Scavi - Enrico De Lea

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Scavi Enrico De Lea

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raccolta Scavi di Enrico De Lea

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ScaviEnrico De Lea

Il ventre infertile

Maeba Sciutti

Scavi

Enrico De Lea

Prima edizione: dicembre 2010

Ebook © Clepsydra Edizioni

Lumi del prossimo sangue[1]

Sabbia da costruzioni in cima,tempio settembrino delle giovani carni,le prime castagne con la banda.Vociferiamo da sempre negli arcanilumi del prossimo sangue.

Ascensione del santo solitariocome un padre che si slargae libera una luce, contentatra gli ulivi. Quanto al pietrameintorno, chiedersi – puer aeternus –della perfezionata permanenzadelle case, dei facitori antichidall’occhio saldo, dalla mano ferma.Con un occaso nel restaurodei segni, con un disegno blandonella commorienza nostra.

Scavi tra Vernà e marina

Le fosse della neve di Mancusa(forse altre ce ne saranno alla Traversa,in faccia alla neve della Montagna)facevano il paio all’epoca con le catastedei carbonai – e ce n’è, ce n’era di terrada scavare per risparmiarsi il soffocofunesto, e pure ora nel sole o in un’ombrache a volte è il buio pesto.

*

Il nonno, il vecchio orfano, per l’etàpiù vicino a Garibaldi ed altri barbutiincontrati sul sussidiario che ai nipoti,ne vedeva certamente di nevenella contrada Monaco, oltre Rimitidegli eremiti dimenticati. Ci stavarannicchiato in uno scavo anche la nottea tenere le bestie, che facevano un caldotutto infanzia di scuro e madre ignota,lui dalla ruota dell’Eustochia partorito,da una scìa nell’oceano rinato, dietro il muro.

*

La rara pioggia scava, dentro il secco:ci sono rare presenze in quel che resta,il verde verso Rina e il grigio delle Rocche.L’occhio divora tutto, non ha testama sangue del possesso, verso il mare. Non la parola, ma un lento procederedello sguardo, quasi un adorare.

*

Saranno state formiche od un fedelegatto a scavare, nei pressi del melograno,sopra l’Acqua Ruggia, intorno al sonnoimprovviso dell’Onofria, improvviso e per sempre;da poco aveva portato il vino buonoalla centenaria, aveva goduto della vistadel mare di fronte, attraversato lo Zoriodei suoi immensi amori.

*

Siamo, nei padri, dentro le visionie, nelle madri, dentro carni e voci.Come uno scavo d'aria dalle Roccheprecipita e ramifica al Bastione;dopo che un vino d'alto ha consumatola parola, ad un tacito decretodella verzura consentiamo, restiamoben impiantati nella terra smossadai passi, dal passaggio degli umanidopo il rasserenato dopopioggia.Siamo, stiamo, con un corpodi fatica estesa, da millenni.

*

In cima al paese, nel boscounico, sopra l'Acqua Ruggia,avevano scavato il pozzonel dopoguerra, all'epocamitica di don Placidino: al lanciodei sassolini risuonava di musiche,quasi un Satie fatto da noi...Oraè interrato, per un abbandonatoparcogiochi di bambiniche niente sapranno. Fortuna cheancora più in alto, mutanel paesaggio, resiste la raraforza delle antiche cave, la maestàterragna della Calcara.

*

Ho ripreso ad alzarmi all'alba,per un passo nuovo, quando il giorno sembra gravidodi promesse davvero prossimead essere mantenuteda un generoso spirito dei luoghi.Da Selino, che, dopo lo scavo del traforoper la fonte, è tornata l'acqua dell'infanzia,il paese è, a quell'ora fresca, ancoradentro un'ombra avvolta, un veloche ogni minuto lume perfora,e alle sue spalle è un rosso fuoco, un vecchio oro di passione dell'inizio. Non c'è,mentre nel palmo delle mani bevoper un avìto prestito o decoro,alcun indizio del ricadere in unastasi di generazioni, in una rinunciaatavica. E, pure, dico "grazie" a quel pocodi luce originaria, a quel che vedoe che ieri vedevo. Calmo, rientronei possessi che l'occhio raduna.

Quasi un rimario

(con cane immaginario e vero)

Sanguinava d’amore nel torrenteasciutto, correndo appresso al cane -gli si riaprono, nel tempo rinveniente,le ginocchia ferite, rovine sul pietrame.Nel chiaro che infuriava, quale famecardava il sole, fuori da lini e persiane -quale cane rincorra oscuramenteora da un assolato d’epoche lontane,eterno dubbio, non certo è il cane dei parenti,forse è l’animale di un rapace ammodo,il piano ragionato dei violenti,il legale disbrigo d’ogni nodo.Talora l’aria richiama quel latrare:oltre il verde morente, apriva al mare.

(cimitero di Ciappazzi)

Anime pregne, torsi seppelliticoi corpi al cimitero sul paesaggio,niente salvezza, esseri sfinitidalle sviste di ieri a quelle d’oggi.Gli occhi qui vagavano smarritidella prossima fine del coraggio:poi, accompagnarli tutti, ad uno ad uno -vinse un paesaggio sull’ansia di ciascuno.

(don Juan)

E’ la freddezza delle antiche amantiun corpo d’arenaria allo scirocco.Mi limito a scostare i grani tra la barbache il vento infuria al viso, scostopure l’aria dal bronzo delle lastre:vinsi battaglie e guerre e mi riposoguardando il mare – sapevo navigaretra carne e nulla, sapevo che davantic’era il faro, il dio benedicente il porto,ora un lago di ferro rugginoso e chiuso.

(frottola del cainita)

Se intravedo la luna ed il castello,ricordo pure il luogo del coltello.Lo gettai tra roccia e spino, senza cura:dopo il sangue ed i gridi c’è premuradi cancellare ogni traccia di feritae girare un nuovo foglio della vita.E’ un libro chiuso la casa nella piazza -del mio nemico cancellai la razza:ora, a chi passa innanzi, tutto tacesu quella sera da bestia rapace.Più non ricordo per cosa alzai la manoe la premetti con la lama da lontanosul padre, sulla madre e sulla figlia,purgando il borgo da quella famiglia.Ora ritorno, con l’accento straniero,e ritrovo il paese vuoto e nero:se ne parlò, nel bar, di quel delitto,ora è silenzio, anzi, il locale è sfitto.

(frottola dell’asceta)

Anacoreta anch’io, nella Tebaide,finché non diedi spazio a certe laidesupposizioni sopra il mondo attivo,non domino, ne fui anzi captivo.Sicché partii di là, dalle mie Rocche -ora in auto in coda alle mie nocchetamburellanti il vetro non risponde,né la gazza al tamburo sulle sponde,né le dita sul banco e sul bicchiere.Ebbi a fuggire, pensa, soltanto per vedere…

(voli nella valle)

Sorvolavo l’incendio sugli ulivi,cercavo l’acqua, il maredove un poco – non troppo – annegare -tu, a quell’ora, che facevi? morivi?

Oggi, volo di nuovo, in sogno,di quell’alta aria ho bisogno:mi increspa la barba una festadi sparvieri – la roccia che ancora resta.

Col coltellino ti squarciola pancia – che marciofu il volo di ieri – in volo senza i pensieri.

Liberi in volo, i morti -ci pensavamo, assorti.Arriveranno e ci diranno tutto:hanno, da sempre, smesso il lutto.

(in volo)

Ho imitato lo sparviero in volo,semplice e fiero d’esser solo.Ho imitato frotte di volatilicon intuizioni come il volo labili.A terra c’era il sorbo e c’è ancora,in mezzo al segreto dell’uliveto.Forse esagero a parlarne ora,c’è una divinità senza divieto.

A volte se saluto in un commiatoimmaginario, in volo sopra un fiatod’aria, tra segni e soffi intravedoil profilo asciutto di mio padre -sta a volare sopra la valle, insistecon ironia a stare al mondo – non è triste.A volte assieme ad altri su alberi, collinee case – con motti dalla cima, brezze vicine.

N.B. I toponimi/prestiti/pretesti talora evocati in questo e-book sono relativi a località del versante ionico del messinese, in particolare, alla Valle d'Agrò, a Casalvecchio Siculo, al territorio circostante.

[1] Questi versi fanno parte di una più ampia sequenza (2007-8), ispirata alla Valle d’Agrò, in Sicilia.

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