Sapori e saperi della “Bella Vita” Gustate e Vedete… IL VINO · credere che da lì a poco il...

8
Sapori e saperi della “Bella Vita” Gustate e Vedete… IL VINO Il vino è una bevanda antica che costituisce molto più di un modo di bere, è frutto della cultura di un popolo, è simbolo di uno stile di vita, di un modo di abitare la terra e di coltivare le relazioni. Per la cultura contadina la stagione della vendemmia non è solo il coronamento di un’annata di lavoro, ma il simbolo dell’intimo rapporto tra l’uomo e la terra che abita. Il vino è segno e rimanda ad altro, è segno della festa e della gioia, è frutto della vite e della passione dell’uomo che la coltiva, è il risultato di un lungo processo di trasformazione. Per un buon vino sono necessari la terra buona, il sole, la pioggia, la cura del vignaiolo, la potatura, l’attenta scelta dei grappoli maturi, il pigiarli, il lasciar fermentare…tante azioni concordate in una sapienza mirabile per ottenere un dono buono per la gioia e la festa della vita. Per questo se ripensiamo al valore del vino possono emergere moltissimi elementi che attraversano varie situazioni della vita delle persone. E il vino- in barba a chi lo ha messo all’angolo, sostituendogli altre bevande-resta il vertice della storia, della cultura e del mito. Si sono scritte numerose pagine per descriverne colore, sapore, retrogusto, abbinamenti. Nulla regge il confronto con questo alimento che ha intrecciato il proprio destino a quello dell’umanità, che, di volta in volta, se n’è servita per festeggiare, dimenticare, celebrare, trasformando la natura e creando un prodotto che muta il pianto in riso, la menzogna in verità, la solitudine in convivialità. Chi fa il vino spesso ha un innato senso del bello. Il vino, se lo sai ascoltare, ti parla dei luoghi in cui nasce e degli uomini che lo fanno, diventa una passione, un oggetto di culto, una fonte d’ispirazione, uno stile di vita. Un tempo compagno d’osteria, il vino diventa compagno di viaggio, di meta, di ricerca. Migliaia di persone ogni anno visitano cantine, vigneti, musei del vino. Passato il tempo del girovagare turistico, con l’autunno si ritrova il piacere di trovarsi in casa a conversare, riparati dai primi freddi e dai cieli piovosi, riscaldati da un sorso di vino buono, accompagnato da bocconi prelibati. Qui si ricercano armonie da costruire, contrasti da accostare, sfumature da valorizzare, amplificare, celebrare. Con arte, con dedizione. E’ la dimostrazione che, spesso, la felicità può essere fatta di piccoli attimi, di minime perfezioni. Il vero compito è trovare l’anima, proprio dove, all’inizio, sembra impossibile.

Transcript of Sapori e saperi della “Bella Vita” Gustate e Vedete… IL VINO · credere che da lì a poco il...

Sapori e saperi della “Bella Vita”

Gustate e Vedete…

IL VINO

Il vino è una bevanda antica che costituisce molto più di un modo di bere, è frutto della cultura di un popolo, è simbolo di uno stile di vita, di un modo di abitare la terra e di coltivare le relazioni. Per la cultura contadina la stagione della vendemmia non è solo il coronamento di un’annata di lavoro, ma il simbolo dell’intimo rapporto tra l’uomo e la terra che abita. Il vino è segno e rimanda ad altro, è segno della festa e della gioia, è frutto della vite e della passione dell’uomo che la coltiva, è il risultato di un lungo processo di trasformazione. Per un buon vino sono necessari la terra buona, il sole, la pioggia, la cura del vignaiolo, la potatura, l’attenta scelta dei grappoli maturi, il pigiarli, il lasciar fermentare…tante azioni concordate in una sapienza mirabile per ottenere un dono buono per la gioia e la festa della vita. Per questo se ripensiamo al valore del vino possono emergere moltissimi elementi che attraversano varie situazioni della vita delle persone. E il vino- in barba a chi lo ha messo all’angolo, sostituendogli altre bevande-resta il vertice della storia, della cultura e del mito. Si sono scritte numerose pagine per descriverne colore, sapore, retrogusto, abbinamenti. Nulla regge il confronto con questo alimento che ha intrecciato il proprio destino a quello dell’umanità, che, di volta

in volta, se n’è servita per festeggiare, dimenticare, celebrare, trasformando la natura e creando un prodotto che muta il pianto in riso, la menzogna in verità, la solitudine in convivialità. Chi fa il vino spesso ha un innato senso del bello. Il vino, se lo sai ascoltare, ti parla dei luoghi in cui nasce e degli uomini che lo fanno, diventa una passione, un oggetto di culto, una fonte d’ispirazione, uno stile di vita. Un tempo compagno d’osteria, il vino diventa compagno di viaggio, di meta, di ricerca. Migliaia di persone ogni anno visitano cantine, vigneti, musei del vino.

Passato il tempo del girovagare turistico, con l’autunno si ritrova il piacere di trovarsi in casa a conversare, riparati dai primi freddi e dai cieli piovosi, riscaldati da un sorso di vino buono, accompagnato da bocconi prelibati. Qui si ricercano armonie da costruire, contrasti da accostare, sfumature da valorizzare, amplificare, celebrare. Con arte, con dedizione. E’ la dimostrazione che, spesso, la felicità può essere fatta di piccoli attimi, di minime perfezioni. Il vero compito è trovare l’anima, proprio dove, all’inizio, sembra impossibile.

L’OLIO

L’olio occupa un posto di primo piano fra i prodotti della terra. Omero lo definì l’oro liquido. L’olio d’oliva, infatti, nasce sull’albero ed è dalla perfezione dei frutti che dipende la sua qualità. Tutte le operazioni che seguono la raccolta hanno il solo scopo di arrivare a estrarre, senza rovinarlo, ciò che la natura ha creato, preservandone l’integrità ed esaltandone l’aroma. Quella dell’olio è una storia lunga, che ha accompagnato lo sviluppo della civiltà mediterranea. Durante il ‘300 iniziano anche a delinearsi, a proposito di condimenti, due scuole di pensiero, le cui tracce sono evidenti anche oggi: un nord più orientato al consumo di grassi animali ed un sud che si indirizza decisamente sull’olio di oliva per condire ogni tipo di preparazione. La coltivazione dell’ulivo si consolida e si sviluppa nei tempi successivi, interessando numerosi territori. Oggi, dopo un periodo di scarsa attenzione, l’olio d’oliva è al massimo del suo splendore, e la varietà ne esalta la bontà e il profumo. Gli ulivi, belli a vedersi nelle colline dolci che degradano, per diventare così e per produrre il prezioso frutto richiedono molto tempo e cura. Piantare ulivi è credere nel futuro, aver fiducia nell’avvenire. L’ulivo non ha la fierezza della quercia, albero maestoso che si erge alto fino quasi a toccare il cielo. In effetti, a uno sguardo superficiale la forza dell’ulivo non è affatto evidente: spesso il suo fusto è profondamente scavato, presenta larghi squarci al suo interno e la sua forma è talmente contorta da far credere che da lì a poco il suo tronco potrebbe cedere alla forza del vento. Eppure non cede e le sue radici rimangono aggrappate saldamente alla terra da cui è nato, con ostinazione, per secoli,

addirittura millenni. Ma l’albero d’ulivo ha un’altra caratteristica assente negli altri vegetali; questa pianta, che cresce rigogliosa in mezzo alle pietre e spesso in situazioni climatiche difficili, ha un «qualcosa» che l’accomuna agli esseri umani. Infatti, proprio come gli esseri umani, ogni pianta d’ulivo è diversa da tutte le altre, ognuna è facilmente riconoscibile perché dotata di qualche «segno particolare»; inoltre, esattamente come noi, la pianta d’ulivo dimostra tutta la sua vecchiaia: con il passare degli anni si incurva, si spacca, si contorce su se stessa nel tentativo di « resistere» al vento, al sole, a tutte le fatiche della vita.

L’olio risplende di luce, in mille e più sfumature tra l’oro e il verde. Profuma di prati, di vento e di sole. Ha il gusto del carciofo, delle sue foglioline più tenere, o della mandorla, del suo ricordo dolce. Porta con se tutta l’antica saggezza degli ulivi e la sapienza degli uomini. E si sa, le cose sagge sono incredibilmente semplici. Sono belle le bottiglie con il loro vetro liscio e spesso, con quel suono particolare che fanno se le ticchetti con l’unghia: un suono pieno e denso, come l’oro liquido che contengono. Sono belle le oliere, sottili, trasparenti, attraverso le quali quest’oro risplende. E bello, bellissimo è l’olio. E’ passione, e ci si può appassionare a un alimento, se prima di assaporare la sua infinita gamma di gusti se ne ammirano i colori e i riflessi di luce. Se si contempla, versandolo, la seducente tenerezza con cui si allarga sul piatto. Allora sì,è quasi amore. Ma l’olio è anche base per balsami e profumi, non solo nutrimento, ma cura, strumento che lenisce e rinvigorisce ciò che ci è più caro. Nella sua molteplice funzione nutritiva, curativa, rafforzante e illuminante l’olio può essere riscoperto come elemento centrale della nostra esistenza umana.

IL PANE

Il pane è un alimento antichissimo, che ha nutrito l’uomo fin dai primordi: è dunque il simbolo per eccellenza della vita; per questo, è al centro del culto e della ritualità nelle tre religioni. Dopo tanti cibi gustati, se uno dovesse identificarsi in un sapore che gli appartiene, potrebbe partire semplicemente dal pane, perché il pane, pur con gusti e forme diverse,è, ed è stato, la base alimentare di

tutte le tavole. Il pane, di un bel colore dorato, deve essere: cotto nel forno a legna, ben lievitato, di farina integrale, ricco di glutine. Le forme più comuni sono grandi pagnotte ben cotte, che durano qualche giorno e mantengono la loro bontà anche quando sono un po’ rafferme. Tagliato a fette, questo pane saporito può essere intinto in un bicchiere di vino. Cibo uguale a pane: l’equivalenza è radicata in mille

espressioni popolari, che riportano tutte alla dimensione di essenzialità di questo cibo nella nostra cultura. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano », pregano i cristiani, ed è nel pane e nel vino che si esprime la simbologia religiosa. Perché, però, proprio il pane e non l’acqua assolutamente vitale, o la frutta, che cresce spontanea e nutre da

sempre? Forse perché di acqua e frutta si cibano tutti gli animali al pari dell’uomo, mentre per il pane ciò non accade. Esso è il risultato di una trasformazione raffinata, di un processo articolato e complesso, anche se antico. Dal momento in cui il pane è entrato nella storia, ha sancito la superiorità dell’uomo sulle altre specie viventi, elevando la conoscenza umana a elemento distintivo per agire sulla natura e controllarla, invece di limitarsi a coglierne i frutti.

Non a caso per gli antichi greci, « mangiatori di pane » è sinonimo di uomini, i quali,nel corso dei secoli hanno saputo elevare la ricetta di base, adattandola al momento storico: pane scuro e di segale, quando era cibo povero, pane speziato con l’arrivo di nuovi sapori dall’Oriente, pane bianco e di grano, per i ceti più ricchi, fino ad abbandonare, oggi, ogni immagine di alimento di sussistenza e diventare prodotto da riscoprire nei suoi valori

gastronomici, in una dimensione di puro piacere. Per ogni cibo c’è un pane che più ne esalta il sapore. La michetta milanese, la pagnotta toscana, il filone pugliese, la piadina romagnola, la carta da musica sarda; e se si guarda fuori dai confini di casa nostra, si trovano anche forme e modalità originali, la baguette francese, il pretzel tedesco, il pane arabo, la pita greca, il chapati indiano ecc. Si potrebbe continuare così quasi all’infinito. Esiste, infatti, una varietà di tipi di pane incredibile, espressione della natura nazionale e

regionale delle diverse tradizioni culinarie. Cambiano le cotture e i formati, ma gli ingredienti sono sempre pressoché gli stessi: farina di frumento, acqua, sale. Un cibo semplicissimo, tipico della tradizione mediterranea, nato per accompagnare altri alimenti, ma valido anche da solo, come il più semplice degli spuntini.

IL SALE

Il sale compie la sua missione, dopo un lungo viaggio dal mare alle tavole delle nostre cucine, quando dà se stesso a una nuova materia, trasformandola, rendendola saporita. Un pizzico, poco più di niente, è ciò che fa la differenza, si scioglie, sparisce, ma dà agli alimenti una qualità nuova e dona sapore alla vita. La questione su cosa dona sapore alla vita è imbarazzante. Trova il suo luogo più adeguato proprio tra i commensali nel pane condiviso, che dischiude a nuove profondità di conoscenza reciproca. Destino paradossale è quello del sale, vera metafora di un’esistenza riuscita, frutto di un processo di essenzializzazione. Ma parlare di sale è rimandare anche all’esperienza preziosa di «darsi un limite ». Perché la sua azione sia efficace è importante la dose. In qualsiasi situazione, non deve essere né troppo né troppo poco. Perché il sale porta in sé una capacità distruttiva. La sua presenza eccessiva impedisce la vita e rende sterile la terra e immangiabili i cibi. Per tutto questo, il sale è segno della sapienza o insipienza della vita. «Sapio», dicevano i latini per affermare, con un unico verbo, sia «avere sapore» che avere «conoscenza e saggezza». «Sciocco», dicono i toscani per indicare non solo l’insipiente ma anche il cibo senza sapore. Gli antichi riti battesimali lo dicevano con un’azione simbolica: un grano di sale posto sulla bocca dei catecumeni accompagnato dalle parole: «Ricevi il sale della sapienza». Sono parole che

rimandano a un ulteriore aspetto, determinante per gli antichi, ma dimenticato da noi “figli dei frigoriferi e congelatori”. Il sale purifica, conserva e garantisce durata, preserva dalla corruzione gli alimenti deperibili. Il sale non è un pericolo per la salute. Tanto il sodio quanto il cloro, i suoi costituenti fondamentali, sono indispensabili al nostro organismo. Il problema sta sempre nella quantità. Mediamente mangiamo più sale di quanto ce ne serva, e questo aumenta il rischio di ipertensione. Eppure basterebbe poco per

ristabilire il giusto equilibrio. Alcune recenti ricerche hanno indicato che sarebbe sufficiente consumare in media 6 grammi di sale al giorno in luogo degli attuali 10, per riuscire a soddisfare bene il gusto. Non è certo un obiettivo impossibile, tanto più che il sale usato in cucina contribuisce solo parzialmente (più o meno per il 30%) alla quota totale giornaliera, mentre la maggior parte viene dal pane, dai salumi, dai formaggi, dalle conserve… La ricetta per la salute, quindi è semplice: limitare gli alimenti naturalmente salati e restituire al sale la sua funzione naturale, quella di portare in tavola una gradevole e particolare nota di gusto. Questo elemento naturale così semplice ed essenziale ha un grande significato antropologico, perché è parte della vita e parla di noi, di ciò che possiamo essere nella nostra esistenza. Parla della sapienza che tutti cerchiamo, parla della trasformazione e dell’essenzializzazione dei bisogni. Con il sale che proviene dal mare, che troviamo nelle nostre lacrime, che mettiamo negli alimenti e nella terra, anche noi riscopriamo la nostra vocazione umana. Con un po’ di «grano salis» si dice, e questo elemento – per noi così normale – è essenziale per il nostro vivere quotidiano; la sua realtà simbolica rimanda alla vita e alla sapienza.

IL LATTE

Quando pensiamo al latte pensiamo a una fase della vita, quella dell’infanzia. Tutti per un periodo, abbiamo vissuto di latte, quello materno o, in sua assenza, di altri tipi di latte facilmente digeribili. L’allattamento materno è il primo universale momento di nutrizione per ognuno di noi ed è il modo ottimale per nutrire e accudire il figlio nel periodo iniziale di vita. Il bambino ha vissuto per nove mesi nell’utero materno; una volta nato ha estrema necessità di continuare a mantenere il contatto continuo con la madre, soddisfacendo i propri bisogni in modo immediato. L’allattamento materno risponde a questa esigenza e il legame materno, che così fortemente influenzerà la nostra esistenza adulta, viene rafforzato proprio tramite la suzione del latte e i gesti di cura e affetto che lo accompagnano. Scopriamo così, proprio mentre andiamo con il ricordo all’inizio della vita, che il latte è un alimento chiave come e forse più del pane. Il latte è fonte di nutrimenti fondamentali per il nostro benessere. Ma il latte è anche un alleato insostituibile per accompagnare la delicata fase della crescita dei nostri bambini, soprattutto grazie all’apporto di proteine, che rappresentano i «mattoni costitutivi» dei muscoli, e di calcio e fosforo, fondamentali per lo sviluppo e la salute delle ossa e dei denti, quindi per tutto ciò che costituisce la fisiologia e l’identità della persona adulta. Cibo essenziale per la sopravvivenza del piccolo dell’uomo, il latte, bianca bevanda che si trasforma e prende altri nomi, è alimento completo a cui ogni cultura fa riferimento. Il latte, considerato generalmente un alimento naturale, nutriente, energetico e vitale, possiede tuttavia delle profonde ambivalenze. E’ bevanda ed è cibo: infatti nelle società antiche era considerato un cibo più che una bevanda. Il latte come bevanda condivide la consistenza liquida dell’acqua e del vino. Entrambi latte e acqua, sono simbolo di vitalità, energia e purezza suggerita dalla trasparenza dell’acqua e dal colore bianco del latte. Il latte come sostanza che dà vita richiama l’acqua, e infatti l’acqua è il latte della Madre Terra. Sul piano simbolico il contrario del latte non è l’acqua, ma il vino: se il latte calma, il vino agita, se il latte purifica, il vino intossica. Eppure, insieme al vino, il latte condivide il rapporto con il sangue: il vino con il suo colore rosso simboleggia il sangue, mentre il latte nel passato era ritenuto sangue sbiancato. Fiumi di latte e miele descrivono la terra della promessa, il latte caldo fumante nelle sere d’inverno dice un tepore che scalda il cuore con il corpo, il latte freddo d’estate è per disintossicarsi. Bevanda che è molto di più, nutre ed esprime la genuinità della vita così come si è manifestata fin dall’inizio. Il latte ha un particolare profumo che ci porta indietro nel tempo. Questo profumo, speciale, incredibile, si accompagna a una dettagliata rievocazione visiva: una bella ciotola bianca, una precisa misura di latte, zuccherato al punto giusto, con un bel cucchiaio grande e il calore della scodella sulle mani. Quella ciotola e quella quantità di latte saziavano e permettevano di fare il pieno per tutta la mattinata. Il latte rievoca ancora il ricco mondo contadino, dove mucche, pecore e capre sono diventate fonte di sostentamento con la loro produzione. Questi animali fanno venire alla mente anche la storia della transumanza - un rito che accade ogni anno da secoli – che è antica, densa di vicende, ricca di tradizioni e culture che si incrociano. E’un po’ la storia di Caino e Abele, del contadino e del pastore, fratelli in lotta. La figura del pastore ha perso forza a favore di suo fratello meno individualista e più stanziale. La vita del pastore è dura di per sé. Il suo lavoro ci fa ragionare sul senso dei beni pubblici, sull’impatto della cementificazione, su quello dell’industria alimentare, che però non smette di evocare pascoli e mandrie quando si tratta di fare pubblicità. Non serve ricordarsi di questi temi soltanto quando si ha la fortuna e il piacere di godere di un buon Bitto, un Branzi, un Asiago, del Raschera o del Bra d’alpeggio,oppure di una toma fatta con il «latte stracco» (stanco), quello munto alla fine di una giornata di cammino. Sono formaggi che restituiscono al palato tutta la ricchezza della flora, tutte le sue essenze più profumate e fanno sognare quei paesaggi in cui sono stati creati. Ma devono anche essere il simbolo di un ritrovato rispetto e di una tutela della figura del pastore e del malgaro, che svolge oggi una funzione quasi eroica nel suo salvare le nostre montagne, nonché tutto il bello e il buono che ci sanno restituire.

IL MIELE

Le api lo producono e l’uomo lo raccoglie. Nessun additivo, colorante, conservante o aromatizzante, dunque: il miele nasce dalla natura e da qui arriva in tavola, senza alcuna trasformazione. Proprio la varietà di paesaggi, ambienti e microclimi naturali varia la qualità. Dal ricco millefiori, al leggerissimo miele d’acacia, a quello raro di rosmarino, sino all’amaro di corbezzolo, ogni miele esprime caratteristiche proprie e particolari di aroma, colore, gusto e consistenza. Non si può, quindi, parlare genericamente di «miele», ma di «mieli», ciascuno nella sua unicità. Quello da spalmare su una croccante fetta di pane è diverso, infatti, da quello per dolcificare il tè o da quello che accompagna in modo eccellente un buon formaggio tipico. Prima che arrivasse lo zucchero, poco più di duecento anni fa, il miele era il principe incontrastato dei dolcificanti. Meriterebbe di essere recuperato alla sua funzione originale, avendo cura di scegliere il tipo di miele giusto per ogni cibo o bevanda. Qualche esempio: il delicato miele d’acacia si rivela un ottimo sostituto dello zucchero se non si vuole interferire con l’aroma dei cibi; se si ricercano nuove armonie, il miele di lavanda può valorizzare in modo insolito un frullato di fragole, così come quello di tiglio esalta le tisane, mentre quello d’arancio è il dolcificante naturale per spremute d’agrumi. Amalgamato con il burro, qualsiasi miele vede esaltate le proprie caratteristiche aromatiche, mentre, in miscela cremosa con la ricotta, sono i mieli più forti, come il castagno, a dare le migliori sensazioni. Al naturale, è accompagnamento ideale per formaggi e carni arrosto o alla griglia, ma anche per delicati piatti a base di crostacei. Anche in cucina, vanta una tradizione antichissima. Ingrediente base di dolci tradizionali, può essere utilizzato al posto dello zucchero in quasi tutte le preparazioni, avendo

cura di adeguare le ricette originali: vanno diminuiti leggermente gli ingredienti liquidi e i dolci vanno cotti a calore appena più basso, per evitare l’eccessivo imbrunimento dovuto alla rapida caramellizzazione del fruttosio. Nella varietà dei mieli una prima distinzione fondamentale è quella che suddivide il miele in monoflora e millefiori. Il miele monoflora si ottiene principalmente da un’unica pianta, che gli conferisce proprietà di composizione, colore e gusto tipiche. Il miele millefiori si ricava, invece, da una miscela di piante diverse e presenta sapore e aroma variabili, da zona a zona, secondo la flora caratteristica. A proposito di gusto, sbaglia chi ritiene che i mieli siano tutti uguali: anche il palato meno sensibile non può non apprezzare la differenza fra la dolcezza di un miele d’acacia e l’amarognolo caratteristico di

uno di castagno. La materia prima che le api utilizzano, il nettare dei diversi fiori, condiziona fortemente le caratteristiche del miele, esattamente come il tipo di uva determina quelle del vino. Aprire il gusto e la mente alla ricchezza di aromi e sensazioni che regalano le varietà di monoflora significa immergersi in un nuovo universo di sapori tutto da esplorare. Se il miele monoflora trae dall’unica pianta di origine una propria marcata personalità, sarebbe un errore considerare il millefiori un prodotto di qualità inferiore, poco caratterizzato e omologato nel gusto. In realtà ogni millefiori ha un carattere preciso, che racchiude le note tipiche di una determinata zona di fioritura. Ogni miele è frutto di un lungo lavoro in cui l’uomo non ha un ruolo importante se non nella fase finale. Due realtà naturali concorrono a realizzarlo: i fiori delle varie piante, che nella stagione della straordinaria fioritura, opera della terra, dell’acqua e del sole, emanano il loro profumo e producono il nettare, e le api, umili e laboriose creature che vanno a raccoglierlo in quantità minuscole per trasformare ciò che la terra produce in gocce dolci e delicate. Così questo elemento naturale ricco di sostanze che alimentano la vita giunge a noi come sintesi meravigliosa di ciò che la terra e le api realizzano.

IL LIEVITO

Il lievito è necessario per far crescere ogni impasto. Quella farina e acqua che diventerà pane, quell’impasto dolce che diventerà una buona, soffice torta che allieta la mensa e la giornata, hanno proprio bisogno di quel pizzico di lievito nascosto. Da migliaia di anni il lievito è usato per fare il pane, per la preparazione di bevande alcoliche e per altri cibi. Fin dall’alba dell’umanità, i cereali hanno costituito il nostro principale alimento; i nostri antenati si erano infatti accorti che il grano, macinato e cotto, diventava più gradevole al palato. Ma la prima combinazione tra gli ingredienti del pane e il lievito avvenne probabilmente per caso. Analogamente, dal momento che i lieviti sono naturalmente presenti nelle bucce dell’uva e nel grano, il vino e la birra furono probabilmente il risultato di un succo d’uva o di una mistura di grano e acqua che non furono consumati subito. E’ possibile che il primo pane lievitato sia stato ottenuto quando una bevanda alcolica si rovesciò accidentalmente sull’impasto per il pane. Queste annotazioni ci aiutano a comprenderne il valore e anche la natura. Per preparare il lievito «madre», quello che poi servirà per ogni lievitazione, ci vuole molta cura, proporzione degli ingredienti, un tempo di attesa e una continua attenzione alla sua vita. Il lievito è fatto di microorganismi che vanno tenuti in vita con impasti periodici con precise quantità di farina fresca e acqua, per essere costantemente nutriti e posti in condizione di riprodursi. Questa realtà naturale così necessaria e così semplice ci racconta la vita, la

crescita della nostra storia, della nostra stessa cultura. Possiamo paragonarci all’impasto che ha necessità di essere trasformato per essere migliore. Con che cosa possiamo impastare il domani e la storia? Quali ingredienti ci lasciano e quali ci consigliano gli eventi che stiamo vivendo? C’è un lievito cui possiamo affidarci per il cibo solido che nutrirà i giorni della nostra vita? Sono domande spontanee a ogni passaggio di vita, ma forse ancor più concrete al termine di un cammino fatto. Per il nostro impasto potremmo cominciare da un sano ripensamento sugli errori commessi. Incominciamo con l’ammettere che ogni scontro con le persone è un errore: del resto non è quello che si dice dopo ogni confronto? Ogni fase ostile la si intraprende sempre facendola apparire come il male minore, il ristabilimento di un diritto

infranto, la via per giungere a un nuovo equilibrio più giusto. Poi, una volta avviata, è la logica stessa dell’ostilità a prevalere su ogni altra logica: il diritto, la giustizia, la solidarietà, la libertà, tutto viene messo tra parentesi, soffocato in attesa della fine delle ostilità. Ma dalle macerie fumanti salgono solo nuovo odio, nuova violenza, nuovi pretesti per ricominciare un altro aspro confronto, anch’esso «giusto», naturalmente. Ma senza riconoscimento degli errori non si può pensare che il futuro non ce ne riservi di analoghi e di più gravi. Tutto questo non fa lievitare la vita. Ecco allora un ingrediente fondamentale per mettere lievito nel domani: ridestare nella società, cominciare dai giovani, la cultura dei valori. Anche qui bisogna interrogarsi su cosa si è stati capaci di trasmettere, quali modelli culturali si veicolano con i comportamenti e le scelte, quali miti dominanti, quali aspirazioni si sollecitano nelle nuove generazioni. A cosa si anela, in cosa si crede, c’è qualcosa per cui vale la pena spendere ed eventualmente dare la vita? Se non si è capaci di narrarlo con la propria vita, non ci si può stupire se la «connessione» sociale si rivela fragile quanto un segnale digitale. Ripartire da alcuni principi

fondamentali che le generazioni che ci hanno preceduto hanno saputo trasmettere è condizione indispensabile per ridare futuro al presente. Sono quella farina e acqua con gli organismi viventi che fanno il lievito: cosa vecchia, ma che può ridare novità alla massa. Le regole basilari della convivenza civile devono diventare lievito ed elementi «vitali» delle nostre società: elementi cioè capaci di ridare vita perché vissuti nel quotidiano. Il lievito è cosa cattiva, qualcosa che ha la caratteristica dell’impurità, ma utilizzato correttamente e in piccole quantità può trasformare la nostra storia. Questa muffa viva ci dà la consapevolezza degli errori commessi, ma anche delle enormi potenzialità nascoste nel cuore e nell’agire di ciascuno. Occorre per domani il lievito della fiducia nell’umanità. Credere nell’uomo, nella sua grandezza, credere che possiamo umanizzare e rendere migliore la nostra convivenza, se solo accettiamo di guardare oltre il nostro interesse immediato, di tendere lo sguardo verso un orizzonte comune, verso una speranza che è tale solo se giunge a essere condivisa. Il domani sarà allora ancor più gustoso perché intriso del sapore di ieri e lievitato con la forza di oggi.

( I testi sono tratti dagli scritti di Rinaldo Paganelli e Giancarla Barbon )