni provano un pizzico di piacere, sperimentano un po’ di regno dei cieli e poi tutto torna come prima! È vergognoso! È una logica del doppio annullamento: di sé e dell’altro! Nell’amare l’altro, io mi annullo completamente: che amore sarebbe se ci fosse un qualche residuo di sé? Che amore sarebbe se, per un attimo, io badassi alla mia salute, alla mia vita, mi chiedessi che ora è ecc.? E se mi venisse il prurito? Sarei spacciato perché, dal momento che nell’altro c’è dio, non potrei grattarmi, altrimenti mancherei di rispetto a dio… La pretesa verità dell’eucarestia è un dogma. Naturalmente, mio caro Bruno, Lei si difenderà sostenendo che la prova della verità dell’eucarestia è la rivelazione avvenuta direttamente con il Messia Gesù bla bla bla…ma anche questa giustificazione resta una credenza, un oggetto di fede, non una verità pienamente sperimentata e condivisa da tutti, in quanto tutti ne hanno fatto (o ne possono fare) esperienza. In questo senso, sostenere che il volto dell’altro, cioè di dio, s’incontra solo durante l’eucarestia, significa ritenere che il vero dio è soltanto quello della religione cristiana, conoscibile soltanto per mezzo del ricevimento dei sacramenti. Dunque, un uomo che voglia conoscere dio ed è privo di sacramenti, non lo può conoscere? Dio, che dovrebbe essere ovunque ecc., starebbe soltanto in chiesa? Solo dentro l’eucarestia? Se questa è la sua fede, mio caro Bruno, posso anche essere d’accordo, ma che non sia argomento di dispute teologiche e pretese veritative con persone di altre religioni o estranee a ognuna. Di fronte alla domanda di una studentessa – «l'ateo può diventare credente. Ma è possibile che si verifichi il passaggio inverso, cioè che il credente diventi ateo?» – lei può nuovamente

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tornare a compiere quello che le riesce meglio: generalizzare. Secondo lei, signor anzi monsignor Bruno, come avviene per Giacobbe, anche l’ateo diventa credente soltanto perché, dopo aver capito di non poter vincerlo, si abbandona all’amore di dio…ma non stavano lottando, l’ateo e dio? Un dio che fa la lotta con l’uomo è un dio che ama l’uomo? Oppure è un dio che ama lottare? È un wrestlers, questo dio? Un pugile? Un karateka? Un samurai o un cavaliere? Scherzi a parte, è ovvio che esistono persone “atee” che, a un certo punto della propria esistenza, si convincono dell’amore di dio. Ma fanno tutte così? Non credo. Ci sono atei che cominciano a credere in dio perché trovano una ragione solida per farlo; perché trovano una qualsiasi spiegazione razionale; perché fanno delle esperienze che li inducono a credere in dio; perché impazziscono; perché abbassano la guardia un attimo e dio, cioè il prete, si infila nella sua materia grigia, la avvelena e la configura in modo tale che ovunque si vede dio, la sua parola ecc. questo riguarda, naturalmente, tutti quegli atei che decidono (o sono spinti a farlo) di accettare la visione di dio così come una religione la propone. Ma ci sono anche quegli atei che cominciano a credere in un dio il cui volto non ha nulla a che vedere con quello delineato dalle religioni. Personalmente, penso che un ateo che inizia a credere in dio, al di là di ogni singola religione e di ogni definizione che è possibile affibbiargli, beh, mio caro Bruno, credo quest’ateo sia più credente di tutti i religiosi messi assieme. Ho già spiegato che Lei preferisce Giacobbe ad Abramo perché la persona che diviene credente allo stesso modo di Giacobbe è più fedele di chi ubbidisce senza discutere. Non vi tradirà mai, non vi abbandonerà mai! La pecorella smarrita tornerà sempre all’ovile per piangersi addosso e chiedere l’aiuto di dio, cioè del sacerdote, per risolvere i propri problemi e condurre un’esistenza serena. Voi li imbrogliate, li rassicurate, li fate sorridere per un po’ – suscitando in voi tutto il benessere possibile – e poi quando tornano alla propria vita tutto ritorna a essere grigio…e allora si torna all’ovile e così via…che ribrezzo! Ma quando il credente diventa ateo? Stranamente mi trovo d’accordo con la sua risposta. Trasformare la propria fede in una ideologia significa ritenerla la verità assoluta delle cose con la quale si comincia a giudicare tutto e tutti fino alla fine dei tempi…ma non è proprio quello che voi fate? Credenti, pastori e pecorelle? Non vi mettete a guardare la pagliuzza d’altri anziché il grattacielo che c’è nei vostri occhi? Non cominciate a rompere le scatole a destra e a manca con la morale, la giustizia, il rispetto, l’amore, l’aiuto, la misericordia ecc., pur non praticando voi stessi quello che predicate? Trasformare la fede in una concezione finita del mondo vuol dire chiudersi a tutte le posizioni alternative alla vostra, rifiutare il dialogo, disprezzare silenziosamente l’altro, voler fare comizi e monologhi ovunque finché c’è fiato per farlo! E poi vi dimenticate di chi ha veramente bisogno! Eeeeh, mio caro Bruno, che cos’è la fede (o la religione) quando ci si dimentica dell’altro (e di dio)? Quando non si pratica più l’amore verso il prossimo in tutte le forme necessarie per aiutarlo? Non solo un’ideologia ma di più: uno schifo! Dimenticando la propria vocazione, vale a dire la cura di sé, dell’altro e di dio, ogni fede diviene una professione come tutte le altre che, diversamente dalle professioni lavorative, è munita di un sistema di dogmi e verità assolute e divine che consente sempre di avere l’ultima parola per vincere ogni battaglia! Quando la fede diviene professione – e questo Lei lo dice bene – ci si può sentire giovani a ottant’anni e vecchi a diciotto! Non c’è più differenza d’età, non c’è più diversità di ruoli, né chiamate né missioni! Anzi, voi abusate di quest’ultime, mascherandovi di acqua santa per fare i porci e diabolici comodi vostri! Sì, mio caro Bruno! Questo si è dimenticato di dirlo! Anche e soprattutto quando avviene tutto questo il credente (religioso) diviene ateo! Quando scopre le porcherie che fate! Pedofilia, sesso – tra preti, monaci e suore – accumulo di ricchezze che dovrebbero essere destinate ai poveri e ai bisognosi, acquisto di splendide automobili, di ville e spreco di denaro con tutti gli spassi mondani! Per non dire tutto quello che c’è dietro la storia delle religioni e, in particolare, quella della chiesa! È principalmente per questo che un credente perde la fede. Quando scopre che il pastore non è tale ma un pecorone peggiore di tutti, non c’è rimedio per riportarlo all’ovile! Quando avviene questo, io mi disgusto! È una vergogna! Un tradimento non soltanto nei confronti di tutte le persone che vi danno tanta fiducia, consegnandovi la cura della propria vita

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spirituale, ma è un tradimento di dio e delle religioni stesse che, di per sé, non fanno del male a nessuno, ma quando l’uomo ci mette lo zampino, le trasforma nel miglior strumento per decidere il destino di singole persone e dell’umanità! Diventare pastori di anime non ammette mezzi termini! O lo si è o non lo si è! Se chi porta l’abito, un giorno, scopre di avere “gusti” diversi dai precedenti o ha un ritorno di fiamma, si tolga l’abito! Non insozzi la propria religione e dio con le proprie stupidaggini! È così difficile assumersi le proprie responsabilità?! E allora perché alla gente rompete la testa dicendo proprio questo, se voi per primi non siete capaci di farlo?! Quando fate quelle azioni, non state rendendo la vita degna di essere vissuta, ma uno schifo! State rovinando la vita della gente! E questo, ai mie occhi, è il peggiore peccato che si possa compiere, il peggiore crimine di cui potersi macchiare! Se si hanno strane idee in testa, meglio pensarci due volte se prendere l’abito oppure no. Se queste sorgono successivamente, meglio sospendersi dalla funzione di pastore e chiarirsi. Se persistono, meglio svestirsi definitivamente e andare a vivere come meglio si ritiene, consapevoli che rompendo le scatole alla gente, prima o poi questa può incazzarsi! Invece no! “Mi conviene?” – dite voi – “Tanto l’istituzione cui appartengo mi proteggerà per evitare che si insulzi essa stessa!” Ma per quanti giri e mascheramenti potrete fare, la gente non è stupida ed è capace di distinguere il vero dal falso! Perciò, cominciate a dirvi il Confesso voi stessi! Che cosa dovrebbe confessare una persona comune rispetto a voi?! C’è un solo modo per scoprire il volto di dio e dell’altro. Leggete Faust: “vi veri veniversum vivus vici”, con la forza della verità in vita ho conquistato l’universo. Questa morale dovrebbe regnare prima in voi e poi in noi, comuni mortali. Solo dopo questo, possiamo discutere di cura dell’altro e, forse, cominciare a scoprire che dio non ha un volto e tuttavia è in tutto e per tutti. Non a caso le si è chiesto se la chiesa aiuta o meno i credenti nel cammino verso dio. Molto probabilmente alla studentessa che le pone questa domanda potrebbe sembrare, e a buon ragione, che la chiesa non aiuti tutti. Il “dipende” col quale Lei comincia a rispondere, significa che la chiesa “aiuta” soltanto chi offre di più sotto forma di 8 per 1000 e simili. In questo senso, come può un credente essere da solo nel cammino verso dio? A chi li dà gli spiccioli? A se stesso? Non è meglio consegnarli ai vicari di dio, così sanno loro come amministrarli? “L’istituzione ecclesiastica, la chiesa”, così la chiama la studentessa, non si cura di aiutare i credenti nel proprio e rispettivo cammino interiore verso dio, perché quello che le interessa è fare politica, gestire capitali, intromettersi negli affari degli Stati e avere la meglio. Non si occupa più di predicare in lungo e in largo l’evangelo, non si occupa dei bisognosi, degli ammalati ecc. In questo modo, che genere di testimonianza del Messia può dare ai propri credenti? Non è forse nasconderlo? Come fa, monsignor Bruno, a parlare di carità? Sia nel senso di amore, sia nel senso di dono? Se i funzionari della chiesa preferiscono starsene dietro le mura di un edificio che non è più necessario – questo tra l’altro predicò Gesù – a fare messe, confessioni e roba del genere – oltre che a vivere nelle sagrestie come la gente comune e non secondo la chiamata ricevuta o il ruolo che si riveste – come si può dire che sono “testimoni” di dio o di suo figlio? Pochi sono coloro che vivono la fede cristiana “all’antica”, pochi coloro che testimoniano sul serio la fede nel Messia e che vivono al servizio dei credenti e non, questo è da precisare, per aiutarli non solo nel cammino di fede, ma anche umanamente, economicamente e socialmente. E questi pochi rappresentano la vera chiesa del Messia Gesù, ossia del dio in cui credono. Tutti gli altri scendono a patti col mondo e arrivederci e grazie! Una studentessa le chiede se la fede è un aggrapparsi a un vincolo col quale darsi delle risposte che non è possibile ottenere con la ragione, se la fede è un cullarsi su ciò. Lei, sorprendentemente, afferma che «può essere anche questo, qualche volta la fede può essere alienazione», quando ci si attende «risposte solari, luminose, dove tutto sia scontato». Poi aggiunge, prendendo Sergio Quinzio come testimone dell’opposto, «che la fede non è appunto un riposo scontato e tranquillo, ma l'incontro con Dio è sempre un incontro con un mistero che ti inquieta, che ti provoca». Dopo di ché, Lei rinvia a un filmato di Quinzio stesso per dimostrare, come aggiunge dopo per rispondere alla domanda della studentessa: «Quello che è molto bello in Sergio Quinzio, come avete ascoltato, ed è stato il leit motif di tutta la sua vita è

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che lui non è un credente che riposa nello scontato - dunque la fede quasi come rassicurazione o alienazione - ma che vive anzi il tormento, la passione dell'incontro con Dio». Quello che lei dice di Quinzio è vero, però quello che dice Quinzio nel filmato (trascritto) non c’entra nulla con la questione della fede nel senso di un cullarsi o un aggrapparsi a delle risposte a cui la ragione non può arrivare. Quello che bisogna ricalcare del filmato di Quinzio sono le parole «è anche vero che Dio, quando parla, trascende di gran lunga, spezza questa logica naturale, questa logica mondana, per darci una verità che sta al di là di quella». Queste parole dimostrano che Quinzio considera il rapporto con dio qualcosa che và al di là del mondo e di ogni sua logica, una trascendenza che, appunto, non prende mai materia né natura né è mai conoscibile. In questo senso, la concezione quinziana del rapporto col dio non è sicuramente uguale a quella che ha stabilito santa romana chiesa né a quella stabilita dalle altre religioni. Perché? La risposta si trova nelle sue stesse parole, monsignor Bruno: «Una fede che sia rassicurazione è una maschera; la fede è comunque e sempre inquietudine e passione, com'è l'amore, com'è l'amore». Naturalmente, anche nel rispondere a questa domanda Lei gioca la sua arte da dialettico e da retore, per fornire delle spiegazioni utili alla sua casta o per confondere di più le idee dell’uditorio. La fede, intesa come rapporto con dio così com’è stabilito da una singola religione, è alienazione, maschera, rassicurazione. La studentessa ha molta più profondità di Lei al riguardo: la sua domanda non è un quesito, ma quello che pensa e che il sottoscritto condivide. Le ha detto il proprio parere sotto forma di domanda, per studiarLa, per capire come la pensa davvero e sentire quale risposta avrebbe fornito. Aderire a un culto, credere a una fede come religione, significa accettare in pieno il sistema di idee d’umana fattura e spacciato come insieme, raccolta delle rivelazioni di dio che ha gratuitamente concesso a Tizio e a Caio per attuare il proprio disegno di salvezza. Avere questa fede è cullarsi in queste risposte bell’e pronte, irrazionali, è aggrapparsi a una precisa concezione di dio e al relativo sistema idee, costruito dai suoi vicari, per sperare, sopravvivere ecc. Però, quello che il povero credente non sa, è che così facendo aumenta il vostro potere e la vostra ambizione sul mondo. Com’è possibile, infatti, contrastarvi? Com’è possibile asserire qualcosa che è diverso dalla parola di dio, cioè dalla vostra, dalla verità? E così imperate per sempre. La verità, però, è che proprio la fede religiosa è alienazione. Voi vi mascherate da santi e fate i diavoli! Rassicurate le povere anime penitenti, disperate, addolorate e stabilite la vostra presa su di loro, le spennate, le manipolate e fate fare loro quello che vi pare e piace. Non credo che la fede sia questo. Se la fede è inquietudine e passione, come l’amore, tutto ciò avviene al di fuori di ogni tempio, proprio là dove sembra che la fede non ci sia. Se la fede vera non è una maschera, allora là dove si trovano gli uomini spogli di ogni moda ecclesiale, politica, mondana, là dove vivono uomini privi di ogni rassicurazione, risposta, certezza, là si trova il vero rapporto con dio. Quanto alla domanda di Luigi, è vero. Oggi non siamo più nel medioevo, dove chi non credeva nel dio della chiesa veniva torturato, punito e giustiziato perché considerato peccatore. Ma non si può affermare che gli unici condizionamenti presenti nel nostro paese siano storico-culturali. Il concordato dell’84 stabilì – un accordo stipulato appunto “assieme” tra Stato e chiesa – che il cattolicesimo non è più religione di Stato e ribadì la parità di diritti degli altri culti rispetto a quello cattolico. Su questa scia, si spiega la forte presenza di altre religioni nel nostro paese, comprese le cosiddette “varianti” del cristianesimo, e la libertà di pregare il proprio dio. Però, tutte queste “altre” fedi non sono capaci di condizionare la politica e la società allo stesso modo del cattolicesimo. Seppur in forma smussata e meno palese, la chiesa condiziona ancora la nostra società. Questo non è spiegabile soltanto da un punto di vista storico-culturale. La chiesa ha svolto un ruolo importante per la rinascita della società italiana nel dopoguerra, svolgendo un’imponente opera di educazione sociale e scolastica. In seguito, raccogliendo quanto seminato prima, ha diffuso il raccolto e ha allargato il proprio terreno di semina, invadendo in modo tentacolare i punti strategici della nostra società. In altre parole, nel dopoguerra la chiesa ha formato, educandoli dalla giovane età, i propri combattenti dello spirito che, in seguito, hanno rivestito ruoli decisivi nei paesi, nelle città, nello Stato, configurando lo svolgimento della vita

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sociale secondo ideali e valori cattolici. Il risultato di questa prima opera di ri-educazione è la creazione e il consolidamento di alcune postazioni di dominio – azione cattolica, oratori, scuole e simili, utili per diffondere l’influenza non solo spirituale ma anche politica della chiesa. Compresa l’azione dirompente di questa pratica, la chiesa è passata a una seconda fase della propria opera di ri-educazione delle masse non più, però, esponendosi in prima linea come negli anni precedenti, ma lasciando svolgere questa “missione” ai propri combattenti dello spirito formati precedentemente. Il risultato, nel cambio generazionale, è la rinnovata diffusione dei valori e degli ideali cattolici, che infettano persino la politica, la magistratura e così via. Insomma, è stato un silente piano di conversione delle masse ben architettato, che solo ora produce i frutti migliori. In breve, oggi non siamo capaci di pensare, immaginare e praticare una vita al di fuori degli schemi cattolici. Ogni nostro giudizio prende colore all’interno del sistema dottrinario cattolico e nemmeno ce ne accorgiamo. Ogni azione è svolta nell’ottica cattolica e nemmeno ne siamo consapevoli. Insomma, siamo tutti cattolici e nemmeno ce ne rendiamo conto. Pensando e vivendo in modo apparentemente più naturale possibile, noi rinforziamo il potere della chiesa e questa, tramite noi stessi, condiziona tutte le decisioni e gli avvenimenti che accadono nel nostro paese. Se è vero questo, è vero anche quel che Lei dice, monsignor Bruno, ossia che « oggi è più difficile dirsi credenti e testimoniare una fede convinta che non il contrario». Nonostante siamo (inconsapevolmente) cattolici nel sangue, da un po’ di tempo si assiste a un movimento inverso. Grazie alla conoscenza umanistica e scientifica che negli ultimi anni ha subito un ritorno di fiamma, molte sono le persone che, di fronte alla storia della chiesa e agli atti impuri che i suoi membri hanno compiuto e compiono, non vogliono più aderire a questo credo né consciamente né inconsciamente. Come direbbe Quinzio, l’antimessia – se esiste davvero, dal momento che è un’invenzione della fantasia di Paolo – è proprio la perdita della fede. Alla luce del cattivo passato della chiesa e dei suoi funzionari, delle considerazioni storiche della nascita e dello sviluppo della chiesa e della sua dottrina, ci si rende conto che credere, forse, non è così come la chiesa e i sacerdoti hanno sempre proposto e propongono. Credere vuol dire “testimoniare ciò in cui si crede”. Dal momento che Gesù praticò una vita da poveraccio, all’addiaccio, come un vagabondo, concentrandosi sull’amore e sulla diffusione del proprio messaggio, le ricchezze, il lusso e i patti che la chiesa compie con il mondo confondono chi, oggi, si chiede se credere o no, inducendolo spesso al rifiuto. L’insicurezza, il dubbio, l’agnosticismo attuali che lei nomina, mio caro Bruno, dipendono anche da questo. Se la chiesa e i suoi membri non tornano alle proprie origini – piuttosto che occuparsi, nella piena sicurezza, della gestione del potere e delle ricchezze in direzione delle quali, ogni tanto, comunica l’avvenimento di miracoli, nomina santi e beati – sarà sempre più difficile credere. Perciò, le do ragione quando dice che questa fede «non è la fede del Dio biblico, non è la libertà a cui Gesù ci ha chiamato». Ma sia chiaro, questo riguarda esclusivamente il cattolicesimo e le sue strutture mondane e dottrinarie. Il mio sbalordimento è all’apice per via della risposta relativa alla domanda di Davide, e cioè riguardo al comportamento che deve avere un cristiano nei confronti delle altre religioni. Lei afferma che «chi crede sul serio nel Dio vivente sa che Dio è comunque più grande di tutte le rappresentazioni che noi possiamo farci di lui». A prima vista, lei sembra convenire nell’idea del sottoscritto, e cioè che Dio, l’unico, se c’è, non ha nulla a che vedere con le singolari rappresentazioni delle varie religioni. Ma c’è un elemento che smonta subito questa parvenza: la presenza della locuzione “il Dio vivente”. Come si può leggere in altra parte dell’intervista, infatti, con questa asserzione Lei intende soltanto il dio che si è manifestato in Gesù. Quindi, con la frase sopra citata, Lei afferma che “il dio manifestatosi nelle sembianze di Gesù è più grande di tutte le rappresentazioni che noi possiamo farci di lui”, vale a dire è superiore rispetto alle raffigurazioni di dio fornite dalle altre religioni. In altre parole, Lei dice che l’unico dio, l’unica manifestazione vera di dio è soltanto in Gesù. In questo senso, Lei continua il suo intervento sostenendo che il credente, quello vero, da un lato deve avere fede nel Cristo e farsi suo testimone e annunciatore (come fai Lei); dall’altro, deve anche avere «profondo rispetto dell'altro, nella convinzione che ci sono vie misteriose e spesso attraverso queste vie Dio

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raggiunge il cuore dell'uomo. Dunque vorrei dire: al tempo stesso testimonianza, ma anche dialogo, rispetto». In altri termini, Lei afferma che il vero dio è quello suo e che bisogna testimoniare questa verità agli altri (religiosi), con il dialogo e il rispetto della loro visione di dio…insomma, il vero credente, quello cristiano, dovrebbe fare buon viso a cattivo gioco! Dovrebbe convertire l’altro nella parvenza di rispetto delle opinioni altrui e, attraverso il dialogo, convincere l’altro che “il Dio vivente” è soltanto uno, quello dei cristiani…che altro sarebbero queste “vie misteriose” con le quali dio, “il Dio vivente” – cioè la continua creazione, operata dai sacerdoti, di un’entità che non c’è o non ha nulla a che fare con l’immaginazione degli uomini – raggiunge il cuore dell’uomo?!! Nient’altro che questo: sotterfugi, raggiri e astuzie da preti per avere il monopolio del sacro su scala planetaria…e non solo del sacro!!! È in questo modo che il vostro dio parla a tutti e raggiunge tutti!...Non ho proprio voglia di commentare oltre la sua risposta…la ragione e il buon senso parlano da soli...la fatica di rinnegare queste “vie misteriose” non sarà mai troppo grande per il sottoscritto… Ogni occasione è quella buona per portare l’acqua al Proprio mulino: questo riguarda anche la domanda successiva. Il Dio che parla a tutti sarebbe soltanto quello che si è manifestato in Gesù di Nazareth, il dio che è amore e che proprio per questa ragione raggiunge tutti per “vie misteriose”?! Ma non è possibile neanche soltanto immaginare per un attimo di poter comprendere queste vie…perché, naturalmente, sono dischiuse soltanto ai sacerdoti, i quali pubblicizzano questo dio e i suoi detti allo stesso modo di un amico con cui si è appena chiacchierato al bar davanti a un caffé. Se dio parla a tutti – e questo è vero – non lo fa esclusivamente nelle vesti di Gesù, ma in tutti i modi sconosciuti a noi esseri umani…sconosciuti, perché pensiamo che dio parli soltanto per mezzo delle religioni e dei preti e, invece, è proprio al di fuori di questi che dio si dà. D’altronde, la religione è sempre stata ed è il tentativo di monopolizzare l’amministrazione del sacro… Che bella domanda! Una studentessa, parafrasandola, chiede se il dio di cui Lei parla è buono, giusto o cattivo, indipendentemente dall’interpretazione che ne fa l’uomo, oppure se dio “è” una semplice interpretazione e basta. In questo senso, che dire di quei fedeli che, in nome di dio, hanno ucciso centinaia o migliaia di persone denominandole “eretiche”? La scomodità di questa domanda è ovvia. Da un lato, Lei corre il rischio di perdere l’attenzione dell’uditorio una volte per tutte; dall’altro, rischia di inimicarsi i suoi fratelli in casacca nera. Per queste ragioni, Lei sceglie una via di mezzo e afferma che, naturalmente, ognuno giunge alla domanda riguardante dio per sentieri diversi, però – e qui entra in scena la fedeltà alla chiesa – la scoperta di dio avviene, Lei sostiene, per mezzo della Bibbia e dei Vangeli, i quali narrano del Messia ecc. Ricamato il contesto nel quale collocare la sua visione, finalmente Lei può dire tutta la verità (la Sua, naturalmente), ossia che dio non è il frutto dei desideri e delle interpretazioni di ciascuno ma solo di quelle di santa romana chiesa, la quale possiede la concessione dei diritti d’autore dei profeti, degli evangelisti, degli apostoli e di dio stesso. Credere nei miracoli e nei giochi di prestigio, come si fa nel cattolicesimo, sarebbe dunque pensare? O vuol dire prendere il sonno della notte? Mio caro Bruno, se il cristianesimo è l’eterno inganno costruito e perfezionato dai preti per stare nel mondo contenti come una pasqua, allora credere nei suoi trucchi significa andare perennemente in letargo, a causa dell’inverno dello spirito ecclesiastico. Ma fortunatamente per l’umanità, dopo il freddo siderale della casta sacerdotale, c’è sempre la primavera dello spirito della scienza e della critica storica! E se le chiacchiere dei preti conducono all’abisso, l’oggettività della scienza e della storia, invece, sono l’unica strada che ci conduce davvero alla beatitudine terrestre! Per questa ragione, se la fede è monopolizzata della chiesa e basta, usiamo la ragione! La fede non può indagare, solo il pensiero può farlo, il quale scompone il tutto in parti e investiga ogni singola parte per tornare al tutto. La fede può solo credere, in se stessa o in qualcos’altro per tornare a se stessa. La fede è tornaconto personale. La ragione è il vero dialogo. La concorrenza sarà eterna. Amen! E poi diciamo che i giovani sono cretini…Che meravigliosa domanda! Dio e Buddha non sono la stessa identica cosa? Dio non è uno, al di là dei modi coi quali lo denominiamo? “E no!”

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– lei dice – “dio è solo quello rivelatosi mediante le sacre scritture, mediante la bibbia, per mezzo di profeti, apostoli e compagnia bella! È solo qua che si può incontrare dio, l’unico vero dio! O al massimo nell’eucarestia! Tutti gli altri “dio” non sono altro che maghi da strapazzo!”…Bruno! Bruno! Quando la smetterà a rispondere da prete?! Quando inizierà a essere davvero un po’ neutrale?! Una altro studente le chiede se il dio cristiano è un dio punitore; poi aggiunge che lo ritiene dispensatore di premi e castighi a seconda del comportamento avuto in vita da ogni uomo. Ma Lei, mio caro Bruno, risponde che non le piace l’idea di un dio contabile e piuttosto preferisce quella di un dio giudice che, seguendo il suo ragionamento, diventa un dio “investigatore, psicologo, indovino, inquietante”…e la barbarie delle interpretazioni continua. È naturale che non le piaccia l’idea di un dio contabile! Se dio fosse così saremmo tutti rovinati, primi fra tutti voi preti! Per quante ne combinate...Lo ribadisco: dio non è così come noi possiamo immaginarlo. Se c’è, è al di là delle nostre fantasie! Non dev’essere nemmeno necessariamente inquietante! È e basta!...per quanto riguarda il dio giudice che Lei preferisce a quello contabile, beh, mio caro Bruno, attento! Se in terra si va in galera per niente, figurati dove si va a finire nell’altro mondo se soltanto si è rubata una caramella…perciò, per favore, lasci che dio, se c’è, si manifesti da solo, con un grande prodigio verificato da tutti i terrestri nello stesso momento! Se non si dà a vedere, per ora, lasciatelo in pace Lei e tutti i preti di ogni religione. Ci sarà anche un motivo se non si mostra...e l’uomo la smetta di proiettare fuori di sé quello che vuole tornare per sé…questo fate da millenni e continuate a fare… In questa prospettiva, i limiti del cristianesimo – per commentare la domanda successiva – sono i suoi stessi preti. Per quanto riguarda la scienza, è vero quanto lei afferma: «una scienza che presuma di rispondere a tutto sia una falsa scienza». Ma una religione che presuma di rispondere a tutto che cos’è? Non è anch’essa una falsa religione? Scienza e fede (religiosa) hanno in comune l’idea di poter dare una riposta a ogni cosa: gli uni, mediante la fede nel calcolo matematico e nella misurazione, gli altri mediante la fede nelle sacre scritture, nelle quali trovano in ogni epoca storica una chiave di lettura utile per riferire quei testi al presente e generare visioni apocalittiche della storia. Questa tendenza si è sempre imposta nell’Occidente: quella di rispondere a tutto, partendo dalla fede o dalla convinzione personale. Se i limiti della scienza sono proprio il calcolo e la misurazione, quelli della religione sono proprio i sacri testi. Per costruire una società più umana – Lei sostiene – dobbiamo tutti essere «più umili, più modesti, più in ascolto dell'altro». Ma allora perché Lei si mette a parlare della Bibbia? Dov’è finita la sua umiltà? Pronunciare soltanto la parola “Bibbia” significa portare l’acqua al proprio mulino! È vero, usciamo dal liceo conoscendo molto poco la Bibbia, ma perché ritenere che quest’ultima «è alla base della nostra storia, della nostra identità, della nostra cultura»? Perché siete stati bravi in passato! Vi siete rimboccati le maniche e vi siete dati da fare per infiltrarvi in ogni angolo della società! Tant’è che oggi ovunque si vede la Bibbia e soltanto quello che c’è in essa! Ma attenzione! Se tutti i giovani cominciassero a studiare la Bibbia meglio – e meglio s’intende non religiosamente, ma criticamente – non crede, monsignor Bruno, che la religione rischierebbe di svanire? Non correrebbe il rischio di essere considerata allo stesso modo di un qualsiasi altro libro di letteratura? O peggio di fantasia? Allora facciamola studiare davvero a scuola e poi ne parliamo…ma attenzione, non dovete insegnarla voi, bensì gli storici…altrimenti sarebbe troppo facile per voi convincere gli studenti che quella è la verità… Altra bella domanda, per concludere. Diversamente dai musulmani, ad esempio, i cristiani sono molto meno osservanti. Lei dice: «Gesù è stato molto duro contro il formalismo, l'apparenza esteriore»; ma allora perché accedere alle pratiche formali ed esteriori della chiesa? Perché andare a messa? Perché partecipare ai riti cattolici, se sono soltanto formalismo e apparenza esteriore? Quando si è all’interno di una religione, non basta l’interiorità – e questo Lei lo dice chiaramente – ma bisogna praticare i riti della religione nella quale si crede. Altrimenti, perché chiamarsi cristiani, buddisti, musulmani, ebrei ecc.? Se si facesse il contrario, ognuno costruirebbe la propria religione e il mondo traboccherebbe di religioni personali e individuali. E con ciò si tocca un problema importante della fede, in particolare di quella

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cattolica. Con l’apertura al nuovo e la consuetudine di smussare gli angoli per riportare a casa le pecorelle smarrite – o quelle di altri pastori – si è originato uno strano fenomeno. Oggi, molti non vanno in chiesa, non praticano la religione cristiana e preferiscono mettersi in contatto con il dio cristiano a modo proprio. In altre parole, i sacerdoti e le cerimonie religiose sono continuamente scavalcati e dimenticati. Ognuno comunica, dialoga, è in rapporto con dio in modo diretto. Questo dovrebbe farvi pensare, preti. Forse, avete giocato troppo? Forse avete esagerato? Forse si sta scoprendo tutto quello che avete fatto, nel passato lontano e vicino? Forse non ci si fida più di voi? O forse la gente ha subito un’evoluzione mentale, psicologica, di raziocinio, si chiami come si vuole? In sintesi: si è svegliata? Una cosa sola è certa: oggi, la religione cattolica è in difficoltà, nonostante la conversione di un imponente numero di anime provenienti dall’America del sud, dall’Africa o dall’est asiatico. Tuttavia, credo che questa difficoltà non sia un brutto segno. Forse la pratica della religione cristiana sta tornando alle origini, nel vero senso della parola. Non più un’istituzione assicurata nel mondo fino alla fine dei tempi, ma un insieme di anime legate da una comune fede o una convinzione religiosa, in un mondo che sempre più diviene razionale. Ora se ne vedranno delle belle! O la chiesa cade una volta per tutte, spalancando lo spazio del divino e rendendolo ufficialmente e direttamente accessibile a tutti; o si rafforza più di prima. La questione su cui bisognerebbe riflettere – assieme ai temi che Lei non ha mai trattato in questa intervista, vale a dire identità umana, vita, morte – è la seguente: l’uomo è capace di vivere – non senza fede – senza religione alcuna? Se svanissero le religioni e tutti entrassero direttamente in comunicazione con dio – ammesso che si possa fare ma la risposta è ovviamente negativa, sarebbe solo convinzione – non si correrebbe il pericolo di nuovi regimi totalitari? Di nuove guerre per il potere, stavolta libere da ogni freno? Se la scienza e la storia fanno luce sulle religioni, queste ultime, tuttavia, esaminate nella loro genuinità, permettono di osservare il procedere della scienza e la ricostruzione storica da altre prospettive, non-scientifiche, non-storiche. Di fronte al dominio della secolarizzazione, della tecnica, della razionalità, del nichilismo, anziché interrogarsi riguardo alla questione “ateismo e/o cristianesimo”, sembra necessario porsi seriamente una domanda relativa al comune destino dei terrestri: perché portarsi le religioni nel nuovo millennio? Perché credere?

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