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scampia|napoli 2007 SECONDO MOVIMENTO Ubu sotto tiro riscrittura da Alfred Jarry Arrevuoto_Programma 28-03-2007 15:48 Pagina 1

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ssccaammppiiaa|napoli

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PROGETTO TRIENNALE

diretto daMarco MMaarrttiinneellllii Teatro delle Albea cura di Roberta CCaarrlloottttoocollaborazione di Maurizio BBrraauuccccii

guideMarta GGiillmmoorreeNicola LLaaiieettaaSergio LLoonnggoobbaarrddiiFederica LLuucccchheessiinniiRoberto MMaaggnnaanniiAntonella MMoonneettttiiAnita MMoossccaaBarbara PPiieerrrrooAlessandro RReennddaaEmanuele VVaalleennttii

realizzato in collaborazione conLLiicceeoo AAnnttoonniioo GGeennoovveessii SSccuuoollaa MMeeddiiaa CCaarrlloo LLeevvii LLiicceeoo EEllssaa MMoorraannttee GGrruuppppoo CChhii rroomm ee…… cchhii nnooe conRRaavveennnnaa TTeeaattrroo--TTeeaattrroo SSttaabbiillee ddii IInnnnoovvaazziioonnee

in scena

Mario Emanuele Abbate

Salvatore Abruzzese

Salvatore Acampora

Antonio Agliottone

Rocky Aleksic

Michela Alfano

Martina Alteri

Antonio Amato

Oliver Andjelkovic

Gabriele Andreozzi

Rita Annunziata

Giulia Aprea

Antonio Ascione

Giuseppina Ascione

Jasmin Avdo

con l’adesione diPPrreessiiddeennzzaa RReeggiioonnee CCaammppaanniiaaCCoommuunnee ddii NNaappoollii AAsssseessssoorraattoo aallllaa CCuullttuurraaPPrroovviinncciiaa ddii NNaappoollii AAsssseessssoorraattoo aallllee PPoolliittiicchheessccoollaassttiicchhee ee ffoorrmmaattiivveeMMuunniicciippaalliittàà nn.. 88 | SSccaammppiiaae diEETTII EEnnttee TTeeaattrraallee IIttaalliiaannooRRaavveennnnaa FFeessttiivvaall

22000077 SSEECCOONNDDOO MMOOVVIIMMEENNTTOO

UUbbuu ssoottttoo ttiirrooriscrittura da Alfred Jarry

drammaturgia e regiaMarco MMaarrttiinneellllii

ssccaammppiiaa|napoli

Mercadante Teatro Stabile di Napolipresenta

Mariarca Aveta

Mariano Barba

Antonio Bastelli

Mehmed Bayran

Maria Betteghella

Emanuela Botti

Mirko Calemme

Salvatore Capasso

Marco Catalano

Luigi Carbone

Luana Cartigiano

Gianmarco Carniero

Mimmo Caruso

Gaia Castaldi

Giuseppina Cervizzi

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collaborazione spazio luciVincent Longuemare, Ermanna Montanaricollaborazione costumi Ermanna Montanari, Maica Rotondo, Pina Iervolino, Giovanna Napolitanocollaborazione laboratoriChiara Ciccarelli, Biagio Di Bennardo, Emma Ferulano, Daniela Del Perugia, Maurizio Gallo, Alessandra Di Fenza, Daniela Iennaco, Marco Marinofonico Antonio GattoelettricistaSalvatore SorrientemacchinistaEnzo Palmierifoto di scenaStefano Cardone

SSccaammppiiaa | TTeeaattrroo AAuuddiittoorriiuumm3311 mmaarrzzoo ee 11 aapprriillee 2007 ore 21.00

NNaappoollii | TTeeaattrroo MMeerrccaaddaannttee 44 aapprriillee 2007 ore 18.00 55 aapprriillee 2007 ore 21.00

RRoommaa | TTeeaattrroo VVaallllee2244 mmaaggggiioo 2007 ore 21.00

RRaavveennnnaa | TTeeaattrroo AAlliigghhiieerrii11 ggiiuuggnnoo 2007 ore 21.00

Martina Ciotola

Fabio Corvietto

Bruna Cuccari

Francesca De Siervo

Antonio De Sio

Pasquale De Martino

Giovanni Di Vaio

Veronica Emin

Silvia Esposito

Filomena Esposito La Rossa

Rosario Esposito La Rossa

Alessia Fabbrini

Noemi Fabiano

Marinì Sabrina Fernando

Giuliana Fiorellino

Christian Giroso

Gelian Jasar

Gianni Jasar

Cristian Jovanovic

Dusco Jovanovic

Nicola Laieta

Manuela Lipariti

Delia Luongo

Anna Maese

Donatella Manzo

Salvatore Marangia

Massimiliano Marigliano

Ludovica Massimo Esposito

Serena Mattiello

Vittorio Matafora

Emanuele Miano

Maria Rita Migliore

Alessandra Montuori

Fortuna Mosca

Vincenzo Nemolato

Enrico Nocera

Imma Nunziata

Emanuela Orso

Laura Ottieri

Marcello Parolisi Morello

Francesca Pasquale

Maurizio Piscopo

Bianca Polidoro

Valeria Pollice

Elvis Radosajvic

Giovanni Rodrigo Vastarella

Natalino Romano

Antonello Russo

Giorgia Russo

Simone Sacchettino

Antonio Stornaiuolo

Lena Stornaiuolo

Anna Tancredi

Antonio Trombetta

Emanuele Valenti

Antonio Visco Si ringraziano:Patrizia Albamonte, Rosaria Culicelli, Ennio Ferrara, Mia Filippone,Chiara Esposito, Maria Rosaria Guidi, Maria De Marco, Maria Marella,Giuseppina Pelella, Micla Pennacchio, Flavia Piro, Francesco Somma,Gennaro Sorrentino, Fabrizio Valletti.

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Roberta CarlottoUn teatro in cammino

Soltanto qualche mese fa Arrevuoto. Scampia | Napoli haricevuto il premio speciale Ubu per la stagione 2005-2006,un premio teatrale che tutti noi che lavoriamo in teatro,consideriamo un importante riconoscimento. È stata unaserata commovente perché all’annuncio del premio airagazzi di Napoli-Scampia, a Marco Martinelli e al TeatroMercadante, nella storica sala del Piccolo a Milano,stracolma di attori, registi critici e amici del teatroconvocati da Franco Quadri per la pubblicazione delPatalogo, è scoppiato un applauso impressionante che nonfiniva più. Ed è in quella occasione che ho avuto laconsapevolezza che questo spettacolo ha rappresentato unsegnale, qualcosa di più di un progetto teatrale: una primarisposta all’esigenza che il teatro tornasse ad essere vitale,utile alla vita di tutti, ritrovando quella funzione delleorigini che oggi fa tanta fatica ad esprimere.Nel 2006 si è conclusa la prima fase del progetto dopo unsusseguirsi di felici sorprese: la partecipazione dei ragazzi,la loro capacità di lavorare assieme indipendentementedalle età e dalle provenienze, l’apertura di uno spazioteatrale a Scampia, lo spettacolo prima a Scampia, poi alMercadante e infine a Roma, all’Argentina, con unentusiasmo sia tra il pubblico che tra i ragazzi sempremaggiore.I teatri stabili oggi in Italia sono molto diversi uno dall’altroma forse hanno perso la loro specifica identità e l’idea diquale sia il proprio ruolo e quali le reali necessità. Assiemea Ninni Cutaia, che ha costruito e diretto il Mercadante inquesti anni, abbiamo condiviso l’idea che fare teatro vuoldire ripensarlo, sia nella messa in scena che mettendosi inrapporto con la città, in questo caso Napoli, ma senzaretorica e dando voce anche ai settori più sofferenti edemarginati. Vi è stata una attenzione particolare agli autorie ai registi delle ultime generazioni, senza trascurare latradizione napoletana e le sue infinite potenzialità. Macontemporaneamente il Mercadante ha voluto tenere unconfronto con la Napoli di oggi e con le sue contraddizioniche sono anche le sue risorse, a partire dai segnali che la

città dava di se stessa.Per questo progetto siamo partiti da Scampia, un simboloanche troppo forte del disagio della città, avendo chiaro ilrischio di atterrare in quella periferia con idee e metodipreconfezionati. Il lavoro svolto dai gruppi e dalle personeche operano sul campo ci hanno offerto una mappa che èalla base della nostra ricerca. Con loro e soprattutto conMarco Martinelli e il suo Teatro delle Albe si è avviato ilprogetto capace di unire ricerca teatrale e pedagogia,avendo però sempre fermo l’obiettivo del fare teatro.Assieme a Marco Martinelli, e seguendo il metodo giàapplicato a Ravenna della non-scuola, si è attivata una retedi persone e di gruppi che hanno offerto la loro disponibilitàe conoscenza del territorio, in un lavoro di supporto estimolo rivelatosi fondamentale. Alcuni di loro hannoaffiancato i collaboratori teatrali delle Albe, le “guide”,continuando a seguire il progetto anche quest’anno:insegnanti della Scuola Media Carlo Levi, del Liceo ElsaMorante, del Liceo Antonio Genovesi, ma soprattutto lastrenua generosità del gruppo che lavora con i rom e con iragazzi che hanno abbandonato la scuola, l’associazione“Chi rom e chi no”. Il successo di Arrevuoto, con lo spettacolo Pace! daAristofane, è stato il frutto di quello che abbiamo chiamato“primo movimento” e che ci ha permesso di mantenerel’impegno di rendere triennale questa iniziativa, cosa nonsemplice in Italia dove si presentano spesso dei percorsipluriennali che poi non vengono portati a termine.In questo secondo anno, che prevede la messa in scena diun Ubu sotto tiro, da Alfred Jarry, si è riprodotto lo stessointeresse da parte dei ragazzi e di Marco Martinelli che èstato capace questa volta di lavorare con un numeromaggiore di attori, quasi 100, dopo i 70 della primaedizione. Proprio per la forza della non-scuola delle Albe ci si è potutibasare sull’apporto più dinamico dei ragazzi che avevanopreso parte allo spettacolo dell’anno scorso, sulcoinvolgimento di nuove guide teatrali ma soprattutto sullaformazione di ragazzi e ragazze che saranno tra i conduttoridel progetto negli anni a venire. Vedo con piacere chealcuni di loro cominciano ad avere un ruolo nella comunità

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locale, chi scrivendo su libri e giornali, chi trovando unruolo nell’ambito dell’intervento sociale, tutti motivati edincoraggiati da questa partecipazione ad Arrevuoto. Quello che mi dispiace invece è che finora non siamoriusciti ad allargare la nostra rete, a collegarci con le varieesperienze che pure ci sono a Napoli, aspetto questo chemi sembra uno dei problemi di una città dove si rischia dirimanere chiusi in se stessi, senza riuscire a sommare letante realtà positive che ci sono, accrescendo così la loroincisività. L’esempio dell’Auditorium di Scampia èemblematico, ci siamo sforzati di farlo riaprire per lospettacolo della prima edizione di Arrevuoto ed oggi cilavoriamo come se fossimo degli ospiti e non deicollaboratori nella trasformazione del territorio. ConArrevuoto, quest’anno come in quello precedente, si è staticapaci di costruire un gruppo molto trasversale, sia sulpiano sociale che su quello delle competenze, facendotesoro proprio della eterogeneità che costituisce la realtà diNapoli come di nessun altro luogo in Italia. È questosecondo me un metodo di lavoro che potrebbe avvicinare ilteatro alla società e viceversa, senza derogare dalla propriasensibilità artistica ma stabilendo un rapporto con la vitareale. All’interno del gruppo di Arrevuoto c’è la possibilitàche per alcuni dei ragazzi quest’esperienza segni la propriavita positivamente e che ciò vada non solo a vantaggio loroma anche della città, cosa di cui essa ha estremamentebisogno.Forse ne usciranno dei bravi attori, forse degli scrittori o deitecnici, ma scommetto che ne verrano fuori degli uomini edelle donne con una visione più vasta ed ottimista dellaloro città. Ma fermandoci sulla sfida di quest’anno, hocompreso che già nei primi incontri c’è stata una capacitàdi intendersi maggiore rispetto all’anno scorso e che ilprimo “disordine-caos” è stato superato anche grazie allamediazione dei ragazzi più esperti. La voglia di lavorare èstata grande da parte di tutti, molte più persone sono statecoinvolte, e si sono avute le prime prove che anche nellecomunità più problematiche, se uno ha l’occasione di usciredalla propria solitudine, si ottengono ottimi risultati. Lospettacolo che vedremo stavolta è tratto da Jarry, unaspecie di bandiera di Marco Martinelli, tant’è che ci sarà a

giugno una tappa a Ravenna, la casa madre delle Albe,dove i ragazzi di Napoli incontreranno i loro coetanei delnord. In autunno vorremmo riuscire a tenere lo stessoconfronto con il lavoro che Martinelli ha realizzato l’invernoscorso con i ragazzi di un villaggio del Senegal, Ubu nero,il testo è lo stesso ma, come prevede il metodo della non-scuola, realizzato secondo la poetica e l’energia deisuoi diversi partecipanti. Per l’anno prossimo, sul terzomovimento di Arrevuoto, non abbiamo ancora ragionato, mail ruolo delle persone va crescendo via via, questo tessutocomincia a lavorare in maniera meno dichiarata, nelsottofondo, cosa che ci siamo sempre auspicati. Per allora,può darsi, si possa contare anche sullo storico Teatro SanFerdinando, in procinto d’esser riaperto: sarebbeinteressante far partire anche da lì un’esperienza simile,rapportandosi a quel quartiere nei modi che stiamosperimentando ora. Ecco un modo in cui un Teatro Stabilepuò fare teatro oltre ai suoi compiti più riconosciuti. Ilmetodo può continuare a camminare.Ma parlando di metodo non posso fare a meno di citare lepersone che singolarmente hanno partecipato al progetto elo hanno reso non solo possibile ma reale e credibile. Tuttoè cominciato con l’entusiasmo e la fiducia riposta nelnostro gruppo da Rachele Furfaro, assessore alla Culturadel Comune di Napoli fino all’anno scorso, da Goffredo Fofiche continua a puntare sulle imprese difficili, dalla vigile ecreativa presenza di Ermanna Montanari, da MaurizioBraucci, da tutte le guide, di Ravenna e di Napoli e dallagenerosità del Mercadante, visto come una squadra moltounita di persone aperte e disponibili.Il secondo movimento di Arrevuoto, Ubu sotto tiro, saràpresentato il 31 marzo e il 1 aprile all’Auditorium diScampia, poi il 4 e il 5 aprile al Mercadante e, come l’annoscorso avrà anche due appuntamenti fuori Napoli, prima aRoma, al teatro Valle, nell’ambito di un incontrointernazionale sul tema delle periferie promosso dall’ETI,per finire a Ravenna, sede del Teatro delle Albe dove i 100ragazzi di Scampia-Napoli incontreranno i loro amici dellanon-scuola ravennate con una grande festa finale.

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Marco Martinelli Il fiume e i coccodrilli

L’anno scorso era Aristofane, quest’anno Alfred Jarry.Interrogato al liceo su chi fosse il suo classico preferito, ilgiovane bretone rispose: “Sto formando il mio stile suAristofane”. E a me sembra che la patafisica di Jarry, il suofulminante coincidere di realtà e astrazione, di politica esogni dell’anima, di avanguardia e tradizioni popolari, possaa buon ragione assegnare al padre della comicità antica ilruolo di antenato totem. Quindi Aristofane e Jarry comenumi tutelari di questo primo biennio di Arrevuoto. E diJarry, in particolare, mi ha colpito il prologo di Ubu sur labutte, dove Guignol, il burattino, si presenta in teatro echiede al direttore di recitare Ubu roi, reclamando vitto,alloggio e diaria. È una richiesta perentoria, la “testa dilegno” chiede di diventare “re per una notte”. All’inizio ildirettore non ci sta, ma poi, davanti al minaccioso bastonedel burattino, cambia idea e acconsente. Pensando al coro di Arrevuoto, mi è venuto naturaletrasformare Guignol in Pulcinella, in questo confortato dairichiami a Pulcinella presenti nell’invenzione dellamaschera ubuesca, non solo sul piano iconografico (dalcappello a punta al bastone), ma anche nelle suggestionitestuali: “mon gros polichinelle”, così Madre Ubu definisceil suo rispettabile sposo. Pulcinella è anche il protagonistadel primo testo teatrale scritto da un Jarry dodicenne nel1885, una farsa tragica e “noir” dove Pulcinella eScaramuccia sono ladri che finiscono male, frutto di unprecoce amore per le marionette e la tradizione dellemaschere italiane.Ed eccoci qui dunque, al “secondo movimento” diArrevuoto, con questo Ubu sotto tiro: un coro di pulcinellidei nostri tempi, inguainati in una bianca tuta dadisinfestazione, abituati ai rifiuti tossici e all’immondizia,che alla fine del prologo si liberano dal bozzolo, svelando icostumi che insieme a Ermanna ho immaginato come glistrati multicolore della favola “polacca”. Dove la Poloniaimmaginaria di Jarry, il non-luogo che può essere

dappertutto, viene calata nella lingua violenta dellaperiferia napoletana, dove all’improvvisazione gestuale evocale e alla fantasia creatrice degli adolescenti vieneriservato un ruolo chiave nell’assorbire e trasformare iclassici: come di consueto accade nella non-scuola delleAlbe, che a Ravenna conta ormai quindici anni di vita.D’altronde i “classici” non sarebbero tali se non sapesserodialogare col tempo presente, resistendo a ogni scontro etrasformazione, a ogni amorevole violenza loro imposta perfarli “parlare” al presente: da qui la loro perenne attualità.

E se Pace! era un rito dopo la mattanza, un esorcismocontro la morte giocato con le inermi possibilità dellascena, questo Ubu coniuga gioco e crudeltà, levità edecervellaggio: siamo tutti “cape e’ lignamme”, tuttiburattini, tutti manovrati e manovranti, articolazioni non-innocenti di una macchina-mondo che mostra semprepiù la faccia arrogante del Male, spesso abilmentedissimulata, spesso in guanti bianchi, la violenza di unPotere che è sopruso e che replica la sua farsa tutti i giorni,nei grandi centri come nelle più lontane periferie.Un Ubu di massa: come dice un proverbio africano,“bisogna attraversare il fiume in massa, per non essereassaliti dai coccodrilli”. Almeno ci dobbiam provare.

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regista, della messa in vita del testo di Jarry. Ho capito dapoco che la non-scuola è possibile come metodo anchegrazie alla sua relazione, prossima ma autonoma, con laricerca che il Teatro delle Albe conduce negli spettacoli chel’hanno reso famoso tra le compagnie italiane.Ridimensionare il ruolo centrale del regista-drammaturgoper dare il testo in pasto agli adolescenti e vederselotornare pieno di improvvisazioni e dirottamenti, richiedeun’ardua rinuncia, quella della creatività dell’artista che staseguendo una propria traccia. Ma la garanzia della ricercache le Albe perseguono nei lavori realizzati con unacompagnia più ristretta, più selezionata, permette qui, nellanon-scuola, di agire con un carico minore di personalevolontà espressiva, mettendosi al servizio del gruppo, dellasua ancora inqualificabile poetica. Non che l’artistaMartinelli scompaia, il suo talento, la sua esperienza sonofondamentali per dare poi forma e senso alla vulcaniche esregolate proposte dei giovani attori, ma la sua parzialerinuncia fa spazio all’ingresso, senza censure, senzacompetizioni, delle realtà che i ragazzi/e portano con sé.Forse questa è la maggiore difficoltà che un teatrantepotrebbe avere se venisse a svolgere il ruolo di guida, diaccompagnatore, in un progetto della non-scuola: metterela sordina alla disperata necessità espressiva che loconduce. E credo che solo la garanzia di un altrove,liberamente riempito di sé e della ricerca personale, puòdare qui vita alla disponibilità, all’accoglienza che la non-scuola richiede. Mai sazio, ma nemmeno affamato, l’artistaimpegnato in tale progetto viene a svolgere un ruolomaieutico, ad instaurare un dialogo che prevede ascolto eparola. Qui non si danno battute, non si assegnano parti,tutto è sacrilego, tutto conquistato sul campo, ancor piùrafforzando la tecnica affinché l’improvvisazione riesca.Durante questi due anni, il rapporto tra teatro e società èstato un tema ricorrente nei nostri pensieri, sappiamo che èfacile sentirsi, e risentirsi, dire che Arrevuoto appare megliocome intervento sociale che artistico, ma più checontraddittoria questa posizione ci appare parziale. Losforzo che si è fatto, l’anno scorso come quest’ultimo, per

Maurizio BraucciTeatro, maieutica e parolacce

Siamo ad un mese dalla messa in scena di Ubu sotto tirotratto da Alfred Jarry, ricontestualizzato dai suoi giovaniattori e diretto da Marco Martinelli. Nell’Auditorium diScampia, dove si svolgono le prove, il disordine è ancoragrande ma riusciamo, noi che abbiamo preso parte allaprima edizione del 2005-2006, a leggervi enormi progressinella concentrazione da parte dei ragazzi/e. Sono circa 90quest’anno i partecipanti, dai 10 ai 20 anni di età, l’energiache sprigionano è immensa, si fatica a non restare incantatidi fronte alle loro burrascose, violente, esilaranti invenzionidentro e fuori dal palco, tanto che qualcuna delle guideteatrali si dimentica di seguire i tempi delle entrate e delleuscite di scena. Marco grida dal microfono, lui che èsempre così pacato, perché stavolta il tempo è davveropoco e la sfida più elevata; lo spettacolo Pace!, nel 2006,ha giocato anche sull’effetto sorpresa, ora serve unaconferma della qualità del lavoro. È un piacere venireall’Auditorium, questo spazio rimasto chiuso per 15 anni èuna grande risorsa, maggiormente quando porta qui la città,non è il massimo per tenerci degli spettacoli teatrali ma cisi adatta. La sua estensione è percorsa in lungo e largo daigruppetti di ragazzi/e che colgono ogni occasione perscalmanarsi, le guide ogni tanto devono rincorrerli fino instrada per permettere il proseguimento delle prove,inventandosi linguaggi e approcci efficaci a seconda deicasi. L’anno scorso, da ottobre a febbraio, ognuno avevasvolto il lavoro per conto proprio, nelle sedi scolastiche enel centro Gridas di Scampia, poi finalmente c’è stata lariapertura dell’Auditorum grazie all’interessamento delMercadante. Quest’anno si è partiti direttamente da qui,eccetto il liceo Genovesi che è situato nel centro storico,con due ore settimanali di laboratorio per gruppo affidatealle guide napoletane. Poi il ritorno definitivo di Martinelli edei suoi dal Senegal, dove pure ha condotto un laboratoriodella non-scuola, ha potuto far iniziare la fase finale, quelladel lavoro comune, della messa in scena o, come dice il

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quasi cento attori, per di più molto giovani e non scelti inbase al talento, in un tempo breve e con un metodo cheimplica un lavoro “con” loro e non “per” loro, non è cosafacile. Non voglio proporre questa come attenuante,semplicemente esorterei i più critici, ma non per questomeno accetti, osservatori a non confondere il tema socialecon quello operativo. Esistono circostanze in cui la qualitàdi uno spettacolo non risiede tutta nel momentoperformativo, ma anche nella valenza provocatoria, politicae temeraria della sua natura. Di teatro ben confezionato,ben interpretato sono forse piene le scene, ma è la suanecessità, il suo ritrovare un dialogo con il mondo che parecarente, anche nella nostra città dove è ormai passato unmodello di arte pienamente borghese e consolatoriapromossa dalle istituzioni diventate enormi committenticulturali. Questo modello, che qui si potrebbeeponimamente dire bassoliniano, ha messo radici neicontesti più disparati, ufficiali e meno, creando territori incui l’artista crede di rivendicare la sua libera attivitàsecondo l’idea per cui essa sarebbe svincolata dallasocietà. Il sospetto, invece, e se ne potrebbe discutere, èche di fronte ad un reale sempre più minaccioso edisgustoso, l’arte così intesa arretri nel suo poteretrasformativo e contradditorio dello status quo, cercandosiun pubblico facile a trovarsi: quello che anela almantenimento dei privilegi culturali ed economici che lasocietà globale mette in discussione. Oltre a citare lapossibilità che il regista Martinelli avrebbe avuto perArrevuoto di dirigersi ad un’opera alta, nel sensoriconosciuto, con l’utilizzo in scena di attori scelti a cuiimboccare un testo canonicamente rivisto - scelta cheavrebbe significato una scuola invece di una non-scuola -voglio fare l’esempio del linguaggio messo in scena dainostri ragazzi/e di Arrevuoto. Esso è la somma, o se voletela confusione, di più stili, quello di Jarry o Aristofane,classici antichi e moderni del teatro, unito all’italianogergale delle piazze e dei ritrovi giovanili, ambedue inscrittinel dialetto così come oggi viene parlato a Napoli e non sulpalcoscenico. È in fondo la lingua più consona agli obiettivi

rendere a molti dei ragazzi/e possibile questa esperienza,parte sicuramente da una predisposizione verso gliadolescenti che non è di tutti. Basterebbe aver vistol’impegno dei membri di Chi rom.. e chi no o delle dueprofessoresse e delle guide della Carlo Levi con i rispettivigruppi di Scampia, per capire che la pazienza e ladeterminazione sono state preziose. Da una scuola media diperiferia e da un gruppo di napoletani e di rom dellamedesima si eredita tutta la sordità che la società hainstillato in loro con la propria assenza e afasia, l’annoscorso si faticava ad avere attenzione e a trasmetterel’importanza del lavoro che si stava facendo, quest’anno siè ottenuta una piccola rendita. L’esperienza fatta insiemeed il successo dello spettacolo sono argomenti sin troppoeloquenti oggi, chi vi ha preso parte attua una sorta dimediazione con i nuovi venuti, incostante ma talvoltadecisiva, almeno per attivare qualche cooperazione tra iragazzi/e. Diversamente, per i licei Morante e Genovesi, ilproblema non è mai stato la disponibilità ma piuttosto ilconflitto con modelli già preesistenti in loro, oscillanti tramassificati ed elitari, che ne mantenevano le proposte suun piano, più rassicurante, in cui la messa in gioco di sestessi è limitata. Per quanto gli spettacoli del progettoArrevuoto vivano dell’incontro tra apporti biografici e socialidifferenti, più e meno razionali, già in questa secondaedizione le categorie dell’appartenenza si confondono e simescolano verso le dimensioni più indiscriminate deltalento e dell’impegno personale. La divisione in blocchidello scorso spettacolo, che rifletteva i diversi gradi diintegrazione ed esclusione, è stata infranta da un ritmo piùinterno alla messa in scena e che, in definitiva, simboleggiala maggiore coesione tra i gruppi che hanno imparato, oltreche a riconoscersi, a conoscersi. Per riprendere ora ilragionamento sul rapporto teatro-società, mi importa direche la questione dell’avere dato un ruolo centrale aScampia, alias ad un tema ben codificato nell’immaginariodelle persone ma non per questo approfondito, condizionasecondo me lo sguardo che taluni spettatori dirigono dietrole quinte e oltre il tempo scenico. Allestire un’opera con

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di Arrevuoto per dare voce, per sottolineare l’approccioverbale violento e raggiratorio degli adolescenti dellanostra città, con la sua abbondanza di parolacce, maicensurate, mai ridimensionate, e che agisce su un doppiolivello. Da una parte porta in vita, sulla scena e per glispettatori, il mondo così comese lo rappresentano questi suoilegittimi abitatori, dall’altraconcede a questi ultimi disentire il proprio linguaggioquotidiano come stratificazionedi vari elementi, rompendo ildualismo borghese-popolare,civile-incivile. Infatti, lateatralità innata della proprialingua, la sua affilatura inscena come arma di scontro econfronto, condiziona quellostesso parlato al di fuori dellascena. Il dialetto torna nel suoalveo ormai segnato nella suapotenzialità di macchinacostruttrice di situazioni e, allostesso tempo, strumento di unafinzione in cui la violenzaverbale non è più solo alservizio delle regole del vissutogenerico ma diviene ancheestetica di un’identità che puòtrovare una sua legittimacollocazione nel mondo, senzascontri disperati con esso.Molti dei ragazzi/e tornano infatti al loro linguaggio con lacoscienza che esso sia una rappresentazione e quindi menoreale e coercitivo sui loro comportamenti, divenendostrumento deliberato ed affinabile, modificabile come ungioco scenico e, nel caso, superabile. In questo modo,teatro e reale dialogano, impregnandosi l’un l’altro, e se ilprimo ne guadagna in vitalità, l’altra ne ottiene l’adozione

di approcci che vanno oltre la tirannide della sopravvivenzae delle incombenze sociali, in pratica l’apertura di spiraglidi utopia contro la gravosità del mondo. Questa variazioneha riguardato in realtà ognuno dei partecipanti, guide,attori, regista ed organizzatori, semplicemente attraverso il

confronto tra linguaggi diversi,tra diversi corpi ed aspetti macon un obiettivo comune: ilteatro sì, ma che si mette ingioco.Arrevuoto ha avuto anche lapossibilità di sperimentare lapresenza istituzionale - ilMercadante - sotto forma ditutela, e questo ha significatonon solo la garanzia di risorse,competenze ed organizzazioneindispensabili al progetto.L’operato del Teatro Stabile hainfatti dato anche una piccolasmentita a quell’acquisizione,a Napoli storica più chealtrove, per cui le istituzionispesso sono indifferenti, senon di fatto ostili, alletrasformazioni che avvengonoa vantaggio di persone nonorganizzate in coorporazioni ogruppi di interesse, ai cittadiniin quanto tali. Anche questoaspetto potrebbe costituire unesempio da riprendere ed

estendere, dove l’arte ha svolto un ruolo di guida e solodopo il triennio previsto avremo una prima, vera valutazionedi quanto abbia saputo incidere anche oltre la scena. Apartire dal destino dell’Auditorium di Scampia, su cui finorail Comune e la Municipalità hanno nicchiato e per il quale,si spera, non prevalgano alla fine soluzioni scandalose oincoscienti invece che democratiche e giudiziose.

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spazio-luci-costumi: mi era “necessario” averli vicini.Sapendo di esporci tutti a un rischio, ovvero consapevoliche non avremmo avuto il tempo che solitamente ciriserviamo per le produzioni Albe, un “lusso” che qui nonavremmo potuto permetterci. Consapevoli di dover lavorarenell’arrevuoto, nel sottosopra, cavalcando l’uragano didecine di ragazzi che non ti possono garantire tempi diprove “professionali”, che luci e costumi li avremmo dovuti“vedere” al volo, in mezzo alla tempesta. Un rischio cheErmanna e Vincent hanno accettato di slancio. Li ho visti entrambi felici di calarsi nel turbine, li ho vistiinnamorarsi giorno dopo giorno di quell’anarchia allegrache costituisce la sostanza di Arrevuoto. Alla fine, Vincent mi ha confessato di avere riletto sottouna luce nuova le pagine di Nietszche sul dionisiaco,Ermanna l’ho vista contemplare Gelian, un’adolescenterom, come si contempla il gran libro della natura percatturare ispirazione. Molto hanno dato, ad Arrevuoto, molto hanno “rubato”.Come solo i grandi “sensibili” sanno fare.

Marco MartinelliPer Ermanna e Vincent

Non si sa mai bene dove finisce l’io e dove comincia il noi.Dove la pelle, l’anima, dismetta il suo perimetro rigido perfarsi un labirinto aperto all’entrata dell’Altro. Io sonoabituato da sempre, da una vita, a considerare la regiasotto un duplice segno: da una parte è espressione di unaindividualità (dar vita a un mondo! Lo spettacolo-mondo che restituisce forma visibileall’intuizione generata da una necessità intima e personale,e che non può che essere, all’inizio del cammino,personale!), e dall’altra è un vaso vuoto, in grado diaccogliere le infinite sollecitazioni offerte dai compagni dilavoro. Da sempre quindi sono abituato a pensarmisingolare e plurale, maschile e femminile, adolescente eanziano, romagnolo e africano e napoletano, a seconda dei“molti”, dei compagni e compagne che arricchiscono,modificano, travolgono il mio sentirmi un vaso vuoto, gliangeli e i demoni in carne e ossa che con me camminanosulla via della creazione. Co-autori, tutti. In questo ambito Ermanna Montanari eVincent Longuemare rivestono da anni un ruolo particolare.Non parlo di Ermanna attrice, di Ermanna con me alladirezione delle Albe, che meriterebbe un discorso a parte.Parlo di Ermanna scenografa e costumista, “occhio” delleAlbe, e del suo affiancare Vincent, disegnatore delle lucidei nostri spettacoli dal 1996. Parlo quindi di una coppia di artisti che sonoalchemicamente legati alla direzione del mio lavoro diregista e drammaturgo. Parlo della capacità di entrambi didare visione, di stimolare visione, di sviluppare attenzioneal dettaglio e all’architettura. Parlo di come sanno dialogaretra loro, intrecciando l’amore per la tradizione figurativa,per la “forma”, a un senso elettrico e punk della distruzionedell’armonia classica. Quando lo scorso anno si è definita la squadra artistica del“primo movimento” di Arrevuoto, ho chiesto a Ermanna eVincent se avevano voglia di collaborare alla dimensione

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Federica Lucchesini | Scuola Media Carlo LeviSapete voi lo “sfastidio” cosa è? Come può essereinaggirabile e inamovibile? Ti sbarra lo stradaall’improvviso, come un muro di cemento piombato dalcielo. Ti chiude fuori e lui o lei restano di là, autoreclusi eautoesclusi da tutte le cose che si stavano facendoassieme. All’invito a giocare, all’attesa degli altri per lapropria improvvisazione, alla preghiera di entrare nel teatroo di fare la propria parte, capita di sentirsi rispondere conuno sbuffo e un fare amaro-insoddisfatto: “Noo, misfastidio!”. Cioè mi scoccio. Ma è una noia che vuol diretante cose: non ci credo, mi sento a disagio, non vedo ilpunto, ma dove mi porta? È amaro lo sfastidio, ti inchioda adove sei perché è così.È un rifiuto inappellabile, è la forza della rinuncia, losprezzo del disinteresse. Funziona come uno specchio: se cisi sente inadeguati, se si ha paura dell’impegno o delnuovo e dell’ignoto, se riemerge l’antica diffidenza verso lacultura alta o gli adulti borghesi, se la nuova esperienza èseducente e affascinante lasciando intuire un’altraimmagine di sé… allora bisogna schernirla e svalutarlaperché è lei a non essere interessante e a non essereimportante, ad essere sempre la stessa e inutile, a nonvalere niente e a non dare nulla. Raramente lo sfastidio èsolo capriccio o dispetto. Nella scuola lo “sfastidio” sembra invincibile. Poggia su deibastioni possenti come la muraglia cinese, sul divorzio tra ilsapere e la vita, tra la cultura e il progetto di sé,soprattutto qua in periferia. Mi sfastidio di imparare aleggere, di ascoltare una storia, di vedere il film, diprendere il libro. Nella non-scuola invece si indebolisce sempre di più,diventa la maschera di se stesso e quasi sempre finisce persoccombere. L’assenza di giudizio e di autoritarismo glitolgono terreno. La passione, il divertimento, la libertà e lacollaborazione con tutti gli altri ragazzi e ragazze fanno ilresto. Non sempre, chiaro. Quest’anno al laboratorio dellanon-scuola si sono iscritte molte fra le persone più vivaci (einsofferenti) della scuola, e alcune hanno rinunciato dopo

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qualche mese. La lista è aperta, ognuno è il benvenuto ed èda solo o da sola che deve infine misurarsi con la propriavolontà: nessuno è cacciato/a; nessuno che si rendaimpossibile il lavoro rimane oltre un certo tempo. Questarinuncia, autonomamente formulata, ha valore pedagogico;la scuola non può (ancora) permettersi una simile risorsa. La costruzione del piacere di starci e del senso dellapartecipazione è anche un’operazione comune: le guidefanno strada, conoscono i trucchi, la storia e l’arte, ma ognipasso è una scelta propria. La valutazione dell’interesseprovato e della capacità di assumersi l’impegno è sostenutae guidata, poi si verifica nel rapporto con il gruppo di lavoroe, in ultima analisi, diviene propria. È una provaparticolarmente impegnativa per le persone molto giovaniperché si tratta di un libero confronto con se stessi. Certoconta molto a un certo punto la responsabilità verso i propripari, i ragazzi e le ragazze del laboratorio. Tutte/i siadeguano a regole spontanee e condivise, cosa chenell’arte risulta più facile poiché è vasta e sempre vera.Tuttavia è la lotta personale col proprio angelo o demone adeterminare la motivazione. Prendiamo l’esempio dell’egocentrismo. Per qualcuno ilbisogno di attenzione e di riconoscimento si esplica informe prorompenti, come smania di porsi in posizionedominante. Deriva da modelli sociali, sia locali chegenerali; dal contesto familiare e dalla formazione affettiva;dalle gerarchie identitarie nel gruppo di coetanei; esoprattutto nella preadolescenza dei maschi è uncondizionamento fortissimo. Ora: nel metodo creativo dellanon-scuola ogni apporto è fondamentale e unico ma siesprime in spazi e tempi differenti, secondo l’esigenzacomune. (Una forma diversa di individualismo, che passaper il sentimento di fare parte ed essere assieme, senzaperò percepirsi come indistinti). Per alcuni ragazzi accettarequesta mediazione è una sfida tosta. Vincere la tentazionedi scassare qualcosa, o mollare tutto per venire magari adisturbare le prove è un’esperienza di crescita. Credo che fondamentale, per questo come per altripassaggi, sia la sensazione che la non-scuola ha bisogno,

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anzi è, i ragazzi e le ragazze: il loro apprendere eapprendere da loro, il loro ascolto e l’ascoltarsi, quello chedanno e che ricevono. Si determina così un modo differentedi apprendimento.Intanto a scuola si intrecciano rapporti nuovi sia trapersone di classi ed età diverse sia con la figura adulta. Cisono state ad esempio molte discussioni e scontri sullaquestione rom. Inizialmente c’era difficoltà a sfruttarequalche volta il passaggio offerto dal pulmino scolastico diZivotan, e il tutto in presenza di compagne di scuola rom! Il

confronto si è svolto con tutt’altra schiettezza di toni e ditempi di elaborazione rispetto a come potrebbe accadere inun’aula. In particolare non è prevedibile l’esito di una crisi odi uno scontro, come cioè possa entrare nel lavoro oinfluenzarlo. Imprevedibilmente la “questione rom”, che èstata davvero scottante, si è dissolta nel momento in cui siè cominciato a lavorare tutti assieme e dunque anche con illaboratorio condotto dall’associazione Chi rom... e chi no, in

cui la presenza dai campi è nutrita. Di colpo non sipercepiva più nessun problema a scherzare e fare casinoassieme. Solo per qualcuno/a la questione è ancorasospesa, li vedo che osservano e riflettono, chissà cheraccontano a casa. Il rapporto fra i due laboratori Carlo Levi e Chi rom... e chino è in effetti molto permeabile. Partecipa conl’associazione qualche alunno della scuola e anche, fattoimportantissimo, dei ragazzini che nel corso dell’annohanno smesso di frequentare le lezioni, ritirandosi del tutto

o mandati, in quanto “incontenibili” epluribocciati, ad un centro diurno.Rincontrarsi sul palco dell’Auditoriume riallacciare la relazione significaanche mantenere un tramite con laformazione, modificare la percezionerespingente dell’educazione o ilsentimento di disistima. Fuori dai cancelli della scuola, lerelazioni si modificano diventando piùricche e sfumate. La scuola rimanechiaramente presente comel’ambiente comune di riferimento, nelquale ciascuno ha il suo ruolo e viveesperienze proprie. Si aggiungetuttavia un rapporto personale “diequivalenza” non contenuto nei ruoliistituzionali, che non sono comunqueannullati ma vivono ora unarelativizzazione, di tempi e ambiti,che li arricchisce. Si aggiunga poi il

compito dell’adulta/o di mediazione verso la famiglia:anche questo comporta un ulteriore ambito di confronto. Inogni caso il motore di questa liberazione e del dinamismodelle relazioni è sempre il teatro, il fatto di partecipare allamessa in vita di un’opera teatrale. Il primum non èl’intenzione pedagogica o sociale, quanto propriamentequella artistica: c’è rispetto per le dinamiche relazionali diciascun ragazzo/a sia con gli altri adulti (regista; guide;

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costumiste; tecnici; ecc.) che con i pari, si tutelarispettosamente lo spazio pedagogico istituito e quindi iltempo-vita delle esperienze che ogni ragazzo/a ci vive. Mala chiave di tutto, la garanzia fondamentale è sempre laconsapevolezza di essere impegnati in un’attività creativache acquisisce progressivamente senso. E il senso è l’operateatrale inventata e ricreata con il contributo di ciascuno/a,compiuta se ognuna/o trova la propria disciplina. Pare ogni volta un miracolo, ci si stupisce a riguardareindietro al percorso fatto. Penso ad esempio alla “trasfigurazione” artistica dellaparolaccia, che passa da essere sberleffo, oltraggio omaschera sociale, alla sua valenza liberatoria e mimetica.Questo non potrebbe accadere senza una contemporaneaevoluzione personale del gusto di ogni ragazzo o ragazza. E penso infine al mio ricordo di tutte le camminate dascuola all’Auditorium, in fondo alla Villa comunale. Colcambiare della stagione, sempre meno faticose e piùpiacevoli, sono diventate parte dell’esperienza intera. Mi ricordo le volte che ci si è goduti il sole, che si è parlatodella droga vedendo le siringhe a terra, che si è discussoanimatamente sul razzismo. Mi ricordo i branchi di caniaddormentati, una coppia che litigava e loro a ridere, glischerzi ed una pallina da tennis presa a calci fino a scuola.Ripenso sempre a un pomeriggio in cui lungo il vialesfrecciavano avanti e indietro, impennando e accelerandofollemente, due moto rosse di grossa cilindrata. Siamostate/i in silenzio a guardare e si poteva come toccare ilnodo di sentimenti contrastanti. L’attrazione, il senso diviolenza e di vita in corsa, l’intuizione di una cosa sbagliatae seducente allo stesso tempo… poi è passato il C74,siamo saltati su per fare l’ultimo tratto e nessuno, maschioo femmina, si è esaltato o ha avuto paura. Poi, appenaarrivati, ci si è dedicati di buona lena.

Daniela Del Perugia | Scuola Media Carlo LeviLavoro a Scampia dal 2004, insegno Lettere nella scuolamedia Carlo Levi. Nel maggio 2006 la mia amica e collega

Federica Lucchesini mi invita ad assistere allo spettacolofinale del progetto di laboratorio teatrale da lei portatoavanti nel corso dell’anno. Non sapevo granchè delprogetto: Federica me ne aveva parlato quando si eratrattato di presentarlo – e di difenderlo – in sede dicollegio docenti, poi però non me ne ero più occupata.Immaginavo stesse montando, insieme alle altre scuolecoinvolte, una recita di fine anno in pompa magna o giù di lì.Tant’è che alla prima a Scampia non ci sono andata: erotroppo stanca, l’Auditorium troppo lontano da casa, troppovicino a scuola (tornare di sera sul posto di lavoro? No,grazie: ho già dato!).Poi però quando Federica mi ha detto che si sarebbe fattauna replica dello spettacolo al Mercadante – praticamentesotto casa mia – non ho potuto fare a meno di andare: unpo’ perché voglio bene a Federica, un po’ perché una recitadi fine anno scolastico al Mercadante comincia adincuriosire. Così mi sono scusata con gli amici (stasera non posso, hola recita della scuola, non vi chiedo di accompagnarmi,tranquilli, ve la risparmio) e mi sono avviata verso il teatrocon l’idea di passare due ore noiosette; d’altra parte airagazzi farà piacere, bisogna dargli qualche soddisfazione!Da quella sera non mi sono ancora fortunatamente ripresa:non avevo mai vissuto un’esperienza così coinvolgente (esconvolgente) a teatro.Non pensavo che si potessero fare tutte queste cose con ilteatro: le invenzioni continue, la relazione con il pubblico, lavalorizzazione di ogni persona che partecipava al gioco.Soprattutto mi ha colpito l’uso della lingua da parte deimiei ragazzi, il napoletano di Scampia, un linguaggio che aimiei occhi aveva fino ad allora rappresentato il “marchio”della marginalità, dell’analfabetismo, del degrado sociale.Una lingua che avevo conosciuto soprattutto comevolgarmente aggressiva, a volte disperatamente implorante.Ebbene: in quella lingua ho sentito i miei alunni cantare,ridere, sbeffeggiare i potenti, prendersi in giro, riflettere sutemi di non poco conto come la violenza, il consumismo, ilconformismo.

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Una lingua bellissima, divertente, ricca, piena di sfumatureesattamente come quei ragazzi che ho riscoperto quellanotte al Mercadante. E poi c’è stata la sorpresa di Dusko, che avevo cercatoinutilmente di convincere a tornare a scuola dopo che se neera allontanato, umiliato dal razzismo violento dei suoicompagni di classe. Vederlo orgoglioso della parte che siera costruito, recitare in romanes e in italiano, a testa altadi fronte ai suoi mancati professori, circondato dall’amiciziae dal calore di tanti ragazzi mi ha fatto pensare adArrevuoto come ad un pezzettino di utopia realizzata, unritaglio di mondo vivibile.E quest’anno mi ci sono impegnata fin dall’inizio.Intendiamoci: è un’utopia maledettamente faticosa come ilmondo reale.I ragazzi non si trasformano in civili, maturi, attoriprofessionisti una volta varcata la soglia dell’Auditoriumquando anche solo fargli varcare la soglia è un’impresa: leragazze usano il tragitto scuola-Auditorium per conquistarel’agognato fidanzato (ha più chances colui che compie leacrobazie più pericolose col motorino). I loro fidanzatinitrovano assai divertente il nostro lavoro (io trovo un po’meno divertenti loro, ma pazienza); i maschi del grupposono spesso impegnati in un laboratorio parallelo diwrestling o usano arrampicarsi sulle impalcature persegnalare dissenso, sfiducia verso qualche attività.Il momento peggiore è stato l’arrivo di Zivotan, il nostroautista di etnia rom, che con il suo pulmino avrebbe dovutorendere il tragitto-calvario più rapido e sicuro (e menodivertente per i ragazzi, devo riconoscerlo). Quei pochiragazzi che hanno accettato di salire sul pullman lo hannofatto tra le risate e i gridolini di disgusto delle ragazze chesi erano rifiutate (che poi sono uscite dal progetto) e glisfottò del resto della scuola che osservava la scena dallafinestra.Con le ragazze, con le mie alunne di classe, abbiamo anchedovuto cercare di ricostruire un rapporto. Poi però: Veronica ha portato due amiche napoletane,Simone ha subito legato con Oliver (forse si conoscevano

già da prima) e un gruppetto di piccolini delle prime harimpiazzato i ragazzi persi per strada. Il lavoro stacominciando a prendere forma e io sono di nuovo quasifelice di rincorrere i ragazzi in giro per l’Auditorium, fare dapaciere tra quelli che litigano, coccolare i più timidi eballare con quelli più impacciati: aspettando i tre giorni (ele tre notti) di fuoco dello spettacolo di Ravenna.

Nicola Laieta | Scuola Media Carlo LeviAvete presente l’arca di Noè, con Noè che cerca di portarein salvo la famiglia dal diluvio e riesce ad imbarcare soloun coppia di animali per specie? Forse una guida come mepuò, rivolgendosi ai bambini, pensare di essere Noè, macredo che questa immagine la possa portare molto fuoristrada se ha intenzione di fare delle cose buone.Il primo “no” l’ho ricevuto da Emanuele, un ragazzo che allafine ha deciso di rimanere a terra, un “no” semplice esecco, come a dire “Non capisco quello che vuoi da me matutto quello che fai mi sembra stupido”. Da questo “no” siè ricostruito tutto un altro modo di stare, di mostrarsi aglialtri, si è instaurata una logica del farsi vedere - rispettoalla quale io ero completamente inutile - che ha contagiatotutti gli altri bambini e che mostrava come ci si devecomportare. Quel “no” è stata come la prima goccia dipioggia che preannuncia un temporale. Da lì si è statiproiettati sul ponte di una nave a guardare il livello delleacque salire, prima di salpare.Minuto per minuto abbiamo vinto e abbiamo perso,accompagnati per molto tempo da spettatori severi esarcastici, gli amici e i fidanzati, lì presenti per controllareche i loro pari non si permettessero di tornare bambini, digiocare, di partire con noi sulla nave e di viaggiare.L’Auditorium era invaso ogni martedì da bambini il cuiprimo scopo era quello di stare al di sopra, ‘a ‘copp, deglialtri, (io non so come lo si impari esattamente). In quelmomento, bastava segnare un punto per dire “Questo è ilcentro, qui sta quello da stare a sentire” perché loroscappassero irrimediabilmente nella periferia di quel

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centro, verso l’alto, verso il punto più elevato,arrampicandosi sui tralicci per guardare dall’alto in basso. Insieme a loro abbiamo passato un allenamento continuoalla lucidità e all’attenzione, dove non si può abbassare maila guardia perché ad ogni frase detta corrisponderà sempreuna risposta, dietro cui i nostri ragazzi non resteranno mai abocca aperta ma la useranno per rispondere, per porsicome attori e non come spettatori.Molte volte anche l’agnellino più mansueto si è messo ascalpitare, quasi a volersi avvicinare all’orlo della nave perbuttarsi in mare, e allora l’istinto è stato quello di legarlo.Poi sono arrivati degli angeli da lontano, con un accentostrano, misteriosi, e tutti gli animali compreso me si sonofermati a guardare e a pensare “Questi sì che ci salverannodalle acque!”. Invece gli angeli non ci dicevano niente,anzi, a dire il vero, a volte mi sembravano anche un po’distratti. “Neanche più gli angeli” pensavo “fanno il propriodovere”. Invece, all’improvviso, l’angelo, quello coi capelliun po’ grigi, mi ha chiamato Noè (invece i bambini michiamavano Basettone o al massimo Toni Colombo per unareale somiglianza ad un idolo neomelodico). “Noè” - hadetto l’angelo Martinelli - “Adesso smetti un attimo diparlare e fammi sentire quella giraffa dal collo così lungocosa vede nel lontano, all’orizzonte”. Così, i bambini si sonomessi a parlare.Non voglio dire che poi, sulla nave, nell’Auditorium, siaandato tutto bene, perché poi c’era chi parlava sempre echi non parlava mai, e ancora diversi sono stati gli scossoniper far capire a tutti che bisognava equilibrare i pesi, pernon fare inclinare la nave tutta da una parte. A volte,pensando a quelli che avevamo lasciato a terra e che nonerano voluti partire, mi sono detto che magari unbell’aereo, un elicottero, qualche mezzo più moderno econfortevole, quelli lì se lo sarebbero presi ed invece io hodubitato dell’arca, dell’equipaggio e di me. Per questo, inprimo luogo, ci siamo guardati di sottecchi, con sfiducia. Avrei voluto rispondere spesso, a tutti quelli che dicevano“Questo viaggio non mi piace, mi annoio. non mi diverto”che quel viaggio non era una cosa da comprare, che non

poteva essere l’ennesimo “oggetto” di cui dire mi piace onon mi piace. Invece era una cosa più importante, unatraversata verso l’orizzonte. Comunque, alla fine, il sermonegliel’ho risparmiato e sulla arca ci si è incominciati adivertire, sono nate le prime amicizie e si è fatta qualchefesta, ballato e scritto delle poesie. A quel punto sonoarrivate altre navi e altri animali delle specie più varie,bravissimi anche loro nell’arte di cantare e ballare. Alla fine mi hanno spiegato che io non ero Noè ma unaspecie molto rara di paguro, così mi sono rilassato e misono messo a remare, a controllare le vele tra unagrattatina di schiena con uno scimpanzé ed uno scivolo sulcollo di una giraffa. A volte continuo a pensare a quelli chesono rimasti a terra e spero davvero che si siano trovati unmodo per salvarsi… salvarsi da questa fitta pioggia cheforse nessuno vede ma che costituisce l’acqua su cuicontinuiamo a navigare.

Marta Gilmore | Scuola Media Carlo LeviQuando alcuni anni fa ho iniziato, quasi per caso, a fareprogetti di teatro nelle scuole di Roma e di Napoli pensavodi dover insegnare qualcosa, poi ho capito che la cosaesaltante del teatro fatto da e con gli adolescenti eral’aspetto squisitamente artistico, era l’evento teatrale chesi sprigionava in questo incontro. In Arrevuoto tutte lepotenzialità e le fatiche di questo evento sono comeamplificate. Al primo incontro io e Nicola Laieta, che inteoria avremmo dovuto lavorare con il Liceo Elsa Morante,pensavamo che in fondo bastasse “vedere come facevaMarco”. E invece lui ci ha buttato nell’arena e ha detto “Cisono i ragazzini della scuola media, fateli giocare”. E così,abbiamo improvvisato ed è andata bene, talmente bene chesu due piedi siamo diventati le nuove guide della Carlo Levidi Scampia. Dell’incontro successivo ho due ricordi: il primoè la pagina e mezzo di appunti dattiloscritti che avevomandato a Nicola su come avrei voluto impostare il lavoro.Il secondo siamo io e Nicola, da soli al centro del palco,mentre uno sciame di ragazzini urlanti si disperde in tutte le

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direzioni possibili in una sola frazione di secondo. E così hoiniziato a capire che il problema non era apprendere, néapplicare un metodo, ma riuscire a stabilire un contatto conqueste persone che avevamo davanti. Io poi, avevo unadifficoltà in più. Il fatto è che a Scampia ero totalmentestraniera. Dovevo trovare un linguaggio, una maniera perentrare in comunicazione. Poi c’era l’esigenza di stabilire delle regole, ma senzaperdere quel minimo di credibilità mettendosi a fare icensori o a scimmiottare i professori. Un giorno Fabio, ilragazzino che fa Bugrelao, ha detto ad un altro ragazzo chesi era appena aggiunto “Qui non è come a scuola, qui puoidire ‘a bucchine ‘e mammeta tutte le volte che vuoi” ecredo che, più o meno, cio equivalesse da parte sua a unsuo riconoscimento del nostro lavoro. Però in teatro ci siscatena ascoltandosi, altrimenti vigerebbero le stesse leggiche ci sono fuori e tutto perderebbe di senso. È stato moltofaticoso cercare di porre un limite alle prevaricazioni, chetra ragazzini di dodici anni possono essere particolarmentecrudeli. Alla fine, l’unica strada, l’unico linguaggio possibileè stato lo spettacolo, capire insieme a loro che noneravamo lì per intrattenerli ma per lavorare, per crearequalcosa che prima non c’era.Così siamo andati avanti navigando a vista, con Federica eDaniela, le due insegnanti-guide che ci aiutavano a tenereinsieme i pezzi, ed il gruppo che un poco alla volta hacambiato composizione. Ci sono stati alcuni abbandoniparticolarmente difficili da accettare, come quelli di Nancye Maria che hanno smesso di venire per non salire sulpulmino dei rom e perché i loro fidanzati si mettevanocontro in ogni modo. Ma anche qualche piccola vittoria,come Simone, che sembrava non potesse proprio farcela eadesso è sempre l’ultimo ad andare via. E anche il fatto diessere “straniera” è divenuto accettabile. Un giornoVeronica mi ha detto “Ma tu vieni da Roma solo per staredue ore con noi?” e mi è sembrato che la cosa le facessepiacere. Adesso l’esaltazione sta nel vederli mischiarsi con gli altrisul palco. Lì diventano fortissimi. Stanno ore a fare quello

che chiede Marco e non spariscono nei recessidell’Auditorium: sono davvero una compagnia di attori conil loro regista. Poi, ogni tanto, qualcuno si rotola per terraaddosso a qualcun altro… e vorrei ben vedere che non lofacesse.

Barbara Pierro | Gruppo Chi rom e… chi noArrevuoto, rivolto, sconquasso, metto sottosopra, ribalto lasituazione. Il titolo dello spettacolo è un terminenapoletano diventato nel tempo comprensibile anche perchi viene da Ravenna. Durante i primi mesi di laboratorio, èla parola che risuona di più: in qualsiasi momento, perqualsiasi ragione futile o importante che sia, puoi sentirla.La costruzione del percorso teatrale con il gruppo di ragazziche seguiamo, comincia al Gridas (Gruppo Risveglio dalSonno), centro sociale di Scampia e punto di riferimentodella nostra azione sul territorio. All’inizio, il progettosembra pensato per le scuole e noi non lo siamo, la nostrapresenza al suo interno non è per niente scontata, per dipiù arriviamo con un gruppo eterogeneo per età,provenienza e storie di vita, con una serie di complessità epeculiarità. La passione e la consapevolezza con cuiportiamo avanti da anni i percorsi pedagogici con rom enapoletani, unitamente alla fiducia degli amici che ci hannovoluto nel progetto, fanno sì che noi partecipiamoall’iniziativa. Pensare chi coinvolgere, immaginarseli su un palco,incontrarli e convincerli a fare un laboratorio di teatrotenuto da una compagnia che viene apposta da Ravenna, èil nostro punto di partenza.“Vuoi venire a fare un laboratorio di teatro? C’èun’importante compagnia teatrale, ci saranno tanti altriragazzi e ragazze, 50, 60 con cui ci incontreremo per fareuno spettacolo a Scampia ed uno a Napoli, in un teatro chesi chiama Mercadante”. All’inizio era tutto incerto, ogni domenica si ripetevano letelefonate per annunciare il laboratorio del giorno dopo, perfissare l’appuntamento alle 16.00 al campo rom e fuori la

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chiesa del rione. Ci andavamo e, spesso, capitava di nontrovarci nessuno, così ci guardavamo intorno ecominciavamo a cercarli nelle “Case dei Puffi” (il Lotto P),ai piani alti delle torri dove non ci sono i citofoni e puoientrare solo perché ti conoscono, oppure nei campi rom,per strada o nei ritrovi. Li incontravi nei loro spazi e luoghiquotidiani, che sentivi spesso così distanti dalla dimensionedel teatro, quello spaccato di vita lo avvertivamo cosìlimitante rispetto alla nostra percezione del mondo,all’impegno e alla fatica che ogni giorno metti nelle coseche fai per vedere meglio quello che ti accade intorno, perprovare a capirlo e, nel tuo piccolo, a cambiarlo. Sentireperciò dai ragazzi tutte quelle storie sul “Ma a che serve?Tanto tutto resta uguale”, ci creava una sorta diinsofferenza e di rassegnazione. Ma è valsa la penaprovare e riprovare, bussare all’infinito a quelle porte,anche quando sai già che non si apriranno ma non tiimporta perchè tu vuoi fargli sapere che ci sei, che sei lì perlui, che puoi aspettarlo tutto il tempo di cui avrà bisognoper convincersi che può volare, ridere, scherzare, esserefelice insieme a te.Più in là ci saremmo accorti di quanto questa realtàcomplicata e contraddittoria sarebbe entrata a pieno titolonello spettacolo, fino al punto in cui era lo stessospettacolo a trarre da quelle storie forza e vitalità. Il nostrogruppo, e vorrei dire il nostro contributo ad Arrevuoto, nonè potuto nascere da un appello alle classi di una scuola magirando, contattando, insistendo e proteggendo, senzatregua.In questi giri, così preziosi perché ci consentivano dicostruire un’intimità profonda e difficilmente ripetibile,trovavo magari Anna immersa in un riposino pomeridianodopo la scuola e che a fatica apriva gli occhi davanti a meche ero pronta a trascinarla al laboratorio. Gelian, cheancora indaffarata a preparare la legna per la stufa, cichiedeva di ripassare dopo un po’, quando bella eprofumata sarebbe stata pronta ad affrontare la suatimidezza. Dusko ed Antonio che non uscivano da casa seprima non si erano puliti le scarpe ben bene e ingelatinato i

capelli con diligenza maniacale; Jasmine, costretto alasciare le prove per partire con la famiglia verso nord eche d’un tratto fa ritorno da solo, quando ormai lorimpiangevamo, per andare in scena.Tanti momenti si affollano nei ricordi, le chiacchierate nelleloro case con le famiglie, le serate passate a raccontaredello spettacolo e dell’importanza dei loro figli nellacostruzione dell’intero percorso, la possibilità per molti diandare a teatro per la prima volta… tutti elementi che sisono rivelati fondamentali per creare quel senso dicomunità che unisce le persone intorno ad un percorsocondiviso.La cosa importante non sembrava allora essere il teatro oper lo meno quello che così chiamavamo noi adulti, vistoche l’idea di teatro dei ragazzi era piuttosto vaga. Gliesercizi di preparazione poi, all’inizio “Tutte stronzate”perché creano imbarazzo, ma alla fine divertenti perchétutti ci mettiamo in gioco, superando i ruoli che rivestiamo.La cosa che ci ha tenuto insieme è l’energia che abbiamorespirato in questi momenti di grande sintonia, lasensazione di poter dare vita ad una bella storia fatta diguerra, di determinazione, di insofferenza, di pace e dibellezza. Con la maggior parte dei ragazzi del laboratorio ciconosciamo da anni e l’esistenza di una relazione autenticae consapevole ha facilitato il percorso, anche se ledifficoltà a volte pesano molto. Abbiamo lavorato sullacapacità di concentrarsi, di essere gruppo nel rispetto deitempi e delle caratteristiche personali di ognuno, illaboratorio è diventato man mano spazio di vita in cuiriuscire a canalizzare le tensioni, le insofferenze, le paure,per esprimere il meglio delle proprie potenzialità. I laboratori sono stati in sintonia con il lavoro chesvolgiamo da anni in strada, grazie al teatro ora parli conloro di Aristofane come di qualcuno conosciuto da sempre,oppure nel rione intoni l’ottava del Boiardo per chiamareAntonio al 10° piano di una torre, o al campo rom ripetiall’infinito la bellezza e l’importanza delle loro presenza lì,della potenzialità della lingua romanes come elementodeterminante nella composizione magica dello spettacolo.

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ritrovato lavorando con Marco e i ragazzi del Teatro delleAlbe in questo esperimento di non-scuola napoletana…I giorni di lavoro sono stati una sorta di percorso all’inversoverso le motivazioni iniziali, la bellezza dello stare in scenaincoscientemente, le domande vecchie ma così importanti

che ci si pone quando si comincia qualcosa diassolutamente nuovo…Arrevuoto, progetto trasversale per la città, che abbracciacentro e periferia, penso che trovi la sua forza proprio sulfatto che adolescenza e teatro siano categorie trasversali insé…Mi è stato affidato come guida teatrale un gruppo di circaventicinque ragazzi rom e napoletani.Tutti molto motivati, il gruppo era libero e non si rifaceva adalcuna scuola ma non è stato un problema. Le guide con cuiho condiviso l’esperienza fanno un ottimo lavoro disupporto e coesione, così mi è sembrato di essere accoltoin una situazione già strutturata…

Lavorare sulla possibilità di costruire percorsi significativi incui i ragazzi sentono di poter trovare un loro spazio fisico ementale in cui esprimersi, attraverso la “messa in vita diuno spettacolo teatrale”, diventa la chiave per consentirglidi scegliere di venire, di impegnarsi e sudare con te perchécosì senti in qualche modo di esistere dignitosamente. Iragazzi con cui ci ostiniamo a lavorare sono quelli chevengono espulsi normalmente dalle scuole medie e inseritiin classi speciali sistemate in “strani posti” dovetrascorrono tre giorni a settimana. Quando ho chiesto adAnna “Pupatella” cosa fosse questa classe, lei ha rispostoche “È una classe dove stanno tutti i ragazzi terribili, soloche ora i terribili sono aumentati e le classi sono passate adue”. Ragazzi che decidono lucidamente di non mettersi neiguai, di non andare a rubare quel giorno e venire allaboratorio, che stanno agli arresti domiciliari e chevengono rilasciati pochi giorni prima dello spettacolo, intempo per parteciparvi. Gli stessi che alla fine riescono asalire sul palco e ad arrevutare la scena davanti alpubblico, a dispetto di qualsiasi stereotipo e immagine cheinsegnanti, giornalisti, adulti borghesi e saccenti gli hannoincollato addosso. Sono le loro mamme che all’esternodell’Auditorium di Scampia minacciano di portarsi via i figlise non le fanno entrare anche per la seconda serata dellospettacolo… finalmente quello spazio viene restituito allagente dopo 15 anni di chiusura e, i primi a salire sul palco,sono proprio loro.

Emanuele Valenti | Gruppo Chi rom e… chi noNon si è seriosi a diciassette anni. (Arthur Rimbaud)Ho cominciato a fare teatro molto giovane, in un piccololaboratorio napoletano, una palestra teatrale pergiovanissimi e in seguito, come giovanissimo, sono statomesso in scena. I primi anni fare teatro è stato assolutamente incosciente,impulsivo, non ragionato; la scelta, lo studio, i percorsipossibili sono venuti solo molto dopo.Scrivo questo perché è proprio la stessa energia che ho

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Un problema all’inizio poteva essere quello delle età,c’erano ragazzi di età diverse, dagli 11 ai 20 anni … nelleproposte c’è voluta un po’ di attenzione nel capire cosapotesse andare bene per tutti, grandi e piccoli.I rom poi hanno una vita familiare molto vivace e questo inun certo senso è entrato nel lavoro…Parola chiave: ascolto delle differenze di ogni partecipante.Percorso scelto: ricerca di zone comuni nelle qualiconfrontarsi.Molti dei giovani con i quali ho lavorato sono dei bravissimiballerini, così una cosa che abbiamo fatto è stata quella dipartire dalla danza.. La scommessa è stata tenere assieme

il gruppo fino alle prove vere e proprie, dove si assegnanodei ruoli e viene fuori lo spettacolo. Ciò che ritengo sia fondamentale, e le modalità delprogetto Arrevuoto ne danno ragione, è la libertà con laquale i ragazzi possono scegliere. Spesso si tenta dilavorare sulla creatività riproponendo gli schemi costrittiviscolastici. I ragazzi non studiano, non vanno a scuola e

allora devono assolutamente fare altro; così gli si dà soloqualcosa da cui fuggono nuovamente.Credo che, per essere valida, un’operazione artistica, anchein contesti difficili, debba essere libera, che sia necessariopoter scegliere e rischiare anche che il gruppo si sfaldi, chequalcuno non capisca. Credo che così si possa creare qualcosa, che poi magariabbia anche ricadute di altro tipo nel contesto sociale, mache trovi la sua forza proprio nella fragilità.

Sergio Longobardi | Liceo Elsa MoranteSensazioni di Novembre:Ero a Berlino, e quasi, quasi ci volevo rimanere. La TV e igiornali tedeschi parlavano della faida di Scampia, diGomorra e di camorra e io da lontano sapevo che lasituazione a Napoli non era esattamente così come ladescrivevano i media europei che raccontavano una sortadi leggendario far west metropolitano al sole mediterraneoe ai panni stesi, articoli leggermente intrisi di quel giudiziodi cronaca sottilmente intollerante e folcloristico con cuispesso si giudica il diverso, quello che non puoicomprendere …Pensavo: “Scappo in Brasile da Lula o inSpagna da Zapatero”.Insomma, avevo paura di tornare a Napoli, a lavorare aScampia per di più, lo sentivo come uno stancanteennesimo tentativo dopo i miei primi 20 anni di teatro nellacittà, il clown di strada a Piazza San Domenico, il teatrocon Pippo Delbono, Babbaluck, il lavoro fatto al Damm etutto quello che nel tempo ho costruito, cercato, tentato…partendo da Napoli, o meglio dalla sua provinciadimenticata… Questo nonostante la stima artistica eumana per tutte le persone che erano coinvolte nelprogetto e per quel sogno che poteva finalmente realizzarsidi lavorare con Marco Martinelli.Ma temevo, vista la situazione politica, che fosse untentativo vano, a tratti ingenuamente demagogico epensavo si sarebbe dovuto fare un “arrevuoto”, masoprattutto per la borghesia napoletana, quella malata di

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snobismo e di inaugurazioni e cocktail sontuosi e pacchiani,una borghesia provinciale e presuntuosa… vittima ecarnefice dell’altra Napoli, certamente più vicina a me e piùviva ma poi altrettanto disperata, povera, a tratti tribale,primitiva, spietata… “Napoli è in declino…”pensavo.

Sensazioni di Marzo:Coi ragazzi del Liceo Morante di Scampia, che ho seguitoquest’anno, ho un rapporto stupendo. Sono diversi unodall’altro, dei mondi a sé in cui c’è pura esuberanza,comicità involontaria per alcuni e poetica voglia di riscattosociale per altri… Mi sono ritrovato… Mi sono rivistoadolescente a Torre Annunziata a fare teatro per cambiareil mio destino e non farmi di eroina per morire come moltinegli anni ottanta, perché c’è poco da fare, queste sonoscelte nell’adolescenza determinanti e io sento “i ragazzi diScampia” consapevoli, freschi, raggianti, forti… Mi hannoridato la speranza su Napoli e ho voglia di continuare alavorare con loro… Ma bisogna ricordarsi e dimenticare diessere “I Ragazzi di Scampia”, bisogna trovarel’espressione necessaria al di là delle etichette che tiaffibbia la società in cerca di scoop… ne abbiamo parlatodurante il laboratorio.Ubu ci aiuta nel cammino e ci fa capire come il potere siada sempre attaccato alla sedia. Marco ha avuto delleintuizioni semplicemente necessarie e felicemente serie.Credo che Napoli sia in cura omeopatica e che i rimedisono lì, hanno dai 13 ai 17 anni e sono di Scampia o diPosillipo e soprattutto che a loro poco importa… è tutto.

Anita Mosca | Liceo Antonio GenovesiQuando Marco mi chiese di essere la guida del LiceoGenovesi di Piazza del Gesù, la mia prima reazione internafu: “No! Ma io voglio andare a Scampia!”.Ero sicura di trovare al Genovesi ragazzi intelligenti,interessati, disponibili, ma credevo di trovare nella periferianord della città, la forza e la bellezza della necessità.Niente di più sbagliato.

Gli adolescenti, centro del lavoro della non-scuola delleAlbe, hanno dimostrato a me, come a tutti, che sonoun’energia pura, impossibile da inscatolare in qualchecomoda definizione. Al Genovesi ho incontrato altrettantabellezza e disperazione di quanta ne vedessi negli altrilaboratori che fanno capo al Liceo Elsa Morante, alla CarloLevi e all’associazione culturale Chi Rom… e chi no diScampia, che ho seguito quest’anno.Ombre, leggerezza, profondità, ironia, sono saltate fuori alliceo del centro storico, dopo una prima fase discrutamento, che sembrava viaggiare molto sul razionale,dei ragazzi nei confronti di noi guide. L’autenticità dellavoro di Marco e delle Albe hanno fatto saltare il frenodella logica, del pensare, dello spiegare ed hanno fattoprocedere il laboratorio attraverso il gioco ed il fare.Dopo tre anni di lavoro sulla Palestina, tra viaggi nel VicinoOriente e progetti di messa in scena di autori arabi,Arrevuoto è stata l’occasione di ritornare alla città, alterritorio, alle radici, oltre che la preziosa opportunità dilavorare con uno dei registi più vivi in Italia. Ma Arrevuoto è stata, ed è, innanzitutto una scioccanteesperienza umana: per sette mesi quasi cento personelavorano insieme, comunicano, intrecciano rapporti,litigano, scambiano pareri e punti di vista, collaboranoinsieme ad un progetto spettacolo, dai ragazzini rom aquelli della Napoli abbiente e a quelli di Scampia; dalleguide napoletane, teatrali e socioculturali, a quelle delleAlbe, dallo staff del Mercadante agli operatori video, alfotografo e alla costumista. Tutti che formano un corpounico, pur rispettando ed esaltando le singole personalità. Ènel caos più totale che un incredibile Marco Martinelli ci haguidati, per il primo anno, verso una pirotecnica versione deLa Pace di Aristofane (Pace!) e, quest’anno, adun’inquietante tragico-comica versione del Padre Ubu diAlfred Jarry

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Antonella Monetti | Liceo Antonio GenovesiLe ragazze ed i ragazzi del Genovesi sono per lo piùemancipati, colti, non necessariamente benestanti masempre polemici. Pur essendone consapevoli subisconodiffusamente l’omologazione estetico-ideologica. Me lisarei aspettati più politicizzati, più radicali ed invece sonofragili e dilaniati dalle contraddizioni. Quando nel ’76 eroalle Magistrali e facevo politica al centro storico, leassemblee con quelli del Genovesi erano frequenti e ancoraoggi le ricordo bene. Avrei sempre voluto essere anch’io delGenovesi perché mi sentivo troppo poco intellettuale.Manifestavo altri talenti.... Da adolescente anch’io facevoteatro, anzi, danza, facevo teatro come ballerina, studiavopianoforte, filosofia e matematica. Pensavo che avrei fattoil conservatorio e l’università. Invece mi sono arresa allospettacolo, non ho più studiato altro che teatro, recitazioneed arti connesse. I ragazzi del Genovesi sanno già un saccodi cose: si può discutere di un testo teatrale con loro comecon gli adulti, li si incontra spesso a teatro… anche se avolte si dimostrano indolenti, quasi quanto i detenuti. Neicinque anni di teatro che ho condotto in carcere eral’opposto, gli attori non leggevano e non capivano che acose fatte, ma alla fine esprimevano un teatro forte,sempre sorprendente, ricco e lieve. Da adolescente ero (elo sono ancora) iperattiva, lavoravo, studiavo ma pensavopochissimo, infatti ho impiegato quasi 15 anni di onorataprofessione (scuola di Gassmann, teatri stabili, televisione,cabaret, doppiaggio) per mettere a fuoco una mia idea diteatro. Alla fine ci sono riuscita solo grazie al periodo dimilitanza sociale e libertaria al DAMM di Montesanto e alconfronto con i compagni di allora. Alcuni dei ragazzi delGenovesi hanno un talento spiccato, taluni straordinario.Trovo meraviglioso osservare l’affacciarsi del talentoartistico negli adolescenti, le passioni/ossessioni chegenera e di cui conosco bene gli esiti. In questo sensoriesco a ritenermi un “adulto di riferimento” per quelli delGenovesi, nonostante la mia presenza garantisca loro ilfatto che non cresceranno mai... Il teatro che esprimono èinfine veramente la cosa più affascinante, è struggente,

tragico, sorprendentemente sintetico, patafisico: nuovo.Purtroppo capita loro di non capire i propri segni e di averedifficoltà a riconoscersi nel loro stesso teatro... sarà latensione all’omologazione di cui sopra, ma siamo qui persostenerli…. e resistere.

Alessandro Renda e Roberto Magnani | Teatro delle AlbeLo scorso anno, nel decidere le modalità con le quali leAlbe avrebbero potuto condurre una non-scuola napoletanaper un lungo periodo di tempo, fu importante stabilire chela permanenza a Napoli non poteva essere più lunga di duegiorni alla settimana durante la prima fase. Questopermetteva lo svolgimento di quattro laboratori, cheavrebbero di lì a poco preso il nome di Arrevuoto, mentre ilTeatro delle Albe continuava a portare in giro i suoispettacoli, a fare il quindicesimo anno di non-scuola aRavenna, ad organizzare due stagioni di teatro ed altroancora. I giorni decisi furono il lunedì e il martedì. Ma comepercorrere, ogni settimana e senza soffrirne troppo, i 550chilometri e ritorno che dividono Ravenna da Napoli?Scartata l’idea di viaggiare in auto, il treno sembrò la sceltapiù convincente. Il treno perché concede momenti in cui sipossono riorganizzare i pensieri, leggere, discutere,scrivere… Perfetto! A che ora la partenza per poter esserelunedì a Napoli al primo laboratorio (Liceo Genovesi) alle13.00? … alle 6.30! Per chi considera, come noi, le 12.30un buon orario per stabilire l’inizio della giornata, le 6.30sono una sveglia traumatizzante. Ma l’entusiasmo di fare lanon-scuola a Napoli ha preso subito il sopravvento sulledifficoltà di cambiare così repentinamente ritmo. In più,un’altra cosa faceva apparire meno impossibile lalevataccia del lunedì all’alba: il pensiero del ritorno. Peressere di nuovo a Ravenna il martedì, l’Eurostar ciattendeva alle 17.30, dandoci appena il tempo di salutare iragazzi del Liceo Morante di Scampia, l’ultimo laboratoriodella due-giorni. Tuttavia, giunti a Bologna si comprendevache cosa vuol dire finire su una tratta mal collegata.Arrivare a Bologna alle 22.12, significa aver perso l’ultimo

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treno per Ravenna delle 22.06 e dover andare con unregionale a Ferrara e poi prendere un intercity, ricordandosidi scendere a Ravenna per non percorrere tutta la trattafino a Lecce. Arrivo: 0:30. Qui si tralascerà il racconto deiritardi e delle vicessitudini all’ufficio clienti Trenitalia diBologna. Invece, per il secondo anno di Arrevuoto è arrivatauna bella sorpresa: una nuova linea aerea Bologna-Napoli,con prezzi inferiori a quelli del treno. Cerimonie! Trionfi!Tripudi! Tre ore di sonno guadagnate all’andata, tre ore diattività mentale recuperate al ritorno. Tutto questosalvaguardando i quattro laboratori e continuando ad averegli stessi spazi di lavoro durante i viaggi. Cosa succededurante il percorso, non è cosa nota a chi ci vede giungerea Napoli ogni settimana. Inutile negare che molte ore sonodedicate al riposo, specie nel viaggio di andata, quellodella levataccia... Ma gli spostamenti diventano anche ilmomento di lavoro sullo spettacolo: qui si modifica il testo,si discute con Marco, ci sono momenti di distensione e diazzeramento dell’attenzione ed altri di concentrazioneassoluta sulle questioni nodali, si ragiona sui ragazzi, sulleloro improvvisazioni e si partoriscono idee date dallesuggestioni della scena. Il viaggio permette quelle sosteobbligate di riflessione, utili ad avere uno sguardo piùlucido sui quattro laboratori e a far sedimentare lafolgorante energia delle decine di adolescenti napoletani,assorbita in poche ore. Una volta durante uno dei primilaboratori di quest’anno, un ragazzino delle medie, sullagradinata dell’Auditorium di Scampia, seduto sotto di noi aguardare i suoi compagni che lavoravano su alcuni giochi diriscaldamento, improvvisamente si gira, ci guarda e conaria seria e interrogatoria ci chiede in napoletano: “Ma avoi, per venire qua, chi ve lo paga il biglietto?”.

Marzia D’Alesio | Teatro Mercadante Ciò che mi fa amare il Teatro è che a Teatro una persona dasola non serve a nulla. C’è necessità delle relazioni, e delledifferenze. C’è necessità di dialogo fra le differenze, e diincontrarsi, per portare avanti un progetto comune.Arrevuoto è una grande rete di persone, generazioni,professionalità diverse a confronto. Il Teatro in tutte le sueparti - istituzionale, artistica, tecnica e organizzativa – siincontra con il mondo della scuola e degli operatorispecializzati nel sociale, in un progetto dedicato agliadolescenti, con la loro entusiasmante vitalità. Lavorare all’organizzazione, che è quello di cui mi sonooccupata più da vicino, è stata un’esperienza molto forte, dicrescita, di senso e di sentimento, per me. Fare da anello,essere in ascolto, lavorare sulla mediazione, insieme contutti, per concorrere a “dare gambe” alle idee, ed essereosservatore privilegiato di un processo in costruzione, èstata ed è una grande opportunità. Arrevuoto contiene in sél’idea dello spostamento: lavorare per uno spostamento,con passione, è un po’ lo stile del Teatro Stabile “senzaorologi” che è il Mercadante. Piuttosto che l’evento finaledi Arrevuoto, a tutti i livelli, è il processo importante, illento percorso di un gruppo di lavoro così ampio in un climadi fiducia. Lavorare sulla fiducia, sull’affidamento all’altroda sé a tutti i livelli (nell’era del precariato!), mi sembrauna cosa molto importante per tutti noi, non solo per iragazzi. Ci sarebbero tante telefonate, incontri, e-mail,riunioni, sopralluoghi, viaggi (etc…) “arrevuotanti” daraccontare; un episodio per tutti dello scorso anno: unragazzo delle medie molto timido che vedevo sempreemarginato dagli altri compagni di scuola durante ilaboratori, dopo il debutto a Scampia ha telefonato in

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Teatro e ha detto: «Sono un attore di Arrevuoto e vorreiprenotare 2 biglietti per il debutto al Mercadante». Quantosia stato incredibile per me ricevere questa telefonata, nonlo so spiegare. Non lo so spiegare, so solo che la primaimprovvisazione teatrale che ho visto fare ai suoi compagnidelle medie è consistita nello sbriciolare un pacchetto difazzolettini di carta per simulare una sniffata di cocaina!Con Arrevuoto la prenotazione di 2 posti per lo spettacolodiventa un’emozione, un momento di stra-ordinariaamministrazione!

Maica Rotondo | Collaborazione costumiSono a Scampia sullo stradone che porta all’Auditorium. Gli alberi non nascondono la solitudine dei marciapiedi, dei viottoli, delle case, ma l’ossigeno c’è. Lì, in viale dellaResistenza, ci sono novanta ragazzi che aspettano di saliresul palco. Ho con me quattro bustoni pieni di costumi. Sono centodieci capi, centodieci parti di farfalle. In scenanovanta pulcinella moderni avvolti in tute bianche diprotezione si trasformano in novanta farfalle colorate,novanta mondi pronti a battagliare nell’improbabile guerradi Padre Ubu. Dobbiamo vestirne novanta io ed ErmannaMontanari. Ancora mi sembra impossibile. Ma è questa la magia di Arrevuoto. L’energia che i ragazzisono capaci di trasmettere diventa inevitabilmentemovimento, azione, concretezza. Ed ecco allora che mi ritrovo a China-Mercato, a Gianturco,a contrattare con un cinese che, fumando e contando soldi,mi dice che le confezioni che vende sono solo daventicinque pezzi, con colori già stabiliti, taglie già stabilite,

prezzo intrattabile - stop - fine della conversazione. Oppurea S. Giuseppe Vesuviano dove grossisti cinesi e italianiconvivono respirando l’uno l’odore dell’altro, e dovechiedere una fattura per cinque capi è una bestemmia. Ma io ci provo lo stesso, ci provo sempre perché se penso aGianmarco con quella maglietta addosso, so che si sentiràbene, se penso che Ludovica mi ha pregato di non volereuna gonna e che io le compro un bel pantalone adatto a lei,se non me li ricordassi tutti e ottantasette potrei fare ameno di sbattere da un venditore all’altro contrattando,litigando, strisciando per ottenere quella cosa lì. La straordinarietà e la fragilità di molti di loro ècommovente. E allora sto lì a contare, a calcolare: trentaquattro donne,trentacinque uomini, sedici bambini, quante L, M, XL,quanti strati di magliette per ognuno, quanti colori, quantecombinazioni, quanti sono, chi sono e come sono! Trecentocapi. Trecento volte ricordare, immaginare, sentire.Trecento volte dire a me stessa che non c’è bisogno dicreare la realtà, ognuno di loro è già un mondo e io nonposso non vederlo, non posso non tradurlo. Io ci provo, ciprovo sempre. E così quando arrivo all’Auditorium e vedo i ragazzi ancoralà fuori tra risate, abbracci e calci nel sedere, non sento piùil peso dei bustoni, dimentico la questione delle fatture, lostress della contrattazione, il viaggio di un’ora incircumvesuviana, il traffico in città. Mi bastano i loro baci,dolci come le caramelle alla fragola che Vittorio porta intasca.

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Goffredo Fofi Contro i portatori di civiltà e di cultura

È grazie alla lungimiranza del Mercadante che il progettodelle Albe a Scampia continua e in una direzione valida,ancor più perché non si è esaurita nel 2006 ma le si èconcesso un tempo, un triennio, che dovrebbe essere ilprimo requisito per progetti seri e incisivi. Tuttavia,quest’anno, Arrevuoto non potrà essere una ripetizione diquello dell’anno scorso. A Scampia non molto è cambiato,non è cambiata la realtà di tutti i giorni delle persone che viabitano, e soprattutto quella dei più disagiati e marginali. Ècambiata l’attenzione su Scampia, gli sguardi da fuori,l’intervento dall’alto, ed essendo quest’intervento ancheeconomico e non solo di salvaguardia dell’immagine deipolitici (senza distinzione di schieramento, tutti si sonooccupati di Scampia in modi più o meno opportunistici, e sideve anche dire che non potevano non farlo) attorno adesso si sono mossi gruppi e associazioni con interessi nonsempre altruisti. Direi anzi che è anche tra i gruppi, i partitie le associazioni che si dicono molto di sinistra (epresumono di esserlo solo perché gridano più alto o siagitano più freneticamente) che la lotta per trovarsi ai primiposti nella distribuzione di beni e di posti (anche nel sensodi occupazione di luoghi fisici) benevolmente concessidall’alto, non è mai stata così ambigua. Tutti si occupano diScampia, tutti hanno da dire qualcosa o da dare qualcosaagli abitanti di Scampia. Ma sono pochi quelli che lo fannosenza mirare a tornaconti individuali o di gruppo o dipartito. È la capacità di Arrevuoto di lavorare con i ragazzi, con lescuole, con la società di Scampia e di collegare alla societànapoletana la società di Scampia, (che è forse più aperta etendenzialmente molto meno asociale che quellanapoletana “borghese”) a definire la sua qualità, a stabilirela sua diversità. Sono in definitiva i ragazzi di Scampia isoli autorizzati a poter dimostrare – se davvero sonocresciuti attraverso l’esperienza di Arrevuoto – cosa ècambiato e cosa deve cambiare anche grazie all’esperienza

di Arrevuoto. Per dirla chiara: la parola Arrevuoto puòdiventare una griffe fra tante, un marchietto tra tanti anchese segnala un’autenticità che non hanno un’infinità diprodotti che vengono offerti a Scampia, e altrove, in nomedi una solidarietà che si ferma allo spettacolo ed al voto, eagli interessi di chi la predica e di fatto non la pratica;oppure può continuare a essere uno dei possibili embrionidi una diversa socialità, e insomma di un rimescolamento,di un Arrevuoto reale dello stato di cose presente. Questo, è ovvio, non dipende dal lavoro delle Albe, dipendeda coloro che operano a Scampia dentro Scampia, conScampia. C’è un discorso di metodo sul quale si può starcerti che le Albe non tradiranno, perché non l’hanno maitradito e sono state anzi loro a sperimentarlo, a“inventarlo”; e c’è un discorso di metodo che riguarda illavoro di chi è stato maggiormente coinvolto nel progettoArrevuoto, e dei molti altri possibili, a Scampia e anchealtrove. Saranno allora le modificazioni interne al “sistemaScampia”, magari piccole, sotterranee e per qualche tempoperfino inavvertibili, a decretare il successo o menodell’esperienza. Che, per intanto, sul piano nazionale, deveambire a stabilire e diffondere i principi e la pratica di unmodo di lavorare con i ragazzi, nelle scuole e nei quartieri,che è radicalmente diverso da quello dei “portatori di civiltàe di cultura” di tutte le risme.

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ARREVUOTO. SCAMPIA | NAPOLI 2006 primo movimento

Pace! riscrittura da Aristofanedrammaturgia e regia Marco Martinelli

Scampia | Teatro Auditorium 21 aprile 2006Napoli | Teatro Mercadante 24 aprile 2006Roma | Teatro Argentina 30 maggio 2006

così la stampa:

“C’erano una volta due malati: uno si chiamava Scampia,ed era un grande quartiere di Napoli, già inumano per legelide architetture dei suoi palazzi e delle sue avenuedesolate, divenuto in pochi anni un simbolo del degrado edella violenza; l’altro era il teatro, reso sempre più esanguedalla mancanza di mezzi e idee, in una società sempre piùassorbita da diverse fascinazioni mediatiche. In due seratedi spettacolo, svolte in un grande auditorium costruito annifa nel quartiere malfamato e aperto al pubblico solo ora,l’altra nel centro della città al Teatro Mercadante, sededello stabile partenopeo, entrambe alla presenza dellemassime autorità cittadine e regionali e di una follastraripante, i due malati sono guariti entrambi d’incanto trale acclamazioni. […] Scelti 70 ragazzi dai 12 ai 18 anni,convenuti da due diverse scuole di Scampia e da una vicina

associazione rom, ma anche da un liceo classico del centro,li si è chiamati a un lavoro d’assieme durato sette mesi,dedicati all’adattamento di un classico, addirittura La pacedi Aristofane, irridente commedia contro la guerra che siprestava per i suoi eterni temi a divenire attuale attraversol’intervento diretto di quei giovanissimi, sollecitati araccontarsi con un’immediatezza e un’inventiva veramentetrascinanti”. (Franco Quadri, “la Repubblica”, 6 maggio 2006).

“I giovani chiamano e il teatro risponde. O forse questavolta è il teatro che chiama e la risposta viene da unpiccolo esercito di ragazzi che decide di “giocare” inpalcoscenico. […] Riscoprendo spazi fisici e mentaliabitualmente impraticati e impraticabili. Invadendo conirruento, contagioso, impudico entusiasmo “santuari”altrimenti preclusi: il palcoscenico del Teatro Mercadante,quello nuovissimo del Teatro Auditorium in viale dellaResistenza, “ritrovato” e rimesso a nuovo per l’occasione”.(Giulio Baffi, “la Repubblica – Napoli”, 26 aprile 2006)

“Non sorprende certo che Martinelli ci proponga unospettacolare gioco teatrale pieno di invenzioni, tantomenoche abbia saputo tirar fuori da questi giovani idee così fortie emozionanti. […] Ma qui dimostra quanto si sia messo inascolto, quanto abbia saputo cogliere l’energia di queicorpi, la potenza di quelle voci, disposte in cori, in canti, ingrida, quanto abbia capito i loro movimenti e i loro passidel tutto differenti da quelli dei ragazzi di altre partid’Italia”. (Antonio Audino, “Il sole 24 ore”, 23 aprile 2006).

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“Settanta ragazzi scatenati, che in un’ora e mezzospendono tutta la loro vitalità, i desideri e la crudeltà asvelare i doppi fondi della pace e della guerra, della vitafacile e della povertà, della speranza e dell’utopia. […] Unospettacolo esplosivo e irresistibile”. (Gianfranco Capitta, “ilmanifesto”, 23 aprile 2006).

“Martinelli ha portato avanti nel corso di pochi mesi unintervento intenso e delicato, ma insieme entusiasmantegrazie alla vitalità che i ragazzi di Scampia hanno messoall’impresa. […] Senza una sbavatura, con tempistrettissimi e un ritmo perfetto, circa ottanta ragazzi,spesso in scena tutti o quasi tutti, hanno presentato la loroversione di Aristofane in lingua “scampiese” con intermezziin lingua rom, allegramente reinventando lontanissimesituazioni comiche e didascaliche che, pur parlando di pacee di guerra in astratto, sapevano ben riferirsi a pace eguerra vicine, anzi vicinissime”. (Goffredo Fofi, “Il mattino”,23 aprile 2006).

“Se l’essenza di un teatro pubblico è far ritrovare allapopolazione la relazione profonda e fondante col ritoteatrale, ho pensato di stare assistendo a qualcosa delgenere. Lo spirito dell’esperienza diretta della forzaguaritrice della cultura stava trovando una nuova dimora”.(Renato Nicolini, “l’Unità”, 23 aprile 2006).

Riconoscimenti

Premio speciale Ubu per il teatro 2006Motivazione: Progetto Arrevuoto. Scampia-Napoli, curatoda Roberta Carlotto, diretto da Marco Martinelli e prodottodal Teatro Mercadante di Napoli, per la valenza sociale,pedagogica e umana del progetto, condotto in un contestosociale particolarmente difficile, e per la forza espressivadei suoi esiti scenici.

Premio dell’Associazione Nazionale dei CriticiTeatrali | Stagione Teatrale 2005/06Motivazione: […] Le parole di Aristofane per Pace! sonostate palestra di una esperienza di conoscenza e diapprofondimento, occasione di creatività, percorso costruitocon attenzione e rispetto per giungere ad unarappresentazione emozionante e coinvolgente, ricca diinvenzioni, di improvvisazioni, di citazioni che ha portato igiovanissimi interpreti ad essere veramente protagonisti diun evento teatrale senza precedenti, divertente e profondo,capace di saldare l’emozione del teatro alla conoscenzadell’amicizia, alla riflessione sociale, allo studio.

Premio Girulà Teatro a Napoli 2005/06Motivazione: Migliore progetto di teatro rivolto agliadolescenti: per aver unito fraternamente i ragazzi di Napolie di Scampia nella rappresentazione di un testo contro ogniguerra come la Pace di Aristofane.

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Associazione Teatro Stabile della Città di Napoli

Soci FondatoriComune di NapoliRegione CampaniaProvincia di NapoliComune di Pomigliano d’ArcoIstituzione per la promozione della cultura del Comune di San Giorgio a Cremano

Consiglio di AmministrazioneRossana Rummo (Presidente)Laura AngiulliAngela Maria AzzaroGiulio BaffiFrancesco Barra CaraccioloGiuliana GargiuloSergio Sciarelli

Collegio dei Revisori dei ContiFrancesco Nasta (Presidente)Fabio BenincasaClementina Chieffo

DirettoreRoberta Carlotto

Comitato ArtisticoRenato CarpentieriEnzo Moscato

Produzione e ProgrammazioneMimmo Basso, Marzia D’Alesio, Francesca Nicodemo

AmministrazioneGilda Giannini, Monica Verde

SegreteriaRosanna Cuomo, Salvatore Cardarelli,Antonio Devoto

Ufficio stampa, comunicazione, editingSergio Marra, Stefania Maraucci

PromozioneAnna Minichino

LogisticaPaolo Buffardi

Coordinamento tecnicoFulvio Dell’Isola

TecniciPeppe Cino, Marcello Iale, Enzo Palmieri, Luigi Sabatino

Biglietteria e Servizi di SalaS. Ferdinando s.r.l., Luciano Dell’Isola, Donatella Maggio

Manutenzione e PortineriaRaffaele Braccio, Ciro De Martino, Mario De Serpis D’Amato, Giovanni Esposito, Pasquale Femia, Vincenzo Ranieri,Alfonso Stefanelli

Progetto ComunicazioneArkè

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Mercadante Teatro Stabile di NapoliPiazza Municipio - 80133 NapoliTel. [+39] 081 551 03 36 - 081 552 42 14www.teatrostabilenapoli.it [email protected]

con il sostegno di

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