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Sostenibilità ambientale in Sardegna. Manuale per la Pubblica Amministrazione. SARDEGNA SOSTENIBILE PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

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Sostenibilità ambientale in Sardegna.manuale per la Pubblica Amministrazione.

SARdeGNA SoSteNIBILe

PuBBLICA AmmINIStRAZIoNe

3La presente pubblicazione è stata realizzata dalla Regione Autonoma della Sardegna, nell’ambito del progetto Sardegna Sostenibile, fi nanziato dall’Unione Europea, attraverso il POR Sardegna 2000-2006.

A cura della AtS: • Progetto Verde Srl• Achab Group Srl• Cnos - Fap Regione Sardegna• Nordest Ingegneria Srl

Supervisione: Regione Autonoma della Sardegna• Assessorato della Difesa dell’Ambiente• Assessorato del Lavoro, Formazione professionale, cooperazione e sicurezza sociale

elaborazione testi e grafi ca:• Progetto Verde Srl• Achab Group Srl

Consulenti scientifi ci:• Prof. Ing. Bixio Vincenzo - Univ. Padova• Prof. Dott. Borin Maurizio - Univ. Padova • Prof. Ing. Del Col Davide - Univ. Padova • Ing. Giacetti Walter

illustrazioni:Tamiazzo Valentina

Foto:• Regione Autonoma della Sardegna• Archivio Achab Group Srl• Fotolia

Progetto Grafi co:Zamengo Federica

Stampa:Marca Print snc di Pizziolo & C.Quinto di Treviso (TV)www.marcaprint.it

Copyright:Regione Autonoma della Sardegna

“PROGRAMMA GALAPAGOS“ Progetto cofi nanziato dall’Unione Europea mediante il Fondo Sociale Europeo (FSE) PoR SARdeGNA 2000- 2006 Asse ImISuRA 1.8 AZIoNe B INFoAmB

UNIONE EUROPEA REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA

Le trasformazioni del sistema economico, sociale e

politico intervenute negli ultimi anni, hanno deter-

minato un profondo ripensamento del ruolo e delle

funzioni degli Enti locali, divenuti progressivamente

i principali attori di regolazione economica, so-

ciale e ambientale.

In uno scenario complesso ed in continuo muta-

mento, il ruolo della Pubblica Amministrazione

diviene fondamentale al fi ne di realizzare nuovi

modelli di sviluppo dei sistemi locali della Regione

Sardegna che siano sostenibili economicamente,

equi dal punto di vista sociale ed ecologica-

mente compatibili per interpretare e affrontare il

cambiamento.

Molteplici sono gli strumenti che la Pubblica Am-

ministrazione ha a disposizione per mettere in atto

strategie di sviluppo sostenibile miranti a ridurre

gli impatti ambientali dei processi di produzione e

consumo, attraverso una gestione più responsabile

delle risorse naturali, dei rifi uti e delle fonti ener-

getiche.

Le scelte della Pubblica Amministrazione posso-

no servire, contemporaneamente, da modello di

buon comportamento per le imprese, le istituzio-

ni private e i cittadini, dando quindi un contributo

positivo alla protezione ambientale.

I criteri ambientali servono quindi a privilegiare beni

e servizi che:

• riducono la perdita di biodiversità;

• sostituiscono le fonti energetiche da non rin-

novabili a rinnovabili;

• riducono la produzione di rifi uti;

• riducono le emissioni inquinanti;

• riducono i pericoli e i rischi ambientali.

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Indice

Introduzione.......................................................................................................

1. Rete ecologica regionale1.1 La Rete Natura 2000 e i piani di gestione......................................................................1.2 Processi partecipativi.....................................................................................................1.3 Gestione zone umide....................................................................................................1.4 Salvaguardia e ripristino di dune costiere......................................................................

2. Risorsa Idrica2.1 La “raccolta differenziata” delle acque di pioggia..........................................................2.2 Reti duali e riutilizzo dei reflui depurati ........................................................................2.3 Sistemi vegetati per la riduzione dell’inquinamento di origine diffusa ...........................2.4 Monitoraggio delle reti di acquedotto .........................................................................

3. difesa del suolo3.1 Interventi di sistemazione e manutenzione della rete idrografica...................................3.2 Opere di laminazione per garantire l’invarianza idraulica...............................................3.3 Interventi di sistemazione idraulico-forestale attraverso tecniche di ingegneria naturalistica..................................................................................................................3.4 Interventi di difesa dagli incendi: laghetti collinari..........................................................

4. Rifi uti4.1 La riduzione dei rifiuti e il Green Public Procurement nelle azioni della Pubblica Amministrazione........................................................................................................4.2 La caratterizzazione qualitativa e qualitativa dei rifiuti: pianificazione e gestione delle

indagini merceologiche................................................................................................4.3 Avvio e gestione delle raccolte differenziate domiciliari e applicazione della tariffa........4.4 L’ecocentro comunale: problematiche autorizzative e gestionali...................................4.5 Gestione dei rifiuti prodotti dal turismo.........................................................................

5. energia5.1 Installazione di impianti fotovoltaici nelle scuole o in altri edifici pubblici.......................5.2 L’utilizzo dei collettori solari termici negli edifici ............................................................5.3 La certificazione energetica degli edifici .......................................................................5.4 Applicazioni geotermiche: uso del terreno per migliorare l’efficienza dei sistemi di condizionamento e riscaldamento...............................................................................

5.5 Riduzione dei consumi energetici nell’illuminazione......................................................

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A1.1 La Rete Natura 2000 e i piani di gestione IntroduzioneLe direttive europee in materia di aree protette rendono possibile il costituirsi di una rete ecologica europea, denominata Natura 2000 che comprende ambiti territoriali in cui si trovano tipi di habitat e di specie di interesse comunitario.La direttiva 92/43/Cee, nota come direttiva “habitat”, volta alla conservazione degli habitat natu-rali e seminaturali e della fl ora e della fauna selvatica, è stata recepita dall’Italia con il dPR n. 357 del 1997 e successive modifi cazioni. Obiettivo sostanziale è la conservazione della biodiversità attraverso l’individuazione e la protezione di aree che ospitano habitat e specie, animali e vegetali, che la Com-missione Europea ha giudicato degni di tutela perchè rari, endemici, isolati o in pericolo di estinzione. L’elenco delle specie e degli habitat da tutelare è presente negli allegati della Direttiva.Questa direttiva recepisce al proprio interno anche le norme relative alla precedente direttiva 79/709 Cee, nota come direttiva “uccelli”, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, recepita in Ita-lia con la legge 157 del 1992, la quale stabilisce che gli Stati membri devono in via prioritaria adottare le misure necessarie per l’istituzione di zone di protezione, il mantenimento e la sistemazione degli habitat conformi alle loro esigenze ecologiche, il ripristino di biotopi distrutti e la creazione di nuovi biotopi, con particolare riferimento alle zone umide.

Le fi nalità delle direttive sopra citate si possono riassumere nel modo seguente:

• creare una rete ecologica europea di Zone Speciali di Conservazione (ZSC), con l’obiettivo di garantire il mantenimento, o all’occorrenza il ripristino, in uno stato di conservazione sod-disfacente dei tipi di habitat elencati negli allegati delle due direttive;

• defi nire in ogni paese membro, lo status di conservazione delle specie e degli habitat elencati negli allegati delle direttive e fornire gli strumenti per monitorare l’evoluzione nel tempo di tale status;

• gli Stati membri devono compilare una lista di aree importanti per la presenza di specie e ha-bitat (pSIC: proposti Siti di Importanza Comiunitaria) che dopo l’approvazione definitiva da parte della Commissione Europea, diverranno SIC (Siti di Importanza Comunitaria) e che costituiscono assieme alle ZPS (Zone di Protezione Speciale), istituite in relazione alla direttiva Uccelli Selvatici, il sistema della Rete Natura 2000. In una fase successiva i SIC, con l’assenso delle regioni, diventeranno ZSC (Zone Speciali di Conservazione).

La direttiva “Habitat” e il DPR 35�/199� di recepimento non prevedono un’automatica apposizione di vincoli, ma l’effettuazione di valutazioni e verifi che in relazione ad eventuali interventi di trasformazione territoriale e all’esercizio di attività suscettibili di interferire con i valori naturalistici e ambientali presenti.

Cervo sardo Campi nel territorio della MarmillaForesta Burgos

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NE Introduzione

La nostra Regione possiede un territorio caratterizzato da ambienti dal particolare valore naturalistico, che si sono mantenuti intatti nel tempo e che rappresentano una ricchezza da proteggere e valorizza-re, al fi ne di preservarne l’integrità per il futuro. Un impegno particolare, in questo senso, è richiesto ai tecnici e ai funzionari della Pubblica Amministra-zione, che svolgono azioni di gestione della cosa pubblica e azioni di controllo e di indirizzo nei confron-ti della cittadinanza. Nell’ambito delle attività e delle competenze alle quali sono preposti, dovrebbero subordinare ogni scelta e decisione ad un’attenta analisi fi nalizzata ad assicurare un buon livello di sostenibilità ambientale, nonché l’adozione di buone pratiche nella loro attività corrente. Ciò a volte può comportare un sacrifi cio, che viene però ripagato nel medio-lungo termine, sia dal punto di vista economico che ambientale. È inoltre importante ricordare il ruolo d’esempio che le Pubbliche Amministrazioni svolgono nei con-fronti dei cittadini, che si sentono maggiormente motivati ad adottare buone pratiche, se queste vengono per prime adottate dalle Istituzioni che li rappresentano.

Al fi ne di dare un valido supporto alle Amministrazioni Pubbliche impegnate su questo fronte, è stato pensato il presente manuale, il cui fi lo conduttore è proprio la sostenibilità ambientale, che si esplica attraverso la trattazione di cinque temi ambientali di particolare attualità:

• la rete ecologica regionale,• la gestione della risorsa idrica,• la difesa del suolo,• la gestione integrata dei rifi uti,• l’energia e le fonti rinnovabili.

Per ogni tema sono stati selezionati alcuni argomenti che non esauriscono sicuramente tutte le possi-bili problematiche di interesse per la Pubblica Amministrazione, soprattutto considerando le molteplici realtà di cui essa si compone, ma possono essere un valido spunto per orientare le scelte di tecnici e funzionari verso una pianifi cazione e gestione delle attività in un’ottica di sostenibilità ambientale.Ogni argomento viene affrontato nell’ambito di un progetto specifi co, attraverso un’analisi approfon-dita sia dal punto di vista normativo che tecnico, offrendo interessanti soluzioni volte all’adozione di buone pratiche, mirate ad una gestione più responsabile del territorio, della risorsa idrica, delle fonti energetiche, dei rifi uti.tutti i progetti specifi ci sono oggetto di laboratori partecipativi organizzati in tutte le pro-vince della Regione.

Per la bibliografi a, il glossario ed ulteriori approfondimenti, si può consultare il sito internet www.infosardegnasostenibile.it nella sezione dedicata alla Pubblica Amministrazione.

Foresta Burgos

Hanno collaborato: Borin M., Casotto M., De Stefani G., Salvato M., Tocchetto D., Calegari G., Cappelletto C., Furlan S.

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La rete ecologicaDa un punto di vista scientifico la rete ecologica può essere definita come un insieme di aree naturali o seminaturali di pregio, collegate tra loro, in grado di fornire alle specie un ambiente congruo alle loro esigenze vitali e che ne garantisca la loro sopravvivenza.Le reti ecologiche sono uno strumento di estrema importanza per la conservazione della biodiversità e per un uso sostenibile del territorio. Si tratta di considerare le unità territoriali attraverso la prospettiva ecologica di una specie o di un gruppo di specie animali o vegetali. La conservazione della biodiversità è strettamente correlata sia con il dinamismo degli ecosistemi naturali che con la complessità delle attività umane.Esiste l’esigenza di ricostituire un ambiente in “rete”, per il pericolo e la constatazione che molti degli habitat naturali e semi-naturali e le specie che li popolano rischiano di scomparire in quanto ormai isolati a causa della loro continua frammentazione.Mettere in rete un insieme di ambiti territoriali o di habitat significa aumentarne la funzionalità e, in molti casi, perfino garantirne la conservazione. Il rischio di estinzione di una popolazione aumenta infatti con il diminuire dell’area disponibile e con l’aumentare dell’isolamento.La frammentazione si può riassumere nelle seguenti tipologie:

• perdita di habitat;• riduzione spaziale di un tipo di habitat;• ripartizione dell’habitat in ambiti più piccoli o più isolati.

Questa frammentazione tende a ridurre le possibilità di “comunicazione” tra le specie e gli habitat e rende quindi meno efficace la rete ecologica; normalmente si parla genericamente di rete ecologica, mentre si dovrebbe parlare di “reti ecologiche” dato che ogni specie ed ogni popolazione presenta una diversa strategia di dispersione.

Le Aree ProtetteLe aree protette nel territorio nazionale, vengono così classificate secondo la normativa vigente:Parchi nazionali: sono costituiti da aree terrestri, marine, fluviali, o lacustri che contengano uno o più ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da interventi antropici, una o più formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche, biologiche, di interesse nazionale od internazionale da giustificare l’in-tervento dello Stato per la loro conservazione.Parchi regionali: sono costituiti da aree terrestri, fluviali, lacustri ed eventualmente da tratti di mare prospicienti la costa, di valore ambientale e naturalistico, che costituiscano, nell’ambito di una o più regioni adiacenti, un sistema omogeneo.Riserve naturali: sono costituite da aree terrestri, fluviali, lacustri o marine che contengano una o più specie naturalisticamente rilevanti della fauna e della flora, ovvero presentino uno o più ecosistemi importanti per la diversità biologica o per la conservazione delle risorse genetiche.Zone umide: sono costituite da paludi, aree acquitrinose, torbiere oppure zone di acque naturali od artificiali, comprese zone di acqua marina la cui profondità non superi i sei metri (quando c’è bassa marea) che, per le loro caratteristiche, possano essere considerate di importanza internazionale ai sensi della Convenzione di Ramsar.Aree marine protette: sono costituite da tratti di mare, costieri e non, in cui le attività umane sono parzialmente o totalmente limitate. La tipologia di queste aree varia in base ai vincoli di protezione. Altre aree protette: sono aree che non rientrano nelle precedenti classificazioni. Ad esempio parchi suburbani, parchi provinciali, oasi delle associazioni ambientaliste (WWF, Pro Natura, LIPU), monumenti naturali, ecc. Possono essere a gestione pubblica o privata, con atti contrattuali quali concessioni o forme equivalenti.In merito a questioni legate alle aree protette, le pubbliche amministrazioni sono chiamate a svolgere ruoli fondamentali tra cui:

• concedere autorizzazioni su piani o azioni che possono avere un impatto sui siti protetti;• creare iniziative di animazione, coinvolgimento e a gestione del rapporto tra la cittadinanza

e il territorio.

Le rete ecologica regionale della Sardegna comprende: due parchi nazionali (L’Asinara, La Mad-dalena), cinque aree marine protette (Capo Carbonara, Capo Caccia - Isola Piana, Isola dell’Asinara, Penisola del Sinis - Isola di Maldiventre, Tavolara - Punta Coda Cavallo), due parchi naturali regionali (Molentargius - Saline e Porto Conte), 92 Siti di Importanza Comunitaria (SIC) e 3� Zone di Protezione Speciale (ZPS), 18 monumenti naturali e 93 oasi di protezione faunistica.

I Piani di Gestione dei siti Natura 2000I Piani di gestione dei siti Natura 2000 costituiscono una misura di conservazione che dà indicazioni sulla gestione degli habitat e delle specie di interesse comunitario e vengono redatti sulla base di linee guida nazionali e regionali.A livello europeo, i piani di gestione sono previsti dall’art. � punto 1 della Direttiva Habitat e compren-dono interventi di tutela, valorizzazione e salvaguardia ambientale.

LINee GuIdA PeR LA RedAZIoNe deL PIANo dI GeStIoNe

A livello nazionale il Ministero dell’Ambiente e Tutela del Territorio, nell’ambito di un progetto LIFE Natura, ha realizzato, con il contributo delle maggiori società scientifiche e associazioni ambientaliste, le linee guida nazionali per la redazione dei piani di gestione, pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale, n. 224, nel settembre 2002.La Regione Autonoma Sardegna, ha ritenuto opportuno formulare le proprie linee guida, dirette agli enti locali, per l’elaborazione dei Piani di gestione dei siti Natura 2000; tali piani sono finalizzati al-l’individuazione di misure di conservazione e tipologie di interventi ammissibili, che potranno essere finanziati, tra l’altro, dai fondi strutturali messi a disposizione dal Programma Operativo Regionale della Sardegna (POR).L’individuazione di misure di conservazione e la redazione di Piani di gestione consentiranno di indivi-duare nel dettaglio le principali minacce e criticità a cui sono soggetti i siti Natura 2000 e di sviluppare attività per la salvaguardia delle valenze naturalistiche di interesse comunitario, tenendo conto dello sviluppo sostenibile del territorio.I piani di gestione costituiscono la base di un percorso per la realizzazione della rete ecologica regio-nale che sia coerente con i principi dello sviluppo sostenibile. Non si ritiene più infatti di agire ponendo in essere una serie non coordinata di interventi sul territorio, ma disciplinando le attività umane in un documento di pianificazione che tenga conto in maniera specifica delle emergenze naturalistiche da tutelare, mediante un aggiornamento del quadro conoscitivo, l’individuazione e localizzazione delle minacce e la predisposizione di un piano di azione per la tutela della naturalità.

FINALItà dI uN PIANo dI GeStIoNe

La finalità che si intende raggiungere attraverso la stesura di un piano di gestione è anche lo sviluppo economico delle aree della “Rete Ecologica Regionale”, ed in modo specifico quelle appartenenti alla rete “Natura 2000”, mediante la promozione delle iniziative imprenditoriali sostenibili ed ecocompati-bili e la valorizzazione delle attività locali tradizionali compatibili con il patrimonio naturalistico. I piani di gestione non sono una misura obbligatoria per la gestione dei siti, bensì uno strumento da predisporre quando ritenuto necessario per il raggiungimento degli obiettivi della direttiva europea di riferimento.Nel caso specifico della Regione Sardegna, da una prima valutazione delle misure di conservazione e degli strumenti di pianificazione esistenti, sembra si possa ritenere che gli stessi non siano sufficienti a garantire uno stato di conservazione soddisfacente degli habitat e delle specie e che pertanto la pre-disposizione di un Piano di Gestione sia necessaria e consigliabile per tutti i siti della Rete Natura 2000 nell’isola, con lo scopo di garantirne la migliore gestione possibile, integrare e valorizzare le potenziali-tà per lo sviluppo socioeconomico, e conservare lo straordinario patrimonio di biodiversità sardo.Tale strumento di pianificazione è in grado di integrare gli aspetti prettamente naturalistici con quelli socio-economici ed amministrativi, inoltre deve integrarsi completamente con altri piani di gestione del territorio ed in particolare con il Piano paesaggistico regionale, il Piano forestale regionale, il Piano faunistico venatorio regionale, i Piani urbanistici provinciali, i Piani urbanistici comunali, i Piani delle aree protette qualora il sito vi ricada in parte o tutto.

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Nell’ambito del Piano di Gestione, si identificano le mansioni necessarie alla gestione del pSIC /ZPS e, quindi, le corrispondenti figure professionali coinvolte, quali addetti, consulenti esterni, guide, ecc.

ChI deve RedIGeRe IL PIANo dI GeStIoNe?

La preparazione di un piano di gestione, date le tematiche affrontate e i contenuti proposti, richiede un approccio multidisciplinare che presuppone l’azione sinergica di un team di professionisti. Trattandosi di un documento che deve disciplinare l’uso del territorio e parallelamente contemperare le diverse esi-genze economiche, sociali e culturali delle popolazioni residenti nelle aree della rete ecologica, si ritie-ne che le figure professionali minime occorrenti per predisporre il piano di gestione sono le seguenti:Un pianificatore (ingegnere o architetto o simili) che verifichi, tra l’altro, le problematiche sollevate dal piano di gestione rispetto alle norme di pianificazione ordinarie;Un naturalista/biologo per coordinare il gruppo di esperti, che possono variare in dipendenza dalle peculiarità del sito (ad esempio: botanico, zoologo, biologo, forestale, agronomo) che deve redigere sia la parte conoscitiva che quella propositiva del piano;Un economista (laureato in materie economiche) per la parte relativa allo studio socioeconomico del territorio, alla valutazione dei costi di realizzazione del piano, etc.

ImPoRtANZA deLLA PARteCIPAZIoNe deLLA PoPoLAZIoNe

La tutela dell’ambiente naturale e degli aspetti paesaggistici possono costituire la risorsa principale per il patrimonio ambientale, fonte di benefici economici per le popolazioni locali che, direttamente e indirettamente, ne usufruiscono.Tenendo conto della necessità di rendere il Piano di Gestione uno strumento condiviso e partecipato da parte dei gruppi di interesse che intervengono nel sito, è essenziale che l’elaborazione del piano, a partiredalla identificazione delle sue linee generali, fino alla approvazione della stesura finale, venga realizzata con un continuo confronto con i gruppi di interesse (amministrazioni, popolazione, operatori economici quali: albergatori, agricoltori, allevatori, ecc).

StRuttuRA deL PIANo dI GeStIoNe

La struttura del piano deve contenere uno studio generale del sito protetto, una valutazione generale con l’identificazione delle minacce, gli obiettivi, le strategie e gli interventi proposti.L’elaborazione di uno studio generale è propedeutica alla redazione del Piano di Gestione.Lo studio generale ha l’obiettivo di fornire un inquadramento degli aspetti territoriali, abiotici, biotici e socioeconomici, nonché, in modo specifico degli habitat e specie di interesse comunitario che hanno portato all’individuazione del sito Natura 2000. Per l’elaborazione di tale studio andranno presi in considerazione i documenti di riferimento a livello comunitario, nazionale e regionale, nonché gli studi già realizzati. In relazione a tali elementi naturalistici viene definito lo stato di conservazione e l’effetto in atto o potenziale, diretto o indiretto delle attività antropiche su di essi.In particolare, lo studio generale dovrà approfondire i seguenti aspetti:

• caratterizzazione territoriale del sito (localizzazione del sito e relativa perimetrazione, comuni e province interessati, accessibilità, ecc.);• caratterizzazione abiotica (geologica, morfologica, climatica, idrografica, ecc.);• caratterizzazione biotica (flora, fauna, vegetazione, habitat) con particolare riferimento alla biodiversità di interesse comunitario;• caratterizzazione socio-economica, sia per gli aspetti riguardanti il territorio nel quale il sito è inserito (scala provinciale o regionale),sia per quelli che lo interessano direttamente;• caratterizzazione urbanistica e programmatica (per l’individuazione del regime di uso del suolo vigente e programmato e di eventuali vincoli di tutela esistenti);• caratterizzazione archeologica, architettonica e culturale;• caratterizzazione paesaggistica.

Tutte le informazioni raccolte contribuiranno a definire un quadro conoscitivo del SIC/ZPS, illustrando-ne la condizione ecologica, sociale ed economica per valutare: presenza, distribuzione, fenologia, stato di conservazione, di specie e habitat di interesse comunitario. I dati dovranno essere informatizzati e georeferenziati, al fine di realizzare un Sistema Informativo Territoriale (SIT) del SIC/ZPS, in modo tale da raccogliere e sintetizzare dati abiotici, ecologici ed amministrativi rendendoli di facile consultazione ed analisi.Lo Studio Generale così elaborato costituirà quindi un quadro sintetico, ma dettagliato, di riferimento aggiornato per le elaborazioni necessarie alla stesura del Piano di Gestione ed il riferimento indispen-sabile per eventuali valutazioni di incidenza da svolgere nel SIC/ZPS.

Obiettivi

La valutazione delle valenze ecologiche e l’individuazione dei fattori di maggior impatto permettono di identificare gli obiettivi gestionali, quelli eventualmente conflittuali con il contesto socioeconomico e di definire le priorità di intervento.L’obiettivo generale del Piano di Gestione del SIC/ZPS è quello di assicurare la conservazione degli habitat e delle specie vegetali e animali di interesse comunitario, prioritari e non, garantendo, con opportuni interventi di gestione, il mantenimento e/o il ripristino degli equilibri ecologici che li carat-terizzano e che sottendono alla loro conservazione. Gli obiettivi specifici individuati devono essere descritti, indicando i tempi necessari al raggiungimento degli stessi. Nell’individuazione degli obiettivi si deve tener presente che per la salvaguardia delle risorse naturali e dell’integrità ecologica all’interno del PSIC/ZPS è necessario:

• mantenere e migliorare il livello di biodiversità degli habitat e delle specie di interesse

comunitario per i quali il sito è stato designato;• mantenere e/o ripristinare gli equilibri biologici alla base dei processi naturali (ecologici

ed evolutivi);• ridurre le cause di declino delle specie rare o minacciate ed i fattori che possono causare la

perdita o la frammentazione degli habitat all’interno del sito e nelle zone adiacenti;• tenere sotto controllo ed eventualmente limitare le attività che incidono sull’integrità

ecologica dell’ecosistema;• armonizzare i piani e i progetti previsti per il territorio in esame;• individuare e attivare i processi necessari per promuovere lo sviluppo di attività economi-

che compatibili con gli obiettivi di conservazione dell’area;• attivare meccanismi socio-politico-amministrativi in grado di garantire una gestione attiva

ed omogenea del PSIC/ZPS.

StRAteGie

Una volta definiti gli obiettivi del Piano di Gestione, in termini di miglioramento dello stato di conserva-zione della biodiversità di interesse comunitario, dovranno essere definite le strategie per il loro con-seguimento. Tali strategie dovranno essere calibrate sulla base degli obiettivi specifici definiti dal piano derivati dalla caratterizzazione del sito e dalle esigenze ecologiche degli habitat e delle specie in esso contenute. In generale, per promuovere una maggiore tutela degli habitat di interesse comunitario è necessario attuare, ad esempio, le seguenti strategie di gestione:

• predisposizione di interventi boschivi con criteri selvicolturali naturalistici;• salvaguardia delle serie di vegetazione coerenti con la vegetazione potenziale;• mantenimento di radure per favorire la diversità ambientale anche in relazione alle

esigenze della fauna;• mantenimento ed incentivazione delle pratiche agricole, compatibili con la tutela della

biodiversità sia nell’area del pSIC/ZPS, sia nelle aree limitrofe (capaci di influenzare la qualità ambientale del sito);

• regolamentazione delle attività di pascolo e ove necessario evitarne l’abbandono totale per limitare la ripresa delle successioni dinamiche che porterebbero alla scomparsa degli habitat prativi;

• sviluppo di strategie tali da limitare il disturbo antropico;

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• predisposizione di misure di regolamentazione dei fl ussi turistici e delle attività di frui-zione;

• sviluppo di strategie per la sostenibilità socio-economica, che non interferiscano con la conservazione della biodiversità presente nel sito.

iNteRveNti

Per l’attuazione delle strategie di gestione dovranno essere individuati interventi di gestione, ovvero azioni concrete di tutela per la conservazione, il ripristino e la valorizzazione delle componenti ambien-tali, assieme all’individuazione di specifi ci indicatori per la verifi ca dell’attuazione del piano e del livello di conseguimento degli obiettivi di conservazione degli habitat e delle specie.Gli interventi dovranno essere raggruppati secondo le strategie che essi perseguono e sintetizzati in schede riportanti modalità realizzative tecnico-operative, costi, tempi di realizzazione, soggetti coin-volti nella fase di realizzazione, risorse necessarie e tutte le ulteriori informazioni suffi cienti a chiarire le modalità di realizzazione.Per una maggiore omogeneità e facilità di attuazione, gli interventi andranno distinti in straordinari, ovvero da eseguire una sola volta (azioni di recupero e ripristino), e in ordinari, ovvero da ripetersi pe-riodicamente (periodicità intesa come annuale o stagionale), così come in materiali, ovvero consistenti in azioni concrete sul territorio (interventi di ripristino, realizzazione di opere), e immateriali, ovvero consistenti in azioni immateriali (ad es. campagne di informazione, accordi, ecc.).Le schede per gli interventi possono essere strutturate in modo da fornire per ogni habitat e/o specie di interesse comunitario lo stato di conservazione, i fattori antropici di disturbo, il tipo di intervento che si vuole eseguire e il risultato atteso in seguito alla realizzazione dell’intervento.L’iter di approvazione di un piano di gestione come ipotizzato dalla Regione Sardegna può essere così sintetizzato:

a) Adozione da parte di tutti i Comuni interessati;b) Pubblicazione del piano e partecipazione della popolazione;c) Defi nitiva approvazione da parte dei Comuni interessati;d) Approvazione da parte della Regione con decreto dell’Assessore.

Cervo sardo

INdICAZIoNI GeStIoNALI e tIPoLoGIe dI INteRveNtI PRevIStI NeI PIANI dI GeStIoNe

Di seguito alcune indicazioni previste per i piani di gestione, con esempi concreti di interventi per le aree protette del territorio sardo, suddivise in zone costiere, zone umide e zone interne.

indicazioni

• protezione e ricostruzione dei sistemi dunali• tutela della Posidonia• regolamentazione dell’ancoraggio e del traffi co marittimo• regolamentazione della sosta e del traffi co veicolare

interventi

Zone Costiere

• creazione di aree di sosta e percorsi su passerella sui sistemi dunali• recinzioni a tutela degli habitat• ripristino di habitat degradati• eradicazione di specie alloctone• interventi di protezione dagli incendi• monitoraggio delle specie marino-costiere• regolamentazione della fruizione e delle attivista sportive

• creazione di fasce di rispetto nell’area peristagnale• interventi di ripristino della vegetazione• regolamentazione degli accessi • regolamentazione delle attività di pesca e birdwatching

• creazione di percorsi di fruizione sostenibile • recinzioni a tutela degli habitat• ripristino della vegetazione riparia• strutture a supporto delle attività di birdwatching• monitoraggio delle specie tipiche delle zone umide• monitoraggio della qualità delle acque rispetto agli inquinanti• attività di pescaturismo

Zone Umide

• pratiche forestali • accordi con gli operatori per una gestione sostenibile delle attività agrozootecniche• predisposizione di piani del pascolo (a fi ni di salvaguardia di habitat e specie e delle attività economiche che ne consentono il mantenimento)• regolamentazione degli accessi e delle attività di fruizione• regolamentazione attività sportive (arrampicata, trekking, cross, ecc.)• gestione di specie in via di estinzione (grifone, gipeto, falco pescatore, cervo sardo, tartaruga marina, trota macrostigma, Papilio hospiton, ecc.)

Zone Interne

• interventi di protezione dagli incendi• eradicazione di specie alloctone• ripristino di habitat boschivi• creazione di radure a pascolo e punti di abbeverata• creazione di colture a perdere per la fauna• monitoraggio delle specie tipiche delle zone montane• recupero di fabbricati e strutture rurali • ripristino siepi e ricostruzione muretti a secco• riqualifi cazione aziende zootecniche, incentivazione produzione biologica, recupero produzioni tradizionali

Tabella 1.1.1: Indicazioni gestionali e tipologie di interventi previsti nei piani di gestione.

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1.2 Processi Partecipativi

obiettiviNel promuovere lo sviluppo sostenibile le Amministrazioni locali svolgono un ruolo fondamentale nel sensibilizzare, mobilitare e rispondere alla cittadinanza, è quindi necessario che tali amministrazioni si avvicinino sempre di più alle metodologie della progettazione partecipata (vedasi anche capitolo 28 di Agenda 21). Con questo documento si intende dare qualche utile spunto e una piccola guida metodolo-gica per un primo approccio al settore dei processi partecipativi. Il tema può essere di interesse per qualsiasi Amministrazione: Regionale, Provinciale, Comunale o Ente Territoriale.

Inquadramento e giustifi cazioneLa pietra miliare nella richiesta del coinvolgimento dei portatori di interesse si può far risalire al Principio 10 della Dichiarazione di Rio del 1992 “…Il modo migliore di trattare le questioni ambientali è quello di assicurare la partecipazione di tutti i cittadini interessati, ai diversi livelli. Al livello nazionale, ciascun indivi-duo avrà adeguato accesso alle informazioni concernenti l’ambiente in possesso delle pubbliche autorità, comprese le informazioni relative alle sostanze ed attività pericolose nelle comunità, ed avrà la possibilità di partecipare ai processi decisionali. Gli Stati faciliteranno ed incoraggeranno la sensibilizzazione e la partecipazione del pubblico rendendo ampiamente disponibili le informazioni. Sarà assicurato un accesso effettivo ai procedimenti giudiziari ed amministrativi, compresi i mezzi di ricorso e di indennizzo”.Per aumentare l’effi cacia delle politiche è quindi necessario tenere conto, fi n dalla loro defi nizione, del punto di vista dei diversi portatori di interesse che operano nell’area considerata, del loro ruolo nel sistema analizzato e delle reciproche interdipendenze.Le metodologie legate alla progettazione partecipata si sono sviluppate molto negli ultimi trent’anni grazie a teorie sociologiche, che hanno messo in evidenza l’importanza dell’interazione tra Pubblica Amministra-zione e cittadinanza per la buona riuscita e l’accettazione di piani/progetti di varia natura.

Individuazione dei portatori di interesse (stakeholder)In senso ampio stakeholder è ogni soggetto interessato o coinvolto da un tema.L’individuazione e l’ analisi dei portatori di interesse è una procedura fi nalizzata a:

• defi nire i portatori di interesse coinvolti nella questione (piano/progetto) in oggetto;• valutare l’importanza relativa e l’infl uenza che i diversi portatori di interesse sono in grado

di esercitare riguardo al problema analizzato;• individuare le modalità attraverso le quali ogni portatore di interesse può infl uenzare il

sistema o gli altri portatori di interesse, con le sue attività.

L’individuazione e l’analisi di tutti gli stakeholder è una fase delicata poiché alcuni di essi possono non essere immediatamente evidenti e quindi esclusi.Chi per primo deve individuare i portatori di interesse?Tutti i dipendenti della Pubblica Amministrazione coinvolti a vario titolo nel piano/progetto in esame, potenzialmente possono stendere un elenco di quelli che loro percepiscono come portatori di interesse e di quelle che secondo loro sono le priorità legate al piano/progetto. Il secondo passo è l’organizzazione di riunioni, interne all’Amministrazione, in cui coloro che hanno individuato i portatori di interesse possono discutere con lo scopo di produrre una lista in ordine decrescente di importanza di quelli che risultano essere gli stakeholder e le relative priorità determinate. Si prosegue poi con delle interviste semi-strutturate (o incontri di gruppo informali) ai portatori di interesse individuati per raccogliere il loro punto di vista sul piano/progetto ma anche per integrare la lista con altri stakeholder che loro stessi individuano. Spesso infatti, alcuni nuovi portatori di interesse si scoprono proprio a seguito di questi incontri.A questo punto si procede con la mappatura degli stakeholder che si effettua tramite l’analisi di tutte le in-terviste o incontri cercando di produrre una grande mappa che comprenda tutti gli stakeholder individuati e le priorità che ogni stakeholder ritiene importanti relativamente al piano/progetto in esame; sarebbe importante e utile evidenziare nella mappa anche le varie relazioni presenti tra stakeholder.

Informazione dei portatori di interesseLa Pubblica Amministrazione promotrice del processo partecipativo deve fornire ai portato-ri di interesse individuati tutte le indicazioni necessarie sul piano/progetto che intende realizzare. Nei processi partecipativi, per un efficace coinvolgimento, è importante che le informazioni siano disponibili ai portatori di interesse, anche se questo passaggio risulta alle volte difficile da realizzare.In questo frangente è importante individuare il giusto metodo per comunicare con i portatori di interesse e soprattutto il giusto linguaggio. Spesso i funzionari delle Pubbliche Amministrazioni utilizzano termini e metodologie di comunicazione (power point, grafici, immagini, ecc.) trop-po tecnici, che non vengono ben assimilati dagli interessati. Spesso per adempiere a questa fase di informazione ci si limita all’organizzazione di convegni o workshop che però non sembrano es-sere il mezzo più idoneo, è invece consigliabile l’organizzazione di focus group, con numero limi-tato di partecipanti che seppur più impegnativi da gestire danno sicuramente risultati migliori.Qui diventa fondamentale la figura del facilitatore, persona che ha il compito di agevolare il focus group lavorando insieme ai partecipanti, assicurando che tutti siano ascoltati, registrando i prodotti della discussione, evitando inutili divagazioni. Spesso si possono utilizzare in questi focus group si-mulazioni e giochi di ruolo che stimolano i partecipanti a essere più consapevoli dei punti di vista, interessi e aspirazioni di ciascuno; matrici e diagrammi che agevolano le attività dei partecipanti e del facilitatore, registrando i risultati via via raggiunti; video, foto, disegni, suoni come strumenti di comunicazione diversi che permettono di rendere più efficace, coinvolgente e divertente la comu-nicazione; visite sul campo: escursioni e visite guidate presso luoghi o persone oggetto di analisi.

Coinvolgimento dei portatori di interesseUna volta rese disponibili le informazioni ai portatori di interesse bisogna far si che questi esercitino l’opportunità di esprimere le loro opinioni e stimolare la formulazione di proposte concrete che soddi-sfino le loro esigenze.

Progettazione partecipataL’analisi dei problemi e l’elaborazione di soluzioni sono definiti congiuntamente dai vari attori. Le de-cisioni per la loro realizzazione sono di tipo multilivello in base a competenze, risorse e responsabilità:alcune da parte dell’ente promotore, altre da parte dei singoli attori che hanno partecipato, altre in partnership.

Isola di Mal di Ventre

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monitoraggio soddisfazione stakeholderÈ da prevedere un doppio monitoraggio:

• sulla soddisfazione degli attori coinvolti rispetto all’effi cacia del processo partecipativo; • sull’effettivo riscontro delle opinioni degli stakeholder nell’effettuazione del piano/progetto.

Processi partecipativi e reti ecologicheAnche per quanto concerne la biodiversità si sta affermando un nuovo approccio che è rintracciabi-le nelle strategie europee per contrastare la perdita di tale importante risorsa (Count down 2010) dove, in particolare tra gli strumenti prioritari per conseguire i dieci obiettivi chiave, viene introdotta l’informazione, la creazione di partnership e la partecipazione. L’istituzione di reti ecologiche a scala regionale, provinciale o locale non deve essere vista come imposizione di legge, ma come occasione di sviluppo a cui le Amministrazioni e i soggetti interessati possono decidere di aderire.Seguendo questa prospettiva la Regione Sardegna ha emanato delle linee guida per la redazione dei piani di gestione dei pSIC e ZPS che richiamano più volte l’importanza dei processi partecipativi come elemento costitutivo della progettazione e della gestione del territorio.Questo documento riporta quanto segue:“Tenendo conto della necessità di rendere il Piano di Gestione uno strumento condiviso e partecipato da parte dei gruppi di interesse che intervengono nel sito, è essenziale che l’elaborazione del piano, a partire dalla identifi cazione delle sue linee generali, fi no alla approvazione della stesura fi nale, venga realizzata con un continuo confronto con i gruppi di interesse. La partecipazione delle parti interessate potrà essere garantita facendo ricorso a vari canali:

1. incontri con i diversi attori coinvolti;2. sito internet che consente, per sua natura, un approccio diretto e altamente indiffe-

renziato ad ogni categoria di interessati;3. mass media locali, che permettono di raggiungere la popolazione insistente sul terri-

torio in modo ampio.”

Ovviamente un processo partecipativo di questo tipo non ha termine perchè continua come continua le gestione del territorio. Errato sarebbe pensare di aver svolto il compito di coinvolgimento con il rag-giungimento dell’approvazione del Piano di Gestione; è proprio da questo momento che il processo attivato nella prima parte del lavoro può dare i suoi frutti. Può capitare di aver commesso degli errori di valutazione e una corretta partecipazione di tutti gli attori coinvolti permette di gestire le responsabilità e le azioni di correzione.La realizzazione di reti ecologiche, coinvolgendo numerosissimi soggetti presenti nel territorio, può avvenire solo tramite un processo di confronto, condivisione e concertazione delle scelte.

1.3 Gestione zone umideLe zone umide sono aree di palude, pantano, torbiera, distese di acqua, naturali ed artifi ciali, per-manenti o temporanee con acqua ferma o corrente, dolce salata o salmastra includendo anche le acque marine la cui profondità durante la bassa marea non supera i sei metri (defi nizione da D.P.R. 448/��).Ciò che caratterizza generalmente una zona umida è la ricchezza e la varietà di specie, sia vegetali che animali. L’intervento dell’uomo, anche in anni non lontani, ha spesso alterato questi ambienti unici anche perché venivano associati all’idea di inutilità produttiva o di pericolosità igienico sanitaria.Anche alla luce delle convenzioni internazionali, delle normative europee e della istituzione di numero-se aree protette che interessano le zone umide, la necessità di conservarle è ormai interesse comune. Già nel 19�0 il Consiglio d’Europa emanò la carta dell’acqua, contenente i principi basilari per la tutela e la gestione delle zone umide a livello europeo. L’importanza ambientale di questi biotopi ha quindi ricevuto nel corso degli anni l’interesse e la protezione delle comunità scientifi che e sociali di tutto il mondo. Con il consolidarsi di una diffusa coscienza ambientale, le zone umide hanno acquistato un ruolo non secondario anche nel settore turistico.

Le funzioni principali delle zone umideLa necessità di salvaguardare, mantenere ed ampliare le zone umide si giustifi ca con una lunga serie di funzioni che esse svolgono nel complesso degli equilibri ecologici del territorio.In particolare si ricordano le seguenti:

• mantengono e regolano i livelli delle falde freatiche;• controllano e regolano i livelli di marea costieri;• accumulano e depurano attraverso la fi todepurazione le acque di defl usso superfi ciale;• regolano il fl usso delle acque in piena (in occasione di eventi meteorologici intensi);• regolano il microclima locale mitigando le escursioni termiche;• trattengono i sedimenti trasportati dalle acque attraverso i meccanismi di decantazione e sedimentazione;• sono habitat di molti componenti delle catene alimentari a vari livelli trofi ci e presentano condizioni uniche per il rifugio, la sosta e la riproduzione di moltissime specie strettamente legate all’acqua (sia dolce che salata);• mantengono un elevata biodiversità locale, grazie alla presenza di numerose specie ve-getali ed animali;• sono luoghi privilegiati a scopo didattico, ricreativo e fruitivi;• contribuiscono alla gradevolezza del paesaggio e al richiamo turistico.

Norme per la protezioneIn Italia la prima normativa organica sulle zone umide è il d.P.R. del 13/3/1976 n. 448 (Esecuzione della convenzione relativa alle zone umide di importanza internazionale, soprattutto come habitat di uccelli acquatici, fi rmata a Ramsar il 2 febbraio 19�1), che ratifi ca la Convenzione Internazionale di Ramsar sulla conservazione di zone umide di interesse internazionale. Successivamente è stata adottata anche la direttiva n. 409 del 1979, che attraverso l’articolo 1 si prefi gge la protezione e la gestione di tutti i tipi di uccelli selvatici presenti sul territorio europeo, prevedendo forme di protezione degli habitat; con l’articolo 4, comma 2 delle stessa direttiva si fa riferimento all’importanza della pro-tezione delle zone umide. In seguito è stata emanata, sempre a livello Comunitario, la direttiva n. 43 del 1992. Questa prevede la conservazione di determinati habitat naturali e naturaliformi, ivi comprese le zone umide nelle loro varie tipologie (es. di acqua dolce, di acqua salata), elencate nell’allegato I della citata direttiva.Successivamente la Legge nazionale n. 157 del 1992, in applicazione della Direttiva n. 43 del 1992, con riferimento all’articolo 10, ha delegato alle Regioni il compito di provvedere al ripristino dei biotopi

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alterati ed alla creazione di nuovi biotopi.In Sardegna la legge di recepimento della 15� è la legge n. 23 del 1998 “Norme per la protezione della fauna selvatica e per l’esercizio della caccia in Sardegna”.

Interventi di gestione e ripristinoIn questo paragrafo vengono riportate alcune tipologie di interventi che possono essere presi come riferimenti per una corretta gestione nello spazio e nel tempo di una generica zona umida. Si ricorda che ogni zona umida, sebbene possa riportare caratteri fisici o ecologici simili ad altre, presenta delle specificità date dal clima, dal regime idraulico, dall’utilizzo che se ne è fatto in passato, ecc. Questi ca-ratteri devono essere pienamente considerati all’atto della definizione degli interventi di manutenzione e sviluppo, sia che riguardino le comunità vegetali che quelle animali.Tali interventi devono essere possibilmente inseriti in un programma di gestione più generale che consideri anche il territorio limitrofo ed il bacino idrografico in cui la zona umida è inserita. Inoltre dovranno essere condotti nel rispetto di eventuali norme vigenti all’interno delle aree di intervento (es. piani paesaggistici, indicazioni date dall’Ente Parco, ecc.).Lo schema seguente individua i fattori che determinano la complessità di una zona umida.

Gestione idraulicaIl livello idrico entro la zona umida è condizionato da fattori quali la topografia dell’area, i volumi in ingresso ed uscita, il livello della falda, il tipo di suolo/fondale, la sua struttura, ecc. Il livello idrico può essere regolato artificialmente mediante la formazione di piccoli argini in terra che consentono l’in-gresso o l’uscita di portate regolari. Nei canali collegati alle zone umide possono essere previsti sistemi che consentono di isolare temporaneamente o periodicamente le singole unità idrologiche afferenti al bacino principale.Una zona umida può essere costituita da un unico bacino o da sottobacini divisi tra loro da piccoli argi-ni eretti artificialmente. Il collegamento tra un sottobacino e l’altro è ottenuto da aperture che possono permettere la regolazione dei flussi.Il livello dell’acqua influisce notevolmente sulla componente vegetale e soprattutto animale; ad esem-

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Figura 1.3.1: Fattori che determinano la complessità di una zona umida (Fonte Il Divulgatore, 1996).

pio la presenza di uccelli limicoli caratterizza ambienti con acqua molto bassa, mentre in acque più profonde gli uccelli predominanti saranno le varie specie di anatre selvatiche.

mantenimento della biodiversitàIl ripristino della vegetazione ottimale e il mantenimento della varietà biologica per un determinato biotopo sono da considerarsi interventi prioritari. Nel caso di ambienti che nel tempo hanno subito un depauperamento della biodiversità andranno messe in atto azioni per favorire l’insediamento/incre-mento di specie utili e/o il controllo delle specie invasive o ad impatto negativo.Questi interventi mirano a ricreare le condizioni ecologiche in grado di supportare la presenza delle specie di elevata valenza ambientale. Questo può essere agevolato forzando i tempi di re-insediamen-to delle specie vegetali, in modo da accelerare la successione ecologica naturale. Durante il processo di arricchimento della componente vegetale, l’area umida verrà progressivamente colonizzata da differenti specie animali.Tali interventi richiedono uno stretto controllo in fase attuativa e non sono indicati in caso di habitat umidi che siano naturalmente poveri di specie.

Gestione della vegetazioneUno dei fenomeni naturali che determina la scomparsa degli habitat umidi è il progressivo interramen-to del fondo causato dall’abbandono delle pratiche di taglio e gestione della vegetazione.Per mantenere le caratteristiche di un habitat umido la gestione della vegetazione deve:

1) creare un giusto equilibrio tra zone vegetate e specchi d’acqua;2) ottenere aree emerse prive di vegetazione;3) garantire lo sviluppo di popolazioni vegetali disetanee.

Lo sfalcio della vegetazione deve mirare a creare un equilibrato rapporto tra zone con piante e zone di acqua libera dalle piante. Si dovrà creare un mosaico di aree prive di vegetazione alternate a zone con diverso sviluppo del canneto. Una comunità vegetale diversificata e possibilmente disetanea può supportare diverse comunità faunistiche e quindi un alto numero di specie animali legate all’acqua.Lo sfalcio può essere fatto con differente cadenza temporale e deve essere condotto con l’ausilio di at-trezzi manuali o mezzi meccanici. Tagli annuali favoriscono l’insediamento di formazioni vegetazionali monospecifiche; tagliando meno frequentemente, all’opposto, si stimola lo sviluppo di comunità più complesse. Il materiale sfalciato dovrà essere asportato dall’area. Il taglio va fatto in autunno-inverno, adottando tutti gli accorgimenti necessari per salvaguardare le specie animali particolarmente protette.

elenco delle zone umide di importanza internazionale in Sardegna

Peschiera di Corru S’ittiri - Stagno di S. Giovanni e Marceddì

Stagno di Cabras

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1.4 Salvaguardia e ripristino di dune costiereLe spiagge sono il prodotto di un equilibrio dinamico derivante da numerosi fattori. Fra questi i prin-cipali sono: l’apporto di sedimenti (limi, sabbie, ciottoli) da parte dei corsi d’acqua, il regime delle correnti marine e dei venti che movimentano le masse di sedimenti, la vegetazione che colonizza le sabbie contribuendo alla loro stabilizzazione ed accumulo in dune di maggiori o minori dimensioni. Gli effetti del passaggio delle persone sulle dune costiere producono alterazioni del sistema dunale stesso, consistenti nel danneggiamento e nell’asportazione della componente vegetale, nella conseguente diminuzione della stabilità della duna ed, in ultimo, nella modifi ca del comportamento dinamico e dell’equilibrio della spiaggia, con conseguente erosione della stessa. Anche la presenza di auto e mo-toveicoli nei suddetti contesti e negli stagni retrodunali tipici di molte spiagge della Sardegna, adibiti spesso a parcheggi durante l’estate, compromette l’equilibrio dei delicati ambienti costieri a causa della compattazione dei terreni, del danneggiamento e asportazione della vegetazione, della sottra-zione di habitat di specie tipiche (per esempio uccelli limicoli che utilizzano queste aree come luoghi di riproduzione e di alimentazione) nonché con fenomeni locali di inquinamento dovuti a perdite di olio e combustibili.Gli habitat costieri sono particolarmente protetti dalla direttiva europea 92/43/CEE e molti di essi sono considerati prioritari.La Regione Sardegna disciplina la salvaguardia e la valorizzazione di tali territori attraverso uno stru-mento che è il Piano Paesaggistico Regionale, seguendo le indicazioni a livello europeo per la “Ge-stione integrata delle zone costiere” in Europa (2002/413/CE) e del “Mediterranean Action Plan”, elaborato nell’ambito della Convenzione di Barcellona.In questo documento le fasce costiere vengono defi nite una risorsa strategica fondamentale per lo sviluppo sostenibile del territorio sardo, che necessita di pianifi cazione e gestione integrata.Con la delibera n. 27/7 del 13.05.2008, la Giunta Regionale ha approvato “Gli indirizzi urgenti per la gestione della fascia costiera” che sono il frutto del lavoro degli uffi ci tecnici dell’Asses-sorato della difesa dell’Ambiente e dell’Assessorato degli enti Locali, Finanze e urbanistica, integrato dalla collaborazione dell’Agenzia della Conservatoria delle Coste. L’obiettivo è quello di offrire uno strumento utile alla migliore gestione e indicazioni pratiche sul corretto comportamento da tenere nei confronti di alcune problematiche ricorrenti quali la pulizia delle spiagge, la gestione della posidonia spiaggiata, la conservazione dei sistemi dunali e degli stagni costieri temporanei e la preser-vazione dei fondali marini dall’ancoraggio non regolamentato. Tali misure preventive comprendono anche adeguate azioni di sensibilizzazione e di informazione mirata ai fruitori della fascia costiera che vengono affi date all’Agenzia della Conservatoria delle Coste della Sardegna.I fattori essenziali per la formazione delle dune sono la sabbia, il vento e la vegetazione. Le dune rappresentano il risultato di lenti processi di trasporto e di accumulo della sabbia, ad opera del vento e delle correnti marine lungo costa. La formazione delle dune è collegata inoltre ad un meccanismo di trasporto, che provvede alla distribuzione lungo costa dei materiali versati in mare dai corsi d’ac-qua, per effetto combinato di onde e correnti. Le dune costiere costituiscono habitat caratterizzati da comunità vegetali alle quali sono riconducibili i meccanismi più signifi cativi di consolidamento ed accrescimento.La vegetazione ha un ruolo fondamentale nella formazione e nella stabilizzazione delle dune attraver-so l’azione di rallentamento del vento e di consolidamento della sabbia, contribuendo alla protezione della fascia costiera dall’azione di erosione e proteggendo l’entroterra dall’invasione della sabbia. Le comunità vegetali che si sviluppano sulle coste sabbiose sono caratterizzate da specie botaniche alofi -te, ovvero specie aventi la caratteristica ecologica di potersi insediare in luoghi fortemente ventosi, salsi e con substrato incoerente come la sabbia. Una regressione della vegetazione in tale ambiente espone la duna all’erosione del vento.Anche sotto il profi lo faunistico gli ecosistemi dunali rappresentano habitat unici a cui va aggiunto il

ruolo irrinunciabile di corridoi ecologici in ambiente costiero, ovvero zone di collegamento tra diverse aree che favoriscono lo spostamento e la colonizzazione delle specie in aree limitrofe e garantiscono uno scambio genetico tra individui.Qualsiasi interferenza sul processo naturale di apporto e di trasporto verso mare dei sedimenti, com-porta il disequilibrio della spiaggia che si traduce, nella maggior parte dei casi, in erosione.Allo stato di conservazione delle dune e delle spiagge è strettamente legato quello di altri ecosistemi, di estrema importanza, quali gli ambienti umidi retrodunali, le lagune ed i laghi costieri, le foci fl uviali, sino alle praterie di Posidonia oceanica e di altre fanerogame marine.I sistemi dunali necessitano di protezione attraverso diverse tipologie di azione:

• una protezione fi sica che comprende l’installazione e la manutenzione di staccionate a bas-so impatto visivo che, nel delimitare e guidare i fl ussi di transito dei bagnanti, consentano l’indispensabile mantenimento della vegetazione. Importante supporto sono considerati pannelli informativi che contribuiscono ad informare e responsabilizzare chi utilizza i litorali della fragilità di questi ambienti e della necessità che vengano tutelati;

• una protezione formale, che include la possibilità di adottare apposite ordinanze attraverso le quali le autorità competenti preposte alla tutela delle dune regolamentino le attività per-messe e proibite nell’area previa defi nizione delle aree di duna e di spiaggia.

I sistemi dunali dovranno essere protetti dal calpestio e dall’utilizzo da parte dei turisti come luoghi di riposo attraverso il posizionamento di recinzioni in legno; un’adeguata informazione di accompagna-mento consentirà il rafforzamento dello strumento di tutela.Fermo restando che il traffi co veicolare e ciclabile deve essere interdetto, si dovranno identifi care gli accessi più adatti ad attraversare il sistema dunale per incanalare il transito pedonale e prevedere la chiusura degli stradelli formatisi dal calpestio tra le dune. Per l’accesso alla spiaggia si dovranno utilizzare passerelle in legno che possono essere posizionate sulla sabbia tra le dune fi sse, ma che dovranno essere sopraelevate in corrispondenza di dune mobili ed embrionali per garantire il trasporto della sabbia da parte del vento.La sopraelevazione, che dovrà essere suffi cientemente elevata da far passare la luce è utile, oltre che per evitare che le stesse passerelle siano facilmente sommerse, per consentire alla vegetazione di crescere. I sistemi sopraelevati dovranno possedere caratteristiche di accessibilità per i diversamente abili.Qualora il sistema dunale risultasse in consistente erosione dovranno essere previsti sistemi frangivento realizzati con materiali naturali e se necessarie dovranno essere effettuate opere per la regimazione delle acque di ruscellamento dalla strada alla spiaggia.La pulizia delle dune dovrà essere effettuata con l’utilizzo del punzone o altro sistema a mano atto a non danneggiare la vegetazione.

Baunei, Perda Longa Isola di Mal di Ventre, lato orientale

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Pula, Spiaggia di Santa MargheritaBaunei, Perda Longa Pula, Spiaggia di Santa MargheritaIsola di Mal di Ventre, lato orientale

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2.1 La “raccolta differenziata” delle acque di pioggiaPremessa e inquadramento generaleLe acque di pioggia che caratterizzano il defl usso nel periodo iniziale sono dette acque di prima piog-gia e costituiscono una delle principali sorgenti di inquinamento dei corpi idrici. Nell’atmosfera e sul terreno si accumulano, con modalità diverse legate alle stagioni e al clima, i pro-dotti fi nali di scarico delle attività umane: particolati, metalli pesanti e sostanze organiche. La pioggia, nei primi momenti, rileva questo stato di inquinamento dall’ambiente e compie un’azione di bonifi ca dell’atmosfera e dei terreni con effi cacia diversa a seconda dell’intensità e della durata della pioggia. Questa azione benefi ca si compie però a scapito della qualità dell’acqua che trasporta sostanze tossi-che e inquinanti.Risulta pertanto indispensabile adottare sistemi per l’avvio di tali portate all’impianto di trattamento, attraverso la rete di raccolta delle acque nere, per evitare che le sostanze in esse contenute vengano scaricate direttamente nei corpi idrici ricettori.Il D.Lgs. 152/200�, prevede che le regioni disciplinino “…i casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne siano convogliate e opportunamente trattate in im-pianti di depurazione per particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfi ci impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici” (art. 113, comma 3).La Regione Sardegna ha in corso di approvazione un’apposita Disciplina Regionale per gli scarichi che regolamenta, tra l’altro, la materia della raccolta e dello smaltimento delle acque di prima pioggia e di lavaggio delle superfi ci scolanti in cui si svolgono attività che possono rilasciare su tali superfi ci sostan-ze inquinanti. Sono identifi cate in particolare le seguenti attività:

• Industrie petrolifere e chimiche;• Estrazione, produzione, lavorazione, trasformazione e deposito di minerali e di inerti; • Trattamento e rivestimento dei metalli;• Concia e tintura delle pelli e del cuoio;• Produzione della pasta carta, della carta e del cartone;• Produzione di pneumatici;• Aziende tessili che eseguono stampa, tintura e fi nissaggio di fi bre tessili;• Aziende di produzione di cemento, calcestruzzo, conglomerati e assimilati; • Autoffi cine, carrozzerie;• Depositi di mezzi di trasporto pubblico, aeroportuali e portuali;• Aree di sosta di estensione superiore a 1’000 mq, calcolate escludendo le aree verdi e le coperture;• Aree di deposito e stoccaggio di rifi uti, centri di raccolta e/o trasformazione degli stessi, di

rottami e di veicoli destinati alla demolizione;• Superfi ci scolanti destinate al carico/scarico e alla distribuzione dei carburanti e combustibili ed

operazioni connesse e complementari nei punti di vendita e deposito;• Superfi ci scolanti specifi camente o anche saltuariamente destinate al deposito, al carico, allo

scarico, al travaso e alla movimentazione in genere delle sostanze pericolose.

Asinara Costa di BuggerruCastiadas Rio Piccocca

RISORSA IDRICA

Hanno collaborato: Bixio V., Bixio A. C., Dalla Villa E., Fanton P., Fiume A., Romagnoli V., Tortorelli M., Vazzoler C., Calegari G., Cappelletto C., Furlan S.

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La Conservatoria delle CosteNella Convenzione Europea sul Paesaggio, l’Unione Europea si sofferma sugli effetti della trasformazione dei paesaggi marini e costieri ad opera delle attività umane e propone, in suo sostegno, che vengano attivate forme di protezione, conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale e identitario locale. La Regione Sardegna vi aderisce attraverso il Piano Paesaggistico Regionale. La Conservatoria delle Coste, istituita con l’art. 1� della legge regionale 29 maggio 200� n. 2., è un’Agen-zia tecnico-operativa della Regione, che ha come obbiettivo quello di avviare un processo dinamico di tutela, gestione e valorizzazione che tenga conto sia della fragilità degli ecosistemi e dei paesaggi costieri, sia della diversità delle attività e degli usi, delle loro interazioni e dei loro impatti.L’agenzia fa propri strumenti normativi quali: il piano paesaggistico regionale, i piani territoriali di coordinamen-to, i piani urbanistici comunali, i piani di gestione dei parchi nazionali, delle aree marine protette, della zone ricadenti nelle aree SIC e ZPS, applicandoli nell’ambito delle proprie funzioni.Il ruolo della Conservatoria delle Coste, è di svolgere compiti di gestione integrata di quelle aree costiere di particolare rilevanza paesaggistica ed ambientale, di proprietà regionale o poste a sua disposizione da parte di soggetti pubblici o privati e che quindi assumono la qualità di aree di conservazione costiera. Le fi nalità istituzionali dell’Agenzia sono quelle di salvaguardia, tutela e valorizzazione degli ecosistemi costieri. Gli obiettivi principali della Conservatoria delle Coste si possono sintetizzare come segue:

• Gestione integrata delle aree costiere della Sardegna attraverso azioni di coordinamento e progettazione;

• Attività di cooperazione internazionale nell’ambito della gestione integrata delle aree costiere;• Recupero, conservazione e tutela di beni culturali ed ambientali del patrimonio costiero della

Sardegna;• Promozione e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali acquisiti attraverso strumenti

innovativi di sviluppo sostenibile;• Trasmissione culturale ed educazione ambientale, attraverso eventi e conferenze all’interno

delle scuole dell’obbligo, sull’importanza dell’ambiente e della sua conservazione come ere-dità per le generazioni future;

• Ricerca scientifi ca degli ambienti costieri e marini della Sardegna.

La Conservatoria può gestire i beni immobili costieri facenti parte del patrimonio e del demanio regionale o acquisire nuovi territori costieri dall’equilibrio ecologico più fragile o a rischio di degrado e compromis-sione. Dopo aver effettuato, laddove necessario, i lavori di riqualifi cazione ambientale al fi ne della conser-vazione naturalistica, identifi ca un modello per la gestione, la valorizzazione e lo sviluppo sostenibile delle stesse aree che vengono denominate “Aree di Conservazione Costiera”. A questo punto può predisporre i piani di gestione integrata per poi affi dare successivamente il controllo ad Enti locali, a cooperative, società di servizi o associazioni ambientaliste che dovranno, comunque, assicurare l’accesso al pubblico.Il 13 maggio 2008 a Cagliari, la Giunta regionale ha approvato un programma di buone pratiche per la gestione dei litorali: preservazione delle aree dunali e campi boe per l’ormeggio fi nalizzati a garantire la tutela e la conservazione dei fondali e della Posidonia. Le “Linee guida per la gestione della fascia costiera”, sono il frutto del lavoro degli uffi ci tecnici degli asses-sorati dell’Ambiente e degli Enti locali, con la collaborazione dell’Agenzia della Conservatoria delle Coste. Le linee guida non si limitano alla pulizia degli arenili e offrono uno strumento utile nei casi di: presenza di Posidonia spiaggiata; smaltimento della Posidonia spiaggiata; preservazione di ambienti di pregio quali dune e stagni costieri temporanei; ormeggio delle imbarcazioni in prossimità delle spiagge e preservazione dei fondali soprattutto in presenza di praterie di Posidonia. Le linee guida prevedono misure per la preservazione delle aree dunali, retrodunali e retrostagnali dal continuo calpestio dei campeggiatori e dei bagnanti, dal parcheggio e dal passaggio di moto e auto che distruggono la vegetazione pioniera dell’anteduna e quella più stabile della duna e della retroduna. Tali misure preventive comprendono anche adeguate azioni di sensibilizzazione e di informazione mirata ai fruitori della spiaggia. Anche il fenomeno diffuso dell’ancoraggio sottocosta delle numerose imbarcazioni da diporto, che si veri-fi ca durante la stagione estiva, causa la distruzione dei fondali. Le linee guida propongono la disposizione di campi boe per l’ormeggio fi nalizzati a garantire la tutela e la conservazione dei fondali.

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GIC

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Asinara Costa di BuggerruCastiadas Rio Piccocca

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A22 23

Lo scarico delle acque di prima pioggia e di lavaggio delle superfici scolanti è soggetto ad autorizzazio-ne, e sono previsti i seguenti recapiti, in ordine preferenziale:

1. Rete fognaria, nel rispetto delle norme tecniche, delle prescrizioni regolamentari e dei valori limite di emissione adottati dal gestore del servizio fognario-depurativo;2. Acque superficiali, nel rispetto dei valori limite di emissione previsti dal D.Lgs. 152/200� e dalla disciplina regionale in corso di approvazione;3. Suolo o strati superficiali del sottosuolo, nelle zone non direttamente servite da rete fognaria e non ubicate in prossimità di corpi idrici superficiali e solo qualora risulti non tecnicamente possibile o eccessivamente oneroso utilizzare i recapiti in rete fognaria o in acque superficiali;4. In ogni caso è vietato lo scarico o l’immissione diretta delle acque di prima pioggia e di lavaggio in acque sotterranee.

Alle acque di prima pioggia e di lavaggio deve essere destinata una specifica rete di raccolta e convo-gliamento la cui portata di dimensionamento deve essere calcolata assumendo che l’evento meteorico si verifichi in quindici minuti. Dovranno essere sempre adottati opportuni dispositivi, quali le vasche di prima pioggia, in grado di garantire la separazione e la raccolta delle acque di prima pioggia da quelle di seconda pioggia. Lo svuotamento della vasca di prima pioggia dovrà avvenire tra le 48 e le �2 ore dal termine delle precipitazioni. Per la gestione delle acque di prima pioggia e di lavaggio si prevedono opportuni trattamenti atti a rendere le acque idonee al tipo di scarico previsto.

Amministrazioni coinvolteIl progetto coinvolge Amministrazioni ed Enti Pubblici a vari livelli, secondo le specifiche competenze e gli strumenti a disposizione.

obiettivi del progettoLe esperienze condotte in altre regioni italiane e in altri Paesi evidenziano come, mediante la realizza-zione di vasche di volume relativamente modesto per lo stoccaggio e il successivo avvio al trattamento delle acque di prima pioggia, si possano realizzare notevoli miglioramenti qualitativi dei corpi idrici ricettori. La finalità del progetto è dunque la tutela delle acque dall’inquinamento per raggiungere gli obiettivi di qualità previsti dal D.Lgs. 152/200� per i corpi idrici.

Sviluppo del progettoL’inquinamento urbano diffuso varia con la tipologia d’uso del suolo; studi relativi ai differenti contri-buti di inquinamento originati dai diversi tipi di uso del suolo hanno consentito la seguente classifica-zione, in ordine decrescente, di carichi inquinanti generati:

• Aree urbane con attività di cantieri in corso;• Arterie di traffico;• Aree industriali;• Aree residenziali ad alta densità abitativa e zone commerciali, con fognatura;• Aree residenziali a media densità abitativa, con fognatura;• Aree residenziali a bassa densità abitativa, prive di fognatura;• Parchi ed aree ricreative.

Amministrazione o ente Strumento di controllo

Disciplina Regionale per la Tutela delle Acque

Rilascio autorizzazioni allo scarico

Rilascio autorizzazioni allo scarico

Regione

Provincia

ComuneRegolamenti edilizi

È stato evidenziato inoltre come le concentrazioni medie di inquinanti che si misurano nelle acque di sfioro di una fognatura mista siano superiori, ma tuttavia confrontabili, con quelle delle acque di scor-rimento urbane raccolte dalla fognatura bianca, come mostrato nella tabella seguente:

L’apporto di inquinanti nel corpo idrico ricettore è legato ai volumi affluiti e può risultare di notevole entità in caso di eventi pluviometrici intensi. Da osservazioni sperimentali è emerso come le con-centrazioni di inquinanti tendono a diminuire con l’evolversi della pioggia e buona parte del carico inquinante viene scaricato prima dell’arrivo del colmo di piena. La realizzazione di invasi in grado di intercettare le prime consistenti portate inquinate risulta quindi un intervento efficace per la riduzione dell’inquinamento e la tutela dei corpi idrici. Per il dimensionamento di un invaso per la raccolta delle acque di prima pioggia vengono confrontate nella tabella seguente la definizione di acque di prima pioggia che la Regione Sardegna sta approvan-do, con quelle adottate in alcune regioni italiane:

tipologia di acque bOD Solidi sospesi N tot P tot

Acque di sfioro di fognature miste

Acque di scorrimento urbane

120

27

410

630

11

2.5

4.3

0.8

[mg/l] [mg/l] [mg/l] [mg/l]

Tabella 2.1.1: Concentrazioni medie di inquinanti nelle acque di sfioro di fognature miste e nelle acque di scorrimento urbaneraccolte dalla fognatura bianca.

Regione Definizione di acque di prima pioggiaRiferimento legislativo

Acque corrispondenti, per ogni evento meteorico, ad una precipitazione di cinque millimetri uniformemente distribuita sull’intera superficie scolante; ai fini del calcolo delle portate si stabilisce che tale valore si verifichi in quindici minuti.

Disciplina regionale per gli scarichi (in corso di approvazione)

Sardegna

Quelle corrispondenti per ogni evento meteorico ad una precipitazione di 5 mm uniformemente distribuita sull’intera superficie scolante servita dalla rete di drenaggio. Ai fini del calcolo delle portate, si stabilisce che tale valore si verifichi in 15 minuti; i coefficienti dell’afflusso alla rete si assumono pari a 1 per le superfici coperte, lastricate o impermeabi-lizzate e a 0.3 per quelle permeabili di qualsiasi tipo, escludendo dal computo le superfici coltivate.

L.R. n. 62 del 27 maggio 1985

Lombardia

Quelle corrispondenti, nella prima parte di ogni evento meteorico, ad una precipitazione di 5 mm uniformemente distribuita sull’intera superficie scolante servita dalla rete di raccolta delle acque meteoriche.

D.P.G.R. 20 febbraio 2006, n. 1/R

Piemonte

I primi 2,5 – 5 mm. di acqua meteorica di dilavamento uniformemente distribuita su tutta la superficie scolante servita dal sistema di drenaggio. Per il calcolo delle relative portate si assume che tale valore si verifichi in un periodo di tempo di 15 minuti; i coefficienti di afflusso alla rete si considerano pari ad 1 per le superfici lastricate od impermeabilizzate. Restano escluse dal computo suddetto le superfici eventualmente coltivate.

D.G.R. 14 febbraio 2005, n. 286

Emilia Romagna

Le acque meteoriche di dilavamento di superfici di qualsiasi genere, che corrispondono ai primi 15 minuti di precipitazione e che producono una lama d’acqua convenzionale pari ad almeno 5 mm.

Piano di Tutela delle Acque, dicembre 2004

Veneto

Tabella 2.1.2: Confronto tra la definizione delle acque di prima pioggia in via di approvazione dalla Regione Sardegna e le definizioni adottate da alcune Regioni italiane.

23

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SA ID

RIC

A24 25

Adottando quindi la definizione della Regione Sardegna, il volume della vasca di prima pioggia viene calcolato moltiplicando il volume affluito di prima pioggia, corrispondente ad una precipitazione di 5 mm sull’intera superficie scolante, pari a 50 m3/ha, per l’estensione della superficie di scolo servita dalla vasca:

dove Vvasca

è espresso in m3, Sscolante

è espressa in ettari.

Nel caso di bacini di una certa estensione, le acque di prima pioggia provenienti dalle zone più distanti dal punto di stoccaggio, impiegano più tempo a raggiungere la vasca rispetto alle acque delle zone prossime al punto d’invaso; è possibile quindi che, anziché invasare le acque di prima pioggia dell’in-tero bacino, vengano stoccate le acque di prima e seconda pioggia delle aree più prossime alla vasca, con conseguente versamento di acque di prima pioggia inquinate provenienti dalle aree più distanti nel corpo idrico ricettore.La soluzione è quindi quella di adottare sistemi per lo stoccaggio delle acque di prima pioggia distri-buiti sul territorio e che interessino aree limitate: strade, parcheggi, piazzali di manovra e le coperture dei fabbricati.Si consideri ad esempio il caso di un’area privata, nella quale sono presenti due edifici ed un piazzale antistante dove possono transitare e sostare autoveicoli; si suppone che le relative superfici di scolo abbiano le seguenti dimensioni:

Il volume della vasca per lo stoccaggio delle acque di prima pioggia sarà quindi pari a:

• Nel sistema a reti separate il volume di prima pioggia viene intercettato e invasato nella vasca; il rilascio delle acque di prima pioggia nella fognatura nera avviene dopo un certo tempo, stabilito dalla disciplina regionale e comunque con portate molto basse, tali da non pregiudicare il funzionamento della rete nera. Una volta che la vasca risulta riempita, le por-tate meteoriche in arrivo sono convogliate direttamente alla fognatura bianca.

• Nel sistema a rete mista il volume di prima pioggia viene intercettato e invasato nella vasca. In seguito al riempimento della vasca le portate meteoriche sono convogliate direttamente alla fognatura. Al fine di avviare le acque di prima pioggia al trattamento, lo svuotamento della vasca di prima pioggia può avvenire solo quando la fognatura mista ritorna a funzio-nare in regime di acque nere e comunque dopo un certo tempo stabilito dalla disciplina regionale.

150 m2

400 m2

600 m2

150 m2

Copertura edificio A

Copertura edificio b

Piazzale di manovra

Giardino

Tabella 2.1.3: Dati ipotizzati per il calcolo esemplificativo del volume di una vasca di prima pioggia.

Nel caso di fognature miste, l’adozione di vasche di prima pioggia consente di ottenere un effetto di laminazione delle piene che riduce la frequenza degli sfiori e quindi del versamento di acque inquinate nel corpo idrico ricettore. Sarebbe utile prevedere inoltre dei dispositivi che consentano di separare all’origine le acque di prima pioggia da avviare in fognatura mista, dalle acque di seconda pioggia da avviare, nel caso in cui sia possibile, direttamente ad un corpo idrico oppure nel suolo, in presenza di terreni permeabili e falda sufficientemente profonda, con sistemi di pozzi o condotte drenanti.

Figura 2.1.1: Rappresentazione schematica del funzionamento di una vasca di prima pioggia in presenza di fognatura separata o mista.

Vvasca= Sscolante . Vaffluito = Sscolante . 50

Vvasca = (0.015 + 0.040 + 0.060 + 0.015) 50 = 6.5 m3

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2.2 Reti duali e riutilizzo dei reflui depurati

Premessa e inquadramento generaleL’utilizzo di risorse idriche non convenzionali oggi si presenta come un’azione prioritaria, alla luce del sempre crescente livello di inquinamento dei corpi idrici superficiali e dell’entità dello sfruttamento delle riserve idriche di acqua dolce. Nella regione Sardegna il problema della siccità ha afflitto la po-polazione per molti anni e tuttora, nonostante l’allarme sia finalmente rientrato, si pone come una questione di notevole importanza. Per tale motivo nell’attività di pianificazione la Regione ha preso più volte in considerazione la necessità di utilizzare risorse idriche alternative, in accordo anche con quanto previsto dalla normativa nazionale. Il d.Lgs. n. 152 del 3 aprile 2006, “Norme in materia ambientale”, considera più volte l’argomento, in particolar modo per quanto concerne il riutilizzo delle acque:

• La necessità di effettuare il riutilizzo viene più volte evidenziata dal decreto, il quale impo-ne che i Piani di bacino contengano ”le misure per contrastare i fenomeni di subsidenza e di desertificazione, anche mediante programmi ed interventi utili a garantire maggiore disponibilità della risorsa idrica ed il riuso della stessa” (Art. �5, comma 3); si evidenzia inoltre come sia necessaria “l’individuazione di misure tese alla conservazione, al risparmio, al riutilizzo ed al riciclo delle risorse idriche” (Art. �3, comma 2); al fine di incentivare il riu-tilizzo inoltre viene rilasciato il provvedimento di concessione alla derivazione solo se “non sussistono possibilità di riutilizzo di acque reflue depurate o provenienti dalla raccolta di acque piovane ovvero, pur sussistendo tali possibilità, il riutilizzo non risulta sostenibile sotto il profilo economico” (Art. 9� comma 3);

• “Coloro che gestiscono o utilizzano la risorsa idrica adottano le misure necessarie all’elimi-nazione degli sprechi ed alla riduzione dei consumi e ad incrementare il riciclo ed il riutilizzo, anche mediante l’utilizzazione delle migliori tecniche disponibili.” (Art. 98 comma 1);

• Il decreto dispone che le autorità competenti come ad esempio il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e le regioni adottino norme per il riciclo ed il riutilizzo delle acque (articoli 99 e 101);

• Gli scarichi, secondo il comma 8 dell’art. 104, devono essere destinati “ove possibile, al riciclo, al riutilizzo o all’utilizzazione agronomica”;

• Il decreto prevede una riduzione dei canoni di concessione per l’utenza di acqua pubblica “nell’ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle acque reimpiegando le acque risul-tanti a valle del processo produttivo o di una parte dello stesso”;

• Sono previste anche riduzioni delle tariffe, come riportato al comma � dell’art. 155: “Allo scopo di incentivare il riutilizzo di acqua reflua o già usata nel ciclo produttivo, la tariffa per le utenze industriali è ridotta in funzione dell’utilizzo nel processo produttivo di acqua reflua o già usata”.

Per quanto concerne il riutilizzo delle acque reflue, si fa riferimento al d.m. 12 giugno 2003 n. 185 “Regolamento recante norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue in attuazione dell’articolo 2�, comma 2, del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152” che dà tutte le disposizioni necessarie e stabilisce i criteri qualitativi dei reflui in uscita dagli impianti di depurazione e destinati al riutilizzo.Riferimenti alla necessità di utilizzare risorse idriche alternative sono numerosi anche nell’ambito della pianificazione regionale della Sardegna. Il Piano Stralcio di bacino per l’utilizzo delle Risorse Idri-che (PSuRI), al capitolo 3.1.4 della Relazione Generale, considera il tema dell’utilizzo delle risorse non convenzionali, che comprendono le acque di eduzione dalle miniere, le acque reflue di origine civile o industriale e le acque prodotte mediante processi di dissalazione di acque marine o salmastre; riguardo il riutilizzo dei reflui, il piano definisce tale pratica come la più efficace sia in termini tecnici che per la

salvaguardia dell’ambiente. Per quanto riguarda il Piano d’ambito della regione Sardegna, nella parte 1 della Relazione Generale si individua la pratica del riutilizzo come un modo per far fronte alla grave situazione idrica della regione, e si individuano come risorse idriche alternative, oltre alle acque reflue, anche quelle provenienti dai processi di dissalazione. Anche il Piano Stralcio direttore di bacino re-gionale (PSdRI) per l’utilizzo delle risorse idriche individua il riutilizzo come pratica fondamentale per gli usi agricoli in quanto libera risorse naturali per l’ambiente o per eventuali altri usi. La realizzazione di reti duali per il trasporto di acqua potabile e non potabile viene auspicata, laddove economicamente praticabile e tecnicamente realizzabile, dal Nuovo Piano Regolatore Generale degli Acquedotti della Sardegna (NPRGA). Anche l’Accordo di Programma Quadro “Risorse Idriche – opere fo-gnario-depurative” riporta tra le premesse che “in un’ottica di tutela, anche quantitativa del bene, inteso come valore da mantenere, risulta strategico adottare misure di risparmio idrico sviluppando in particolare il riutilizzo delle acque reflue depurate.” L’Accordo riporta inoltre gli interventi in via di esecuzione per quanto riguarda le opere fognario depurative, tra cui figurano anche interventi per il riutilizzo delle acque reflue. Uno degli obiettivi del Piano di tutela delle Acque (PtA), approvato il 4 aprile 200� in attuazione del D.Lgs. 152 /99 e in corso di attuazione e di aggiornamento, è la promozione di misure tese alla conservazione, al risparmio, al riutilizzo ed al riciclo delle risorse idriche.In tale piano (Relazione Generale parte A e B) sono presenti molti riferimenti al recupero e riutilizzo delle acque reflue. In tal senso, inoltre, la legge regionale 14/2000, all’art 3 prevede che “Il riutilizzo ai fini irrigui o produttivi delle acque reflue urbane, industriali e domestiche, previo adeguato trattamento, è da intendersi, ai sensi dell’articolo 26 del decreto legislativo n. 152 del 1999, come risorsa idrica non convenzionale restituita in ambiente o in ciclo produttivo, complementare allo scarico in corpo idrico superficiale, soggetto a preventiva comunicazione ai Comuni interessati e alle Province, con modalità di utilizzo secondo apposita direttiva emanata dall’Assessorato della difesa dell’ambiente. La mancata preventiva comunicazione, l’inosservanza delle modalità e siti di utilizzo, dei limiti di accettabilità e delle prescrizioni stabiliti nella direttiva citata, sono perseguiti con sanzioni amministrative (…) .” La Regione Sardegna, quindi, in attuazione sia delle norme nazionali e regionali sia della pianificazione di settore ha in corso di ultimazione il Piano del riutilizzo delle acque reflue che comprende un Piano direttore e una specifica Direttiva che entrerà in vigore entro il 2008.

Amministrazioni coinvolteIl progetto coinvolge Amministrazioni ed Enti Pubblici a vari livelli, secondo le specifiche competenze e gli strumenti a disposizione, come riportato nella seguente tabella.

Amministrazione o ente

Regione

Strumento di controllo

Regolamentazione dell’utilizzo di fonti idriche non convenzionali mediante adozione di leggi e regolamenti.

Gestione e controllo della distribuzione delle risorse idriche recuperate nelle reti di propria competenza.

Partecipazione al reperimento di risorse idriche alternative ed all’avvio dei progetti di utilizzo nell’ambito dell’uso irriguo.

Partecipazione al reperimento di risorse idriche alternative ed all’avvio dei progetti di utilizzo.

Adeguamento delle strutture impiantistiche depurative, gestione delle reti di trasporto nelle aree di propria competenza.

Consorzi di Bonifica

ERA, ERSAT, LAORE

ENAS (Ente acque della Sardegna)

Abbanoa S.p.a.

RIS

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A28 29

obiettivi del progettoPer far fronte alla scarsità di acqua potabile, per conseguire il fine del risparmio idrico e per favorire la riduzione dell’inquinamento dei corpi idrici superficiali è necessario orientarsi verso l’utilizzo di risorse idriche non convenzionali. Tra queste il riutilizzo dei reflui si configura, anche alla luce della più recente normativa, come l’azione prioritaria: essi costituiscono infatti una risorsa strategica specialmente in ambiente mediterraneo. Obiettivo primario del presente progetto è dunque guidare le Pubbliche Am-ministrazioni nella scelta della realizzazione di un sistema di utilizzo di acque non potabili, mediante l’esposizione dei diversi aspetti correlati a tale decisione.

Sviluppo del progettoSpesso l’acqua potabile viene utilizzata anche per usi che non necessitano di acqua ad elevato grado di purezza. Questi usi sono, analogamente a quanto riportato all’art. 3 del D.M. 185/2003:

• Irrigazione di colture sia destinate alla produzione di alimenti che a fini non alimentari;• Irrigazione di parchi e verde pubblico in generale;• Lavaggio strade;• Alimentazione sistemi di riscaldamento e raffreddamento;• Reti ed interventi antincendio;• Circuiti industriali di raffreddamento dei macchinari;• Alimentazione degli impianti di scarico nei servizi igienici domestici.

Le tipologie di acqua non potabile utilizzabili per tali scopi sono le seguenti:

a) Acque marine o salmastre;b) Acque grezze superficiali, ovvero le acque di derivazione da corpi idrici superficiali quali laghi e corsi

d’acqua, e le acque meteoriche fatta eccezione per le acque di prima pioggia;c) Acque reflue, ovvero gli effluenti degli impianti di depurazione prima dello scarico al recettore finale.

L’utilizzo di queste risorse idriche alternative è reso possibile dalla realizzazione di una rete duale di trasporto che permette, nel caso delle acque grezze, di bypassare il processo di potabilizzazione, ed in tutti i casi di fornire alle utenze un duplice servizio di fornitura di acqua potabile e di acqua non potabile.La pratica del riutilizzo comporta i seguenti vantaggi:

• L’aumento della disponibilità di acqua potabile per usi civili;• Il risparmio economico conseguente alla ridotta necessità di potabilizzazione delle acque

grezze;• Nel caso del riutilizzo delle acque reflue, la riduzione dei volumi degli effluenti depurati sca-

ricati nei corpi idrici recettori e la conseguente diminuzione dell’inquinamento;• La possibilità di utilizzare a scopo irriguo acque reflue con un contenuto di nutrienti tale da

incrementare la produzione nelle aree a carenza idrica.

Dall’altro lato l’adozione di questa pratica necessita di ingenti investimenti connessi alla realizzazione della rete di distribuzione dell’acqua non potabile.In ogni caso, nella fase di valutazione della fattibilità di un intervento di realizzazione di una rete di distribuzione parallela a quella di distribuzione dell’acqua potabile è necessario: 1) Tenere in consi-derazione i futuri gestori ed utilizzatori del servizio, soprattutto per quanto riguarda il riutilizzo di acque reflue, prevedendo campagne di sensibilizzazione ed informazione; 2) Valutare attentamente, soprattutto per l’utilizzo irriguo, la porosità e la permeabilità del suolo, in modo che si eviti il rischio di percolazione in falda di sostanze inquinanti.

a) Reti duali alimentate da acque marine o salmastreLe acque salmastre possiedono generalmente una salinità pari a 2 – 10 psu, mentre l’acqua di mare è caratterizzata da un valore medio di salinità pari a 35 psu (soggetto a variazioni locali e stagionali). L’utilizzo di acque marine o salmastre come risorse idriche non convenzionali è possibile previo trattamento di dissalazione o, se a fini irrigui, previa miscelazione con acque dolci. Il trattamento di dissalazione, nonostante per gli utilizzi sopra riportati non sia necessario garantire una efficienza elevata di rimozione dei sali, è oneroso dal punto di vista economico e richiede, per la produzione di elevati volumi d’acqua, impianti di notevoli dimensioni. Le tipologie di trattamento oggi maggiormente utilizzate per la dissalazione sono la distillazione, o dissalazione per via termica, e l’osmosi inversa. Queste tecniche sono attualmente molto dif-fuse nei paesi arabi ed in Israele, in cui la situazione idrica è critica ma vi è elevata disponibilità di petrolio. Il processo di distillazione richiede infatti un’elevata quantità di carburante per il riscaldamento dell’acqua, mentre il trattamento di osmosi inversa richiede elettricità per l’ap-plicazione all’acqua della pressione necessaria per l’attraversamento della membrana filtrante. Inoltre il processo di dissalazione produce la cosiddetta salamoia, ovvero un residuo liquido a salinità molto elevata, il cui scarico può creare problemi alla vegetazione del corpo idrico recet-tore. Una stima del fabbisogno energetico e della potenza impegnata dai due sistemi di dissala-zione è riportata nella Tabella 2.2.1. La stima è stata effettuata supponendo di dover soddisfare un fabbisogno idrico per abitante pari a 200 litri/giorno, con un consumo specifico di 4,5 kWh elettrici per m3 di acqua dissalata, ipotizzando un funzionamento nelle condizioni nominali di �900 ore/anno e assumendo come utilizzo dell’acqua dissalata quello idropotabile.

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Il consumo di energia elettrica pro capite per la Sardegna nell’anno 2004 è risultato essere pari a �,1�4 kWh/ab (Fonte: PEAR Sardegna 200�). Considerando la popolazione della regione e confrontando quindi i consumi energetici totali con i consumi legati alla dissalazione si ricava che il trattamento termico genera un consumo annuo di energia elettrica pari al �5% dell’ener-gia elettrica consumata in un anno dalla popolazione sarda, mentre il trattamento di osmosi inversa comporta un consumo pari al 4,�% del consumo totale annuo.L’utilizzo combinato di acque dolci e acque salmastre in agricoltura è una tecnica diffusa in molti Paesi mediterranei, in modo particolare in Israele; in Italia è praticata soprattutto in Pu-

Areeurbane

Abitanti Produzioneidrica

(m3/d)

Fabbisogno di energia

(GWh/anno)

309346 61869,2 1459,06 184,7 101,62 12,86

59452 11890,4 280,41 35,5 19,53 2,47

146877 29375,4 692,76 87,7 48,25 6,107

40746 8149,2 192,18 24,3 13,39 1,527

42296 8459,2 199,49 25,5 13,89 1,758

39372 7874,4 185,70 23,3 12,93 1,63

638089 127617,8 3009,62 380,9 209,61 26,53

dissalazione termica osmosi inversa

CAGLIARI

IGLESIAS-CARBONIA

SASSARI-PT

OLBIA

ORISTANO

ALGHERO

TOTALE

Potenza impegnata

(mW)

Fabbisogno di energia

(GWh/anno)

Potenza impegnata

(mW)

Tabella 2.2.1: Consumi energetici della dissalazione per via termica e mediante osmosi inversa (Fonte: Progetto di Piano Energetico Regionale Volume II, 2002).

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glia. È comunque una tecnica che necessita di ulteriori studi e non viene attualmente applicata su larga scala.I problemi connessi all’utilizzo di acque ad elevato contenuto di sali riguardano, per tutti gli usi (irriguo, civile ed industriale), il rischio di corrosione delle condotte e di ogni altro apparato di controllo realizzato in metallo, con la conseguente necessità di utilizzare quindi materiali resistenti come acciaio inossidabile e materiali quali PVC, PET e PRFV. Inoltre il ruscellamento superficiale e la percolazione delle acque ad elevato contenuto di sali pone il rischio della sali-nizzazione e dell’inquinamento dei corpi idrici superficiali e delle falde acquifere. Per quanto riguarda invece gli usi agricoli i problemi principali sono connessi al possibile effetto tossico sulle colture ed alla destrutturazione dei suoli. Essa è dovuta principalmente all’accu-mulo di sodio: in presenza di questo elemento infatti i colloidi presenti nel suolo si idratano immediatamente all’inumidirsi del terreno, provocando un accumulo di acqua in superficie. Viceversa, in assenza di umidità i colloidi si separano provocando la repentina fessurazione. Il progressivo accumulo rende via via più grave il disturbo osmotico, e l’elevata concentrazione di sali nel terreno inibisce l’assorbimento di acqua da parte delle piante e provoca l’isterilimento del suolo. In aggiunta l’utilizzo di acque marine e salmastre comporterebbe costi considerevoli connessi al sollevamento ed al trasporto di queste verso le aree più interne.

b) Reti duali alimentate da acque grezzeDato l’elevato contenuto di solidi sospesi che potrebbero creare problemi di ostruzione delle condotte, queste acque devono essere sottoposte a trattamenti primari di tipo fisico, quali grigliatura, sedimentazione primaria o filtrazione. L’utilizzo di acque grezze viene già praticato in agricoltura ed in alcuni impianti industriali che le utilizzano come acque di raffreddamento. Nel caso quindi sia già presente una condotta di distribuzione di acque grezze all’interno del tessuto urbano risulta conveniente l’allacciamento a questa per l’espletamento delle funzioni di lavaggio delle strade ed irrigazione di parchi e verde pubblico. La realizzazione di una rete di distribuzione dell’acqua grezza parallela a quel-la dell’acqua potabile renderebbe possibile anche l’allacciamento delle utenze domestiche e l’utilizzazione quindi di dette acque per gli scarichi dei servizi igienici e le operazioni di innaf-fiamento di orti e giardini privati. L’utilizzo di queste acque può tuttavia richiedere in alcuni casi trattamenti chimici di disinfe-zione per la rimozione di agenti patogeni che possono essere presenti a causa di fenomeni più o meno accentuati di inquinamento dei corpi idrici da cui viene effettuata la derivazione. Il rispetto di requisiti minimi di qualità delle acque non potabili è di fondamentale importanza in quanto l’utilizzo ed il trasporto di acque con agenti patogeni o concentrazioni eccessive di determinate sostanze potrebbe portare a fenomeni di contaminazione dei suoli o delle falde a causa del ruscellamento e della percolazione di tali acque.

c) Reti duali alimentate da acque reflueIl riuso di acque provenienti dagli impianti di depurazione consegue il triplice fine di recuperare volumi d’acqua in aree che presentano deficit critico, soprattutto durante i mesi estivi, svincola-re risorse idriche pregiate per usi civili e ridurre l’inquinamento dei corpi idrici recettori. Il riutiliz-zo dei reflui richiede tuttavia un trattamento più spinto dei liquami, in quanto è necessario ga-rantire l’assenza di batteri e sostanze inquinanti, sia per il riutilizzo agricolo che per quello civile ed industriale. In relazione alle caratteristiche chimiche, biologiche e microbiologiche del refluo depurato è quindi necessario prevedere caso per caso la realizzazione di trattamenti terziari di affinamento, che possono consistere in trattamenti di defosfatazione, nitrificazione-denitrifica-zione, filtrazione, disinfezione ecc. Per la rimozione del carico di nutrienti in eccesso può essere vantaggiosa la realizzazione di un trattamento di affinamento mediante fitodepurazione.Per quanto riguarda l’utilizzo in agricoltura, gli effetti negativi sul terreno e sulle colture del-l’utilizzo di reflui possono essere dovuti principalmente alla presenza di macroelementi quali sodio, calcio, magnesio, cloruri e solfati, e alcuni microelementi come il boro. L’accumulo di sali, come già riportato, provoca i fenomeni della destrutturazione ed isterilimento del suolo. Il boro

è una sostanza che spesso è presente nei reflui di origine civile, a causa dell’elevato consumo di detergenti contenenti perborato: la concentrazione di boro può infatti raggiungere i 2 mg/l, rendendo rischiosa l’irrigazione di alcune colture sensibili (come gli agrumi). I reflui, principal-mente quelli di origine industriale, possono inoltre contenere concentrazioni non trascurabili di metalli pesanti che possono esercitare un effetto tossico sulle colture. Per quanto riguarda l’utilizzo di reflui a fini irrigui è inoltre necessario prevedere bacini di accumulo o individuare corpi idrici in grado di invasare le acque in eccesso prodotte durante i mesi invernali, in quanto il depuratore produce volumi pressoché costanti di acqua durante i vari mesi dell’anno mentre la domanda di acqua non potabile è soggetta ad oscillazioni di tipo stagionale.Il riutilizzo dei reflui per usi civili ed irrigui può infine generare anche un rischio per la salute umana connesso alla presenza di agenti patogeni come escherichia coli e salmonella.Il D.M. 185/2003 riporta in allegato una tabella contenente i limiti di qualità per il riutilizzo dei reflui. Essi garantiscono la possibilità di utilizzo irriguo, civile e industriale in condizioni di sicurezza. Nonostante ciò è necessario definire delle procedure di controllo e monitoraggio sia delle caratteristiche qualitative delle acque, in modo da evitare fenomeni di inquinamento dei suoli e delle falde e rischi per la salute umana dovuti alla presenza di agenti patogeni, sia degli effetti ambientali del riutilizzo; in particolar modo per l’utilizzo irriguo dei reflui va previsto un piano di controllo qualitativo delle acque rigenerate prima della distribuzione e nelle aziende agricole, con analisi sul suolo irrigato e sulle colture.

Riutilizzo dei reflui nell’impianto di depurazione di Is ArenasI reflui in uscita dall’impianto di Is Arenas vengono attualmente scaricati a mare e in parte riutilizzati nell’Ecosistema filtro; dopo ulteriore affinamento mediante fitodepurazione, vengono utilizzati per alimentare lo stagno del Bellarosa minore facente parte del più vasto compendio del Molentargius a Cagliari.Nel 2002 i reflui provenienti da Is Arenas, previo affinamento nell’impianto terziario e accumulo nel bacino del Simbirizzi, sono stati riutilizzati a scopo irriguo nella zona del Campidano meridionale. Perché questo fosse possibile l’impianto è stato dotato di un terzo stadio di trattamento, che prevede la defosfatazione chimica invernale (provvede all’abbattimento del �0% del fosforo presente) e la sterilizzazione mediante 5�� lampade a raggi UV-c durante i mesi estivi. L’effluente depurato veniva poi sollevato al lago Simbirizzi, utilizzato nella stagione invernale sia come serbatoio di regolazione dei reflui trattati sia per un’opportuna miscelazione con una quota parte di acque provenienti dai laghi del Flumendosa. Nella stagione irrigua invece i reflui trattati erano prelevati dal lago ed utilizzati per l’irrigazione oppure, se le caratteristiche chimiche, fisiche e microbiologiche lo consentivano, potevano bypassare l’invaso ed essere immessi direttamente nella rete irrigua. L’impianto di trattamento terziario di Is Arenas, che ha una capacità produttiva di 35 milioni di m3 all’anno, serviva �900 ha di distretti irrigui con una dotazione irrigua di �000 m3/ha/anno, producendo refluo riciclato al costo di 0,08 e/m3.Il riutilizzo dei reflui depurati dell’impianto di Is Arenas è stato sospeso a causa delle infiltrazioni di acque salmastre che, aumentando notevolmente le concentrazioni di cloruri, rendevano tossiche per le colture e dannose per i suoli tali acque.Un impianto attualmente funzionante per il riutilizzo a fini irrigui dei reflui depurati è quello del Comu-ne di Villasimius. L’impianto, ultimato nel 1999, è stato progettato per l’affinamento di �’000 m3/gior-no di acqua depurata, al fine di irrigare 250 ettari di aree agricole e 150 ettari in zona turistica.

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Tabella 2.2.2: Aspetti positivi e negativi legati all’utilizzo delle risorse idriche alternative proposte.

Acque marine o salmastre

Risorse alternative

• Rimozione solidi sospesi (sedimentazione primaria filtrazione)• Dissalazione • Miscelazione con acqua dolce (acque salmastre)

trattamenti necessari

Campi di utilizzo

IrriguoCivileIndustriale

• Possibilità risparmio acqua per consumo idropotabile

• Risparmio per ridotta necessità di potabilizzazione

• Elevate quantità disponibili

• Limitata necessità di trattamento per acque salmastre

miscelate con acque dolci

Aspetti positivi

Aspetti negativi

• Costi realizzazione rete di trasporto

• Costi elevati per trattamento di dissalazione

• Costi per sollevamento e trasporto acque

marine verso zone interne

• Possibilità corrosione parti metalliche

• Possibilità effetti negativi sul suolo (per acque salmastre non dissalate)

Acque grezze

• Rimozione solidi grossolani (grigliatura)• Rimozione solidi

sospesi (sedimentazione

primaria, filtrazione)• Disinfezione

(eventuale)

IrriguoCivileIndustriale

• Possibilità risparmio acqua per consumo idropotabile

• Risparmio per ridotta necessità di potabilizzazione

• Limitata necessità di trattamento

• Possibilità dell’esistenza di

condotte nel tessuto urbano• Bassi costi di trattamento

• Costi realizzazione rete di trasporto

• Possibilità presenza agenti patogeni

(in assenza di disinfezione)

Acque reflue

• Rimozione solidi grossolani

(grigliatura)• Rimozione solidi

sospesi (sedimentazione

primaria, filtrazione)• Disinfezione

(eventuale)

IrriguoCivileIndustriale

• Possibilità risparmio acqua per consumo idropotabile

• Risparmio per ridotta necessità di potabilizzazione

• Riduzione inquinamento corpo idrico recettore• Possibile incremento

produzione agricola per nutrienti già presenti nel refluo

• Costi realizzazione rete di trasporto

• Necessità individuazione bacino di regolazione

per mesi invernali• Costi per la realizzazione e la gestione dei trattamenti di affinamento

2.3 Sistemi vegetati per la riduzione dell’inquinamento di origine diffusa

Premessa e inquadramento generaleL’inquinamento di origine diffusa è attualmente una delle tipologie di contaminazione dei corpi idrici che richiede maggiore attenzione, essendo un problema di elevata entità quanto di complessa gestio-ne: gli apporti di contaminanti provengono infatti sia dal dilavamento delle superfici agricole sia dal dilavamento delle superfici urbane, e possono essere presenti sia in forma particolata che in forma disciolta. Le sostanze inquinanti provenienti da zone ad utilizzo agricolo intensivo sono principalmente:

• Fertilizzanti (contenenti nutrienti quali azoto e fosforo);• Pesticidi ed erbicidi.

Gli apporti dovuti ad attività zootecniche sono invece costituiti da:

• Sostanza organica e nutrienti;• Carica batterica (agenti patogeni).

Infine le aree urbane contribuiscono all’inquinamento diffuso principalmente mediante:

• Oli lubrificanti;• Liquidi antigelo;• Sali.

Per proteggere i corpi idrici dall’inquinamento diffuso è necessario adottare le cosiddette Best Mana-gement Practices (BMP), ovvero sistemi, tecniche e misure atte a prevenire o ridurre l’inquinamento di origine diffusa delle acque attraverso i mezzi più idonei ed efficienti per produrre un’acqua di qualità. Soluzioni particolarmente efficaci sono i sistemi vegetati, che comprendono fasce tampone (sistema naturale non strutturato), fasce filtro e canali inerbiti (sistema strutturato). Le fasce tampone sono BMP particolarmente adatte all’utilizzo in aree agricole, le fasce filtro sono sistemi facilmente realizzabili sia in aree urbane che in aree agricole, mentre i canali inerbiti sono BMP diffuse principalmente in aree urbane. In queste ultime le BMP citate possono essere considerate solamente come interventi di mitigazione, laddove quindi la creazione di nuove aree urbane porti ad un aumento del ruscellamento superficiale e quindi anche delle quantità di sostanze inquinanti trasportate. Nelle zone urbane infatti tutte le super-fici impermeabilizzate dovrebbero essere collegate ad un sistema di scolo delle acque meteoriche che provveda alla “raccolta differenziata” delle acque di prima pioggia, da inviare alla depurazione (si veda a questo proposito la scheda “La raccolta differenziata delle acque di pioggia”): è questo infatti il sistema più efficiente per la rimozione delle sostanze inquinanti dalle acque di pioggia.La vegetazione riparia e le fasce tampone sono in grado di ridurre l’inquinamento diffuso mediante l’intercettazione ed il filtraggio dei sedimenti trasportati dalle acque di dilavamento e tramite l’assorbi-mento e la degradazione di nutrienti ed altre sostanze da parte delle piante e dei microrganismi che si sviluppano nella zona delle radici. Oltre a ciò, la vegetazione riparia svolge anche importanti funzioni di stabilizzazione delle sponde, mitigazione della velocità delle acque di ruscellamento e protezione degli ecosistemi acquatici e ripari.L’importanza di queste fasce è riconosciuta dal d.Lgs. 152/06 il quale delega alle regioni l’autorità di disciplinare gli interventi per il mantenimento e la gestione di tali aree. L’art. 115 (tutela delle aree di pertinenza dei corpi idrici) riporta infatti quanto segue: “Al fine di assicurare il mantenimento o il ripristino della vegetazione spontanea nella fascia immediatamente adiacente i corpi idrici (…) le regioni disciplinano gli interventi di trasformazione e di gestione del suolo e del soprassuolo previsti nella fascia di almeno 10 metri dalla sponda di fiumi, laghi, stagni e lagune (…). “

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Specifiche riguardanti la salvaguardia della vegetazione riparia nelle fasce di tutela dei corpi idrici su-perficiali sono presenti anche all’interno delle norme di attuazione del Piano stralcio per l’Assetto Idrogeologico (PAI) della Regione Sardegna, che:

• Vieta, nelle fasce di tutela dei corpi idrici superficiali, tutti i tagli di vegetazione riparia naturale ed eccezione di quelli richiesti da una corretta manutenzione idraulica (art. 8, comma 9);

• Elenca le finalità riconosciute alle fasce di tutela dei corpi idrici superficiali, tra cui la conserva-zione della naturalità e della biodiversità dei corsi d’acqua, il mantenimento della vegetazione riparia spontanea con particolare riferimento a quella capace di rinsaldare gli argini e stabiliz-zare i terreni limitrofi, e la capacità di favorire la creazione di fasce tampone (art. 8, comma 11);

• Esplicita la necessità di tutelare la vegetazione riparia. Per quanto concerne le attività sel-vicolturali ai fini di prevenzione dei pericoli e dei rischi idraulici, dispone infatti di: “a) evitare i tagli in alveo e l’eliminazione della vegetazione ripariale dei corsi d’acqua se non per motivi insuperabili di sistemazione e manutenzione idraulica; b) favorire la ricostituzione di vegeta-zione elastica resistente agli allagamenti ed adatta ai processi di fitodepurazione; (…).” (art. 11, comma 3);

• Riporta disposizioni specifiche sulle caratteristiche della vegetazione ripariale compatibile, e sulle operazioni da effettuare per la manutenzione: “Gli interventi di manutenzione della vegetazione ripariale sono orientati preferibilmente all’impianto e alla conservazione di specie autoctone e comunque garantiscono che le specie compatibili: a) possiedano caratteristiche morfomeccaniche e di elasticità tali da resistere allo scalzamento dall’alveo; b) siano preferibil-mente mantenute a coltivazione cedua rinnovata continuativamente al primo turno utile, con densità tale da ottenere una distanza reciproca delle ceppaie e con un numero di polloni tale da assicurare il massimo risultato in termini di sicurezza idraulica.” (art. 15, comma 4);

• Per quanto riguarda le funzioni di stabilizzazione delle sponde e riduzione della velocità del-l’acqua, connesse alla riduzione del rischio idraulico, riporta: “(…) nelle aree di pericolosità idraulica molto elevata sono consentiti esclusivamente: (…) d) le opere di sistemazione e riqualificazione ambientale e fluviale dirette alla riduzione dei pericoli e dei danni potenziali da esondazione, rivolti a favorire la ricostituzione degli equilibri naturali, della vegetazione autoctona, delle cenosi di vegetazione riparia; (…).” (art. 2�, comma 1).

Infine il Piano di tutela delle Acque della Regione Sardegna, nella tabella riepilogativa del processo di attuazione delle misure riportata in Appendice, individua la “tutela della vegetazione ripariale e ecosi-stema, conservazione della biodiversità”, come obiettivo per la verifica dell’efficacia dei provvedimenti adottati ai fini della tutela delle aree di pertinenza dei corpi idrici.

Amministrazioni coinvolteIl progetto coinvolge Amministrazione ed Enti Pubblici a vari livelli, secondo le specifiche competenze e gli strumenti a disposizione, come riportato nella seguente tabella.

Amministrazione o ente

Regione

Strumento di controllo

Disciplina regionale degli interventi come indicato dal D.Lgs. 152/06, art. 115.

Controllo, monitoraggio, programmazione degli interventi, inclusione degli interventi negli strumenti urbanistici.

Controllo, monitoraggio, programmazione degli interventi in ambiti di propria competenza.

Progettazione e gestione degli interventi di mantenimento, protezione e realizzazione delle fasce tampone-

Comuni

Consorzi di bonifica

Ente Foreste

obiettivi del progettoL’obiettivo del progetto di seguito presentato è condurre le diverse Amministrazioni e gli Enti coinvolti alla realizzazione di BMP come fasce tampone, mantenimento della vegetazione riparia e realizzazione di sistemi di mitigazione che possano attenuare l’impatto della crescente urbanizzazione sulle caratte-ristiche qualitative dei corsi d’acqua. A tale scopo si intende quindi fornire informazioni esaustive circa le diverse funzioni di questi sistemi, in particolar modo in relazione all’obiettivo di riduzione dell’inqui-namento diffuso, ed alcune indicazioni pratiche riguardanti la realizzazione delle BMP proposte.

Sviluppo del progettoIl ruscellamento superficiale è il fenomeno responsabile del trasporto dei sedimenti, ovvero delle par-ticelle minerali insolubili in sospensione, e delle sostanze più fortemente adsorbite alle particelle di suolo, come nutrienti e pesticidi. In assenza di “barriere”, i sedimenti e le sostanze su di essi adsorbite vengono trasportati direttamente nei corpi idrici che ricevono le acque di ruscellamento, provocando-ne l’inquinamento. Le fasce tampone (buffer strips) si definiscono come fasce di vegetazione erbacea e/o arborea (in tal caso prendono il nome di fasce tampone boscate) che separano i corpi idrici superficiali (scoline, fossi, canali, fiumi, laghi) da una possibile fonte di inquinamento diffuso (aree agricole, strade ecc.). Esse svolgono quindi prevalentemente la funzione di barriere fisiche tra zone a differente utilizzo, ma non solo. Sono infatti in grado di:

• Filtrare i contaminanti: La vegetazione, rallentando il flusso delle acque, induce la sedi-mentazione dei solidi sospesi. La presenza delle radici migliora inoltre la struttura ed au-menta la porosità del suolo, favorendo la percolazione delle acque contenenti sostanze in-quinanti disciolte nel sottosuolo; esse inoltre creano un fitto reticolo che funge da substrato per lo sviluppo e la crescita di microrganismi. Nella zona adiacente alle radici si instaurano condizioni ossidate e ridotte che si alternano permettendo la coesistenza di processi micro-bici che richiedono condizioni redox opposte, come la nitrificazione e la denitrificazione. Inoltre parte dei nutrienti (azoto e fosforo) contenuti principalmente nelle acque provenienti dal dilavamento delle aree agricole viene assorbita dalle radici delle piante che li utilizzano per la crescita. L’azione di filtro delle fasce tampone è massima quando il trasporto di acqua e inquinanti avviene perpendicolarmente all’asse del corso d’acqua, e risulta invece sensibil-mente ridotta in corrispondenza di un’interruzione di continuità della fascia;

• Ridurre la velocità dei flussi in arrivo: L’ambiente ripario funge da ostacolo idraulico, rallentandone il flusso delle acque di dilavamento verso il corpo idrico superficiale. Questo permette di ridurre la potenziale erosione o degradazione dei canali e di favorire la ricarica delle falde grazie all’incremento della quantità di acqua che si infiltra nel terreno;

• Stabilizzare le sponde dei corsi d’acqua: Le radici, in particolar modo quelle della com-ponente arborea, svolgono un’importante funzione di stabilizzazione delle sponde, grazie alla creazione di un reticolo che aumenta la coesione del suolo;

• Favorire l’aumento della biodiversità: le zone tampone hanno la funzione di habitat per numerose specie selvatiche; l’ambiente ripario è un corridoio ecologico, funge infatti da tes-suto connettivo tra ecosistemi diversi. Inoltre le specie arboree forniscono ombra, la quale riduce la temperatura dell’acqua ed evita il verificarsi di brusche oscillazioni che sarebbero dannose per le specie acquatiche;

• Incrementare la valenza paesaggistica: le zone adiacenti ai corsi d’acqua, se opportu-namente mantenute e gestite, possono acquisire un notevole valore paesaggistico che può portare vantaggi di tipo economico legati alle attività ricreative sviluppabili.

Le fasce tampone possono essere presenti naturalmente lungo i corsi d’acqua, oppure possono venire realizzate appositamente. Le superfici delle fasce tampone possono essere lineari oppure avere forme libere che seguono la conformazione del territorio. La larghezza delle fasce è determinata dall’ingom-bro delle piante a maturità, e dipende dalla pendenza del terreno in direzione del corso d’acqua: in

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generale per garantire una significativa efficacia la fascia deve essere larga almeno 3-5 m. La vegetazione più idonea dipende da diversi fattori, quali per esempio:

• Caratteristiche pedo-climatiche della zona;• Necessità di espletare funzioni aggiuntive (filtro per rumore, barriere visive ecc.);• Necessità di manutenzione.

E’ comunque sempre necessario scegliere specie autoctone preferibilmente già presenti lungo le spon-de del corso d’acqua interessato.Lungo i corsi d’acqua arginati le fasce tampone vanno poste in aree golenali ed in banchine all’interno dell’alveo o in prossimità del piede esterno dell’argine, in modo da essere efficaci e nel contempo non creare pericolo per la stabilità dell’argine stesso.

Le fasce filtro (vegetated filter strips) sono sezioni di terreno densamente vegetate progettate al fine di:

• Convogliare le acque di pioggia in modo laminare da un’area urbanizzata o agricola adiacente al corpo idrico recettore: queste fasce indirizzano infatti le acque da trattare attra-verso superfici alberate o più spesso solamente inerbite, che ne rallentano il flusso;

• Rimuovere le sostanze inquinanti: il passaggio attraverso una superficie vegetata de-termina la rimozione delle sostanze particolate inquinanti attraverso la sedimentazione e l’assorbimento da parte delle piante dei nutrienti disciolti;

• Favorire l’infiltrazione nel suolo delle acque di pioggia con conseguente riduzione del ru-scellamento superficiale, riduzione della potenziale erosione dei canali ed incremento della ricarica della falda.

La larghezza delle fasce filtro dipende da:

• Pendenza del terreno;• Lunghezza del pendio;• Estensione totale della superficie scolante.

In generale la pendenza del terreno dovrebbe essere compresa tra il 2 ed il �%. Per pendenze comprese in questo range è stato calcolato che una fascia della larghezza di circa 3 metri è in grado di rimuovere fino al �0% dei solidi sospesi sedimentabili. La tipologia di vegetazione più idonea è rappresentata da piante erbacee perenni di altezza elevata: esse sono infatti in grado di trattenere quantità maggiori di solidi sospesi e di rallentare il flusso delle acque. Per incrementare l’efficacia depurativa delle fasce è opportuno predisporre, parallelamente alla fascia di vegetazione erbacea, anche una fascia di vege-tazione arbustiva o arborea. Per evitare che sostanze contaminanti raggiungano la falda, è necessario rispettare una distanza minima di 0,9 m dal livello di massima escursione della falda, entro 10 m dal perimetro della zona dove si verifica l’invaso temporaneo. E’ importante infine eseguire una periodica manutenzione, al fine di eliminare gli accumuli di sedimenti che andrebbero a ridurre la capacità di trattenimento della vegetazione e quindi l’efficienza del sistema.

I canali inerbiti (grassed swales) sono canali rivestiti da erba o piante resistenti all’erosione, costruiti nelle aree urbane allo scopo di:

• Ridurre le velocità di flusso: I canali inerbiti fanno defluire le acque di pioggia, in partico-lare lungo le strade, in maniera regolare, sfruttando la capacità della vegetazione compatta di ridurre le velocità di flusso. In questo modo vengono evitati i fenomeni di erosione e ridotti i picchi in uscita;

• Rimuovere parte degli inquinanti: la vegetazione erbacea presente all’interno dei ca-nali permette la filtrazione delle acque in arrivo. I solidi sospesi rimangono “intrappolati” nella vegetazione e sedimentano, mentre le sostanze inquinanti presenti in forma solubile, come i nutrienti, possono infiltrarsi nel terreno e venire assorbiti dalle radici o degradati dai microrganismi. Il grado di depurazione raggiungibile dipende soprattutto dal tempo di residenza delle acque nel canale e dal grado di contatto di queste con la vegetazione e con la superficie del terreno.

Figura 2.3.1: Rappresentazione schematica di una fascia tampone.

Figura 2.3.2: Corretto posizionamento di una fascia tampone.

Figura 2.3.3: Rappresentazione schematica di una fascia filtro.

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In presenza di pendenze elevate i canali possono essere dotati di depressioni o piccole paratoie sul fon-do del letto, in modo da rallentare ulteriormente i flussi e aumentare la capacità di ritenzione idraulica. La presenza di strutture all’interno del letto come paratoie e depressioni può migliorare la capacità di rimozione aumentando i tempi di residenza.I canali inerbiti possono essere realizzati in zone dove la pendenza non è molto elevata (minore del 4%), in quanto in tal caso si verificherebbero fenomeni di erosione e l’acqua non avrebbe il tempo necessario per infiltrarsi nel terreno; per lo stesso motivo essi non sono adatti a terreni impermeabili o poco permeabili. Il fondo del canale inoltre andrebbe posizionato ad una distanza di almeno �0 cm dal livello di massima escursione della falda, in modo tale da evitare possibili contaminazioni a causa della percolazione di sostanze inquinanti nel sottosuolo. La larghezza del canale può variare a seconda della disponibilità di spazio, ma in generale dovrebbe essere compresa tra 0,� e 2 m: il valore minimo individua una superficie minima di filtrazione per la rimozione dei contaminanti, mentre il valore massimo previene la formazione di vie preferenziali di scorrimento sul fondo del canale. I canali vanno infine dotati di una tubazione di scarico, che convoglia le acque raccolte al corpo idrico recettore o al sistema di fognatura.

entità

Volumi totali disponibili ATO

volume (milioni di m3)

297.5

Volumi ceduti ad altri distributori

Volumi immessi in rete potabile

Volume perso in adduzione

Volume ceduto a reti di distribuzione

Volumi fatturati

Perdite apparenti in distribuzione

- 14.6

= 282.9

- 24.6

= 258.3

- 103.5

= 154.8

Tabella 2.4.1: Bilancio idrico nella rete di adduzione e distribuzione della Sardegna (Fonte dati: Piano d’Ambito della RegioneSardegna, 2001).

2.4 monitoraggio delle retidi acquedotto

Premessa e inquadramento generaleVari documenti e piani della Regione Sardegna, tra i più recenti il Piano di tutela delle acque (PTA), hanno posto in evidenza le problematiche delle reti di distribuzione idrica della regione.Le perdite di rete costituiscono la causa principale di inefficienza del servizio idrico, in quanto com-portano:

• Costi di produzione eccessivi dovuti alla necessità di prelevare, trattare ed immettere nella rete volumi idrici superiori all’effettivo consumo;

• Costi socio-economici legati all’insorgere di conflitti per l’uso dell’acqua tra i diversi utilizza-tori, poiché l’uso potabile è considerato prioritario e deve essere garantito a scapito di altri utilizzi;

• Costi ambientali causati da una sottrazione eccessiva di risorsa dal ciclo naturale;• Mancato soddisfacimento dell’utenza, prodotto da disservizi e malfunzionamenti.

In genere si parla di perdite idriche “apparenti”, costituite dalla somma di perdite “fisiche” e di perdite “commerciali”.Le perdite fisiche sono le perdite reali della rete, dovute a:

• Difetti di costruzione;• Vetustà degli impianti;• Inadeguatezza della manutenzione;• Errori di gestione e disservizi.

Le cause maggiori di perdite fisiche sono generalmente le rotture di tubazioni, la compromissione dei giunti e l’inadeguatezza delle derivazioni all’utenza.Le perdite commerciali sono invece dovute ad acqua consegnata all’utenza ma non fatturata, a causa di sottrazioni non autorizzate (furti), o ad usi autorizzati che non vengono fatturati.Il bilancio idrico riportato dal Piano d’Ambito della Regione Sardegna con riferimento ai dati del 2001 evidenzia la situazione riferita nelle seguenti tabelle:

Figura 2.3.4: Rappresentazione schematica di un canale inerbito a lato di una strada.

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Dal bilancio idrico è risultato che 24.� milioni di m3, pari all’8.3% del volume totale immesso in rete potabile viene perso nell’adduzione, mentre le perdite apparenti nella distribuzione sono state quanti-ficate in 154.8 milioni di m3, pari al 59.9% del volume immesso nella rete di distribuzione.Le perdite apparenti totali sono quindi pari a 1�9.4 milioni di m3, corrispondenti alla somma delle perdite in adduzione e delle perdite apparenti in distribuzione. Tale volume equivale al �0% dei volumi totali disponibili per l’uso idropotabile nella Regione.Il Piano d’Ambito ha previsto la realizzazione del Progetto Obiettivo n.1 “Efficientamento delle reti di distribuzione e riorganizzazione dei rapporti commerciali”, che si articola nei seguenti punti:

• Perdite commerciali: recupero delle utenze e dei ricavi;• Ricerca perdite fisiche nelle reti di distribuzione;• Programma risanamento reti di distribuzione.

Attraverso tali azioni è attesa una riduzione delle perdite fisiche nella fase di distribuzione e delle per-dite commerciali, con conseguente minore prelievo di risorsa e incremento dei volumi fatturati.Il Nuovo Piano Regolatore degli Acquedotti infine definisce alcune linee guida in ordine ai futuri inter-venti sulle reti idriche ribadendo la necessità di procedere a:

1. Mappatura della rete con successiva digitalizzazione degli elementi costituenti la rete stessa;2. Campagna di ricerca perdite, condotta con le note tecniche strumentali;3. Analisi funzionale della rete;4. Distrettualizzazione delle reti più importanti (quelle a servizio di centri con popolazione superiore ad almeno 3000 abitanti) onde poterle monitorare secondo quanto previsto dal D.M. 8 gennaio 199�, n.99, e con l’ausilio di idonei sistemi di telecontrollo conformi agli standard richiesti dal gestore;5. Installazione di contatori di buon livello di precisione e teleleggibili;�. Impiego di materiali e apparecchiature rispondenti agli standard minimi richiesti dal gestore soprattutto in termini di affidabilità e durabilità.

Amministrazioni coinvolteIl progetto coinvolge gli Enti pubblici secondo le specifiche competenze riportate nella tabella seguente:

entità

Volume perso in adduzione

volume (milioni di m3)

24.6

Perdite apparenti in distribuzione

Perdite apparenti totali

+ 154.8

= 179.4

Tabella 2.4.2: Somma delle perdite nella rete di adduzione e distribuzione della Sardegna.

Amministrazione o ente

Regione - AATO

Strumento / azione

Definizione delle procedure.

Assessorato dei Lavori Pubblici

Ente Gestore del Servizio Idrico Integrato

Comuni/Province

Definizione criticità e priorità d’intervento.

Gestione e coordinamento del progetto.

Raccolta e fornitura dei dati.

Figura 2.4.1: Schema delle fasi in cui si articola il presente progetto.

Il secondo obiettivo è quello di disporre di uno strumento che consenta alle Amministrazioni locali di pianificare gli sviluppi futuri del territorio in maniera coordinata con l’idoneità e la funzionalità della rete esistente e della disponibilità delle risorse idriche, allo scopo di risparmiare la risorsa.

Sviluppo del progettoIl progetto, come illustrato nello schema di figura, si articola in due fasi principali. La prima consiste nel-l’acquisizione di dati relativi alla rete acquedottistica esistente allo scopo di possedere una conoscenza il più corrispondente possibile allo stato di fatto della rete.La raccolta dei dati e la loro successiva informatizzazione in ambiente GIS costituisce l’elemento base per la predisposizione di un sistema informativo della rete di acquedotto.

La seconda fase del progetto consiste nella raccolta di dati relativi alle grandezze idrauliche della rete, ovvero portate, pressioni e loro variazione temporale: occorre perciò disporre, in punti opportuni della rete, strumenti di misura, dotati di sistema di telerilevamento.Sulla base dei dati raccolti viene sviluppato un modello matematico che simuli il comportamento ottima-le della rete da porre a confronto con il funzionamento reale, per poter individuare le criticità della rete: perdite, malfunzionamenti, pressioni insufficienti, ecc. Il modello può avere molteplici applicazioni tra cui: monitorare la rete, contribuire alla ricerca delle perdite e verificare la funzionalità degli interventi.

1. CoNoSCeNZA deLLA Rete

Alla base dell’intervento previsto c’è la conoscenza dello stato di fatto della rete.La mappatura della rete deve comprendere tutte le opere costituenti il sistema di adduzione, trattamento, invaso e distribuzione. Le fonti da cui ricavare le informazioni sono, in ordine di probabile attendibilità:

• Rilievi della rete già effettuati1 ;• Rilievi (con georadar o altri strumenti);• Progetti (raccolti negli archivi degli uffici tecnici comunali);• Ricordi/memoria storica dei tecnici.

obiettivi del progettoL’attività proposta presenta una duplice finalità. La prima, già prevista dai piani regionali, è quella di contribuire a rendere più efficiente il servizio di distribuzione idrica:

• Riducendo i costi di gestione;• Riducendo l’impatto ambientale, attraverso una riduzione dei prelievi alla fonte;• Riducendo i conflitti per l’uso dell’acqua tra i vari settori;• Aumentando il grado di soddisfacimento dell’utenza.

1 La Misura 1.1, Asse 1 del POR 2000-2006 ha previsto l’intervento relativo a “Riqualificazione reti idriche urbane” che richiedeva, ai Comuni aderenti che hanno ottenuto il finanziamento, le seguenti azioni realizzative, gestionali e di controllo: • Mappatura informatizzata della rete idrica• Distrettualizzazione della rete idrica• Sistema di acquisizione dati• Bilanci idrici per distretto• Valutazione delle perdite amministrative• Accelerazione dell’esecuzione dei lavori.

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Figura 2.4.2: Mappatura informatizzata della rete idrica, tratta dal SIT del comune di Decimomannu, realizzata con il fi nanziamento “Riqualifi cazione reti idriche urbane” del POR 2000-2006, Asse 1, Misura 1.1.

La ricerca dei dati può essere effettuata o con interventi specifi ci, oppure in concomitanza di interventi sulla rete quali riparazioni, rifacimenti di tratte vetuste, nuove progettazioni e di attività di ricerca delle perdite di rete.I dati raccolti vanno trasposti su supporto informatico al fi ne di costituire un sistema informativo della rete d’acquedotto.È importante che i dati siano il più possibile completi per defi nire dal punto di vista tecnico le carat-teristiche della rete e poter applicare modelli idraulici che consentano di valutare la funzionalità della rete. In particolare sono indispensabili:

• Per le condotte: - Sviluppo plano-altimetrico - Materiale - Età - Diametro - Pressione nominale - Utenze allacciate• Per le apparecchiature idrauliche in linea (saracinesche, valvole, sfi ati, idranti, …): - Ubicazione - Caratteristiche tecniche• Per i serbatoi: - Ubicazione - Quote di regolazione - Volumi• Per le stazioni di sollevamento: - Ubicazione - Numero di pompe installate - Curve caratteristiche delle pompe (portata-prevalenza).

2. PRedISPoSIZIoNe dI uN SIStemA INFoRmAtIvo teRRItoRIALe deLL’ACQuedotto

I dati raccolti sono implementati in ambiente GIS e strutturati secondo due tipologie di elementi:

• Tronchi, costituiti dal tratto di condotta che collega due nodi e caratterizzati dalle seguenti informazioni alfanumeriche:

- Codice univoco (formato dalla concatenazione dei codici dei nodi iniziale e fi nale) - Lunghezza - Quota nodi iniziale e fi nale - Diametro - Materiale - Pressione nominale

• Nodi, caratterizzati dalle seguenti informazioni:

- Codice univoco - Posizione - Tipologia:

° Collegamento ° Saracinesca ° Valvola limitatrice di pressione/portata ° Serbatoio ° Impianto di pompaggio ° Torrino piezometrico ° Scarico ° Pozzetto ° Cambio diametro/materiale ° Cassa d’aria/d’acqua ° Valvola di non ritorno ° Misuratore di portata/pressione/qualità ° Fine condotta ° Sfi ato ° Idrante ° Sorgente ° Impianto di trattamento ° Allacciamento

Parco Molentargius

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Alghero - Capo Caccia

2 Il D.Lgs. 152/2006 all’art. 146, comma 2 dispone che il rilascio dei permessi di costruire sia subordinato alla previsione, nel proget-to, dell’installazione di contatori per ogni singola unità abitativa.

Figura 2.4.3: Rappresentazione schematica dei sistemi di misurazione di portata e pressione.

4. SvILuPPo deL modeLLo IdRAuLICo deLLA Rete e APPLICAZIoNI

La rete rilevata, insieme ai dati raccolti dalle stazioni di misura sono utilizzati per implementare e tarare un modello idraulico della rete che permetta di simulare il comportamento idraulico della rete in condizioni ideali di funzionamento. L’applicazione di tale metodo consente di:

• Identifi care le criticità;• Progettare nuove estensioni di rete, verifi candone la funzionalità;• Monitorare la rete, ai fi ni dell’individuazione delle perdite e delle priorità di interventi di sistemazione e di manutenzione;• Tenere sotto controllo le operazioni di disinfezione ed il cloro residuo in rete.

Un buon programma di calcolo utile a questo scopo è EPANET (disponibile gratuitamente su internet all’indirizzo http://www.epa.gov/nrmrl/wswrd/dw/epanet.html) che consente di effettuare la si-mulazione completa del funzionamento della rete relativa a periodi suffi cientemente estesi, introducendo nei calcoli anche le variazioni della portata erogata ai nodi in funzione del tempo e dello spazio e le va-riazioni di tutti gli altri elementi di input. Si ottengono le serie complete dei dati di funzionamento delle strutture che compongono la rete, compresi la variazione di livello dei serbatoi e di consumo energetico per i pompaggi con i relativi costi nonché tutti gli elementi inerenti la immissione e diffusione in rete di disinfettanti come il cloro.I dati di ingresso necessari per il funzionamento del modello si possono distinguere in tre categorie:

1. Tracciati, diametri, materiali costituenti le condotte, ubicazione e caratteristiche di tutte le apparecchiature e impianti;2. Dati di funzionamento reale quali portate e pressioni in uscita dalle centrali, pressioni in rete, …;3. Portata erogata ai nodi in funzione del tempo e scabrezza reale delle tubazioni.

Una rete è costituita da tronchi di condotte, nodi (giunti di collegamento), pompe, valvole, vasche di raccolta o serbatoi. EPANET determina la portata d’acqua in ciascun tronco di condotta, la pressione in ciascun nodo, l’altezza dell’acqua nei serbatoi, e la concentrazione delle componenti chimiche dell’intera rete nel periodo di simulazione.

Una importante applicazione di questo sistema è la verifi ca delle trasformazioni territoriali previste dagli strumenti urbanistici, in relazione alla compatibilità/idoneità con le condizioni della rete di distribuzione idrica. In altre parole è possibile valutare ad esempio se un’area di espansione urbana risulti compatibile rispetto allo stato attuale della rete, ovvero se la rete sia in grado di sopportare l’estensione prevista, e studiare idonee soluzioni.

3. mISuRe dI PoRtAtA e PReSSIoNe

Una volta eseguito il rilievo si potranno individuare i punti sensibili della rete dove andare a collocare degli strumenti di misura telecontrollati per il rilevamento delle grandezze di portata e pressione. Nella Figura 2.4.3 è rappresentata una stazione di rilevamento telecontrollata e dotata di un misurato-re di portata e di un misuratore di pressione. Il sistema di monitoraggio è costituito da:

• Stazioni locali di rilevamento e trasmissione dati nei punti nodali della rete idrica contenente un sensore di portata, una presa di pressione, un accumulatore di dati (datalogger) e un trasmettitore GSM;

• Unità centrale di raccolta ed elaborazione dati, composta da modem GSM e software per l’elaborazione dei dati.

Il tipo di apparecchiatura rappresentata risulta di facile installazione anche nelle condotte esistenti, senza taglio della tubazione, è completamente alimentato a pile e non necessita di collegamenti alla rete elettrica e telefonica. Il costo dell’unità locale di rilevamento sulla rete è di circa 5.200,00 euro, mentre il costo dell’unità centrale base è di circa 2.300,00 euro.L’ubicazione delle unità locali viene predisposta sulla base delle indicazioni contenute nel D.M. 8 gen-naio 199�, n.99.Strumenti di misura delle portate vanno installati:

• Nelle opere di captazione dell’acqua;• In entrata ed in uscita dagli impianti di trattamento e dai serbatoi;• Nei nodi di alimentazione dei distretti;• In tutte le utenze2.

Strumenti di misura delle pressioni vanno installati:

• Nei nodi principali delle condotte di adduzione;• Nei nodi principali delle reti di distribuzione.

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3.1 Interventi di sistemazione e manutenzione della rete idrografica

Premessa e inquadramento generaleIl Piano stralcio per l’Assetto Idrogeologico della Regione Sardegna, redatto nel 2004, individua in totale 1055 casi di pericolosità idraulica sull’intero bacino regionale: di questi circa un terzo (33�) si localizzano in corrispondenza di infrastrutture di attraversamento della rete stradale le quali presentano luci idrauliche insufficienti al deflusso in sicurezza delle portate di piena; una seconda tipologia, con un numero di 198 casi monitorati, è legata ancora una volta alla insufficienza della sezione idraulica ma per effetto di una diminuzione della luce libera causata da scarsa o assente manutenzione delle opere.In totale queste due tipologie costituiscono oltre la metà delle condizioni inventariate di pericolosità idraulica del territorio.Ulteriori cause di pericolosità si riscontrano in corrispondenza di sezioni sottodimensionate dei corsi d’ac-qua (148), in seguito all’urbanizzazione di aree di pertinenza fluviale (128) e laddove le opere di difesa diretta si dimostrano insufficienti o addirittura assenti (108).In generale la maggiore casistica si verifica nella rete idraulica minore la quale è scarsamente soggetta ad interventi di manutenzione e messa in sicurezza, sia a motivo di una priorità generale assegnata ai bacini drenanti principali a scapito dei minori, sia per una mancata programmazione economica degli stessi.La pericolosità del reticolo minore, anche a causa di condizioni di degrado, mancata manutenzione e sotto-dimensionamento delle sezioni idrauliche, può comportare una forte incidenza dei fenomeni di dissesto e trasporto solido localizzati che, in corrispondenza di un evento straordinario, può amplificare in maniera in-controllata le condizioni di pericolosità e rischio anche su una rete idrografica principale ben mantenuta.

Le immagini riportate evidenziano alcune situazioni di degrado, scarsa manutenzione e sottodimensiona-mento della rete idrografica: si osservano situazioni di mancata pulizia (fig. 3.1.1.A e fig. 3.1.1.B), opere di attraversamento con sezioni di sbocco condizionate da andamenti planimetrici della canalizzazione in-

DIFESA DEL SUOLOcompatibili rispetto al regolare deflusso delle acque (fig. 3.1.1.A) e una sezione che appare a prima vista insufficiente e priva di manutenzione (fig. 3.1.1.B); si vede inoltre come l’urbanizzazione abbia invaso e ristretto lo spazio naturale di pertinenza del corso d’acqua (fig. 3.1.1.C e fig. 3.1.1.D). Gli interventi di ripristino e di manutenzione dei corsi d’acqua minori, sempre trascurati, rappresentano al contrario un’azione di base importante per il miglioramento generale delle condizioni di sicurezza dell’intero bacino idrografico.L’attività di manutenzione include una serie di interventi possibili così come definiti dal DPR 14 aprile 1993 “Atto di coordinamento ed indirizzo alle regioni recante criteri e modalità per la redazione dei programmi di manutenzione idraulica e forestale”, che possono comprendere:

• Rimozione dei rifiuti solidi e taglio di alberature in alveo, sulle luci di deflusso e nelle sezioni di sbocco;

• Protezione al piede delle sponde;• Ripristino della sezione di deflusso con eliminazione di accumuli di materiale litoide, da riutilizzare per la sistemazione e protezione di sponde;• Ripristino del regolare deflusso nelle intersezioni con altre infrastrutture.

Ulteriori disposizioni sono previste nel caso di corsi d’acqua regimati:

• Manutenzione delle arginature;• Ripristino di protezioni spondali;• Manutenzione delle opere di regimazione e di difesa (briglie e salti di fondo) deteriorate;• Ripristino della stabilità dei versanti.

Laddove siano compatibili è buona pratica l’utilizzo di tecniche di ingegneria naturalistica al fine di miti-gare quanto più possibile l’impatto delle opere e favorire un migliore inserimento nell’ambiente naturale. In questo contesto si citano anche gli interventi di manutenzione e ripristino della vegetazione riparia attraverso l’impianto e la conservazione di specie presenti lungo la rete idraulica che oltre a costituire elementi di interesse ecologico e naturalistico possono assolvere anche ad importanti funzioni ambientali e paesaggistiche. La programmazione coordinata degli interventi di manutenzione ordinaria dei corsi d’acqua rappresenta un atto indispensabile per garantire l’efficacia dell’azione, che al contrario può difettare se attuata in forma di interventi isolati e saltuari.La Regione Sardegna attualmente non dispone di un Piano per la manutenzione della rete idrografica (il Piano delle fasce fluviali è in corso di predisposizione) e l’attuale scenario evidenziato dal PAI necessite-rebbe di interventi straordinari finalizzati al recupero delle situazioni di maggior degrado.

Amministrazioni coinvolteIl progetto coinvolge Amministrazioni ed Enti Pubblici a vari livelli, secondo le specifiche competenze e gli strumenti a disposizione, come riportato dalla seguente tabella.

Amministrazione o ente Strumento

REGIONE

GENIO CIVILE

PROVINCIA

COMUNE

CONSORZIO DI BONIFICA

ENTE FORESTE -CORPO FORESTALE

Adozione del piano di manutenzione, programmazione degli interventi di sistemazione e manutenzione della rete idrografica e adeguamento degli attraversamenti stradali.

Controllo della programmazione ed esecuzione degli interventi su rete idraulica e attraversamenti stradali.

Controllo, programmazione ed esecuzione degli interventi di propria competenza su rete idraulica e attraversamenti stradali.

Controllo, monitoraggio, programmazione ed esecuzione degli interventi di propria competenza su attraversamenti stradali.

Controllo, monitoraggio, programmazione ed esecuzione degli interventi di propria competenza su rete idraulica e attraversamenti stradali.

Controllo, monitoraggio e interventi di sistemazione dei versanti e di manutenzione della vegetazione.

Figura 3.1.1:Individuazione di tronchi critici: esempi di cause di criticità idrauliche. A) Rio S’Arraxiu; B) Rio Forrue-su; C) Rio Bau Porcu alla confluenza con Rio Antas; D) Rio Bau Porcu (Fluminimaggiore). (Fonte: Piano stralcio per l’Assetto Idrogeologico della Regione Sardegna, 2004).

A B

C D

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Hanno collaborato: Bixio V., Bixio A. C., Dalla Villa E., Fanton P., Fiume A., Romagnoli V., Tortorelli M., Vazzoler C., Calegari G., Cappelletto C., Furlan S.

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48 49

obiettivi del progettoIl ripristino e il mantenimento di condizioni di sicurezza idraulica vanno perseguiti con una serie di in-terventi di tipo sia localizzato che diffuso. L’interesse prioritario del progetto è rivolto alla realizzazione di interventi di sistemazione e manutenzione, tenendo conto che il buon funzionamento e la sicurezza della rete idrografica dipendono in primo luogo dalla tutela e dalla cura del territorio attraverso idonee forme di programmazione e gestione.

Sviluppo del progettoCome descritto nella premessa, la causa principale di pericolosità idraulica del territorio regionale è data dall’intersezione delle infrastrutture stradali con la rete idrografica.Nella Figura 3.1.2 è schematizzato il diverso effetto che il restringimento di sezione, provocato ad esem-pio dalle pile e dalle spalle di un ponte, può avere sul deflusso. Nel caso di fiumi e canali, dove si hanno pendenze del fondo generalmente modeste, si verifica un sovralzo del pelo libero nella sezione di monte, mentre in corrispondenza del restringimento il tirante idrico si riduce: la maggiore velocità della corrente in questo tratto produce uno scavo del fondo dell’alveo in corrispondenza del restringimento.Nel caso di un torrente, caratterizzato solitamente da elevate pendenze del fondo, in corrispondenza del restringimento si verifica un sovralzo che può raggiungere valori notevoli in presenza di un brusco restringimento o per valori elevati di portata. La velocità in corrispondenza della sezione del ponte si riduce e ciò favorisce il deposito dei sedimenti trasportati dalla corrente.

Il sovralzo può, nel caso in cui il corso d’acqua sia arginato, causare una tracimazione; inoltre il so-vralzo riduce il franco di sicurezza tra il pelo libero e l’impalcato del ponte e il materiale galleggiante trascinato dalla corrente, quali alberi, arbusti o tronchi, può rimanere incastrato a ridosso dell’opera, ostruendone la sezione.È fondamentale che la luce dell’opera sia sufficiente al passaggio di alberi che transitino disposti con l’asse parallelo al ponte; l’eventuale presenza di pile in alveo comporta un aggravio ulteriore della con-dizione di pericolo. In seguito all’ostruzione della sezione possono verificarsi la tracimazione del corso d’acqua, il crollo del manufatto e la creazione di un fronte d’onda pericoloso che si propaga a valle con forte velocità e trasporto di materiali.

L’insufficienza della sezione del manufatto di attraversamento può essere legata a diverse cause:

• Progressiva riduzione della sezione a causa del deposito di sedimenti e materiale vegetale trasportati dalla corrente, o della crescita di vegetazione in alveo;

• Errore nella progettazione, per cui la sezione risulta sottodimensionata, non presenta luce e franco adeguati al transito di materiale galleggiante;

• Variazione del regime idraulico del corso d’acqua o del bacino, con incrementi delle portate massime.

Nel primo caso può risultare sufficiente intervenire tramite la rimozione dei sedimenti e il taglio della vegetazione, ripristinando in questo modo la situazione originale.Quando la sezione di attraversamento risulta insufficiente a causa delle caratteristiche del manufatto, è necessario valutare la possibilità del rifacimento dell’opera con una sezione adeguata al transito in sicurezza delle portate e luce sufficiente al passaggio di materiali galleggianti durante le piene. La valutazione può prevedere anche un’analisi costi-benefici per la verifica di possibili soluzioni proget-tuali alternative. Opzioni alternative al ridimensionamento della sezione idraulica possono consistere nella derivazione di quota parte dei deflussi a monte dell’attraversamento attraverso la realizzazione di un canale scolmatore in grado di deviare le portate eccedenti e restituirle a valle del restringimento, o ad un altro corpo idrico.

Altra opzione è invece legata alla possibilità di prevedere un invaso di laminazione a monte del restrin-gimento che consenta di regolare le portate di deflusso attenuando i picchi di portata e differenziandoli nel tempo. Gli invasi possono essere artificiali o ambienti naturali che in circostanze straordinarie assolvo-no alla funzione di vasche di laminazione.

Figura 3.1.2: Effetti sul pelo libero causati dalla presenza di un restringimento di sezione in un canale o in un torrente.

Figura 3.1.3: Esempio di sezione di deflusso insufficiente: non permette il passaggio di alberi disposti con l’asse parallelo al ponte.

Figura 3.1.4: Esempio di derivazione dei deflussi mediante la realizzazione di un canale scolmatore.

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Per assicurare le necessarie condizioni di sicurezza che, si rammenta, sono sempre collegate all’analisi probabilistica dei tempi di ritorno, nonché il funzionamento ottimale degli interventi, è importante ga-rantire una fascia di rispetto adiacente al corso d’acqua, tutelandola da possibili interventi di trasforma-zione quali opere di urbanizzazione. Il D.Lgs. 152/200� ha previsto in proposito che le regioni disciplinino gli interventi di “trasformazione e di gestione del suolo e del soprassuolo previsti nella fascia di almeno 10 metri dalla sponda di fiumi“ e altri corpi idrici, allo scopo di preservare o ripristinare la vegetazione spontanea delle zone riparie. Una considerazione finale è rivolta alla pratica di tombinare i corsi d’acqua, purtroppo molto diffusa in passato in ambito urbano e attualmente vietata dalla legge (art. 115, comma 1, D.Lgs. 152/200�). Le problematiche legate alla tombatura di un corso d’acqua sono di carattere sia tecnico che ambientale. L’aspetto tecnico è connesso al dimensionamento dell’opera le cui sezioni possono risultare non in grado di smaltire le portate in arrivo, soprattutto se otturate da materiale solido trasportato dalla corrente o an-cora tali da non consentire l’accesso per interventi di manutenzione e rimozione di materiali. Dal punto di vista ambientale questi manufatti costituiscono un elemento di discontinuità per l’ecosistema acquatico: l’assenza di luce infatti non consente i naturali processi di fotosintesi e quindi lo sviluppo di vegetazione. Un’importante azione di pianificazione e progettazione compatibile è delegata agli Enti locali che dovreb-bero munirsi di appropriati strumenti di controllo anche attraverso l’adozione di regolamenti di polizia idraulica. Un’azione di prevenzione deve essere esercitata subordinando le concessioni edilizie e le varian-ti agli strumenti urbanistici all’adozione di opportune scelte progettuali tali da garantire perlomeno:

• Una sezione idonea di deflusso quando si realizzano degli attraversamenti della rete idraulica e tale da consentire l’accessibilità per gli interventi di manutenzione;

• Una fascia di rispetto adiacente al corso d’acqua evitando interventi di urbanizzazione a ridosso del corpo idrico.

3.2 opere di laminazione per garantire l’invarianza idraulica

Premessa e inquadramento generaleIl Piano stralcio per l’Assetto Idrogeologico della regione Sardegna, redatto nel 2004, individua le principali cause di pericolosità idraulica in un “non attento uso del territorio”.Il rischio idraulico interessa in modo capillare il territorio della Sardegna, tanto che 1�� comuni sardi su 3�� presentano aree soggette a rischio e ben la metà delle superfici inondabili individuate dal PAI risultano antropizzate.In genere il rischio subentra laddove l’uomo, dimostrando poca lungimiranza e superficialità nelle scelte tecniche, ha insediato nuclei costruttivi in contesti già potenzialmente pericolosi.L’espansione urbanistica e infrastrutturale implica notevoli effetti sulla rete idrografica preesistente crean-do perturbazioni alle condizioni di naturale deflusso delle acque e a quelle di stabilità dei pendii. In primo luogo, infatti, cambiano le condizioni della corrivazione superficiale a causa della sensibile impermeabiliz-zazione degli strati superficiali di estese aree del bacino e a causa della canalizzazione delle acque di scolo in reti artificiali. Ciò implica più concause che simultaneamente concorrono ad amplificare i picchi di piena: un minore assorbimento per infiltrazione delle acque di pioggia nel terreno, diminuzione dell’effetto di intercettazione creato da vegetazione e asperità del terreno, maggiore velocità delle acque canalizzate e immissione nelle condotte di fognatura e, quindi, nei corpi idrici ricettori con tempi notevolmente ridotti rispetto alla situazione preesistente.A lungo andare, oltre agli effetti contingenti legati ai fenomeni pluviometrici estremi, cambiano anche le condi-zioni di deflusso del reticolo idrodinamico sotterraneo, con variazioni sui livelli e sui delicati equilibri delle falde.Tali condizioni costituiscono certamente un quadro di potenziali rischi di dissesto idrogeologico per il territorio, in particolare quando le soluzioni progettuali non risultano dimensionate o realizzate in modo corretto e ancora, problema ricorrente, quando è assente la fase manutentiva delle opere. Ne conseguo-no contesti di diffusa insufficienza della capacità di deflusso della rete idrografica, soprattutto di quella minore, che si manifesta con fenomeni di rigurgito e allagamento.A livello programmatico è quindi quanto mai necessario che le Pubbliche Amministrazioni, ciascuna al-l’interno della propria sfera di competenza, si adoperino per la sicurezza idrogeologica del territorio, in primo luogo mediante l’approvazione di specifici strumenti pianificatori e di regolamentazione, poiché, come sottolineato nel PAI, “ogni nuovo intervento sul territorio, sia esso di pianificazione urbanistica, di infrastrutturazione, di pianificazione territoriale nonché tutti gli interventi di trasformazione fondiaria non dovranno incrementare i livelli di rischio idrogeologico né direttamente né indirettamente”.

Amministrazioni coinvolteIl progetto coinvolge Amministrazioni ed Enti Pubblici a vari livelli, secondo le specifiche competenze e gli strumenti a disposizione, come riportato dalla seguente tabella.

Amministrazione o ente

REGIONE

Strumento di controllo

Approvazione degli strumenti urbanistici e loro varianti.

COMUNE

GENIO CIVILE

CONSORZIO DI BONIFICA

AATO

Concessioni edilizie e varianti agli strumenti urbanistici.

Autorizzazione allo scarico nei corpi idrici del demanio.

Autorizzazione allo scarico nei corpi idrici in gestione.

Autorizzazione allo scarico nella rete di fognatura urbana in gestione.

Figura 3.1.5: Esempio di regolazione dei deflussi mediante la realizzazione di un bacino di invaso a monte del restringimento.

Approvazioni, autorizzazioni e concessioni saranno subordinate alla presentazione di un adeguato studio di compatibilità idraulica, che deve prevedere idonee misure compensative dell’alterazione provocata dalle nuove previsioni urbanistiche.

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tipo di superficieAree agricole

volume specifico d’invaso v [m3/ha]

90 – 150

Aree urbane 40 – 70

Tabella 3.2.2: Valori proposti per il volume specifico d’invaso a seconda del tipo di superficie.

Stazione

Santa Maria Coghinas

variazione del coefficiente udometrico in seguto all’urbanizzazione (non intensiva) di un’area agricola [l/s ha]

Perfugas

Ploaghe

AGRiCOLA: φ= 0.3, = 120 m3/ha URbANA: φ= 0.6, = 60 m3/ha

6.8 134

8.9 310

425.5

Tabella 3.2.4: Valori del coefficiente udometrico ottenuti ipotizzando l’urbanizzazione delle aree agricole del comprensorio delCoghinas.

Per garantire l’invarianza idraulica bisognerà quindi fare in modo che il coefficiente udometrico prece-dente all’intervento rimanga pressoché uguale. La condizione si può esprimere tramite l’uguaglianza dei due termini:

uagricolo = uurbanizzato φ βagricolo v γagricolo = φ β

urbanizzato v γ urbanizzato

Stazione

Santa Maria Coghinas

Coefficiente udometrico

Perfugas

Ploaghe

u = 9’993 φ 2.65 v -1.65

u = 59’482 φ 3.06 v -2.06

u = 662 φ 1.97 v -0.97

Tabella 3.2.3: Valori del coefficiente udometrico ottenuti per il comprensorio del Coghinas considerando precipitazioni di durata giornaliera e tempo di ritorno pari a 50 anni.

obiettivi del progettoPer l’attenuazione delle piene nelle reti idrauliche che interessano l’ambito urbano e periurbano, è in-dispensabile garantire condizioni di invarianza idraulica a seguito di interventi che comportino trasfor-mazioni territoriali, arrestando o limitando al minimo indispensabile gli effetti di riduzione di invaso e favorendo il rallentamento dei tempi di formazione dei deflussi.In una logica che non può non assimilarsi al principio ambientale che chi inquina paga, andranno stabiliti criteri di garanzia e compensazione nonché valutati in termini più corrispondenti all’effettivo valore am-bientale gli oneri del consumo della risorsa territoriale conseguente ad interventi.

Sviluppo del progettoIl concetto di invarianza idraulica deve applicarsi quale principio guida nella pianificazione degli interventi di trasformazione che hanno conseguenze sull’assetto idrogeologico del territorio. Per invarianza idrauli-ca, più semplicemente, può intendersi che gli interventi di trasformazione di un’area non provochino un aggravio nei valori delle portate di piena dei corpi idrici.Le reti di scolo delle acque di un determinato bacino idrografico vengono generalmente progettate sulla base di determinati parametri:

• Pioggia critica, quella che dà origine alla massima portata per un dato tempo di ritorno;• Caratteristiche del bacino (estensione, permeabilità, pendenza, volumi specifici di invaso).

Il parametro caratteristico con il quale misurare l’invarianza idraulica è il coefficiente udometrico, definito come il rapporto tra la portata massima che defluisce attraverso una determinata sezione del collettore di scolo e la superficie di bacino sottesa dalla sezione stessa.Il coefficiente udometrico (generalmente si usano i simboli u, per reti di bonifica, e q, per reti di fogna-tura) si determina in funzione di:

• Caratteri pluviometrici dell’area;• Tipologia delle superfici di scolo, considerando in particolare:

- Il tasso di infiltrazione (dipendente dalla permeabilità dei suoli), che determina il valore dei coefficiente di deflusso, dato dal rapporto tra la quota di pioggia defluita nella rete e la pioggia affluita sul bacino.Alcuni valori proposti per il coefficiente di deflusso sono riportati nella tabella seguente:

Le variazioni dipendono dalla pendenza dei terreni (φ cresce all’aumentare della penden-za) e, nel caso di terreni agricoli, dalla composizione dei suoli (φ diminuisce passando da suoli limoso-argillosi a suoli sabbioso-ghiaiosi, all’aumentare quindi dell’indice di permea-bilità), nel caso di aree urbanizzate dal grado di impermeabilizzazione delle superfici;- Il volume specifico di invaso, ovvero il volume per unità di superficie invasato nelle cu-nette e depressioni del suolo; alcuni valori proposti per il volume specifico d’invaso sono riportati nella tabella seguente:

• Tipo di sezione del collettore di scolo (canale aperto o condotta chiusa).

Per calcolare il coefficiente udometrico esistono diversi metodi, fra i quali, tradizionalmente molto utilizzato per le reti artificiali di scolo, quello dell’invaso. Tale metodo considera la capacità posseduta dal sistema scolante di trattenere e invasare temporaneamente quota parte dei volumi di deflusso in ingresso, rilasciandoli gra-

Un tipo di trasformazione che comporta notevoli innalzamenti del coefficiente udometrico è l’urba-nizzazione di superfici. Consideriamo un caso esemplificativo per il quale, a seguito di trasformazione d’uso, il coefficiente di deflusso vari da 0.3 (aree agricole o verdi) a 0.� (aree residenziali non intensive) e che in assenza di specifiche opere di invaso il volume specifico scenda da 120 m³/ha a �0 m³/ha. Per le tre stazioni considerate si otterrebbero i seguenti coefficienti udometrici:

tipo di superficieAree agricole

Coefficiente di deflusso φ

Aree urbane

0.1 – 0.3

0.6 – 0.9

Tabella 3.2.1: valori proposti per il coefficiente di deflusso a seconda del tipo di superficie.

dualmente nel tempo ed attenuando quindi il colmo di piena o, come si dice in gergo, “laminando la piena”. L’invaso è quindi rappresentabile come un grande serbatoio che si riempie con una certa portata e si svuota più lentamente, con valori di portata inferiori. Nel caso delle reti urbane il serbatoio è costituito dalla stessa rete di raccolta e dalle superfici scolanti del ba-cino. Si può immaginare che, in un determinato istante, una parte del volume d’acqua affluito nel bacino sia già invasata nella rete dei collettori di scolo, una parte percolante costituisca il velo d’acqua superficiale, una parte sia infiltrata nel terreno o trattenuta dalla vegetazione, e che infine una parte sia invasata sulle piccole depressioni del terreno e sulle cunette.Una espressione semplificata della formula del metodo dell’invaso è la seguente:

dove φ e v sono rispettivamente il coefficiente di deflusso e il volume specifico d’invaso, come sopra-definiti, mentre α, β e γ dipendono dalle caratteristiche pluviometriche dell’area in esame e dal tipo di sezione del collettore.Per il comprensorio del Coghinas, nel nord Sardegna, sono stati determinati per alcune stazioni di riferimento e per collettori a sezione aperta i valori dei parametri α, β e γ. Considerando precipitazioni di durata giornaliera e un tempo di ritorno di 50 anni si sono ottenuti per il coefficiente udometrico le seguenti espressioni:

u = α φβ vγ

DIF

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DIF

ESA

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SU

OLO

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Le misure compensative adottabili possono consistere nella individuazione di ulteriori volumi di invaso.Esplicitando la precedente equazione rispetto al volume specifico d’invaso si ottiene:

Nota bene: questi valori di volume sono relativi a curve di correlazione ottenute considerando piogge di durata giornaliera mentre le situazioni critiche delle aree urbane si verificano soprattutto conseguente-mente a fenomeni molto intensi e di breve durata (piogge di durata compresa generalmente tra poche decine di minuti e qualche ora) situazioni per le quali i volumi specifici d’invaso risultano più elevati. Vale comunque la pena sottolineare come i valori così determinati appaiano affatto trascurabili.A livello progettuale volumi di invaso possono essere creati in modi differenti:

• Sulle depressioni delle aree a verde, opportunamente sagomate;

• Sovradimensionamento delle reti di tubazioni e predisposizione di apposite vasche sotterranee di invaso temporaneo.

Nota bene: la creazione di volumi di invaso temporaneo delle acque bianche (di pioggia) prevede il dimensionamento di appositi manufatti nei quali si realizza la regolazione delle portate attraverso opportune soglie o luci di deflusso, nonché il controllo delle acque di cosiddetta prima pioggia, le quali (per legge) sono convogliate negli scarichi delle acque nere destinate alla depurazione.

• In caso di terreni ad elevata capacità di infiltra-zione delle piogge, in presenza di falda freatica sufficientemente profonda e di regola in caso di piccole superfici impermeabilizzate, è possibile realizzare sistemi di infiltrazione facilitata sotto forma di vasche o condotte disperdenti posizio-nati negli strati superficiali del sottosuolo. L’uso di questi sistemi sarà consentito però solo in pre-senza di sistemi separati di raccolta delle acque di prima pioggia, per le quali non è ammissibile la dispersione nel sottosuolo.

Stazione

Santa Maria Coghinas

volume specifico di invaso da garantire per l’invarianza idraulica in seguito all’urbanizzazione di un’area agricola

[m3/ha]

Perfugas

Ploaghe

370

340

490

Tabella 3.2.5: Volumi specifici di invaso da garantire per l’invarianza idraulica calcolati ipotizzando l’urbanizzazione delle areeagricole del comprensorio del Coghinas.

Figura 3.2.1: Realizzazione di un invaso di laminazione sfruttando la depressione di un’area verde.

Figura 3.2.2: Rappresentazione schematica del sovradimensionamento delle reti di tubazioni e predisposizione di volumi di invaso sub superficiale.

Figura 3.2.3: Rappresentazione schematica di una vasca per l’invaso temporaneo delle acqua di pioggia.

Figura 3.2.4: Rappresentazione schematica di un sistema di infiltrazione facilitata delle acqua di pioggia nel sottosuolo.

φ urbanizzato =

uagricolo β

urbanizzato

γl

che applicato al caso in questione consente di stimare per le tre stazioni i seguenti valori:

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5�

DIF

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5�

3.3 Interventi di sistemazione idraulico-forestale attraverso tecniche di ingegneria naturalistica

Premessa e inquadramento normativoL’ingegneria naturalistica è un insieme di tecniche utilizzate per la sistemazione dei terreni, la rivege-tazione, il consolidamento ed il drenaggio dei versanti che prevedono l’utilizzo prevalente di materiale vegetale vivo e del legname come materiale da costruzione, unitamente a pietrame, massi, terra ed elementi in ferro ed acciaio. Attualmente è molto diffusa negli interventi di sistemazione idraulico-fo-restale, a carattere prevalente o complementare rispetto ad interventi ingegneristici di tipo più struttu-rale. Le tecniche di ingegneria naturalistica permettono di realizzare opere di difesa del suolo maggior-mente integrate nell’ambiente naturale con minore impatto ambientale e paesaggistico. A livello nazionale la prima legge dello Stato che richiama le tecniche di ingegneria naturalistica (chia-mata allora “bioingegneria”) è la L. 2 maggio 1990, n°102. A supporto della progettazione, ai fi ni dei dimensionamenti e delle verifi che tecniche, nonché con l’obiettivo di formulare capitolati tecnici sem-pre più dettagliati e precisi il Ministero dell’Ambiente, a partire dal 1992, ha promosso la produzione di guide tecniche ed una nutrita documentazione bibliografi ca. In particolare la Commissione per la Valutazione dell’Impatto Ambientale, ha predisposto i seguenti elaborati:

• Nel 1992: “Indicazioni preliminari per il recupero delle cave a cielo aperto e delle discariche di inerti di risulta collegate all’attività di escavazione”;

• Nel 1993: “Opere di ingegneria naturalistica sulle sponde, tecniche costruttive ed esempi nel Cantone di Berna”;

• Nel 1995: Capitolato speciale tipo per “Opere a verde e ripristini ambientali”;• Nel 199�: “Linee guida per capitolati speciali per interventi di ingegneria naturalistica e

lavori di opere a verde”.

Il testo coordinato D.L. 11 febbraio 1994, n°109 (Merloni) inoltre introduceva testualmente l’ingegne-ria naturalistica fra le attività defi nite come “lavori pubblici”. A livello regionale vi sono due leggi che richiamano le opere di ingegneria naturalistica: la L.R. 9 agosto 2002, n°14, che individua tra le diverse tipologie di opere anche interventi di ingegneria naturalistica, e la L.R. 20 dicembre 2004, n°10, con la quale viene previsto lo stanziamento di fondi per far fronte agli eventi alluvionali e di dissesto idrogeologico verifi catesi nel dicembre 2004, privilegiando, laddove pertinenti e idonei, gli interventi di ingegneria naturalistica.Anche all’interno del Piano di Assetto Idrogeologico (PAI, 2005) vi sono precisi riferimenti: in partico-lare all’art. 23 delle norme di attuazione si invita ad utilizzare per quanto possibile queste tecniche di intervento.

Amministrazioni coinvolteIl progetto coinvolge Amministrazione ed Enti Pubblici a vari livelli, secondo le specifi che competenze e gli strumenti a disposizione, come riportato nella seguente tabella.

obiettivi del progettoL’utilizzo di tecniche di ingegneria naturalistica per la realizzazione di interventi di difesa del suolo e recupero ambientale appare oggi come necessario, conformemente alle esigenze tecniche progettuali e alla idoneità della risposta offerta in termini di effi cacia dei risultati. L’ingegneria naturalistica, laddo-ve applicabile in alternativa alle tradizionali tecniche, si confi gura come modalità costruttiva a minor impatto e quindi di maggior sostenibilità ambientale e paesaggistica per tutti gli interventi di sistema-zione idraulico-forestale. Obiettivo del presente progetto è sensibilizzare le Amministrazioni e gli Enti Pubblici all’utilizzo di queste tecniche, presentandone le caratteristiche principali, le applicazioni più ricorrenti ed i margini di utilizzo.

Sviluppo del progettoL’ingegneria naturalistica è un insieme di tecniche che prevede l’utilizzo di materiale vegetale vivo, in abbinamento ai tradizionali materiali da costruzione naturali (pietra, legno). Le piante vive utilizzate devono essere di natura autoctona: l’introduzione di specie esotiche trasformerebbe infatti le opere realizzate in fattori di inquinamento biologico.L’ingegneria naturalistica rappresenta un approccio diverso agli interventi e deve essere valutata quale possibilità alternativa o complementare già nella sede progettuale, in fase di scelta e ricerca delle opzioni migliori.Casi tipici in cui è possibile ricorrere ad interventi di ingegneria naturalistica sono:

• La ricostituzione dalla vegetazione in ambienti fortemente degradati laddove si rendano necessarie opere di supporto e sostegno ai processi di evoluzione naturale che diffi cilmente riuscirebbero ad instaurarsi in modo spontaneo;

• Sistemazione idrogeologica e consolidamento dei versanti;• Sistemazione idrogeologica dei sistemi fl uviali.

Le tecniche di ingegneria naturalistica non sono sempre utilizzabili: ci sono casi infatti in cui è necessa-rio utilizzare le tecniche tradizionali o casi in cui è possibile utilizzare le tecniche di ingegneria natura-listica solo unitamente a tecniche di tipo tradizionale. La scelta va fatta caso per caso, a seconda delle dimensioni del fenomeno, della natura del terreno e dell’entità delle spinte.

Amministrazione o ente

REGIONE

Strumento di controllo

Pianifi cazione, programmazione, indirizzo e controllo degli interventi per la difesa del suolo.

PROVINCE

COMUNI

ENTE FORESTALE

Realizzazione interventi di difesa del suolo e di prevenzione del rischio idrogeologico nel territorio provinciale.

Progettazione, realizzazione e gestione di interventi per la riduzione del rischio idrogeologico ricadenti interamente all’interno del territorio comunale.

Collaborazione con le amministrazioni locali per l’esecuzione di opere di sistemazione idraulico-forestale e rinsaldamento dei terreni.

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Neoneli

58 59

In Tabella 3.3.1 sono riportati i principali meccanismi di dissesto per far fronte ai quali si può ricorrere all’ingegneria naturalistica, i limiti di impiego di tali interventi e le tecniche tradizionali di sistemazione adottate.

Crolli in roccia

Meccanismo di dissesto

Interventi attivi (miglioramento della massa rocciosa): chiodature, tiranti. Interventi passivi (difesa di infrastrutture): barriere paramassi, gallerie artificiali

interventi di sistemazione con

tecniche tradizionali

Sistemazioni con tecniche di ingegneria Naturalistica

Interventi attivi (miglioramento della massa rocciosa): reti metalliche con geosintetici antierosivi e rivegetazioneInterventi passivi (difesa di infrastrutture): rilevati paramassi in terra rinforzata

Abbattimento e demolizioni di masse rocciose (disgaggi, riprofilatura pendii)

Altri interventi

Limiti di impiego delle tecniche di ingegneria

Naturalistica

La rivegetazione è difficilmente applicabile a substrati litoidi e particolarmente aridi

Ribaltamento di lastre e

moli rocciose

Chiodature, tiranti, muri di sostegno

Sistemazione e rivegetazione del solo accumulo di frana

Riprofilature in roccia

Difficilmente applicabile su rocce compatte e substrati particolarmente aridi

Scivolamentiplanari

Sistemi drenanti superficiali con tecniche naturalistiche

Trincee drenanti profonde, monitoraggio inclinometrico e piezometrico

Scivolamenti rotazionali

Muri di contenimento, anche con tiranti, consolidamenti mediante micropali

Palificate vive di sostegno, scogliere di contenimento rivegetate, posa di antierosivi, ricostruzione di pendii in terra rinforzata, rivegetazione della superficie risistemata

Rimodellamento versanti con riduzione della pendenza

Possibile problema di infissione dei pali in legno e instabilità per ridotto peso dell’opera

Colate Muri di

contenimento

Palificate semplici, gradonate vive, inerbimento

della superficie risistemata

Possibile problema di infissione dei pali in legno e instabilità per ridotto peso dell’opera

Colamenti rapidi di terrenosaturo

d’acqua

Geosintetici e fibre naturali con funzione antierosiva, palificate semplici, gradonate vive, inerbimento della superficie risistemata

Flussi incanalati

Briglie in c.a., briglie filtranti in c.a. o in massi cementati

Briglie in legname e pietrame, casse di laminazione e aree di invaso rinaturalizzate, deviatori di valanghe di detriti in terra rinforzata

Barriere in funi metalliche

Resistenza insufficiente in presenza di elevate spinte idrodinamiche

Erosioni in scarpate

Muri di contenimento

Grate vive Pannelli di rete armata a contatto + antierosivi e rivegetazione

Instabilità in presenza di elevate spinte del terreno o notevoli altezze, intervento di tipo superficiale

Erosioni

di sponda

Muri spondali, difese in massi cementati, gabbionate

Scogliere in massi rivegetate, rivegetazioni spondali, palificate vive di sostegno spondali

Allargamento sezione di deflusso e opere di manutenzione spondale

Resistenza insufficiente in presenza di elevate spinte idrodinamiche

Meccanismo di dissesto

interventi di sistemazione con

tecniche tradizionali

Sistemazioni con tecniche di ingegneria Naturalistica

Altri interventi

Limiti di impiego delle tecniche di ingegneria

Naturalistica

Tabella 3.3.1: Correlazione fra le principali tipologie di dissesto e le più importanti tecniche di intervento (Fonte (modificata): “Ingegneria naturalistica: nozioni e tecniche di base” Regione Piemonte, 2007).

continua

continua

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In tabella 3.3.2 sono riportate le diverse tipologie di obiettivi e gli ambiti operativi delle tecniche di ingegneria naturalistica, e gli strumenti per la loro realizzazione.

mAteRIALI utILIZZAtI

• materiale vegetale vivo: specie erbacee, arbustive o arboree esclusivamente autoctone con elevate attitudini biotecniche, ovvero resistenza a frane ed erosione, apparato radicale sviluppato e resistente, elevata capacità di assorbimento idrico;

• Legname: vanno utilizzati pali tondi scortecciati, facilmente reperibili, con buona resistenza meccanica e durabilità, privi di difetti del fusto;

• Pietrame: si usano ghiaie, ciottoli o massi reperiti in cantiere o in alvei di corsi d’acqua. Non si utilizza mai pietrame proveniente dalla demolizione di rocce tenere e molto fratturate oppure eccessivamente arrotondato o leggero (problemi di instabilità);

• materiale ferroso: si utilizza generalmente acciaio in barre ad aderenza migliorata, con il quale si producono chiodi e graffe;

• Geosintetici: si utilizzano geosintetici tessuti (rinforzo) o non tessuti (drenaggio), georeti e geo-griglie (rinforzo), geomembrane (impermeabilizzazione), biotessuti (supporto alla vegetazione).

teCNIChe PRINCIPALI

teCNiChe Di RiveGetAziONe

Scopo: stabilizzare il terreno, proteggerlo dall’erosio-ne superficiale e ricostruire la vegetazione e le condi-zioni di fertilità.

Indicazioni costruttive: si suddividono in tecniche di inerbimento e tecniche di messa a dimora di specie arbustive e arboree. Le specie da utilizzare devono es-sere scelte in base al clima ed alla quota del luogo di intervento. La rivegetazione può essere effettuata per semina (semina a spaglio, idrosemina), oppure con la messa a dimora di piantine o talee: la semina viene utilizzata per l’inerbimento, le altre due tecniche ven-gono utilizzate per la rivegetazione con specie arbu-stive e arboree, a seconda delle caratteristiche delle piante utilizzate. Spesso vengono utilizzate anche reti in fibra naturale: esse svolgono una funzione iniziale antierosiva e di supporto alla crescita della vegetazio-ne, successivamente vengono biodegradate e scom-paiono. Una tecnica di rivegetazione molto diffusa è la grado-nata viva, la quale utilizza materiale vegetale vivo per il consolidamento di pendii. Figura 3.3.1B: Gradonata viva (Fonte: ANPA,

Atlante delle opere di sistemazione dei versanti).

Figura 3.3.2A: Canaletta in pietrame e legname

CANALizzAziONi

Scopo: regimazione idraulica delle acque di super-ficie per evitare fenomeni di dissesto causati dalla saturazione della parte superficiale di terreno.

Indicazioni costruttive: le principali tipologie sono:

1) canalette metalliche aperte in lamiera d’acciaio zincata e corrugata di forma semircolare;

2) canalizzazioni in pietrame e legname di sezione trapezia;

3) canalette in terra; 4) canalette in tavolame di legno.

Al termine della realizzazione di ciascun interven-to le zone di rinfianco vengono opportunamente rivegetate, e nel caso delle canalette in legname e pietrame viene effettuato l’inerbimento del terreno di riempimento delle zone tra le pietre in modo da aumentare la stabilità dell’opera.

tipo di obiettivi:

Ambiti operativi:

tecnici

Sistemazio-ne dissesti di versante

Strumenti: Opere con piante vive aventi proprietà biotecniche e con materiali reperibili in loco

ecologici Paesaggistici economici

Sistemazione corsi d’acqua

Recupero ambientale aree degradate (es. cave e discariche) e rinaturalizzazione

Inserimento ambientale di infrastrutture

Tabella 3.3.2: Caratteri generali dell’ingegneria naturalistica (Fonte: Preti F. “Sistemazioni idraulico-forestali “ e Ingegneria naturali-stica per la difesa del territorio” 2004).

Figura 3.3.1A: Schema di gradonata viva.

Figura 3.3.2B: Drenaggio superfiaciale (Fonte: ANPA, Atlante delle opere di sistemazione dei versanti).

SiSteMi DReNANti

Scopo: ridurre il rischio di instabilità dei terreni cau-sato dall’accumulo di acqua nel sottosuolo.

Indicazioni costruttive: i sistemi drenanti sono dei sistemi che vanno ad intercettare le acque di infiltra-zione e le recapitano nei collettori naturali. Le principali tipologie sono:

1) trincee drenanti; 2) cunei filtranti.

Le trincee drenanti sono scavi rivestiti da geosintetici e riempiti di materiale drenante (ciottolame o fasci-nate), aventi sul fondo una tubazione di drenaggio. I cunei filtranti sono opere in legname di intercetta-zione della superficie di affioramento delle acque, che vengono convogliate in un collettore posto alla base dell’opera stessa.

Figura 3.3.3B: Trincea drenante (Fonte: ANPA, Atlante delle opere di sistemazione dei versanti).

Figura 3.3.3A: Schema di trincea drenante.

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3.4 Interventi di difesa dagli incendi: laghetti collinariPremessa e inquadramento generaleIl patrimonio boschivo regionale rappresenta un bene insostituibile per la qualità della vita e inestimabile per le importanti funzioni che esso svolge nella conservazione e nella tutela dell’ambiente e del territo-rio regionale. La superficie forestale della Regione Sardegna ammonta complessivamente a 1’213’250 ettari, corrispondente a circa il 50% dell’intera superficie regionale: il dato, stimato dal nuovo Inventario Nazionale delle Foreste e dei serbatoi di Carbonio e citato dal Piano Forestale Ambientale Regionale, comprende le categorie di superficie forestale denominate “bosco” e “altre terre boscate”, rispettiva-mente di estensione pari a 583’4�2 ettari e a �29’��8 ettari. La prima tipologia include tutte le estensioni di terreno di almeno 5’000 m2, coperte per almeno il 10% da alberi e arbusti, con larghezza minima di 20 metri e altezza minima degli alberi di 5 metri; la seconda tipologia è rappresentata dalle superfici dotate dei seguenti requisiti: copertura compresa tra il 5 e il 10% con alberi in grado di raggiungere un’altezza di almeno 5 metri alla maturità oppure copertura superiore al 10% con alberi di altezza inferiore a 5 metri, cespuglieti e arbusti (macchie mediterranee).Le foreste svolgono un ruolo multifunzionale indispensabile anche per la difesa del suolo: esse contri-buiscono in maniera determinante alla stabilità dei terreni, a contrastare i fenomeni di dissesto idrogeo-logico e di lotta alla progressione dei fenomeni di desertificazione; la vegetazione sviluppata in ambienti ripari favorisce la tutela dei corpi idrici e svolge un’azione protettiva, di filtro e di autodepurazione, delle risorse idriche dalla contaminazione di inquinanti; infine il patrimonio forestale costituisce un elemento di primaria importanza per la tutela degli ecosistemi contribuendo al mantenimento e incremento della biodiversità.L’attività di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi costituisce quindi un atto di importan-za strategica per gli effetti positivi che si possono ottenere dalla salvaguardia del patrimonio boschivo.Con la legge 353/2000 “Legge-quadro in materia di incendi boschivi” sono state disposte azioni finaliz-zate alla conservazione e alla difesa dagli incendi del patrimonio boschivo nazionale che prevedono, in primo luogo, l’adozione da parte delle Regioni di un Piano regionale di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi. La Regione Sardegna ha adottato tale Piano nel 200�.Il Piano, aggiornato annualmente, individua (Art. 3, L. 353/2000):

“a) le cause determinanti ed i fattori predisponenti l’incendio;b) le aree percorse dal fuoco nell’anno precedente, rappresentate con apposita cartografia;c) le aree a rischio di incendio boschivo rappresentate con apposita cartografia tematica aggiornata, con l’indicazione delle tipologie di vegetazione prevalenti;d) i periodi a rischio di incendio boschivo, con l’indicazione dei dati anemologici e dell’esposizione ai venti;e) gli indici di pericolosità fissati su base quantitativa e sinottica;f) le azioni determinanti anche solo potenzialmente l’innesco di incendio nelle aree e nei periodi a rischio di incendio boschivo di cui alle lettere c) e d);g) gli interventi per la previsione e la prevenzione degli incendi boschivi anche attraverso sistemi di mo-nitoraggio satellitare;h) la consistenza e la localizzazione dei mezzi, degli strumenti e delle risorse umane nonché le procedure per la lotta attiva contro gli incendi boschivi;i) la consistenza e la localizzazione delle vie di accesso e dei tracciati spartifuoco nonché di adeguate fonti di approvvigionamento idrico;l) le operazioni silvicolturali di pulizia e manutenzione del bosco, con facoltà di previsione di interventi sostitutivi del proprietario inadempiente in particolare nelle aree a più elevato rischio;m) le esigenze formative e la relativa programmazione;n) le attività informative;o) la previsione economico-finanziaria delle attività previste nel piano stesso.”

OPeRe iDRAULiChe

Scopo: regolazione dei corsi d’acqua, correzione della pendenza, difesa dall’erosione.

Indicazioni costruttive: le principali tipologie sono:

1) briglie in legname e pietrame; 2) scogliere rivegetate.

Le briglie vengono realizzate in modo analogo alle palificate, hanno una sagoma a trapezio rovescia-to, con la parte centrale ribassata rispetto alle parti laterali. Le scogliere sono invece costituite interamente in pietrame e materiale vegetale vivo, e vengono rea-lizzate per difendere le sponde dei corsi d’acqua dall’erosione.

OPeRe Di StAbiLizzAziONe e/O SOSteGNO

Scopo: stabilizzazione e sostegno dei pendii, rico-struzione di versanti interessati da fenomeni franosi, trattenuta di materiale superficiale, rivegetazione di superfici in erosione.

Indicazioni costruttive: le principali tipologie sono:

1) palificate semplici; 2) palificate vive di sostegno a una parete

o a doppia parete; 3) palificate di sostegno a gradoni; 4) grate vive; 5) manufatti di sostegno in pietrame.

Le palificate vengono realizzate con legname scor-tecciato e durabile, legato e fissato a valle da pic-chetti in legno o metallici; in seguito vengono inse-rite talee e viene effettuato l’inerbimento. Le grate vive permettono di sistemare scarpate con elevate pendenze (anche oltre �0°): non sono opere di sostegno, bensì di stabilizzazione. I muri in pietrame sono invece opere puramente di sostegno, realizzate a secco o con malta cementizia per il contenimento al piede di versanti o scarpate.

Figura 3.3.4A: Schema di palificata semplice.

Figura 3.3.4B: Palificata (Fonte: ANPA, Atlante delle opere di sistemazione dei versanti).

Figura 3.3.5A: Schema di briglia con platea antie-rosione in massi.

Figura 3.3.5B: Briglia legname e pietra (Fonte: ANPA, Atlante delle opere di sistemazione dei versanti).

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Un’azione fondamentale indicata dalla suddetta legge riguarda il censimento tramite apposito catasto, eseguito da parte dei Comuni, dei soprassuoli percorsi dal fuoco nel quinquennio precedente all’ado-zione del Piano regionale (Art. 10, comma 2, L. 353/2000). L’Art. 10 formula inoltre i seguenti divieti per le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco:

• Non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni (è comunque consentita la costruzione di opere pubbliche necessarie alla sal-vaguardia della pubblica incolumità e dell’ambiente);

• In tutti gli atti di compravendita di aree e immobili situati nelle predette zone, stipulati entro quindici anni dagli eventi incendiari, deve essere espressamente richiamato il vincolo prece-dente, pena la nullità dell’atto;

• È inoltre vietata per dieci anni, sui predetti soprassuoli, la realizzazione di edifici nonché di strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive, fatti salvi i casi in cui per detta realizzazione sia stata già rilasciata, in data precedente l’incendio e sulla base degli strumenti urbanistici vigenti a tale data, la relativa autorizzazione o concessione;

• Sono vietate per cinque anni, sui predetti soprassuoli, le attività di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse finanziarie pubbliche, salvo specifica autoriz-zazione concessa dal Ministro dell’ambiente, per le aree naturali protette statali, o dalla regione competente, negli altri casi, per documentate situazioni di dissesto idrogeologico e nelle situazioni in cui sia urgente un intervento per la tutela di particolari valori ambientali e paesaggistici;

• Sono altresì vietati per dieci anni, limitatamente ai soprassuoli delle zone boscate percorsi dal fuoco, il pascolo e la caccia.

La ragione di tali obblighi e divieti nasce dalla constatazione che le cause principali determinanti gli incendi sono per lo più di origine dolosa (in Sardegna è circa il �0% in base ad indagini compiute dal Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale della Regione Sardegna nel periodo 1994-2005- dato del Piano regionale di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi 2005-200�). La capacità di limitare l’impatto di un incendio è legata a diversi fattori, tra cui i più rilevanti sono:

• La tempestività di avvistamento e intervento, che dipende da:

o Presenza capillare di sistemi di avvistamento; o Presenza capillare di nuclei di lotta attiva, sia aerei che terrestri; o Accessibilità dell’area; o Presenza di risorse idriche per lo spegnimento;

• La presenza di viali parafuoco.

L’attività di prevenzione antincendio si attua con azioni diversificate che, in linea di massima, riguar-dano da un lato l’aspetto divulgativo, informativo ed educativo, dall’altro interventi di carattere più diretto di natura selvicolturale e di applicazione di buone pratiche. L’obiettivo è quello di realizzare azioni mirate a ridurre le cause e il potenziale di innesco degli incendi. Su tutto, occorre evidenziarlo, influiscono anche gli indirizzi politici generali che devono concorrere a limitare le tensioni sociali ed i contrasti interni del mondo rurale che tante volte hanno creato gravi conseguenze ambientali alla regione.L’attività di recupero delle aree boschive incendiate è invece finalizzata alla mitigazione dei danni e a favorire nei tempi più celeri il recupero delle funzioni vegetative e più in generale ecologiche dell’eco-sistema interessato.Per quanto concerne le attività di informazione e divulgazione occorre, tra le altre, citare la diffusione ad opera dell’Assessorato della Difesa dell’Ambiente delle prescrizioni annuali antincendio, attraverso la spedizione per posta di una copia ad ogni utenza residenziale della Sardegna, all’inizio della campa-gna regionale antincendio. Dalla loro lettura si traggono sia gli obblighi di legge in materia per i vari operatori del tessuto economico che gli inviti a comportamenti idonei e responsabili di tutti.In termini di programmazione forestale la Regione Sardegna aveva già previsto nel P.O.R. 2000/200� - Misura 1.9 una serie di interventi volti alla riduzione del rischio incendio attraverso azioni di preven-

zione, sorveglianza e restauro forestale sintetizzate nella tabella seguente:

AziONe

Adeguamento e poten-ziamento dei sistemi fissi terrestri di avvistamento (P, S)

DeSCRiziONe

L’intervento prevede di dotare le postazioni esistenti, gran parte delle quali attrezzate nel periodo estivo di utilizzo con strutture a carattere provvisorio, con idonee strutture fisse realizzate in modo da resistere nel tempo agli agenti atmosferici e da consentire agli addetti azioni di vigilanza anche dall’interno delle medesime. Tali strutture verranno realizzate con ogni accorgimento necessario a limitarne l’impatto ambientale.

eNti AttUAtORi

Comuni, Unioni di Comuni, Ente Foreste della Sardegna

Adeguamento e poten-ziamento delle strutture logistiche delle basi antin-cendio, dei centri operati-vi e relative attrezzature di pertinenza (P)

Adeguamento alla normativa vigente in materia di volo aereo, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e urbanistico-sanitarie.Potenziamento attraverso la dotazione di mezzi speciali per la prevenzione e il primo intervento antincendio, ivi comprese le autobotti di media capacità per il riempimento delle vasche di accumulo antincendio e o spargimento di liquidi ritardanti, e di mezzi leggeri quali fuoristrada del tipo cassonato.

Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale

Potenziamento della rete di punti di attingimento idrico (P)

L’intervento prevede due tipologie di manufatti, di capienza rispettivamente pari a 360 e 150 mc.Saranno dotati di apposita recinzione al fine di evitare ca-dute accidentali e laddove possibile, dove cioè non vi sia-no cause ostative all’utilizzo da parte dei velivoli, verranno realizzati a valle di depuratori di acque reflue, civili o in-dustriali.

Comuni, Unioni di Comuni, Ente Foreste della Sardegna

Operazioni selvicoltura-li e di manutenzione di aree boscate a maggiore rischio d’incendio (P)

Gli interventi, finalizzati a prevenire il rischio di incendi o a ridurne i danni conseguenti, consisteranno in particolare in:

• riduzione della biomassa particolarmente combustibi-le e rimozione della necromassa;

• sfalcio, ripulitura e trattamento antincendio delle scar-pate e dei margini stradali, autostradali e ferroviari adiacenti formazioni boschive;

• ripuliture straordinarie selettive dai rifiuti di scarpate o stradelle di servizio all’interno dei boschi o limitrofe ad essi.

Comuni, Unioni di Comuni, Ente Foreste della Sardegna

Ricostituzione boschiva nei terreni percorsi da incendi con particolare riferimento alle sughere-te (RF)

L’intervento prevede:• potature e tagli di rigenerazione;• tagli di “succisione” e “tramarratura” al fine di stimo-

lare la capacità pollonifera della ceppaia per ottenere quanto prima vigorosi ricacci della pianta;

• operazioni di demaschiatura e di estrazione del su-ghero bruciato, quando il costo di tale operazione è superiore all’eventuale ricavo;

• perimetrazione delle aree mediante opportune recin-zioni al fine di garantire l’interdizione al pascolo.

Comuni, Unioni di Comuni, Ente Foreste della Sardegna

Tabella 3.4.1: Azioni di prevenzione, sorveglianza e restauro forestale previste dalla programmazione forestale della Regione Sardegna (P.O.R. 2000/2006 - Misura 1.9).

(P=prevenzione; S=sorveglianza; RF=restauro forestale)

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Amministrazioni coinvolteIl progetto coinvolge Amministrazioni ed Enti Pubblici a vari livelli, secondo le specifiche competenze e gli strumenti a disposizione, come riportato dalla seguente tabella.

obiettivi del progettoL’interesse prioritario del progetto è rivolto alla realizzazione di interventi di carattere locale inquadra-bili nell’attività di prevenzione dagli incendi boschivi. Il progetto prende avvio dall’azione indicata nel POR Sardegna 2000-200�, Misura 1.9, “Potenzia-mento della rete di punti di attingimento idrico” e si propone di sviluppare una tipologia di fonte di approvvigionamento ad uso antincendio, i laghetti collinari, dotati di notevoli valenze positive.

Sviluppo del progetto

1. Le RISoRSe IdRIChe PeR L’AttIvItà ANtINCeNdIo

Per lo spegnimento degli incendi sono utilizzate attualmente sia acque dolci, sia acque salate o salma-stre. La risorsa idrica fondamentale per l’attività antincendio con mezzi aerei ed elicotteri è costituita dal mare, grazie alla sua vicinanza rispetto alle zone interne dell’isola.Le acque dolci sono distribuite su tutto il territorio, stoccate in invasi di varie tipologie: pozzi, vasconi mobili, vasconi, laghetti collinari, laghi. Le capacità variano da pochi metri cubi (pozzi, vasconi mobili) fino a centinaia di milioni di metri cubi (laghi). I laghi adatti ad essere utilizzati da mezzi aerei sono tuttavia pochi e presentano livelli inadeguati durante alcune stagioni.La rete di attingimento idrico esistente è stata tarata in funzione del prelievo aereo mediante velivoli di capacità ridotta, pari a 800-1000 litri, ma non risulta essere adeguata per il prelievo da parte di velivoli quali gli helitanker, aventi elevata capacità dell’ordine di �000-9000 litri.L’azione di potenziamento della rete di punti di attingimento idrico, prevista dal P.O.R. e richiesta nel Piano regionale di previsione, prevenzione e lotta attiva agli incendi boschivi, viene attuata attraverso l’incremento dei punti di attingimento nelle aree attualmente carenti, al fine di ridurre i tempi di rota-zione degli elicotteri sugli incendi con conseguente aumento dell’efficienza sullo spegnimento.

2. I LAGhettI CoLLINARI

Accanto alla prevista realizzazione di vasconi aventi le caratteristiche specificate dal Piano, vi è la possibilità di realizzare anche un’altra tipologia di opera, i laghetti collinari. Il territorio della Sardegna, caratterizzato per il �2% da quote superiori ai 200 m s.m.m. si presta all’individuazione di siti idonei alla realizzazione di laghetti collinari. Tali opere consentono di perseguire numerosi benefici fra cui:

• Elevata capacità idrica ad uso antincendio, sfruttabile sia da mezzi aerei che terrestri;• Capacità idrica diffusa sul territorio;• Utilizzo di acque meteoriche come fonte di approvvigionamento: in questo modo non è ne-

cessario sfruttare risorse pregiate, come acqua potabile talvolta utilizzata per il riempimento dei vasconi;

• Possibilità di altri usi compatibili della risorsa: ad esempio per l’irrigazione di colture specializzate;• Se realizzati in zona di interfaccia urbano-foresta esercitano una funzione difensiva per i cen-

tri urbani; se di elevata estensione (dimensione minore superiore a 30 m ed elevato sviluppo longitudinale) essi costituiscono barriere para-fuoco;

• Se ben progettati, possono armonizzarsi ai valori paesaggistici del territorio e acquisire nel tempo una rispondenza ecologica propria.

I laghetti collinari sono un tipo di invaso realizzato artificialmente e destinato ad usi multipli: general-mente il principale è quello irriguo, ma gli invasi possono servire anche alla regimazione delle piene, all’accumulo di acqua ad uso potabile, per attività turistiche o di itticoltura, per la difesa contro gli incendi. Tali usi però non sempre possono essere compatibili tra loro.L’uso dei laghetti come sistema di difesa contro gli incendi si attua sia con un’azione para-fuoco, sia come riserva di acqua per l’alimentazione di impianti e mezzi antincendio.I laghetti collinari vengono realizzati sfruttando la morfologia collinare all’interno della quale sono individuati piccoli avvallamenti e molteplici sistemi di bacini idrografici. Realizzando opportune opere di contenimento, come ad esempio degli argini in terra, e sistemi di convogliamento delle acque da uno o più bacini verso l’invaso, oppure realizzando opere di derivazione da corsi d’acqua, è possibile garantire il riempimento e l’alimentazione dei laghetti. L’invaso dovrà essere dotato di un’opera di presa, per il prelievo dell’acqua necessaria ai diversi utilizzi e di un’opera di sfioro, per lo smaltimento dei volumi eccedenti la capacità massima d’invaso. Particolare attenzione va posta nella progettazione dello sfioro: il manufatto deve essere dimensionato in modo da impedire in ogni condizione il sormonto delle opere di contenimento, realizzate generalmente in terra, che ne causerebbe il crollo con conseguente distruzione dell’opera e notevole pericolo per il territorio circostante. Il progetto dovrà prevedere quindi una verifica del funzionamento dell’opera in condizioni di piena.Devono essere presenti inoltre dei manufatti quali i dissabbiatori in grado di limitare l’ingresso di sedi-menti nel serbatoio, evitando così il possibile interrimento con conseguente riduzione di capacità.

3. PRINCIPALI CRIteRI PeR LA SCeLtA deL SIto

Di seguito sono elencati i principali criteri cui fare riferimento per la scelta di possibili siti idonei alla realizzazione degli invasi:

• Alcune zone collinari possono essere caratterizzate da fenomeni di instabilità a causa delle caratteristiche geotecniche dei terreni: è necessario pertanto uno studio geologico e geo-morfologico dell’area destinata ad accogliere l’invaso per valutare l’idoneità del sito.

• Presenza di fonti di alimentazione: il bacino di raccolta deve avere estensione sufficiente al riempimento dell’invaso (si può realizzare una apposita rete di scolo che convogli le acque nel bacino) oppure deve essere disponibile un corso d’acqua dal quale effettuare una deri-vazione. È necessario quindi un approfondito studio idrologico.

• Volume d’invaso e profondità: gli invasi più idonei devono avere volume sufficiente a ga-rantire, oltre all’uso antincendio, anche altri utilizzi come piccoli interventi irrigui (ad es. 20’000-50’000 m3); una maggiore profondità è utile a ridurre l’occupazione di superficie, a parità di volume.

Amministrazione o ente

REGIONE

Strumento / Azione

Aggiornamenti del Piano regionale per la programmazione delle attività di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi.

PROVINCE

COMUNE

ENTE FORESTALE

Adozione/adeguamento piani di protezione civile.

Realizzazione del catasto delle aree percorse dal fuoco; realizzazione interventi previsti dal POR 2000-2006, Misura 1.9; individuazione dei siti idonei alla realizzazione dei laghetti collinari; adozione/adeguamento piani di protezione civile.

Realizzazione interventi previsti dal POR 2000-2006, Misura 1.9; individuazione siti idonei e realizzazione dei laghetti collinari.

CORPO FORESTALE E VIGILANZA AMBIENTALE

Pianificazione, previsione e coordinamento in materia di antincendio boschivo e nelle campagne; acquisizione di beni e servizi destinati all’attività antincendio; gestione degli impianti di comunicazione e rilevamento.

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• Accessibilità: per facilitare le operazioni di terra e la manutenzione.• Vicinanza di edifi ci: può costituire una limitazione alla realizzazione degli invasi; tuttavia

non è da escludere la possibilità di realizzare tali opere nelle zone di interfaccia tra ambito urbano e forestale, allo scopo di tutelare i centri abitati dagli incendi.

• Posizione rispetto a vie di comunicazione: per consentire l’utilizzo della risorsa anche da parte di mezzi terrestri.

• Posizione rispetto ad aree ad elevato rischio incendio: la prossimità ad aree a elevato rischio consente di operare ed intervenire con maggiore rapidità.

• Destinazione d’uso del terreno: può infl uire sul costo dell’opera.

4. uN eSemPIo dI PRoGettAZIoNe

Le seguenti immagini mostrano due possibili siti di intervento, individuati in un particolare ambiente, quello dei terreni carsici, sfruttando la loro morfologia caratterizzata dalla presenza di doline1 , che for-mano avvallamenti anche di entità notevole. Le dimensioni degli invasi mostrati nell’esempio, ricavate sulla base delle curve di livello rappresentate nella Carta Tecnica Regionale, sono le seguenti:

• Esempio1) Superfi cie occupata: 1.9 ha; Profondità massima: 10 m; Volume invasabile: 110’000 m3.

• Esempio 2) Superfi cie occupata: 3.8 ha; Profondità massima: 14 m; Volume invasabile: 2�0’000 m3.

1 Per contro questo tipo di suolo presenta fessurazioni (sul fondo della dolina in genere è presente un inghiottitoio – “mamuscone”) che lo rendono molto permeabile. Nei casi illustrati risulta quindi indispensabile l’impermeabilizzazione della superfi cie.

Se si ipotizza una precipitazione media annua sulle aree collinari della regione pari a circa 800 mm, e si assume un coeffi ciente di defl usso pari a 0.3 (tale valore varia, in realtà, in funzione di diversi fattori quali la permeabilità e la pendenza dei suoli, il tipo di copertura – bosco, pascolo, terreno agricolo – ecc…), si possono ritenere utili al riempimento degli invasi circa 250 mm/anno. Le principali perdite di volume invasato sono legate invece all’evaporazione dallo specchio liquido e all’infi ltrazione nel sottosuolo dal fondo del laghetto.L’evaporazione può essere quantifi cata (Visentini) in circa 1’400 mm/anno; considerata la precipitazio-ne media sulla superfi cie del laghetto di 800 mm/anno il volume netto evaporato dallo specchio liquido è pari a circa �00 mm/anno. Con riferimento ai due esempi sopra riportati si ottiene un volume perso per evaporazione rispettivamente pari a �’000m3/ha/anno x 1.9ha = 11’400 m3/anno e a �’000m3/ha/anno x 3.8ha = 22’800 m3/anno.L’infi ltrazione dipende principalmente dalle caratteristiche del suolo e del sottosuolo. Anche un terreno poco permeabile può però determinare, nell’arco dell’anno, perdite considerevoli. L’indagine geotecni-ca del sito consente di determinare le caratteristiche del suolo e del sottosuolo, di verifi care la presenza di fessure, il livello e le variazioni della falda e di stabilire l’entità della perdita.Sarebbe tuttavia opportuno prevedere l’impermeabilizzazione dell’invaso, specialmente per laghetti di dimensioni contenute come quelli esemplifi cati e soprattutto nei casi di utilizzo delle acque quali quelli previsti dal presente progetto.L’impermeabilizzazione del fondo consente inoltre di limitare una particolare conseguenza negativa legata all’infi ltrazione dal fondo del laghetto: il fl usso sotterraneo infatti può in alcuni casi modifi care l’idrodinamica dei suoli circostanti con ripercussioni negative soprattutto per i terreni agricoli, poiché l’infi ltrazione determina un incremento di umidità del suolo e ciò pone delle limitazioni a determinati tipi di colture.Se si volesse riempire l’invaso nell’arco di un solo anno il bacino di raccolta per i due casi d’esempio dovrà avere rispettivamente un’estensione di (110’000+11’400)m3/2’500m3/ha = 48.� ha per l’esem-pio 1) e di (2�0’000+22’800)m3/2’500m3/ha = 11�.2 ha per l’esempio 2), nell’ipotesi in cui il fondo dell’invaso sia impermeabile.Se si vuole destinare una parte di volume per l’uso irriguo, il bacino di raccolta deve avere necessaria-mente un’estensione tale da garantire annualmente l’accumulo di tale volume.

Figura 3.4.1: Invaso ottenuto sfruttando un avvallamento naturale: Esempio 1.

Figura 3.4.2: Invaso ottenuto sfruttando un avvallamento naturale: Esempio 2.

Baunei, bosco incendiato (foto di Claudio Maullu)

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5. CoNSIdeRAZIoNI CoNCLuSIve

Per quanto opere come i laghetti collinari presentino notevoli vantaggi e utilità, la decisione di realiz-zare questo tipo di interventi deve essere valutata in base anche ad altri criteri decisionali, come quello dell’analisi costi-benefi ci, dove però fra i benefi ci conseguibili è importante che sia stimato non solo il danno economico ma anche il danno ambientale provocato dagli incendi.I laghetti collinari, occorre sottolinearlo, sono interventi complessi dal punto di vista progettuale sia per le analisi che è necessario compiere sia per ottenere il migliore inserimento dell’opera nell’ambiente, e possono inoltre risultare soggetti a procedure di valutazione di impatto ambientale nei seguenti casi previsti dalla normativa.

*le soglie dimensionali si riducono del 50% qualora i progetti ricadano anche solo parzialmente in aree protette

PROGetti A CUi Si APPLiCA LA veRiFiCA Di ASSOGGettAbiLitÀ A viA (SCReeNiNG) SOGLie DiMeNSiONALi*

Derivazione di acque superfi ciali ed opere connesse

Derivazione di acque sotterranee ed opere connesse

Opere di regolazione del corso dei fi umi e dei tor-renti, canalizzazione e interventi di bonifi ca ed altri simili destinati ad incidere sul regime delle acque

Derivazioni superiori a 200 litri al secondo

Derivazioni superiori a 50 litri al secondo

Deforestazione allo scopo di conversione di altri usi del suolo

Superfi cie superiore a 5 ha

4.1 La riduzione dei rifi uti e il GPP nelle azioni della Pubblica AmministrazioneLa gestione dei rifi uti, la cui produzione è costantemente in crescita, è sempre più un costo in termini ambientali ed economici, ecco perché la prevenzione e la minimizzazione della produzione dei rifi uti sono state poste al centro delle politiche delle pubbliche amministrazioni e dei diversi settori dell’indu-stria e del commercio. È maturata una nuova sensibilità che in parte è legata all’evoluzione normativa a livello europeo e nazionale, e in parte all’aumento dei costi di gestione del ciclo ed in particolare della fase di smaltimento dei rifi uti.Prevenire e ridurre la produzione di rifi uti rappresenta oggi un obiettivo importante in termini di effi cienza, effi ca-cia del servizio ai cittadini e di raggiungimento della sostenibilità ambientale nella gestione integrata del ciclo.Una moderna politica di gestione integrata dei rifi uti deve prendere in considerazione tutto il ciclo di vita, dalla produzione dei beni fi no alla loro dismissione, individuando, in ogni fase, tutte le possibili azioni che ne evitino e ritardino la trasformazione in residui destinati allo smaltimento.Il GPP (Green Public Procurement) è uno degli strumenti principali che gli enti locali e la Pubblica Amministrazione (PA) hanno a disposizione per mettere in atto strategie di sviluppo sostenibile mirate a ridurre gli impatti ambientali dei processi di consumo e produzione, attraverso una gestione più responsabile delle risorse naturali e dei rifi uti.Il settore degli approvvigionamenti pubblici rappresenta mediamente il 1�% del PIL dell’UE corrispon-dente a circa 1.500 miliardi di Euro.Gli enti locali, trasferendo la loro capacità d’acquisto su prodotti a impatto ambientale ridotto ed inclu-dendo i criteri ambientali nelle procedure d’acquisto, hanno quindi la possibilità concreta di orientare il mercato così da:

• Ridurre gli impatti sull’ambiente delle proprie attività e incrementare la domanda per i pro-dotti ambientalmente sostenibili;

• Spingere le imprese a produrre beni con migliori prestazioni ambientali; • Fornire un modello di comportamento responsabile verso l’ambiente.

Pertanto la domanda di prodotti e servizi orientata non solo in base alla loro convenienza economica, ma anche in base alle loro caratteristiche ambientali, incoraggia le imprese a immettere sul mercato prodotti “verdi” competitivi anche in termini di concorrenza e quindi di costi.Nel settore dei rifi uti il Green Procurement costituisce uno degli strumenti fondamentali a disposizione della Pubblica Amministrazione per l’attuazione di misure di prevenzione stimolando trasformazioni nelle modalità di produzione attraverso l’azione sul fronte della domanda. Lo sviluppo delle tecnologie per la riduzione e il riciclo è fortemente supportato da politiche di acquisto ecologico che possono essere dirette a creare e allargare il mercato dei prodotti basati sull’impiego di materiali riciclati o co-munque a ridotto impatto ambientale. Il Green Procurement, focalizzato sull’uso di prodotti ambien-talmente più effi cienti, contribuisce anche a ridurre la dispersione di sostanze tossiche e il loro rilascio come rifi uti (o contaminanti) in fase di produzione oltre che di uso e smaltimento fi nale.

Benefi ci e potenzialità dei GPPLa Commissione Europea ha cercato di valutare scientifi camente, attraverso un progetto di ricerca, i potenziali benefi ci ambientali che si avrebbero se gli appalti pubblici verdi fossero largamente adottati dagli Stati membri dell’UE. Da quanto ne è emerso si è concluso che:

• se tutti gli enti pubblici richiedessero la fornitura di energia verde, si eviterebbe di produrre l’equiva-lente di �0 milioni di CO

2, che corrisponde al 18% degli impegni di riduzione di emissioni di gas ad

effetto serra a cui l’Unione Europea deve adempiere in base all’adesione al protocollo di Kyoto;

PROGetti SOttOPOSti A viA SOGLie DiMeNSiONALi*

Utilizzo non energetico di acque superfi ciali

Utilizzo non energetico di acque sotterranee

Dighe e altri impianti destinati a trattenere, regolare o accumulare le acque in modo durevole, ai fi ni non energetici

Derivazione superiore a 1’000 litri al secondo

Derivazione superiore a 100 litri al secondo

Altezza superiore a 10 m capacità superiore a 100’000 m3

RIFIUTI

Hanno collaborato: Giacetti W., Carraro A., Venturi R., Calegari G., Cappelletto C., Furlan S.

Tabella 3.4.2: Progetti di competenza delle Regioni sottoposti a VIA o a verifi ca di assoggettabilità a VIA, secondo il D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 e la D.G.R. n. 24/23 del 23 aprile 2008.

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• se tutti gli enti pubblici richiedessero computers a basso consumo energetico, e questo riuscisse ad orientare l’intero mercato in quella direzione, non verrebbero più immesse nel-l’atmosfera 830.000 tonnellate di CO

2;

• se tutti gli enti pubblici europei scegliessero servizi igienici e rubinetti effi cienti nelle loro strutture, questo comporterebbe una riduzione del consumo di acqua intorno ai 200 milioni di tonnellate1.

Quadro NormativoLa gerarchia di gestione dei rifi uti è disciplinata dall’art. 1�9 del D.Lgs. 152/0� “Criteri di priorità nella gestione dei rifi uti” che stabilisce quali misure prioritarie la prevenzione e la riduzione della produzione e della nocività dei rifi uti, attraverso una serie di azioni quali:

• lo sviluppo di tecnologie pulite, che permettano un uso più razionale e un maggiore rispar-mio di risorse naturali;

• la messa a punto tecnica e l’immissione sul mercato di prodotti concepiti in modo da non contribuire o da contribuire il meno possibile, per la loro fabbricazione, il loro uso o il loro smaltimento, ad incrementare la quantità o la nocività dei rifi uti e i rischi di inquinamento;

• lo sviluppo di tecniche appropriate per l’eliminazione di sostanze pericolose contenute nei rifi uti al fi ne di favorirne il recupero.

Alle misure dirette al recupero dei rifi uti mediante riutilizzo, riciclo o ogni altra azione diretta ad ot-tenere da essi materia prima secondaria viene inoltre conferita una priorità rispetto all’uso dei rifi uti come fonte di energia.

Altra normativa nazionale di riferimento è il DM n. 203/2003, che ha introdotto, per tutti gli enti pubblici e le società a prevalente capitale pubblico, l’obbligo di approvvigionarsi con manufatti e beni realizzati con materiale riciclato preveniente dal post-consumo, in misura pari ad almeno il 30% del proprio fabbisogno annuale. Successivamente sono state emanate una serie di norme attuative set-toriali:

• Circolare 8 giugno 2004. Indicazioni per l’operatività nel settore tessile e abbigliamento. (G.U. 23 giugno 2004, n. 145)

• Circolare 3 dicembre 2004. - Indicazioni per l’operatività nel settore della carta. (G.U. 15 dicembre 2004, n. 293) - Indicazioni per l’operatività nel settore legno e arredo. (G.U. 1� dicembre 2004, n. 294)

• Circolare 22 marzo 2005. Indicazioni per l’operatività nel settore degli ammendanti. (GU n. 81 del 8-4-2005)

• Circolare 31 gennaio 200�, n. 8�2. Indicazioni relative all’operatività nel settore degli oli minerali usati. (GU n. 34 del 10-2-200�)

Il quadro giuridico relativo all’inserimento di criteri ambientali negli acquisti pubblici è stato chiarito con le Direttive 2004/1�/CE e 2004/18/CE che hanno permesso di integrare considerazioni ambientali nelle procedure di appalto, coerentemente con gli atti di indirizzo emanati dalla stessa UE e con le prassi già affermate presso diverse PA in Europa.Le Direttive 1� e 18 del 2004 hanno riconosciuto la valenza degli aspetti di tutela ambientale e sociale subordinando il principio di economicità alla valorizzazione di tali criteri.In particolare nella Direttiva 18/2004 gli aspetti interessati dalla tutela ambientale possono riguardare in particolar modo:

1 “Acquistare verde! Manuale sugli appalti pubblici ecocompatibili” – Commissione Europea, 2005

• le specifi che tecniche;• le modalità di esecuzione dell’appalto;• gli obblighi relativi alla tutela ambientale;• le capacità tecniche professionali;• le norme di gestione ambientale;• i criteri di aggiudicazione dell’appalto.

Con la Direttiva 2004/18/CE le Amministrazioni Pubbliche possono quindi prevedere prescrizioni fi -nalizzate all’approvvigionamento di prodotti e di servizi ecocompatibili, nelle varie e diverse fasi della procedura d’acquisto:

• nel defi nire l’oggetto dell’appalto, cioè la quantità e la qualità del prodotto, del lavoro o servizio. Importanti informazioni sulle caratteristiche ambientali dei prodotti, servizi e lavori che si vogliono appaltare si possono ricavare dalle analisi di mercato;

• nella defi nizione delle specifi che tecniche dei prodotti e servizi. Gli enti appaltanti possono scegliere tra specifi che basate su norme tecniche o su requisiti basati sulle prestazioni. Nel defi nire le specifi che degli appalti pubblici possono essere utili le norme tecniche in quanto sono chiare, non discriminatorie ed elaborate sulla base di un ampio consenso. Per defi nire i requisiti ambientali è possibile quindi utilizzare le specifi che di riferimento delle ecoetichet-te. Tuttavia il possesso di un’ecoetichetta non può essere posto come requisito di partecipa-zione alle procedure di selezione dei contraenti;

• nella valutazione della capacità tecnica del concorrente. Le direttive sugli appalti conten-gono l’elenco dei criteri di selezione che possono essere adottati dall’ente appaltante allo scopo di verifi care la capacità tecnica degli offerenti. Le certifi cazioni ambientali EMAS o ISO 14001 possono servire come prova per dimostrare la loro capacità tecnica a realizzare misure di gestione ambientale;

• nello stabilire il criterio di aggiudicazione per stabilire l’offerta più vantaggiosa econo-micamente, nella quale oltre il prezzo, si utilizzano altri criteri pertinenti all’oggetto e che procurino un vantaggio all’Amministrazione;

• nella fase di esecuzione contrattuale della fornitura o del servizio (es. trasporto con mezzi ecologici, recupero imballaggi, riutilizzo prodotto fi nito).

Tali indicazioni della Comunità Europea sono state recepite dalla Normativa Nazionale con il D. Lgs. 12 aprile 200� n. 1�3 Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture. In particolare:

• L’art. 2 ha introdotto la possibilità di subordinare il principio di economicità a criteri ispirati a esi-genze sociali, alla tutela dell’ambiente e della salute e alla promozione dello sviluppo sostenibile;

• L’art. 40 e l’art. 42 si occupano delle capacità tecniche e professionali (art. 48 Direttiva Eu-ropea 18/2004);

• L’art 44 sulle norme di gestione ambientale (art. 50 Direttiva 18/2004); • L’art. 58 che inserisce le componenti di sostenibilità ambientale tra quelle che permettono

di considerare un appalto “particolarmente complesso” e quindi di ricorrere al “dialogo competitivo”;

• L’art. �8 prevede che “ogni qualvolta sia possibile” gli aspetti di tutela ambientale devono essere tenuti in considerazione nell’individuazione delle specifi che tecniche;

• L’art. �9 sulle condizioni di esecuzione dell’appalto (art. 2� Direttiva 18/2004); • L’art. 83 “criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”.

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Piano Nazionale d’azione sul GPP - PAN GPPLa legge 2� dicembre 200� n. 29� (Finanziaria 200�) prevedeva all’art. 1 comma 112�:“…l’attuazione e il monitoraggio di un Piano d’azione per la sostenibilità ambientale dei consumi della pubblica amministrazione, predisposto dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, di concerto con i Ministri dell’Economia e Finanze e dello Sviluppo Economico…” Con l’entrata in vigore del decreto interministeriale n. 135 dell’11 aprile 2008 è stato approvato il Piano di azione per la sostenibilità nella PA (Piano d’azione nazionale sul Green Public Procurement), predisposto dal Ministero dell’Ambiente di concerto con i Ministeri dello Sviluppo Economico e del-l’Economia, offrendo per la prima volta un riferimento normativo nazionale ad alcune buone espe-rienze locali.Il piano d’azione nazionale ha l’obiettivo di promuovere la diffusione del GPP presso gli enti pubblici e intende favorire le condizioni necessarie per fare in modo che il GPP possa dispiegare in pieno le sue potenzialità come strumento per il miglioramento ambientale. In Italia si sono attivate diverse pubbliche amministrazioni locali, alcune fi liere produttive ed alcuni network e gruppi di lavoro nati per promuovere le pratiche di GPP (ad esempio Agenda 21 e GPP net). Due sono i principi importanti a cui dovranno rispondere tutte le azioni intraprese nell’ambito del GPP per la promozione dello sviluppo sostenibile:

• Principio della dematerializzazione dell’economia intesa come graduale riduzione degli sprechi e ottimizzazione delle risorse impiegate (materiali ed energetiche), per il soddisfaci-mento delle medesime funzioni;

• diffondere modelli di acquisto e di consumo che pongano attenzione agli impatti am-bientali e all’uso di risorse attraverso pratiche di buona gestione. La conoscenza di tali aspetti dovrà essere veicolata per quanto possibile attraverso attività di comunicazione e documenti di facile lettura destinati agli addetti agli acquisti e ai fruitori dei beni in questione.

La strategia GPP a livello italiano intende incidere su alcune problematiche ambientali di carattere generale ritenute particolarmente rilevanti nel nostro contesto. Si tratta di:

• Effi cienza e risparmio nell’uso delle risorse, in particolare dell’energia e conseguente ridu-zione delle emissioni di CO

2;

• Riduzione dell’uso di sostanze pericolose;

• Riduzione della quantità dei rifi uti prodotti.

Di conseguenza si pone l’obiettivo di incidere positivamente su altre problematiche ambientali quali la riduzione delle emissioni inquinanti e la riduzione dei relativi rischi ambientali.L’obiettivo nazionale è portare, entro il 2009, il livello degli acquisti “ambientalmente preferibili” in linea con i più elevati livelli europei. Il raggiungimento di questo obiettivo consentirà all’Italia di mi-gliorare il proprio posizionamento nei confronti dei Paesi considerati i più impegnati realizzatori di politiche di GPP.Uno studio recente sullo stato dell’arte del GPP in Europa, condotto dal Consorzio TAKE 5 per conto della Commissione Europea, ha posizionato l’Italia all’ottavo posto considerando il numero di capi-tolati sopra soglia contenenti criteri ambientali analizzati dal gruppo di ricerca: nel 2005 il 35% dei bandi italiani pubblicati conteneva più di un criterio ambientale, mentre meno del 10% conteneva più di tre criteri ambientali.

INdICAZIoNI GeNeRALI PeR tuttI GLI eNtI PuBBLICI

Tutti gli enti pubblici sono invitati ad adottare pratiche di GPP, in modo da favorire gli approvvigiona-menti di prodotti, servizi e lavori meno dannosi per l’ambiente e per la salute umana.Le Regioni sono invitate a includere il GPP nella normativa regionale e settoriale e valutare:

• la possibilità di veicolare incentivi economici previsti a legislazione vigente per supportare gli appalti;

• l’introduzione di criteri ambientali nel processo di razionalizzazione dell’acquisizione di beni, servizi, e lavori nella propria amministrazione nell’ambito del “Sistema a rete” di cui all’art.1 comma 45� della legge n. 29� del 200� (Legge Finanziaria 200�) tra Consip e le centrali d’acquisto regionali 2;

• l’orientamento del processo d’acquisto di beni, servizi e lavori degli enti locali verso criteri di sostenibilità ambientale.

Le Province e i Comuni sono altresì invitati a conformarsi ai contenuti del PAN, promuovendo interventi di effi cienza energetica nell’edilizia scolastica nonché integrando nelle procedure d’acquisto almeno i criteri ambientali minimi individuati dal piano d’azione nazionale.Particolare raccomandazione è rivolta agli enti locali registrati EMAS, in possesso di certifi cazione ISO 14001 e/o che hanno intrapreso un percorso Agenda 21, al fi ne di conformare le proprie politiche e i propri programmi agli obiettivi posti dal piano d’azione nazionale.

obiettivi ed interventi di riduzione della Regione SardegnaLa riduzione della produzione dei rifi uti è parte integrante degli obiettivi del Piano Regionale di gestio-ne dei rifi uti urbani, identifi cata in una serie di azioni e di interventi mirati che la Regione ha messo in previsione di realizzare.Il Piano Regionale identifi ca inoltre un obiettivo misurabile nella misura del contenimento dell’incremento dei rifi uti urbani in un massimo dell’1% annuo riferito alla produzione del 2005 da realizzare entro il 2013.Il Piano individua una serie di interventi:

interventi fi nalizzati alla riduzione dei conferimenti di rifi uti impropri nel circuito degli urbaniChe si traduce nella necessità di operare dei controlli effi caci sulla produzione in ambito comunale, sia sulla quantità che sulla qualità dei rifi uti. Lo sviluppo di raccolte domiciliari viene indicato come strumento effi cace per garantire nel breve periodo la riduzione, fi no alla progressiva eliminazione, del conferimento di tipologie di rifi uto non rientranti nel circuito urbano.

interventi di promozione dell’utilizzo di beni a maggior vita utile e minore produzione di rifi utiAttuare delle azioni di informazione e sensibilizzazione verso l’utilizzo di beni a maggior vita utile. Quali azioni di promozione dell’utilizzo di questi beni e prodotti, la Regione fornirà adeguato sostegno alle attività produttrici di beni e di componentistica a maggiore durata, facilmente riparabili, a minore peri-colosità e che permettano lo sviluppo di attività legate all’assistenza tecnica, alla manutenzione e più in generale alla produzione di servizi che minimizzino la tendenza alla sostituzione precoce col nuovo. Allo scopo dovranno essere previsti da parte degli Enti pubblici, nei propri capitolati d’appalto per forniture, incentivi per l’adozione di beni e materiali ad elevata durata e disincentivi all’adozione dell’usa e getta.

interventi di riduzione, recupero imballaggi e promozione di manufatti ottenuti conmateriale riciclatoFavorire ed incentivare, in sinergia col CONAI, lo sviluppo di un marchio di identifi cazione dei prodotti

2 Le centrali regionali e la CONSIP Spa costituiscono un sistema a rete, perseguendo l’armonizzazione dei piani di razionalizzazione della spesa e realizzando sinergie nell’utilizzo degli strumenti informatici per l’acquisto di beni e servizi. Nel quadro del patto di stabilità interno, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano approva annualmente i programmi per lo sviluppo della rete delle centrali di acquisto della pubblica amministrazione e per la razio-nalizzazione delle forniture di beni e servizi, defi nisce le modalità e monitora il raggiungimento dei risultati rispetto agli obiettivi. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della fi nanza pubblica.

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con imballaggio ridotto, attraverso apposite campagne di informazione congiunte, coinvolgendo in particolare alcuni centri di media e grande distribuzione, con progetti specifi ci e mirati. Inoltre, Regione e Province dovrebbero:

• stipulare convenzioni con operatori singoli e associati della grande distribuzione per l’incen-tivazione della progettazione di beni e prodotti ecosostenibili;

• pubblicizzare attività di riutilizzo di imballaggi usati, in modo da favorirne la reimmissione nel mercato.

interventi diretti di informazione e responsabilizzazionePromuovere interventi di informazione e responsabilizzazione rivolte:

• ai consumatori di beni a minore impatto ambientale, anche attraverso campagne di informa-zione sugli strumenti comunitari costituiti dall’Ecolabel e dall’Ecoaudit;

• alle scuole con interventi non sporadici e saltuari ma continuativi, precisi ed effi caci;

• alla Pubblica Amministrazione, al fi ne di esercitare un controllo anche sulla produzione di rifi uti presso i pubblici uffi ci, stabilendo modi comportamentali congruenti allo scopo.

Promozione delle iniziative di auto-recuperoSviluppo delle iniziative di compostaggio domestico. In Sardegna sono in atto diverse iniziative di compostaggio domestico, per lo più limitate alla distribuzione di compostiere, che però, salvo alcune eccezioni in Provincia di Cagliari, non sono accompagnate da campagne di assistenza tecnica e moni-toraggio dei risultati.Le Autorità d’ambito devono pertanto inserire nella loro pianifi cazione la promozione di tali iniziative, dedicate per lo più ai comparti rurali e comunque supportate da programmi di assistenza tecnica e monitoraggio insieme a iniziative di riduzione tariffaria.

La politica degli Acquisti verdi della Regione SardegnaCon Delibera Regionale n° 2/� del 1�/01/200� l’Amministrazione si è impegnata a promuovere l’introdu-zione di criteri ed azioni di eco-effi cienza e sostenibilità ambientale nelle procedure di acquisto di beni e servizi dell’Amministrazione regionale (Green Pubblic Procurement-GPP).La Regione Sardegna nel 200� si è quindi impegnata ad adottare una politica di Acquisti Pubblici verdi quale strumento di orientamento degli acquisti secondo i criteri della sostenibilità ambientale che porti al raggiungimento, entro il 2008, di una quota di acquisti verdi (materiali riciclati, macchinari con marchi ecologici, ecc...) nella misura non inferiore al 30% del fabbisogno regionale ed ha individuato nella razionalizzazione dell’acquisto e consumo della carta il settore prioritario su cui intervenire attraverso:

• la realizzazione di un effi ciente ed articolato sistema di raccolta differenziata con partico-lare riferimento alla carta in tutti gli uffi ci regionali;

• la sensibilizzazione di tutti i dipendenti regionali ad un utilizzo sostenibile della carta ricorren-do maggiormente all’uso degli strumenti informatici, sia per le attività di lettura che di scrittura degli atti amministrativi;

• l’acquisizione entro il 200� di una quota pari al 50% degli acquisti di carta riciclata;

• la Regione si impegna inoltre nello sviluppo di azioni affi nché gli Enti locali possano dare attua-zione al D.M. 203/2003 sugli acquisti verdi, con l’utilizzo dell’ammendante compostato per le attività di manutenzione del verde pubblico.

La politica dei GPP è coerente con gli indirizzi del Piano Regionale dei Rifi uti che richiama in più parti gli Acquisti Pubblici Verdi sia tra gli interventi funzionali alla riduzione della quantità e perico-

losità dei rifi uti urbani, sia per la promozione dell’utilizzo presso gli Enti Pubblici di beni a maggior vita utile e in sostituzione a quelli ”usa e getta” e per l’incentivazione di progettazione di beni e prodotti ecosostenibili.Il Piano Regionale inoltre determina il ruolo importante che hanno le certifi cazioni ISO 14001 e/o EMAS come requisiti per determinare le imprese da invitare nelle gare per l’affi damento dei servizi di gestione dei rifi uti.La scelta di richiedere queste certifi cazioni alle imprese che vogliano inserirsi nel sistema gestionale sardo dei rifi uti, oltre a confi gurarsi come strumento di comunicazione ambientale e ad essere in linea con le indicazioni del sesto Programma d’azione comunitario per l’ambiente (2000-200�), che ne au-spica lo sviluppo e l’integrazione con le politiche degli acquisti verdi (GPP), consente di dare visibilità alle imprese ambientalmente virtuose e di infl uire sulla responsabilizzazione diretta dei produttori di servizi quali protagonisti del miglioramento delle condizioni ambientali.Il possesso delle certifi cazioni ISO 14001 e/o EMAS consente infatti di avere garanzie sulle capacità dell’impresa:

a) di svolgere responsabilmente la propria attività secondo modalità che garantiscano il rispet-to dell’ambiente;

b) di identifi care, analizzare, prevedere, prevenire e controllare gli effetti ambientali;c) di modifi care e aggiornare continuamente l’organizzazione e migliorare le prestazioni am-

bientali in relazione ai cambiamenti dei fattori interni ed esterni;d) di attivare, motivare e valorizzare l’iniziativa di tutti gli attori all’interno dell’organizzazione;e) di comunicare e interagire con i soggetti esterni interessati o coinvolti nelle prestazioni

ambientali dell’impresa.”

“La Regione provvederà, contestualmente alla approvazione del Piano regionale di gestione dei rifi uti, ad emanare norme per l’utilizzo da parte delle strutture pubbliche di prodotti ottenuti con materiali riciclati ed in particolare, secondo i dettati del D.M. 8 maggio 2003 n. 203, che ha introdotto in Italia la pratica di GPP (Green Public Agreement – acquisti verdi per le pubbliche amministrazioni), quelle relative alla copertura da parte degli Enti pubblici e società a prevalente capitale pubblico, almeno del 30% del fabbisogno annuale di manufatti e beni appartenenti alle categorie di prodotti rientranti nel repertorio del riciclaggio (carta/cartone, legno e arredo, articoli in gomma, ammendanti,…).”3

La Regione inoltre promuove e partecipa attivamente ad iniziative e proposte a livello nazionale:

• l’Amministrazione regionale partecipa ad esempio al Gruppo di Lavoro Acquisti Verdi, attiva-to dalla Associazione Coordinamento Agende 21 locali italiane e coordinato dalla Provincia di Cremona, in una rete cui partecipano oltre 100 amministrazioni tra Regioni, Province, Comuni, ARPA, Parchi, ASL, Comunità Montane;

• sono state promosse inoltre alcune attività di informazione e formazione sui GPP: dal 200� è in atto una collaborazione con il Formez, attuata attraverso programmi fi nanziati dal Dipartimento Funzione Pubblica e dal Ministero dell’Ambiente, che ha portato alla realizza-zione, nel 200�, di due percorsi formativi specifi ci su GPP rivolti agli Enti Locali e, nel 200� alla realizzazione di un corso specifi camente indirizzato all’Amministrazione regionale, a cui hanno partecipato i funzionari del Servizio Provveditorato, Servizio Tecnico e Corpo Foresta-le e Vigilanza Ambientale;

• l’assessorato della Difesa dell’Ambiente ha intrapreso un’attiva collaborazione con il servizio Provveditorato dell’Assessorato Enti Locali affi nché, da subito, si procedesse all’acquisto di prodotti con caratteristiche ecologiche. Presso il Servizio Provveditorato è stato istituito il Centro di Acquisto Territoriale, progetto sperimentale del Ministero per l’Innovazione e la Tecnologia che ha l’obiettivo di:

3 Piano regionale di gestione dei rifi uti. Aprile 2008

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- creare centri di competenza regionale per promuovere la semplifi cazione dei processi di acquisto in favore degli Enti Locali e delle altre Amministra-zioni sul territorio (Enti regionali, Sistema Sanitario, Università,…);

- incentivare la razionalizzazione della spesa e la trasparenza di rapporti con i mercati di fornitura locali;

- supportare lo sviluppo del territorio tramite l’introduzione di strumenti tec-nologici innovativi (acquisti on-line).

I primi “bandi verdi” emanati dal C.A.T. hanno riguardato: l’acquisto di carta ecologica; l’acquisto di buste da corrispondenza; il noleggio di stampanti multifunzione a basso impatto ambientale. Si stanno inoltre sperimentando, in diversi edifi ci regionali, il recupero dei toner e delle cartucce esauste fi naliz-zato alla rigenerazione. (www.sardegnacat.it)

Le attività del C.A.t. (Centro di Acquisito territoriale) della Regione SardegnaGli attori coinvolti nel processo sono la Regione, il C.A.T., le amministrazioni e i fornitori ognuno con ruoli ben precisi.

• defi nisce obiettivi strategici • svolge attività di monitoraggio

Regione:

• stipula convenzioni, effettua gare aggregate • fornisce servizi di gare telematiche, gestisce l’Osservatorio acquisti

C.A.t.:

• forniscono al C.A.t. i propri fabbisogni e requisiti • consumano in convenzione • effettuano Gare telematiche • effettuano ordinativi di fornitura nei confronti dei fornitori

Amministrazioni:

• stipulano le convenzioni • forniscono beni e servizi alle amministrazioni (sia da convenzioni quadro

sia da singole iniziative)

Fornitori:

esempi italiani di attuazione del GPP

PRovINCIA dI toRINo

Nell’aprile 2004, la Provincia di Torino, l’ARPA Piemonte, il Comune di Torino più altri Comuni della provincia, Comunità montane, il TOROC (Comitato organizzativo giochi olimpici Torino 200�) ed altri soggetti, hanno sottoscritto un Protocollo d’Intesa per la promozione degli acquisti pubblici ecologici.Il protocollo, dopo aver richiamato i fondamenti normativi europei e nazionali che permettono e in-centivano il GPP, ha defi nito una serie di principi e obiettivi chiave che i sottoscrittori si sono impegnati a perseguire.Gli obiettivi perseguiti con il Protocollo consistono principalmente:

• nel limitare, sostituire o eliminare progressivamente l’acquisto di prodotti tossici, pericolosi, diffi cilmente smaltibili o comunque a signifi cativo impatto ambientale;

• nel preferire prodotti ottenuti con materiali riciclati /riciclabili, recuperati o da materie prime rinnovabili, e che minimizzano la produzione di rifi uti;

• nell’inserire nei criteri di aggiudicazione elementi ambientali che comportino un vantaggio economico all’Amministrazione, valutato tenendo conto dei costi sostenuti lungo l’intero ciclo di utilizzo del prodotto.

L’impegno dei sottoscrittori, nel rispetto delle specifi cità locali e di particolari esigenze è così prevalen-temente rappresentato:

• inserire nelle procedure di acquisto beni e servizi i criteri ambientali di minima;

• continuare la ricerca di criteri di preferibilità ambientale da inserire nelle procedure di ac-quisto;

• verifi care, di volta in volta, la possibilità di inserire la certifi cazione ambientale EMAS o ISO 14001 come mezzo di prova per valutare la capacità tecnica di un’impresa a realizzare l’ap-palto con requisiti ambientali;

• tenere conto dell’ impatto ambientale nell’ organizzazione di eventi e convegni in linea con indicazioni date dal Protocollo;

• verifi care la possibilità di predisporre procedure interne di qualifi cazione anche ambientale dei propri fornitori.

All’interno del Protocollo è stato previsto un Comitato di Monitoraggio che periodicamente pubblica un rapporto in cui sono evidenziati i risultati concreti raggiunti da ciascun sottoscrittore in merito agli impegni assunti. Il Protocollo ha individuato, nella pratica, due tipologie applicative:

• linee guida per l’ organizzazione di eventi e seminari a basso impatto ambientale (ad es. ri-duzione dell’uso di materiale stampato, servizi di ristorazione con utilizzo di prodotti biode-gradabili e compostabili, individuazione di sedi di convegni e servizi di ospitalità facilmente raggiungibili con mezzi pubblici ed infi ne campagna di informazione e sensibilizzazione);

• specifi che tecniche di minima e criteri di valutazione per Acquisti Pubblici Ecologici. Le spe-cifi che tecniche di minima concorrono a defi nire le caratteristiche tecniche dell’oggetto del contratto e devono essere obbligatoriamente soddisfatte dalle imprese concorrenti, a pena di esclusione. I criteri di valutazione sono scelti in base alle priorità ambientali dell’Ente ap-paltante ed alle caratteristiche peculiari della gara. Eventualmente, nel caso di offerta eco-nomicamente più vantaggiosa, si può prevedere ad ogni criterio uno specifi co punteggio.

ComuNe dI FeRRARA

Il Programma di “Approvvigionamenti Verdi” era uno dei tre obiettivi strategici, insieme all’attivazione del FORUM cittadino di A21L e all’elaborazione di un rapporto sullo stato dell’Ambiente, facente capo al Progetto Speciale comunale denominato appunto “Agenda 21 Locale – Sviluppo sostenibile” redatto dall’Amministrazione locale nel 1999.

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Prima dell’entrata in vigore di specifi che normative italiane che imponevano obbligatoriamente l’acquisto di particolari prodotti “verdi” da parte di enti pubblici e pubbliche amministrazioni in Italia, le iniziative tese a favorire acquisti verdi si sono potute sviluppare solo laddove le amministrazioni si sono pronunciate in tale direzione con l’emanazione di appositi provvedimenti di indirizzo o obbligatori.L’Amministrazione comunale di Ferrara ha dimostrato sensibilità dettando indirizzi e raccomandazioni agli operatori interni all’Amministrazione stessa, senza tuttavia tralasciare l’interesse anche degli utenti esterni quali diretti utilizzatori di determinati tipi di beni e servizi che per legge devono essere forniti dall’ente locale. L’Amministrazione comunale di Ferrara si è pronunciata in particolare per le seguenti tipologie di beni e/o servizi:

• introduzione di prodotti biologici nelle mense delle scuole d’infanzia;• acquisto e utilizzo di carta riciclata nella maggior percentuale possibile raccomandando ai dipen-

denti l’impiego fronte retro dei fogli di carta;• acquisto di autoveicoli elettrici, ibridi o alimentati con altro carburante alternativo, in particolare

metano.

Alimenti biologici: il Comune di Ferrara, consapevole che biologico vuol dire rispetto dell’ambiente, della salute dell’uomo e delle persone inserite nei processi produttivi, ha effettuato, una scelta da po-tersi defi nire oltre che ambientalmente sostenibile, anche sociale ed etica, in quanto mira non solo alla soddisfazione specifi ca di un determinato soggetto (salute alimentare di bambini a 0 a 14 anni) ma al mantenimento di un ambiente di cui potranno fruire anche le generazioni future. Attualmente nelle mense scolastiche circa l’80-90% del pasto è biologico.Carta riciclata: il 100% ha subito il processo di sbiancamento senza utilizzo di cloro e di questo 100% il 40-50% è riciclata al 100%.veicoli: il Comune di Ferrara ha sottoscritto un accordo di programma unitamente alle principali città della Regione Emilia Romagna impegnandosi a sostituire, entro pochi anni, tutto il parco automezzi con veicoli eco-compatibili.Nell’ambito della formazione e comunicazione il Comune di Ferrara, con il contributo del Ministero dell’Ambiente, ha prodotto un Manuale Comunale per gli acquisti “verdi”. Il manuale è frutto di una raccolta e combinazione di esperienze e competenze locali che oltre a voler essere di aiuto ai tecnici degli acquisti, ha rappresentato il primo documento del genere a livello nazionale (scritto nel 2002) e quindi la base per un approfondimento sulle migliori e più effi caci modalità di responsabilizzare verso ambiente, etica e sostenibilità i vari enti pubblici nel momento in cui si rivolgono al mercato.Il programma degli acquisti verdi a Ferrara si è dimostrato effi cace per l’impatto avuto non solo inter-namente all’Amministrazione (acquirenti/consumatori) ma anche esternamente (utenti scuole per pasti e trasporto scolastico) e sul mercato (sensibilizzazione delle ditte fornitrici all’aspetto ambientale delle forniture).

ComuNe dI ReGGIo emILIA

Il Comune di Reggio Emilia ha attivato alla fi ne del 2004 il progetto “REGGIO ACQUISTA VERDE”, risul-tato vincitore del bando ministeriale di Agenda 21 del 2002 e cofi nanziato dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio.Lo scopo del progetto è stato quello di introdurre criteri volti alla riduzione degli impatti ambientali nelle politiche di acquisto di beni e servizi, incrementando a livello locale l’utilizzo di prodotti più ecocompati-bili e la loro promozione sul mercato.A tale scopo, dopo aver effettuato l’analisi degli acquisti di beni e servizi, il Comune di Reggio Emilia ha organizzato per i mesi di giugno e luglio del 2005 tre workshop di approfondimento denominati “I can-tieri di Reggio Acquista verde”, relativi ai temi sui quali la Giunta Comunale ha deciso di effettuare sperimentazioni:

• pulizia e ristorazione;• arredi;• tessile.

Gli incontri sono stati momenti operativi di confronto con gli Enti che già hanno attuato sperimentazioni di bandi verdi, con le associazioni di categoria, con i fornitori, con aziende best practice, con tecnici esterni.

4.2 La caratterizzazione qualitativa e quantitativa dei rifi uti: pianifi cazione e gestione delle indagini merceologichePremessa e inquadramento generaleOgni scelta nella programmazione di soluzioni di smaltimento e recupero dei rifi uti urbani necessita di un livello approfondito di conoscenza delle quantità prodotte e della loro composizione. Risulta, quindi, importante suddividere il rifi uto nelle diverse classi merceologiche, in quanto solo in questo modo è possibile intervenire nella maniera più opportuna per operare scelte gestionali corrette. Nella realtà i dati esistenti risultano spesso datati e riferiti a realtà puntuali o, ancora, presentano incertezze derivanti dai diversi criteri e metodologie adottati per la loro determinazione. Inoltre, le caratteristiche merceologiche del rifi uto sono soggette a variazioni temporali, dettate dai modelli di consumo e dallo sviluppo di materiali e beni, e presentano differenze territoriali legate al substrato sociale, alla tipologia del centro abitato, ecc. Di conseguenza, la valutazione della qualità dei rifi uti, spesso effettuata, in mancanza di dati diretti, con riferimento a realtà geografi che anche molto diverse da quella in esame, può spesso dare indicazioni poco signifi cative.Dal 2004 è esistente, a livello regionale per la Sardegna, un protocollo per la rilevazione della qualità dei rifi uti presso gli impianti di trattamento e da quell’anno sono state avviate sistematiche campagne di indagine con cadenza trimestrale, dei rifi uti urbani.Nel 2004 e 2005 le indagini sono state incentrate sui rifi uti urbani indifferenziati con l’obiettivo prin-cipale di disporre delle informazioni necessarie per la programmazione regionale in materia di rifi uti urbani biodegradabili, come prescritto dal D.Lgs. n. 3�/03 in riferimento alla riduzione dei rifi uti urbani biodegradabili da collocare in discarica.Nel 200� le campagne merceologiche sono state mirate alla conoscenza della qualità del “secco re-siduo indifferenziato”, dell’”umido” proveniente da sistemi di raccolta differenziata del tipo secco-umido e della qualità del rifi uto indifferenziato con l’obiettivo di completare la predisposizione della pianifi cazione regionale della gestione dei rifi uti urbani.L’analisi dei dati raccolti nel 200� ha portato all’individuazione della composizione merceologica me-dia che possono essere considerati maggiormente rappresentativi per la Sardegna della qualità di un rifi uto indifferenziato, laddove non si attua una raccolta differenziata ad alta effi cienza (in particolare se riferita alla frazione umida) e quella di un secco residuo da raccolta differenziata secco-umido ad alta effi cienza.

Figura 4.2.1: Composizione merceologica media dei rifi uti urbani in Sardegna (dati 2006).

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I dati evidenziano un tenore di umido più che doppio nel rifi uto urbano tal quale rispetto al secco residuo a valle della raccolta differenziata secco-umido, anche l’analisi di dettaglio evidenzia come in comuni dove non si attua una raccolta differenziata ad alta effi cienza per la frazione umida questa sia presente in elevate percentuali nel secco residuo (a Macomer e Carbonia l’analisi ha rilevato un valore superiore al 40%).Per effetto della maggiore intercettazione della frazione umida il secco residuo presenta una elevata concentrazione di frazione cellulosica e plastica (�0-�0%) che arrivano a circa il 50% per il rifi uto urbano tal quale.

Finalità delle indagini merceologicheLe indagini merceologiche quindi possono avere molteplici valenze e rispondere a molte fi nalità quali ad esempio:

1. Verifi care le caratteristiche del rifi uto ai fi ni della compatibilità con una modalità di smalti-mento/trattamento, quali:

a. Contenuto di sostanza organica in rispondenza alle prescrizioni defi nite dal D.Lgs. n. 3�/03 per la riduzione dei RUB da avviare a discarica;

b. PCI in rispondenza alle prescrizioni defi nite dal D.Lgs. n. 3�/03 per l’avvio diretto dei rifi uti a discarica oppure per la valutazione di diverse opzioni tecnologiche per il trattamento termico;

c. Composizione del rifi uto secco residuo o residuo indifferenziato in genere per valutare modalità e tecnologie di trattamento meccanico-biologico;

2. Valutare il grado di intercettazione e la qualità delle diverse categorie merceologiche dei rifi uti, in funzione del servizio di raccolta e quindi le necessità di potenziamento o modifi ca dello stesso;

3. Ottenere delle indicazioni per scegliere le migliori strategie di raccolta dei rifi uti adeguate alla realtà locale (accoppiamenti merceologici, tipologia di utenze servite, ecc.);

4. Calcolare i coeffi cienti di produzione specifi ca per le diverse categorie di utenza sia domesti-ca che non domestica, per rendere il calcolo della tassa/tariffa meglio correlato all’effettiva produzione di rifi uti delle utenze.

I livelli amministrativi cui possono essere ricondotte le diverse fi nalità sono chiaramente differenti: come già citato in premessa a livello regionale le campagna di rilevamento sono state principalmente fi nalizzate a valutazioni riferite al piano RUB e alla valutazione sul livello di effi cienza delle modalità di raccolta adottate a livello regionale.A livello locale la necessità di disporre di puntuali indagini merceologiche relative alla composizione dei rifi uti prodotti deriva principalmente dalla necessità di dimensionare correttamente i sistemi di raccolta in rispondenza agli indirizzi defi niti a livello sovraordinato.Relativamente alla modalità operative delle indagini merceologiche esistono differenti metodiche pos-sibili, a partire dall’analisi delle quali ANPA (RTI CTN_RIF 1/2000) ha messo a punto delle specifi che linee guida per una metodica standard per l’analisi merceologia dei rifi uti urbani. Tale metodica è fi nalizzata all’ottenimento di dati con un livello di dettaglio che non solo considera la presenza nel rifi uto delle categorie merceologiche scelte (carta, plastica, ecc.), ma specifi ca, nell’ambito di ognuna di queste, la tipologia del materiale o del prodotto di origine e la relativa funzione, al fi ne di ottenere il massimo contenuto informativo per pianifi care le operazioni di raccolta nonché quelle di recupero e riutilizzo. La metodologia impostata da ANPA è stata realizzata ponendo attenzione ai fattori che infl uenzano la qualità del rifi uto (caratteristiche del territorio, variazione stagionale dei rifi uti, tipologia del centro abitato ecc.), alla complessità dello stesso e alle principali tipologie di informazioni richieste dall’analisi merceologica stessa. La serie elevata di classi e sottoclassi in cui possono essere suddivise le frazioni di rifi uto permette di predisporre un’indagine tarata in funzione degli obiettivi che ci si prefi gge e quindi la scelta del grado di dettaglio da adottare deve essere fatta prima dell’inizio delle operazioni.

Le fasi attraverso le quali l’indagine deve procedere possono venire così riassunte:

1. Indagine sul contesto. Caratteristiche della comunità in esame (attività economiche; ter-ritorio; tipologie insediative; pendolarismo/turismo; avvenimenti stagionali ecc..), dei rifi uti prodotti e dell’organizzazione della raccolta (quantitativi totali medi settimanali; raccolta differenziate attivate e relative modalità; tipologia dei mezzi e percorsi di raccolta; ecc..).

2. Selezione delle zone e dei periodi specifi ci di rilevamento. In funzione delle caratte-ristiche devono essere defi nite strade o zone specifi che mentre la presenza di fenomeni di stagionalità deve portare alla programmazione di indagini in diversi periodi dell’anno.

3. dimensione del campione. La dimensione del campione in termini di abitazioni coinvolte è funzione del numero di utenze e del grado di attendibilità richiesto. Il metodo ANPA for-nisce una tabella di riferimento che si riporta di seguito:

4. Inquartamento. Specifi ca tecnica di riduzione del campione per raggiungere un quantita-tivo più maneggiabile, tra i 100 e i 200 kg.

5. Indagine merceologica Dopo aver pesato il campione, si procede all’analisi merceologica, che deve essere effettuata in tempi brevi dalla costituzione del campione per evitare varia-zioni di umidità o alterazioni nei risultati ed evitando contaminazioni con elementi esterni. L’analisi comporta l’impiego di un vaglio vibrante a maglie quadre di 20 mm di luce. Si raccoglie il sottovaglio su di un telo di plastica e si esegue la cernita manuale del materiale nelle categorie merceologiche adottate, pesando i rifi uti appartenenti alle differenti classi al termine dell’operazione. In alternativa al vaglio si può utilizzare un tavolo a maglie quadrate di 20 mm di luce, dotato di una vasca di raccolta del sottovaglio, sopra il quale operare la cernita.

1 Considerando una produzione media settimanale per famiglia di almeno 20 kg e ipotizzando una raccolta effettuata due volte a settimana

< 1.000

1.000 – 9.999

10.000 – 49.999

≥ 50.000

10% o 50

5,0% o 100

2,5% o 500

1,0% o 1.250

500

1.000

5.000

12.500

Abitazioni coinvolte [n.]Dimensione minima

del campione[% utenze servite - abitazioni]

Peso minimo del campione [kg] 1

Tabella 4.2.1: Dimensione minima del campione per un’indagine merceologica in funzione del numero di abitazioni coinvolte.

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4.3 Avvio e gestione delle raccolte differenziate domiciliari e applicazione della tariffa

Premessa ed inquadramento generaleIl Piano Regionale di Gestione dei Rifi uti urbani della Sardegna individua la necessità che i servizi di raccolta differenziata vengano adeguatamente progettati a livello locale, per tener conto delle tipo-logie di materiali e dei produttori delle singole realtà esaminate, del tessuto urbanistico e dell’apparato commerciale, artigianale e di servizio esistente nel territorio interessato, in modo da individuare, con la maggiore precisione possibile, gettiti e tipologie di materiali separabili dalle varie utenze e la tipologia dei circuiti di raccolta più confacenti alla realtà in esame.Il Piano inoltre dà priorità all’attivazione delle raccolte domiciliari, in particolare con separazione secco-umido, prevedendo il cassonetto stradale solo nei casi in cui la struttura urbanistica ponga evidenti diffi coltà tecniche e comunque con soluzioni atte a permetterne l’utilizzo solo a utenze prefi ssate. Alla raccolta differenziata domiciliare il Piano riconosce altresì un ruolo di supporto all’implementazione di sistemi tariffari commisurati alla quantità di rifi uti conferiti dalle singole utenze.Al fi ne di inquadrare correttamente la questione vale la pena di ricordare che gli obietti di raccolta dif-ferenziata posti dalla normativa nazionale (D.Lgs. 152/200�) prevedevano il raggiungimento del 35% entro il 200�, del 45% entro il 2008 e del �5% entro il 2012. Per il raggiungimento di tali obiettivi, a seguito dell’ultima riformulazione della norma quadro nazionale con il D.Lgs. n. 4/08, non è più conteggiabile la quota di frazione organica umida separata fi sicamente dopo la raccolta e fi nalizzata al recupero complessivo tra materia ed energia. Il nuovo Piano Regionale di Gestione dei Rifi uti urbani, adottato con deLIBeRAZIoNe N. 21/59 deLL’8.4.2008 pone come obiettivo imperati-vo a livello regionale il 65%, e come obiettivo di indirizzo il 70% entro il quinquennio 2008-2012.Un elemento di interesse operativo nell’organizzazione della raccolte differenziata è stato introdotto con il D.Lgs. n. 4/2008 di modifi ca del D.Lgs. n. 152/200� che la defi nisce come la raccolta idonea a raggruppare i rifi uti urbani in frazioni merceologiche omogenee compresa la frazione organica umida, destinate al riutilizzo, al riciclo ed al recupero di materia. La frazione organica umida è raccolta separatamente o con contenitori a svuotamento riutilizzabili o con sacchetti biodegradabili certifi cati. in questo modo la normativa da un preciso indirizzo sulle modalità di gestione operativa della frazione organica.Lo studio delle esperienze realizzate a livello nazionale dimostra come il sistema rifi uti non può essere semplicemente ridotto, come spesso è stato fatto per il passato, all’analisi, ed eventuale attivazione, di impianti di trattamento e smaltimento idonei ma debbano essere correttamente considerati almeno altri due ulteriori fattori altrettanto importanti che sono costituiti da:

1. l’organizzazione della raccolta e il controllo quali-quantitativo dei fl ussi da essa derivanti;2. i comportamenti del cittadino rispetto al sistema adottato, che determinano il successo o

l’insuccesso dello stesso rispetto agli obiettivi prefi ssati.

Lo schema seguente rappresenta il sistema complessivo di gestione dei rifi uti, comprendendo in tale schema anche l’elemento del sistema di tariffazione, che può avere un’importante infl uenza sul com-portamento del cittadino. Il sistema tariffario consente, se attuato con metodi idonei a rapportare il corrispettivo alla quantità di rifi uti conferita, di incentivare a livello della singola utenza comportamenti virtuosi in termini di recupero dei rifi uti e quindi in linea con gli obiettivi della normativa nazionale e del Piano Regionale. Questo tipo di analisi evidenzia la necessità di riconoscere lo stretto legame che esiste tra metodo di raccolta attuato, metodi e azioni per il coinvolgimento del cittadino, criterio di tariffazio-ne e sistema impiantistico di smaltimento/recupero in relazione all’obiettivo strategico di minimizzare la produzione complessiva di rifi uti e in particolare i fl ussi di rifi uto da avviare allo smaltimento.

Solo un approccio complessivo al problema che tenga conto dei diversi elementi che costituiscono il sistema rifi uti può dare risultati soddisfacenti e in questo contesto assume un’importanza cruciale la riorganizzazione del sistema di raccolta per l’ottenimento degli obiettivi di recupero prefi ssati.

Indipendentemente da quale sia il fl usso di rifi uto considerato è fondamentale determinarne il grado d’intercettazione in relazione al sistema di raccolta adottato.Per grado d’intercettazione di una frazione merceologica rispetto ad un determinato sistema di raccol-ta s’intende la quantità conferita di quella frazione merceologica rispetto alla quantità totale, sempre dello stesso materiale, presente nella massa di rifi uto.I principali modelli di raccolta differenziata implementati a livello nazionale sono schematizzabili nelle seguenti tipologie:

• stradale senza attivazione della RD dello scarto organico (modello a raccolte differenziate aggiuntive);

• stradale con attivazione della RD dello scarto organico (modello secco-umido stradale);• stradale con attivazione della RD dello scarto organico (modello secco-umido stradale) con

elementi di domiciliarizzazione di alcune frazioni (es. verde, cartoni per le utenze non do-mestiche);

• domiciliare del secco e dello scarto organico, stradale per le frazioni secche riciclabili (mo-dello domiciliare secco-umido);

• domiciliare spinta ovvero domiciliare anche per le frazioni secche riciclabili (modello domi-ciliare integrale);

• domiciliare integrale con tariffa puntuale.

Ormai migliaia di esperienze, dapprima di singoli Comuni (in Lombardia e in Veneto nei primi anni ’90), poi di interi Consorzi (dopo la metà degli anno ’90 ad es. Consorzio Milano Est e Consorzio di Bacino Padova Uno) ed infi ne di intere Regioni (nel 200� il Veneto ha certamente traguardato la soglia del 50% di RD trainata dai risultati dei molti Comuni che hanno adottato la raccolta domiciliare) hanno dimostrato che i sistemi di raccolta domiciliare hanno le più alte performance di raccolta differenziata e che le modalità di raccolta descritte presentano livelli crescenti di intercettazione secondo lo schema seguente riportato in fi gura 4.3.2.A livello regionale la modalità di raccolta domiciliare sta avendo negli ultimi anni una grande diffu-sione1 e l’ultimo rapporto Comuni Ricicloni 200� stilato da Legambiente vede, per l’area sud, ben 15 Comuni sardi tra i primi 30 nella categoria sotto i 10.000 abitanti e 3 nei primi 10 nella categoria sopra i 10.000 abitanti. Negli ultimi anni sono stati incentivati e introdotti in Regione Sardegna sistemi

Figura 4.3.1: Gli elementi del ciclo integrato di gestione dei rifi uti urbani.

ORGANizzAziONe DeLLA RACCOLtA

iMPiANti Di tRAttAMeNtO

COMORtAMeNti DeL CittADiNO

SiSteMA tARiFFARiO

1 Nel 2006 risultavano in Sardegna ben 227 comuni con raccolte domiciliari, così suddivise:

Domiciliare integrale per tutte le frazioni

Domiciliare integrale salvo raccolta del vetro con contenitori stradali

Domiciliare per secco residuo e umido + altre tipologie valorizzabili

TOTALE

n° comuni abitantitiPOLOGiA Di RACCOLtA (anno 2006)

134

77

16

227

311.297

190.210

42.770

544.277

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di raccolta differenziata ad alta effi cienza, registrando sia un considerevole aumento della percentuale di raccolta differenziata (passata da circa il 10% nel 2005 al 2�% nel 200�) sia una diminuzione della produzione complessiva pari a circa il 2% nel periodo 2005-200�.

In assoluto i migliori risultati di RD si ottengono con sistemi di raccolta domiciliare a tariffazione pun-tuale: è infatti un dato assodato che l’introduzione della tariffa puntuale infl uenza positivamente i comportamenti dei cittadini in termini di maggiore resa delle RD anche se va attentamente control-lata la correttezza dei conferimenti per evitare comportamenti di abbandono di rifi uti nel territorio. Il passaggio dal sistema stradale (con o senza la raccolta della frazione organica) a quello domiciliare integrato (che prevede sempre la raccolta separata della frazione organica) ha determinato in diverse realtà provinciali un sistematico aumento delle RD ed un contenimento signifi cativo dei rifi uti da avvia-re a smaltimento. I modelli operativi adottati nei contesti più maturi prevedono una domiciliarizzazione spinta dei servizi di raccolta allo scopo di promuovere la partecipazione e responsabilizzazione da parte degli utenti migliorando qualità e quantità delle frazioni raccolte.

Figura 4.3.2: Risultati di raccolta differenziata raggiungibili con diversi sistemi di raccolta differenziata (%).

L’avvio di un sistema di raccolta domiciliare, la gestione della fase di transizioneUna fase determinante per il successo di un sistema di raccolta differenziata, in particolare se domicilia-re, è quella di avvio del nuovo servizio, che necessita di una vera e propria progettazione specifi ca delle diverse attività da implementare per garantire il raggiungimento dei risultati previsti.L’avvio del sistema domiciliare “porta a porta” presuppone che tutte le utenze abbiano a disposizione opportuni contenitori dove conferire le diverse tipologie di rifi uto. L’attività di consegna dei contenitori agli utenti risulta pertanto essere una fase cruciale per il buon funzionamento dell’intero sistema di raccolta. Dall’approvazione del progetto del nuovo servizio all’avvio del sistema di raccolta, si devono affrontare alcuni momenti molto delicati che, se gestiti in maniera ottimale, permettono di avviare effi cacemente l’intero sistema. Le due fasi, complementari tra loro, sono, in ordine cronologico:

1. attività propedeutiche alla distribuzione, comprensive di:a. gestione dei condomini per la valutazione degli spazi e delle problematiche di posi-

zionamento dei contenitori;b. indagine volumetrica per la determinazione dei volumi di contenitori per le varie

frazioni da assegnare alle utenze non domestiche.2. distribuzione dei contenitori.

Per le utenze non domestiche e condominiali il monitoraggio deve essere organizzato con visite diret-te, utilizzando operatori formati, aventi una specifi ca preparazione relativamente alle problematiche emergenti nell’ambito dei rifi uti; esperienze che hanno preferito in questa fase realizzare un monito-raggio con il solo uso di questionari da far compilare alle utenze interessate, hanno dimostrato, infatti, come risulti, invece, indispensabile il contatto con personale specifi camente formato, al fi ne di ottene-re informazioni esaustive ed attendibili. Per le utenze non domestiche singole (non residenti in condo-minio), invece, non è in genere necessario un contatto diretto programmato: eventuali problematiche, di solito ridotte a pochi casi, possono essere affrontate direttamente durante la fase di distribuzione dei contenitori. Le informazioni raccolte devono essere poi riorganizzate in modo coerente in un database ed accompagnate da una relazione riepilogativa. L’esito di questa fase conclusiva dell’indagine, detta anche fase di rendicontazione, dipende dall’accuratezza prestata dagli operatori durante l’attività di raccolta dei dati sul territorio, dal livello di “standardizzazione” degli stessi e dalla precisione degli operatori che effettuano l’inserimento fi nale dei dati nel database informatico. Occorre sottolineare che, mentre le utenze non domestiche non sono particolarmente problematiche da intervistare, per un operatore formato, le utenze condominiali sono invece critiche per una serie di possibili situazioni particolari, per il non facile contatto con l’amministratore ed anche per particolari situazioni verifi cabili sul territorio. L’operatore che esegue l’indagine volumetrica e l’attività di gestione dei condomini, che svolge un ruolo di facilitatore territoriale, riveste un ruolo non trascurabile nel quadro delle operazioni tecniche e comunicative che accompagnano l’avvio del nuovo sistema di raccolta porta a porta. Le questioni che più frequentemente il facilitatore deve affrontare riguardano l’accettazione, da parte degli utenti domestici, singoli o in condominio, e delle ditte, dei cassonetti domiciliari. Il ruolo del facilitatore ter-ritoriale si inserisce quindi a metà strada tra il tecnico e il comunicativo, essendo fi nalizzato da un lato all’adeguamento del progetto sul territorio in presenza di ostacoli che ne impediscono l’attuazione pratica, dall’altro al rafforzamento puntuale della campagna di informazione e sensibilizzazione rivolta ai cittadini. Esistono situazioni, soprattutto in Comuni ove la presenza di grandi condomini è molto frequente, in cui non è oggettivamente possibile collocare i contenitori nei cortili, sia per mancanza di spazio, sia a causa di ostacoli che impediscono l’esposizione su suolo pubblico. In questi casi l’in-tervento del facilitatore territoriale è fi nalizzato alla defi nizione di aree esterne presso cui collocare i contenitori, non più domiciliari ma di prossimità. In alcuni casi è possibile, da parte del mezzo che effettua la raccolta, l’ingresso negli spazi privati condominiali, senza che si renda necessaria l’esposi-zione da parte degli utenti; il facilitatore ha il compito di verifi care quali stabili sono idonei per questo genere di operazione. Il facilitatore territoriale ha una parte attiva anche nella fase della consegna dei

eLevAtO GRADO Di iNteRCettAziONeristrutturazione complessiva dei sistemi di raccolta

economie di scala

ALtA QUALitÀ DeL RiFiUtO RACCOLtO effettivo recupero dei rifi uti separati

Controllo rifi uto conferito

Responsabilità del produttore

Produttoreseparazione

feedback

raccolta

Figura 4.3.3: Raccolta differenziata domiciliare: la responsabilizzazione del produttore.

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contenitori al condominio. La presenza del facilitatore, infatti, è indispensabile laddove insorgessero problematiche tra operatori della consegna ed inquilini per la consegna ed il posizionamento dei contenitori; conoscere tutte le fasi di indagine ed il contatto diretto con l’amministratore permette di risolvere problematiche causate da scarsa informazione degli inquilini da parte dell’amministratore o da rimostranze di qualche inquilino che non accetta di adeguarsi al sistema. La consegna dei conteni-tori alle utenze individuate dalle indagini preliminari (condomini e utenze non domestiche) di norma è effettuata con sistema domiciliare, in quanto spesso la tipologia dei contenitori ed il loro numero non permette di gestire la consegna tramite centri di distribuzione. Per le restanti utenze (domestiche non condominiali), salvo casi particolari è possibile organizzare, invece, in alternativa alla distribuzione a domicilio punti di distribuzione presso i quali gli utenti possano ritirare i contenitori a loro assegnati. Ogni centro di distribuzione deve avere un automezzo, con relativo equipaggio, per svolgere due mansioni prevalenti:

1. rifornire di contenitori il centro di distribuzione se quest’ultimo non è adiacente al magaz-zino di stoccaggio;

2. effettuare consegne domiciliari alle utenze che non sono in grado di trasportare i conteni-tori con mezzi propri.

Alcune utili indicazioni operative:• Per l’organizzazione dei centri di distribuzione dei contenitori occorre tenere conto delle

caratteristiche territoriali e di particolari ricorrenze al fi ne di individuare il numero e la collo-cazione ideale, considerando quindi:

- Presenza di più quartieri/centri abitati ben delimitati;- Presenza di specifi ci luoghi di aggregazione: piazze, chiese,…;- Mercati;- Giorni di chiusura delle attività commerciali;

• Rendere riconoscibili gli addetti alla distribuzione con apposite divise o altri elementi carat-terizzanti;

• Coordinare attentamente i tempi dello start-up con quelli della comunicazione al fi ne di:- evitare un’eccessiva distanza temporale tra la comunicazione preliminare e la distribu- zione dei contenitori;- evitare un’eccessiva distanza temporale tra la distribuzione dei contenitori e l’avvio effettivo del servizio;

• Coordinare attentamente i tempi di distribuzione con quelli di avvio del servizio, in parti-colare prevedendo congrui tempi di approvvigionamento/acquisto dei nuovi contenitori ed evitando assolutamente di annunciare date di inizio del servizio quando non c’è l’assoluta certezza di poterlo fare.

monitoraggio e controllo sull’andamento del servizioUna volta che il nuovo sistema di raccolta è stato avviato, risulta di particolare importanza organizzare un’opportuna fase di monitoraggio tecnico fi nalizzato innanzitutto a fornire chiarimenti agli utenti sulle possibili diffi coltà e problematiche emerse, ma anche a individuare punti deboli e punti di forza per le successive pianifi cazioni e progettazioni di analoghi servizi, oltre che a fornire uno strumento di controllo e riscontro della gestione del servizio di raccolta all’ente gestore. Il monitoraggio deve essere volto in particolare alla rilevazione di alcuni specifi ci parametri, tra cui:

• il grado di riempimento dei contenitori e il relativo grado di esposizione per singola frazione merceologica;

• la corretta esposizione dei contenitori delle diverse frazioni merceologiche secondo il calen-dario di raccolta;

• la qualità del materiale conferito e l’eventuale presenza di materiale estraneo;ma anche parametri legati all’operatività del servizio, quali l’avvenuto svuotamento dei contenitori e il rispetto della tempistica prevista per ciascun giro di raccolta previsto da progettazione.

In sostanza l’importanza dell’implementazione di un’opportuna fase di monitoraggio a seguito del-l’attivazione di un nuovo sistema di raccolta integrato dei rifi uti consiste nella possibilità di valutare, attraverso l’individuazione e la misurazione di idonei parametri indicatori, l’effi cacia, l’effi cienza, l’eco-nomicità, nonché la qualità percepita dagli utenti stessi del servizio erogato. Anche a livello comunica-tivo è importante non solo seguire l’attivazione del nuovo servizio e delle nuove modalità di raccolta ma anche garantire il mantenimento dei livelli di attenzione da parte degli utenti che consentono di continuare ad avere buoni risultati di RD.Per questo motivo, in diverse realtà, già da parecchio tempo, sono state attivate indagini di custo-mer, per valutare la percezione da parte degli utenti del servizio erogato, e le cosiddette “campagne controlli”. E’ fondamentale che l’attività di controllo delle raccolte differenziate sia intesa dagli utenti come un momento importante di comunicazione, informazione e responsabilizzazione, non un’ope-razione vessatoria ma di incentivazione. Gli obiettivi infatti delle campagne controlli sono quelli di verifi care le modalità di separazione dei rifi uti operate dagli utenti, comunicare agli stessi le modalità corrette ed eventualmente anche gli accorgimenti utili per migliorare l’effi cienza, disincentivare i com-portamenti non ecovirtuosi e premiare chi invece si adopera attivamente, attraverso la consegna di regali simbolici e di riconoscimento. Le modalità con cui le campagne controlli vengono generalmente condotte sono:

• verifi ca a campione e senza preavviso sul territorio di un opportuno numero di utenti;• verifi ca della corretta differenziazione, della presenza di impurità, del tipo di sacchi utilizzato

(semitrasparente, biodegradabile) e del tipo di contenitore;• contatto diretto con l’utenza con una forte valenza di comunicazione ed informazione;• eventuale applicazione di meccanismi incentivanti e/o sanzionatori.

Raccolta domiciliare e tariffazione puntuale: l’applicazione del principio “chi inquina paga”Un sistema di raccolta di tipo domiciliare rende possibile un’attribuzione puntuale della tariffa alla singola utenza, tramite la quantifi cazione effettiva dei rifi uti dalla stessa conferiti al servizio pubblico, attraverso sistemi che generalmente possono prevedere la pesatura del rifi uto effettivamente confe-rito oppure il conteggio del numero di raccolte effettuate presso una certa utenza in un anno (con la raccolta domiciliare il rifi uto viene esposto solo quando è pieno).

I PoteNZIALI vANtAGGI deLL’APPLICAZIoNe deLLA tARIFFA PuNtuALe

La possibilità di misurare il rifi uto effettivamente conferito da ogni singolo utente rappresenta un ulteriore elemento di rafforzamento dell’effetto di responsabilizzazione connaturato ai sistemi di rac-colta domiciliare, dei quali la tariffazione puntuale può essere considerata in molti casi una “naturale” evoluzione.Se ben progettata la tariffa puntuale consente un miglioramento del livello di raccolta differenziata e agevola il contenimento della produzione dei rifi uti, andando quindi nella direzione di una minimizza-zione dei rifi uti destinati a smaltimento: questo meccanismo virtuoso può contribuire a “mitigare” gli effetti economici sugli utenti derivanti dal costante e generalizzato aumento dei costi di smaltimento (dal 2003 al 200� le tariffe di smaltimento hanno subito un aumento medio a livello regionale pari al �0%).A livello di comportamento della singola utenza la tariffa puntuale consente inoltre di discriminare tra comportamenti più o meno virtuosi, consentendo un’applicazione effettiva del principio “chi inquina paga” e distribuendo in misura più equa i costi del servizio (questo aspetto non rappresenta certamen-te una ricaduta positiva per tutte le singole utenze, ma è un elemento qualifi cante a livello collettivo).Solitamente la tariffazione puntuale viene applicata alla frazione rifi uto secco indifferenziato, la cui riduzione rappresenta uno degli obiettivi principali del sistema di raccolta, ma il sistema rende possibile anche l’applicazione di logiche premianti legate al conferimento dei rifi uti differenziati. La possibilità di applicare sistemi premianti può anche prescindere dalla presenza di un sistema di raccolta domiciliare se il comune dispone di un ecocentro nell’ambito del quale organizzare un riconoscimento dei rifi uti differenziati conferiti dagli utenti.

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Un ulteriore elemento di potenziale benefi cio per gli utenti è rappresentato dalla possibilità di correlare la tariffa alla pratica del compostaggio domestico, che rappresenta uno degli strumenti principali per la promozione della riduzione dei rifi uti. L’adesione di un’utenza al compostaggio viene solitamente premiata con uno sconto su parte della tariffa. Anche in questo caso non è condizione necessaria la presenza di un sistema di raccolta domiciliare e tariffazione puntuale, ma tale combinazione agevola la possibilità di controllo dell’effettiva adesione al compostaggio.

4.4 L’ecocentro comunale: problematiche autorizzative e gestionali

Premessa e inquadramento generaleGli ecocentri o centri di conferimento sono aree attrezzate al ricevimento di rifi uti urbani o loro fra-zioni che non prevedono l’installazione di strutture tecnologiche o processi di trattamento e hanno la funzione di integrare i servizi di igiene urbana, e possono diventare un punto di raccolta polivalente a disposizione di tutte le utenze presenti nel territorio comunale che producono rifi uti urbani o ad essi assimilati. Nel 200� risultavano attivi sul territorio della Regione Sardegna 38 ecocentri comunali con una popolazione servita pari a 440.000 abitanti (il 2�% della popolazione regionale)1.

Il ruolo dell’ecocentroLa funzione dell’ecocentro, di per sé importante in qualsiasi sistema di raccolta, diventa determinante a supporto delle raccolta domiciliari, che si caratterizzano per un calendario di raccolta con orari e giorni prefi ssati, per consentire il conferimento diretto sia delle frazioni di rifi uti per le quali risulta diffi cile rispettare i vincoli temporali del servizio di raccolta, sia di quelle frazioni per le quali non è previsto uno specifi co circuito di raccolta.Le potenzialità e i vantaggi derivanti dalla realizzazione dell’ecocentro possono essere così esemplifi cati:

• Possibilità di attivare raccolte mirate di alcune tipologie di rifi uti caratterizzate da una pro-duzione occasionale (ad esempio pneumatici, inerti, accumulatori esausti, oli usati etc. per i quali qualsiasi altra forma di raccolta presenterebbe problemi logistici ed economici di diffi cile soluzione):

- Aumento dei rifi uti destinati a recupero o corretto smaltimento;- Diminuzione della quantità e della pericolosità del rifi uto indifferenziato per l’evitato

conferimento incontrollato di specifi che tipologie di rifi uti;- Contenimento dei costi del servizio per l’evitata attivazione di circuiti dedicati per le

specifi che categorie di rifi uto.• Contenimento dei costi del servizio di gestione dei rifi uti grazie alla eliminazione o riduzione

degli oneri da sostenere per la raccolta di alcuni materiali (verde, legno, materiali ferrosi, beni durevoli ecc.);

• Realizzazione di deposito temporaneo del rifi uto in caso di intervalli prolungati fra una rac-colta e l’altra di una stessa frazione (ad esempio per festività) nei limiti della capacità ricettiva propria dell’area di raccolta;

• Stimolare la popolazione ad una collaborazione attiva con il servizio pubblico d’asporto dei rifi uti, attrezzando l’ecocentro per svolgere la funzione di un vero e proprio “centro servizi” con strutture dedicate alla comunicazione tra gestore e cittadini.

Nelle realtà dove le raccolte differenziate, in particolare quelle domiciliari, sono state attivate da tempo la diffusione degli ecocentri prevede standard di circa una struttura ogni 10.000 abitanti, sia con più strutture a servizio dello stesso comune in caso di elevato numero di abitanti che attraverso strutture con valenza sovracomunale in caso di piccoli centri.In termini di contributo alla raccolta un ecocentro gestito in modo ottimale può contribuire per i 15-30 punti percentuali sul livello della raccolta differenziata.

Normativa di riferimento e regime autorizzativoLa defi nizione di “centro di raccolta” è stata inserita nel Codice ambientale ad opera del decreto cor-rettivo D.lgs. n. 4/2008 descrivendolo come area presidiata ed allestita, senza ulteriori oneri a carico della fi nanza pubblica, per l’attività di raccolta mediante raggruppamento differenziato dei rifi uti per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento.

1 8° Rapporto sulla gestione dei rifi uti urbani in Sardegna – anno 2006

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Tale defi nizione rispecchia la funzione di quelli che in Regione Sardegna vengono chiamati ecocentri.Sulla Gazzetta uffi ciale n. 99 del 28 aprile 2008 è stato pubblicato il Dm 8 aprile 2008 che reca la di-sciplina dei centri di raccolta dei rifi uti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dall’articolo 183, comma 1, lett. cc), Dlgs 152/200�.L’emanazione del decreto viene motivata con la necessità di defi nire la disciplina dei centri di raccolta comunali o intercomunali destinati a ricevere, per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento, i rifi uti urbani e assimilati conferiti in maniera differenziata dalle utenze e dagli altri soggetti tenuti al ritiro dalle utenze domestiche e al conferimento di specifi che tipologie di rifi uti, al fi ne di agevolare l’incremento dei livelli di raccolta differenziata e il conseguimento, su tutto il territorio nazionale, degli obiettivi fi ssati dalla normativa vigente.Il punto 4.2 dell’Allegato I riporta il dettagliato elenco delle tipologie di rifi uti conferibili nei centri di raccolta, compresi i rifi uti speciali assimilati agli urbani.Il sistema autorizzativo previsto per i centri di raccolta prevede che:

• la realizzazione sia autorizzata dal Comune ai sensi della normativa vigente (non viene spe-cifi cata quale normativa, ma si suppone ci si riferisca a quella urbanistica);

• l’allegato 1 defi nisce i requisiti tecnici e gestionale previsti;• il gestore del centro di raccolta deve essere iscritto all’Albo nazionale gestori ambientali nella

categoria 1 (“raccolta e trasporto di rifi uti urbani e assimiilati”), previa fi deiussione;• l’idoneità tecnica e la capacità fi nanziaria saranno deliberate dal Comitato nazionale dell’Al-

bo gestori ambientali entro il 2� giugno 2008 (quindi, fi no a quella data sarà impossibile qualsivoglia iscrizione);

• i centri di raccolta già operanti in base a disposizioni regionali o di enti locali continuano ad operare e dovranno conformarsi al nuovo Dm 8 aprile 2008 entro i �0 giorni successivi alla data di pubblicazione in GU della delibera dell’Albo di cui al punto precedente;

• i centri di raccolta già autorizzati ai sensi degli articoli 208 e 210 del D.lgs. 152/200� conti-nuano ad operare sulla base della relativa autorizzazione, sino alla sua scadenza.

Oltre all’allegato I (che riporta i requisiti tecnici e gestionali) il D.M. 8 aprile 2008 riporta altri due allegati:

• allegato Ia): scheda rifi uti conferiti al centro di raccolta;• allegato Ib): scheda rifi uti avviati al recupero/smaltimento dal centro di raccolta.

Sono due documenti fi nalizzati alla contabilizzazione dei rifi uti in ingresso e in uscita per la impostazio-ne dei bilanci di massa, ove devono esser indicati (a cura degli addetti al centro di raccolta) i quantitativi delle diverse tipologie di rifi uti conferiti al centro e i quantitativi di quelli inviati a recupero/smaltimento.Tali documenti non sostituiscono od eliminano il registro di carico e scarico di cui all’articolo 190 del D.lgs. 152/200�.

Gestione dell’ecocentroIn virtù del ruolo che l’ecocentro deve svolgere all’interno del sistema di raccolta dei rifi uti urbani le ti-pologie di rifi uti conferibili devono essere strettamente connesse alle modalità di raccolta differenziata, con le quali si devono integrare. In particolare, gli ecocentri devono essere destinati al conferimento delle frazioni di rifi uti urbani la cui raccolta in maniera separata da parte del servizio pubblico risulta non agevole e per le quali anche il cittadino trova conveniente portarle direttamente con mezzo pro-prio, o tramite servizio su chiamata, ad un centro appositamente attrezzato.Particolare attenzione deve essere posta alla possibilità di autorizzare il conferimento di:

1. frazioni di rifi uti urbani putrescibili o potenzialmente contenenti materiali putrescibili;2. rifi uti indifferenziati.

Nel primo caso vanno valutati i possibili effetti in termini di emissioni odorigene nonché i risvolti nega-tivi che tale situazione può determinare rendendo di diffi cile applicazione serie politiche di riduzione dei rifi uti alla fonte attraverso la diffusione della pratica del compostaggio domestico e aumentando i costi per il trattamento (senza peraltro portare a risparmi sul fronte della raccolta sul territorio, per la quale dovrebbero comunque venire mantenuti i normali circuiti).Nel secondo caso vanno invece tenuti in considerazione le ripercussioni negative sulla possibilità di operare un’effi cace politica di riduzione dei rifi uti avviati a smaltimento derivanti da un’apertura incon-trollata degli ecocentri ai rifi uti indifferenziati.A titolo indicativo un ecocentro “tipo” potrebbe prevedere la seguente confi gurazione in termini di attrezzature e relative frazioni conferibili:

Rifi uto Contenitore

Ingombranti Cassone scarrabile 25-32 mc

Verde Cassone scarrabile 25-32 mc

Carta Cassone scarrabile 25-32 mc

Plastica Cassone scarrabile 25-32 mc

Vetro Cassone scarrabile 25-32 mc

Pneumatici Cassone scarrabile 25-32 mc

Beni durevoli/RAEE Cassone scarrabile 25-32 mc

Legno Cassone scarrabile 25-32 mc

Metalli Cassone scarrabile 25-32 mc

Interti Cassone scarrabile 25 mc

Oli vegetali 1 cisterna da 500-1.500 lt a doppia camicia

Oli minerali 1 cisterna da 500-1.500 lt a doppia camicia

Pile 1 contenitore carrellato

Batterie al piombo 1 palbox

Farmaci 1 contenitore carrellato

Cartucce e Toner 1 contenitore carrellato

Contenitori etichettati T e/o F 1 big-bag

La fi gura 4.4.1 riporta una possibile confi gurazione per un ecocentro con rampa centrale e posizio-namento dei cassoni a “lisca di pesce”. Questa confi gurazione consente di ottimizzare lo spazio a disposizione permettendo di posizionare 12 cassoni scarrabili.

Tabella 4.4.1: Dotazione “tipo” di contenitori per un ecocentro.

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Le frequenze di svuotamento dei vari contenitori dipenderanno chiaramente dai quantitativi in ingres-so all’ecocentro, che possono dipendere da molti fattori:

• numero di utenze/abitanti serviti;• limitazioni al conferimento di particolari categorie di rifi uti (ad esempio ingombranti, pneu-

matici, ecc.);• limitazioni al conferimento da parte delle utenze non domestiche;• fruibilità della struttura in termini di posizione, orari di apertura, visibilità, comunicazione di

supporto, ecc.

Un altro elemento del quale è necessario tenere conto è quello della gestione operativa dell’ecocentro in termini di controllo e regolamentazione degli accessi, che necessita almeno dei seguenti elementi:

• delimitazione e recinzione dell’area;• istituzione di un servizio di guardiania, con accessi controllati in orari prestabiliti (le squadre

addette alla gestione devono prevedere almeno due persone, una addetta all’accettazio-ne/controllo degli utenti e una addetta a controllare/agevolare le operazioni di scarico da parte degli stessi, con possibilmente una terza persona in appoggio nei giorni ed orari di massima affl uenza);

• eventuale servizio di vigilanza, almeno per il primo periodo di apertura, per scoraggiare ed evitare l’abbandono di rifi uti nei pressi della struttura.

Figura 4.4.1: Possibile confi gurazione per un ecocentro con rampa centrale e posizionamento dei cassoni a “lisca di pesce”.

4.5 Gestione dei rifi uti prodotti dal turismoPremessa e inquadramento generaleNell’8° Rapporto sulla gestione dei rifi uti urbani in Sardegna viene riportata, come per gli anni prece-denti, una stima della produzione dei rifi uti distinta in due categorie di provenienza: abitanti residenti e abitanti fl uttuanti. La stima della seconda categoria è stata effettuata come eccedenza della punta di produzione riscontrata principalmente nei mesi estivi rispetto alla media degli altri mesi. La percentuale di incidenza della produzione da fl uttuanti, calcolata sul rifi uto indifferenziato, è stata estesa anche alle altre tipologie di rifi uti differenziati (ad eccezione dei residui da spazzamento stradale), ipotizzando la stessa oscillazione stagionale di produzione della frazione differenziata rispetto a quanto riscontrato con l’indifferenziato.La provincia dove è massima l’incidenza della produzione fl uttuante è quella di Olbia-Tempio (32,�5%), quel-la con l’incidenza minore la Provincia del Medio Campidano (1,�9%) con una media regionale del 10%.

Cagliari 555.409 280.009.693 16.626.118 296.635.811 5,60% 19,7%

CarboniaIglesias

131.074 64.582.907 3.652.833 68.235.740 5,35% 10,1%

Medio Campidano

103.727 44.054.076 802.712 44.856.788 1,79% 43,8%

Nuoro 161.929 61.208.749 6.171.935 67.380.684 9,16% 21,5%

Ogliastra 57.960 17.803.014 2.144.949 19.947.963 10,75% 33,1%

OlbiaTempio

147.387 85.412.541 41.243.106 126.655.647 32,56% 16,0%

Oristano 168.381 66.510.039 2.855.168 69.365.207 4,12% 33,7%

Sassari 333.576 154.956.364 12.932.263 167.888.627 7,70% 12,3%

TOTALE 1.659.443 774.537.383 86.429.084 860.966.467 10,04% 19,8%

PROVINCIA ABITANTI (al 31.12.2006)

STIMA PRODUZIONE DA RESIDENTI

(kg/anno)

STIMA PRODUZIONE

DA FLUTTUANTI (kg/anno)

PRODUZIONE TOTALE

PRODUZIONE FLUTTUANTI/PRODUZIONE TOTALE (%)

% RD

Tabella 4.5.1: Incidenza del turismo sulla produzione di rifi uti urbani nelle province della Regione Sardegna (Fonte: Piano Regionale di Gestione dei Rifi uti).

Spiaggia di Chia - Foto di Renato Brotzu

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Dal confronto con i dati uffi ciali relativi alle presenze turistiche registrate negli alberghi e in strutture complementari si osserva che l’incidenza degli abitanti equivalenti sul totale degli abitanti residenti ed equivalenti si mantiene su livelli più bassi di quello tra la produzione attribuita ai fl uttuanti e la produ-zione totale, ma con una fortissima correlazione tra le due grandezze, come evidenziato dal grafi co in fi gura 4.5.1.

Dall’analisi di questi dati si può concludere che:

• Il dato relativo alle presenze turistiche nelle strutture censite non esaurisce in se la spiega-zione della fl uttuazione stagionale nella produzione di rifi uti, per la quale vanno ricercata anche altre cause quali ad esempio il fenomeno delle seconde case o il fatto che presumi-bilmente la produzione pro-capite generata da una presenza turistica è molto maggiore di quella prodotta da una abitante residente;

Cagliari 555.409 2.760.306 1,34%

Carbonia-Iglesias 131.074 188.308 0,39%

Medio Campidano

103.727 113.605 0,30%

Nuoro 161.929 1.055.288 1,75%

Ogliastra 57.960 415.173 1,92%

Olbia-Tempio

147.387 4.160.583 7,18%

Oristano 168.381 429.780 0,69%

Sassari 333.576 1.407.897 1,14%

TOTALE 1.659.443 10.530.940 1,71%

PROVINCIA ABITANTI (al 31.12.2006)

PRESENZE TURISTICHE IN STRUTTURE (2006)

ABITANTI EQUIVALENTI1/

(ABITANTI RESIDENTI+ ABITANTI EQUIVALENTI)

1 Gli abitanti equivalenti vengono determinati dividendo per il numero di giorni di un anno (365) il numero di presenze turistiche annuali.

Tabella 4.5.2: Abitanti equivalenti nelle province della Regione Sardegna (Fonte: ISTAT).

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Rapporto abitanti equivalenti / abitanti residentiFigura 4.5.1: Correlazione tra presenze turistiche e produzione di rifi uti nelle Province della Regione Sardegna (Fonti: Piano Regionale di Gestione dei Rifi uti; ISTAT).

Si tratta di conclusioni di carattere generale che necessiterebbero di analisi più dettagliate e soprattutto più contestualizzate a livello di dettaglio territoriale, ma suffi cienti a dare una signifi cativa descrizione del fenomeno.Il fenomeno turistico in Regione Sardegna, e i conseguenti impatti ambientali dello stesso, si caratte-rizzano quindi per la forte concentrazione:

• nello spazio, in particolare lungo la fascia costiera sabbiosa (il 90% dei posti letto alberghieri sono concentrati nelle zone nord-orientale, in quella nord-occidentale, meridionale e centro orientale2);

• nel tempo, in concomitanza della stagione estiva, tra giugno e settembre, con un fl usso intorno all’80 % del dato regionale2.

2 Dato tratto dal Piano Regionale di Sviluppo Turistico Sostenibile

Figura 4.5.2: Produzione procapite di rifi uti urbani (Kg/ab/anno) - Distribuzione comunale (Fonte: 8° Rapporto sulla gestione dei rifi uti urbani in Sardegna - anno 2006).

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• Il fenomeno turistico ha una forte correlazione con la fl uttuazione della produzione di rifi uti. Tale conclusione è rafforzata dall’analisi di altri indicatori quali la produzione pro-capite che, spostandosi dalle zone interne verso le zone costiere registra un sensibile aumento, con comuni turistici che arrivano ad una pressione doppia se non addirittura tripla rispetto alla media regionale (fi gura 4.5.2.).

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Azioni di sistemaDate le caratteristiche spaziali e temporali del fenomeno turistico e dei sui impatti in termini di produ-zione dei rifi uti vi sono alcune azioni di tipo strutturale che potrebbero essere messe in campo per una migliore gestione del problema rifi uti che qui vengono accennate, ma che trovano una loro specifi ca ed approfondita analisi nell’ambito del Piano Regionale di Sviluppo Turistico Sostenibile, la cui presa d’atto da parte della Giunta Regionale è avvenuta con Delibera n. 19/01 del 9.05.200�:

• incentivare l’adattamento delle caratteristiche strutturali degli esercizi ricettivi per migliorare la loro utilizzabilità per l’intero arco dell’anno;

• riconvertire le strutture con basso impatto economico e occupazionale e con uso estensivo del territorio per limitati periodi dell’anno in strutture di alta qualità e sostenibilità ambien-tale;

• prolungamento del periodo di apertura delle strutture ricettive, con premialità progressiva a seconda del tempo di apertura;

• coordinamento dei sistemi turistici locali, ai fi ni di una maggiore integrazione orizzontale e verticale fra imprese turistiche e per una maggiore differenziazione dei prodotti turistici;

• certifi cazione ambientale di imprese e territori secondo gli standard degli organismi interna-zionali operanti in tema di turismo sostenibile.

Tutte queste azioni potrebbero consentire di distribuire l’offerta turistica in modo più equilibrato nel corso dell’anno e sul territorio determinando una produzione più costante e meglio gestibile di rifi uti urbani, anche in termini di implementazioni di sistemi ottimizzati di raccolta differenziata.

Azioni specifi che - ecolabelL’Ecolabel è il marchio di qualità ecologica dell’Unione Europea che identifi ca i prodotti ed i servizi realizzati nel rispetto di precisi criteri ambientali. Per avere il marchio Ecolabel si devono rispettare sia criteri ambientali che di idoneità d’uso, defi niti valutando l’intero ciclo di vita del prodotto (Life Cycle Assement): dall’estrazione delle materie prime ai processi di lavorazione, alla distribuzione, all’utilizzo, fi no allo smaltimento. Il marchio è assegnato ai prodotti disponibili nell’Unione che risultano conformi ai requisiti ambientali stabiliti per singoli gruppi di prodotto (beni e servizi destinati a scopi analoghi).La defi nizione di servizio di ricettività turistica defi nita dall’ecolabel riguarda una vasta gamma di strutture ricettive, articolate in alloggi turistici collettivi e privati, che per potersi fregiarsi dell’Ecolabel devono rispettare una serie di criteri la cui fi nalità è limitare i principali impatti ambientali connessi con le tre fasi del ciclo di vita del servizio (acquisti di beni e servizi, erogazione del servizio, smaltimento dei rifi uti riducendo quindi il consumo energetico ed idrico e la produzione dei rifi uti), favorendo l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili e di sostanze che risultino meno pericolose per l’ambiente, promuoven-do la comunicazione e l’educazione ambientale.Per la pubblica amministrazione, il sostegno ad iniziative volte alla diffusione dell’Ecolabel può essere parte delle azioni volte sia all’attuazione di uno sviluppo locale sostenibile che ad azioni di marketing territoriale. Per quanto riguarda la gestione dei rifi uti la promozione dell’Ecolabel signifi ca stimolare le imprese turistiche alla limitazione della produzione dei rifi uti evitando l’uso di prodotti monodose o monouso, alla realizzazione della raccolta differenziata e di un’adeguata separazione dei rifi uti perico-losi affi nché ne venga assicurato un corretto smaltimento.La Regione Sardegna, nell’ambito delle attività del progetto ShMILE ha promosso un’indagine co-noscitiva sul posizionamento degli alberghi, agriturismi e b&b sardi rispetto ai criteri dell’Ecolabel con indicazioni utili a capire gli ambiti nei quali le Pubbliche Amministrazioni possono muoversi per promuovere questo strumento anche in funzione della differente sensibilità dei diversi operatori (Al-berghi, Agriturismi, B&B). Si riporta in tabella una sintesi delle principali risultanze dell’indagine nel settore rifi uti.Dall’analisi della rilevazione emerge che per quanto riguarda gli alberghi per la raccolta differenziata si evidenziano dei notevoli margini di miglioramento ai quali i comuni interessati dovranno dare risposta attrezzandosi per attivare servizi di raccolta in adempimento alla normativa nazionale e regionale in materia. Negli agriturismi, così come per i B&B, emerge una particolare attenzione nella raccolta diffe-

renziata e gestione dei rifi uti ed il maggior coinvolgimento degli ospiti nella tutela ambientale.L’attenzione al tema della riduzione dei rifi uti attraverso il non utilizzo di prodotti usa e getta vede ancora gli alberghi lontani da una situazione ottimale, con una maggiore sensibilità per gli agriturismi e ancora di più per i B&B.L’indagine sulla fase di trasporto dei rifi uti necessiterebbe di un approfondimento e una contestualiz-zazione territoriale maggiori, fi nalizzati a verifi care ad esempio:

• le modalità di assimilazione;• l’esistenza o meno di ecocentri comunali;• le modalità di raccolta (stradale o domiciliare) e la distanza dagli eventuali cassonetti.

Azioni specifi che - servizi di raccolta differenziata dedicati e tariffazione puntualeLe linee guida defi nite dal Piano Regionale sottolineano la necessità che oltre alle utenze domestiche (in abitazioni singole e condominiale e, per queste ultime, dotate o meno di spazi interni di pertinen-za) la progettazione dei nuovi servizi di raccolta orientati alla domiciliarizzazione siano mirati anche all’individuazione delle utenze non domestiche che necessitano di interventi specifi ci quali sicuramente sono le attività ricettive e non solo legate al turismo. Per questi ed altri soggetti il piano indica la ne-cessità di operare in modo separato in funzione del tipo e quantità di materiale che possono conferire, adottando il servizio domiciliare, eventualmente su chiamata.

Categoria Alberghi Agriturismi B&B

Prodotti usa e getta

La quasi totalità degli hotel dichiara di mettere a disposizione degli ospiti prodotti per l’igiene del corpo monodose o monou-so, percepiti come indicatore di quali-tà del servizio; mentre solo il 20% dichiara di utilizzare piatti, tazze e posate “usa e getta”.

La metà del campione non fa uso di prodotti monodose o monouso per l’igiene del corpo, e quasi il 72% non utilizza piatti, posate e tazze “usa e getta”.

In 2 casi su 3 non vengono forniti agli ospiti prodotti monodose/monouso per l’igiene del corpo e nell’80% non vengono utilizzati piatti, posate e tazze “usa e getta”.

Raccolta differenziata

Nel 67% delle strutture il persona-le realizza la raccolta differen-zia-ta, mentre solamente nel 30% dei casi gli ospiti vengono coinvolti, fornendo loro informazioni e contenitori adeguati.

57% circa dichiarano che nel Comune di appartenenza viene effettuata la raccolta differenziata dei rifi uti, il 65% afferma che il personale realizza la raccolta differenziata ed in più della metà vengono coinvolti anche gli ospiti, fornendo loro informazioni e con-tenitori adeguati.

Il 67% dei b&b si trovano in Comuni che effettuano la raccolta differenziata dei ri-fi uti, il 70% dichiarano che il personale effettua la raccolta differenziata e il 44% coin-volgono gli ospiti fornendo loro adeguate informazioni e contenitori per i rifi uti.

Trasporto dei rifi uti prodotti

Il trasporto dei rifi uti pro-dotti dagli hotel del campione fi no al sito di smaltimento o di raccolta nell’80% dei casi viene realizzato dal soggetto gestore del servizio di raccolta, mentre per il 17% viene realizzato dalla struttura stessa.

Nel 39% dei casi il trasporto è garantito dal servizio locale di raccolta, per oltre la metà viene realizzato direttamente dalla struttura.

Il trasporto dei rifi uti è garantito in tutte le strutture intervistate, in particolare nel 78% dei casi è realiz-zato dal servizio locale di raccolta, mentre per il 22% è realizzato direttamente dalla struttura.

Tabella 4.5.3: Risultati dell’indagine sull’applicazione dell’Ecolabel nelle strutture ricettive della Regione Sardegna (Fonte: Regione Sardegna, Quaderni per l’ambiente 2: L’Ecolabel europeo per il servizio di ricettività turistica in Sardegna).

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Nel defi nire l’attivazione di un servizio di raccolta differenziata per una realtà turistica le domande che più spesso ci si pone sono:

• quali livelli di raccolta differenziata possono essere raggiunti in un contesto turistico?• è possibile proporre modelli di raccolta analoghi a quelli che sono risultati vincenti nelle RD

domiciliari applicate ai cittadini residenti? • è possibile chiedere al turista di differenziare i suoi rifi uti prima del conferimento?• la raccolta domiciliare peggiora l’estetica o l’igiene dei luoghi di pregio turistici?

Un primo elemento che è necessario analizzare riguarda il tipo di turismo che insiste sulla realtà in esame:

• Turismo di 2° case;• Turismo su strutture ricettive (residence, alberghi, campeggi);• Turismo dei pendolari ovvero turismo “mordi e fuggi”.

Gli elementi da valutare possono venire così riassunti:

• Stagionalità;• Flussi in gioco dovuti ai fenomeni turistici e loro incidenza sul totale del rifi uto raccolto;• Composizione merceologica del rifi uto in funzione della provenienza (da seconde case, da

strutture ricettive, da ristorazione, ecc.);• Esigenze di salvaguardia dei siti storici e naturalistici

In funzione degli elementi elencati diverse azioni possono avere una maggiore o minore effi cacia, ad esempio:

Turismo “mordi e fuggi” Basso

2° case – Residence Medio

Strutture alberghiere Alto

Luoghi di elevato pregio storico e naturalistico interessati da turismo

“mordi e fuggi”

Diffi coltà di posizionamento

2° case – Residence Posizionamento e tipologia di conferimento da adottare in relazione alle

caratteristiche territoriali

Strutture alberghiere Posizionamento di contenitori domiciliare normalmente fattibile

AZIONE: comunicazione (possibilità di Infl uenzare i comportamenti)Tipologia di fl usso turistico Livello di coinvolgimento raggiungibile

AZIONE: posizionamento di idonei contenitori per intercettare i fl ussi differenziatiTipologia di fl usso turistico Problematiche di posizionamento

I fattori chiave del successo di un sistema di gestione dei rifi uti in aree turistiche possono venire così sintetizzati:

• Progettazione accurata:- del sistema di raccolta:

° Zonizzazione del territorio: gli abitanti residenti devono avere un sistema di rac-colta dimensionato regolarmente; le zone centrali-turistiche dove massima è la produzione di rifi uti avranno frequenze di raccolta più alte; le grandi utenze (es. alberghi) dovranno in linea generale avere circuiti di raccolta dedicati;

° Calendario di raccolta: le frequenze di raccolta dovranno seguire l’andamento della stagionalità, anche in funzione delle diverse zone individuate; il calendario di raccolta diventa una strumento indispensabile da recapitare a tutti i soggetti interessati.

- della comunicazione:° Utilizzo di più lingue;° Pianifi cazione di azioni specifi che rivolte ai diversi soggetti coinvolti.

Oltre ai citati elementi che caratterizzano la progettazione della raccolta un elemento che può essere attivato per migliorare le performance di raccolta differenziata delle utenze determinanti in un sistema turistico può essere rappresentato dall’applicazione di sistemi di tariffazione di tipo puntuale. A que-sto proposito l’art. 195, comma 2, lettera e) del D.Lgs. 152/200�, a seguito della riformulazione ad opera del D.Lgs. 4/2008 prevede che per ai rifi uti assimilati, entro un anno, si applichi esclusivamente una tariffazione per le quantità conferite al servizio di gestione dei rifi uti urbani. Tali sistemi possono prevedere diverse modalità di quantifi cazione del costo del servizio, applicabili in alternativa o congiun-tamente, ad esempio:

• Misurazione del numero di svuotamenti dei contenitori assegnati (generalmente per il rifi uto che viene avviato a smaltimento);

• Misurazione del peso del rifi uto avviato a smaltimento e addebito dell’esatto costo;• Calcolo di parte della tariffa sulla base del numero e della volumetria dei contenitori instal-

lati per la raccolta differenziata dei rifi uti secchi riciclabili e dell’organico (defi nizione di un “canone di allacciamento” al servizio).

Tabella 4.5.4: Effi cacia della comunicazione in funzione della tipologia di fl usso turistico.

Tabella 4.5.5: Problematiche di posizionamento dei contentiori per la RD in funzione della tipologia di fl usso turistico.

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5.1 Installazione di impianti fotovoltaici nelle scuole o in altri edifi ci pubbliciGli impianti fotovoltaici trasformano direttamente l’energia solare in energia elettrica sfruttando le proprietà di certi materiali quando sono investiti dalla radiazione solare. La regione Sardegna, con una insolazione annua sul piano orizzontale variabile tra 1500 e 1600 kWh/m2, presenta delle caratteri-stiche favorevoli allo sviluppo degli impianti solari. Nel seguito si propongono alcune linee guida per l’installazione di impianti fotovoltaici negli edifi ci pubblici con un esempio applicativo.

IntroduzioneL’energia elettrica in Sardegna, così come in Italia, è fondamentalmente prodotta nelle centrali termoe-lettriche a fonte fossile. Il consumo di energia elettrica pone pertanto in primo luogo delle problemati-che di tipo ambientale. Infatti per generare un chilowattora di energia elettrica in una centrale termoe-lettrica occorrono mediamente 3 kWh di energia termica, ottenuti a partire dalla combustione di un combustibile fossile. Inoltre le riserve delle fonti fossili sono limitate e destinate ad esaurirsi e il prezzo dei combustibili è in continuo aumento, con conseguenze anche sul costo dell’energia elettrica.La diffusione di impianti solari fotovoltaici consentirebbe di ridurre il consumo di energia elettrica deri-vante da fonte fossile, con una conseguente diminuzione delle emissioni di anidride carbonica, uno dei gas responsabili del riscaldamento globale del pianeta. I benefi ci ambientali ottenibili dall’installazione di un impianto fotovoltaico si possono dedurre facilmente dal tempo di ritorno energetico, cioè il tempo entro il quale un impianto fotovoltaico è in grado di produrre l’energia che è servita per la sua fabbricazione e messa in opera. Per siti con valori di insolazione tipici della Sardegna, da studi riportati in letteratura si può ritenere che il tempo di ritorno energetico di un impianto fotovoltaico sia intorno ai quattro anni, con una certa variabilità a seconda della tecnologia e del tipo di installazione. L’energia prodotta negli anni successivi ai primi quattro rappresenta il benefi cio ambientale, che si comprende, in termini relativi, sapendo che un impianto fotovoltaico continua a produrre per 20-25 anni.A causa degli elevati costi di investimento, il tempo di ritorno economico di un impianto fotovoltaico è molto più alto. Tuttavia, grazie all’introduzione del sistema di incentivazione denominato Conto Ener-gia, l’installazione di impianti fotovoltaici collegati alla rete elettrica risulta ora economicamente vantag-giosa sia per le piccole utenze residenziali sia nel caso di strutture pubbliche e private più grandi.

Il modulo fotovoltaico: principi di funzionamentoIl componente principale di un impianto fotovoltaico è il modulo fotovoltaico. Un modulo a sua volta è costituito da più unità elementari chiamate celle fotovoltaiche, che vengono realizzate utilizzando un materiale semiconduttore.Tra i vari materiali semiconduttori che possono essere adoperati per realizzare una cella, il più diffuso è il silicio; altri semiconduttori possono però essere utilizzati, ad esempio nelle tecnologie denominate a fi lm sottile.La conversione fotovoltaica avviene quando una cella viene investita dalla radiazione solare: si genera in questo modo un campo elettrico. Se al modulo viene connesso un carico elettrico, si avrà circola-zione di corrente elettrica.Una cella fotovoltaica genera una potenza elettrica in corrente continua. In un modulo le celle ven-gono elettricamente collegate in serie per ottenere un voltaggio maggiore di quello fornito da una singola cella. I moduli sono infi ne collegati tra loro in serie e in parallelo per formare un generatore fotovoltaico.

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L’effi cienza di un modulo fotovoltaico è data dal rapporto tra la potenza generata dal modulo e la potenza irraggiata dal sole ed intercettata dalla superfi cie del modulo. A parità di intensità della radia-zione solare, la potenza prodotta e di conseguenza l’effi cienza di un modulo fotovoltaico diminuisco-no all’aumentare della sua temperatura. Inoltre, tanto maggiore è l’irraggiamento solare e tanto più grande sarà la potenza elettrica generata dal modulo.L’effetto fotovoltaico dipende poi dalle caratteristiche spettrali, cioè dalle caratteristiche in termini di lunghezza d’onda, della radiazione solare. Lo spettro della radiazione solare è funzione del percorso che la radiazione solare compie attraverso l’atmosfera, il quale varia per esempio a seconda della lati-tudine di una località e del periodo dell’anno.Per poter confrontare le prestazioni di moduli diversi occorre allora fare riferimento a delle condizioni standard, che sono defi nite nel modo seguente: potenza solare specifi ca di 1000 W/m2, temperatura del modulo di 25°C, spettro della radiazione solare defi nito da normativa come AM1.5. La potenza fornita dal modulo in queste condizioni è detta potenza di picco. Anche l’effi cienza è defi nita in con-dizioni standard. Tuttavia, nelle applicazioni pratiche, un modulo fotovoltaico non si troverà quasi mai a lavorare nelle condizioni standard. Caratteristica importante dei moduli è anche la variazione dell’effi cienza in funzione della temperatu-ra; nei cataloghi è riportata la variazione percentuale della potenza per ogni grado di aumento della temperatura di cella.

tipi di moduliI moduli fotovoltaici commercialmente più diffusi sono in silicio. Si possono distinguere tre tipologie di moduli in silicio: silicio monocristallino, policristallino ed amorfo. I moduli in silicio monocristallino presentano la maggiore effi cienza, tra il 14 e il 1�%. Le celle sono generalmente di forma quadrata o semi-quadrata per consentire un’occupazione ottimale della superfi cie utile rettangolare del pannello.I moduli in silicio policristallino invece hanno un’effi cienza più bassa, intorno al 11-13%. Le celle han-no ancora forma quadrata, tuttavia la differenza rispetto alle celle in silicio monocristalllino è visibile ad occhio nudo: mentre queste ultime presentano una colorazione uniforme, le celle in silicio policristal-lino hanno delle striature caratteristiche.Nei moduli in silicio amorfo, un sottile strato di silicio viene deposto su di una superfi cie di sostegno. Lo spessore dello strato di silicio amorfo è sensibilmente inferiore rispetto a quello di silicio cristallino (qualche micron contro qualche centinaio di micron), ed infatti il silicio amorfo rientra tra le tecnolo-gie a fi lm sottile. Il modulo in silicio amorfo è meno costoso rispetto a quello in silicio cristallino ma presenta rendimento sensibilmente inferiore, intorno a �-8%. Inoltre, a differenza del silicio cristallino, il rendimento del modulo in silicio amorfo diminuisce del 10-20% nelle prime ore di esposizione alla luce, ma poi presenta una maggiore stabilità nel tempo. Sotto l’aspetto visivo si presenta come una la-stra di vetro di colore uniforme che può variare dal marrone al blu fi no al nero. Il silicio amorfo presenta caratteristiche di fl essibilità per quanto riguarda la forma che si può dare alle celle.Esistono in commercio anche celle che nascono come combinazione delle celle in silicio cristallino e quelle in silicio amorfo: esse sono chiamate celle a eterogiunzione HIT. Queste celle sono costituite da una parte centrale formata da silicio monocristallino, rivestito da entrambi i lati con un sottile strato di silicio amorfo. I moduli HIT hanno effi cienza del 1�-1�%, una maggiore stabilità nel tempo dell’ef-fi cienza ed un effetto della temperatura più contenuto rispetto al comportamento delle tradizionali celle in silicio cristallino.

Figura 5.1.1: Celle fotovoltaiche in silicio amorfo, monocristallino e policristallino

Hanno collaborato: Del Col D., Da Riva E., De Carli M., Padovan A., Zarrella A., Calegari G., Cappelletto C., Furlan S.

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La potenza di un modulo fotovoltaico dipende dal tipo, dal numero e dalle dimensioni delle celle. In-dicativamente un modulo formato da 3� celle in silicio cristallino ha una potenza di picco tra �0 e 90 W; se il numero di celle sale invece a �2 la potenza di picco è tra 120 e 190 W.

tipi di impiantoGli impianti fotovoltaici si suddividono in impianti isolati e in sistemi connessi alla rete. Nel primo caso l’energia prodotta in eccesso o non immediatamente consumata viene accumulata in apposite batterie. I sistemi fotovoltaici isolati costituiscono una valida soluzione se, per motivi logistici, econo-mici o paesaggistici, non sia vantaggioso o praticabile il collegamento dell’utenza alla rete elettrica tradizionale. Una tipica applicazione dei sistemi isolati è rappresentata dall’illuminazione stradale, che consente di risparmiare lunghi tratti di cavo interrato necessari per l’alimentazione dei lampioni. Per poter alimentare i carichi in corrente alternata, un impianto fotovoltaico necessita di un inverter, un dispositivo elettronico che è in grado di convertire corrente continua in corrente alternata, alla tensione e frequenza voluta. I sistemi fotovoltaici connessi in rete, invece, si interfacciano con la rete elettrica a cui sono allacciate le utenze. Anch’essi necessitano di inverter. Se l’energia prodotta è maggiore di quella consumata, l’eccesso viene ceduto alla rete; qualora invece il consumo di energia sia superiore a quanto può for-nire l’impianto, la rete elettrica copre la richiesta di energia. Tramite dei contatori vengono eseguiti i conteggi relativi agli scambi energetici tra impianto e rete elettrica. Tale soluzione impiantistica non richiede quindi l’uso di accumulatori e si presta per applicazioni di diverso tipo.I moduli fotovoltaici sono in genere provvisti di diodi di bypass, i quali hanno lo scopo di consentire il passaggio di corrente in parallelo alle celle che, per qualunque motivo, siano ombreggiate. E’ utile qui ricordare che un ombreggiamento anche parziale di un modulo fotovoltaico può ridurre in maniera importante la potenza prodotta.

tipi di installazioniLe celle fotovoltaiche sono estremamente versatili e possono rendere possibili molteplici soluzioni ar-chitettoniche.I moduli devono essere installati, se possibile, verso sud. L’angolo di inclinazione dei pannelli rispetto alla superfi cie orizzontale deve essere scelto in modo che la radiazione solare arrivi perpendicolarmente alla superfi cie del pannello: questa condizione massimizza la raccolta di energia solare. Un impianto fotovoltaico collegato alla rete funziona senza soste; esso deve pertanto massimizzare la produzione annua di energia. Questa condizione può essere realizzata installando i pannelli con un angolo di inclinazione di circa 30° rispetto alla superfi cie orizzontale. La scelta della disposizione dei moduli fotovoltaici gioca un ruolo essenziale sulla producibilità dell’impianto. Nel caso di installazione su tetto inclinato, la scelta dell’angolo di inclinazione è evidentemente vinco-lata dalla pendenza del tetto dell’edifi cio.

Figura 5.1.2: Schema di impianto fotovoltaico collegato alla rete elettrica.

Si può optare per una installazione retrofi t o integrata. Negli impianti integrati i pannelli fotovoltaici vanno a sostituire una parte della copertura o altri elementi dell’edifi cio. L’integrazione architettonica degli impianti è elemento importante anche ai fi ni dell’incentivazione in Conto Energia. Informazioni dettagliate sull’argomento sono reperibili nella guida del GSE (“Guida agli interventi validi ai fi ni del riconoscimento dell’integrazione architettonica del fotovoltaico”).Nel caso di tetto piano si possono installare i pannelli su apposite strutture di sostegno: vi è quindi la possibilità di disporre i moduli con inclinazione ottimale rispetto alla radiazione solare. Si può anche valutare la convenienza di adottare un sistema mobile ad inseguimento del sole per massimizzare la raccolta di energia. Se i pannelli vengono disposti su più fi le occorre prestare attenzione che le schiere non si ombreggino. Su copertura piana non è consigliata l’installazione integrata (orizzontale), perché comporta una riduzione della captazione della radiazione solare. Va anche detto che l’effi cienza dei moduli risente delle più alte temperature che si possono verifi care in mancanza di ventilazione nella parte posteriore del modulo.Anche per quanto riguarda l’installazione in facciata, i moduli possono essere sovrapposti alla facciata stessa oppure integrati in essa. Sotto l’aspetto del rendimento questa scelta non è ottimale a causa dell’inclinazione molto sfavorevole nei confronti della radiazione solare. Negli edifi ci dove si vuole lasciare fi ltrare la luce solare è possibile infi ne realizzare tetti in vetro dotati di dispositivi frangisole per diffondere la luce incidente: questa soluzione può essere ancora realizzata ricorrendo a materiale fotovoltaico.

Incentivazione in Conto energia e la normativa per gli enti localiIn alcuni Paesi europei, e anche in Italia, all’energia elettrica immessa in rete e prodotta da sistemi fotovoltaici viene riconosciuto un valore economico maggiore rispetto all’energia elettrica prodotta dalle centrali convenzionali. Tale forma di incentivo, che prende il nome di Conto Energia, prevede un premio, detto tariffa incentivante, per ogni kWh elettrico prodotto tramite impianto fotovoltaico.In Italia, tale meccanismo di incentivazione è attivo dal settembre 2005. L’incentivazione oggi in vigore è però quella approvata con DM del 19 febbraio 200�. Secondo tale decreto, l’energia elettrica pro-dotta dagli impianti fotovoltaici, che entrano in esercizio prima del 31 dicembre 2008, ha diritto a una tariffa incentivante articolata secondo i valori indicati nella seguente tabella. Le tariffe sono erogate per un periodo di venti anni, a decorrere dalla data di entrata in esercizio dell’impianto e rimangono costanti per l’intero periodo. Per gli impianti che entreranno in esercizio dopo il 31 dicembtre 2008, i valori della tariffa incentivante saranno decurtati del 2% per ciascuno degli anni di calendario succes-sivi al 2008.

Potenza nominaledell’impianto

(kWp)

Impianto non integrato

Impianto parzialmente

integrato

Impianto integrato

1 ≤ P ≤ 3 0,40 0,44 0,49

3 < P ≤ 20 0,38 0,42 0,46

P > 20 0,36 0,40 0,44

Come si può vedere, la tariffa incentivante dipende dalla potenza nominale dell’impianto e dalla ti-pologia dell’impianto fotovoltaico. La tariffa incentivante è maggiore per impianti più piccoli e con integrazione architettonica. Nel caso di impianti il cui soggetto responsabile è una scuola pubblica o una struttura sanitaria pub-blica, e per impianti i cui soggetti responsabili siano enti locali con popolazione residente inferiore a 5000 abitanti, la tariffa può essere incrementata del 5%. La legge fi nanziaria 2008 ha inoltre stabilito che, per impianti di cui siano responsabili gli enti locali, si applicano sempre le tariffe più alte, senza distinzione di integrazione architettonica.Inoltre, se il soggetto responsabile dell’edifi co è una scuola pubblica o una struttura sanitaria pubblica,

Tabella 5.1.1: Tariffa incentivante in funzione della taglia e tipologia di impianto (e/kWh).

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le tariffe incentivanti sono cumulabili con incentivi pubblici in conto capitale o in conto interessi anche se eccedenti il 20% del costo dell’investimento.Il ricavo derivante dal conto energia costituisce la fonte di ricavo principale per il soggetto titolare dell’impianto fotovoltaico. Un’ulteriore fonte di ricavo però è costituita dalla valorizzazione dell’ener-gia elettrica prodotta dall’impianto che può essere poi autoconsumata oppure venduta al mercato. L’autoconsumo dell’energia prodotta costituisce una fonte di ricavo implicita, nel senso che costituisce un risparmio in bolletta. Per impianti fi no a 20 kWp, inoltre, è possibile aderire alla disciplina dello scambio sul posto. Questo servizio consiste nell’operare un saldo annuo tra l’energia elettrica immessa in rete e l’energia elettrica prelevata dalla rete (cosiddetto net metering) nel caso in cui il punto di immissione e di prelievo del-l’energia elettrica dalla rete coincidano. In questo modo, si paga solo l’energia elettrica che in un anno si consuma in eccesso rispetto a quella che viene prodotta. La Finanziaria 2008 prevede di estendere il servizio di scambio sul posto ad impianti con potenza nominale fi no a 200 kWp. La stessa legge Finanziaria prevede altresì l’obbligo di installazione nelle nuove costruzioni di impianti fotovoltaici con potenza non inferiore ad 1 kWp per ogni unità abitativa.Ai fi ni del rilascio del permesso di costruire, deve essere prevista l’installazione di impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, con potenza non inferiore a 1 kW per ciascuna unità abitativa.Per maggiori informazioni sul conto energia e sull’integrazione edilizia degli impianti fotovoltaici si con-siglia di prendere visione delle guide curate dal Gestore dei Servizi Elettrici (GSE, www.gsel.it) “Il nuovo conto energia - Decreto 19 febbraio 2007 - La richiesta dell’incentivazione per gli impianti fotovoltaici”.

L’impianto fotovoltaico: esempio applicativoNel presente esempio applicativo si propone l’installazione di un impianto di 20 kWp in un edifi cio pubblico. Responsabile di impianto è un Ente locale: sulla base della legge fi nanziaria 2008 a tale impianto si applica la tariffa incentivante più alta stabilita dal DM del 19/2/200� per quella potenza, pari a 0,4� e/kWh.Va considerato che un impianto fotovoltaico con tale potenza nominale richiede una superfi cie di 150-200 m2, a seconda del rendimento dell’impianto ma anche della disposizione dei moduli. L’installazio-ne ottimale prevede che siano orientati a sud, con angolo di inclinazione di circa 30°. Se sono installati su strutture posizionate su terrazzo piano, ad esempio, si dovrà tener conto di una distanza minima tra i moduli per evitare che le fi le anteriori possano ombreggiare quelle posteriori. Sapendo che, mediamente, la producibilità di un impianto fotovoltaico in Sardegna è di circa 1400 kWh/kWp, cioè che per ogni kW di picco di potenza installata si producono annualmente circa 1400 kWh elettrici, tale impianto produce annualmente 28000 kWh elettrici. Assumendo un valore medio di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera per il sistema elettrico nazionale pari a 0.� kgCO2/kWhel, tale impianto fotovoltaico consente di evitare annualmente l’emissione di 1�,8 tonnellate di anidride carbonica (non si considera qui l’emissione di CO2 associata alla realizzazione dell’impianto stesso). Si suggerisce, in proposito, di installare in prossimità dell’impianto, in luogo visibile al pubblico, un pan-nello che riporti i valori di energia elettrica prodotta dall’impianto e le emissioni di anidride carbonica evitate. Da un punto di vista economico, il contributo annuo del conto energia sarebbe quindi pari a 12880 e. A questo fl usso di cassa si deve aggiungere il vantaggio derivante dal risparmio in bolletta che si può stimare in 3�40 e. A questi fl ussi di cassa si dovranno sottrarre le spese di manutenzione ed eventuali costi di assicurazione.L’investimento iniziale si può stimare nell’ordine di 104000 e, anche se tale spesa dipende dalla tipo-logia di impianto e dal tipo di moduli. Con tali ipotesi si può calcolare un tempo di ritorno dell’inve-stimento pari a � anni, ipotizzando un tasso di sconto nominale pari al �% (si suppone che il costo del denaro a prezzi correnti aumenti del �% annuo) e un indice di aumento del prezzo dell’energia pari al 3% annuo. Dopo venti anni l’Ente locale avrebbe un ricavo attualizzato di oltre 100 mila Euro. Va detto che se un impianto di questo tipo benefi ciasse anche di altri contributi, il tempo di ritorno dell’investimento risulterebbe ancora più basso.

5.2 L’utilizzo dei collettori solari termici negli edifi ci Gli impianti solari termici sono sistemi ormai tecnologicamente affi dabili, che comportano una spesa per installazione limitata e assicurano un recupero dell’investimento, perlomeno nel caso di un sistema solare per produzione di acqua calda sanitaria. In questo manuale la pubblica amministrazione può trovare i concetti basilari per poter valutare l’op-portunità di installazione di un impianto solare in edifi ci gestiti da enti pubblici, e per poter fornire delle risposte corrette al cittadino che desidera installare un impianto solare. Le amministrazioni sono infi ne particolarmente coinvolte per effetto degli ultimi decreti legislativi, che obbligano l’impiego di energia da fonti rinnovabili negli immobili.

IntroduzioneGli impianti solari termici convertono la radiazione solare in energia termica (calore): il componente che consente di operare tale conversione di energia è il collettore solare. La quantità di calore produ-cibile da un impianto solare termico dipende dall’insolazione annua che caratterizza una determinata località. Sotto questo aspetto la Regione Sardegna presenta delle caratteristiche favorevoli, con un’in-solazione annua variabile tra 1500 kWh/m2 e 1�00 kWh/m2. Come termine di confronto si consideri che l’insolazione annua in Italia varia da un minimo di 1200 kWh/m2 nel Nord ad un massimo di 1�00 kWh/m2 della Sicilia.L’energia termica prodotta da un impianto solare può essere sfruttata per il riscaldamento dell’acqua sanitaria, l’integrazione al riscaldamento invernale, il mantenimento in temperatura di piscine con utilizzo annuale o stagionale estivo. Un impianto solare non è in grado di rispondere da solo a tutta la richiesta di energia di una determinata utenza: questo perché l’energia solare presenta caratteristi-che di discontinuità. La quantità di energia che il sole rende disponibile ogni giorno non è costante: pertanto occorre abbinare all’impianto solare un sistema ausiliario tradizionale, come può essere una caldaia a gas, una pompa di calore o un bollitore elettrico, che interviene quando la radiazione solare non è suffi ciente. Si deve sottolineare che ricorrere al bollitore elettrico per produrre acqua calda sanitaria rappresenta un impiego poco razionale dell’energia elettrica.

L’impianto solare termico: quali utilizziI principali componenti di un impianto solare termico sono il collettore solare, il serbatoio di accumulo e il sistema ausiliario. Il collettore solare cattura la radiazione solare e la trasforma in calore, aumentan-do la temperatura di un liquido termovettore che attraversa il collettore stesso. Il fl uido termovettore è generalmente una miscela di acqua e antigelo; nelle zone non soggette a gelate si può utilizzare sem-plicemente l’acqua con un vantaggio in termini di manutenzione, vita e costo dell’impianto. Il calore è così trasferito all’acqua sanitaria che viene accumulata in un serbatoio. La presenza di un accumulo è fondamentale perché la produzione di energia termica non è generalmente contemporanea al suo utilizzo. Qualora il sole non riesca a soddisfare completamente la domanda dell’utenza, interviene il sistema ausiliario che riscalda l’acqua dell’accumulo fi no alla temperatura richiesta. Una problematica che ci si può trovare ad affrontare nella gestione di un impianto solare termico è la sovrapproduzione di energia termica che si può verifi care nel periodo estivo se la superfi cie dei collet-tori è sovradimensionata. Ciò è conseguenza del fatto che l’impianto genera una quantità di energia termica superiore a quella che viene consumata dall’utenza. In questa situazione il collettore solare non lavora correttamente (“stagnazione”) e ciò riduce la vita dell’impianto stesso. Il problema della “stagnazione” dipende dal dimensionamento del sistema solare e dal tipo di applicazione che si vuole soddisfare.Il consumo di energia legato all’utilizzo dell’acqua calda sanitaria si può considerare circa costante

1 Fotovoltaico. Guida per progettisti e per installatori. ISES ITALIA / Fondazione IDIS - Città della Scienza, 2006. 2 Guide del GSE (www.gsel.it): “Guida agli interventi validi ai fi ni del riconoscimento dell’integrazione architettonica del fotovoltaico”. “Il nuovo conto energia - Decreto 19 febbraio 2007 - La richiesta dell’incentivazione per gli impianti fotovoltaici” .

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durante l’anno: a questa applicazione l’impianto solare può rispondere in modo ottimale. Invece il riscaldamento invernale coincide con il periodo più sfavorevole per la radiazione solare: per-tanto un impianto solare può solo contribuire in termini di integrazione. Tuttavia per integrare il ri-scaldamento di un ambiente occorre aumentare la superfi cie di collettori solari: questo può portare il sistema a produrre energia termica in eccesso durante il periodo estivo, quando il fabbisogno di ener-gia termica legato al riscaldamento è assente e la radiazione solare è più elevata. Inoltre un impianto solare termico per l’integrazione del riscaldamento invernale si deve instaurare in una defi nita fi losofi a progettuale: l’edifi cio deve essere ben isolato per poter installare un impianto di riscaldamento a bassa temperatura. Considerando la condizione climatica e di insolazione della Sardegna, mentre un impianto solare per la produzione di acqua calda sanitaria è sicuramente consigliabile, l’impianto con integrazione del riscaldamento invernale è da valutare con attenzione.

Il collettore solare: quale tipologiaEsistono due tipi principali di collettori solari che possono essere utilizzati per le applicazioni prese in esame: i collettori piani e i collettori a tubi evacuati. I collettori piani sono più economici di quelli evacuati, ma sono caratterizzati da prestazioni inferiori soprattutto se utilizzati per produrre calore ad elevate temperature.Il rendimento (o effi cienza) di un collettore è defi nito come il rapporto tra l’energia utile assorbita dal fl uido termovettore e l’energia solare che investe il pannello. Sia per un collettore solare piano sia per uno di tipo evacuato, l’effi cienza diminuisce all’aumentare della temperatura di lavoro del collettore, anche se in maniera diversa. Inoltre tanto più elevata è l’intensità della radiazione solare tanto mag-giore è la prestazione del collettore. Un sistema a collettori solari è particolarmente indicato per generare calore a medio - bassa tempe-ratura, come è il caso della produzione di acqua calda sanitaria o l’abbinamento ad un impianto di riscaldamento a pavimento. Se si considera il clima e il livello di insolazione della Sardegna, nel caso delle applicazioni qui considerate, il rapporto tra i costi di investimento e i costi evitati per effetto del risparmio di energia indirizzano la scelta ottimale verso i collettori piani.

tipi di impianti solari termiciA seconda di come il liquido viene messo in movimento, gli impianti solari termici possono essere sud-divisi in due tipologie: gli impianti a circolazione naturale e gli impianti a circolazione forzata. In fi gura 5.2.1 e 5.2.2 sono riportati due schemi semplifi cati di impianti solari rispettivamente a circolazione naturale e forzata.In un impianto a circolazione naturale il liquido termovettore si muove naturalmente a causa della differenza di densità che si viene a creare quando il collettore è investito dalla radiazione solare: il sistema è così autoregolante perché il liquido termovettore si muove fi no a che il sole fornisce energia utile ad aumentare il livello di temperatura del serbatoio. L’impianto è molto semplice perché non necessità di nessun elemento di regolazione e controllo. Il meccanismo di funzionamento vincola però la posizione del serbatoio di accumulo che deve essere necessariamente posizionato al di sopra del collettore. In fi gura 5.2.3 e 5.2.4 sono riportati alcuni esempi di installazione: collettore e serbatoio entrambi su tetto oppure collettore sul tetto e serbatoio nel sottotetto. La seconda soluzione richiede però la presenza di un tetto molto spiovente, dovendo il serbatoio essere posto ad una quota superiore a quella dei pannelli.

Figura 5.2.1: Impianto solare a circolazione naturale per la produzione di acqua calda sanitaria.

Figura 5.2.2: Impianto solare a circolazione forzata per la produzione di acqua calda sanitaria.

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In un sistema a circolazione forzata il liquido termovettore è messo in movimento da una pompa: ciò ha una conseguenza importante nel fatto che non ci sono più vincoli sulla posizione del serbatoio di accumulo. Esso può essere ora collocato all’interno dell’edifi cio, maggiormente isolato e riparato dall’azione degli agenti atmosferici, ottenendo anche un benefi cio sull’aspetto estetico dell’installa-zione. Gli impianti solari possono essere poi suddivisi in impianti a circuito aperto e in impianti a circuito chiuso. Nei primi l’acqua sanitaria viene direttamente riscaldata nei collettori. Questa soluzione trova giustifi cazione per la produzione di acqua calda sanitaria in luoghi non soggetti a gelate oppure, per riscaldare l’acqua durante la sola stagione estiva, come può essere il caso di una casa al mare. Negli impianti a circuito chiuso il liquido che circola nei collettori è diverso dall’acqua destinata all’uten-za. Il primo cederà l’energia termica guadagnata dal sole all’acqua sanitaria tramite un apposito dispo-sitivo di scambio termico. Questa soluzione deve essere sempre adottata tutte le volte che l’impianto

Figura 5.2.3: Impianto a circolazione naturale con accumulo sul tetto.

Figura 5.2.4: Impianto a circolazione naturale con accumulo nel sottotetto.

viene installato in un luogo dove sono possibili le gelate durante l’inverno. In questo caso il liquido termovettore che percorre il collettore potrà essere acqua o una miscela di acqua e antigelo. La scelta della tipologia di impianto, a circolazione naturale o forzata e a circuito aperto o chiuso, dipende dall’applicazione. In ogni caso la confi gurazione a circuito chiuso si propone come quella più idonea per gli impianti medio grandi e per le utenze residenziali che hanno l’obiettivo di soddisfare la domanda di acqua calda durante tutto l’anno.

tipi di installazioneIl collettore solare deve essere installato in direzione Sud, se possibile, al fi ne di massimizzare la rac-colta di energia. In alternativa si sceglierà la direzione Sud - Ovest o Sud - Est, tenendo però conto che ci sarà una diminuzione nella radiazione solare che investe il pannello. L’angolo di inclinazione del pannello rispetto alla superfi cie orizzontale dipende dal tipo di applicazione. Si deve sempre cercare di fare in modo che la radiazione solare arrivi perpendicolarmente alla superfi cie del collettore. Nel caso della produzione di acqua calda sanitaria si vuole coprire un fabbisogno di energia termica che si può considerare costante nell’arco dell’anno. Pertanto l’angolo di inclinazione del collettore che ottimizza la raccolta annua di energia solare è di circa 30°. Nel caso del riscaldamento invernale si deve aumentare l’angolo di inclinazione perché nel periodo invernale l’altezza solare è minore (si vede il sole più basso all’orizzonte): è bene che l’angolo di incli-nazione del collettore sia pari a 50-�0°.Se i collettori sono installati su tetto inclinato la scelta dell’angolo di inclinazione è evidentemente vincolata alla pendenza del tetto dell’edifi cio. Nel caso dell’installazione di un impianto a circolazione forzata su tetto inclinato si può optare per una installazione retrofi t oppure integrata. Nell’installa-zione retrofi t i pannelli solari vengono installati sopra le tegole. Si tratta di una installazione che non comporta l’interruzione del rivestimento del tetto ed è pertanto semplice nell’esecuzione e nella ma-nutenzione. Tuttavia essa comporta un carico addizionale sul tetto. In particolare, per quanto riguarda i sistemi a circolazione naturale, si deve anche considerare il carico dovuto al serbatoio di accumulo, soprattutto nel caso di impianti di grandi dimensioni. Nell’installazione integrata il collettore sostituisce parte delle tegole. I vantaggi sono legati ad un minore carico sul tetto, maggiore protezione dei tubi di collegamento e risparmio di materiale edilizio nel caso di un nuovo edifi cio, soprattutto se la superfi cie dei collettori da installare è grande. I collettori possono comunque essere installati anche su tetto piano e in facciata. Per quanto concerne l’installazione su tetto piano i collettori possono essere montati su apposite strutture di sostegno, scegliendo così l’inclinazione ottimale. Nel caso dell’installazione in facciata, se l’applicazione è la sola produzione di acqua calda sanitaria, la resa annuale dell’impianto diminuisce per effetto della posizio-ne sfavorevole nei confronti della radiazione solare.

Figura 5.2.5: Installazione retrofi t su tetto inclinato.

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Normativa di riferimentoIl decreto legislativo 311/200� sancisce che, nel caso di edifi ci di nuova costruzione o in occasione di nuova installazione di impianti termici o di sostituzione di quelli esistenti, l’impianto di produzione di energia termica sia progettato in modo da coprire almeno il 50% del fabbisogno annuo di energia primaria richiesta per la produzione di acqua calda con l’utilizzo delle fonti rinnovabili. Tale limite è ridotto al 20% per gli edifi ci situati nei centri storici. Le modalità applicative saranno stabilite con successivo decreto attuativo.

esempio di impianto solare per la produzione di acqua calda sanitariaSi propongono qui alcune considerazioni sulle superfi ci necessarie e sui risparmi conseguibili nel caso di un impianto di acqua calda sanitaria per utenze residenziali.La superfi cie di collettore solare da installare in un impianto solare termico per la produzione di acqua calda sanitaria dipende dal consumo di acqua calda. Il dimensionamento non va fatto per coprire tutto il fabbisogno di energia termica, perché in questo caso si dovrebbe installare una superfi cie maggiore che porterebbe in “stagnazione” il sistema durante la stagione estiva. Installare una superfi cie troppo grande può non essere poi la scelta più conveniente da un punto di vista economico. In base alle esperienze impiantistiche più recenti, la frazione di copertura annua ottimale dell’impianto solare varia tra il �0% e il �0% a seconda delle condizioni climatiche, di insolazione e dell’effi cienza complessi-va dell’impianto. Questa scelta consente di coprire il 100% del fabbisogno di acqua calda sanitaria durante tutto il periodo estivo; nella restante parte dell’anno l’impianto fornisce comunque un certo contributo.Installando i collettori in modo ottimale e seguendo le indicazioni progettuali appena defi nite, risulta una superfi cie captante da installare pari a circa 0.5-0.� m2 per persona. Tale superfi cie viene tecni-camente chiamata superfi cie di assorbimento o di apertura del collettore ed è sempre indicata nel certifi cato di prova che accompagna ogni collettore. La superfi cie lorda o di ingombro del collettore è leggermente maggiore perché tiene conto anche del telaio del pannello che non è parte utile all’assor-bimento della radiazione solare. Tale valore è indicativo sia per un sistema a circolazione naturale sia per un impianto a circolazione forzata. Se consideriamo una famiglia media di 4 persone con un consumo pro capite di acqua calda sanitaria

Figura 5.2.6: Installazione integrata su tetto inclinato.

di 45 litri al giorno, un impianto solare correttamente dimensionato può consentire un risparmio an-nuo di energia termica di circa 1800 kWh. Se questa famiglia utilizzava precedentemente un bollitore elettrico ciò si traduce in un risparmio di energia elettrica di 1800 kWh. Poiché l’energia elettrica sarà stata ottenuta da un impianto termoelettrico a partire dalla fonte fossile, questo risparmio di energia elettrica evita ogni anno l’immissione in atmosfera di oltre una tonnellata di anidride carbonica. Oltre ad un benefi cio ambientale l’installazione di un impianto solare termico per il riscaldamento dell’ac-qua sanitaria è un vantaggio anche dal punto di vista economico. Nel caso della famiglia presa come esempio si può arrivare ad un risparmio di circa 350 e all’anno nella bolletta dell’energia elettrica. Un impianto solare come quello appena esaminato, grazie al risparmio che si può conseguire, consente un recupero dell’investimento sostenuto entro la vita dell’impianto stesso.

esempio di impianto solare per una struttura sportiva comunaleConsideriamo il caso di una struttura caratterizzata da una piscina coperta ed una scoperta ad uso estivo, con un numero di presenze di circa 90000 persone all’anno. L’impianto solare preso in esame si propone di soddisfare il fabbisogno di acqua calda richiesta dalle docce della struttura, e in caso di ulteriore disponibilità contribuisce al riscaldamento dell’acqua delle piscine. Il fabbisogno energetico annuo per le docce è stimato in circa 112 MWh.La scelta dell’impianto avviene secondo criteri diversi rispetto a quanto viene fatto per una piccola utenza residenziale: si deve considerare ad esempio che, per grandi superfi ci installate, cresce anche il carico strutturale sul tetto. L’impianto preso in esame è un sistema a circolazione forzata a circuito chiuso. Installando una superfi cie di collettori piani di 1�0 m2, disposti con angolo di inclinazione di 25-30°, è possibile soddisfare una frazione pari a 80% del fabbisogno annuale di acqua calda sanita-ria per le docce. Inoltre l’impianto potrà contribuire al riscaldamento delle piscine fornendo circa 45 MWh/anno.Un impianto di grossa taglia può risultare anche maggiormente conveniente sotto l’aspetto economico a causa dell’effetto “scala” legato al numero di componenti da acquistare e ai costi di installazione, che hanno minore incidenza sul costo totale.

1 Peuser F. A., Remmers K.-H., Schnauss M. Il solare termico a circolazione forzata. La progettazione degli impianti. Ed. THERMITAL.2 Rubini L. Solare termico: guida per progettisti e per installatori. ISES. 2004.

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5.3 La certifi cazione energetica negli edifi ci L’obiettivo della presente trattazione è quello di fare il punto della situazione sulla certifi cazione ener-getica degli edifi ci, tema di enorme interesse per la Pubblica Amministrazione. Va detto che la normativa in materia è ancora in itinere; in attesa delle evoluzioni vengono qui presen-tate alcune esperienze italiane che potrebbero fare da traino per il futuro.

Certifi cazione energetica degli edifi ciLa promozione della certifi cazione energetica degli edifi ci quale strumento di risparmio energetico è uno tra gli obiettivi della Direttiva Europea 2002/91/CE denominata “EPBD – Energy Performance of Buildings Directive”. Il certifi cato energetico deve essere sviluppato a partire dall’adozione di una “metodologia di calcolo del rendimento energetico degli edifi ci” che permetta di valutare il consumo standardizzato dell’edifi cio. Deve inoltre costituire un documento in grado di far acquisire valore ag-giunto all’edifi cio ed essere reso disponibile in qualsiasi operazione di compravendita o locazione degli immobili. L’intento primario di tale documento dovrebbe essere quello di informare l’acquirente o il locatario riguardo i consumi energetici dell’edifi cio.La certifi cazione energetica prevede il collocamento degli edifi ci esaminati all’interno di una scala for-mata da classi energetiche; il rientro o meno in una classe avverrà mediante la determinazione di un indice di prestazione energetica. Secondo i lavori recenti del CEN (Comitato Europeo di Normazione) le classi energetiche saranno sette, ciascuna contrassegnata da una lettera dell’alfabeto a partire dalla A (che indicherà il consumo più basso) fi no alla lettera G (che rappresenterà la classe peggiore). In molti paesi europei come Danimarca, Inghilterra, Francia, Germania e Olanda sono già state sperimentate delle procedure di certifi cazione energetica. In Italia la certifi cazione sembrava una realtà grazie alla Legge 10/91, alla quale però non sono seguiti i decreti attuativi in materia di certifi cazione energetica degli edifi ci. Non sono mancati comunque ad oggi casi di certifi cazione, come ad esempio il certifi cato CasaClima per la provincia di Bolzano.Nell’anno 2005 in Italia è stato emanato il D.Lgs. n. 192 in attuazione della Direttiva Europea 2002/91/CE limitatamente al fabbisogno per riscaldamento e acqua calda sanitaria, integrato successivamente dal D.Lgs n. 311. Molte Regioni e Province si stanno mobilitando per promuovere e sperimentare la certifi cazione energetica al fi ne di rimanere al passo con gli altri paesi europei, in attesa che vengano emanate le linee guida nazionali.La Conferenza unifi cata Stato-Regioni ha dato via libera alle Linee guida nazionali per l’effi cienza ener-getica degli edifi ci nella riunione del 20 marzo 2008: il parere favorevole è subordinato ad una serie di emendamenti che il Governo ora dovrà recepire. Tra questi, la scomparsa dell’indicazione di tariffe di riferimento per la certifi cazione e la validità delle leggi regionali già approvate, mentre le altre Regioni dovranno attenersi alle indicazioni nazionali fi no al varo di una norma propria che comunque dovrà tenere conto delle linee di principio condivise nel documento.

La direttiva 2002/91/CeIl 1� dicembre 2002, il Parlamento Europeo ed il Consiglio hanno emanato la Direttiva 2002/91/CE, denominata EPBD, Energy Performance Building Directive. Tale direttiva è nata dalla necessità di ac-celerare le azioni di risparmio energetico e di ridurre le differenze tra i vari stati membri, attraverso la defi nizione di un quadro di riferimento normativo, in modo da coordinare gli interventi nel settore edilizio. La direttiva rientra in un progetto europeo avente come obiettivo lo sviluppo di una strategia europea per un’energia sostenibile, competitiva e sicura, come riportato nel “Libro Verde”, documen-to defi nito nel 2002 e approvato l’8 marzo 200�. Quest’ultimo documento espone le modalità nelle quali la politica energetica europea potrebbe soddisfare gli obiettivi di sviluppo sostenibile, competiti-vità e sicurezza dell’approvvigionamento.

Il Certifi cato energeticoTenuto conto che il tasso di rinnovo del parco edilizio nazionale è molto basso e che quindi per la riduzione dei consumi energetici fi nali del settore civile, se si vogliono ottenere risultati signifi cativi a breve-medio termine, questi possono essere raggiunti principalmente con interventi di riqualifi cazione degli edifi ci esistenti, l’attività legislativa ha cercato di integrare le norme vigenti potenziandone l’effi -cacia in questa direzione.Da qui un’attenzione particolare alla certifi cazione energetica del patrimonio edilizio esistente, quale stimolo alla realizzazione di interventi di adeguamento edilizio, stimolo che può avere effetti positivi anche sullo sviluppo dell’industria delle costruzioni, con la realizzazione e commercializzazione di nuo-vi componenti degli edifi ci e degli impianti ad alta effi cienza energetica, non solo per il mercato del nuovo, ma anche e soprattutto per il mercato del recupero edilizio.In particolare attraverso lo stimolo dato dalla certifi cazione energetica al miglioramento della qualità del costruito

• le amministrazioni pubbliche possono raggiungere ed acquisire obbiettivi di minore dipen-denza energetica e di ridotto impatto ambientale;

• gli operatori economici possono benefi ciare di nuove opportunità, derivanti dallo sviluppo del mercato delle riqualifi cazioni;

• gli utenti possono garantirsi minori spese per il riscaldamento, un aumento del valore com-merciale degli immobili, ed un miglioramento del comfort abitativo.

Perché tali effetti positivi possano effettivamente attuarsi, occorre da un lato che non vengano vani-fi cati da un costo eccessivo della procedura di certifi cazione, e dall’altro che alla conseguente riqua-lifi cazione, comunque onerosa, corrisponda un benefi cio reale in termini di riduzione della bolletta energetica dell’utente fi nale. Per ovviare alla prima possibile condizione negativa, il legislatore ha previsto un avvio graduale della certifi cazione con costi commisurati al servizio fornito; mentre per la seconda occorrono strumenti adeguati di valutazione e una corretta qualifi cazione degli operatori.

Figura 5.3.1: Campo normativo.

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D.Lgs 192/2005 e 311/2006

Direttiva europea2002/91/Ce

Decreti del Presidente della Repubblica e Linee Guida:

• metodologie di calcolo• requisiti minimi• modalità di certifi cazione energetica

Leggi e decreti regionali

Legge quadro sull’effi cenza energetica: Legge 10/91

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Decreti di applicazione della Legge 10/91: DPR 412/93

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Fondamentali a tal fi ne sono quindi le procedure e le metodologie, la disponibilità e la qualità dei sog-getti certifi catori, i controlli e gli incentivi, l’integrazione tra i diversi livelli di amministrazione pubblica e il monitoraggio dello sviluppo del processo di certifi cazione. Strumenti ineffi cienti o inadeguati o troppo diversifi cati o costosi possono rendere irraggiungibili gli obbiettivi preposti, cioè quelli di una reale effi cienza energetica.

Alcune esperienze italiane nell’ambito della certifi cazioneIn Italia si stanno sviluppando iniziative autonome di certifi cazione, promosse dalle autorità locali, alcune su base volontaria mentre altre obbligatorie.

IL CeRtIFICAto CASACLImA

Un caso esemplare di certifi cazione energetica in Italia è quello proposto dalla provincia Autonoma di Bolzano. Con il D.P.P. n. 34 del 19 settembre 2004 è stato introdotto il regolamento di esecuzione della legge urbanistica in materia di risparmio energetico. Con questo provvedimento è stato resa obbliga-

La certifi cazione viene rilasciata dall’Uffi cio Aria e Rumore dell’agenzia per l’Ambiente di Bolzano, che, dopo un’analisi del bilancio energetico dell’edifi cio, ne individua gli aspetti salienti e fornisce anche informazioni sulle possibilità di interventi di effi cienza energetica. Le nuove costruzioni vengono di conseguenza classifi cate in base al fabbisogno di energia teorico richiesto dall’involucro; la visualizza-zione della classe di appartenenza rimanda alle etichette presenti sui comuni elettrodomestici. Assieme al certifi cato energetico viene rilasciata la targhetta energetica indicante la classe energetica raggiunta, che viene successivamente esposta dal cittadino sulla propria casa. All’interno del D.P.P n. 34 del 29 settembre 2004, art. 3 intitolato “Certifi cato Casa Clima”, al comma 1, vengono indicate le Classi e la metodologia di calcolo per la determinazione dell’indice di Calore (Fabbisogno Teorico di Energia dell’involucro). Al comma 2, viene introdotto il limite della Classe C, corrispondente ad un Fabbisogno di energia da parte dell’involucro pari o inferiore a �0 kWh/(m2 anno), come condizione necessaria e suffi ciente per il rilascio del certifi cato di abitabilità. Il certifi cato contiene una valutazione del fabbi-sogno termico annuale riferito alla superfi cie utile dell’edifi cio ed illustra pertanto la qualità termica della struttura di quest’ultimo. La classifi cazione in categorie per il fabbisogno di calore permette di effettuare in modo semplice e comprensibile una valutazione energetica dell’edifi cio. Tali categorie sono le seguenti:

• Casa Clima Gold+, con un fabbisogno di calore inferiore a 5 kWh/(m2 anno);• Casa Clima A, con un fabbisogno di calore compreso tra 5 e 30 kWh/(m2 anno) e A+ se

utilizza materiali non di origine fossile;• Casa Clima B, con fabbisogno di calore compreso tra 30 e 50 kWh/(m2 anno) e B+ se utilizza

materiali non di origine fossile;• Casa clima C, con un fabbisogno di calore di calore compreso tra 50 e �0 kWh/(m2 anno).

Figura 5.3.2: Targhetta CasaClima.

Se l’edifi cio prescelto ha un valore stabilito di fabbisogno termico annuale dell’involucro ricadente nelle categorie sopra citate, allora, insieme al certifi cato energetico viene rilasciata la targhetta energetica da applicare all’esterno dell’edifi cio.Per questa classifi cazione ed il relativo calcolo del fabbisogno di calore per il riscaldamento dell’edifi cio, vengono presi come riferimento i dati climatici di Bolzano. Il contrassegno “CasaClima più” viene asse-gnato agli edifi ci ad uso abitativo che si contraddistinguono in ragione di una metodologia costruttiva rispettosa dell’ambiente. Scopo di questa metodologia costruttiva è la realizzazione di edifi ci a basso consumo energetico ed eco-compatibili attraverso un accorto sfruttamento delle risorse naturali. Fat-tori decisivi di tale metodologia costruttiva ecocompatibile sono innanzitutto lo sfruttamento di risorse energetiche rinnovabili e l’ottimizzazione del loro utilizzo, nonchè l’impiego di materiali da costruzione che nei processi di fabbricazione, uso e smaltimento apportino il minor danno possibile all’ambiente. L’indicazione dei materiali ecologici, che deve essere allegata alla richiesta, deve corrispondere ai dati della scheda tecnica. Per il conferimento del contrassegno “CasaClima più” devono essere soddisfatti i sei criteri descritti di seguito:

1. fabbisogno di calore dell’involucro inferiore a 50 kWh/(m2 anno);2. nessun utilizzo di fonti energetiche di origine fossile per la produzione di calore;3. nessun utilizzo di isolanti termici sintetici e/o contenenti fi bre nocive;4. nessun utilizzo di pavimenti, fi nestre e porte in PVC;5. nessun utilizzo per gli ambienti chiusi di impregnanti chimici per il legno, di colori e vernici

contenenti solventi;�. nessun utilizzo di legno tropicale.

Il Certifi cato ecodomus.viAttualmente nella Provincia di Vicenza è in fase di sviluppo e sperimentazione una metodologia di certifi cazione denominata EcoDomus.vi. Il progetto di certifi cazione energetica EcoDomus.vi prevede di raggiungere un ambizioso risultato: offrire la possibilità di corredare gli edifi ci di un attestato ener-getico relativo a tutti gli usi che possono riguardare edifi ci residenziali, uffi ci ed edifi ci pubblici, sia di nuova realizzazione, sia già esistenti. Un obiettivo simile potrà essere raggiunto solo con gradualità, in maniera tale da supportare i contenuti scientifi ci e metodologici con i dati e le verifi che provenienti dalla realtà locale.Attualmente la certifi cazione è nella prima fase sperimentale, dove vengono presi in esame solamente gli usi energetici per riscaldamento e produzione di acqua calda sanitaria negli edifi ci nuovi e nelle ristrutturazioni. L’adesione al progetto avviene, per quanto consentito dalle leggi vigenti, su base vo-lontaria, anche se è lasciata ai singoli comuni la facoltà di rendere obbligatoria in tutto o in parte la certifi cazione.La procedura di rilascio dell’attestato energetico è integrata con la procedura di verifi ca obbligatoria prevista dalla Legge 10/91, con integrazioni e modifi cazioni apportate dai D.Lgs. 192 e 311.Il mezzo pratico per poter applicare la procedura è un foglio di calcolo che viene fornito gratuitamente. Lo scopo fi nale, è quello di fornire un giudizio oggettivo sull’impatto energetico dell’edifi cio che con-senta il confronto con i limiti di legge e con le prestazioni di altri edifi ci e che fornisca al tempo stesso informazioni, sulle potenzialità di miglioramento. Indirettamente, ma in maniera assolutamente non secondaria, l’attestato energetico dovrebbe peraltro rappresentare un incentivo all’adozione di tecno-logie e accorgimenti costruttivi rivolti al risparmio energetico, stimolando il costruttore e il venditore a qualifi care il proprio prodotto e sensibilizzando l’acquirente o il locatario ad apprezzare questo nuovo indice di qualità. La certifi cazione assume in tal senso una valenza promozionale rispetto alle migliori pratiche di risparmio energetico.Infi ne la certifi cazione, attraverso una mappa della situazione esistente e la defi nizione di standard qualitativi misurabili, affi anca l’amministrazione pubblica nell’opera di orientamento e corretta pianifi -cazione dello sviluppo del territorio.

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Regione PiemonteDi recente pubblicazione è anche la legge regionale del Piemonte in materia di rendimento energetico nell’edilizia, che promuove il miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifi ci esistenti e di nuova costruzione, tenendo anche conto delle condizioni climatiche locali, e introduce la certifi ca-zione energetica per gli edifi ci di nuova costruzione o ristrutturati, in tutti i casi di compravendita o locazione.

Regione LiguriaLa Liguria ha recentemente approvato la nuova legge regionale in materia di energia che disciplina, tra le altre cose, la certifi cazione energetica degli edifi ci.

Regione LombardiaAnche la Regione Lombardia ha disciplinato la progettazione e la realizzazione di edifi ci di nuova co-struzione e dei relativi impianti, le opere di ristrutturazione degli edifi ci e degli impianti esistenti e la certifi cazione energetica degli edifi ci. I limiti nazionali relativi ai requisiti di prestazione energetica che entreranno in vigore il 1° gennaio 2010, in Lombardia sono stati anticipati al 1° gennaio 2008.

5.4 Applicazioni geotermiche: uso del terreno per migliorare l’effi cienza dei sistemi di condizionamento e riscaldamento

Le molteplici soluzioni tecnologiche ed impiantistiche che si basano sulla “geotermia” mettono in evidenza notevoli potenzialità di risparmio energetico.I grandi sviluppi che si sono verifi cati in Europa, e le crescenti applicazioni che si vedono anche in Italia, danno atto dell’interesse suscitato tra gli operatori del settore. La Pubblica Amministrazione è particolarmente interessata a tali applicazioni, anche perché è chiamata ad intervenire con l’emanazione di linee guida e regolamenti riguardanti l’iter autorizzativo.

Funzionamento della Pompa di CaloreL’aumento del benessere e delle attività umane ha portato negli ultimi anni ad una intensifi cazione del-l’effetto serra, con possibili cambiamenti climatici legati all’aumento della temperatura media globale. Con la sottoscrizione del Protocollo di Kyoto, fi rmato anche dall’Italia, viene imposto ad ogni Paese fi rmatario di diminuire le proprie emissioni di gas serra nel periodo 2008-2012, in misura percentuale rispetto ai livelli del 1990, considerato come anno di riferimento. Per adeguarsi a tali norme appare fondamentale sia migliorare l’effi cienza energetica dei sistemi, anche mediante lo sviluppo di nuove tecnologie, che diversifi care il più possibile le fonti energetiche.In tale quadro si inserisce molto bene la “sorgente geotermica a bassa temperatura ” per la climatiz-zazione degli edifi ci. Sfruttando infatti la quasi isotermia del terreno, è possibile far funzionare una Pompa di Calore (PdC) acqua-acqua a livelli termici che consentono elevati coeffi cienti di prestazione e quindi minor consumi.Per pompa di calore si intende una macchina che preleva calore da una sorgente a temperatura inferio-re, e lo rende disponibile (assieme all’equivalente termico dell’energia spesa per rendere possibile que-sta operazione) ad una temperatura superiore. La PdC diventa “invertibile” quando la stessa macchina è in grado di operare anche come refrigeratore per il periodo estivo sottraendo calore dall’edifi cio per cederlo all’ambiente esterno. Le prestazioni energetiche di una PdC sono valutate con il parametro COP (Coeffi cient of Performance), che per un ciclo a compressione di vapore risulta essere (Figura 5.4.1):

riscaldamento: raffrescamento:

Il COP di una macchina a compressione di vapore aumenta al diminuire del salto termico tra le due sorgenti. Pertanto, per una certa sorgente termica esterna, in regime di riscaldamento il COP aumenta al diminuire della temperatura di condensazione e quindi di alimentazione dei terminali di impianto utilizzati; durante il periodo di raffrescamento, invece, l’effi cienza energetica della PdC aumenta al-l’aumentare della temperatura di evaporazione. Da qui si capisce il motivo per cui le pompe di calore si accoppiano molto bene con i sistemi a bassa differenza di temperatura (tra l’aria ambiente ed il fl uido termovettore utilizzato), quali ad esempio i pannelli radianti, classici o nella loro versione ad “attivazio-ne termica della massa”, o ventilconvettori.

COP =Q

2

LCOP =

Q1

L

1 La certifi cazione e l’effi cienza energetica del sistema edifi cio-impianto: aspetti interpretativi, tecnici e procedurali, AiCARR, Milano, 2006.2 Corrado V., Serraino M. Il nuovo quadro legislative italiano sull’effi cienza energetica negli edifi ci. Rockwool Italia SpA.3 Certifi cazione energetica degli edifi ci: edilizia sostenibile, effi cienza e risparmio energetico, indirizzi generali delle linee guida. Roma: DEI. 2007.

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Perché usare il terreno come sorgente termicaCome sorgente termica esterna spesso viene utilizzata l’aria. Essa presenta però un inconveniente: durante il periodo di riscaldamento il carico termico richiesto dall’edifi cio aumenta al diminuire della temperatura esterna, provocando una diminuzione di effi cienza energetica della PdC.Un valido sostituto dell’aria è il terreno. Esso presenta un’elevata inerzia termica ed una temperatura molto stabile già a poca profondità; dalla Figura 5.4.1 risulta evidente che l’ampiezza della variazione giornaliera di temperatura si riduce già a pochi centimetri di profondità, mentre l’effetto stagionale svanisce dopo alcuni metri. Ad ogni modo la temperatura del terreno indisturbato (cioè che non risen-te della sollecitazione esterna in superfi cie, sia di temperatura che di radiazione solare) oscilla rispetto ad un valore medio che, con buona approssimazione, può considerarsi pari alla temperatura media annuale dell’aria esterna nella località in esame. La temperatura indisturbata del terreno risulta più vi-cina alla temperatura dell’ambiente da climatizzare: ciò si traduce in un evidente aumento di effi cienza energetica della PdC, con una conseguente riduzione dei consumi di energia primaria.Le PdC “geotermiche” si possono distinguere in tre grosse categorie:

1. quelle che utilizzano l’acqua di falda come fl uido temovettore;2. quelle che utilizzano l’acqua di superfi cie, ad esempio di fi umi, laghi, ecc.;3. quelle che utilizzano degli scambiatori di calore a terreno a circuito chiuso entro cui scorre il fl uido termovettore.

tipologie di sistemi geotermiciL’ACQuA Come SoRGeNte teRmICA

Tra le sorgenti termiche per le Pompe di Calore, l’acqua, sia essa di superfi cie (mari, laghi, fi umi, corsi d’acqua) che sotterranea (falda più o meno profonda), è una valida soluzione, dato che, a parità di temperatura con l’aria, presenta caratteristiche di scambio termico di gran lunga migliori ed un calore specifi co più elevato. Inoltre il suo livello termico non è negativamente infl uenzato dalle condizioni esterne: aria più calda nei momenti di maggior carico termico estivo, aria più fredda nei momenti di maggior carico termico invernale.L’uso delle acque superfi ciali è favorevole in Italia rispetto all’Europa settentrionale perché raramente i nostri corsi d’acqua o i laghi ghiacciano anche a fronte di prolungate temperature esterne sotto zero. Per contro, un ostacolo è costituito dalla variazione stagionale di portata d’acqua che può essere rilevante, con cospicue riduzioni nel periodo estivo, quando la macchina funziona come refrigeratore.Altrettanto dicasi per l’uso dell’acqua di mare o di falda salmastra in prossimità della costa, che in Italia offre condizioni molto favorevoli con temperature invernali diffi cilmente sotto 10°C ed estive mai superiori a 25°C nelle acque costiere. Sono valori adatti sia per la sorgente fredda della pompa di calore sia come serbatoio termico per il refrigeratore. L’aspetto negativo per l’acqua di mare è dovuto all’indispensabile ricorso a scambiatori di calore intermedi realizzati in materiale pregiato e costoso, come il titanio, per resistere all’aggressività dell’acqua marina.

Figura 5.4.1: Principio di funzionamento della Pompa di Calore e della Macchina Frigorifera.

A sua volta, l’impiego delle acque sotterranee, tutt’altro che scevro da problemi tecnici, è confortato da una vastissima sperimentazione e pertanto, vista la numerosità delle realizzazioni anche di grandi dimensioni, può considerarsi ormai una tecnologia matura.Anche in Italia l’acqua sotterranea (generalmente acqua di pozzo), è tuttora largamente utilizzata nei raffreddamenti in ambito industriale, con limitazioni sempre più severe nei confronti sia dello scarico in rete fognaria, sia del prelievo. Quest’ultimo è spesso condizionato dal progressivo abbassamento della falda. Per quanto riguarda lo smaltimento a valle dell’uso, è anche possibile, e talvolta obbligatoria, la reiniezione dell’acqua in falda, sia per evitarne l’impoverimento, sia con funzioni di accumulo stagio-nale. Purtroppo tanto la trivellazione dei pozzi e il prelievo dell’acqua, quanto la reiniezione in falda, in Italia sono ancora temi controversi e l’iter burocratico risulta estremamente complicato.

L’acqua di pozzo o di faldaLa temperatura delle acque sotterranee ha valori prossimi a quelli della temperatura del terreno; di conseguenza, nelle zone dove è disponibile l’acqua di falda, esiste una fonte di energia geotermica a bassa temperatura direttamente utilizzabile.Con il termine “acqua di falda” ci si riferisce all’acqua che scorre sotto la superfi cie terrestre all’interno di materiali non consolidati come sabbie e ghiaie; uno strato acquifero si manifesta dove le formazioni

Figura 5.4.2: Andamento della temperatura del terreno a diverse profondità durante l’anno.

Figura 5.4.3: Principio di funzionamento della PdC “geotermica” in regime di riscaldamento.

Figura 5.4.4: Principio di funzionamento della PdC “geotermica” in regime di raffrescamento.

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geologiche sono suffi cientemente permeabili e adatte ad immagazzinare grandi quantità d’acqua.I sistemi “geotermici” a ciclo aperto utilizzano questa risorsa estraendo l’acqua dalla falda mediante pozzi e inviandola ad uno scambiatore di calore che permette di trasferire l’energia termica dell’ac-quifero ad un impianto utilizzante, per esempio, una pompa di calore. La maggior parte dei sistemi a circuito aperto successivamente scarica l’acqua utilizzata in un acquifero superfi ciale oppure la rein-troduce in uno strato acquifero eventualmente diverso da quello di prelievo. Questo tipo di sistemi è relativamente semplice da realizzare e per applicazioni residenziali, commerciali e direzionali è in grado di offrire una quantità di energia anche notevolmente superiore a quella ottenibile da sistemi a circuito chiuso con il vantaggio di un minor costo dell’impianto. Tuttavia questi sistemi possono potenzial-mente causare la degradazione ambientale dell’acquifero dovuta al riscaldamento o raffreddamento prolungato dello stesso; questo è particolarmente vero nei casi in cui l’iniezione (o la sottrazione) di calore non è ricambiata dalla rimozione (o dall’immissione) di una pari quantità di calore, causando così lo scompenso termico dell’acquifero.

La tecnologia AteSLa tecnologia ATES (Aquifer Thermal Energy Storage) è un particolare tipo di accumulo termico che sfrutta l’acqua del sottosuolo come serbatoio prelevandola da due diversi pozzi suffi cientemente di-stanti. Durante la stagione estiva, l’acqua di falda viene estratta dal “pozzo freddo” ed è utilizzata per il raffreddamento del condensatore del refrigeratore e successivamente immessa nel sottosuolo nel “pozzo caldo”. Durante il periodo invernale il prelievo avviene dal “pozzo caldo” e, dopo essere stata utilizzata nell’evaporatore della pompa di calore, viene immessa nel pozzo freddo, predisponendolo alla stagione estiva successiva (Figura 5.4.5). Questa tecnologia può essere profi cuamente adottata in presenza di bassa velocità nella falda freatica.

Gli impianti a circuito chiusoQuesti impianti possono utilizzare come fl uido termovettore acqua pura o addizionata con anticonge-lante. Con acqua pura, chiaramente, in fase di riscaldamento la PdC non può evaporare al di sotto di 0°C: in tal caso se il campo di sonde “geotermiche” non è opportunamente dimensionato si rischia di non soddisfare ai carichi più esigenti. L’aggiunta di una sostanza anticongelante permette di evaporare anche a temperature più basse e assorbire suffi cientemente calore dal terreno (la forza motrice del fl usso termico è la differenza di temperatura tra il fl uido termovettore ed il terreno) e far fronte a tutti i carichi invernali. Va detto però che la sostanza anticongelante (in genere glicole etilenico o propilenico) può innescare fenomeni di corrosione ed in caso di perdite va ad inquinare il sottosuolo e le eventuali

Figura 5.4.5: Principio di funzionamento della tecnologia A.T.E.S.

falde acquifere con danni assolutamente non trascurabili; bisogna inoltre considerare che dopo un certo periodo di tempo la sostanza va reintegrata con successivi costi. Da queste ultime considerazioni emerge, dunque, che impianti che utilizzano, come fl uido temovettore, una miscela di acqua e sostan-za anticongelante richiedono maggiore manutenzione ed attenzione. Quindi laddove è possibile risulta più vantaggioso sovradimensionare il circuito scambiatore a terreno (anche se questo fa aumentare il costo iniziale di installazione e quindi anche il tempo di ritorno dell’investimento) ed utilizzare acqua pura come fl uido termovettore: ciò permette di aumentare l’effi cienza energetica della PdC.Di seguito vengono presentati alcuni tipi di sonde geotermiche a circuito chiuso.

Sonde termiche orizzontali a terrenoIl campo di sonde a sviluppo orizzontale può presentarsi in diverse confi gurazioni, differenti fra loro a seconda della forma disegnata dalla tubazione, del numero di tubi impiegati e della connessione fra i rami. In Figura 5.4.� sono riportate alcune tipiche confi gurazioni di posa.E’ evidente che ad un maggiore fabbisogno termico dell’edifi cio corrisponde una maggiore estensione della superfi cie del terreno dedicato alla posa dei circuiti. Il fl usso termico scambiato fra la sonda e il sottosuolo è infl uenzato, ovviamente, dalla lunghezza della tubazione, dalla profondità di installazione (Figura 5.4.�.B) e dal passo tra i tubi (all’aumentare di questo diminuisce l’interferenza termica tra i rami). L’installazione di questa tipologia di sonde geotermiche necessita di molta superfi cie di terreno, pertanto bisogna verifi carne la disponibilità.

Sonde termiche verticali a terrenoLe sonde “geotermiche” a sviluppo orizzontale richiedono elevate superfi ci di terreno. Vista la confor-mità del territorio italiano, tale tipologia trova applicazione solo in casi di modesti fabbisogni energetici (ad esempio in campo residenziale). Nell’ambito di edifi ci del terziario, o comunque quando le poten-zialità in gioco cominciano ad essere medio-alte, sono soprattutto le sonde a terreno verticali (SGV) a trovare maggiore fattibilità di applicazione.L’installazione di questo tipo di sonde consiste nel trivellare il terreno ottenendo un foro verticale di diametro desiderato, posizionarci all’interno le tubazioni e riempire lo spazio restante tra tubi e terreno con materiale tipo bentonite o calcestruzzo arricchito con sabbia ad elevata conducibilità termica.L’utilizzo quasi esclusivamente invernale od estiva dei sistemi SGV richiede un’attenta valutazione dei seguenti aspetti:

• una progressiva variazione, su base pluriennale, della temperatura del sottosuolo, che indu-ce un decadimento delle prestazioni nel corso degli anni; questo comporta la necessità di sovradimensionare inizialmente l’impianto;

• un ridotto periodo di utilizzazione con conseguenti tempi di recupero dell’investimento più lunghi.

Figura A: distribuzione a chiocciola

Figura B: distribuzione a serpentino in parallelo

Figura C: distribuzione a serpen-tino in serie

Figura D: distribuzione a spirale

Figura 5.4.6: Alcuni tipi di confi gurazione di posa delle sonde a terreno a sviluppo orizzontale.

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Pali energeticiUn’altra applicazione della geotermia a bassa temperatura sono i cosiddetti pali energetici. All’interno dei pali di fondazione, ai ferri dell’armatura vengono fi ssati i tubi in polietilene in cui circola il fl uido termovettore. In tale applicazione è molto importante che la temperatura del fl uido circolante dentro i tubi non scenda al di sotto di 0°C in quanto ciò porterebbe al congelamento della struttura con con-seguenti ripercussioni dal punto di vista statico.

Legislazione nazionale in materia geotermicaAllo stato attuale, per quanto riguarda le applicazioni geotermiche a bassa temperatura, la normativa in merito è quasi assente. Per l’esecuzione di una perforazione nel terreno gli adempimenti si rifanno alla Legge 4 Agosto 1984, n. 4�4 (Norme per agevolare l’acquisizione da parte del Servizio geologico della Direzione generale delle miniere del Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato di elementi di conoscenza relativi alla struttura geologica e geofi sica del sottosuolo nazionale).Con la Legge del 4 Agosto 1984 n. 4�4, è fatto obbligo di comunicare al Servizio Geologico d’Italia – Dipartimento Difesa del Suolo (APAT) le informazioni relative a studi o indagini nel sottosuolo nazio-nale, per scopi di ricerca idrica o per opere di ingegneria civile. Tali informazioni riguardano in partico-lare le indagini per mezzo di perforazioni e rilievi geofi sici spinti a profondità uguali o maggiori di 30 m dal piano campagna e, nel caso delle gallerie, uguali o maggiori di 200 metri di lunghezza.La legge è stata istituita principalmente al fi ne di raccogliere e conservare elementi di conoscenza sulla struttura geologica, idrogeologica e geofi sica del sottosuolo nazionale.Qualora si intenda utilizzare l’acqua di falda come fl uido termovettore l’iter autorizzativo comprende una prima comunicazione per la realizzazione del pozzo al Genio Civile il quale rilascerà un certifi -cato per l’approvvigionamento idrico da fonte diversa dall’acquedotto, il certifi cato dovrà poi venire inoltrato all’agenzia territoriale che gestisce la risorsa idrica; quest’ultima rilascerà l’autorizzazione a procedere e tramite sopraluogo stabilirà la portata estraibile.

esempi legislativi in alcune regioniRegione Lombardia. Il Regolamento n. 2/200� disciplina l’utilizzo delle acque superfi ciali e sotterra-nee ad uso domestico in attuazione di quanto disposto dalla Legge Regionale 2�/2003.Regione toscana. La Legge Regionale 39/2005 defi nisce come deve essere presentata la domanda, corredata anche del progetto dell’impianto con il posizionamento delle sonde a terreno.Provincia Autonoma di Bolzano: Delibera della Giunta Provinciale n. 35�4 del 2�/09/2005 “Diretti-ve per la posa in opera delle sonde geotermiche”.

Figura 5.4.7: Esecuzione della perforazione per l’installazione di sonde termiche verticali a terreno.

Figura 5.4.8: Particolare di sonda a semplice U.

5.5 Riduzione dei consumi energetici nell’illuminazioneIl presente progetto propone alcune linee guida per la riduzione dei consumi energetici per l’illumina-zione degli edifi ci. L’illuminazione sta diventando infatti sempre più una voce importante nei consumi generali di energia di un edifi cio. Si prendono in considerazione anche le applicazioni per illuminazione esterna e gli aspetti connessi di inquinamento luminoso.

Consumi per illuminazione negli edifi ciLa recente norma EN 15193, in fase di recepimento in Italia, rappresenta il primo tentativo, a livello europeo, di stabilire procedure uniformi per stimare il fabbisogno energetico per l’illuminazione degli edifi ci e di fornire una metodologia per calcolare un indice che possa rappresentare la prestazione energetica dell’edifi cio. L’indice proposto è denominato LENI (Lighting Energy Numeric Indicator) ed esprime il rapporto tra il consumo annuo di energia elettrica per l’illuminazione (espressa in kWh), e la superfi cie in pianta dell’edifi cio considerato. Il perseguimento del risparmio energetico nell’illuminazione non deve però trascurare la qualità della luce in un ambiente, che si raggiunge quando si ottimizza la prestazione visiva, attraverso il comfort visivo, compatibilmente con i costi delle possibili soluzioni.

Apparecchi illuminanti a basso consumoLe apparecchiature di illuminazione sono generalmente defi nite attraverso diversi parametri, tra i quali i più importanti sono:

• Tonalità della luce e temperatura di colore (colorazione della luce);• Indice di resa cromatica (Ra), indice che quantifi ca quanto si discosta la luce da una luce

convenzionale bianca;• Effi cienza luminosa (lm/W), ossia il rapporto tra effetto desiderato e consumo elettrico;• Durata di vita;• Collegamento diretto alla rete o con ausilio di reattori, starter, ecc.;• Tempo necessario, dall’innesco, per raggiungere l’80% del fl usso luminoso nominale;• Tempo di ripristino nel caso di brusca interruzione (es. mancanza momentanea di corrente

elettrica);• Infl uenza della temperatura ambiente e delle variazioni della tensione di alimentazione sulle

condizioni di funzionamento;• Possibilità di funzionamento in più posizioni.

Inoltre, viste le recenti direttive, si aggiungono altri due aspetti:

• Riciclaggio dei componenti costituenti (direttiva WEEE);• Per le lampade a fl uorescenza, contenuto di mercurio (direttiva RoHS).

Il parametro di cui si deve tener conto in nome del contenimento dei consumi energetici è l’effi cienza luminosa di una sorgente, che si esprime in lm/W ed indica il rapporto tra il fl usso luminoso emesso (espresso in lumen) e la potenza elettrica assorbita (espressa in watt).Le più basse effi cienze spettano alle lampade ad incandescenza tradizionali (circa 12 lm/W), mentre i valori massimi si raggiungono con le lampade a vapori di sodio a bassa pressione (circa 200 lm/W), non applicate in ambienti interni. Oltre all’effi cienza, è importante considerare la durata di vita di una sorgente. La stima di questo pa-rametro è fondamentale qualora il fatto di dover ricambiare le lampade risulti oneroso o se bisogna quantifi care il cosiddetto ricambio programmato (la sostituzione di tutte le lampade presenti dopo un certo numero di ore). È un parametro strettamente collegato al decadimento del fl usso luminoso; si

1 De Carli M., Mantovan M., Prendin L., Zarrella A., Zecchin R., Zerbetto A., “Analisi di pompe di calore geotermiche con sonde orizzontali”, CDA n. 3, Marzo 2007.2 Kavanaugh S. P., Rafferty K. Ground source heat pumps-Design of geothermal systems for commercial and institutional buildings. ASHRAE. Applications Handbook. 1997.

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defi nisce come il numero di ore di funzionamento trascorso il quale il 50% delle lampade di prova in determinate condizioni cessa di funzionare.Le lampade ad incandescenza tradizionali hanno la più bassa durata di vita (1000÷1500 ore), mentre le lampade ad induzione e i LED hanno durate nettamente superiori (intorno a 50000 ore).Negli edifi ci residenziali la maggior parte delle sorgenti è ad incandescenza tradizionale o alogena, perché hanno un costo contenuto, un’elevata resa cromatica e una tonalità calda; tuttavia sempre più frequen-temente vengono sostituite queste sorgenti con lampade a fl uorescenza compatte di nuova generazione, più costose (da 4 e, anziché da 1 e circa), ma certamente con una durata di vita molto più elevata (15000 ore, anziché 1000-2000 ore di durata, tipiche delle incandescenti e 5000 ore delle alogene), nonché un’effi cienza elevata (�0 lm/W, contro 10 lm/W delle incandescenti e 25 lm/W delle alogene).

Negli ambienti del terziario, invece, le sorgenti fl uorescenti sono predominanti e le alogene trovano applicazione solo per illuminazione d’accento.La tecnologia del futuro resta comunque il LED (Light Emitting Diode), sorgenti attualmente a medio-alta effi cienza (40-�0 lm/W), ma in continua crescita e ad elevata durata di vita (intorno alle 50000 ore), quindi con bassissimi costi di manutenzione. Un ulteriore vantaggio dei LED è il fatto che emettono soltanto nel campo del visibile, quindi non ci sono problemi di emissione di calore (assenza di radiazione infrarossa), con la conseguente diminuzione di carico termico immesso in ambiente, né di emissione di ultravioletto, estremamente dannoso per le opere d’arte e per tutti quei materiali sensibili a tali radiazioni. Recenti applicazioni dei LED cominciano a vedersi nell’illuminazione dei generi alimentari (scaffali, banchi frigo, ecc.), nelle insegne retroilluminate, nell’illuminazione dei semafori, ma anche in altri ambiti, vista l’estrema versatilità che tale tecnologia già oggi consente. Il LED del prossimo futuro sarà il cosiddetto OLED, LED cosiddetto “organico”, che emette una luce omogenea, distribuita su una superfi cie piana.

Criteri di ottimizzazione dell’illuminazione naturaleIlluminare naturalmente un ambiente non solo permette di contenere i consumi, ma soprattutto offre la possibilità di avere un campo luminoso mutevole e dinamico nel tempo. L’illuminazione naturale varia a seconda delle condizioni meteorologiche, della posizione geografi ca, della stagione e dell’ora del giorno, della geometria delle fi nestre e dell’ambiente, dell’esposizione e dei fattori di rifl essione delle superfi ci interne ed esterne. La norma UNI EN 124�4-1 sull’illuminazione dei posti di lavoro, fornisce i valori ottimali di illumina-mento medio mantenuto in base al tipo di compito da svolgere e gli intervalli dei fattori di rifl essione consigliati per le principali pareti di un locale.Ottimizzare l’illuminazione naturale non signifi ca soltanto scegliere la dimensione e la disposizione mi-gliore delle fi nestre, ma anche prevedere delle schermature solari che permettano di modulare l’ingresso della luce, onde evitare surriscaldamenti e abbagliamenti.Le fi nestre in un ambiente servono non solo per illuminare ed eventualmente aerare un locale, ma per-mettono di relazionarsi con l’esterno. Più che la dimensione, è importante la posizione delle aperture: fi nestre poste in alto consentono una buona penetrazione della luce in profondità, ma non permettono

Figura 5.5.1: Confronto economico su 10000 ore di esercizio.

la visione verso l’esterno; viceversa quelle poste nella parte bassa della parete riducono il livello di illuminamento, in quanto oscurano parte del soffi tto. Generalmente un soffi tto molto chiaro rifl ette bene la luce, diffondendola in tutto l’ambiente.A volte, in ambienti di grandi dimensioni, non potendo sfruttare l’illuminazione laterale, si deve ricorrere al toplighting, ovvero all’illuminazione zenitale, che, non solo non consente alcun rapporto visivo con l’esterno, ma può anche avere effetti dannosi sul clima interno. In questi casi conviene piuttosto ricorrere al corelighting, ovvero prevedere degli atri, con copertura vetrata opportunamente schermata, che intersecano tutti i piani e che fungano da pozzi di luce per i vari ambienti. Questi atri, oltre a consentire l’ingresso della luce nelle parti interne dell’edifi cio, possono servire per la ventilazione e vengono ad assumere il ruolo di spazi di relazione caratterizzati da un particolare clima che va ad interrompere la monotonia del clima interno.

La gestione dell’illuminazione in edifi ci del terziarioIl consumo energetico per l’illuminazione artifi ciale può essere ridotto notevolmente con l’utilizzo di sistemi di gestione e di automazione della luce. Soprattutto negli ambienti lavorativi, dove il consumo elettrico è elevato, la scelta di apparecchi ad alta effi cienza connessa all’installazione di sensori di pre-senza, variatori per la regolazione del fl usso luminoso, nonché sensori che, in base all’illuminamento esterno, calibrano l’illuminamento interno in modo da raggiungere il valore stabilito, consentono una riduzione dei consumi. L’ideale, soprattutto per ambienti open-space, è creare una sorta di “isole lu-minose”, ovvero progettare un impianto elettrico in grado di gestire autonomamente diverse zone. Se, inoltre, ciascun utente potesse usufruire di un sistema personalizzato di gestione, si otterrebbe un incremento della produttività e in generale del comfort visivo dei lavoratori. Un sistema di gestione dell’illuminazione molto noto è il sistema DALI (Digital Addressable Lighting Interface): si tratta di uno standard, riconosciuto a livello internazionale, che permette di avere una co-municazione digitale tra i singoli componenti di un sistema di illuminazione. E’ un sistema vantaggioso rispetto ad un sistema analogico, permette la gestione (ON/OFF e regolazione) di singole lampade o di gruppi di lampade e non richiede la progettazione del cablaggio e il posizionamento degli interruttori (la confi gurazione dei gruppi e delle scene si realizza via software dall’unità di controllo). La distanza massima tra il dispositivo più lontano e l’unità di controllo è di 300 m.

Illuminazione di esterniParticolarmente sentito oggi è il problema dell’inquinamento luminoso. L’intensità luminosa massima che può essere emessa verso l’alto dagli apparecchi esterni è fi ssata a 0.49 cd/klm a 90° e oltre. Occorre quindi prestare attenzione al tipo di apparecchio e all’ottica. Su questo problema la Regione Sardegna ha recentemente introdotto con Delibera della Giunta Regionale n. 48/31 del 29.11.200� le “Linee guida re-gionali per la riduzione dell’inquinamento luminoso e relativo consumo energetico”. A tal fi ne gli impianti di illuminazione per esterni dovranno prevedere limitazioni sia di emissioni luminose verso la volta celeste sia prevedere corpi illuminanti a basso consumo energetico. Nel bando regionale della Sardegna per il cofi nanziamento di iniziative nel campo del risparmio energetico e del contenimento dell’inquinamento luminoso, art. 19, comma 4, L.R. 29.5.200�, n. 2, pubblicato il 19/12/200�, vengono premiati progetti di riqualifi cazione di impianti di illuminazione pubblica esterna a basso impatto ambientale.Un risparmio energetico nell’illuminazione di esterni si potrebbe conseguire tramite un sistema di tele-gestione, per controllare l’illuminazione esterna di strade, autostrade, aree residenziali, ecc. Con questo sistema si risparmia energia, dal momento che si può variare o far cessare il fl usso delle singole sorgenti in determinate fasce orarie. Inoltre, si aumenta la sicurezza, perché si possono monitorare le età e le caratteristiche di ogni singola sorgente, in modo da cambiarle in tempo. Infi ne, qualora si debba so-stituirne una, si possono sostituire anche quelle analoghe, così da abbattere i costi di manutenzione. Oggi si parla di accensione o dimmeraggio dell’illuminazione pubblica, soprattutto di viali pedonali e ciclabili, connessa a sensori di movimento. In un prossimo futuro, si arriverà ad un’accensione istan-tanea, al passaggio delle persone o di mezzi di trasporto, e al conseguente successivo spegnimento, impensabile con l’utilizzo di lampade a scarica, visti i lunghi tempi di accensione, con il ricorso sempre maggiore ad apparecchi con LED.

1 Guida alla progettazione dell’illuminazione naturale. AIDI. 2003.2 Fellin L., Forcolini G., Palladino P. Manuale di illuminotecnica. AIDI. Tecniche Nuove. 1999.

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Ambito territoriale: tutte le otto province

Periodo di attuazione: anno 2008

Gli obiettivi• elevare il livello medio di percezione dei problemi ambientali nella intera collettività regionale• modifi care i comportamenti mediante una maggiore conoscenza delle emergenze ambientali

La fi losofi a• copertura totale del territorio• generalità dei temi ambientali trattati• trasversalità delle azioni di comunicazione e coinvolgimento• trattazione di argomenti specifi ci e di esperienze reali

• le fonti energetiche• la gestione integrata dei rifi uti

COINVOLGIMENTO• laboratori • forum

Materiali di educazione e di supporto

Temi trattati

INFORMAZIONE

• distribuzione manuali, guide e vademecum• campagna radio televisiva• affi ssione statica in tutti i comuni• affi ssione dinamica nei centri maggiori• comunicati stampa• bacheche

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