scalo 13 Roberta Giorgio Silvia Alessandro Luisa … se raccontare la storia della nostra vita può...

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SCALO 13 il portolano quaderno n.1 Cristina Giorgio Luisa Monica Paolo Roberta Silvia Umberto Valeria Wilma Alessandro Andrea Bruna grafica CarattereStudio - Treviso

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scalo 13

il portolano

quaderno n.1

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Proprietà letteraria riservata

Tutti i diritti riservati a norma di legge.Nessuna parte di questo libro può essere riprodottasenza autorizzazione degli aventi diritto.

Edizione dicembre 2010

A cura di Bruna Graziani

Illustrazione di copertina_Alessandro de BeiLayout_Ingrid IngrassiaStampa_Papermedia - via San Nicolò 11 - Treviso

SCALO 13

Vivere è stare sveglie concedersi agli altri,

dare di sé sempre il meglioe non essere scaltri.Vivere è amare la vita

con i suoi funerali e i suoi ballitrovare favole e miti

nelle vicende più squallide.

Angelo Maria Ripellino

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Scrivere di se

Alcune riflessioni su autobiografia e scrittura

Non mi è facile scrivere questa prefazione. Ho già bevuto cin-que caffè, fatto sette pause, mi sono distratta con mille pretesti. Mi è venuto mal di testa.

Cosa devo scrivere? Mi sono chiesta: ma tu, cosa vuoi vera-mente dire?

Servono proprio le definizioni macchinose sul concetto di scrittura e sul valore del ricordo che ti sei messa a compilare e che ti lasciano tutte, indistintamente, un sapore amorfo e tutto sommato inutile?

Non lo so se servono, forse sì o forse no. Forse qualcuna sci-volerà tra le righe senza che io me ne accorga o forse butterò via tutto.

Adesso però ho deciso. Mi concentro su ciò che mi interessa di più, su ciò che mi ha spinto a far questo viaggio nel viaggio con fatica e gioia. Su ciò che voglio, per me ma soprattutto per quelli che hanno frequentato il mio corso di scrittura autobiografico-creativa Il Portolano. Sono loro gli autori dei racconti.

Questa antologia è il frutto del progetto che ci ha animato e ci ha entusiasmato.

Ognuno ha accettato di narrare un pezzetto della sua vita centrando la storia su un elemento della sua famiglia e inter-

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pretandolo in base alla sua sensibilità. In queste pagine si sono quindi incontrati zii e zie, fratelli, madri e padri, nonni e nonne che ricompongono una grande famiglia virtuale.

Sono racconti che svelano l’importanza non solo della parola ma anche dell’autobiografia come indagine per conoscere sempre qualcosa di più su se stessi.

È così importante riflettere su se stessi, vestire l’habitus au-tobiografico?

Frenetici e smemorati, camminiamo come funamboli sul filo della nostra vita, riflettendo poco, con scarsa voglia, con troppa trascuratezza. E invece no! dobbiamo pensare a quello che abbia-mo fatto, che ci siamo lasciati dietro, che non abbiamo risolto e che avremmo potuto fare. Dobbiamo pensare a noi perché quello che ci è successo, la vita che abbiamo vissuto, stabilirà millime-tro per millimetro il metro di ogni scelta. Ci darà un posto nel mondo. E allora perché non darle più attenzione? Noi siamo le nostre storie.

Quello che voglio dire, è che ognuno di noi è un romanzo con due gambe, due braccia, occhi, naso, collo, pancia. Siamo corpi, in definitiva, con delle storie, un’anima di parole. Ed ognuna merita di essere raccontata.

Ma se raccontare la storia della nostra vita può sembrare un’impresa titanica, un viaggio lunghissimo e tortuoso che ci spaventa, perché scoraggiarci? Un viaggio è fatto di tante tap-pe. Scegliamone una e concentriamoci su quella. È un punto di partenza. Svisceriamola, frantumiamola, guardiamola al micro-scopio. Da un punto misterioso uscirà un universo. Perché, come dice Canetti, chi comincia ad indagare su se stesso finisce per indagare su tutto.

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L’affermazione che sento più spesso: “Non sono in grado.” Cerchiamo di vincere i timori. Non abbiamo tutti, noi esseri

umani, romanzieri, facchini, insegnanti, operai, le stesse emo-zioni? E allora, affiliamo le unghie della scrittura e mostriamo le nostre. Possiamo partire da un oggetto o, per esempio, da una nostra fotografia, descrivere il vestito che avevamo, la nostra espressione. E da lì risalire ad un pensiero, ai sogni, disattesi o esauditi.

“Non ho niente da dire” è l’altra frase. Se esistiamo, non pos-siamo temere di non avere materia viva, pulsante. Joyce, del re-sto, prendendo ispirazione da un giorno della sua vita ha scritto l’Ulisse. Non dobbiamo diventare Joyce né premi Nobel della let-teratura (be’, però, chissà…). Dobbiamo solo avere la pazienza di individuare la nostra materia, cogliere i suoi segnali, le sfu-mature, usando una lente per non perdere particolari, solo in apparenza insignificanti.

La scrittura è magica e furba: è proprio dentro quei partico-lari, quelle distrazioni che magari si annida un pezzo importante del nostro mondo. È anarchica. Si crede di dominarla ma è lei che tiene al guinzaglio, dà l’illusione di far scegliere mentre fa scorrazzare in mezzo ad un labirinto che forse non si conosce fino in fondo.

Non tutti i grandi romanzieri hanno avuto storie entusia-smanti, travagliate, piene di avventure. Erano esseri umani. Avevano a disposizione lo stesso mondo che abbiamo noi, gli stessi ligustri e le stesse piante di limoni, hanno vissuto le stes-se delusioni d’amore, gli stessi lutti. Con le parole sono riusciti a trasformarlo mostrandoci aspetti nascosti che appartengono a tutti, svelando qualcosa di noi che non conoscevamo. È questa la

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loro grandezza e noi gliene siamo grati. Questo è anche il senso della famosa frase di Proust: “Ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso.”

È l’abilità nell’uso delle parole che potrebbe fare la differen-za. E l’abilità si acquisisce col tempo e non finisce mai di essere affinata. D’altra parte, i grandi maestri stessi, fino all’ultimo mo-mento, mettono mano alle bozze trovandoci difetti. E comunque non esistono criteri assoluti per definire una scrittura: ci sono lettere di persone semplici che ci appaiono molto belle, anche se la loro bellezza è di un altro tipo rispetto a quella classica.

A scrivere bene si impara. O meglio, si impara il proprio sti-le, che sarà proprio e solo il nostro. È una questione di esercizio lungo e faticosissimo ma s’impara.

Ci si può anche far aiutare. Lo so, non è semplice. E poi fa male!

Spostare e togliere un aggettivo, un avverbio, una frase mal-destra è come farsi tagliare un dito. Se è qualcun altro che te lo suggerisce, poi, è istigazione al suicidio! La resistenza che si pro-va dà la dimensione dell’importanza che noi attribuiamo alla pa-rola, anima e carne insieme. Anche alla nostra. Soprattutto alla nostra? Un po’ di bene, allora, ce lo vogliamo, no? E con le parole, il nostro ricordo lo possiamo fare più nostro e nello stesso tempo lo possiamo condividere con gli altri. Elaborandolo, curandolo, coccolandolo con le parole, si può perfino modificare perché è vero che il mondo interno crea quello esterno, ma è anche vero che il mondo esterno influisce sul modo in cui formiamo e riformuliamo il nostro pensiero.

Ecco, questo è quello che avevo in testa e che mi è piaciuto dire. Ognuno di noi si è messo in gioco con la voglia di condivi-

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dere i suoi tesori, disposto ad accettare suggerimenti, consigli. E anche a darne. Consigli e suggerimenti comuni sono stati con-cime che ha piano piano fatto sbocciare il bel fiore che ognuno di noi ha creato. Tutto quello che abbiamo fatto insieme sta qui dentro, è il nostro giardino.

I racconti sono tredici. E in malora la superstizione.

Ho diviso gli scritti in tre sezioni:

QuarziSono dolori, riflessioni su occasioni perdute o mancate e an-

che dolcissimi ricordi che si snodano tra emozioni, con punte di estrema forza evocativa e profondità. La parola discerne e sce-glie, si rende precisa, cesella i fatti rendendoli vivi, tangibili. Ni-tidi come una scultura intagliata nel quarzo.

GemmeSono le scritture giovani, ricche di un linguaggio colorato

e fresco, con un piglio narrativo deciso e promettente. Si varia dalla prima alla terza persona dove si adotta un punto di vista ‘onnisciente’ scegliendo non tanto di venire coinvolti direttamen-te quanto di scandagliare nei particolari le situazioni e gli stati d’animo di tutti i protagonisti.

PolleAlcuni scritti sono nati liberi e spontanei come le polle di

Casacorba; per contenere il flusso nascente delle polle, piene di spunti e immagini limpide, sono stati costruiti degli argini che hanno accompagnato il fluido narrativo nella sua evoluzione e nel suo percorso.

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Voglio infine dire che non esiste un metodo per insegnare a scrivere la propria autobiografia, si possono solo dare stimoli, suggestioni su cui riflettere, invitando a non scoraggiarsi e ad andare in profondità. Autobiografia è come dire vita. C’è un me-todo che insegna a vivere? E se la differenza la fa la scrittura, allora, anche lì, una scuola di scrittura arriva fino ad un certo punto. Il resto è lavoro artigianale, di bottega, di officina. Di ce-sello e di scarti.

Scrivere di sé è anche fatica, incognita, passione. È accetta-re di mettersi in gioco. È anche essere disposti a farsi guidare dall’emozione nuova che affiora di volta in volta, ad abbando-narsi alla sua imprevedibilità! Perché capita, ad esempio, che dal centro di un ricordo triste, all’improvviso, ne affiori uno di-verso, dolce. Capita che venga alla luce un seme dimenticato la cui percezione ci dà una gioia indefinita, ci rende in quell’istante invincibili, magia che ci rende capaci di sigillare con un sorriso anche una tragedia. È successo durante il corso. Che non è solo un momento individuale ma anche collettivo: sulla base di solle-citazioni e provocazioni, lavoriamo sui nostri ricordi ma condivi-diamo anche quelli degli altri, in qualche modo ce ne prendiamo cura, li accogliamo in un abbraccio libero da ogni giudizio.

Ecco, solo così riesco ad immaginare Il Portolano, officina o cantiere dove tutto è sempre in divenire. Mi basta che disordi-ni, scompigli, rimescoli, e anche discerna e riordini qualcosa, che porti a galla involontariamente, un cestino con dentro almeno un dolcetto al burro, magari una di quelle saporite madeleine prou-stiane, che, sole, potrebbero rappresentare la bibbia del pensiero autobiografico.

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In Scalo 13 ce n’è un bel po’. Sono genuine e fragranti. Le abbiamo preparate con tutta la nostra cura e ora siamo pronti a condividerle con voi. Che mangiarle insieme è tutta un’altra cosa.

Bruna Graziani

Quarzi

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la cavallina

la mammadi Bruna Graziani

Ogni tanto sogno mio padre. Mia madre non la sogno mai.Il papà arriva col suo passo flemmatico, una cinquantina d’an-

ni, le mani dietro la schiena, i pantaloni di fustagno e la giacca sformata sui gomiti. A volte ha un gilet di lana. Fa scricchiolare gli stivali di gomma sul ghiaino del cortile.

Quello è lo spazio in cui il mio sogno lo relega. Venti metri, poco più. E da lì, dopo avere fumato la sigaretta serale scrutando i segni del cielo, il suo corpo entra in casa. La malinconia degli occhi invade la stanza, cucciolo selvatico che salta in grembo alla mia potente compassione. Papà, impalato come uno stoccafisso, sosta nello spazio di pochi metri quadrati dove se allunghi un braccio tocchi le pareti da tutte le parti. Lo tengo lì dove si sente al sicuro, con le piastrelle finto terrazzo veneziano sotto i piedi per non precipitare e un soffitto basso per non venire risucchiato da un nerissimo cielo.

Ciao papà! come stai? gli dico con l’entusiasmo di una bambi-na a cui si dice che passerà tutto il giorno alle fiere.

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E come sta il papà? Sempre allo stesso modo, la stessa malin-conia anche di là, nel mondo dei morti, una succursale del mondo dei sogni dove ogni tanto fa le sue incursioni assieme a quello dei vivi e dei vegeti.

Mia mamma è viva e vegeta. Lo è da quando è nata, il sette agosto del millenovecentotrentatre.

***

Carolina ha in dotazione due metri: uno le serve per l’altezza e l’altro è tutto nei capelli che attorciglia sul cocuzzolo della te-sta. È mezzogiorno e Carolina torna a piedi dal mercato di R.

È caldo, il sole chiede un avido dazio al suo corpo, in cambio dei pomodori e dei cocomeri che le fa maturare nell’orto. Il sudore le brucia la fronte, scivola lungo le gambe, la schiena e da sotto il pancione e il seno gonfio di colostro. Le gocciola sui conigli e le patate che deve portare a casa per gli altri due figli. La terza, Dina che ha tre anni, le fa da balia, le sgambetta dietro sui san-daletti di corda sfilacciati, canticchiando filastrocche.

Carolina ha ventisette anni e un pancione di nove mesi che la fa tozza, simile al fuso tondo di una magliaia. Farebbe prima a rotolare che a camminare in quelle condizioni. Ma non c’è tempo per le fantasie. Non c’è tempo per nulla: un crampo alla pancia: la bambina – quarta di undici – spinge. Ha fretta e non gliene importa. Che quella si sa già che è bizzarra come la cavallina Lola da quanti calci mollava dentro la grotta uterina, e ora ha deciso di uscire, fosso o non fosso.

Carolina non ha alternative. Più che dolore sente un grande bisogno di distendersi. Manda la Dina a chiamare aiuto. Aspetta che qualcuno arrivi e la porti a casa.

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La bambina con i riccioli neri e lucidi come il ferro, fa duecen-to metri e dentro il cortile di una casa colonica vede S-cianti (che vent’anni dopo diventerà suo suocero), chiama e cerca di spiegar-gli che la mamma sta male e di correre. S-cianti molla la zappa con cui stava consolidando l’architettura dei piselli, si pulisce il dorso delle mani sul grembiulone blu rattoppato e va a chiamare la Isetta, che lei è una donna, e di sicuro se la cava meglio di lui come levatrice.

Carolina tenta di sdraiarsi, i talloni edematosi fanno resi-stenza sulla terra dura e secca dell’estate, cerca il fresco dell’erba sulle scapole brucianti, si stende sul rosolaccio e le margherite, un orbettino si tuffa in acqua. Prima di appoggiare la treccia sul-la gramigna, un crampo le trafigge il ventre. La testina bagnata e sanguinolenta della bambina è già fuori. S-cianti e la Isetta ar-rivano correndo sul carro delle mucche, la Dina eccitata sventola una carota.

Ancora due spinte e la bambina è fuori del tutto. Riceve il battesimo del fosso come i topi e le folaghe. Rischia di rotolare giù per la riva, su una precarietà vegetale che la tiene in equili-brio grazie alla sua buona stella, Nostra Signora del Bilico.

Vicino all’acqua cristallina, di alghe verdi e ranuncoli, piccoli soli capovolti, edita il primo vagito. Carolina più che spaventata è seccata dall’irruenza della neonata, si mette seduta e, cordone ombelicale tirato, la prende in braccio adesso, ma solo per conse-gnarla a Isetta che le corre incontro con una forbice e un lenzuolo di cotone pulito, s-ciabattando e inciampando sulle cottole. Sbro-doli di placenta e coaguli di vernice caseosa le colano dalle gam-be e impiastricciano la gramigna pestata della riva che odora di ferro ed escrementi.

Carolina si alza in piedi, scende di due metri, mette il corpo a mollo, sciacqua via sbrigativa e contrariata grumi di roba rosso

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fegato. Scortati da una carpa affamata, si allontanano verso il fiume in mezzo all’alone giallorosa della lavatura.

Carolina sale sul carro delle vacche immusonita, non guar-da nemmeno il voltolo di stracci da dove emerge, reiterato vizio della specie, una faccina tonda e rosa con due occhietti aperti e una ciliegia sciroppata per bocca. Tre chili di niente, eppure con in serbo, anche lei, il suo bel fagottino di sentenze e versioni da tradurre con vocabolari sghembi, tutta roba che ognuno di noi usa improvvisando, per schivare alla meno peggio gli spintoni della vita.

Giorgia è una cavallina bizzarra e cocciuta che vuole sempre avere l’ultimo nitrito.

A scuola ci va soprattutto per sfoggiare le babbucce – oggi verrebbero vendute come un prodottino artistico del riciclaggio e costerebbero un occhio della testa – la suola è un taccone di vecchio pneumatico di bici e il sopra è fatto ai ferri, di lana, o di cotone a seconda della stagione ma sempre ricamato dalla Caro-lina. Il mattino, dopo la colazione a latte, acqua e resti di polenta, Giorgia le avvolge in uno straccio e parte per la scuola scalza. Dopo avere attraversato il campo infangato, si pulisce i piedi con lo straccio, indossa le babbucce ricamate e trotta verso la scuo-la.

A scuola, si applica con poca convinzione. Studia in stalla, ma non sta mai ferma. La prima volta si alza, va in cucina a bere, la seconda in bagno che le scappa una pipì lunghissima, la terza volta è per una fetta di pane. La quarta volta entra in cucina, e ci rimane: finalmente non ha più niente da studiare. È liberata da un pensiero e per ora non pensa alle conseguenze. Una mucca con velleità intellettuali si è ingollata il sussidiario. La digestio-ne del Risorgimento, delle rivoluzioni industriali, del teorema di

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Pitagora, dei confini della Francia, dei fiumi della Russia, fa con-vogliare la cultura in una massa scura e fumante che una badila-ta irriguardosa aggiungerà al resto del letame della corte.

Giorgia cresce. Nino, il fratello maggiore, è molto severo. Fa le veci del padre che di dettare regole non ha né indole né voglia. Giorgia ama il ballo e quando può sguscia via, permesso permet-tendo.

Anche non permettendo, ovviamente. Solo che è un po’ più faticoso. “Ma questa volta non se ne parla proprio” è convinto Nino.

“Oggi stai a casa che è brutto tempo e poi sei uscita anche la settimana scorsa, e cosa deve pensare la gente? Non se ne parla proprio, stasera stai a casa.”

E per rendere più certa la condanna sale in camera e seque-stra gonne e camicette, vestiti e corpetti che a Giorgia stanno proprio bene, e sì, e sì, è proprio un gusto vedere il vitino di vespa ruotare, il seno prosperoso, il didietro tondo ondeggiare, i polpac-cetti dritti e agili, i piedini che fremono dentro i sandali per darsi totalmente a fisarmoniche, pianole in valzer campagnoli e tanghi delle gelosie. Per il rossetto, basta sfregare sulle labbra carta crespa colorata e il gioco è fatto.

“Niente vestiti? Insemenìo! E io vado dalla Dina. Prendo il suo abito giallo limone, quello scollato a cuore con le rose blu.”

Lo arriccia sul petto, lo riprende in vita, i fianchi hanno biso-gno di spilli in sovrannumero che la Dina ultimamente ci dà un po’ troppo dentro con la forchetta. Giorgia è un agrume strizzato dentro petali pavone, sostenuti da un’impalcatura instabile – la sua specialità – fatta di spille, fibbie e fermagli, un monumento all’improvvisazione che condiziona mosse e respiro. Salta la fine-stra del cucinino e parte con un paio di scarpe sovradimensionate

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e un vestito ridotto di due taglie in tre minuti. Santa Maria del Bilico prega per noi.

Una sera fortunata. Gli spilli pizzicano a turno cosce – ahi! – avambracci e schiena – ahi ahi! – .

Lei e il suo cavaliere vincono il primo premio, una catenina d’oro che chissà che fine ha fatto. Da qualche parte in casa, me-scolata ai miliardi di carabattole da collezione.

Appare il nuovo cavaliere. Il ragazzo titolato, l’universitario con l’aria malinconica e la camicia bianca che l’aspetta all’uscita della filanda, dietro la solita colonna dei portici di R. Tutti sanno che lui se l’è accaparrata e nessuno osa competere. La accompa-gna a casa in bicicletta e la segue ovunque. La cavallina sembra domata, almeno in apparenza. Fino a quando lui, dopo sette anni che la segue, le comunica sotto i portici di R. che sta per sposar-si.

“Mi sposo.”“Come, scusa?”La cavallina rimane di stucco. “Hai capito? Io mi sposo.”La cavallina si riprende, freme, s’impenna, toglie uno stivale

di gomma e glielo scaraventa contro. “Ma… ma?! E io, scusa?”“E tu ti sposi con me.”La rabbia smonta in un istante. È felice. Torna al paese in

sella alla bici, supera le sue amiche, quasi se ne dimentica, anche quella del cuore. Lascia indietro la Vanda e la Flora e perfino la Edda – sente già di essere avanzata nella scala sociale – e a casa dà l’annuncio.

Si sposano. Senza salamelecchi lui, piena di grilli in testa lei. Tempo nove mesi nasce Anna e dopo quattro anni Bambina.

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Mamma, Giorgia, è padrona delle sue figlie, devono crescere le più belle, le più sane, le più intelligenti. Con le gambe dritte, possibilmente, e tanti capelli. Il tutto corredato dal sorriso. Sor-ridi Anna! Anna non sorride. Corre in bicicletta, per pomeriggi interi fa ruotare i pedali della graziella rossa avanti e indietro per la stradina di casa, avanti e indietro avanti e indietro, due cosce così. Legge, inoltre, e immalinconisce sulla poltrona grigia e spelacchiata della nonna Maria.

Sorridi Bambina! E Bambina? Bambina sì che sorride! Lei è una bambina olistica, è nata con gli occhi azzurri, i riccioli e un’indole universale che discerne i guasti e li ripara, deve far belle le cose, è un uccellino giardiniere dall’occhio pervinca che saltella in cerca di fiori, conchiglie, piume, pietruzze e frutti di bosco con cui ornare il suo elemento, una nicchia dove stare pa-cifici, e tenere lontani corpi estranei, le tossine che ossidano il blasone della famiglia.

È stata programmata per il bene comune, le fa capire la mam-ma e lei non può deluderla.

Buttar su, buttar su, darsi da fare, forza.

Bambina le crede. Sorride e accontenta. Le manine, minia-ture del padre afflitto, strimpellano traballanti marce alla turca davanti al pubblico cortese delle zie invidiose, le gambe incrociate sulle ballerine pencolano sul seggiolino del pianoforte verticale, nero e lucido come una bara, ma utile però, come soprammobi-le dove appoggiare fotografie e pettini pelosi e rocchetti con ago puntato, tazzine vuote di caffè nel loro sacrosanto bilico.

Le zie invidiose applaudono e poi se ne tornano a casa a criti-care. Ma non importa, l’importante è che mamma approvi e che papà sorrida da dietro il muro, Bambina lo sa che sorride, non si mostra all’overdose dei parenti ma lei lo sa che è contento quan-

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do lei suona, le unghiette quadrate e mangiucchiate, tic tic, le notarelle magiche del ‘Piave mormorava calmo e placido’, che al-lora papà quando non c’è più nessuno, sbuca fuori dal suo rifugio di filosofo triste e sfila sul tappeto nirvanico che gli stende Bam-bina. Le si siede di fianco, sulla poltrona rosa antico e accavalla le gambe secche e stende la schiena, reclina la testa all’indietro, il pomo d’adamo sporge come una pietra, si abbandona sui brac-cioli, batte il tempo col piede e con brevissime e profonde ispira-zioni, che bambina non capisce mai se sta tenendo il ritmo o sta piangendo, accompagna l’inizio di tutte le battute. Tiene il ritmo col respiro, calmo e placido come il Piave, e anche, guarda un po’ che fa, prende la sua armonica a bocca e l’accompagna e così tor-na la patria, e con lei i suoi momenti più belli, quelli dell’infanzia balilla, con la colonna sonora che Bambina riproduce col cuore appeso a un filo, papà è in buona e fa le sue richieste e Bambi-na persevera allora, nel repertorio classico e facilitato: valzer di Strauss, vedove allegre, ‘vento portami via con te’.

Papà è contento. Mamma approva e anche per oggi il bene è assicurato.

Tutto così: mamma che improvvisa perché qualche volta papà si conceda, prenda peso dentro la sua casa sbilenca, questa im-bastitura di famiglia, che il credo di mamma fa stare in piedi con una gamba sola.

Bambina è nata per soddisfare il bene comune. Ce lo si aspet-ta da lei e poi ne va della dignità della famiglia. È il sidol che deve riportare a lucido uno stemma arrugginito.

Mamma è una che non ci pensa proprio alla ruggine, con tut-

ta la fatica che fa a lustrare argenti e ottoni, a lavorare fino a tarda notte per comperare calzini di pizzo e stoffe per confezio-nare vestitini bordati di serpentina. Gialla per Anna e azzurra

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per Bambina. Ha sempre mille idee per risolvere ottimamente ogni que-

stione. Lei sì saprebbe costruire il ponte che collega la Sardegna alle Baleari. E che ci vuole perdio! Qualche tonnellata di ferro e qualche quintale di bulloni. Si devono incastrare così e colà. Ma bisogna fare attenzione che venga dritto. Una trapanata a destra e una a sinistra. Facile! È il papà che le complica la vita, sempre a dire che le cose non vanno bene e che è tutto difficile. Il mon-do? È un’opinione. Basta averne una ragionevole, al limite darci un’aggiustata, e lui: Troc! Si mette a posto.

Bambina è al fianco di mamma. L’aiuta, sorride e l’acconten-ta. Chiude febbrilmente i cerchi lasciati aperti, strozza stracci attorno ai rubinetti che perdono. Difficile con le sue manine. Ma lei ci prova lo stesso che altrimenti rischia di perdere il bene, quello della mamma e questo è inconcepibile. Già le ha fatto il dispetto di nascere con le gambe ‘un po’ stortine ine’. E i capelli, diciamocelo, non sono esattamente quelli che si aspettava lei.

Bambina sorride e anche piange pensando al sole che prima o poi si spegnerà lì in alto e nella terra calerà un buio freddo e nero e tutti moriranno prima o poi, mamma compresa.

L’importante è resistere, dice mamma, riempiendo all’invero-simile il portafrutta sbeccato con cipolle, mele, uva, limoni, me-lanzane e alternando pile di spartiti a quotidiani gialli e burda e vecchi elenchi del telefono risparmiati dal macero. Resistere, fallo per tuo padre almeno. E bambina resiste un poco, chiude i cerchi un poco, il moccio al naso, i dentini bianchi, il sorriso al cielo, resiste ma fa una fatica matta.

Poi sbotta. Tardi ma sbotta, finalmente.È un trauma per mamma ma ce la farà come sempre, si ri-

prenderà dalla terribile delusione, si accorgerà che bene ne ha

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a sufficienza anche per la creatura nuova che riconosce a mala-pena. Bene ne ho ancora, pensa la mamma senza ammetterlo, fottutissima cocciuta. Bene ne ha ancora, pensa l’ex bambina, su-perato il trauma. Niente è perduto.

Mamma e madre

Penso sempre a queste parole. Tra le due, preferisco la prima perché la seconda mi pare frastagliata, contratta, un’impreca-zione più che un essere umano e con un campanello incorporato – dren dren – per i richiami, e se proprio deve essere una donna ha la divisa mimetica da militare e una mitraglietta carica a tra-colla.

La madre è una mamma che non prende in braccio e non con-sola. E se c’è una cosa di cui una bambina ha bisogno è proprio di questo, di una mammona pingue e allegra, senza erre e con tante emme tonde come collinette muscose su cui rotolare, con tante vocali accoglienti aperte come bocche che cantano, e immensa, due tettone che buttano latte e burro, due gambone morbide per beate pennichelle all’ombra del melo, un sorriso al rosolio per sfornare consensi.

Una mamma che sa tutte le cose del mondo, le verità delle notti dei tempi e che non sbaglia. Una creatura così amorevole da scendere su questa terra e farsi umana per lei. Una mamma, soprattutto senza condizioni.

Mia mamma è quasi del tutto mamma. Una chioccia irridu-cibile che difende strenuamente le sue proprietà. Il suo giorno è: domani. E possibilmente col sole; che a pensare alle cose brutte non ci si guadagna nulla. Non che non abbia paura: mi snoccio-la ogni volta che mi vede i sintomi di almeno cinque malattie

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contemporaneamente, impilandole l’una sull’altra, una torretta di diagnosi strampalate nel proverbiale bilico questa volta suffi-cientemente precario: rimedia ogni male in perfetta autonomia – nella sua vita non ha mai fatto mai un prelievo del sangue – con la stessa pomata o la stessa compressa. E guarisce.

Mi sarebbe piaciuto avere come amica questa cavallina che non si rassegna mai, vitale all’inverosimile. Cocciuta e combattiva.

Non protesta più per le mie mattane, le mie tardive rivoluzio-ni, le mie banali prese di posizione e se anche le manca un po’ la deliziosa statuina d’argilla che aveva modellato a suo piacimen-to, non sono sicura che mi cambierebbe, adesso, con quella.

Mamma quindi, benevolmente esautorata, ha ripiegato su se stessa per rimanere intera, a riprendersi un po’ della Giorgia che era prima di sposarsi.

Vive nella casa di sempre con una gatta scontrosa a tre zam-pe che sparisce quando ci sono visite. Taglia la siepe, la legna per il caminetto, aiuta il prete a pulire la chiesa e a organizzare le feste per gli anziani e i cantori, canta a sua volta, fa quotidiane passeggiate con la vicina di casa per tenersi in forma, acquista per telefono ‘California blu’, la crema di eterna giovinezza, si ve-ste alla boutique cin ciun lla vantandosi dei record al ribasso con cui è riuscita a comprare una gonna, una maglia.

Per trovarla si deve prendere appuntamento (che oltre a tut-to quello che ho elencato ha anche sei sorelle a cui fare visita). Il resto del tempo lo passa a coccolare i nipoti. Li porta a fare le spe-se ad un supermercato soprannominato ‘tol’ che in dialetto signi-fica ‘prendi’ o, come volentieri traducono i nipoti, ‘prendi pure!’. Non faccio l’elenco di cariogeni e diabetogeni che arrivano a casa e vengono immediatamente nascosti sotto il divano o consumati

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prima dell’arrivo delle madri censore.Infine rimprovera me e mia sorella per il nostro abbigliamen-

to, per l’educazione dei figli, per il taglio dei capelli e perché ‘non siamo mai a casa’. Lo fa per un attimo solo adesso, per abitudine più che per convinzione, ci brontola e subito dopo pensa ad altro, gira l’angolo, e per un improvviso bisognino, sale le scale rapida, facendo lo slalom tra scarpe e giornali, arriva indenne in bagno e assolve alla sua rapida fisiologia gorgheggiando il Kirie per le prove di canto della sera.

Io saltello, azzoppata uccellina giardiniera, col grappolo di fucsie sul becco ad abbellire il nido migliore per mio figlio, ades-so, che deve crescere sano e bello. Gli passo senza saperlo la mia versione dei fatti, nozioni che traduco con un vocabolario sghem-bo, zeppo di refusi e degli errori di tutte le generazioni. E allora penso che forse ad improvvisare non è stata solo mia mamma, ma lo faccio anche io, lo facciamo tutti, passando dalle colpe su-bite a quelle scelte volontariamente, armati di un buon senso fatiscente che ci mette la coscienza a posto.

E mamma, sotto santa Maria del Bilico, ha sbagliato né più né meno di altri.

Ci ha provato, si è arrabattata con quello che avuto a disposi-zione. Ha saldato col fil di ferro e l’alito, le giunture di una digni-tà. Persevera anche adesso, fedele alla sua religione. S’indaffara frenetica.

È per quello che non entra nei miei sogni, è troppo impegnata a fare tutto quello che le manca, alla meno peggio. Saltella an-cora come una cavallina, cade e si rialza senza troppi pensieri, bypassando le elucubrazioni, meravigliosamente approssimati-va, leggera e sana come non era mio padre che anche dopo morto, continuo durante i sogni a medicare.

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la zia

la ziadi Luisa Contarato

Zia Gina, in quell’universo femminile delle sue sette sorelle, otto, se la secondogenita non fosse morta a due anni di enterite, aveva cominciato presto a stare stretta. Lei era nata pochi mesi prima di quel lutto e sua madre, dal dispiacere, aveva pure per-so il latte. Poi, a distanze molto ravvicinate, erano nate Emilia, Ada, Caterina, Carmela, Italia e Maria. Dopo Maria sarebbe sta-ta finalmente la volta di un maschio, solo che il bimbo era nato già morto. Il medico, che aveva raschiato la nonna sopra il tavolo della cucina, aveva preso in disparte il nonno e gli aveva detto due paroline. Poche ma magiche, se il nonno aveva finalmente smesso di insistere. Per anni, come la preghiera della sera, aveva tentato di fabbricarsi un aiuto per quella terra che le femmine non sapevano e non volevano lavorare. Ma non solo non era stato esaudito, c’era mancato poco che venisse addirittura punito. E quella donna non la poteva proprio perdere. Capire aveva capito. Allora la sera preferiva andare a lamentarsi nella stalla del suo compare che quel male lo aveva avuto soltanto a metà: quattro

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femmine e quattro maschi perfettamente alternati.Zia Gina, come il nonno, detestava vedersi tra i piedi tut-

te quelle sottane lamentose e appena aveva potuto, cioè quando Emilia era diventata grande abbastanza per badare lei alle più piccole, era andata dal sarto che aveva casa e bottega lì vicino, a chiedergli se la prendeva ad imparare.

Era un sarto rigorosamente da uomo. A chi serviva che im-parasse a cucire pantaloni, se a casa aveva soltanto sorelle da vestire? Ma lei rispondeva che ci avrebbe pensato un’altra della fila. E continuò, tutte le mattine, a percorrere la stradina che costeggiava il canale, ripetendosi ad ogni passo che per nessu-na ragione del suo piccolo mondo avrebbe lasciato quel lavoro. Il sarto aveva tre figli maschi, nessuno dei quali lavorava con lui in bottega e già nelle prime settimane di prova l’aveva presa in buon occhio, zia Gina, perché bastava dirle le cose una volta sola che già le aveva imparate.

In poco tempo, grazie alla grande passione e alla grande pau-ra di essere mandata via, zia Gina divenne proprio brava e sem-pre più spesso il sarto le chiedeva di fermarsi un’ora o due in più, per avvantaggiarsi con il lavoro. A lei certo non dispiaceva. Mangiava in fretta il piatto di minestra che la moglie del sarto le portava e poi si risedeva sopra il bancone per essere più vicina alla lampadina. Un bel vantaggio per la vista, soprattutto se si trattava di capi scuri. Le prime volte aveva cominciato a fermar-si un’ora o due, come le era stato chiesto, ma una sera aveva con-tinuato a lavorare finché gli occhi le si erano chiusi. A quel punto aveva trovato appena le forze per scendere da sopra il bancone e sistemarsi sotto, dove erano ammucchiati scampoli di stoffe e pezze intere che aspettavano di essere scelte da qualche cliente. La moglie del sarto, che la mattina entrava in bottega prima di tutti per avviare la stufa, se era inverno e, comunque, per dare

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una scopata ai ritagli rimasti sul pavimento, l’aveva svegliata con una scossetta gentile al braccio ed era tornata quasi subito con il caffelatte. Una tazzona colma e nel sottopiatto due fette di pane abbrustolito. Una sorpresa per la zia rispetto alla solita polenta che mangiava a casa, mattina e sera.

Le cose erano continuate così per qualche giorno, senza do-mande e senza spiegazioni, con quella mano dolce che con una scrollatina la tirava fuori dal suo castello di stracci e l’altra che le porgeva già la scodella. Ma nel giro di una settimana la moglie del sarto aveva fatto portare in bottega una rete e l’aveva siste-mata in un angolo, poi aveva fatto tirare da un chiodo ad un altro del filo di ferro molto grosso e ci aveva sospeso un vecchio copri-letto che formava una specie di cameretta. Un vero lusso se pa-ragonata al granaio, polveroso in estate e gelido in inverno, dove Gina dormiva insieme alle sorelle più grandi, su un letto che si dividevano in tre, di traverso, per darsi meno fastidio. Sopra la rete, la moglie del sarto aveva messo uno strato di ritagli, ma poi li aveva ricoperti con pezzi di feltro ben piegati e sopra ancora un lenzuolo che profumava di qualcosa che la zia non aveva mai sentito e che prima di dormire respirava profondamente.

A casa nessuno reclamava la sua presenza, anzi, erano con-tenti che ci fosse una bocca in meno, sapendo, poi, che dal sarto si poteva sfamare anche meglio. Quanto al letto del granaio, fu su-bito occupato da Ada che lasciò il suo a Caterina, mentre Maria, che dormiva in una specie di culla diventata corta, finalmente conquistò il letto grande della camera di passaggio, con Carme-la e Italia. Insomma, zia Gina, restando nella bottega del sarto, aveva aggiustato il sonno di tutte le sorelle.

In un periodo di magra, che coincideva con il dopo feste di Natale e durava fino a poco prima di Pasqua, quando il lavoro calava al punto che non sarebbe più stato necessario restare a

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dormire lì, il sarto le aveva detto di scegliersi uno scampolo non troppo costoso per cucirsi qualcosa. Zia Gina si confezionò il pri-mo paio di pantaloni dall’a alla zeta, iniziando cioè dal taglio e finendo con la stiratura, operazione assai delicata e riservata, fino a quel momento, alla moglie del sarto. Fu così che zia Gina cominciò a portare i pantaloni molto prima di chiunque altra, in paese, molto prima anche delle signore che, si sa, sono loro a lanciare le mode. L’anno dopo, quando divenne ancora più esper-ta, riducendo un modello di carta scelto con cura nel mucchio, si confezionò dall’a alla zeta anche la giacca, in modo da avere un bel completo. Al posto della camicia lei metteva, però, il maglione rosso con il collo alto, fatto ai ferri dalla nonna Bia, che la teneva ben calda. Nel tempo si cucì pure un completo estivo.

Pian piano anche i capelli folti e ricci che le cadevano sugli occhi cominciarono ad accorciarsi per mano della moglie del sarto che era abituata a tagliarli ai suoi uomini. A lei, però, li tagliava in modo diverso, più lunghi sul ciuffo e dietro lasciava che le co-prissero il collo. Del resto, non stava male acconciata così perché fisicamente era quasi un uomo, pur se in miniatura.

Di statura, infatti, faceva poco più di un metro e cinquan-ta, ma essendo molto magra, sembrava più alta di altre bassine come lei, però belle pienotte davanti e dietro, dove, invece, per lei erano quasi inutili le pinces, anche quelle del taglio da uomo. Piatta com’era, si sarebbe sicuramente sentita sperduta tra le inutili larghezze di una gonna a ruota e le ingannevoli rouches di una camicetta. Invece, vestita così, alla maschietta, come diceva la moglie del sarto, era comoda nei movimenti e veloce a salire e scendere dal bancone.

Non aveva, comunque, molte occasioni di farsi notare. Al la-voro indossava il grembiule azzurro che era stato della moglie del sarto e che le arrivava quasi ai piedi. La domenica, per an-

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dare a messa e poi a casa, a consegnare la paga della settimana e ritrovare tutto quel chiasso delle sue sorelle giusto il tempo ne-cessario per non averne nostalgia, metteva la gonna che teneva appesa ad un chiodo, dietro il copriletto – tenda. La giacca, inve-ce, la usava regolarmente e nessuno le diceva che aveva un taglio da uomo, ma soltanto che era una bella giacca e le stava bene.

In pochi anni la bottega andò così bene che il sarto si vide costretto ad assumere un’altra lavorante, figlia del fratello di sua cognata. Giulietta era una ragazza alta e ben nutrita, con il viso tondo e pacifico e grosse trecce di capelli scuri che girava intorno alla testa o raccoglieva in due crocchie ai lati delle orecchie. Era un po’ lenta con l’ago, ma svelta con le parole e mentre entrambe stavano curve sul bancone, meglio se attaccate allo stesso capo, le raccontava della sua famiglia e, soprattutto, del fidanzato, del-le frasi dolci che le scriveva, dei fiori che, andando al lavoro, le lasciava sulla maniglia del portone. Romanticherie che facevano un po’ sorridere zia Gina, ma che le rendevano Giulietta sempre più cara, una vera amica a cui, se mai le fosse capitato qualcosa di importante, avrebbe di sicuro potuto raccontarlo. A dire il vero, a forza di sentirla parlare di quel fidanzato gentile, anche a lei era venuta una mezza voglia di averne uno. Ma come, se usciva di lì soltanto per andare a messa la domenica, nell’orario riservato alle donne e ai bambini! Gli uomini e i ragazzi si concentravano, per lo più, nell’ultima messa delle dieci e mezza e poi restavano a chiacchierare in capannelli disseminati sul sagrato che pian piano si spostavano verso l’osteria, in attesa che le donne aves-sero finito di cucinare il pranzo un po’ più laborioso della dome-nica. Fu ben volentieri, quindi, che zia Gina, una domenica, dopo la solita messa, accettò di andare a pranzare a casa dell’amica. Come al solito era passata prima dai suoi per consegnare la paga

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e avvertire sua madre. E lei, che conosceva da tempo la madre di Giulietta, era andata veloce nell’orto a tagliarle due grosse verze, per sdebitarsi. La casa di Giulietta era minuscola, con una parete quasi interamente ricoperta dall’edera e vasi di fiori alle finestre. Anche all’interno era graziosa e curata. Zia Gina vide soltanto la cucina, con tende bianche inamidate e boccali di rame allineati sopra il camino. Sbirciando dalle porte aperte sull’in-gresso, si fece un’idea anche del resto e capì la differenza rispetto alla sua casa dove tutto, oggetti compresi, sembrava stanco di stare al suo posto e dove la cura si riservava, a malapena, a ciò che era utile e commestibile. La madre di Giulietta, vedova da qualche anno, era vestita di nero, ma il viso era illuminato da un sorriso. Giulietta aveva tre fratelli maggiori, dei quali zia Gina sapeva abbastanza, ma non tanto da non restare sorpresa, ve-dendoseli tutti e tre, in un colpo solo, improvvisamente davanti, già seduti a tavola. Erano tre giovanotti bellissimi, con gli occhi e i capelli scuri e la stessa faccia pacifica di Giulietta. Se fosse stato possibile, zia Gina si sarebbe innamorata all’istante di tutti e tre, ma non c’era così tanto posto nel suo cuore e così accadde che si innamorò all’istante soltanto di quello che a tavola le stava di fronte e che si chiamava Gino, proprio come lei. Quel giorno di sole, quell’invito inatteso, quel nome sembrarono alla sua ani-ma giovane e in tumulto segni inequivocabili di un destino che finalmente sembrava avesse in serbo qualcosa di bello anche per lei. Nei giorni che seguirono, era zia Gina, curva sul bancone, a parlare in continuazione e a tormentare di domande la povera Giulietta che non si sapeva più destreggiare con i punti se dove-va anche risponderle. Giulietta si era un po’ spinta con Gino a fare certi discorsi, ma le era sembrato che lui cercasse di sviarli. Per di più, una sera lo aveva anche visto parlare dal muretto con la figlia della mugnaia che abitava nell’altro cortile. Ma questo

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proprio, a Gina, non si sentiva di dirlo. Sperava che, con il tem-po, non vedendolo più, lei se ne sarebbe fatta una ragione. Sta-va molto attenta a non infilare quel fratello nei suoi resoconti e cercava, come poteva, di far dirottare la sua attenzione sul figlio più grande del sarto che, da qualche tempo, capitava in bottega a tutte le ore. Diceva perfino di voler andare a Torino, a fare un corso di taglio, perché era un peccato lasciar andare giù una bot-tega così, una volta che suo padre fosse stato più vecchio e più stanco. Forse una passione così improvvisa era nata da un’altra passione, pensava e sperava Giulietta, che dalla sua posizione di informatrice voleva al più presto tirarsi fuori. Zia Gina, però, non mollava, ma come spesso capita in amore, lui amava proprio quell’altra. E anche quando lo seppe, zia Gina, del figlio del sarto, che nel frattempo si era fatto capire, non ne volle proprio sapere. Lui aveva insistito per un bel po’. Le aveva portato cioccolatini e dolcetti, anziché fiori, perché zia Gina dava l’idea di un tipo concreto e andava matta per i dolci. Ogni sera fumavano una sigaretta sotto il portico, a volte si passavano perfino la stessa, se era l’ultima del pacchetto. Ma che colpa aveva se a quell’uomo, che conosceva da quando era un ragazzo, lei voleva bene come al fratello che non aveva mai avuto e cioè più ancora che alle sue sorelle? Un bene grande, certo, ma ben diverso dallo stordimento che sentiva quando pensava a Gino, anche se gli aveva parlato una volta soltanto, quella domenica che ormai sarebbe stata da dimenticare. Invece non le riusciva. Non le riusciva di colmare quel vuoto allo stomaco, né di uccidere il desiderio che Gino, in-volontariamente, le aveva fatto scoprire. Non le riuscì neanche quando Giulietta si sposò e andò ad abitare in un altro paese, neanche quando le sue sorelle, ad una ad una, cominciarono a fidanzarsi e a sistemarsi. Quegli occhi e quei capelli scuri, quel sorriso, quel nome, si erano così impressi nel suo cuore da resta-

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re, negli anni, inutilmente vivi a consolidare una triste vocazione alla solitudine. Il figlio del sarto, invece, dopo qualche anno si era sposato, ma lavorava in bottega e non tagliava mai un capo sen-za averla lì, a fianco, per chiederle se era meglio così o così. Zia Gina morì a quarantotto anni di un tumore allo stomaco. Forse senza aver mai baciato un uomo.

Quando zia Gina è mancata era il dodici di luglio. Io avevo dodici anni ed ero al mare con la mia migliore amica e la sua fa-miglia. L’ho saputo da mia madre, al telefono. Per un attimo ho provato una sensazione di sollievo. Quotidianamente avevo sen-tito parlare del suo male. Era allettata e assistita dalle sorelle, di giorno e di notte. I medici le avevano dato pochi mesi, invece lei, centellinando quella vita che non aveva mai speso, era riu-scita a stupire tutti. Che fibra, che resistenza, dicevano i medici, quando le sorelle, a turno, andavano in ospedale a prendere la morfina. Che era sempre poca, che non riusciva mai ad addor-mentare completamente la bestia che la morsicava. Quando non era assopita, guardava dalla tenda scostata un piccolo angolo di cielo. Forse per non incrociare lo sguardo di chi le stava a fian-co. Quel male le aveva tolto ogni autonomia, riducendola a una vecchia bambina da accudire. Non riuscendo più a inghiottire nulla, succhiava un po’ di latte dal biberon. Era un fascetto di ossa che bisognava continuamente medicare e cambiare e da un certo giorno in poi mia madre non aveva più voluto che entrassi nella sua camera. Aspettavo giù, in cucina, guardando, quando lei guardava altrove, gli occhi della nonna che non avevo mai visto così tristi e acquosi.

Poi sono corsa fuori, nel retro della pensione che confinava con la casa di un ragazzino che un po’ mi corteggiava e un po’ mi piaceva e ho cominciato a pelare l’edera del muretto. Finché lui

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non è uscito. Come se qualcuno dentro di me avesse pigiato un bottone, improvvisamente ho sentito il calore delle lacrime sulle guance, il loro sapore ai margini della bocca. Forse avevo bisogno di una presenza per sciogliere quel grumo indistinto di paura che era per me, allora, attorcigliato alla parola morte. Poi lui ha saltato il muretto, mi è venuto vicino, mi ha abbracciato, mi ha scostato i capelli dal viso e mi ha dato un bacio sulle labbra. Il mio primo bacio. Indissolubilmente legato a lei.

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i figli degli altri

la tatadi Silvia Battistella

1.Da piccola volevo fare la Effa.Alta, magra, ossuta, una tata ante litteram; in un’epoca in cui

il boom economico portava nelle case la televisione, la lavatrice e le baby sitter, Genoveffa L., detta Effa, aveva trovato finalmente una collocazione lavorativa ed un suo posto nel piccolo mondo di R., paesino di provincia.

Famiglia di contadini storica nel paese, un sacco di figli sotto la guida forte del solito patriarca, lei era la sorella non sposata, quella di cui un po’ vergognarsi, che nessun uomo aveva scelto; una sorta di peso, un commento pietoso a mezza voce nelle chiac-chiere di piazza fuori dalla messa: “E la Effa?...” Teste che si scuotono, sguardi abbassati a terra, destino infausto: zitella.

Ma se di ancora signorine erano piene storia, letteratura e cultura paesana (quasi come lo zio prete o la cugina scostuma-ta), in quell’inizio di anni sessanta lei costituiva un’eccentrica novità.

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A quell’epoca le mamme stavano in casa ed allevavano i figli. Magari cominciavano a fumare, ad uscire da sole, a parlarsi tra di loro di moplen e di permanente ai capelli, ma nella sostanza restavano salde icone di un modello patriarcale che solo qualche anno più tardi figlie ribelli senza reggiseno avrebbero provato a scalfire.

Ma la mia, di mamma, veniva dalla città; andava a teatro la sera da sola in macchina, si metteva in testa buffi colbacchi di pelo, lavorava e i figli li affidava ad un’altra donna. Tenne duro fino a me; poi, con la nascita di mio fratello cedette, oppressa dall’esaurimento nervoso di origine clerical – culturale e da un senso di colpa di cui non si sarebbe più liberata – terreno fecondo per i successivi, di esaurimenti nervosi.

E così, io e mia sorella avevamo la baby sitter: una contadina alta e segaligna, di poche parole, il viso scarno e duro, nessuna bellezza. Stava con noi tutto il giorno: ci preparava il pranzo, ri-governava la casa e qualche volta ci faceva pure una carezza: una vice mamma, insomma.

Della carezza, però non sono sicura; in realtà i contatti erano fugaci, come una cultura senza corpo imponeva, e il suo pren-dersi cura, principalmente e necessariamente dedicato ai gesti quotidiani del vestirci, svestirci, lavarci, pettinarci, sfamarci, medicarci si faceva corpo in un corpo duro, ruvido.

La Effa era alta, anzi altissima: arrivava praticamente al lampadario, passava appena per le porte! La pelle marrone, cotta dal sole del lavoro nei campi, il volto allungato un po’ cavallino, i capelli sciapi, senza forma, che dritti le scendevano dietro le orecchie, corti, senza alcuna vanità o civetteria, fermati da due forcine di quelle nere con il becco gommoso. Aveva sempre dei grembiuli a quadri senza maniche, dai quali uscivano braccia os-

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sute e muscolose, e le gambe secche e un po’ storte che finivano nelle ciabatte a buon mercato con la suola di plastica.

Quanti anni aveva? Chissà, forse cinquanta, o sessanta... era vecchissima, atavica, e nella mia mente assimilata alla Befana, o alle streghe, salvo poi insegnarmi un’inaspettata tenerezza, qua-si nascosta – pudica – nei gesti bruschi e impacciati.

Era lei che mi imboccava, indicandomi uccellini immaginari per farmi schiudere la bocca di stupore ed infilarci il cucchiaio; accoccolata tra il braccio duro e la spalla sperimentavo i primi contatti col mondo, misurandolo tra il ruvido del suo grembiule e la consistenza stopposa dei capelli.

Era lei che mi vestiva, senza scomporsi ai miei capricci: “Vo-glio la gonnella! Voglio la gonnella!” “No, non va bene quella per andare all’asilo, te la metti domenica, se no la sporchi! Dai, vieni qua, lo sai che ho male alla schiena, vieni fuori, Cipia....”

Era lei che, silenziosa ed efficiente, preparava il cibo per tutti sulla cucina economica bianca, di quelle con i cerchi di ferro con-centrici sotto ai quali bruciava un fuoco vero mentre io, seduta a disegnare o a terra con qualche giocattolo, le rivolgevo le mille insensate domande dell’infanzia, a cui rispondeva a monosilla-bi, con una saggezza da quasi-analfabeta, voltandomi le spalle e continuando a rimestare nella pentola.

“Effa, dove è finito il gatto della Beppina?”“Effa, perché noi non abbiamo un gatto?”“Effa, ma cosa c’è alla fine del campo di pannocchie? Cosa

mangiano gli elefanti? Quando andiamo al mare? Posso andare a giocare di sopra? Sai che la Manuela mi ha tirato i capelli?”

“… Non so. Via. Mah... No... Forse. Dai, metti via che preparo la tavola, che fra poco arriva la mamma.”

Ma soprattutto: “Effa, perché tu non hai bambini?” E lei, sempre senza girarsi: “Ma io li ho, ho te e la Lucia.”

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La nostra giornata scorreva così, tra i lavori di casa, il mio chiacchiericcio, le sue risposte laconiche e i mille gesti quotidiani per rigovernare e metter tutto a posto prima che, appunto, tor-nasse quella mamma nervosa, misteriosa e magica, che riempiva le stanze con il suo sorriso e le mille carte per la scuola (“per i suoi bambini”) che era vietatissimo toccare.

Pomeriggi d’estate, trascorsi sull’altalena a cantare e inven-tare storie, riempiendomi il naso e la memoria dell’odore caldo del fieno, dell’umido dei fossi, della luce abbagliante della cam-pagna.

Pomeriggi d’inverno, seduta al tavolo in salotto davanti alla TV, a scrivere le mie prime parole sulla carta marrone dei sac-chetti del pane, incantata da quel maestro Manzi, alto e bruno, che sembrava proprio il mio papà, più sorridente però.

Pomeriggi a letto ammalata, tutta calda di febbre, rannic-chiata sotto le coperte con le guance arrossate e il chiamare con-tinuo: “Eeeeeeffa! Posso...?” “No, non puoi andare giù a giocare; no, non puoi aiutarmi a stendere la roba; no, non puoi fare un giretto in bicicletta.”

Pomeriggi a pasticciare sul tavolo della cucina, a fare le tor-tine con la farina per darle da mangiare alle mie bambole, quelle che trascorrevo ore a pettinare e a far parlare imitando la mam-ma, la maestra, suor Elmina.

E sullo sfondo sempre lei, lei che mi chiama sulla porta per darmi un bicchiere di limonata fresca; lei che mi appoggia vi-cino due fette di pane e marmellata senza dire niente, per non disturbare la mia concentrazione su quel corsivo così difficile da copiare dallo schermo bianco e nero; lei che mi sente la febbre appoggiando le labbra sulla fronte, grattandomi la pelle con una carezza rapida; lei che mi mette in piedi su una sedia e mi fa mescolare il sugo, vigilando da dietro, senza parole, la mia ecci-

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tazione; lei che mi chiama forte quando mi nascondo per farle gli scherzi “Cipia! Dai che sta per tornare la mamma! Vieni fuori!” Lei che richiude lo sportellino a vetro che ho lasciato aperto dopo il furto delle caramelle al rosolio, lei che quando mi solleva mi porta così in alto che penso di poter toccare le nuvole, così su che non vedo più neanche il tappeto.

2.Certi giorni mi portava a casa sua. Casa tipica di contadini,

con la cucina grande sempre in penombra, l’immenso tavolo in mezzo, il pavimento di pietre sconnesse, il camino e appesi lungo i muri i salami, o le pannocchie a seccare. L’aia, le galline, i gat-ti, la stalla. Il nome delle cose diverso, declinato in una lingua sconosciuta.

“No sta aver paura, prova, stringi forte... sì, così, brava.”Mi mette in mano il salsicciotto alla fine della grossa mam-

mella, e con la sua mano grande copre la mia piccina e stringe, ed esce uno schizzo che rimbalza dentro al secchio di metallo.“Effa, ma non le faccio male?” “Ma no, trusconèt, no te ghe fa gnente!”

E poi c’era la scala di legno ripida, che portava di sopra. “Effa, cosa c’è di sopra?”

E così, seguendo il cigolare forte dei suoi piedi scalzi (“Càvate ‘e scarpe, prima”) salivo, in una liturgica ascensione, e nella pe-nombra il suo letto mi pareva enorme, con quelle lenzuola bian-che e dure, profumate di sapone, l’armadio scuro, il catino, la caraffa e il pitale smaltati di bianco col bordino blu, e nell’angolo una montagna di pannocchie da sgranare.

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A volte stava sotto il portico a sbaccellare piselli o a curar verdure mentre io correvo come una matta tra le vigne o in mez-zo alle gambe della Elena (sua cognata, moglie di Clemente) o della zia Rina, o dello zio Tiziano. Davo fastidio come può dar fa-stidio una bambina, e mi trattavano tutti come una principessa: io, la pallida e lentigginosa figlia del sindaco e della maestra; io che non sapevo neanche parlare in dialetto; io, furbetta, ruffia-na e irresistibile come una gatta, che mostravo orgogliosa i miei incisivi separati dall’ampia fessura che solo gli anni e la crescita avrebbero avvicinato. Era la fessura tra i denti come Rita Pavo-ne, la mia cantante preferita.

La Effa – unica – l’aveva capito perché piangevo così tanto e non volevo mettermelo l’apparecchio e l’avrò buttato via un paio di volte almeno fingendo di averlo perduto finché non ci hanno rinunciato e poi comunque il tempo ha fatto il suo lavoro e i denti si sono riavvicinati e io non ero più come Gianburrasca ma una bambina come tutte le altre.

Un giorno mi disse: “Vuoi provare?”C’erano le sue nipotine, le figlie della Rina e della Lola, e sul-

lo stradone bianco davanti casa era tutto un polverone di corse e frenate con le piccole biciclette scassate su cui avrebbero impara-to a pedalare varie generazioni di nipoti.

“Non sono capace!”“Ma ti insegno, no? Dai, monta.”Le mie gambette spingono e il manubrio non sta fermo, vado a

zig zag sostenuta dalla sua mano salda sul sellino. “Non mi molli, vero?” “No che non ti mollo, non aver paura. Pedala, dai.”

E i muscoli prendono coraggio, e il manubrio sta un po’ più dritto.

“Non mollarmi Effa! Non sono capace, cado!”

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“Ma sì che sei capace, trusconèt. Pedala, dai!”E la pedalata si fa più decisa, e l’aria mi solleva la gonna, e il

manubrio è quasi dritto... “Vai! Pedala!” La sua voce è dietro di me, ma sempre più lontana. Pedalo come una furia, con le mie gambette magre, e la sua mano non regge più il sellino, e dall’im-bocco dello stradone mi incita: “Pedala Cipia! Dai che sei capace!” e mi sostiene così, nella mia prima, gloriosa corsa in bicicletta.

3.“Da grande voglio fare la ballerina, la giornalista, l’esplorato-

re, il prete o la Effa!”E tutti giù a ridere di quella bambinetta sfrontata che, a

sgranar le ipotesi sul suo radioso futuro professionale assimilava Arti, Scienza e Religione al lavoro più umile, la donna di servizio (non si diceva ancora colf).

Ma nessuno si stupì della mia scelta al momento della Cre-sima quando – ormai grande – alla richiesta di chi avrei voluto come padrino o madrina, non ebbi dubbi. “Effa, don Giuseppe ha detto che la madrina è qualcuno che sta sempre con te, anche al posto dei tuoi genitori, se gli capita qualcosa.” Siccome alla mia mamma e al mio papà era evidentemente da tempo capitato qual-cosa e la Effa si era sempre occupata di me, e basta, mi sembrava ben strano tirar fuori la questione proprio in quell’occasione, in cui avrei indossato una tunica bianca, una bellissima coronci-na di fiori con il velo, come una vera principessa; il Vescovo mi avrebbe unto la fronte con l’olio santo, mi avrebbe schiaffeggiato, sarei diventata un Soldato del Signore e avrei ricevuto in regalo il mio primo orologio.

Non ricordo la sua voce, la sua risposta; ricordo i suoi occhi inumidirsi di orgoglio, e la fierezza con cui – impettita – posò in-

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sieme a me nella foto di rito davanti alla chiesa, col vestito nero, la camicia verde elegante e la borsetta.

Non l’avevo mai vista, con la borsetta.

Ma chi era questa donna?Cosa pensava arrivando la mattina, ad occuparsi di una casa

non sua, di figli non suoi, silenziosa e indispensabile come un architrave di cemento armato nell’architettura di una famiglia strana, a metà tra i valori del passato e una modernità distratta e dolorante? Cosa pensava, tornando la sera con la sua bicicletta arrugginita, attraversando il paese fino a quella camera in pe-nombra, a quel letto virginale, a quelle pannocchie da sgranare come rosari, nella lenta, monotona litania di giorni di servizio, senza sussulti o passioni?

Me la ricordo vecchia, una delle ultime volte che l’ho vista, nel fresco della stessa cucina – solo un po’ ammodernata da un grande televisore a colori, e foto di nuovi nipoti alle pareti – sedu-ta con le gambe gonfie e deformate, strette dentro le calze grigie e spesse, a chiedermi di me, della mia vita.

Mi accorgo che i suoi gesti si sono depositati silenziosi nella mia storia, e mi hanno guidato nel tratteggiare il futuro, saldi e impercettibili come un’intuizione, come quella mano sul sellino della mia prima corsa in bici.

Penso a quante generazioni di donne hanno camminato per sottrarsi a quella descrizione della vita, a come ognuna di loro, viva e presente, letta o immaginata, abbia firmato un mio tratto, un pensiero, un alito di ciò che sono.

Penso alle presenze dell’infanzia, e alle sue assenze; a come i corpi sappiano contare, più di ogni parola o scusa; alla lenta e faticosa strada della costruzione di sé, e a come ci rimanga den-

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tro – oltre le scelte, oltre la morale – chi ha saputo lasciarci ap-poggiare nel bisogno.

La mia vita le somiglia, forse più di quanto avrei voluto.Te lo saresti aspettato, Effa? Che diresti, ora, a vedermi tor-

nare a casa affannata in bicicletta, traversando il paese, col por-tapacchi carico di quaderni? Che penseresti, quando all’inevita-bile “Perché tu non hai bambini?” rispondo ridendo: “Ma io li ho, ho voi!”?

È così che si impara: nella carne; l’imprinting della cura si è trasformato in mestiere, in vocazione.

Volevo esser te, da grande.È quello che sono diventata, alla fine.

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una breve primavera

il nipotedi Umberto Sartorello

Quando nacque, io non c’ero, e me lo sono rimproverato molte volte.

Credevo non fosse rilevante, e che comunque non avesse par-ticolari conseguenze trovarsi lontani quando in famiglia sta na-scendo un bambino. Io, oltretutto, mi sentivo giustificato perché avevo una cosa importante da fare. Importante.

Ma che cosa avevo poi da fare in quei giorni a Greve in Chian-ti? Dovevo inutilmente cercare di capire che cosa stesse succe-dendo alla mia relazione sentimentale. Con una che era stata mandata dalla famiglia a studiare in Toscana purché se ne an-dasse da qua, lontano da me, e ne trovasse un altro di migliore, più adatto, più giovane. In due parole, di non divorziato. Allora non era come adesso. Ora i separati e i divorziati sono la norma e tutti ne hanno in casa almeno uno. Trent’anni fa, i divorziati, le madri non li volevano attorno alle loro figlie. Noi eravamo l’usa-to, il difettato. Se non eravamo stati capaci di tenere in piedi un primo matrimonio, come saremmo stati capaci di tenere in piedi

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quello con le loro figlie, le loro bambine, sprovvedute e sicura-mente vergini ad ogni età?

Ecco, allora io ero là, in mezzo alle colline di Firenze, per compiere l’impresa di riportare la mia ragazza a casa, a dispetto della sua famiglia.

Per questo, quando nacque Marco, il mio primo e unico nipo-te, io non c’ero. Non ero lì quando venne al mondo, nei suoi primi giorni, accanto a sua madre e a mio fratello per gioire con loro. Un’assenza inutile, visto che l’impresa amorosa in cui mi ero ci-mentato era stata un fallimento.

Anche dopo sono stato poco presente, occupato com’ero a ri-solvere la mia esistenza, a cercare di tenere dritta la linea di galleggiamento a dispetto dei buchi più o meno larghi che im-barcavano acqua nella chiglia. Sapevo se stava bene o se stava male, sapevo della scuola, lo vedevo quando andavo a trovare i miei genitori perché viveva per lunghi periodi da loro ma trascor-revo poco tempo con lui. Gli scattavo spesso delle fotografie. Lui si divertiva a mettersi in posa ed era sempre spontaneo, come lo avesse sempre fatto, gli veniva tutto bene senza alcun sforzo. Che avesse in mano una palla o che stesse accarezzando il cane, guardava nell’obiettivo con occhi profondi tanto quanto erano in-tensi i suoi pensieri. In uno sguardo riassumeva tutta la sua vita. Ed era un bambino...

“Marco, appoggia un attimo il libro che ti faccio un primo pia-no.” Marco sistema il libro di favole sul muretto, sta venendo verso di me quando si sofferma a guardare incantato le pagine scompigliate dal vento.

“Guarda, zio, il vento legge da solo il mio libro!”

Marco era così, capace di stupire continuamente. Io, tutti noi

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della famiglia, stavamo imparando allora come sono i bambini, perché lui era il primo della nuova generazione.

Ho sempre pensato che non bisogna avere dei rimpianti. Sono sofferenze inguaribili e durano per tutta la vita. Anche se il tem-po li smussa, ci sono giorni in cui, più che in altri, si ritrovano i pensieri di ciò che è stato fatto o meno, di ciò che si poteva..., che se... e forse… e se io…

Senza rendersene conto si sta già cadendo in una buca profon-da. Ci si mette del tempo a volare giù, fino al fondo, ma quando si arriva, sono le stesse punte acuminate a trafiggere. Il dolore di sempre. Nella vita i ricordi difficili non spariscono mai, si impara solo a tenerli lontani.

È perché ho imparato questo, che tengo in scatole ben chiuse anche tante fotografie di Marco. Nel fondo del cassetto del mio tavolo c’è la copia di un compito in classe: un foglio protocollo a righe, scritto alla soglia dei suoi diciannove anni, con grafia minuta e spazi stretti fra le parole. Se proprio non riesco ad evi-tarlo, cerco almeno di non andare oltre il titolo ma, quando me ne accorgo è già troppo tardi: sto già leggendo la prima riga. E ogni riga fa più male della precedente.

Tema: Racconta e descrivi un’esperienza che hai vissuto e del-la quale conservi un ricordo vivo e significativo.

Un’esperienza su tutte mi è rimasta impressa, forse perché la sto ancora vivendo e probabilmente perché cambierà un po’ tutta la mia vita.

Sono uno dei pochi ragazzi in Italia ad avere un tumore raro. È da due anni che vivo questa storia e sinceramente sono convinto che durerà ancora a lungo.

Una malattia come la mia necessita di cure devastanti per l’organismo; mi cadono i capelli, perché le chemioterapie brucia-

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no le cellule giovani anche se, una volta finite le cure, i capelli ricrescono più folti di prima. Dopo le infusioni, mi viene un gran-de senso di nausea per le lesioni allo stomaco, quindi, per evitare che io vomiti quello che mangio mi vengono praticate delle flebo cariche di nutrimento. E poi la carenza di piastrine, l’aplasia, la tossicità per il fegato, le infezioni...

In queste condizioni è complesso mantenere un tenore di vita normale ma io ho adottato un atteggiamento che mi serve a supe-rare la situazione. Fin da subito ho affrontato il problema sapen-do che sarà risolto e, nonostante i tempi di guarigione possano es-sere prolungati, una volta terminate le cure archivierò tutto nella parte più remota della mente.

Lunghi sono i periodi di segregazione in casa, a causa della mancanza di difese immunitarie. Questo mi ha permesso di tro-vare spazio per la riflessione, e sono riuscito a scoprire l’impor-tanza di alcuni valori morali che una comune adolescenza non sarebbe mai riuscita a farmi apprezzare.

Primo fra tutti è l’affetto dimostrato dalle persone a me vici-ne, spesso nascosto dalla frenesia della vita quotidiana. È stato incredibile il piacere provato quando vecchi amici, con i quali avevo perso i contatti, sono venuti a farmi visita facendomi sen-tire speciale.

Ho capito che la salute è una delle cose più importanti e allo stesso tempo delicate: i ragazzi, come me fino a qualche tempo fa, non ci danno peso e si rovinano con fumo, alcool e droga. La malattia mi ha fatto vedere la realtà con occhi diversi, mi ha fatto maturare più in fretta: gli interessi dei miei coetanei non mi at-tirano più come prima, e anche i litigi che sorgono fra di loro ora mi sembrano futili ed evitabili.

Sotto un certo punto di vista, però, io provo molta invidia ver-so i miei amici: li vedo vivere una vita serena e spensierata nono-

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stante i loro piccoli problemi quotidiani. Sto male quando mi fan-no partecipe delle loro avventure, alle quali io non sono presente da tanto tempo, e mi raccontano l’accaduto per filo e per segno.

D’altro canto, diverse persone vicine continuano a dirmi che l’esperienza accumulata durante la malattia mi sarà utile in fu-turo: io ascolto con fiducia queste parole, e trovo in esse un buon motivo per andare avanti.

Purtroppo, però, rimane il rammarico per i miei giovani anni perduti.

Leggendo l’ultima riga provo sempre ciò che ho provato la pri-ma volta, quando l’insegnante di Italiano ci ha portato il tema, l’ultimo che Marco aveva scritto in classe, e di cui nessuno cono-sceva l’esistenza. Ne abbiamo fatto tante copie e le abbiamo rega-late a tutti quelli che affollavano il sagrato della chiesa, il giorno del suo funerale, mentre il sole di agosto arroventava l’aria.

Io ho perso mille occasioni per conoscerlo di più, dalla nascita a tutti i suoi diciannove anni. Non l’ho visto entrare in classe il primo giorno di scuola, non l’ho visto nuotare in piscina, non ho visto la sua gioia quando ha avuto in dono Raffi, il suo cane, non ho mai saputo se avesse conosciuto l’amore. Ho perso parole che non posso più ascoltare, o dire, o scrivere, magari, in un biglietto da mettere sotto il nastro che incarta un regalo di compleanno, di Natale, o di laurea. Ho perso telefonate, che non ci saranno più, confidenze, mai avute, complicità, mancate. E non basta a soffocare i rimpianti il ricordo intenso del pomeriggio in cui mi confidava il suo rammarico per non saper rassicurare suo padre e sua madre dimostrandosi forte ogni volta che entrava in ospeda-le per le sue cure. Mi confessava che, varcando quella soglia, gli veniva da vomitare ancor prima di avere un ago infilato in qual-

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che vena, ma non avrebbe mai voluto farlo vedere perché questo rattristava i suoi genitori. Eravamo seduti in auto e lo ascoltavo in silenzio, tenendogli una mano appoggiata sulla gamba. Ma anche questo ricordo intenso non mi basta.

Allora, quando mi rendo conto che sto cadendo nella fossa, riguardo le fotografie dentro le scatole chiuse da coperchi pesan-ti. Cerco di capire di più, di conoscere di più, di intuire ancora qualcosa, un particolare, un gesto, uno sguardo, per recuperare briciole di quanto ho perduto. Le immagini superano i contorni troppo piccoli della foto e ne affiorano altre, quelle reali, mai fis-sate sulla carta ma impresse nella memoria. Sono i ricordi dello sgomento, del dolore, ma anche della speranza e di tanta illusio-ne.

Un’immagine più di tutte mi brucia i pensieri e rinfocola i rimpianti. In un letto d’ospedale, un ragazzo magrissimo e dal pallore innaturale è vegliato da chi non vuole lasciarlo andare. Gli accarezzo il capo tornato fragile e glabro come quello di un bambino, convinto che non mi senta. Socchiude gli occhi stanchi e mi dice: “Sì, zio, accarezzami, ho tanto bisogno d’affetto.”

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la figlia

di Roberta Reginato

Matrimoni

Quelle forcine appuntite mi graffiavano, cercando di intrap-polare il ciuffo indisciplinato. I guanti di pizzo bianchi mi faceva-no scivolare la cornetta dalle mani; io puntellavo il microfono con le dita impacciate e lo spingevo contro l’orecchio. Dovevo sorride-re, guardare dritto e stare in posa, mentre quel tùttuuu –tùttu-uu mi rimbalzava dentro la testa, amplificato dal cappellino da cerimonia, in bilico tra l’attaccatura delle trecce e lo stipite della porta. A cui non mi dovevo appoggiare.

“Roberta, guarda di qua! Mettiti lì, vicino al cesto di fiori. Ecco, brava, sorridi. Un po’ di più… solleva lo sguardo… dai, fa’ un bel sorriso. Lea, mettile a posto quella frangetta, che non si vedono gli occhi. E raddrizzale il cappellino. Dai Bettina, sta’ di-ritta, che sei una bella bambina! Prendi su il telefono. Prova a dire qualcosa… ferma così, bravissima!”

Ero rigida come la Regina dei Ghiacci delle fiabe sonore ascol-tate per ore nel mangiadischi verde pisello, con quell’abitino di panno blu tanto desiderato, identico alle divise del piccolo coro

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dell’Antoniano – Zecchino d’Oro 1968.Imbarazzata, affondavo nel denso odore dei garofani bianchi,

mentre uno spiffero d’aria s’intrufolava nella calzamaglia trafo-rata. Meglio trattenere il respiro.

E adesso avrei dovuto anche parlare. Guardavo quegli adulti gesticolanti davanti a me. Compres-

sa in uno sforzo di volontà sussurrai v-i-v-a-g-l-i-s-p-o-s-i in uno smarrito labiale, appena sufficiente per dare al ritratto un’accet-tabile dignità fotogenica. Poi, libera, corsi in cortile a giocare con i miei cugini.

Era uno dei tanti matrimoni della mia infanzia, quando i fra-telli e le sorelle di mia madre, uno alla volta, lasciavano la casa dei nonni per metter su famiglia. Finché non rimasi che io, in quella grande casa di campagna, con la mamma. Che non si era sposata.

Fiabe

La pioggia batteva sui vetri una goccia dopo l’altra, il 45 giri nero girava rapido e la voce di Paolo Poli, con quell’accento niti-do, mi raccontava Pinocchio. Ogni tanto la puntina saltava e io, che fingevo di saper leggere, inseguivo le immagini e scrutavo i particolari. Il campo dei miracoli, la catena del cane Melampo, i giochi del paese dei balocchi. E poi la fata turchina era così turchina. Geppetto che cercava il suo burattino così disperato. Pinocchio col vestito di carta e il cappello di pane così vero. Lui non aveva la mamma.

Anche la mia amica del cuore non aveva la mamma, le era morta di cancro quando lei aveva appena un anno. E anche se aveva un papà, un fratello e una casa, abitava da sua nonna.

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Solo un muretto ci divideva e potevamo giocare insieme tutto il giorno.

“Io sono Cenerentola e tu la matrigna cattiva.”“Allora ti porto da mangiare solo pane e cipolla!”“Sì, e dopo sporchi per terra dove ho pulito…”“ … e dopo ti metto a dormire nella soffitta piena di topi…”“ … e poi non mi porti alla festa…”“ … e poi ti strappo i vestiti per il ballo…”Sentivo fino in fondo alle ossa di essere lì, nel posto sbagliato,

al momento sbagliato. Per errore, semplicemente.Avevano un sapore di sabbia sul pane quelle nostre eufori-

che vessazioni, esagerate apposta per prolungare l’attesa della scarpetta di cristallo, che mi avrebbe finalmente rivelata per la principessa che ero. E tutti se ne sarebbero accorti.

Così arrivava la sera e mia nonna, dopo le preghiere, mi rac-contava la storia di Gesù. Ave Maria piena di grazia, Angelo di Dio che sei il mio custode, Padre nostro che sei nei cieli. E san Giuseppe? Maria non era sposata quando l’angelo col giglio le annunciò che aspettava un bambino. Gesù bambino non aveva un papà vero e proprio, lui aveva un putativo.

Come io avevo mio zio Beppino – che vuol dire proprio Giu-seppe, e anche Geppetto. Era lui che mi faceva il laccio quadruplo sugli stivaletti scamosciati, era lui che mi faceva fare le capriole acrobatiche al ritmo di rock’n’roll, era lui che mi strizzava la gen-giva quando perdevo un dente, era per lui che all’asilo preparavo il bigliettino per la festa del papà, spunzecchiando i cartoncini fustellati con lo spillo.

E seguendo con precisione la sagoma stilizzata di una cravat-ta, un puntino dopo l’altro, pensavo.

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Cognomi

“Perché non hai un papà?”“Perché mia mamma non si è sposata.”“E perché non si è sposata?”“Perché non si volevano bene.”“Ma tu lo sai chi è tuo papà?”Un giorno risposi di sì, e sul rovescio del quaderno dei dettati

iniziai a scrivere due iniziali in stampatello.I compagni di classe, curiosi, volevano sapere il nome e cogno-

me completo. Tiravano a indovinare.“Tanto non lo conoscete.” Ma i bambini insistevano ancora.“Vabbè, vi dico solo il nome però.”“Zitti, dai, che ci dice il nome!”“Si chiama…” e cominciai a scrivere in bella calligrafia un

nome che iniziava per B. “Anche mio zio si chiama così… Anche l’amico di mio fratel-

lo… Anche mio nonno…”La maestra riprese la lezione e tutti tornarono a sedersi sbuf-

fando. Io, rapida, raddrizzai il quaderno, che mi si aprì sul fron-tespizio. Alunno, classe, scuola.

Un brivido spavaldo mi spinse la mano, presi la matita e co-minciai ad accostare al mio nome quel cognome che iniziava per S. Me lo aveva insegnato mia mamma, e lo avevo sentivo nomi-nare anche dalle mie zie. Si materializzava nel tratto ruvido e polveroso della grafite, era più lungo del mio, ma certe sillabe ri-correvano – seppure invertite – e me lo rendevano quasi familia-re. Poi terminava stupidamente con un numero: a pronunciarlo non me ne ero mai accorta.

“Ti chiameresti così, allora?” mi sussurrò la vicina di banco.“No, perché sono figlia di mia mamma.”

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“Sì, giusto. Per me poi è anche più bello il tuo cognome vero. Reginato: nato da una regina.”

Intanto osservavo quella mia nuova firma, come studiandomi allo specchio: non un gran vantaggio rinunciare al mio diminuti-vo così hippy Roby Regy solo per finire tre posti più in basso nel registro di classe.

Presi la gomma e cominciai a cancellare.

Rivelazioni

Domenica sera. Io e il mio ragazzo nella sua Volvo scura, come ogni domenica, un’ora e mezza di strada dalle colline alla laguna. L’università era cominciata da qualche mese, lui a Ferrara e io a Venezia. Indossavo la tuta blu elettrico con le righe bianche, il K-way in tinta, lo zaino da montagna con dentro libri, vestiti e qualche golosità preparata dalla mamma.

“Fai il giro da quella parte, stasera. Voglio vedere che faccia ha mio padre.”

Nessuna domanda, tanto cosa c’era da chiedere. Non l’avevo mica capito, a diciott’anni, che per diventare donna dovevo fare a brandelli e ricucire quell’idea di uomo che mi faceva dire: posso farne senza.

“Dopo la chiesa, gira a sinistra, dovrebbe essere in fondo alla via. Aspettami qui.”

Sulla destra c’era un’officina, attigua ad una palazzina a due piani.

Salire pochi gradini nel buio, cercare sul campanello quel co-gnome e suonare.

Mi aveva risposto una voce di donna, avevo scandito il mio nome – chissà che effetto avrebbe fatto – e avevo chiesto di lui.

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Il portoncino si aprì. Rari fotogrammi, nei miei ricordi.C’erano delle scale da fare per arrivare al primo piano. Trat-

tenere il respiro per non avere il fiatone. La porta era aperta sul pianerottolo. Entrare.

La signora mi disse avanti gentilmente. Lo sapevo che avevi una moglie, ma non ritrovo nella memoria nemmeno un tratto del suo viso. Solo dei capelli neri – credo – forse una gonfia ac-conciatura – non ne sono sicura – persona minuta con pantaloni aderenti e una voce roca – forse fumava?

Sono rimasta in piedi al centro della stanza per un tempo sospeso.

Tu sei arrivato, con quegli stessi occhi tondi e sporgenti, con le stesse lievi occhiaie. Fin da piccola, chi ti aveva conosciuto mi diceva che ti assomigliavo, stessi occhi, stesso sedere all’indietro. “Che begli occhioni, questa bambina!” dicevano tutti.

Concetto astratto, a cui avevo dedicato fantasticherie e poe-sie, aggrovigliate pagine di diario, infantili intimità. Eccoti qui, adesso. Davanti a me. Mio padre.

Hai negato di conoscere il mio nome. Hai negato di conoscere mia madre. Hai negato di conoscere la mia famiglia. Hai perfino negato di aver frequentato il mio paese (e lì mi è scappato da ri-dere; ingenua, credo di aver guardato tua moglie, cercavo solo un indizio di realtà). Hai negato che si fosse tentato di combinare il matrimonio, quando mia madre si è ritrovata incinta. Hai negato di sapere della mia esistenza.

Stavi in piedi, in mezzo alla stanza. Rispondevi per monosil-labi alle mie domande, con quello sguardo liquido che rasentava l’idiota.

Tua moglie era lì, come un attaccapanni, sull’angolo.Le mie parole rimbalzavano tra il divano beige e le pieghe

delle tende, dove si aggrappavano i miei occhi per non metterti

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in imbarazzo.Ti davo del lei. Ma cosa mi restava da dire?Mi sono girata per uscire, avrei voluto scagliarti una di quelle

frasi lapidarie che con elegante sarcasmo mi uscivano ogni volta che mi sentivo tradita dalla vita.

Invece credo di aver detto qualcosa del tipo: se allora proprio il mio nome non le ricorda niente… Sperando in una tua estrema replica.

Invece sei appena riuscito ad articolare l’ennesimo monosil-labo. Uguale agli altri.

L’avrei scoperto da ben più grande che gli uomini negano. Reiteratamente, indefettibilmente, inesorabilmente. Ogni più accecante realtà.

Sono scesa dalle scale. Nel vuoto. Con le schegge dei tuoi oc-chi conficcate nella schiena, lasciandomi il tuo sguardo beota alle spalle.

“Hai fatto presto.” mi ha detto il mio ragazzo mentre risalivo in auto.

“Ha detto che non mi conosce. Che non conosce neanche mia mamma. Che vigliacco coglione.”

Fosse bastata la pillola, ad esercitare il controllo sul mistero di esistere.

Meditazioni

Ma che cazzo di situazione di merda.Che stronzate erano quelle che mi avete raccontato fin da

piccola? Sì, quella storia da commedia all’italiana in bianco e nero,

dove lei rimane incinta e le due famiglie bene si mettono intorno

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ad un tavolo per organizzare il matrimonio riparatore. Si discute di dote e si trattano cifre, maldestramente, allora lei s’indigna e rifiuta l’accordo.

“Non sono mica un campo di terra in vendita! Questo figlio me lo tengo io e gli do il mio nome.”

Lui prova ad insistere, ma deve accettare la scelta di lei, ap-poggiata dall’intera famiglia: padre commerciante, madre catto-lica e otto fratelli – di cui sei maschi. Anni dopo raccontano di averlo visto bazzicare nei pressi dell’asilo, a cercare di vedere la bambina. Allora i fratelli di lei lo avrebbero diffidato dal farsi ritrovare da quelle parti.

Ma che cazzo di stronzate mi avete raccontato?E quella volta, mamma, che eravamo insieme a sfogliare le

tue foto da giovane. Le tenevi dentro alla cassetta metallica chiu-sa a chiave, insieme a lettere e cartoline. C’erano anche quelle di un ragazzo ricciuto con la camicia bianca e i pantaloni stretti in vita: è lui? No, era il tuo fidanzato, quello che era andato in Africa a lavorare, ti scriveva da lontano ma non tornava. Così la storia era finita da sola. E quando alla fine lui è tornato e ti ha cercata, io ero già nata.

“Mamma, se ti fosse capitato al giorno d’oggi, avresti aborti-to?” mai fare domande, se non si è pronti alle risposte.

“E magari sei anche dovuta andare a confessarti, solo perché eri incinta.”

“Per forza, altrimenti non sarei più potuta entrare in chie-sa.”

Che stronzata! E quella volta che mio zio dall’America – che non riusciva ad avere figli – pensò di portarmi a vivere con loro in California? Che grande opportunità, l’America! Ma tu mamma – che ti chiami America – gli hai detto di no.

Come avrei potuto ripagarti di tanta tenace resistenza pas-

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siva, io che avrei preferito essere il bambino mai nato con una lettera da conservare sottochiave.

E cosa ti potevo rispondere quando a dodici anni mi hai chie-sto se ero d’accordo sul fatto che ti sposassi. Inconsapevole prota-gonista di un fotoromanzo patinato. Quel tipo girava per casa da un po’ e faceva tanto il gentile con me, ma io che cazzo c’entravo con un matrimonio?

Non mi cambiate le carte in tavola, per favore!

Appuntamenti

Sono diventata mamma a trentacinque anni; mio marito – il ragazzo di allora – è il padre di mio figlio. Facciamo ancora la stessa strada con la sua Volvo, dalla pianura alle colline, stavol-ta. Per andare a trovare la nonna.

“Nonna, ma qual è tuo marito?”“Io non sono sposata. Non viviamo insieme.”“Mamma, ma dov’è tuo papà?”“Abita in un altro paese e ad un certo punto si è sposato. Ha

una moglie, ma non hanno figli.”“Ho capito, lui e la nonna sono come divorziati. E come si

chiama? Che lavoro fa?”Ci ho pensato per qualche settimana. E dentro di me la ri-

sposta era no. Poi un pomeriggio, mentre mio figlio dormiva, ho preso l’elenco telefonico. Ho cercato il paese, ho cercato il suo cognome e ho ricopiato il numero su un foglietto volante. Speravo di perderlo.

Finché la mia mano di donna, indulgente come mai ero stata, ha preso in mano il cordless. Mio figlio dormiva. Ho composto il numero lentamente, scivolando sui tasti con le dita sudate, ero

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arrabbiata, di doverlo fare. Perché dargli un’altra possibilità?Volevo darla a mio figlio. E basta.Pochi squilli e risponde una voce femminile, quella stessa

voce roca di vent’anni prima.Mi presento e chiedo di parlare con lui. Anche lei mi ricono-

sce.Gentile come allora, mi dice di attendere. Poi torna e mi ri-

ferisce che ora è impegnato. Allora chiedo un appuntamento te-lefonico. Va bene, tra due giorni, alle sei di pomeriggio. Grazie, arrivederci.

Alle sei mio figlio è sveglio, così lo intrattengo con un gioco e mi chiudo in studio. Circospetta digito il numero e risponde an-cora la solita voce. Anche stavolta lui è impegnato. Spazientita replico che non ci credo. Lei, inaspettata, commenta: sai come sono fatti gli uomini… fanno fatica in queste cose, bisogna dargli tempo. Quando posso venire, allora? Decide lei, e mi propone un pomeriggio di quella stessa settimana.

Ma che non mi faccia fare la strada a vuoto, chiudo quasi minacciosa.

E ritorno a giocare.

Miserie

Era un pomeriggio di primavera. Indossavo il mio abito glici-ne a fiori e righe.

“Andiamo a conoscere l’altro nonno.”“Quanti anni ha?” non me lo ricordo più, forse una decina più

di mia mamma? Ormai un anziano.Stesso parcheggio della Volvo scura di allora, bimbo per mano,

stessi scalini, stesso campanello. Ma non era buio, stavolta. Che

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strano conoscere già la strada. Al piano terra ci abitava un po-tenziale zio e, chissà, degli eventuali cugini. Fratelli e sorelle no, da quel matrimonio.

Tua moglie ci ha fatto entrare e poi sei arrivato tu, con quel sorriso ebete. Ci hai fatto accomodare in una saletta attigua, con un lungo tavolo centrale.

“Questo è mio figlio, ha quattro anni” il bimbo si mette a gi-rare per la stanza.

“Senti” attacchi tu, risoluto, con aria confidenziale “tua mam-ma ti ha mai parlato di un certo A…?”

Riesco appena a frugare tra i miei ricordi più lontani e tu:“Sai, gli assomigli proprio tanto.”Non capisco, aspetta, cosa c’entra?“Che bella la Ferrari!” dice mio figlio armeggiando con un

modellino di grandi dimensioni, che è in realtà una radio anni settanta. Tu subito glielo lasci prendere e riattacchi:

“Perché sai, tua madre frequentava varie persone…”Cosa posso aver pensato in quel momento, non me lo ricordo

più. Mi ricordo che solamente alla sera, seduta sul divano con mio marito, ho messo a fuoco che volevi farla passare da putta-na. Davanti a me. Davanti a mio figlio. Ecco a cosa ti era servito prendere tempo. Ecco come avevi utilizzato il vantaggio di un preavviso. Microcefalo.

Infame codardo meschino indecente. Osceno vigliacco!Io devo aver replicato qualcosa sul fatto che invece sapevo di

esser figlia tua, che anche i miei zii me ne avevano sempre par-lato. Non mi ricordo ripetevi come un allocco. Intanto mio figlio giocava con l’automobilina, e tu mi chiedevi che lavoro facevo, quasi sorpreso che avessi una laurea, totalmente disinteressato, in realtà.

“Ma tu ci hai mai pensato a mia mamma, che mi ha allevato

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e mantenuto da sola, facendo l’operaia?”Mi sono alzata, mentre fingevi di cercare una risposta. Alla

fine, con quello sguardo inebetito, sei riuscito a tirar fuori l’enne-simo non mi ricordo. Penoso, ridicolo, ottuso coglione!

Salutandomi mi hai chiesto dove abitavo (interessante, tu in quella zona stavi costruendo una strada con la tua impresa) e mi hai dato il tuo biglietto da visita.

“Cosa me ne faccio?”Non lo sapevi neanche tu. Nell’imbarazzo, hai insistito per

regalare a mio figlio quella Ferrari.Ce ne siamo andati come dopo una normale visita parenti,

con quel paradossale giocattolo in braccio e un insensato indiriz-zo tra le dita.

Così mio figlio ha aggiunto il tondo mancante al suo albero genealogico.

E io l’ho rimosso. Definitivamente.

Epitaffio

Tu, che saresti potuto essere mio padre, e invece sei rimasto uno spermatozoo accidentale da cui ho ereditato la forma degli occhi. Ma non lo sguardo.

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argento

il nonnodi Cristina Cason

“E povera capuzzella!E povera testolina!

Pulecenella teniva ‘na gattaca tutta notte faciva ‘a matta

e sonava ‘na campanellaviva ‘a gatta de pulecenella…”

C’era una foto con la cornice d’argento sulla sua scrivania. Una donna bellissima, con occhi grandi e scuri ed infiniti capelli corvini raccolti in giochi di trecce intorno alla testa. In inchiostro nero, un obliquo corsivo inglese ornato di grazie dedicava:

“all’ideale della mia vita, Leuccia tua”Non l’aveva mai spostata da lì, né dal suo cuore, la sua moglie

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adorata, persa troppo presto nel groviglio di sofferenza di una malattia spietata.

Nel suo nome aveva cresciuto e fatto studiare con amore e severità tre figli, attraverso due guerre, provvedendo a tutto ed imparando a fare qualsiasi cosa fosse necessaria alla famiglia, oltre al suo lavoro di cancelliere in tribunale.

Aveva gli occhi grigi, il nonno Checco, trasparenti come le nubi di marzo – color tempesta con dentro la luce.

Era alto, imponente; un meridionale svevo dalla pelle chiaris-sima e lievemente lentigginosa.

I capelli, castano leggero in gioventù, un’onda candida nella mia memoria.

Zì’ Mario, suo fratello medico che viveva a Venezia, lo chia-mava Ciccillo. Quando veniva a trovarlo, talvolta si parlavano in casertano stretto… una melodia dolce e per me quasi incompren-sibile, u - - u - - u - - u, da uccelli del Paradiso.

Celebravano quindi con dedizione un rituale: pettinarsi a vicenda.

Nonno Checco teneva d’abitudine un pettinino d’osso nella tasca della giacca e mi offriva una mancetta perché mi dedicassi alla sua testa.

Montavo in piedi su una sedia alle sue spalle ed iniziavo a divertirmi: riga in mezzo, riga di lato, tutti da una parte, tutti in avanti, le treccine… lui socchiudeva gli occhi, come un gatto che fa le fusa.

Alla fine mi regalava 20 lire, con cui andavo a comprarmi un gelato Lemarancio al baretto di fronte a casa.

Ritratto di famiglia in giardino: mio nonno si fa pettinare da

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mia mamma, mia mamma da mia zia Alma, mia zia Alma dalla tata Lola. Io guardo.

Nonno Checco al mare soffriva il sole: anche se stava ripa-rato sotto l’ombrellone ed era completamente vestito, nelle parti scoperte la sua pelle candida si arrossava violentemente col ri-flesso ed a nulla valevano i generosi strati di crema Nivea che la mamma gli propinava, provocando ripulse d’insofferenza.

Memoria di vacanze: mare azzurro, panama bianco, camicia a maniche lunghe e pantaloni di lino rivoltati fino al ginocchio, lui sorride coi piedi in acqua, vicino a noi che ridiamo infilati nel salvagente.

Il nonno a casa era una presenza fondamentale. La sua men-te creativa trovava facilmente modo di esprimersi attraverso le mani: grandi, forti, sensibili.

Raccomandava spesso stipa che truovi (riponi, che poi al mo-mento giusto troverai ciò che ti serve).

Non concepiva gli sprechi, buttava via poco e raramente. Smontava, immagazzinava e riciclava in modo inatteso giocat-toli in disuso, parti di elettrodomestici guasti, sezioni di vecchi mobili, scatole, recipienti, barattoli, rotelle. Risuolava le scarpe consumate sotto ma ancora buone; tagliava punta e tallone ai nostri sandali ‘con gli occhi’ divenuti piccoli, che così tornavano per un po’ indossabili; era capace di aggiustare tutto quello che rompevamo noi nipoti che eravamo in quattro e alquanto vivaci.

Costruiva carretti, monopattini, trampoli, lettini, sedie e mo-bili per le mie bambole, castelli e fortini. E anche oggetti utili come il raccoglifichi, realizzato con un barattolo dell’orzo marca ECCO avvitato in cima ad una canna di bambù; praticava sulla

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latta un taglio a finestrella perché il distacco del frutto fosse più preciso.

Un Natale, Gesù Bambino portò a me e a mio fratello Marco un teatro di marionette.

Era ricavato da una grande scatola di legno serigrafata a decori floreali, che era stata una confezione regalo di bottiglieria della Vecchia Romagna Bouton.

Lui, strabiliante Geppetto, aveva creato da quella, tagliando e ristrutturando, un palcoscenico in miniatura dotato di quinte a periatto, girevoli su se stesse in modo tale che la scenografia mutasse: da sala barocca con tanto di specchi a bosco intricato da lui dipinto.

Il palco all’italiana, attrezzato di sipario mobile, accoglieva le marionette: il nonno le aveva costruite ritagliando testa e parti del corpo nel compensato, collegandole poi con chiodini ribattuti che funzionavano da articolazioni mobili.

La “muta” era composta dai classici personaggi della Comme-dia dell’Arte: Arlecchino, Brighella, Pantalone, Balanzone, Ro-saura, Florindo. Si aggiungevano l’Orco Peloso, l’Uomo Selvatico, la strega Bacucca e la fata Celeste.

Arlecchino rideva con il volto di un giovanissimo Dario Fo, ri-tagliato dal settimanale Oggi; il ghigno della strega era la faccia di Paola Borboni; Rosaura indossava un lussuoso abito di pizzo rosa ricavato dal bordo di una sottoveste smessa della zia Alma; l’Orco esibiva uno spaventevole torso villoso nato da un guanto invernale a manopola rimasto vedovo per la perdita dell’altro; l’Uomo Selvatico emergeva da una manciata di fieno misto a ra-micelli, ben incollata al legno di fondo come i capelli di muschio rubato al Presepio; la fata Celeste ondeggiava in una tunica stre-pitosa incrostata di perline, “fu manica” di una camicetta da sera

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in seta che ormai si tagliava; completava la mise un cappello a cono rivestito della stessa seta e ornato di velo e fiori (fonte: ex bomboniera battesimale di lontani parenti).

Meticoloso fin nei minuti particolari, aveva dotato il teatrino di microarredamenti ed oggetti di scena, tutti ben ordinati nei depositi ricavati nel sottopalco.

Quel teatrino è così intatto dentro di me che ha fatto nascere tanti altri teatri, personaggi e storie. È fiorito in un mestiere che è debitore al nonno Checco di una galassia di saperi e sentimen-ti.

Era, il nonno, un fascinatore che mescolava in modo intrigan-te l’italiano col suo dialetto natale. Compaesano di Basile, pure lui aveva innata la capacità di governare a meraviglia il ritmo della narrazione e delle assonanze interne: formava delle sfere sonore che cullavano l’orecchio e l’anima. Un GRIOT, tanto capa-ce di cambiare atteggiamenti e voci, che gli innumerevoli perso-naggi da lui evocati comparivano davanti a noi guardandolo.

Ecco Donatino, amico e compagno di burle madornali; le vec-chie beghine che pregavano in chiesa facendo vibrare all’uniso-no il mento adunco ba-ba-ba-ba…; suo papà Vincenzo, sempre al lavoro per mantenere i sei figli che fece tutti studiare; la sua mamma amorevole, la bisnonna Luisa, che preparava il pane per tutto il quartiere per guadagnare qualcosa. Quando le restava qualche momento libero (e non dovevano essere molti) disegna-va, bagnando con la saliva la mina della matita, arabeschi di fiori foglie farfalle uccellini sui tagli di seta casertana, li ricamava e li bordava di frange e poi vendeva gli scialli al mercato per aiutare il bilancio di famiglia.

Ed infine, in controluce, la sagoma minacciosa dell’arcipre-te e del suo nodoso bastone, con cui il prelato santificava i pec-

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cati degli scugnizzi: “… e giù mazzate e mazzate, BUM, BUM, BUM…”

Ci incantava, arrendendosi felice alle nostre pressanti ri-chieste, con i suoi ricordi della guerra di Libia, alla quale era stato spedito giovanissimo. A noi non pareva poi una cosa così tremenda, per come lui la trasformava di volta in volta nella sua fantasia: un po’ Charlie Chaplin e un po’ Tartarino di Tarasco-na ci restituiva, dell’ esperienza africana, un vissuto rarefatto e scherzoso.

“Nonno, dai, di’ di quella volta degli Ascari che venivano a prendersi sotto la casamatta le camicie coi pidocchi che buttava-te via e se le infilavano una sopra l’altra…

Nonno, ma sul serio le banane in Libia sono lunghe come un braccio e con una mangi un giorno?

Nonno, racconta di quel tuo amico che ha sparato con la pisto-la all’aereo di tela tedesco e lo ha fatto precipitare…

Nonno, e quella volta che faceva così caldo che vi siete chiusi a dormire nelle casse da morto nuove che stavano nel deposito?”

Lui rideva, facendo sussultare le spalle, poi diventava serio ed iniziava. Noi, a bocca aperta come sciosciammocca, ci beveva-mo le sue parole.

A casa dei miei sono custodite, come reliquie, antiche bobine registrate col magico apparecchio GELOSO della nostra infan-zia. Contengono alcuni racconti del nonno e muoio dalla voglia di riascoltarli – ma i nastri magnetici, infragiliti dagli anni, po-trebbero rompersi, disperdendo senza ritorno la sua voce . Chissà cosa proverei nel riudirlo... la voce è un talismano potente, capa-ce di traghettarci ovunque.

Nonno Checco godeva di una salute di ferro; unico tallone

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d’Achille, la bronchite cronica da fumatore. La sua tosse caver-nosa era una specie di alfiere: prima arrivava lei, poi lui, che pareva farsene precedere.

Fu una primavera criminale a portarselo via: uno di quegli stupidi virus stagionali prese ad accanirglisi contro e non voleva lasciarlo; aveva difficoltà a respirare di notte e così lo ricovera-rono.

Un cocktail massiccio di antibiotici endovena gli fu fatale: su di lui, non abituato ad assumere medicine, ebbe l’effetto del na-palm su una foresta.

Impazzì, improvvisamente, come re Lear: iniziò con qualche allucinazione, nel suo letto in corsia – talvolta guardava nel vuo-to e diceva che vedeva reti d’oro e bastoncelli colorati, poi che il fuoco gli bruciava la pelle.

Un giorno sono andata a trovarlo con mia figlia Chiara che era piccolissima. Era lucido e tranquillo.

Stavamo chiacchierando quando improvvisamente cominciò a buttare via le coperte, a gridare che andassero via, via tutti, che lo lasciassero stare, via.

Poi iniziò a parlare con sua madre in casertano: “Mammà, mammà, si, aggi’ furnut’, mo sto qua, appicciamm a fornacella, sì, sto a suffia’, fu… fu… fu… fu…”

Ero spaventatissima, chiamai gli infermieri. Chiara guarda-va stupita il suo bisnonno, così estraneo in quel momento.

Arrivarono, con iniezioni e tranquillanti – le iniezioni, che da sempre lo terrorizzavano.

Ebbe un attimo di lucidità, mi guardò e mi disse: “Porta via la piccola.”

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Morì quella sera.Del funerale non ricordo nulla, se non il pianto convulso di

mia zia.A casa, la sua camera era vuota e sulla scrivania la sua tabac-

chiera d’argento splendeva con le ultime pastiglie Leone all’anice dentro.

Si è diviso in scintille infinite di luce e di allegria. A distanza di trentaquattro anni, continuano a mandare lampi improvvisi nelle mie giornate.

Forse è vero quello che dicono i buddisti, che energia siamo ed all’energia ritorniamo.

Se penso a lui, mi viene ancora da ridere, nonostante abbia conosciuto i suoi “confetti a cinque dita” e la sua autorità.

“Mazza e pannellafanno i figli bbelli!”

Sì, lo so, nonno, ma mi viene da ridere lo stesso.

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germinazioni

la sorelladi Alessandro De Bei

Oggi è martedì 2 settembre… c’è il sole, è l’anniversario della morte di mia mamma.

Sono venuto qui, nel cimitero di san Lazzaro, a portarle dei fiori, gigli e crisantemi bianchi. È da due anni che non c’è più.

Al mio fianco Brunella, mia sorella, cammina rapida tra i via-li alberati. Ha i capelli neri, come la mamma, lunghi e lisci, gli occhi castano scuri e piccole lentiggini che spiccano sulla carna-gione bianca. Ha dodici anni. Poco fa sono andato a prenderla a scuola, sulle spalle ha uno zaino pesante che un po’ la incurva. Camminiamo tra questo bosco bianco di lapidi tra i sassi e l’erba, urtando scampoli di cielo con i nostri pensieri, sospendendo a branchi erranti di nuvole la nostra vita.

C’è un carme, una antica preghiera che aleggia tra queste lapidi. Ci sono bracieri dove arde una fiamma di bronzo, fiori di metallo sbocciati in primavere ottocentesche. Angioletti di mar-mo che vegliano la foto antica di coniugi, madri, fratelli. Oltre il muro, il muro della terra, il cielo azzurro asseconda cupole e

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guglie sopra le tombe di famiglia, tra cipressi che si stringono ammutoliti dal canto di un passero.

Mamma ci guarda dall’alto di un condominio di marmo, ci guarda amorevolmente da quella foto già un po’ ingiallita, come se nulla fosse cambiato, come a capire il nostro incerto cammino del vivere.

Brunella mi dice piano: “Mi manca la mamma, sai. La sera mi sembra di sentirla venire in camera per darmi la buonanot-te. Chissà dove sono volate tutte queste anime, in che punto del cielo…”

Nel silenzio dei corridoi lastricati di marmo irrompe un fru-scio. Di un passero che libera una zampetta rimasta impigliata. O forse è l’ardore di ali di serafini in preghiera, che si sfiorano.

Brunella sistema i fiori nel vaso. Con pochi tocchi il mazzo splende.

Vicino alla tomba della mamma c’è un cespuglio di rosmarino secco. Ne porgo un rametto a Brunella che lo annusa a lungo. Poi mi prende per mano. Torniamo sul viale principale. Nugo-li di vecchiette sono riversi sui cesti della fioraia, come passeri sul grano. Brunella è stanca. La guardo e cerco di indovinare la donna che sarà un giorno. Brunella è cresciuta in fretta. Ha vene azzurre sotto la pelle sottile delle tempie. D’improvviso, leggera come un fiore, si gira verso di me.

“Ale, tu che sei un pittore, colori il mio rametto di rosmari-no?” mi dice, mentre un brivido mi percorre la schiena.

Mi siedo su una panchina all’ombra di un tiglio secolare e ri-cordo l’ultima estate di mia madre. I pensieri, come grumi, mi si accendono in testa. Dall’altra parte della strada l’insegna “Chur-rasco” lampeggia intermittente come i miei ricordi.

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Luglio di due anni fa. Mia mamma è ricoverata in clinica. Non capiscono e non capiamo il procedere della malattia che in questi mesi la sta sempre più indebolendo. Nel pomeriggio è fis-sato il colloquio con il primario dell’ADVAR. Entro nel suo stu-dio, lo guardo. È un bell’uomo dall’aria intelligente, arguta. La cosa che voglio di più è sentirmi dire che mia mamma si salverà, che la malattia, dopo l’operazione e i mesi di cura, è finalmente regredita.

Il primario è cortese, ma sbrigativo. Mi fa sedere e senza trop-pi preamboli mi dice che la mamma ha un mese di vita. L’opera-zione è stata del tutto inutile, il tumore all’intestino si è propa-gato, le ha invaso il corpo. E per ultimo conclude: “Lei è adulto, lo accetti.”

Capisco e non capisco. Sono tramortito, come investito da un camion. E, illeso nel corpo, sono però morto nell’anima. Lui è un medico, un bravo medico, sta facendo il suo lavoro come un bravo notaio, un bravo ragioniere. È un problema soltanto mio, ora…

Torno in camera da mia mamma, ha lo sguardo ferito di una donna che vuole vivere ancora. Mi dice poche parole come se già sapesse, si raccomanda per il mio futuro, seria e dolce come sem-pre. Ha lo sguardo stanco come certe volte quando tornava dal lavoro. Io anche allora ne soffrivo.

La clinica è immersa nel giardino che diventa il mio Golgota. C’è un laghetto con pesci grossi e colorati. Quando lascio mia mamma vado a pregare sotto la tettoia nell’isoletta al centro del lago. Prego con ogni forza tutti i santi che conosco. Anche loro, indaffarati in uf-fici divini, sono rimasti a corto di miracoli. I pomeriggi passano lenti, estenuanti, tra le visite di parenti e amiche di mia mamma che le parlano di un mondo lontano, oltre quelle pareti. Parlano ad un fiore sgualcito dal dolore. Ma la dolcezza del suo viso è ancora intatta.

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Lampeggia intermittente l’insegna “Churrasco” tra i rami del tiglio. Altri nastri della memoria si dipanano. Ritorno bambino.

Ho cinque anni e sono con mia nonna. Sono cresciuto con lei, il ramo sano della famiglia, una donna

volitiva, energica, intraprendente, sempre col grembiule ai fian-chi e una pettinatura che raggiungeva altezze ragguardevoli.

Mio nonno invece è stato il ramo malato, un geometra in pen-sione che ingaggiava giornalmente con l’esistenza un corpo a cor-po brandendo grappe e sigarette, quelle nazionali, col pacchetto verde e il veliero nero. Nonna si sta preparando per il pisolino. È un rito che la possiede integralmente. La dentiera nel bicchiere d’acqua, la retina stretta sui capelli, trattenuta da innumerevoli forcine ricorda l’armatura di un monumento equestre del rinasci-mento. Nella mano stringe un fazzoletto. Sul comodino il suo in-separabile rosario, ai piedi della statuetta in simil-plastica della madonna di Lourdes con annessa acqua miracolosa. La dentiera sorride galleggiando come un reperto fossile dentro un liquido amniotico. Al risveglio la nonna si mette lo scialle e sgranando il rosario aggiusta un fiore davanti alla litografia di Sant’Anto-nio. Tra le avemarie sdentate, versetti, litanie, aspersioni di una indubitabile religiosità popolare. Dopo aver nutrito l’anima ha infornato una torta. La cucina è pervasa da un buon profumo di vaniglia. Io sono impaziente, voglio assistere alla lievitazione. Ma il forno è scuro e bisogna accendere la luce. Mia nonna è da-vanti al forno. Dalle sue ciabatte aperte spiccano gli alluci ritorti come in uno strano scongiuro. Mi abbasso. Ricordo ancora l’odore di patate fritte delle sue gonne. E mi infilo veloce tra la nonna e il forno perché voglio accendere la luce. Ma la mano mi scivola e rimane appiccicata sulla parete cocente del forno. Sento un dolo-re fortissimo, un odore acre di carne bruciata. E grido, ma anche la nonna grida, anche la mamma grida.

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La mamma è incinta. Il papà è agitato, le dice di non guarda-re. Io probabilmente svengo. Mi ritrovo con la mano destra tutta fasciata che mi brucia moltissimo. Mi portano in ospedale. Anche mia mamma finisce in ospedale, in un altro reparto.

Dopo qualche giorno riprendo a disegnare in maniera febbrile con l’altra mano, cammelli, palme, oasi, quello che avevo impara-to dal nonno quando mi dedicava un po’ del suo tempo. Da allora sono rimasto mancino.

Sono alcuni giorni che la mamma è in ospedale, non capi-sco bene perché. So che è incinta di mia sorella che sto tanto aspettando. Nel pomeriggio vado dalla nonna che prima cerca di distrarmi e dopo un po’ mi dice che la mia sorellina è tra gli angeli.

Mia mamma, dallo spavento, aveva abortito. Quel fiore che portava in grembo non è mai nato.

Ho spesso pensato a come sarebbe stata la sua vita e la mia, con lei. Mi piace immaginarla con grandi occhi scuri e un po’ tristi e piccole lentiggini. Avrebbe cantato la ninnananna alle stelle… Brunella. Questo era il nome che mamma aveva scelto per lei.

Pulsa nel cielo quasi scuro l’insegna “Churrasco.” Mi risve-glia di soprassalto il cigolio dei cancelli sui cardini arrugginiti. Le tombe sembrano un presepio, i cipressi fremono alla brezza della sera. Anch’io rabbrividisco. Devo essermi assopito sulla panchina del cimitero, forse ho sognato. È l’ora della chiusura. I custodi si avvicinano, fanno cenno che devo uscire. Ho la testa pesante, intorpidita. Mi guardo il palmo della mano, stringo un rametto di rosmarino sopra la cicatrice.

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Le mie mani. Sui palmi un segno rosso e uno giallo, i miei pastelli. Ocra, cinabro e lapislazzuli nel giardino del mio cuore. Terre che bagnano la mia cicatrice, un ponte di salvezza tra due eternità. Dipingo, come sempre, per interi pomeriggi, nel mio studio zeppo di tele; vortico in danze che emanano universi iride-scenti, regalano la voce a segni che parlano d’amore.

Semi sepolti nel cuore e mai dimenticati per far germinare i fiori colorati delle mie nuove vite.

Gemme

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lo zio e lo yeti

lo ziodi Valeria Cavasin

La lista degli invitati era appesa al frigo con un magnete ton-do e rosso. Nomi d’inchiostro nero su un foglio bianco stropicciato perché preso in mano troppe volte, righe di penna e annotazioni, ripensamenti, aggiunte.

Inizio maggio, un sole caldo che spirava dalla finestra inso-litamente spalancata. A Bernarda piaceva la privacy, apriva di rado i balconi.

“Quanti sono?” chiese la bambina.Lo zio guardò la lista con ribrezzo. Le sopracciglia scure si

abbassarono millimetricamente rimpicciolendo gli occhi, indice di acuta e taciuta disapprovazione.

“Duecentotrentasei dalla mia parte. Mancano quelli di Guer-rino” rispose Bernarda, la fidanzata.

“Io sarò la damigella, vero?” domanda retorica della bambina.Speranza vivida, sogno di tutta un’infanzia: fare la damigella.

Al matrimonio di chi, se non a quello dello zio? Sarebbe convolato a nozze a breve, già si pensava al colore dei vestiti.

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Ovvio che sarebbe stata lei la damigella! Lei e sua cugina. La prima immaginava già il sangallo color pesca, la seconda in-sisteva per il tulle lilla. Una avrebbe accompagnato Bernarda tenendo il velo tra le manine, l’altra avrebbe portato il cuscino di velluto con gli anelli d’oro.

“Sì, certo” disse Bernarda. Lo zio era asserragliato in un si-lenzio che poco si addiceva al suo carattere garrulo.

La bambina voleva conferme: essere assolutamente certa che avrebbe attraversato la navata principale della chiesa al ritmo nuziale, il tu-tu-tu-tum dell’organo. Avrebbe indossato scarpine eleganti e acconciato i capelli con orchidee bianche, guardando tutto dal basso all’alto col cuore che batteva forte in un altro tu-tu-tu-tum. Impaziente per un sì.

Lo zio sarebbe stato ambasciatore della migliore promessa di tutti i tempi: Amore Eterno.

Guerrino indossò l’abito da cerimonia e si guardò nello spec-chio a muro alto e stretto, appena fuori dal bagno. Sembrava un perfetto cameriere. Così andrà benissimo, pensò. I pantaloni gli stringevano un poco ma la pancetta veniva provvidenzialmente nascosta dalla giacca. Forse era lo specchio a deformarlo, si dis-se. No, eh? Peccato... Che fosse allora la dieta macrobiotica di Bernarda a non funzionare come avrebbe dovuto?

O forse – più probabilmente – la pancetta era il risultato delle due brioche che si concedeva ogni mattina prima di entrare in ufficio. Gustava la marmellata con piacere, appiccicosa trasgres-sione e colpa zuccherina. Forse però due brioche non giustifica-vano, da sole, la pancetta.... forse c’era di mezzo quel tramezzi-no super imbottito a tre strati che ingurgitava di nascosto nella pausa pranzo, prima di tornare a casa. Indubbiamente anche quello contribuiva al fallimento degli intenti dietetici della sua Bernardina.

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No, non bisognava parlarne. Troppo tardi per confessare.Chiuse forte gli occhi per scacciare il desiderio di maionese e

uova sode.Gli sembrò di sentire le sue due nipotine che lo prendevano in

giro cantando in coro: “... e Guerrino rotola, rotola, ROTOLA!!!”Esagerate! Erano solo un paio di chili.

Mancava poco al matrimonio. Da qualche giorno Guerrino aveva uno strano prurito nel corpo, non sapeva spiegarsi perché. Alla nuca, sotto la zazzera di capelli, sui lombi, dietro ad un gi-nocchio.

Bernarda sosteneva che si trattava di una reazione fisica al disagio emotivo del matrimonio. Cioè: non all’evento di per se stesso ma a tutto il discorso intorno al loro matrimonio, le cose da organizzare, i parenti impiccioni, gli amici, un prete ossessivo.

Secondo lui era solo allergia al polline. L’aveva detto che i pioppi vicino alla siepe andavano tagliati!

Il medico di base riscontrò varicella.E varicella fu.Gli amici lo presero in giro: un segno! Non ti devi sposare, de-

stino. Sfiga, amico, solo sfiga. Lascia perdere, dai retta a me...

Passò settimane a grattarsi furiosamente, con Bernarda che lo sorvegliava a distanza ravvicinata. Temeva gli restassero le cicatrici. Lui non si fece vedere per un mese, in quarantena come gli appestati di ritorno dalle Indie, tagliò le comunicazioni con il mondo. Aveva la scusa della malattia, era facile così. Più sempli-ce non dire niente, che dire la verità.

Dovette rinviare le nozze, ovviamente. Agli altri disse di aver-le annullate. Al resto avrebbero pensato più avanti.

Il tutto venne procrastinato all’inverno. La prospettiva di spo-

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sarsi al freddo non lo entusiasmava, ma voleva chiudere quella storia. Bernarda sembrava felice, inverno o non inverno; l’impor-tante per lui era questo. La data, nonché il fatto stesso, restarono un segreto tra loro due.

Le nipotine intanto non si rassegnavano. Insistevano a chie-dere quando sarebbe stato il matrimonio. Le domande si faceva-no sempre più frequenti e incalzanti con il passare del tempo: quando avrebbero cominciato a fare le prove di camminata in chiesa? Oh, non era necessario, non le avrebbero fatte, si tratta-va solo di camminare, una cosa facile, non servivano prove. Il co-lore dei vestiti? Come lo preferite voi, bambine. Li volete i petali di fiori per terra? No, che spreco. I confetti bianchi con dentro le mandorle non le nocciole, vero? Può darsi...

La bambina si era appena accoccolata sotto al piumone d’oca, abbracciando il peluche di sempre. Era tardi, le undici o forse mezzanotte. Lo sapeva perché la lavapiatti in cucina aveva finito il ciclo e la pala di plastica non sbatteva più contro ai bicchieri, i suoi genitori avevano spento la tv e probabilmente erano in ba-gno a lavarsi i denti.

La porta era aperta, in modo che la luce delle scale entrasse in camera sua. Se alzava la testa dal cuscino poteva vedere le lenzuola di flanella stese ad asciugare sulla ringhiera della scala. Nel silenzio suonò il telefono. Anomalo per quell’ora, quasi allar-mante. Rispose suo padre, ma lei stava già scivolando nel sonno e non ascoltò.

Poi sua madre la chiamò. Una, due volte.“Scendi!”La bambina sbatté le palpebre, col sonno intrappolato tra le

ciglia. Ah, sì: la telefonata notturna. La voce di suo padre al tele-fono era festosa, sua madre le ripeté allegra di alzarsi e andare

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da basso. Zompettò giù per le scale. Il legno era freddo sotto i piedi scalzi.

“Cosa c’è?”“Lo zio si è sposato.”La bambina non comprese subito a pieno la portata di

quest’affermazione. In un primo momento fu felice. Ma nel giro di pochi istanti il suo sorriso si tramutò in qualcosa d’altro. Non poteva essersi sposato. E poi come, dove, quando? No, non poteva essersi sposato.

“Guerrino si è sposato!” esultò suo padre dopo aver riaggan-ciato.

Sua madre sorrise, ma lei restò in silenzio. In fondo non c’era stata nessuna domanda.

Altre telefonate – i nonni e gli altri zii – a dire che Guerrino e Bernarda si erano sposati a sorpresa, di nascosto, a tradimento. Qualcuno che voleva parlare con lei: sua cugina.

“Non faremo le damigelle” le disse piena di risentimento.Fu quello il momento in cui capì a pieno cos’era successo. Si

morse il labbro e cominciò a piangere in silenzio. Lo zio si era sposato senza di lei, che non aveva fatto la damigella. Cosa stava facendo lei, mentre loro si sposavano? Mangiava gli spaghetti al ragù, o forse al momento del tanto atteso Sì, lo voglio lei si stava mettendo il pigiama disegnato con gli orsetti. Altro che sangallo color pesca...

“Ce l’aveva promesso!” infierì la cugina. Le ripeteva che non avrebbero mai fatto le damigelle.

Mai.Aveva perso il suo momento, non ci sarebbero state altre oc-

casioni. Singhiozzò per la delusione.Le telefonate aumentarono, si fecero arrabbiate, faide a fili e

cornette tra chi era felice per Guerrino e Bernarda e chi invece si

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sentiva ingannato. Sua madre la riportò a letto senza consolarla. La bambina venne a sapere il giorno dopo che il matrimonio si era svolto a Parigi, il diciassette dicembre.

Diede la sua personale definizione della parola “vigliaccata” – due punti – mettere la gente di fronte ai fatti compiuti.

Diciassette dicembre.Parigi, due ore dopo il tramonto.Certo Guerrino non si sarebbe mai aspettato di sposarsi a Pa-

rigi, tanto meno al tramonto in una piccola chiesa grande come il bagno di sua madre, a casa della quale avrebbe continuato ad abitare con sua moglie.

Il prete era italiano e aveva sì e no trentacinque anni, solo un paio più di lui. Andò a cena con loro e con la perpetua, che aveva fatto da testimone di nozze. Guerrino le chiese a quante coppie avesse fatto da testimone. La signora si strinse nelle spalle ossu-te, non se lo ricordava. Ma come, non se le ricordava, le coppie? No, mica li conosceva!

Il ristorante era un posticino simpatico di ottima cucina bre-tone, con salse al burro e patè di gola d’oca. Avevano bevuto un vino rosso giovane e chiacchierato allegramente intorno al tavo-lino quadrato che si andava coprendo di briciole e pezzi di ba-guette.

In due parole il loro matrimonio era stato: privato e origi-nale. Privato perché ritenevano che la cerimonia fosse una cosa riservata esclusivamente a loro due, che non dovesse coinvolgere nessun altro.

Erano loro due a sposarsi, mica le famiglie o gli amici... Ori-ginale perché avrebbe stupito tutti e se ne sarebbe parlato a lun-go.

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Guerrino e Bernarda, per la bambina, non si erano sposati. Se non le riuscì mai di chiamare Bernarda zia, fu perché non l’aveva vista sposarsi e quindi era come se non l’avesse fatto. Bernarda rimase Bernarda. Non ci furono bicchierate, nessuna bomboniera, non un solo confetto a placare gli animi.

La bambina si sedette sulla panca di legno della nonna, che adesso era di Guerrino e Bernarda. Le mancava, quella panca. Le mancava pure il lettone in cui ogni tanto dormiva con la non-na. Adesso anche quello era di Guerrino e Bernarda.

Il servizio di tazze in cui venne servito il tè bollente era il regalo di nozze fatto dai suoi. Erano indaco con fiori bianchi, una ceramica che non scottava le mani. E poi c’era la teiera. Vera passione di sua madre, le teiere. Quella era panciuta, con un beccuccio aggraziato. Gli altri zii non avevano fatto regali, offesi dall’accaduto. Avevano mandato un bigliettino di congratulazio-ni...

Sul tavolo c’era un grosso album color meringa. La bambina lo aprì. Le foto del matrimonio, incollate sulla carta ruvida, erano incorniciate una per una da rifiniture a penna dorata. Gli scatti ritraevano i due incriminati nella neve dicembrina della capitale francese. Erano color seppia, le foto, con dettagli pastello – rosa, turchese e albicocca – aggiunti al computer dal fotografo. Erano gli stessi che lei aveva scelto per il suo vestito da damigella ma alle fotografie conferivano un alone posticcio e irreale. Guerrino sorrideva in copertina, accanto a lui una bianca pelliccia informe da cui spuntava una piccola testolina giuliva, sormontata da un colbacco.

Un c-o-l-b-a-c-c-o! La bambina non ne aveva mai visti prima, di colbacchi. Era al contempo stupita da quell’esotico affare di

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pelo, scettica per la forma a nido di piccione e per la dimensione sproporzionata: Bernarda pareva un bianco Yeti sceso dall’alto-piano del Pamir.

E lei avrebbe dovuto fare da damigella per una tipa così?La bambina chiuse l’album, e non lo riaprì mai più.

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andrea e le avventure

fantastiche

il fratellodi Monica Spigariol

Ecco mio fratello quando mio fratello non lo conoscevo.Potrei descriverlo com’è ora: trentaquattrenne, stempiato,

con qualche capello bianco, ogni tanto arrabbiato col mondo. Voglio invece descrivere com’era quando non lo conoscevo –

ancora io non esistevo – partendo da ciò che ho scoperto attra-verso i racconti dei parenti, negli incontri in cui il passato ine-luttabile ritorna presente. Scopro allora un fratello spericolato, fuori dagli schemi, nel disincanto di un’età libera di fantasia e spensieratezza.

Mio fratello, di nome Andrea, era famoso per la sua indispo-sizione a posare il culo sopra ogni superficie, almeno da piccolo. Gambe a penzoloni, tenute in costante movimento, pronte per slanciarsi, pronte per saltare giù.

Nelle narrazioni epiche e retoriche degli amici di famiglia più affezionati o dei parenti, si ricorda di come nemmeno in biciclet-

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ta stesse mai sulla sella. Nei pomeriggi di primavera, quando il sole pizzica di tepore e l’aria racconta brandelli d’inverno, An-drea sapeva che avrebbe incontrato in strada amici e vicini di casa, impazienti sui catorci d’acciaio e alluminio, impazienti di allontanarsi dai salotti e riscoprire il mondo.

Arrivava al cancello non sentendo le continue raccomanda-zioni della mamma, nella testa solo il prossimo gioco di veloci-tà. Gran respiro, un’occhiata per scovare gli amici nei dintorni, bici in posizione e via, verso dove non si sa. Passava ed era un miscuglio di colori in movimento. Eccolo: concentrazione fissa sulla velocità, gambe tese per spingere i pedali, sedere in alto per raggiungere l’obiettivo. Se il sedere era alto sopra la sella, la testa era bassa sul manubrio. Se la concentrazione era fissa sulla velocità: la scelta della strada da percorrere, quella, di chi era competenza? Non si sa, non si è mai saputo. Di cadute ne ha fatte tante, di ruote ne ha intorte altrettante, ma il sedere rimaneva in su e la testa incolume. Si divertiva. Lui. Parenti e genitori un po’ meno, nell’ansia dell’attesa.

Nemmeno quando la bicicletta la pilotava qualcun altro si arrendeva alla finta comodità del porta pacchi. In piedi dritto sulla ruota posteriore, guardava oltre la testa, districandosi tra la selva di capelli cotonati castani o bianchi, della mamma o della nonna, a seconda della storia. Braccia occupate in articolate azio-ni, bocca socchiusa in disarticolate espressioni, gli occhi a fessura per intravedere meglio quel nemico immaginario con cui si stava battendo. Poteva scegliere come in un videogioco chi interpreta-re: Mazinga, Goldrake, Jig Robot o altri ancora, alla fine lo atten-deva solo la gloria. Non avevano effetto urla e sgridate da parte delle guidatrici adulte, nulla sentivano le orecchie di Andrea se non quei Boom, Sbang, Lame Spaziali e torcicollo rotante con i quali inveiva contro i cattivi di turno. Il mondo si trasformava in

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meraviglia, i colori si accendevano come nei cartoni animati. Un cespuglio incolto poteva diventare un alieno deforme che voleva conquistare il mondo. Oppure un barboncino dalla voce stridula era un marziano dai poteri speciali, che con quei suoni inumani sottometteva le menti delle persone di tutta la terra. Pronto An-drea interveniva contro quei terribili mostri, strenuamente met-teva in gioco la sua vita per difendere il pianeta. Sceglieva con cura le armi, inventava addirittura nuovi strumenti di salvezza e faticava per non essere sconfitto da quegli essere immondi. E ci riusciva sempre.

Scendeva dalla bici sfinito, ma sano e salvo. Sudato, strema-to, quasi senza voce per i combattimenti. E la mamma, o la non-na, a seconda della storia, se ne stava lì a sbraitar rimproveri e a recitar raccomandazioni. Ma non capiva lei, loro, che lui aveva appena salvato il mondo?

Dire grazie nemmeno a parlarne, eh? Ma in fondo dei grazie chi se ne importava? Un Kinder Sor-

presa bastava come compenso alla dura lotta. Cosa troverò oggi? Ah, un gioco da montare, via, via di là a

giocare. E la cioccolata? Della cioccolata non mi importa, non sarà mica quella a dar-

mi forza.

Quell’animale raro di mio fratello non amava particolarmen-te il cibo, ancor di meno la cucina dell’asilo. Odiava il minestrone, di cui tentava ripetutamente di sbarazzarsi. Il sapore amarotico di verdure indistinte gli provocava una contrazione involontaria del viso, una smorfia di disgusto. Lo stomaco chiudeva i battenti e un brivido di pericolo allertava i suoi sensi alla sola vista della brodaglia color marciume. Lì dentro c’erano verdure: soprattut-

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to, zucchine – oh, mio Dio – le vedeva, le riconosceva dai semini galleggianti sulla superficie oleosa.

Lo schifo aguzza l’ingegno. Il burlone un giorno fece un in-cantesimo e mise il piatto sotto il carrello della suora che senza accorgersene lo portò via. Zitto zitto, sorridente e suadente, come un angelo in pieno relax, o in pausa digestione, guardava le in-segnanti orgoglioso dell’operato. Senza rendersi conto del gioco e della beffa, la suora-maestra riempì così di lodi il nostro eroe:

“Hai mangiato il minestrone, ma che bravo oggi Andrea!”Nessun pasto avrebbe potuto saziarlo tanto quanto quella

furbata ben riuscita. Le suore, però, non sono torde, la prima volta subirono lo scacco, al secondo tentativo colsero l’inganno. Come punizione per l’imbroglio reiterato mio fratello dovette poi ingurgitare una doppia dose di minestrone. Resistette alla voglia di scappare alla vista della sbobba, sopportò quella sensazione vischiosa e grumosa sulla lingua, ingoiò l’amaro di sconfitta e verdure e con loro gli schifosi semini di zucchine che per tutto il giorno sentì galleggiare nello stomaco. Che disonore quel giorno! Ma ogni bravata s’ha da pagare.

Un giorno, Andrea – aveva la febbre alta – scomparve. La mamma, notoriamente pragmatica e non troppo ansiosa, perse dieci anni in un istante. Era quasi pronta a comporre il numero della polizia e a cercare segugi come rinforzi.

Cerca avanti, cerca indietro, fruga negli armadi, striscia sot-to il letto, setaccia in giardino. Niente fuori posto e niente figlio. Ma dov’era?

Andrea aveva caldo per la febbre. Le coperte, il lenzuolo, il pigiama, il cuscino, tutto era rovente, tutto soffocante. Cercava un luogo alternativo adatto alle sue necessità. Ma certo, il frigo-rifero!

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Mamma lo trovò lì dentro, mentre giocava con i suoi pupaz-zetti ai combattimenti. Tolti i cassetti porta verdure del vano inferiore, tolti i formaggi che rendevano pesante la permanenza, tolte bottiglie e contenitori che occupavano troppo spazio, così svuotato il frigo era diventato un luogo ospitale: comodo e fresco. Che quadretto: un bimbo pago nel refrigerio, intento a muovere un soldatino blu e un robot multicolore in mezzo a una montagna d’insalata, a un lago di budino, a strade di wurstel e carote e a condomini di yogurt.

“Ma… rispondere alla mamma che ti chiama?” “Non ho sentito, sono in piena battaglia!”Mia madre non sapeva se ridere o piangere. Andrea tornò a

letto e non tentò mai più quello stratagemma.

Questi sono solo alcuni episodi dell’infanzia del mio fratelli-no, figlio e nipote pazzerello, a seconda delle storie. Quando an-cora credeva ai sogni e viveva di fantasia.

Di quel piccoletto dai tanti, tanti capelli scuri e dai piedini che giocavano col vento è rimasto qualcosa, certo. Non tutto è an-dato perduto in quel tempo di cristallo, fragile e splendente, che la memoria ha conservato. Gli restano sempre fedeli l’impulsiva voglia di far di testa propria, il sorriso un po’ furbetto all’arrivo di un’idea folle, la passione per lo sport e per la bicicletta (ad alta velocità). La gioia di rivedere quei cartoni animati in compagnia. Quei film dagli effetti speciali, dai combattimenti senza pari. Di certo ha ancora l’odio irriducibile per il minestrone e per il cioc-colato (al latte).

Tanti anni hanno modellato il corpo del bambino in un corpo da adulto. Tanti anni e tante esperienze hanno modificato la sua spensieratezza in disincanto.

Da allora, forse, da quei giochi fatti lì, seduto su una fredda

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panchina, nell’attimo prima di scattare giù e riprendere a cor-rere, da quei giochi – lui contro il vento, piedi contro aria – gli è restata attaccata alle suole, alle scarpe, alle gambe e alla testa, la libertà come magnifica meta.

Tutti i cambiamenti non sono riusciti ad annullare quella magica polvere scintillante, il desiderio di volare alto. Di andare altrove, lontano. Se non fisicamente, almeno con la fantasia.

Una parte di bimbo, in un corpo di adulto. Come nelle miglio-ri storie.

Per fortuna!E un’altra cosa è rimasta inalterata, la dico infine, ed è tutta

per mia madre: seguire mio fratello dà ancora un gran daffare.

Polle

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danilo

il padredi Paolo Trippi

Danilo Trippi. Imprenditore, padre. Ma prima di tutto un uomo.

Potrei descriverlo in tanti modi, ma ci sono dei tratti che se-gnano precisi una vita vissuta per 80 anni.

È nato nel 1929 a Firenze. Lì negli anni quaranta ha trascor-so la sua giovinezza. Infanzia e gioventù sono state segnate dal fascismo e dalla guerra. È stato proprio il totalitarismo a inse-gnare, per contrasto, il valore della libertà.

E con la guerra arrivano gli Americani. Portano i loro stili di vita, affascinanti per alcuni aspetti. Danilo parla spesso delle feste danzanti dove lui suona il sax e stormi di giovani ballano. Sofferenza e allegria mischiate insieme; esperienze destinate a rimanere impresse per sempre nella memoria.

Danilo cresce a Firenze, città intrisa d’arte, fulcro del Rina-scimento. Se ne nutre, la fa propria, la ama con tutto se stesso.

Danilo è l’ultimo di cinque figli cresciuti da una madre vitale.

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La sua allegria è contagiosa e anche Danilo la possiede: la tra-smetterà alle persone che incontrerà nella sua vita.

A 14 anni perde una sorella; subito dopo il padre. I lutti lo mettono in condizioni difficili per un ragazzo della sua età: di-venta un lavoratore nonostante sia appena adolescente e questo gli fa acquistare carattere e determinazione. La solidarietà tra i fratelli non manca: sono tutti vicini l’uno all’altro nei momenti migliori ma anche – e soprattutto – in quelli più duri.

Una famiglia unita, che si vuole bene. Danilo diventa un padre speciale e lo dimostra nel corso della

sua vita. Lo è per i figli che nascono dal matrimonio con Romana, ma anche per i dipendenti dell’attività che lui stesso mette in piedi.

Romana, la bella ragazza di Settignano, paese elegante posto nelle colline adiacenti a Firenze, ha altre due sorelle. Ma è su di lei che Danilo punta gli occhi. Prima diventano amici. Poi si fidanzano e si sposano, grazie anche alla passione che li unisce: il ballo. Energia vitale, movimento: proprio il ballo, oltre al lavoro, contribuiva a far rinascere la città dopo la guerra e la terribile repressione fascista.

Con il matrimonio nascono Rossella e Roberto. Romana aiuta le sorelle nella loro sartoria. Danilo, invece, fin da ragazzo si ap-passiona all’arte della modelleria delle calzature. Si fa strada nel settore e si trasferisce a Cornuda, un paese dell’Italia settentrio-nale dove viene nominato direttore di un grande calzaturificio. Il passaggio è piuttosto traumatico: da una città d’arte, piena di verde e sole, Danilo si ritrova in un paese di campagna dove d’inverno la neve arriva a misurare mezzo metro.

Danilo e Romana, cittadini di Firenze, danno pure scandalo

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nella piccola comunità, che a quei tempi conta qualche migliaio di abitanti; la sposa giovane e bella porta ampie scollature e le sottane sono sempre troppo corte.

Danilo, dopo il duro lavoro della fabbrica, sta volentieri in compagnia dei dipendenti dell’azienda in cui è stato assunto. Oggi è normale, ma un tempo il direttore era il “Padrone” e i di-pendenti le “maestranze”: i direttori dovevano stare con i padroni e non si mescolavano ai semplici lavoratori.

Alle sette del mattino gli operai sono in fila, in piedi a testa china. Salutano i padroni che li passano in rassegna per con-trollare se tutto fila liscio. Quando il padrone chiama, qualcuno degli operai risponde: “Comandi!” come un soldato nell’esercito, usanza che in qualche posto perdura.

Danilo, che viene da una città ‘senza padroni’, trova tutto questo strano.

La situazione gli sta stretta. Perciò dopo qualche anno, con l’appoggio di altre persone di fiducia, mette in piedi la sua prima fabbrica di calzature. Sì, la prima di una lunga serie di calzaturi-fici ideati, costruiti, organizzati e gestiti da lui. In quegli anni non esistono capannoni né le aziende producono calzature in modo meccanizzato. Le sue sono le prime. Danilo è tra gli imprenditori che contribuiranno allo sviluppo e alla fama del “distretto calza-turiero di Montebelluna”, paese – anche questo – della provincia di Treviso.

E intanto, dopo due figli, è la volta del terzo: Paolo. Appena può Danilo torna con la famiglia nella sua adorata

Firenze e fa visita ai fratelli, ai parenti e alle persone care. Viag-gia con la Fiat Topolino Mille100 e ad attraversare Appennini e tragitti canonici, ancora senza le autostrade, ci mette la bellezza

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di dieci ore.Estate degli anni sessanta: la nuova Fiat 1.500 con il porta-

bagagli sopra il tetto della macchina, carica fin dove si poteva. Danilo alla guida, moglie a fianco e i tre figli dietro. Certo alla famiglia Trippi piaceva girare e tantissimi furono i viaggi nel sud d’Italia: dal Gargano, alla costa Amalfitana, alle tante città d’arte e città romane come Pompei e Paestum. E poi i mari, quelli del sud – così diversi dall’Adriatico! – dove l’acqua era azzurra e il cielo limpido, facevano da contorno ai quei venti giorni di vacanza trascorsi in famiglia. Spesso in campeggio, nei periodi di ristrettezze; altre volte in lussuosi alberghi, quando il lavoro andava bene, ma sempre conditi da quel contagioso entusiasmo per la vita: allegria, bagni nell’acqua del mare e sole, tanto sole. In quegli anni Celentano cantava “Azzurro” e la spensieratezza era nei cuori della famiglia Trippi e di tutti gli Italiani.

Danilo, mio padre.Una figura prorompente, piena di forza. Emanava, oltre che

dalla statura – attorno al metro e ottanta – anche dal carattere. Bastava uno sguardo a far tremare noi bambini, temevamo lo schiaffo impresso da quelle mani grandi e potenti!

Intransigente, deciso. Eppure, ugualmente premuroso e attento all’educazione dei

figli, alla loro crescita.Infatti li fa entrare appena possibile nell’attività ammini-

strativa e produttiva dell’azienda. Ma fa anche un’altra cosa speciale per loro: li aiuta e li inco-

raggia a formare un complesso musicale a cui si appassiona lui stesso, insieme agli altri genitori dei componenti del gruppo.

Paolo e Roberto, i musicisti in erba, hanno 10 e 13 anni, non possono di certo andare in giro da soli per il mondo! Danilo è

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presente, li accompagna, non solo vicino ma anche oltre i confini del Veneto.

Un uomo tenace, preciso, determinato ed allo stesso tempo curioso, intuitivo, creativo.

Ma soprattutto, appassionato alla sua famiglia, ai suoi affet-ti, che cura e mantiene con la stessa forza e intensità che mette in tutto ciò che fa.

Quando perse sua madre fu come se gli avessero strappato la pelle.

Negli ultimi anni, vide sua moglie soffrire di una malattia inguaribile che le portava infermità fisica, la vide cadere a peso morto sul pavimento perdendo poi la conoscenza.

Quasi non ci vedeva più dalla disperazione.

Io, suo figlio.Sono al suo funerale, un caldo pomeriggio d’estate, è il 22

luglio 2008.Sono qui a raccontare questa storia, vissuta vicino e lontano

da lui, e mi rendo conto di come abbia influenzato la mia vita.Come avrei potuto fare delle scelte banali? La forza della li-

nea tracciata da lui, dalla sua esistenza, dalle sue imprese, ha segnato la mia giovinezza, mi ha scritto dentro la direzione e il verso, si è fatta strada e senso, riferimento e Parola.

Le sue gioie, le mie; i suoi dolori, i miei: difficile, faticosa la ricerca di una strada anche diversa, alternativa, davvero mia. Come portare il peso della sua sofferenza nel vedermi allonta-nare? Così tornavo, sempre, e ritrovavo il rifugio: lui era lì, mi aspettava, mi perdonava.

Questa mattina ti guardo per l’ultima volta, prima che chiu-

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dano la cassa.Sei elegante, babbo, e hai una bella espressione, sembra che

tu sorrida. Ti accarezzo le mani, queste grandi mani che tanto hanno

lavorato. In qualche parte di me realizzo che non ci sei più, che mi hai

lasciato.In un altro luogo – più profondo, prezioso – sento invece che

nulla è cambiato, che sei ancora con me.E che ci sarai sempre.Per sempre.

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batte il cuore

la zia di Giorgio Ceoldo

Donna mamma, donna chioccia, donna umiliata, donna che ama, che ha amato.

Quella donna ha gli occhi profondi e il viso tondo segnato dal-le rughe. Ha un cuore grande, spazioso, contiene la vita, i suoi dolori, le sue fiabe. Si chiama Olga.

“Il pane ha tante croste, ricordati Giorgio”, mi diceva Olga. Si asciuga la fronte con un lembo del grembiule nero. “Si sta bene qui” dice, e guarda il cielo. “Il mio orto è una culla calda.”

Il roseto di Olga – mamma Olga, zia Olga – è un tribolo di boccioli. Profumano e respirano sul fazzoletto di terra dietro la casa del nonno.

Ho bisogno di guardarla. Mi basta qualche minuto appena: sparge a bracciate il grano per le galline, raccoglie le melanzane tonde e viola, i pomodori rossi in agosto, l’insalatina verde sotto Pasqua. Ai quei gesti, fermi, rigorosi, si deve la pienezza della

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pianta più grande: il senso della mia vita. È a quella pianta che Olga ha dedicato più cura: l’ha seminata e protetta.

Zia Olga, mamma Olga. È lei che mi ha accolto, allevato, amato.

Fin da quei terribili momenti.

Ricordo come ora. Avevo due anni, mi sono ritrovato davanti ad un cancello. Era stato il fratello di mia madre a lasciarmi lì, davanti alla casa di mio padre che non avevo mai visto (i miei si erano separati subito) ma che da quel momento in poi si occuperà amorevolmente di me. Con mio padre abitavano anche il nonno, zio Marcello, zia Olga, la mia salvatrice.

Quando Olga mi prende in braccio, dietro il cancello, il buio incombe sul giorno e dentro di me, mi aggrappo a lei, piango, mi manca il respiro, la gola si chiude assieme al cuore.

Zia Olga mi tiene sul suo grembo, mi accarezza. Piano piano riprendo a respirare tra i convulsi, ma voglio scappare, andare via, indico il granaio della casa, il posto più alto possibile, forse per sfuggire a quella realtà.

Zia Olga mi porta in casa, vicino al camino c’è una gatta. La zia continua a coccolarmi, ma io sono inconsolabile. Mi prende in braccio, mi nasconde dentro il grembiule nero, piangiamo insie-me. Ancora mi divincolo. Poi vedo uno specchio. E sulla superficie un esserino disperato, come può esserlo un bambino che è stato abbandonato dalla mamma all’improvviso senza capire perché.

Da quel momento in poi, la vita sarà piena di perché che han-no trovato solo alcune risposte, hanno causato vuoti anche se poi ho avuto molti affetti sinceri, come quello dei miei familiari, di tanti amici e di Giuliana, la mia compagna. È stato un grave ab-bandono, quello che ha reso continua la ricerca di parole e la sete

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di tenerezza di Olga.Come posso non essere riconoscente ad una donna così?Quando ero in difficoltà, mi bastava andare a trovarla, osser-

varla qualche istante, seduto sul ceppo di pino, vicino al cancello di rete dell’orto. In testa ho le sue dottrine che mi accompagnano nel disordine delle altre parole, una lanterna nel buio.

“La vita è un seme ed ogni seme è una speranza. Fallo cresce-re meglio che puoi. Hai le mie radici. L’anima metticela tu.”

Ogni volta è un’alba nuova, baciando le mani di zia Olga, mamma Olga, nel cortile della vecchia casa, sotto l’orologio fermo che segna sempre la stessa ora.

Cara Olga,oggi è Santa Lucia che la tradizione indica come il giorno

più lungo dell’anno. Mi alzo presto il mattino, gli uccellini mi aspettano sul davanzale per la dose quotidiana di briciole. Il cielo è bianco, fa freddo, credo che prima di questa notte nevichi. Mi piace uscire a passeggiare sulla neve il mattino presto, il bianco e il silenzio sono totali, il freddo attraversa i vestiti, punge la pelle, frizza sul viso, scrolla di dosso gli ultimi bruscoli di torpore e di pigrizia. Io non sono pigro. Scio, insegno a sciare.

L’appuntamento è fisso, irrinunciabile. In montagna ci sono il Civetta e il Pelmo che mi aspettano. Si innalzano come giganti facendosi ombra l’uno con l’altro. Due panettoni di roccia, con la glassa sul cocuzzolo. Sempre, quando li vedo, ricordo le parole del nonno che mi raccontava dei monti, della natura, della neve. Passeggio dentro i boschi fitti, sul manto bianco e immacolato che scricchiola sotto gli scarponi. Il gelo fa merletti sugli aghi dei pini e gli uccelli ticchettano sui rami per trovare cibo.

Quando vivo tutto questo, ricordo le parole del nonno. E gli

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sci, i primi che ho avuto, li ha fatti il nonno con legno di ciliegio. Era il mio destino allora diventare maestro di sci? Ma cos’è il destino?

In definitiva sono sempre le parole che cerco, e soprattutto quelle della mia infanzia. Le tue in particolar modo. Ma le tue le ho, sono le radici di una pianta rigogliosa che nutre tutto di me. E che mi ha insegnato a parlare con la natura, il sole, la terra, quella del tuo giardino bagnato dall’acqua verde del fosso e dove cresceva il radicchio più buono del mondo. “Chi tocca il mio orto tocca il mio sangue”, dicevi.

Inizia a nevicare! Fiocca lenta, si appoggia morbida sul ter-reno, il cane è sbigottito, è un cucciolo ed è la prima volta che la vede. A me mette una grande gioia.

Ma anche la primavera ci cresceva attorno e perfino… in ma-gazzino. Ricordi?

L’economia domestica era il tuo forte. Imparare a governare una casa è una pratica utile in molte cose della vita. “Mettere in ordine, fa risparmiare tempo e denaro” erano le tue parole. E poi un giorno Ausilia ti propone un affare: comperare delle patate ad un prezzo eccezionale. Tu sei entusiasta, e sistemi il capitale in magazzino, al buio, con i vasi di marmellate di more e le altre conserve.

“Hai seminato in magazzino?” ti chiedo un bel giorno dopo avere visto una certa cosa. Le patate dimenticate erano piene di gemme ed erano alte più di trenta centimetri!

“Ma guarda un po’” ho detto io, “anche dentro questa cantina buia e fredda riesci a fare entrare la primavera!”

Con la neve ritorna puntuale l’attesa carica di entusiasmo di un bambino. Quello che con le ‘sgalmare’ ai piedi, accompagnato

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dalla zia, si sveglia il mattino presto, sotto Natale per andare a ritirare il pacco della Befana nell’atrio delle scuole elementari.

Passeggiavamo contenti e tu mi facevi notare i tetti delle case, forse un incitamento a volare alto, ad avere coraggio, ad affrontare con dignità tutti i dolori, a vivere pienamente le gioie della vita, ad accettare di venirne temprato come un dono di chi mi vuole più forte e mi aggiudica doti speciali.

Non so se adesso sono più forte. Non c’è un apparecchio che misura la capacità di adattamento alla vita e anche se ci fosse non credo che sarebbe poi così utile. C’è però un apparecchio che hai forgiato tu. Ne hai fatto un piccolo gioiellino di altissima in-gegneria che in certi frangenti funziona alacremente, come un soldato in marcia.

Succede spesso: ogni volta che ti pensa e tutto si illumina. Batte forte dentro il mio petto.

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pino corre

ex–maritodi Andrea Dalla Longa

Così è Pinoun corpo che corre.Corre sulla terra battuta, sul selciato, sull’asfalto, sui sassi,

sull’erba.Corre sulle acque come un Cristo con San Pietro.Tra le gocce di pioggia, in mezzo alle zanzare.Corre lungo la sua vita.Corre e scappa dalla morte.Corre senza fermarsi e vola sulle ipocrisie, sulle accuse, sui

peccati, sull’odio e sull’invidia della gente.

Respira Pino, rallenta, prendi fiato, rallenta. Rallenta solo un poco ma non fermarti.Continua così Pino senza dargliela vinta, continua così e non

mollare.Guardati intorno e osserva il vento, accarezza il grano che

cresce, le sue onde sui campi

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gli alberi in lontananza che piegano i rami senza spezzarsi, il sentiero di campagna che si perde nel bosco.

Corri e respira, corri e respira ancora un po’. Ogni muscolo ti serve per arrivare alla meta. Sette chilometri. Ce la farai. Ignora il crampo al polpaccio che

ti morsica la gamba.Corri, rallenta, ma arriva alla fine.I tuoi muscoli ti portano avanti, passo dopo passo. E intanto pensa che ti son serviti per separarti da una donna, per sostenere il peso del ricatto.Muscoli per affrontare il tribunale,scendere mille volte le scale di un’estranea a cui chiedi il

permesso di vedere le tue figlie.Condividevi ogni momento della tua giornata con loro. Ora le

vedi una manciata di ore alla settimana.

Muscoli. Per girare e chiedere una casa in affitto a ferrago-sto.

Muscoli. Per il trasloco, per sfidare il peso della solitudine, per non voltarsi indietro.

Muscoli. Per rompere tutto in un gesto d’ira, rabbia che esplo-de per aver mandato giù anni di bocconi amari.

Muscoli per riposareper fare l’amore con una donna diversa che ti ha strappato

via un altro pezzo di cuoreper abbattere gli ostacoli che hai avuto in testa fino a ieri. Oggi si corre Pino, non pensare.

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Sei sul sentiero dei vincitori, sei quasi arrivato, vai. Riposerai, dopo. Il crampo passerà e la tua gamba sarà più forte. Resisti. Butta il peso accumulato mangiando a più non posso,

bevendo spritz in lunghi happy hour per dimenticare. Da dimen-ticare.

Hai muscoli per non dormire.Per rimanere sveglio a pensare, mentre senti il mondo che ti

rovina addosso.Pino pensa: Vado dritto alla meta, non mi fermo, non mi ar-

rendo. Lotto coi miei muscoli, la mia carne, il mio sangue, la mia voce.

Corro. Occhi indifferenti – increduli stupiti assonnati – mi sfilano davanti.

Ho muscoli per lottare, per essere impassibile davanti al do-lore.

Se il dolore ha un senso, sono i muscoli del mio maledetto be-nedetto corpo a sentirlo e a rallentare il passo.

Non fermarti Pino, ti prego, fino a domani.Non fermarti.Ti serve per non impazzire.

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la prima stella

la nonnadi Wilma Baro

Assunta, nata il 21 novembre 1902, faceva parte di una gran-de famiglia.

Nella casa colonica di Visnà, paesino della sinistra Piave in provincia di Treviso, vivevano centocinquanta persone di sei dif-ferenti nuclei familiari.

Erano guidati da un capo, che aiutato da un consiglio forma-to dai capifamiglia, guidava tutte le attività, incentrate natural-mente sull’agricoltura. Avevano trecento campi, parte di proprie-tà, altri in affitto dalla contessa Corner di Venezia. Ad ognuno era assegnato un compito preciso che doveva essere rispettato.

Assunta viveva dentro questa organizzazione. Finché era bambina tutto andava bene. Col passare del tempo, però, arrivò la giovinezza. Assunta sognava una vita diversa rispetto a quel-la che le era stata assegnata. Odiava mungere e soprattutto to-gliere il letame dalla stalla. Cercava di vestirsi sempre bene per

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evitare di venire mandata nei campi nel caso ci fosse un malato da sostituire.

All’esterno della casa, in un angolo del grande cortile, vi era un piccolo capitello dedicato alla Madonna, dove la gente del pa-ese si ritrovava spesso a recitare il rosario. Lei curava molto quel piccolo luogo, si preoccupava sempre che ci fossero fiori freschi. A primavera puliva la pietra che conteneva l’immagine, icona e simbolo della religiosità familiare.

Le sere d’estate, Assunta aspettava che tutti si ritirassero per uscire. Vicino agli orti c’era la fontana. Era circolare, di pie-tra rossiccia, col bordo piatto. Vi si innalzava una pompa in ferro che pescava l’acqua da sotto terra. Nella vasca c’era un buco che lasciava defluire l’acqua giù per un canaletto. Lì veniva fatto an-che il bucato della famiglia.

La fontana era sua. Nessuno doveva rubarle quel posto. As-sunta si sedeva sempre lì, a sognare, tra il brillio delle luccio-le d’estate. L’acqua scorreva dolcemente e lei guardava il cielo luminoso. Le pareva che le stelle facessero scintillare la terra. Il rumore dei grilli copriva un poco il fastidioso muggito delle mucche.

Purtroppo l’estate durava quel che durava, al contrario dell’inverno che pareva non finisse mai. Nei mesi freddi tutte le famiglie si riunivano e passavano le serate in una delle stalle. Il capo recitava il rosario, venivano raccontate vicende, filastroc-che, si intonavano canzoni e si improvvisavano stornelli. Assun-ta ascoltava le storie e i pettegolezzi dei filò e ne faceva tesoro.

Gli studi di Assunta erano arrivati alla terza elementare, sa-peva perciò leggere e scrivere. Ogni sera, prendeva il quaderno che teneva nascosto sotto il materasso fatto di paglia secca e an-

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notava i suoi pensieri. Ecco che i fogli si riempivano di parole mai pronunciate, di frasi solo immaginate e sognate, del deside-rio forte di una ragazza che attende il primo bacio per assaporare la dolcezza di un gesto intimo e profondo, un’importante parten-za verso una meta: il matrimonio. Si perdeva poi nei dettagli, il vestito bianco che le avrebbe confezionato sua madre, i fiori che avrebbe raccolto lei stessa, la chiesa addobbata con i girasoli, gli invitati, ma prima di tutto, l’uomo che l’avrebbe resa felice, lo sguardo del primo incontro.

Un giorno avrebbe letto quelle pagine ai figli. Sarebbero ri-maste nella storia della sua famiglia a testimoniare anni di emo-zioni e aspettative destinate altrimenti a venire dimenticate.

Nella grande famiglia di Assunta, i maschi “da sposare” dor-mivano in un’unica stanza e così anche le ragazze, ma in posti di-versi e lontani. Nel buio e nel silenzio della notte Assunta sentiva il respiro del sonno profondo, qualche colpo di tosse. Lo zio Gio-vanni, poi, parlava nel sonno. Assunta allora provava una forte nostalgia per la fontana, il suo luogo appartato. Nei lunghi mesi invernali guardava spesso il cortile e la scorgeva in lontananza. Era paralizzata dalla morsa del gelo. Sembrava aspettare il ri-sveglio e soprattutto lei.

Nell’oscurità delle lampade ad olio, sera dopo sera, Assunta compilava i suoi resoconti:

Martedì 5 gennaio 1914. Oggi sono proprio triste, zio Giovan-ni e il cugino Mario erano nei campi, io stavo pulendo il pavimen-to e loro senza nessun rispetto sono entrati in casa con gli zoccoli sporchi da terra, non mi hanno chiesto neanche scusa, solo se era pronto il pranzo, che loro avevano fame.

Loro, e tutti gli altri uomini, seduti sul grande tavolo della cu-

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cina, serviti e riveriti, e noi dobbiamo mangiare gli ultimi bocconi freddi, nel cucinino o sugli scalini. La zia Maria, oggi, mi ha dato del grasso da spalmarmi sulle mani, ha una puzza incredibile, ma almeno mi evita i tagli, con il gelo di questi giorni ho sempre le mani nell’acqua fredda, perché c’è sempre tanta biancheria da lavare.

Ma io sopporto e aspetto, lo so che tutto questo un giorno fini-rà.

Assunta era in età da marito. Era snella, aveva i capelli ca-stani e gli occhi chiari.

Qualche ragazzo l’aveva già notata. Lorenzo, il figlio del bar-biere, e si era pure dichiarato. Lei però non sentiva ancora bat-terle il cuore in quel modo che le avrebbe fatto capire che final-mente era arrivato anche per lei l’amore.

Molta gente del paese e dei paesi vicini frequentava la sua casa. Era l’usuale pratica della solidarietà e dell’ospitalità. In cucina, ogni giorno, assieme agli uomini, venivano sfamati dai dieci ai trenta “forestieri.” Venivano ospitati e rifocillati gratui-tamente.

Venerdì 25 ottobre 1914. Oggi mi fanno tanto male le braccia, non ne posso più di mangiar polenta cinque volte al giorno, me-scolare quella benedetta caljera e se non bastasse sentir cigolare argani e carrucole per tirarla su e versarla nel tagliere. Preferisco i fagioli, tanto la fame non passa lo stesso, e chi deve fare questo lavoro? Sempre noi donne.

Qualche forestiero si fermava a dormire anche di notte, nel pagliaio o nelle stalle. Assunta aveva fatto propria l’ospitalità.

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Non vedeva l’ora di ascoltare, giovani e vecchi. Di sera, la sua grafia ampia e rotonda, trasformava tutto in racconti.

Aveva conosciuto così tanta gente che avrebbe potuto scrivere un libro. Questa sarebbe stata per lei la miglior ricompensa alla sua accoglienza.

Arrivò la guerra e con lei povertà e fame. Nella grande casa però la miseria sembrava più desolante che altrove. La famiglia che aveva dato ospitalità a tutti, ora non aveva neanche da man-giare per sé.

Partiti gli uomini per il fronte, tutti i lavori, anche i più duri, venivano svolti dalle donne. Non fu necessario che si sobbarcas-sero anche le fatiche della stalla. Non era rimasto più nulla: i Te-deschi si erano portati via tutto, bestiame compreso. Per fortuna lo zio Giovanni aveva fatto in tempo a nascondere una mucca in cantina, così era stato garantito il latte per i più piccoli.

D’estate l’acqua della fontana continuava a scorrere. Così le giornate di Assunta erano interminabili. Bombardamenti, lutti e paure. Faticava nei campi o in casa con mille cose da lavare, l’acqua ghiacciata, preparare da mangiare per tutte quelle per-sone, lavare i panni nel fosso, estate o inverno che fosse, dar da mangiare alle bestie.

Lei però non perdeva mai la speranza. Era convinta che un giorno tutto sarebbe finito e le cose brutte sarebbero sopravissute solo dentro i suoi quaderni. Pensava sempre ad uscire dalla fami-glia per formarne una tutta sua.

Dopo la guerra, la grande casa si ricompose alla meno peggio. Il meccanismo però si era inceppato, qualcosa aveva smesso di funzionare. Le ristrettezze non garantivano più l’unione. Alcune famiglie, compresa la sua, decisero perciò di stabilirsi altrove.

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Il giorno della partenza, Assunta non portò niente con sé se non i pochi vestiti che aveva e i quaderni. Andò davanti al ca-pitello, pregò a modo suo, scrisse cinque righe in un foglio e lo depose con un fiore davanti all’immagine della Madonna. “Tu sai qual è la mia preghiera, la affido a Te e sia fatta la tua volontà.”

Per l’ultima volta si diresse verso la fontana. C’erano ancora uno straccio e un avanzo di sapone con cui il giorno prima aveva lavato la camicetta buona.

Staccò con le mani un pezzo di pietra della sua fontana, lo avvolse nello straccio assieme al sapone avanzato. Si sedette a guardare gli orti, il grande cortile e il capitello. Imbruniva, la luna buttava un chiarore pallido sull’acqua.

Quale sarebbe stato il suo destino, la sua nuova vita? La pen-sava bella, con un marito e magari dei figli da coccolare e a cui leggere tutto quello che in quegli anni aveva scritto. Una vita tranquilla.

Lo vorrei tanto… pensò, più di ogni cosa al mondo.Guardò in su.Apparve una scia sottile che sparì subito dietro il tetto. Durò

un attimo. Come una promessa, un filo di luce aveva solcato il suo pezzo di cielo.

Assunta sorrise. Se ne andò col cuore pieno di speranza.

Domenica 3 agosto 1920Stasera ho visto la prima stella cadente.

il portolano

Bruna Graziani: vive e lavora a Treviso. Farmacista di nasci-ta, abiura a intermittenza per dedicarsi alla sua vera ossessione: la parola. Ha collaborato e collabora con il professor Stefano Brugno-lo, docente di letterature comparate a Pisa ed autore del Ricettario di scrittura creativa edito da Zanichelli. Ha frequentato la libera università dell’autobiografia di Anghiari col professor Duccio De-metrio.

Ha collaborato come editor ad alcuni lavori di case editrici tre-vigiane, scritto storie di vita e curato autobiografie per privati ed artisti.

Ha ottenuto riconoscimenti in diversi concorsi letterari e pubbli-cato in riviste e libri; tra gli altri in: M’ama? Mamme, madri, ma-trigne oppure no edito da Il Poligrafo di Padova; in Non disturbare, scritture in corso con prefazione di Tiziano Scarpa edito da Offici-na Nuova Dimensione di Portogruaro; in Mondi Incantati edito da Nexus Editrice; in Storie Scellerate edito da Cabila edizioni Milano; nella rivista Pickwick e Inchiostro.

Da quest’anno è partita per la nuova avventura, l’officina di scrittura autobiografico-creativa, Il Portolano, con l’intento di por-tare alla luce le vite e le scritture sommerse, valorizzare le meravi-glie della parola e dell’individuo, far aprire lo scrigno dei tesori che – ne è fermamente convinta – ognuno ha. Quest’antologia è il primo frutto di una semina che spera si ripeterà in futuro, fertile e squisita come questa.

www.parlamidite.it

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autori

Wilma Baro: è nata a Treviso il 5 gennaio 1965. Dopo aver pubblicato liste della spesa, biglietti augurali di feste e comple-anni con frasi in rima, curriculum vitae, verbali di consegna la-vorativi, sms, e dopo aver frequentato un corso di scrittura auto-biografica nel maggio 2010, scoperto per caso sulla Pulce e gui-dato da Bruna Graziani, pubblica il suo primo pezzo insieme ad altri validi “scrittori,” tenendo ben presente la frase di Ripellino pronunciata durante la prima lezione: “Ogni pagina è sempre la piazza del mondo.”

Silvia Battistella: un venerdì d’agosto sugli Appennini bo-lognesi arsi dal sole, raccontando la sua vita ad una sconosciuta autostoppista, questa le fece notare la grande opportunità rac-chiusa nell’intraprendere un corso di studi così lontano dalle sue inclinazioni artistiche.

Da allora, senza più cercare di scegliere, naviga tra i molti mondi che le appartengono profondamente. Uno è la scrittura.

Cristina Cason: fulgido esempio di pluralità d’interessi, nel-la propria vita ha cambiato diversi mestieri, tutti più o meno in-soliti, all’apparenza superflui e contrattualmente cagionevoli. Da diciotto anni a questa parte fa la burattinaia contastorie, viven-do in una faticosa ma fertile precarietà. Dimostra una marcata

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propensione per le cause nobili e perse. Lo scrivere è il paese in cui vive meglio. È un’ottima cuoca ed ama avere gli amici a cena nella sua casa-porto di mare. Ci sono tre cose che non sopporta: gli opportunisti, i tombeurs de femmes e la trippa, sotto qualsiasi forma le si presentino.

Valeria Cavasin: giovane Anima Antica che cerca di godersi le cose migliori della vita: principalmente: la scrittura, la buona cucina mediterranea e non, il mese di maggio nell’emisfero nord, le risate tra amici, l’uomo che ama, il cielo estivo.

Carattere assolutamente tropicale e personalità irrimediabil-mente fantasiosa.

Alterna piacevoli dormite dal sapore di latte (intero) e miele (di acacia) a nottate di tango appassionato, un po’ orsacchiotto e un po’ leone, un po’ ying e un po’ yang, un po’ gonna a ruota e un po’ scarponcino da trekking grigio e blu.

Per ulteriori informazioni si consiglia di leggere con attenzio-ne il foglietto illustrativo e di non somministrare ai bugiardi del cuore.

Ha recentemente vinto il primo premio – sezione adulti – di Sospirolo Tra leggende e misteri, concorso letterario abbinato al Festival dei Misteri 2010.

Giorgio Ceoldo: improvvisatore per indole e necessità Gior-gio nasce già grande. Cresce ancora più in fretta facendo lo sla-lom tra gli ostacoli dell’esistenza, inventando modi sempre nuovi per vivere e sopravvivere.

Accanito sostenitore dell’autobiografia, ha scoperto il piacere della scrittura che ora somma a quello, ampiamente sperimenta-to, della scultura e dell’arte in generale: in particolare per quella che nasce dall’assemblaggio di oggetti che apparentemente non

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servono più. Insegna ai bambini che da tutti i materiali e soprat-tutto da quello riciclato, possono rinascere personaggi e oggetti sorprendenti che erano nascosti sotto le mentite spoglie di bullo-ni e pezzi di lamiera. Ama l’amicizia e le persone vere.

Luisa Contarato: Luisa Contarato è nata il 4 giugno del 1953, segno zodiacale gemelli, doppia personalità si dice; invece, nel suo caso, almeno tripla o quadrupla.

Ha iniziato a scribacchiare nell’adolescenza, lunghe lettere d’amore che sortivano l’effetto di mettere in fuga i fantomatici destinatari. Poi si è data alla poesia, sempre incerta se tenere o bruciare le sudate carte. Quando, dopo molti anni di rimescola-menti tra i vari cassetti, un giorno qualcuno le ha detto “suvvia, deciditi” nel senso di brucia pure, lei invece ha frainteso e pub-blicato due volumetti di poesie: Oltre il distacco del tempo edito da Ensemble ‘900 e Uomini diVersi pubblicato dall’Associazione culturale La Crosera. Tra i due, edito da Kellermann, il volume in prosa Piccolo delirio in sintesi. Sfortunata al gioco e anche in amore, ha finalmente trovato nel gruppo di scrittura creativa un bel gruppo di amici simpatici e dinamici.

Andrea Dalla Longa: medico anestesiologo e rianimatore. Da quando si è separato dalla moglie vive a Treviso. Di questa città apprezza giorno per giorno il fascino e la bellezza. Ha un lavoro importante che gli permette di avvicinarsi di più al pro-blema della sofferenza e del dolore della persona malata. Divide il tempo libero che gli rimane tra: i litigi con la sua ex moglie, la lettura di romanzi attualissimi (di Ammaniti, Carofiglio, De Sil-va) e di saggi di storia romana e medievale, le sue due splendide bimbe, la gatta Ketty e qualche fugace storiella amorosa.

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Alessandro De Bei: vive di arcobaleni di segni. Dipinge, porta le tracce dei suoi colori sui vestiti come l’arlecchino Ermes di Picasso. Ha esposto le sue incisioni agli Uffizi di Firenze. Gli strumenti a cui era abituato: bulino, raschietto e lastre di zinco su cui scavava l’intimo della memoria. Ora però fa esplodere su tele, tavole e carta, i suoi colori. Principalmente azzurro, il colore del cielo.

Si è avvicinato all’autobiografia come a un viaggio che ricom-pone la mappa dei ricordi, grazie a Bruna e al gruppo dei ‘por-tolani’. La notte dorme cullato da cuori magici e da un sorriso benedetto.

Roberta Reginato: fin da bambina catturata delle parole – lette, scritte, dette, pensate – si è dedicata con passione agli studi umanistici approfondendo letteratura, arte, teatro e peda-gogia. Da vent’anni è docente di Lettere, si occupa di formazione degli insegnanti e conduce laboratori creativi per studenti. Si è impegnata, come volontaria e presidente, nella costituzione di tre associazioni nell’ambito del teatro sperimentale, della ricerca pedagogico-didattica e del mutuo aiuto tra madri, diventando in-segnante di massaggio infantile. Nel settimo settennio della sua vita sta imparando ad assaporare le cose importanti dell’esisten-za, tra cui la scrittura.

Umberto Sartorello: è nato a Buenos Aires nel secolo scor-so. Vive a Treviso. Si è dedicato alla ricerca fotografica nella pri-ma parte della sua vita creativa. Ora scrive, cercando nell’imme-diatezza del racconto breve l’istantaneità prima cercata nell’im-magine fotografica.

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Monica Spigariol: nata nel 1984 e cresciuta a Paese (Tv), grazie anche al fratello, a cartoni, pane e manga. Ama le storie per formazione d’infanzia e di conseguenza adora tutto ciò che racconta fantasia e stupore. Gli studi l’hanno portata all’Univer-sità di lettere di Padova e il lavoro in una scuola dell’infanzia, in cui ogni tanto il suo lato bambino riesce a sfogarsi un po’.

Paolo Trippi: non è uno scrittore, non è un pittore, non è un cantante ma un amante delle storie di vita delle persone. La sua idea: “Ogni uomo o donna che abbia vissuto, lascia un segno. Ognuno di loro potrebbe essere stato un angelo che si è avvicina-to a noi ma forse non ce ne siamo accorti.”

Indice

Scrivere di se 7

Quarzi

la cavallina 17la mamma di Bruna Graziani

la zia 31la zia di Luisa Contarato

i figli degli altri 41la tata di Silvia Battistella

una breve primavera 51il nipote di Umberto Sartorello

la figlia 57di Roberta Reginato

argento 69il nonno di Cristina Cason

germinazioni 77la sorella di Alessandro De Bei

Gemme

lo zio e lo yeti 85lo zio di Valeria Cavasin

andrea e le avventure fantastiche 93il fratello di Monica Spigariol

Polle

danilo 101il padre di Paolo Trippi

batte il cuore 107la zia di Giorgio Ceoldo

pino corre 113ex–marito Andrea Dalla Longa

la prima stella 117la nonna di Wilma Baro

il portolano 125

autori 126

Un ringraziamento particolare all’effervescente Ingrid che ha seguito la realizzazione dell’antologia con cura e attenzione par-ticolari; alla generosità di Alessandro che, oltre al suo racconto, ci ha messo a disposizione il disegno della copertina; a Stefano Brugnolo che mi regalato, come sempre, i suoi preziosi consigli. E naturalmente ad ogni portolano che si è messo in gioco donan-do una parte preziosa di sè.

Finito di stamparenel mese di dicembre 2010

Treviso