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Samizdat 2000

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PIERRE ANSART

NASCITAdell’ANARCHISMO

Samizdat

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PREFAZIONEalla presente edizione

Sono riconoscente alle edizioni Samizdat di aver condottoa buon fine la traduzione in italiano e l’edizione di questo stu-dio su Proudhon, pubblicato per la prima volta ormai più diventicinque anni fa. Questa edizione mi permette di precisarealcuni punti che avrebbero richiesto un maggior approfondi-mento e di rispondere, fra l’altro, alle osservazioni benevole ocritiche che mi sono state indirizzate dopo la pubblicazione dellaprima edizione.

Devo ricordare le ragioni che mi hanno condotto ad in-traprendere questo lavoro ed il clima politico nel quale fu rea-lizzato. All’indomani dell’ultima guerra, studente di filosofiaalla Sorbona e ansioso d’informarmi sulla storia dei movimentioperai, avevo letto lunghe pagine del libro del 1846 Système descontradictions économiques ou Philosophie de la misère. Abituato adissecare le teorizzazioni dei filosofi, rimasi meravigliato dallaricchezza delle pagine di Proudhon, e in modo particolare dal-le sue analisi così precise e concrete sulla condizione delle clas-si lavoratrici in questa prima metà del XIX secolo. Queste pri-me letture mi avevano invogliato a proseguire lo studio dellealtre opere. Mi sembrava evidentemente di avere un documen-to esemplare sul movimento operaio negli anni che precedette-ro la rivoluzione del 1848, e una pregevole fonte di documenta-zione su questo periodo appassionante.

Eppure negli anni 1950, l’opera di Proudhon era oggettodi vero e proprio ostracismo. Era processata continuamente e apiù riprese dagli intellettuali dell’area del partito comunista cheripetevano, imperturbabili, che Proudhon era un personaggiopericoloso, nocivo per la classe operaia, utopista e, ingiuria su-prema, intellettuale “piccolo borghese”. Senza essere ancora in-formato della lunga storia dei conflitti attorno all’anarchismo,capivo sufficientemente che queste formule ingiuriose, lancia-te per altro spesso senza spiegazioni, attenevano più alla pole-mica politica o alla propaganda piuttosto che ad una qualsiasipreoccupazione della verità. Eppure questi giudizi semplicistici

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mi indignavano come una forma di ingiustizia. Capivo che idirigenti del Partito Comunista temessero lo spirito di frondadei loro aderenti operai, ma non sopportavo che dovessero, perraggiungere questo obiettivo, usare una tale deformazione del-la storia.

Non mi ci volle molto per incontrare una seconda fontedi indignazione. Nei libri di storia del pensiero politico, trovaialtri apprezzamenti perentori su Proudhon, provenienti questavolta dal pensiero tradizionalista e stranamente lodevoli, ini-ziando dagli argomenti che mi parvero altrettanto fallaci. Si trat-tava quindi di un Proudhon strano, anti-marxista convinto, ten-tato dal corporativismo, e del quale si faceva una specie di scu-do, prima del tempo, contro il Bolscevismo. Questo recuperomi sembrava indifendibile e altrettanto fallace della polemicaprecedente. Avevo comunque tendenza a vedere in queste let-ture fantasiose solo argomenti di polemica politica.

Solo più tardi, studiando meglio la storia dell’Anarchismo,capii l’importanza di questi dibattiti e che in realtà queste in-giurie e queste banalità rispondevano a problemi fondamentaliche potevano interessare non solo la docilità dei cittadini e laprotezione delle autorità burocratiche, ma anche il ruolo delloStato e la sua collocazione in una società socialista, l’importan-za delle censure intellettuali, la concezione stessa delle classioperaie ed il loro ruolo reale. In mezzo a tutti questi problemiProudhon diventava un simbolo estremamente significativo chenessun regime autoritario poteva tollerare.

Come sfuggire a questi recuperi contraddittori? Come ri-spondere a ciò che mi sembrava la vera domanda: quale eral’esatto significato dell’opera di Proudhon? Leggendo e rileg-gendo ero certo persuaso che c’erano nei suoi scritti delle con-traddizioni evidenti, delle audacie verbali poco accademiche,delle posizioni sicuramente non difendibili oggi, per esempiosul ruolo delle donne, ma ero totalmente convinto dell’esisten-za di una potente coerenza intellettuale e di una continuità del-le tesi fondamentali dal suo Premier Mémoire del 1840 fino all’ul-timo Manifesto del 1865, De la capacité politique des classes ouvrières.

Fu soltanto alla vigilia degli avvenimenti del maggio 1968,avevo appena terminato un lavoro su la Sociologia di Proudhon,che capii chiaramente cosa dovevo fare per evitare le polemi-che pro o contro Proudhon. Scelsi con fermezza di non rispon-dere alle solite domande sulla “verità” delle sue tesi e di con-durre una ricerca socio-storica tendente a scoprire, il più fedel-mente possibile, le fonti sociali del suo pensiero ed il suo inseri-

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mento nei conflitti degli anni 1840-1865, il suo posto esatto inquel mondo particolare attraversato da grandi speranze e dasanguinose delusioni. In effetti, questa ipotesi che possiamodefinire “sociologica”, ha molte possibilità di essere feconda perun autore appassionatamente impegnato nel suo secolo, prove-niente da un ambiente popolare al quale è stato sempre fedele,che ha preso posizione in tutti i grandi dibattiti dell’epoca eche è stato fortemente cosciente della natura e del peso delleforze sociali in conflitto. Se vi è, come hanno sottolineato alcu-ni critici, un partito preso “sociologico”, io lo assumo completa-mente, oggi come ieri. Certamente non è l’unico metodo perraggiungere una certa verità in queste tematiche così contro-verse, ma è sicuramente un approccio fecondo, adatto a mette-re fra parentesi le polemiche e valido come sentiero di ricercasuscettibile di condurre a conclusioni argomentate.

Fu nel mezzo degli avvenimenti del maggio 1968 che ca-pii meglio l’interesse di questo lavoro. Il ritratto di Proudhon,ingrandito alle dimensioni di un manifesto, troneggiava in mez-zo al cortile della Sorbona, affisso da studenti anarchici che ave-vano fatto di Proudhon il loro emblema. Senza conoscere inmodo preciso i dettagli di tutti i libri di Proudhon, non avevanodubbi a rivendicarlo e farne uno stendardo dell’anarchismo. Inrealtà questi studenti ponevano un problema temibile al qualenon mi era possibile rispondere: quello di sapere perché la fi-gura di Proudhon restava emblematica un secolo dopo la suascomparsa e di sapere se l’anarchismo del 1968 era, in qualchemodo, paragonabile a quello del 1850? Questa domanda oltre-passava, e di molto, le mie ambizioni e fu allora che scelsi iltitolo “Nascita dell’Anarchismo” per indicare al lettore che nonpretendevo uscire dal XIX secolo in questa mia ricerca. È veroche vi sono altre “nascite”, da Godwin a Stirner, per esempio,ma avrei appesantito inutilmente il titolo sostituendolo con “unadelle nascite dell’anarchismo...”.

Non rimaneva altro quindi che condurre l’inchiesta, per-ché si trattava proprio di una inchiesta, di una ricerca progres-siva senza conclusioni a priori, della storia di un cammino, conle sue soste e i suoi bilanci provvisori, che volevo presentare ailettori con il sogno di trascinarli in questo viaggio. Invece no:chi fu il vero Proudhon? Passo dopo passo: dove attinse l’ispira-zione su tale punto, poi su quell’altro, con quale fedeltà, co-scientemente o incoscientemente, e dopo ogni passo, cosa pos-siamo concludere parzialmente? Da dove aveva attinto Proudhoni modelli delle sue proposte economiche? Quali prassi operaie

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gli erano servite da modello? A quale ideologia politica di quel-l’epoca si è avvicinato e quali teorie aveva di fatto scombussola-to? Queste erano le tre domande da trattare in modo distinto.

Mi era sembrato allora che la migliore ipotesi da porrefosse quella delle omologie rintracciabili tra le strutture sociali el’organizzazione delle tesi proudhoniane. Per esempio, nelmezzo delle diverse strutture economiche che si sovrapponevanonegli anni 1850, a quale il progetto economico proudhonianoera più vicino? È questo termine di omologia che mi ha attirato ilmaggior numero di critiche. Alcuni hanno espresso dubbi sullapossibilità di imporre al pensiero di Proudhon una ipotesi cosìobbligata mentre esso era soprattutto caratterizzato da inventi-va, flessibilità e, eventualmente, dalle proprie contraddizioni.Ma non si trattava di una specie di dogma; si trattava chiara-mente di una ipotesi di ricerca destinata a mettere tra parentesile polemiche e a permettere di arrivare a delle conclusioni. Con-tinuo a pensare che si tratti di una ipotesi feconda, purché nonsi trasformi in verità definitiva una ipotesi di ricerca. Fu soprat-tutto l’utilizzo fattone da Erwin Panofsky che mi parve lumino-so e utile al suo prolungamento. Panofsky, che si interrogavasulle origini delle cattedrali gotiche e delle loro progettazioni,aveva formulato l’ipotesi di un rapporto privilegiato tra l’edu-cazione della scolastica del XI secolo e l’opera di questi archi-tetti. Aveva sviluppato l’ipotesi secondo la quale questo inse-gnamento che privilegiava l’ordine, la chiarezza, la simmetriadelle forme, aveva formato le abitudini intellettuali ed artisti-che di questi architetti e li aveva preparati a proiettare nellospazio forme ordinate, pure, fortemente simmetriche ed armo-niche. Le forme di questo insegnamento, interiorizzate da questigiovani architetti, si sarebbero così riprodotte ( “omologicamente”)nei progetti e nelle forme di queste cattedrali. Evidentemente sitrattava di una ipotesi da meditare e proprio in questo senso misembrava seducente e in nessun modo meccanica o sclerotizzante.

Si può in effetti utilizzare l’omologia in sensi diversi. Lostesso Proudhon si avvicina a questa ipotesi quando analizza lereligioni, le filosofie della trascendenza, come modelli confor-mi alle strutture sociali dell’ineguaglianza nelle quali un pote-re superiore, Dio, Re o tiranno è supposto superiore alla folladei dominati e si trova legittimato da queste credenze. È unaidea ampiamente sviluppata che la religione, in qualche modo,è omologa all’ordine sociale dell’ineguaglianza, giustificandola distanza tra il fedele e il suo dio, tra il cittadino e il suo Stato,tra l’operaio ed il suo padrone. Non restava che applicare a

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Proudhon stesso l’ipotesi che aveva proposto: quali rapporti stret-ti vi erano tra le realtà economiche, sociali e mentali del suotempo e le sue tesi sull’economia, sull’azione sociale, sulle ideo-logie politiche?

Inquadrare esattamente le tesi economiche di Proudhonin mezzo alle realtà economiche dell’epoca era dunque il pri-mo compito; non era il più difficile.

Molti storici del XIX secolo, hanno in effetti sottolineatoi legami privilegiati tra le teorie economiche di Proudhon el’organizzazione degli artigiani negli anni 1840-1865, per con-cludere rapidamente che si era messo a difendere un ordineeconomico che stava scomparendo. Bisogna osservarle più davicino, poiché le organizzazioni economiche erano diverse inquell’epoca, in rapida evoluzione e in forte concorrenza. Se-guendo passo passo l’analisi di questi rapporti tra il pensieroeconomico di Proudhon e le strutture del suo tempo, si verificain effetti che egli ripudia le strutture agrarie e concentra i suoiattacchi sull’appropriazione capitalistica. Con questo, a granditratti, si può concludere superficialmente che il suo modello fupiù ispirato dalla pluralità delle medie imprese che dalla gran-de industria così come si sviluppava allora. Ma non si acconten-ta di fare l’apologia del sistema manifatturiero e artigianale: necorregge le insufficienze e ne utilizza i principi (pluralità deicentri di produzione, autonomia dei produttori, esigenze di au-togestione) per rivedere l’organizzazione delle grandi impresee chiedere la “liquidazione” del disordine capitalistico.

L’analisi delle prassi sociali avrebbe richiesto sviluppi piùampi tanto questi modelli erano diversi e in movimento. Nonera facile sbrogliare l’intreccio complicato delle pratiche tra lecorporazioni, le fratellanze, le società di mutuo soccorso, le as-sociazioni di consumatori e di produttori, gli scioperi, i movi-menti insurrezionali, le pratiche di espressione e di scrittura,ecc... Proudhon è stato appassionatamente attento a tutte que-ste innovazioni o ripetizioni sociali e le ha commentate con unainesauribile inventiva. E si vede, nella sua opera, che alcunepratiche gli sembrano senza avvenire (le fratellanze), altre me-diocremente utili (gli scioperi), altre ancora esemplari e auten-ticamente rivoluzionarie. Le sue prese di posizione in questiambiti sono di una grande costanza e si vede quale senso dà“all’Anarchia positiva”. Per lui l’anarchismo non è in nessunmodo una teoria puramente negativa. Comporta certamenteuna critica radicale del regime di alienazione economica, stata-le e religiosa, ma indica anche una nuova organizzazione socia-

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le, concreta e realistica. Questa fiducia è ancorata nell’esperienzae nella conoscenza che aveva dell’ambiente operaio e dei mae-stri-artigiani, capaci di organizzare la loro produzione, avidi diliberarsi dall’oppressione capitalistica e profondamente scetti-ci verso i poteri dello Stato.

Il mondo dei setaioli di Lione, con i suoi conflitti tra i capilaboratorio ed i loro proprietari capitalisti, la loro organizzazione,l’Association des mutuellistes che avrebbe scatenato le insurrezionidel 1831 e del 1834, è proprio esemplare dell’esperienza tipica-mente proudhoniana. Si vede, attraverso i capi laboratorio, sta-gliarsi la personalità dell’anarchico come lo immaginava Proudhon:maestro-operaio nel senso pieno della parola, legato al suo lavoro,fiero della sua autonomia e delle sue competenze, responsabile dise stesso e degli altri, violentemente ostile ad ogni subordinazione,geloso della sua libertà, ribelle a qualsiasi gerarchia, convinto delsuo diritto, permanentemente diffidente verso lo Stato e le sueseduzioni ideologiche.

Un’altra conclusione avrebbe dovuto essere aggiunta aquesto lavoro, bisogna chiedersi perché questi temi proudho-niani rimangono, in modo diverso, presenti nel mondo con-temporaneo, e perché questo anarchismo federalista continuaa rimanere significativo oggi, ancor quando le condizionisocioeconomiche sembrano così differenti. Ma sono veramen-te così lontane da quel che si pretende ? Sono forse cessate l’alie-nazione economica, l’esteriorità dei meccanismi capitalistici, laconcentrazione delle ricchezze contro le quali si costituivano lemutue? Sono forse scomparse l’alienazione politica, la buro-cratizzazione degli stati, la loro tendenza all’oppressione e allaviolenza? Forse le diverse ideologie, le illusioni politiche nonrischiano di riapparire sotto nuove maschere? Forse l’ispirazio-ne a riconquistare il senso della propria azione, a lottare controle alienazioni hanno perso la loro urgenza? Se si risponde nega-tivamente a queste domande, si può ammettere che l’anar-chismo proudhoniano conserva, attraverso il tempo, una sin-golare attualità.

Pierre Ansart, Parigi, luglio 1997.

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INTRODUZIONE

L’opera di Proudhon appare al nostro lettore come uninsieme particolarmente chiaro e intelligibile. La volontà cheanima Proudhon di convincere i lettori poco abituati alla diffi-coltà della riflessione, lo porta in effetti a evitare ogni rischio diconfusione. Si sforza di opporre al linguaggio astratto della scien-za un vocabolario familiare che prende in considerazione del-l’economia politica o della filosofia solo i concetti indispensabi-li alla comprensione delle idee generali. La reiterazione dei temipartecipa a questo sforzo di chiarificazione volontaria, fissandol’attenzione del lettore sui punti essenziali della dimostrazione.L’immagine familiare e l’esempio illustrano i ragionamenti ecollegano i significati all’esperienza. Parimenti le formule lapi-darie e i paradossi atti a trasformarsi in slogan politici vengonoa sintetizzare, come in un lampo di pensiero, i grandi tratti del-la critica. Senza dubbio quest’opera si protrae dal 1839 al 1865e Proudhon non ha mancato di modificare le sue teorie inizialiin merito a problemi anche decisivi come la critica della pro-prietà, il significato del politico o l’organizzazione del lavoro.Ma possiamo pensare che l’ampiezza di quest’opera e le sfuma-ture della sua evoluzione esigono da noi una lettura molto piùattenta e molto più dettagliata. Possiamo ragionevolmente sup-porre che una ricerca paziente e estesa ci farà accedere ad unalettura più esatta, più vicina al testo e finalmente fedele.

In realtà il procedere della nostra lettura ci obbliga già ademettere dei dubbi sulla sua innocenza. L’ampiezza stessa delleopere, la ricchezza dei concetti, ci costringono a riorganizzarele indicazioni parziali in una tematica ordinata. Il senso politi-co dell’opera ci obbliga ad operare sintesi che risponderannoalle questioni pratiche che sono poste. Eppure, appena intra-preso questo compito, non potremo evitare di sentire tanta piùinquietudine quanto più la nostra lettura sarà onesta. Dobbia-mo confessare che il semplice ordinamento dei temi impegnala generalità dell’interpretazione, ma dobbiamo riconoscere an-che che questo ordinamento non ci è totalmente imposto dal-l’insieme dell’opera. A seconda, per esempio, che privilegiamo

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i temi critici o le proposte di riforma, mettiamo l’accento sul-l’aspetto anarchico e ateo di Proudhon oppure sull’aspetto po-sitivo riformatore della sua opera. Per quanto la nostra sintesisia prudente, l’importanza relativa che noi diamo ad uno diquesti aspetti privilegia una certa visione e decide della totalitàdella nostra interpretazione. In questa opera immensa ci scon-triamo necessariamente con l’obbligo di misurare l’importan-za che noi daremo ai differenti scritti e quest’obbligo ci costrin-ge a delle scelte. Accordando, per esempio, un’importanzamaggiore alla Premier mémoire, che denuncia violentementel’appropriazione privata, piuttosto che alla Théorie de la propriété,che fa del possesso un mezzo di difesa della libertà, noi insiste-remo sull’aspetto critico e di rivolta piuttosto che sulle conclu-sioni più moderate. Se noi pretendiamo di rispettare la plurali-tà dell’indicazione, non sfuggiremo all’obbligo di interpretaregli ultimi scritti in rapporto ai primi, facendone un messaggiodefinitivo che nasconderebbe i primi testi o il complemento diverità immutate.

Dobbiamo ammettere che la nostra lettura procede in unacerta misura per argomenti scelti. Appena noi ci rassegniamopiù al commento delle opere successive, appena tentiamo, comeci invita questa opera militante, di cogliere i significati sintetici,non sfuggiamo alla necessità di sottolineare alcuni passaggi e disfumare, se non tralasciare, delle pagine che pensiamo o deci-diamo che siano secondarie. La nostra lettura procede per suc-cessioni di scelte e di omissioni, ma non ci può sfuggire chequesta scelta, per un autore così prolisso, può condurci a delleinterpretazioni contraddittorie. Possiamo immaginare, non sen-za inquietudine, raccolte di testi differenti che farebbero diProudhon sia un anarchico sovversivo, sia un rivoluzionariogeneroso e umanista, sia un riformatore prudente, sia un mo-ralista oppressivo. Malgrado la ricerca attenta restituisca l’inno-cenza della nostra lettura, ce ne fa scoprire però le scelte, ledecisioni, senza che noi possiamo onestamente pretendere ilcarattere definitivo di queste opzioni.

Invano chiederemmo ai commentatori una risposta sod-disfacente a queste difficoltà. Al contrario le interpretazioni pro-poste dell’opera di Proudhon, accrescono le nostre incertezze,poiché sono differenti ed anche contraddittorie.

Queste divergenze di giudizio sono state spesso sottoline-ate, ma è importante ricordare e misurarne la profondità pervalutare in tutta la sua ampiezza il problema della lettura del-l’opera proudhoniana. Esse devono mostrarci l’estrema relati-

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vità delle nostre opinioni e porre la questione di sapere comequesta relatività potrebbe essere superata.

Bisogna ricordare quanto Proudhon sia stato oggetto, sindall’inizio, di passioni stranamente contraddittorie. Senza dub-bio le lodi o le condanne perentorie derivano tanto dallo statod’animo che dalla riflessione, ma sono espressione di giudizid’insieme e rispondono a delle interpretazioni generali. È co-munque particolare che ancora oggi l’opera di Proudhon, cheè stata oggetto di molteplici studi e dopo che gli anni hannodissipato le passioni sollevate al momento della pubblicazione,susciti ancora ostilità e entusiasmo. Nell’introduzione ad unaedizione di Le sisteme de contradiction… un commentatore quali-fica Proudhon come un “raziocinante astioso”, prodigo di gio-chi di parole pretenziose e aggiunge:

Proudhon senza contesto è sicuramente l’antica Francia. Come negareche sia un conservatore? Il suo ideale passa attraverso l’ordine, la fami-glia e il lavoro (1).

All’opposto Jean Bancal, confrontando l’ampiezza delle tesiproudhoniane e l’evoluzione del mondo contemporaneo, vedein Proudhon un “genio innovatore”, un “profeta del 21° secolo” (2).Louis Althusser, alludendo a Le sisteme de contradiction… , affer-ma che Proudhon resta “prigioniero incosciente dell’economiaborghese”, come se un tale giudizio fosse così evidente da nonaver bisogno nemmeno di essere discusso (3). Ma, nello stessotempo, gli storici dell’anarchismo vedono in Proudhon un cri-tico radicale dell’economia capitalistica e il creatore di una con-cezione antistatalista della società e della gestione economica (4).

Queste opposizioni ricordano singolarmente i giudizi checircolarono su Proudhon durante la sua esistenza. Alcuni lo ri-tenevano il più grande teorico socialista, altri lo consideravanocome “l’uomo-terrore”. Un operaio vede in lui il “grande filo-sofo del nostro secolo” (5) mentre un giornalista assimila le suedottrine visiocratiche al “vangelo di Satana” (6). Dopo la pubbli-cazione de La revolution sociale démontrée, Edouard Hervé, ne LaPresse, fa l’elogio delle tesi di Proudhon, mentre Louis Veuillot,su L’Univers, rimprovera la polizia di lasciar pubblicare questa“frenesia d’ingiurie e di bestemmie” (7). Testimone di questi av-venimenti, Daniel Stern evoca queste contraddizioni nella suaHistoire de la Révolution de 1848:

Le proposte ardite del signor Proudhon… questa sfida a tutte le creden-

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ze, a tutte le opinioni ricevute, suscita un’indignazione violenta…Proudhon conquista subito, all’inizio in una cerchia ristretta poi semprepiù larga, una fama nella quale la repulsione supera la simpatia (8).

Senza dubbio queste avversioni e queste adesioni rispondonosoprattutto alle attitudini politiche e religiose dei loro autori edè in base a queste attitudini razionali o affettive che questi giu-dizi devono essere compresi. Essi evocano più il risultato di testdi proiezione che non delle analisi critiche, ma mettono anchein causa il senso generale dell’opera di Proudhon e lì ancoradivergenze profonde si sono manifestate. Proudhon scriveva giàqueste contraddizioni in una lettera del 1863:

… per l’onore delle sane dottrine si persiste a fare di me un comunista,ergo un nemico della famiglia e della morale, un predicatore del disordi-ne, della spoliazione, del materialismo. Ciò che è più strano è che han-no fatto di me in fin dei conti un legittimista, un Orleanista, un papistae anche un partigiano del regime pretoriano (9).

Non è nostro obiettivo fare l’inventario di queste interpretazio-ni. Il nostro fine è solamente di trarre alcune lezioni da questecontraddizioni per misurare la difficoltà di una letturagiustificabile. Perciò noi considereremo solo quattro tipi di in-terpretazione che concernono essenzialmente le teorie politi-che di Proudhon e che noi scegliamo nel ventaglio delle attitu-dini politiche: quella di Bakunin che fa di Proudhon un teoricoanarchico; quella dei commentatori delle edizioni Rivière chesottolineano in generale le sue proposte riformatrici, e infinequelle di Marx e degli scrittori controrivoluzionari.

1) L’interpretazione di Bakunin deve attirare la nostraattenzione non soltanto perché Bakunin si considera come uncontinuatore del pensiero di Proudhon, ma perché questafiliazione fu riconosciuta dagli stessi membri della Prima Inter-nazionale, così come da Marx e Engels che rimproveravano la“insanità propagandata da Bakunin” e quella di Proudhon (10).Nella lotta condotta contro “l’autoritarismo di Marx” e controla teoria di un socialismo di stato che gli “Alleanzisti” gli attribu-ivano, Bakunin rivendicava in effetti la sua fedeltà all’opera diProudhon, “questo grande pensatore, grande teorico rivoluzio-nario, formidabile nella negazione razionale” (11).

Bakunin rileva più particolarmente la parte critica del-l’opera proudhoniana, la cita nella sua polemica contro la reli-gione e, per esempio, considera, contro Mazzini, che le spiega-

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zioni di Proudhon che concernono l’illusione religiosa devonofare autorità (12). Rileva, con non meno insistenza, la critica diProudhon allo Stato, così come la denuncia della democraziafondata sulla delega del potere (13). Così accredita a Proudhonun senso acuto della libertà e una vigilanza autenticamente ri-voluzionaria contro i rischi della ricostituzione di un socialismostatale e autoritario. Nella lotta che porta all’interno dell’Interna-zionale contro il “comunismo autoritario”, riconosce che Marx haproposto un’analisi più rigorosa dei fenomeni economici, ma af-ferma che Proudhon possedeva più di Marx il vero “istinto rivolu-zionario”: “Proudhon possedeva – scrive – il ‘vero istinto’ del rivo-luzionario – adorava Satana e proclamava l’Anarchia” (14). È conquesti principi e non con quelli di Marx che si realizzerà l’esigen-za formulata dagli statuti dell’Internazionale di una emancipazio-ne dei lavoratori attuata dai lavoratori stessi.

L’essenziale del proudhonismo risiedeva dunque nella suateoria dell’Anarchia, nella sua “negazione razionale” dello Sta-to, della Chiesa e della proprietà e nella sua affermazione dellaspontaneità sociale. Bisognerebbe essenzialmente scoprire nelpensiero di Proudhon questa teoria fondamentale che opponeantinomicamente tutte le forme di sfruttamento e di dispotismoalla “vita e all’azione spontanea”. Bakunin insiste dunque partico-larmente sugli scritti politici di Proudhon e sulle opere del perio-do 1848-1851; “Non raccomanderò mai abbastanza – scrive – lalettura di uno dei migliori libri di Proudhon: Les confessions d’unrévolutionnaire ”(15). È al contrario reticente per quello che luichiama “la metafisica” di Proudhon che sospetta di idealismo. Tro-vare il vero senso del proudhonismo sarà dunque cercare la teorialibertaria, egualitaria e autenticamente rivoluzionaria contro, peresempio, i travisamenti conservatori di “questa cricca sedicenteproudhoniana” animata da G. Chaudey (16).

2) Gli editori e i commentatori che permisero la Nouvelleedition (M. Rivière) degli scritti di Proudhon non si sono propo-sti di imporre un’interpretazione. Il loro fine era di pubblicareun’edizione scientifica la più esatta possibile. E in più le sfuma-ture non mancano tra i vari commentatori, tra Maxime Leroyche mostra l’importanza storica de La capacité politique des classesouvrières e Armand Cuvillier che esprime le sue riserve sulla co-erenza de La creation de l’Ordre. Comunque da questi importantilavori emana una interpretazione del proudhonesimo abbastan-za lontana dalla lettura di Bakunin. L’esigenza stessa di una edi-zione dotta porta ad evitare le scelte e a presentare tutti i testi,anche quelli che all’interprete possono sembrare secondari. An-

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che la cura di ripensare ogni testo e di capirlo isolatamente,porta a far apparire tutte le sfumature di un pensiero complesso equindi l’unità che Bakunin cercava di trovare scompare. In questomodo appare meno il teorico politico violento e denunciatore cheil creatore diversificato ed inesauribile, meno il teorico anar-chico che il riformatore lucido, riflessivo, a volte esitante.

Si possono dunque, in una certa misura, avvicinare a que-sta edizione i lavori di Jean Bancal nei quali l’obiettivo è anchedimostrare tutta la ricchezza del pensiero di Proudhon. Ma noncontento di sottolinearne la coerenza, Jean Bancal si è propo-sto anche di dimostrarne l’attualità, di mettere in evidenza tut-to quello che in Proudhon annuncia le società moderne e puòcostituire un modello per la soluzione dei problemi contempo-ranei (17). Converrebbe dunque insistere meno sugli scritti delperiodo 1848-’51 piuttosto che su quelli dove Proudhon predi-spone il piano di una società mutualista e federalista. Jean Bancalinsiste quindi su questa parte premonitoria del proudhonismoche concerne la socializzazione della proprietà, il decentramentodei centri di decisione, la compatibilità nazionale, l’agricolturadi gruppo, l’educazione permanente ecc… In questa lettura sinota un’interpretazione molto lontana da quella di Bakunin:non è più ormai il messaggio violento e libertario che appare,ma il carattere eminentemente innovatore dei progetti e il lorosingolare adattarsi alle società industriali moderne.

3) Confrontata con queste due interpretazioni, quella diMarx ha comunque un suo rilievo e non manca di sorprende-re. Sappiamo che il suo apprezzamento dell’opera proudhonianacambiò completamente da La sacra famiglia a Miseria della filoso-fia, ma possiamo anche attenerci provvisoriamente alla letteraa J. B. von Schweitzer che fu scritta dopo la morte di Proudhone nella quale Marx si propone di fare un bilancio dei suoi giudizi.Mentre Bakunin accredita l’opera proudhoniana di essere essen-zialmente una teoria autenticamente rivoluzionaria, Marx nonconcede nulla su questo punto e deride i socialisti ignoranti checredettero di vedere in Proudhon un “eretico ultra-arci-rivoluzio-nario” (18), mentre non faceva altro che enunciare il “codice delsocialismo come lo concepirebbe un piccolo borghese” (19). Lungidal possedere il genio e l’istinto rivoluzionario, Proudhon avreb-be al contrario nuociuto al movimento rivoluzionario e fatto, comeMarx ha scritto altrove, “grave danno”.

E mentre le critiche contemporanee scoprono in Prou-dhon molteplici indicazioni premonitorie, Marx nega ogni va-lore scientifico a questi lavori sia perché non fanno altro che

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copiare i lavori precedenti, sia perché manifestano una perfet-ta “ignoranza dei primi elementi di economia politica” (20).Premier Mémoire avrebbe solo valore di propaganda, il Système descontradictions économiques non sarebbe che un “bla-bla-bla preten-ziosamente speculativo”; le riforme proposte durante la rivolu-zione del ’48 non si rivelerebbero che una “chimera perfetta-mente degna di un piccolo borghese” (21).

Le invettive che Marx utilizza non sono indifferenti a que-sta analisi, si inseriscono in una polemica che tende a svalutarenello spirito del lettore un autore giudicato nocivo. Così al giudi-zio di Bakunin che faceva di Proudhon un pensatore “cento voltepiù rivoluzionario” dei socialisti “dottrinari e borghesi”, rispondo-no queste asserzioni di Marx che attribuiscono a Proudhon “untono ciarlatanesco, fanfarone, millantatore”, un “ciarlatanismoscientifico” e fanno in definitiva di lui un “autodidatta malde-stro”, un sofista e un “perfetto cretino” (22).

Nello stesso tempo Marx opera una scelta delle opere,una “antologia” completamente diversa da quella di Bakunin.Mentre quest’ultimo insiste su Les confessions d’un révolutionnaire,Marx trascura completamente quest’opera così come l’Idéegénérale de la Révolution. Non fa nessuna allusione alla teoriadell’anarchismo che pareva costituire per Bakunin l’essenzialedell’analisi proudhoniana. Cita invece lungamente PremierMémoire, Système des contradictions économiques e accorda qualchevalore politico a De la justice mentre Bakunin formula le sueriserve in merito a quest’opera.

4) In questo inventario delle letture contraddittorie, l’in-terpretazione che fu fatta di Proudhon dai circoli vicini alla ActionFrançaise e dai difensori della “Rivoluzione nazionale” dal 1940al 1944, deve particolarmente attirare la nostra attenzione. Essaconduce all’estremo la nostra coscienza della relatività delle let-ture. In effetti le tre interpretazioni riportate, benché sianoopposte, si accordavano però sull’inglobare il proudhonismoall’interno del movimento socialista del XIX secolo: Marx stes-so acconsentì a classificarlo così, anche se nei limiti del sociali-smo “piccolo borghese”. Proudhon veniva posto, secondo il vo-cabolario politico, tra le correnti intellettuali “di sinistra” e senzasottolineare necessariamente il suo rapporto con i conflitti socialicollegati al movimento della difesa delle classi operaie. La letturache propone, per esempio, Henry Bachelin, nel 1941 (23), tende aspostare completamente questa prospettiva ricollegando ilproudhonismo al pensiero di destra e ad avvicinarlo non più almovimento operaio ma, secondo la rappresentazione tradi-

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zionalista, al “popolo francese”: “Come lui – scrive questo auto-re – noi siamo di un socialismo della antica terra di Francia” (24).

La circolare n° 92 della Société d’Edition Economiques e Sociales(settembre 1942) (25) indica le grandi linee di questa nuova let-tura, non senza citare numerosi testi. Richiama innanzi tutto lecondanne morali formulate contro il liberalismo, ma sottoli-nea le critiche dirette contro i socialismi e più ancora contro ilcomunismo. Partendo da questo atteggiamento si capirebbel’ostilità di Proudhon verso il “marxismo nascente” e l’incom-patibilità della sua dottrina con il “bolscevismo autoritario” (26).L’autore di questo saggio ricorda la celebre formula concer-nente il furto proprietario, ma insiste sulle ultime pagine diProudhon, sulla necessità di erigere la proprietà in “contrappe-so alla possenza pubblica”, sulla difesa dell’eredità e particolar-mente sulla difesa proudhoniana della famiglia.

I testi di Proudhon contro il regime assembleare e la de-mocrazia formale sono ampiamente citati, ma il loro rapportocon l’anarchismo è esplicitamente scartato. Proudhon nonavrebbe criticato né l’autorità in se stessa, né la concentrazionedei poteri nelle mani di uno solo, ma piuttosto la sua concen-trazione nelle mani di un’assemblea:

A dire il vero lo preoccupa meno l’autorità che la sua concentrazionenelle mani di un uomo e più ancora di un gruppo di uomini (27).

Eppure bisogna accostarlo, come conferma la sua critica delsuffragio universale, agli scrittori di ispirazione monarchica,come La Tour du Pin, che hanno difeso il principio del sistemarappresentativo per corporazioni. Quali che siano quindi le sfu-mature tra il corporativismo e il federalismo proudhoniano,“ lafederazione proudhoniana non persegue in fin dei conti… glistessi obiettivi della corporazione di La Tour du Pin”: divisionedei lavori, concorrenza controllata, garanzia reciproca, legalitàdelle proprietà (28)?

Anche Proudhon avrebbe condannato, contro Marx, tantola lotta di classe quanto la rivoluzione violenta. L’autore sotto-linea i due aggettivi che Proudhon utilizza, tra gli altri, per qua-lificare la rivoluzione e cita questa frase da Les confessions d’unrévolutionnaire, dicendo della rivoluzione che “essa è legittimasolo se è spontanea, pacifica e tradizionale” (29). Ciò che avreb-be voluto Proudhon, certo dell’incapacità della borghesia dirisolvere il problema sociale, è in definitiva la promulgazionedi una Carta del lavoro. E l’autore conclude citando una frase di

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Proudhon datata 1858:

Il popolo ha chiesto questa carta a Luigi Filippo e l’ha chiesta allaRepubblica; la aspetta dall’imperatore e molto probabilmente finiràper darsela da solo (30),

aggiungendo poi che questa carta è “finalmente arrivata a curadel Maresciallo”. In altri termini l’esigenza popolare e prou-dhoniana di giustizia sociale sarebbe stata finalmente soddisfat-ta dalla legislazione del governo di Vichy. Henry Bachelin, ri-cordando i testi di Proudhon diretti contro il liberalismo eco-nomico, affermava che la politica economica seguita dal gover-no nazista era conforme all’attesa di Proudhon.

Nulla potrebbe attenuare il disaccordo tra queste quattrointerpretazioni. Esse ci propongono delle letture perfettamen-te incompatibili poiché Proudhon si trova così accostato a posi-zioni politiche contraddittorie e rivendicative dei movimentisociali più opposti. La difficoltà è tanto più acuta dato che laprima e l’ultima di queste interpretazioni collocano il pensieroproudhoniano agli estremi del pensiero politico. Bakunin loavvicinava alle lotte operaie della Comune e i difensori delnazionalsocialismo lo avvicinavano alla tradizione monarchicase non al conservatorismo legittimista. È inutile obiettare a que-ste interpretazioni l’evidente negligenza di alcuni testi diProudhon: è chiaro che Bakunin privilegia i testi che Marx vuo-le ignorare e che l’interpretazione di Henry Bachelin tralasciatutte le dimostrazioni concernenti la lotta di classe o la criticadell’autorità. Queste obiezioni avrebbero poco peso perché que-ste letture tentano comunque di scoprire, al di là dei dettagli edelle sfumature, il significato generale dell’opera e la sua coe-renza profonda. Si propongono di mettere in rilievo le inten-zioni di base, le intuizioni centrali che in effetti permettono dicomprendere la totalità di un’opera e la sua verità. Bakunin nonignora le pagine di Proudhon sulla giustizia e il diritto, ma le ritie-ne una parte esitante e secondaria del suo pensiero; ritrova l’origi-nalità vera di Proudhon, e in qualche modo il vero proudhonismo,nella critica dell’autorità e nella teoria dell’anarchismo.

Sembra dunque che siamo condannati a non poter supe-rare la soggettività delle nostre letture. L’opera di Proudhon sitrova così riorganizzata per concetti politici differenti. L’anar-chico trova in Proudhon il padre dell’anarchia, l’economistatrova in lui il genio creatore dell’economia sociale, il conserva-tore non manca di attribuirgli le proprie teorie.

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Senza dubbio questo problema della lettura di un’operanon è né specifica, né particolare del proudhonismo. Sembracomunque rivestire qui un’importanza molto particolare poi-ché si tratta di un autore che aveva voluto essere molto chiaro eche aveva voluto impegnarsi senza ambiguità nei conflitti dellasua epoca.

Per tentare di superare queste difficoltà di lettura, ci pro-poniamo qui di sospendere una lettura diretta dell’opera e diconfrontare le deviazioni delle relazioni tra l’opera e l’ambien-te sociale dove essa si è manifestata. Possiamo supporre, a titolodi ipotesi, che la ricostituzione delle relazioni tra i temi di un’ope-ra e le strutture sociali del suo tempo debba permetterci unanuova lettura meno dipendente dalle nostre opzioni coscientio incoscienti. Le interpretazioni contraddittorie che abbiamocitato presuppongono in effetti che una lettura diretta sia pos-sibile, che l’opera fornisca la sua verità al primo approccio; noidobbiamo al contrario constatare che queste letture apparente-mente innocenti si organizzano in funzione delle attitudini po-litiche del lettore. Tutto avviene, al limite, come se l’opera di-ventasse una materia neutra e non resistente che la percezionedell’interprete riorganizzerebbe secondo i propri desideri e leproprie scelte. Noi possiamo sperare che ricostruendo i rap-porti tra l’opera e il suo contesto sociale saremo in grado disospendere le implicazioni soggettive della nostra lettura e diraggiungere una maggiore obiettività.

È a questo inserimento dell’opera nell’ambiente e a que-sto stabilire delle correlazioni tra la creazione individuale e lasocietà francese, che invita Marx. Qualificando Proudhon comepiccolo borghese, cerca non soltanto di ridicolizzarlo con unepiteto infamante, ma anche di dare una spiegazione generaledelle posizioni proudhoniane con una indicazione che derividalla sociologia della conoscenza. Infatti egli spiega la dialetti-ca che utilizzerebbe Proudhon nel Système des contradictionséconomiques, con la situazione sociale della piccola borghesia fran-cese minacciata sia dalla borghesia che dal proletariato. La dia-lettica di Proudhon non sarebbe altro che un’oscillazione tra ilrifiuto e l’adesione, una distinzione tentennante tra il lato buo-no e cattivo dei fenomeni economici, l’espressione e il riflessodi attitudini “piccolo borghesi”, lacerate, “sballottate”, tra forzecontrarie. Più ampiamente tutta la teorizzazione proudhonianadilaterebbe, sul piano dell’ideologia politica, la situazione stes-sa della piccola borghesia, classe senza avvenire economico, sen-za speranza politica e dunque senza ideologia realmente origi-

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nale, costretta ad attingere in modo eclettico nella cultura bor-ghese e nei modelli del proletariato. Così si verificherebbe ilprincipio secondo il quale ogni classe genera una“sovrastrut-tura” ideologica conforme a se stessa che risponda ai suoi biso-gni pratici (31).

Qualunque sia il valore di questa risposta, essa designa ilcampo di ricerca che conviene esaminare. Essa postula l’esisten-za di un insieme di relazioni tra l’organizzazione intellettualedi un’opera e le strutture sociali nelle quali si è costituita. Senzaaffermare necessariamente la semplicità di queste relazioni, essaesclude che sia sufficiente, per capire la coerenza profonda diun’opera, attenersi alla storia tradizionale delle idee o al con-fronto con le teorie che le sono contemporanee. Questi dueapprocci incontrano in effetti rapidamente i loro limiti nel casodi Proudhon. Il ricorso alla storia del passato intellettuale è am-piamente illuminante per un autore che è stato impregnato dellalettura della Bibbia, che si è nutrito dei primi socialisti e diFourier e che ha studiato i lavori degli economisti e li cita ab-bondantemente. Ma questi molteplici avvicinamenti chiarisco-no solo frammenti dell’opera e rischiano di occultare ciò chedeve mostrarci una conoscenza approfondita: le intuizioni fon-damentali e la loro organizzazione. Allo stesso modo non pos-siamo sperare confronti tra l’opera di Proudhon e quella deisuoi contemporanei che ci assicurino questa conoscenza: ben-ché chiare fossero le letture comparative di Louis Blanc, diBlanqui o di Etienne Cabet, rischiamo di non capire le ragionivere della reticenza di Proudhon verso di loro. Il suo atteggia-mento di diffidenza e le sue polemiche rischiano di apparircicome i segni di un carattere ombroso o, come dice Marx, diuna semplice vanità di autore.

Il fatto che quest’ultimo giudizio abbia poco valore espli-cativo, è dimostrato dall’estrema diffusione del pensiero diProudhon in Francia sin dal 1840, dopo la pubblicazione diPremier Mémoire. Questo successo è ancora più singolare poichéProudhon non era il solo a sviluppare teorie socialiste; questoperiodo era particolarmente ricco di progetti differenti “d’as-sociazione” e, se ci si attiene alle generalità, i suoi scritti nonsembrano proporre che un progetto fra tanti altri. È ancora piùrimarchevole che sia diventato, se si può dire, il “maître à penserdegli operai francesi per più decenni” (32). Bisogna tentare dispiegare perché i rappresentanti operai francesi in seno allaPrima Internazionale scelgono di riferirsi a Proudhon mentreavrebbero potuto trovare, per esempio, nell’opera di Louis Blanc

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una concezione coerente di un’organizzazione socialista del lavo-ro. Questa diffusione del proudhonismo nella classe operaia deveancora essere spiegata dal momento che non fu sostenuta, comesi sa, né da un partito organizzato, né da un’impresa commer-ciale e ancor meno dai poteri pubblici. È quindi senza nessunamediazione di questo tipo che le tematiche di Proudhon rag-giunsero gli operai e furono adottate. Quando Marx scrive che“Proudhon ha fatto un danno enorme” (33), sembra attribuirgliuna personalità magnetica, esercitando sugli operai un’influenzamalefica, ma si può difficilmente prendere questo apprezzamen-to come un giudizio. Sembra più utile interrogarsi sulle ragioniper le quali il movimento operaio francese poté riconoscerenel proudhonismo un’espressione delle proprie aspirazioni.

Ci proponiamo dunque di applicare alla lettura degli scrittidi Proudhon le ipotesi di una sociologia della conoscenza poli-tica. Un tale approccio non postula a priori che una teoria poli-tica possa intrattenere un rapporto di identità con una struttu-ra sociale particolare; esso non afferma nemmeno che le corre-lazioni più pertinenti si stabiliscano necessariamente tra la teo-ria e una classe determinata, pone soltanto il problema di que-ste relazioni e di chiarirle. Stabilisce dei rapporti che gli autoriinteressati hanno generalmente ignorato oppure rifiutato. Fa-cendo apparire un altro referente che è quello della storia del-le idee, si prefigge quindi di mettere l’opera in una nuova pro-spettiva e in una nuova luce. Postula che debbano esistere alcu-ne continuità o alcune congruenze tra i fenomeni sociali che sivengono a determinare e l’organizzazione dell’opera. Secondole indicazioni di Durkheim, che tendono a privilegiare la realtàe la consistenza del sociale sulla creazione individuale, lasociologia della conoscenza privilegia i “fatti sociali” e intrave-de un rapporto di determinazione tra il sociale e l’opera. Senzaanticipare nessun giudizio sulla natura esatta del determinan-te, ammette che un’opera politica fa non soltanto parte di uncontesto gnoseosociologico, ma anche che questo contesto haimposto al creatore i suoi oggetti e la sua problematica. Prendequindi come punto di partenza l’ipotesi che un creatore parte-cipi della sua collettività e della sua epoca e che queste orienti-no, spesso a sua insaputa, la sua creazione. Quindi la sua ambi-zione sarebbe di ricostituire gli insiemi intellettuali integrantil’opera politica nel campo sociale, di proporre una prospettivapiù comprensiva dove il pensiero appare nei suoi rapporti or-ganici con il campo sociale. Si pretenderebbe così di riscoprire,con una delucidazione dei rapporti e delle causalità, le intui-

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zioni fondamentali di un autore e la coerenza della loro orga-nizzazione. Più esattamente, si può sperare di far così scaturireil grado di coerenza di un opera: si può supporre, per esempio,che un’ideologia politica espressiva di un gruppo dominante,fiducioso di sé, sicuro della propria sopravvivenza, possiederàuna forte unità e una ferma logica interna; si può quindi sup-porre che un gruppo minacciato e incerto della propria soprav-vivenza risponderebbe, al contrario, con un’ideologia attraver-sata dalle contraddizioni. È proprio quest’ultima ipotesi cheMarx dà per spiegare il proudhonismo.

Questa ricerca deve permetterci di tenere in sospeso la no-stra lettura di Proudhon. Senza pretendere qui di illuminare l’am-biente con l’opera, noi speriamo, dalla ricostituzione dei rappor-ti tra l’ambiente e l’opera, che essa ci insegni a rileggere l’operain modo differente. Ci aspettiamo che ci mostri quali sono lecertezze primordiali, le intenzioni di base della teoria politica,intenzioni che sono, come abbiamo visto, radicalmente oppo-ste a seconda degli interpreti. Noi speriamo da questo approc-cio che ci imponga una certa gerarchia dei temi che ci permet-teranno di fissare il senso dei concetti proudhoniani, alcunidei quali continuano ad essere di difficile interpretazione.

Questi obiettivi generali della sociologia della conoscenzadevono essere precisati. La connessione dei rapporti tra l’opera el’ambiente esige che siano definiti con una certa precisione glielementi dell’uno e dell’altro termine. Se è facile ritenere essen-zialmente, in seno all’opera, le teorie politico-economiche, i pro-getti di liquidazione e di ricostruzione sociale, è più difficile defi-nire, oltre il termine vago di “ambiente sociale”, con quale termi-ne di riferimento noi possiamo confrontare l’opera proudhoniana.

Nulla costringe la sociologia della conoscenza a confron-tare il senso di un’opera con la totalità di una società e conl’insieme dei suoi conflitti politici. È probabile che per alcuneopere l’approccio più fecondo possa consistere nel collegare ilsuo contenuto ad un’istituzione particolare relativamente iso-lata dall’insieme. Nulla impone di considerare il metodo pro-posto da Marx, che cerca di situare un’opera nelle lotte politi-che di una società, come l’unico approccio possibile; questometodo comporta, come vedremo, dei rischi estremi dischematizzazione e di deformazione: e non può essere conside-rato che a condizione di essere reso incessantemente proble-matico e di essere oggetto di una costante critica. Eppure è que-sto metodo che ci pare essere il migliore per l’esame della teo-ria politica di Proudhon. Ci sembra imposto dalla natura della

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teoria esaminata: l’ambizione di Proudhon è in effetti di affron-tare la società della quale è contemporaneo nella sua totalità edi considerarla, secondo la sua espressione, come un “sistema”.L’oggetto della sua critica economica è di svelare come i feno-meni della economia proprietaria formano un sistema di con-traddizioni, come questo sistema nasconda una realtà propria euna logica che domina i fenomeni parziali e ne rende la ragio-ne. L’oggetto della critica politica è di svelare la struttura gene-rale dei rapporti sociali e di fare apparire a tutti i livelli le formecostanti dell’alienazione e dell’ “esteriorizzazione”. Parimentila critica della religione rinvia all’ “idealismo” di una societàoppressa così come ai caratteri generali della totalità. Attorepolitico, attore impegnato nei conflitti aperti, condannato, im-prigionato, esiliato, Proudhon ci impone di considerare l’insie-me dei conflitti sociali per meglio comprendere il suo discorso.

Non si può nascondere d’altra parte che egli si trova sto-ricamente in un periodo eccezionale del pensiero politico inFrancia, a causa delle date estreme che sono il 1815 e il 1851. Inquesto breve periodo, che inizia dopo gli anni silenziosi del-l’Impero e termina con il colpo di stato del 2 dicembre, le teo-rie politiche più estreme si sono formulate, opposte, portandocosì alla coscienza una rappresentazione acuta delle differentipossibilità che si offrivano alla società, favorendo nello stessotempo una rappresentazione sintetica della realtà sociale. Inqualche anno dal visconte de Bonald a Blanqui, da BenjaminCostant a Proudhon, trovarono espressione delle teorie politi-che così contraddittorie come l’ultracismo (34), il legittimismo,il liberalismo, il bonapartismo, i socialismi, i comunismi,l’anarchismo. La vicinanza di una società feudale brutalmentedistrutta, i risultati di una grande rivoluzione, lo spettacolo diconflitti sociali di tipo nuovo, acuivano l’attenzione politica.La rapidità dei cambiamenti, la successione dei tipi sociali incontrasto, i cambiamenti dei regimi politici, costringevano aporre il problema delle organizzazioni sociali nei loro principigenerali. De Maistre, de Tocqueville, Louis Blanc, per quantoopposti possano essere, affrontano le stesse questioni con lostesso senso dei principi generali. La loro coscienza della totali-tà è tanto acuta quanto il consenso intellettuale è debole fra gliautori, dei quali alcuni vogliono restaurare il Medio Evo, altriconsolidare l’acquisito dell’89, altri preparare la rivoluzionesociale. Allo stesso tempo, se i conflitti ideologici sono estremi,essi sono legalmente autorizzati e in una larga misura protettidalla legge. Dopo gli anni rivoluzionari, poi di censura intellet-

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tuale, i teorici possono liberamente, in una relativa calma, ri-spondere alle questioni che pone una società in trasformazio-ne. Sono facilmente nella possibilità di rispondere alle questio-ni primordiali.

Nello stesso tempo sono coscienti che questi conflitti ide-ologici corrispondono a una lotta per il potere. Gli Ultras dellaCamera ombra non fanno mistero della loro volontà di restaura-re la nobiltà nelle sue antiche funzioni e gli orleanisti liberalisono molto coscienti di opporvisi appoggiandosi alle classi me-die. Saint-Simon ha teorizzato la lotta delle classi opponendo leclassi industriali all’insieme delle caste oziose e quandoProudhon esprime la sua volontà di difendere la classe operaia,riprende un concetto già elaborato e si pone in un campo teo-rico chiaramente costituito. Sembra così che la divisione dellasocietà in classi sociali costituisca per il nostro approcciosociologico uno strumento eminentemente efficace anche se irapporti tra l’espressione e la classe sono lungi dall’esseresemplificabili. Converrebbe per l’opera di Proudhon tener contodi questo rapporto tra le classi sociali e il proudhonismo e diesaminare la risposta di Marx su questo argomento.

Ora, questo metodo, che si propone di pensare un auto-re nella totalità della sua società, privilegiando la distribuzionedelle classi e i loro conflitti, rischia di indurre in errore e difavorire le illusioni. Non soltanto questo metodo favorisce lesemplificazioni soddisfacenti per lo spirito, ma rischia di na-scondere i veri problemi: in altri termini rischia di non condur-re che a delle conclusioni ideologiche. Il giudizio di Marx suProudhon illustra bene questi pericoli. Facendo di Proudhonun piccolo borghese, Marx risponde eccellentemente alle que-stioni di una sociologia della conoscenza: riferisce il contenutodel pensiero di Proudhon a una classe sociale, stabilisce un rap-porto di omologia tra un sistema intellettuale e una situazionesociale precisa. E come si sa, d’altra parte, che la classe di cui siparla è in una situazione tale che non può comprendere la real-tà, si può capire e spiegare come Proudhon sia incapace di ca-pire realmente ciò di cui parla. Marx arriva a questa conclusio-ne supponendo costituiti due saperi esaustivi. Egli sa, da un lato,che, nella società moderna, i fenomeni economici sono deter-minanti, che le classi si definiscono essenzialmente in terminieconomici, che la società tende a polarizzarsi in due classi, chela piccola borghesia ha dunque solo una semiesistenza e che ilproletariato è e sarà necessariamente rivoluzionario. Sa, d’altraparte, che la dialettica proudhoniana non essendo né hegeliana

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né materialista non è che un sofisma, che la teoria del “valorecostituito” non è “scientifica” e che Proudhon, non avendo ana-lizzato così precisamente come lui la formazione del plusvalo-re, non ha potuto capire la realtà del rapporto capitalista. Puòdunque concludere, da questo doppio sapere costituito, cheProudhon non ha fatto altro che formulare l’immaginario diuna classe minacciata e impotente.

Qualunque sia il valore finale del giudizio di Marx, unapproccio sociologico non potrebbe ratificare tali implicazionie si può comprendere con questo esempio il doppio rischio incui si incorre con questo metodo. Il voler comprendere la tota-lità sociale porta facilmente ad una teoria semplificante oppu-re erronea; la presunzione di conoscere esaustivamente un’ope-ra conduce abbastanza facilmente alla sua caricatura. È con unaestrapolazione largamente personale che Marx è arrivato a que-sta certezza del bipolarismo ineluttabile della società, all’attesadi una rivoluzione che porterebbe essa stessa la negazione pro-letaria e allo stesso momento gli era difficile portare un giudi-zio d’insieme sull’opera proudhoniana, poiché ne ignorava tut-ta una parte. Più gravemente, imputava il pensiero di Proudhonaffermativamente o negativamente a delle classi sociali le cuicaratteristiche restavano inesplorate. Riconosciuta senza impor-tanza storica, la piccola borghesia non era oggetto di nessunostudio attento e anche lo stesso epiteto di piccolo borghese haun senso più polemico che scientifico, evocando l’immagine diun negoziante egoista e senza capacità. Allo stesso modo la clas-se operaia, designata come agente naturale della rivoluzione, èesaminata solo in funzione dell’evoluzione del capitalismo e infunzione del suo ruolo storico, ma non nella realtà delle suedivisioni, delle sue attese o delle sue attitudini. Marx arriva cosìa questa spiegazione negativa che consiste nel legare un’operaall’impotenza di una classe. Questa spiegazione vale indifferen-temente per Proudhon o per i socialisti detti “utopici”, anchese Proudhon si oppone in tanti punti alla grande costruzione diFourier. Arrivati a questo punto, la sociologia della conoscenzaè tanto poco esplicativa quanto possibile: si può avere il dubbioche non sia stata evocata che a fini polemici, come conferma l’ab-bondanza delle invettive utilizzate per ridicolizzare l’avversario.

La sociologia della conoscenza dovrebbe dunque in pri-mo luogo uscire dalle preoccupazioni polemiche. Se è illusoriopretendere di arrivarci totalmente, per lo meno la “ vigilanzaepistemologica” deve essere particolarmente attenta su questopunto; la sociologia della conoscenza non è serva di un’autori-

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tà esterna e cerca la sua propria autonomia scientifica. Queldoppio scoglio che non poteva evitare Marx deve essere siste-maticamente evitato. Non potremmo pretendere di possedereun sapere esaustivo di una società; l’esitazione dell’etnologo nelpretendere di possedere un sapere assoluto su una società limi-tata ci avverte sufficientemente dell’impossibilità di compren-dere la realtà di una società complessa, sulla quale d’altra partegli studi sono parziali. La pretesa di possedere un tale sapererileva fortemente dell’ “illusione della totalità” (35). La revisioneincessante dei metodi della storia, della storiografia o della psi-cologia sociale ci indica abbastanza che la nostra conoscenzaravvicinata sarebbe incessantemente arricchita e modificata.Come mostra Max Weber, noi non conosciamo né il tutto socia-le, né le molteplici mediazioni dell’esperienza; ci aspettiamo, alcontrario, dagli sviluppi delle scienze umane, della sociologia,tanto quanto della psicologia sociale e della psicanalisi sociale,che ci apportino nuove conoscenze sul nostro oggetto. In talmodo dobbiamo vedere l’immagine della totalità come un oriz-zonte intellettuale al di là degli approcci parziali, sicuri chequesta immagine non cessi di completarsi e di trasformarsi.Tutt’al più possiamo validamente pensare che la prospettiva sto-rica permetta di giudicare i tentativi particolari. Il fatto, per esem-pio, che gli operai francesi abbiano considerato Proudhon comeloro guida anche dopo la sua morte, il fatto che la sua operaabbia fatto numerosi adepti in Russia prima della rivoluzionedel 1917, tutti questi fatti ci aiutano a ripensare il tentativoproudhoniano e a moltiplicare i confronti.

Allo stesso modo bisogna uscire da questa ingenua cer-tezza di credere di conoscere un’opera. Se è vero che un’operamusicale o letteraria non cessa di darci dei messaggi differentia seconda della nostra storia, tanto più un’opera politica estesae complessa si organizza differentemente a seconda delle rela-zioni che noi intrecciamo in essa e intorno ad essa. Altrettanto,bisogna tentare di sospendere la nostra lettura e aspettare lericerche sociologiche che modifichino il nostro sguardo a mi-sura del loro approfondimento.

L’esempio di Marx ci permette di far sorgere altre diffi-coltà. Il metodo esposto per la prima volta nella prima partedella Ideologia tedesca, invita a far riferimento alle maschere ide-ologiche, alle super-strutture, alle strutture “reali”, cioè econo-miche, della società civile. Il fine della sociologia della cono-scenza sarebbe di mettere in relazione i discorsi ideologici coni loro veri referenti che sarebbero i processi di produzione. Come

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esprime chiaramente la dicotomia della superstruttura e dellasubstruttura, la critica sociologica esigerebbe di separare questidue tipi di strutture e di interrogare le loro relazioni o, in altritermini, di ricercare le infrastrutture delle superstrutture. Qua-lunque riserva si possa fare su queste formulazioni analitiche,esse propongono una via di ricerca che a noi pare debba essereperseguita e particolarmente per un autore che s’è proposto diripensare la totalità della società economica e che pretende espri-mere le attese di una classe economica, la classe operaia, inquanto unità definita dal suo ruolo nella produzione. Ma que-sta non sarebbe che una via particolare dell’approcciosociologico. Sarebbe sufficiente solo se si ammettesse l’oscuroprincipio di una totale determinazione dei fenomeni istituzio-nali, culturali e politici da parte dei fenomeni economici. Sap-piamo che Marx stesso si è rifiutato di applicare questo princi-pio nei suoi studi storici; ricordando, per esempio, le formula-zioni ideologiche che si espressero in Francia durante la rivolu-zione del 1848, mostra che le ideologie furono decisamenteinadeguate alle situazioni economiche. Non riconosce soltantouna relativa autonomia delle rappresentazioni politiche in rap-porto alle strutture economiche, ma afferma più esplicitamen-te l’esistenza di un disaccordo, di una disgiunzione, tra la situa-zione di una classe nel processo di produzione e la sua ideolo-gia (36). Marx non poteva ignorare in effetti, nella misura in cuisuperava la semplicità dei principi e affrontava la complessitàdella storia, che le scelte politiche, i progetti o le passioni collet-tive non sono né totalmente determinati dai fenomeni econo-mici, né sufficientemente spiegati da questi. Scopriva così l’in-sufficienza dei principi che aveva formulato e la necessità dicercare, con lo studio delle ideologie, altri referenti da quelliche aveva designato.

Questa rimessa in causa induce un insieme di concettimetodologici:

– La ricerca di nuovi referenti esige innanzitutto una cri-tica dei concetti utilizzati. Così il concetto di “struttura econo-mica” non potrebbe essere utilizzato senza nuove precisazioniin una società in mutazione, dove si sovrapponevano dei tipi diorganizzazione assai differenziati, quali quelli dell’agricoltura,dell’artigianato, della manifattura e della grande fabbrica. Nul-la indica che si possano comparare i rapporti sociali stabiliti daquesti differenti tipi e che l’adattamento dei lavoratori possaessere identico. Uno studio attento non potrebbe contentarsidelle formule abituali sulla “crescita della grande industria” o

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sul “declino dell’artigianato” che sottintendono che la nostraimmagine schematica del passato ci permetta di comprender-ne la realtà. Bisognerebbe al contrario tentare di ritrovare legrandi diversità, ricercare le differenze tra le strutture delle im-prese, comprendere la loro trasformazione lenta o rapida e leconseguenze che ne conseguono per i produttori.

– Allo stesso modo non si può riprendere senza grandiriserve il concetto di classe, in particolare di classe operaia. L’usopolitico e ideologico che ne è stato fatto ci avverte dei suoi peri-coli e dei rischi di semplificazione. La diversità delle espressio-ni e delle sette durante questa prima metà del XIX secolo, indi-ca sufficientemente che l’unità delle classi operaie poteva costi-tuire un tema di riflessione per gli economisti o per i teoricipolitici, ma corrispondeva molto male alla realtà. In effetti èdifficile immaginare che la situazione sociale dell’operaio-con-tadino che lavora temporaneamente in una fabbrica di provin-cia fosse del tutto paragonabile in ogni suo aspetto alla situazio-ne dell’operaio-artigiano di una grande città come Parigi o Lio-ne dove una profonda tradizione culturale regolamentava i rap-porti sociali e dava loro un significato. Non sarebbe perciò pos-sibile elevare la classe ad una entità della quale si indicherebbe-ro solo alcuni caratteri generali. Lo studio delle ideologie im-pone di mettere in relazione i sistemi di rappresentazione con icomportamenti reali dei diversi gruppi sociali nel seno di unastessa classe, di studiare eventualmente la scala dei salari, lamobilità orizzontale o verticale, la disoccupazione, di ritrovarecosì il più fedelmente possibile la diversità delle esperienze eforse delle loro contraddizioni.

– L’insufficienza del metodo marxista è evidenziata in par-ticolare dalla sua ignoranza delle istituzioni proprie delle diver-se classi che non derivano direttamente dalle funzioni di pro-duzione. Nulla indica che si possa trascurare, per esempio, lanatura particolare dei rapporti famigliari per una migliore com-prensione delle ideologie socialiste e comuniste. Se si supponeche un’ideologia politica sia in relazione cosciente o incoscien-te con la totalità delle esperienze, non si potrebbe non tenerconto di una parte così importante dell’esistenza degli indivi-dui. Si dovrà porre un’attenzione tutta particolare alle istituzio-ni propriamente operaie che proliferarono durante questo pe-riodo. Sappiamo che le confraternite costituivano delle associa-zioni potenti che possedevano proprie strutture e proprie tra-dizioni e che mantenevano tra i loro membri rapporti stretti erigorosamente gerarchici. Gli anni che precedettero la rivolu-

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zione del 1848 videro costituirsi molteplici associazioni di untipo nuovo: unioni, società di mutuo soccorso, società di resistenza,associazioni di consumo e di produzione, cooperative, e si può presu-mere che le ideologie politiche elaborate durante questo perio-do ebbero tutte qualche rapporto con le pratiche operaie, siaper opporvisi, sia per ripensarle. Nello studio del proudhonismoi rapporti tra la teorizzazione e queste creazioni operaie do-vranno essere particolarmente precisati.

– Lo studio attento delle correlazioni dovrà dunque ap-puntarsi sugli atteggiamenti affettivi degli individui e dei grup-pi. Non potrebbe né eliminare queste molteplici mediazionipsicosociologiche, né prestare a una classe intera, e senza riser-ve, una “coscienza possibile” (37) della quale si può temere chesia più dipendente dalle idee politiche dell’osservatore che dal-le esperienze concrete. Per quanto difficile sia questa ricerca,sarà necessario ricordare quali potevano essere i modi di perce-zione e di conoscenza dei gruppi di cui parliamo, il loro campod’informazione, i punti sui quali le loro passioni si polarizzavano,gli atteggiamenti che potevano avere di fronte alla loro situa-zione sociale o di fronte ai cambiamenti imposti. Bisognerebberiprendere, almeno parzialmente, in che modo comprendeva-no la loro situazione, quale senso del vissuto le davano ed an-che in quale universo di segni e di significati si trovavano impe-gnati. Forse in questo settore i conflitti tra le differenti attitudi-ni, le difficoltà di adattamento, le contraddizioni tra i compor-tamenti e gli atteggiamenti, potevano essere più illuminanti chenon le relative mediazioni.

– Infine converrebbe ancora interrogarsi sulla presenzadi una cultura e di una sottocultura di classe. Non si può pren-dere in considerazione l’ipotesi secondo la quale i sistemi orga-nizzati di rappresentazione, le credenze e le religioni, per esem-pio, sono solo un riflesso minimo dei processi economici e nonsi può nemmeno stimare che questi sistemi non offrano alcunaresistenza alla diffusione delle nuove teorizzazioni. Sarà dun-que necessario precisare come un sistema di pensiero come ilproudhonismo poteva rispondere oppure opporsi a modelli giàcostituiti e interiorizzati. Si presume che questi confronti per-metterebbero di capire di conseguenza come i temi propostipotevano essere ricevuti e diffusi, come si urtavano fra loro efacevano eco a un’aspettativa.

Questo breve richiamo fa intravedere quanto ci troviamodi fronte a un insieme infinito di dati e di confronti possibili.Siccome dobbiamo capire l’ampia teorizzazione di Proudhon,

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dobbiamo tracciare dei confronti tra le strutture economiche ela loro evoluzione – con i tipi di relazione stabiliti fra le classi alloro interno – con le strutture politiche e rappresentazioni chele accompagnano – con l’insieme delle istituzioni. Ma nulla ciimpone qui di limitare le nostre ricerche; le teorie e i valori chesi elencano nel proudhonismo si elencano anche nell’arte del-l’epoca e nella sua letteratura. Proudhon fa spesso allusione airomanzieri del suo tempo, critica George Sand, Victor Hugo,apprezza oppure critica Michelet ed i suoi modi di pensare ri-spondono oppure si oppongono a queste creazioni letterarie ostoriche. Nella misura in cui una cultura forma un’unità nellasua diversità e nelle sue contraddizioni, ogni elemento ci rap-presenta un altro elemento e, in questo senso, tutto è impor-tante per cogliere una creazione parziale. La grande opera diProudhon, De la justice, accumula le allusioni a tutte le forme dicultura del suo tempo e, per esempio, sarebbe necessario, percapirlo, ricordare tutti gli orientamenti che si delineavano allo-ra nella chiesa cattolica e rileggere non soltanto gli autori piùcaratteristici come Lacordaire o Lamennais, ma anche, e connon meno attenzione, Chateaubriand, de Maistre, Montlosier,Monsignor de Quélen, l’abbé Genoude…

La sociologia della conoscenza politica deve imporsi del-le scelte e fissare un metodo altrettanto preciso quanto più l’og-getto studiato è indefinito in estensione e in significato. Nonpotremmo pretendere che il nostro metodo ci sia imposto to-talmente dall’oggetto: al contrario sembra necessario tener pre-sente che operiamo per costruzione di oggetti e per collega-menti. È possibile che alcuni confronti evochino delle causalitàe delle determinazioni, poiché possiamo supporre che una teo-rizzazione è in effetti determinata dall’insieme di un ambientesociale e culturale, ma nessuna causalità singolare può esserviisolata. Nei raffronti parziali che ci conviene tentare devonoessere ricercate piuttosto le similitudini (38) o le contraddizioni,le ripetizioni o le opposizioni strutturali.

La nozione di omologia, come è stata elaborata in storiadell’arte, ci sembra debba essere ritenuta più precisa per defi-nire gli obiettivi della nostra ricerca (39). Essa mette da principiol’accento sul carattere organizzato degli oggetti che noi studia-mo. Se è vero che tutte le opere culturali nascondono dei prin-cipi d’organizzazione, questo principio si applica in modo par-ticolare alla riflessione proudhoniana, sia nella sua parte criticache nella sua parte costruttiva. Studiando la società economicadel regime proprietario, la critica fa apparire il rigore di un

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“sistema di contraddizioni”, di un insieme di relazioni che simantengono indipendentemente dagli elementi che le colle-gano. Nello stesso tempo, già dai primi scritti, Proudhon si in-terroga sulla possibilità di una struttura economica fondata sul-la pluralità degli elementi di produzione impegnati nei rappor-ti di equilibrio e di reciprocità. Che si tratti dei rapporti dellasocietà economica, dei poteri politici, del federalismo o delcentralismo, dell’uguaglianza e della gerarchia, il pensieroproudhoniano si organizza secondo forme precise che invitanoa cercare i modelli originali. Quanto agli elementi della realtàsociale con i quali noi cerchiamo di restituire le affinità, possia-mo concepirli nelle loro molteplici forme organizzate. Le pre-occupazioni di Proudhon invitano a studiare particolarmentele strutture economiche e la distribuzione delle classi sociali ein questi due ambiti i processi di trasformazione e di destrut-turazione saranno importanti quanto i fatti organizzativi. Biso-gnerà anche insistere sulla diversità dei modelli economici inquesta prima metà del secolo XIX, sull’importanza dei cambia-menti, sulla loro rapidità e sull’estensione delle nuove strut-turazioni. Bisognerà anche ricordare quali conseguenze questiprocessi potevano avere sulla distribuzione delle classi e qualidistorsioni vi provocavano.

Conviene quindi ricercare, nell’insieme complesso e even-tualmente contraddittorio delle strutture simultanee, con qua-li strutture di fatto il pensiero proudhoniano aveva maggioreaffinità e che rapporti intratteneva con queste. In questa ricer-ca comparativa noi raggiungeremo i nostri obiettivi se riuscia-mo a ristabilire le corrispondenze adeguate delle omologie strut-turali (40) tra degli insiemi intellettuali propri al pensieroproudhoniano e delle strutture sociali. Noi riusciremo così acostituire degli insiemi più comprensibili integranti l’opera e leforme sociali e che ci permetterebbero di ripensare il discorsonella sua totalità sociale e culturale. Saremmo portati a trala-sciare in questa prospettiva gli obiettivi coscienti dell’autore perconsiderare soltanto le forme e i contenuti del suo pensiero.

Il problema che si pone, allora, è di sapere quali tipi distrutture noi sceglieremo di confrontare e ci pare essenzialesuperare il metodo mutilante suggerito dalle formule marxianee procedere per confronti successivi e differenziati prima di rag-giungere un’ipotesi sintetica. Questo metodo si impone per l’esa-me di una società nella quale coesistono dei modi di produzio-ne distinti, dove si affrontano dei gruppi sociali e delle visionidel mondo profondamente differenziate. Ci può, d’altra parte,

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aiutare a tralasciare i rischi delle interpretazioni semplificatriciche poggiano sia sulla società considerata sia sull’opera teorica.Può facilitare la scoperta delle tensioni e delle contraddizioniin seno all’ambiente sociale, in seno all’opera e tra l’uno e l’al-tro di questi termini.

1) La ricerca delle omologie tra le strutture economichee il progetto proudhoniano costituirà il punto di partenza diquesto confronto, senza che l’ipotesi debba essere ritenuta pre-liminare a una preponderanza di queste omologie. Ma l’impor-tanza accordata da Proudhon all’organizzazione della “societàeconomica” obbliga a ricercare in quale settore della realtà eco-nomica abbia potuto trovare il modello, se ve ne è uno, dellasua elaborazione.

2) L’investigazione non potrebbe limitarsi a questa primaparte: sarebbe postulare che le strutture economiche diano unachiave sufficiente a capire le ideologie e, simultaneamente, chele reazioni dei gruppi sociali alle trasformazioni economiche,le loro creazioni istituzionali, fossero senza realtà e senza conse-guenze. Bisognerà al contrario ricercare, e questa sarà l’essenzadi questo studio, quali omologie possono apparirci tra la prati-ca creatrice delle classi operaie e il modello rivoluzionario for-mulato da Proudhon.

3) Potremo allora chiudere questo studio confrontando isistemi intellettuali dell’epoca, in modo particolare i tipi di pen-siero politico, con la filosofia proudhoniana, cercando se que-ste ultime omologie confermano oppure infirmano le prece-denti.

È da questi raffronti distinti che dovrebbe apparire unacomprensione unitaria dell’opera proudhoniana e la formula-zione di una ipotesi sul suo inserimento privilegiato nella suacollettività. Se una tale ricerca è portata a buon fine, essa devecondurci, con approcci successivi e per un costante va e vienidelle strutture sociali all’opera scritta, a una doppia conclusio-ne che poggi sull’inserimento privilegiato e sulla coerenza ge-nerale dell’opera. Come mostra fortunatamente l’ipotesi diMarx a proposito del proudhonismo, queste due conclusionisono intimamente legate e, se è dimostrato che un pensiero siriferisce a un gruppo sociale marginale o in via di estinzione, sipuò supporre che la parte di immaginario e di incoerenza saràsuperiore al senso della realtà. Si dovrebbe così pervenire a unaconclusione generale sul senso storico del proudhonismo, siache lo si consideri una ideologia, sia una utopia, nel senso che K.Mannheim dà a questi termini per un pensiero conservatore o

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rivoluzionario, per il progetto di una classe politica oppure perl’espressione dell’angoscia di una classe frustrata e impotente.

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L’OMOLOGIADELLE STRUTTURE ECONOMICHE

PRIMA PARTE

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La ricerca delle omologie strutturali tra un insieme socia-le e una creazione intellettuale impone innanzi tutto di precisa-re a quale livello del sociale saranno stabilite queste omologie.Nulla indica a priori quale approccio sarà più illuminante, siache concerni le strutture economiche, sia le strutture sociali,sia le strutture politiche o i modelli intellettuali. Può darsi pureche al termine di questi confronti venga fuori che le omologiepiù chiare si stabiliscono fra le differenti forme di creazioneculturale a livello di elaborazioni coscienti e che il confrontotra l’opera e le strutture economiche assuma un carattere am-biguo o ipotetico. Sarà solo al termine di questa indagine chenoi potremo decidere di questa questione e sapere con qualelivello di realtà sociale le omologie sono più esplicative. Attra-verso l’opera di Proudhon siamo invitati a interrogarci primasui rapporti tra le sue affermazioni teoriche e le strutture eco-nomiche della società francese intorno al 1840. È in effetti alproblema della organizzazione economica che Proudhon sipropone in primo luogo di rispondere, sia che indichi un mo-dello critico del modo di produzione capitalista nel Système descontradictions, sia che opponga a queste strutture capitaliste ilsuo progetto d’organizzazione della società economica. Studian-do dunque i rapporti tra le strutture economiche della societàfrancese e le teorie proposte, noi poniamo un problema che lostesso Proudhon ha studiato molto ampiamente e una ipotesiche si trova coscientemente formulata: ci compete precisarla,verificarla e, in particolare, esaminare in quale misura l’inter-pretazione cosciente corrisponde ai rapporti storici effettivi.

1. - La complessità delle strutture economiche nel 1840

Non sapremmo in poche righe fare un bilancio sufficien-te delle strutture dell’economia francese sotto la monarchia diLuglio e una ricerca più approfondita non mancherebbe di sfu-mare le indicazioni generali che noi possiamo dedurre dai la-

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vori recentemente consacrati a questo periodo. Con la prospet-tiva storica e la conoscenza che noi possiamo avere dello svilup-po industriale posteriore al 1860, questo periodo che va dal 1815al 1848 ci appare come una fase di crescita relativamente lenta,ma fortemente differenziata dalle epoche precedenti, come la“prima fase della Rivoluzione industriale” (1) che si affermeràsoltanto sotto il Secondo Impero, ma, se la crescita industrialerimane moderata, si produce durante questo periodo una rot-tura di continuità nei ritmi di crescita. Nel 1815 appare nellastoria economica della Francia, una nuova “velocità media” dicrescita determinante una fase nettamente differenziata dellaproduzione. Mentre la produzione agricola globale conosce unritmo di crescita lento dal XVII secolo, si produce, a partire dal1815, una accelerazione rapida, che permette di accrescere dimetà il valore della produzione agricola globale tra il 1820 e il1850 (2). Nella grande industria questa rottura di ritmi assumecaratteri acuti e, in alcuni rami, delle forme spettacolari. Così sivede, dal 1815 al 1848, la produzione del carbone moltiplicataper sette, mentre la produzione del ferro lavorato e del ferrosemplice aumenta di quasi cinque volte(3). Questi cambiamentivanno di pari passo con le trasformazioni rapide dell’organiz-zazione dei poli di produzione: tra le piccole imprese che carat-terizzavano la produzione industriale alla fine del XVIII secolo,cominciano a svilupparsi vaste concentrazioni, miniere e fab-briche, che comportano nuove forme di mobilità sociale. Ep-pure questi cambiamenti economici e sociali si sviluppano inuna società che resta in tutto questo periodo a maggioranzarurale. Secondo il censimento del 1841, su una popolazionetotale di 34 milioni di abitanti, la popolazione rurale raggiun-geva i 25 milioni, cioè il 73,5% della popolazione totale e il 56,4 %della popolazione viveva ancora di agricoltura. In più, durantequesto periodo il prodotto agricolo finale rimane, per la Fran-cia, superiore in quantità al prodotto dell’industria(4). È dun-que in seno ad una società dominata dal tipo di produzioneagricola e demograficamente organizzata sulla base di questaproduzione, che si sviluppa l’industrializzazione e la progressi-va estensione delle imprese industriali. E così una delle caratte-ristiche essenziali di questa epoca è la singolare giustapposizionedelle strutture economiche radicalmente opposte, a partire dallagrande impresa industriale concentrata, come le miniere dellaLoira o Le Creusot, fino all’agricoltura parcellare, passando at-traverso le forme di transizione, esse stesse diversificate, dellamanifattura e dell’artigianato.

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Nel 1840 questa eterogeneità è estrema. Lungi dal limitarsi alladifferenziazione della produzione, essa comprende l’organiz-zazione economica e sociale dei centri di produzione. Mentrela grande industria mette in opera un sistema concorrenziale eorganizza la sua produzione in funzione del mercato naziona-le, il contadino parcellare resta largamente legato all’economiadi autosussistenza o relegato al mercato locale(5). Mentre la gran-de industria è profondamente modificata dalle invenzioni tec-nologiche, le tecniche di produzione agricola non progredisco-no che in modo lento e localmente. Infine, mentre la grandeindustria sviluppa, a misura della sua estensione, un sistema ri-goroso di razionalizzazione e di contabilità(6), il sistema conta-bile resta totalmente estraneo alla grande maggioranza dei pro-duttori agricoli. Proudhon si trova dunque, al momento in cuicomincia a formulare il suo pensiero, in presenza di struttureeconomiche radicalmente distinte, nelle quali possiamo distin-guere, schematicamente, tre tipi di organizzazione: la grandeindustria, la piccola impresa o l’artigianato e infine l’agricolto-re parcellare. In questa fase di transizione i differenti centri diproduzione non entrano così semplicemente in questa tri-partizione; è caratteristica propria di questo periodo renderesensibili i passaggi da un modello all’altro e costringere alcunicentri di produzione ad adottare una nuova forma di produzio-ne oppure sparire. Nell’agricoltura persistono le forme dellagrande proprietà e qualche proprietario si sforza di razio-nalizzare la produzione ispirandosi ai modelli industriali. Trale medie imprese, alcune riescono ad avere uno sviluppo rapi-do e competere con le “grandi case”, mentre le altre sono spaz-zate via dal gioco della concorrenza o obbligate a integrarsi inun’impresa più potente. Questi tre modelli di strutture econo-miche illustrano i tre tipi ideali che possono uscire dalla molte-plicità delle forme economiche concrete. Questi modelli ci per-metteranno di cercare la posizione teorica di Proudhon e diprecisare le sue opzioni coscienti o incoscienti di fronte a que-ste tre possibilità.

2. - Le grandi imprese industriali

L’avvento della grande industria si traduce sul piano del-le imprese in fenomeni di concentrazione e di meccanizzazionedei mezzi di produzione e, sul piano sociale, nell’instaurazionedi nuovi rapporti tra i produttori.

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A. – I primi anni del XIX secolo vedono accelerarsi bru-talmente questo processo iniziato prima della rivoluzione dell’89e che porta alla costruzione di grandi imprese industriali. Giàprima del 1815 erano apparse a Mulhouse, a Sedan, a Jouy, del-le fabbriche di cappelli che occupavano più di mille operai, comenota Villermé nel 1840 (7). Nel settore particolare della filaturadel cotone, tutte le filande dell’alto Reno sono già da questadata concentrate in “grandi fabbriche” che raggruppano un nu-mero elevato di operai secondo un’organizzazione avanzata delladivisione del lavoro. Le “grandi case” di Mulhouse concentranonelle loro fabbriche tutti i rami della produzione: filatura, tessi-tura, stampa e fabbricazione dei prodotti chimici. L’industriaestrattiva trascina nel suo sviluppo delle concentrazioni di ma-nodopera sconosciuta nel secolo precedente. Le industrie me-tallurgiche occupano, già dal 1825, più di 2000 operai (8). Paral-lelamente a questa estensione delle unità di produzione, si svi-luppa la concentrazione delle imprese sotto l’autorità di unostesso industriale: la concentrazione orizzontale ed anche verti-cale che esisteva già sotto l’Ancien Régime nell’ambito dellametallurgia appare anche nel tessile. Sotto l’Impero l’industria-le Ternaux, inventore dello scialle, aveva rivoluzionato l’indu-stria dei drappi creando delle fabbriche a Sedan e nei dintorni,poi in tutto il nord della Francia (9): aveva nello stesso tempofondato delle case di commercio destinate a servire da interme-diario tra le fabbriche e i commercianti al dettaglio, integrandocosì alla produzione i circuiti di distribuzione. Già da questaepoca i grandi industriali quali Schaeffer a Mulhouse, Oberkampfa Jouy, Dollfus-Mieg, raggruppavano sotto la stessa direzione lafilatura, la tessitura, le tintorie e delle fabbriche di tessuti stampa-ti e dunque il ciclo completo della fabbricazione delle stoffe (10).

Nel 1812, al massimo della sua prosperità, Richard Lenoirpossedeva 39 imprese che utilizzavano 15.000 operai. Questaconcentrazione delle imprese andava di pari passo con i feno-meni di concentrazione regionale che erano appena delineatinell’Ancien Régime; alcune città e alcune regioni conosconoun notevole sviluppo industriale, mentre altre restano ad unaproduzione arcaica di tipo familiare; la regione del Nord vedemoltiplicarsi gli impianti industriali, mentre la Bretagna e laMayenne tendono a diventare regioni esclusivamente agricole.Lilla, Roubaix, Tourcoing, Nantes, Marsiglia diventano impor-tanti città industriali; a Nantes si contano 100 fabbriche diffe-renti nel 1838, filature del cotone, cantieri di costruzione, fon-derie e fabbriche di conserve (11).

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Queste differenti forme di concentrazione industriale, coni fenomeni di unificazione e di massificazione che le accompa-gnano, avranno per le menti dell’epoca un rilievo tanto più im-portante in quanto si svolgono in seno ad un’organizzazionedella produzione tradizionalmente dispersa. Queste nuove uni-tà di produzione contrastano brutalmente con l’organizzazio-ne pluralista e decentrata dell’economia tradizionale. Alcunisettori della produzione entrano nei processi di concentrazio-ne, mentre altri mantengono la forma dispersa. L’industria delcotone è sconvolta dalla concentrazione (le filature a domicilioscompaiono già dal 1850) e l’industria della seta si trova ancoraripartita tra un gran numero di artigiani e di maestri artigiani.Il contrasto colpisce di più perché si manifesta nella stessa in-dustria: così nell’industria del cotone, la filatura è già intera-mente industrializzata nel 1850, mentre la tessitura sopravviveancora nelle campagne e resiste alla meccanizzazione. Sappia-mo anche che queste concentrazioni conobbero dei fallimentiimportantissimi, come il celebre fallimento di Richard Lenoirnel 1815. Anche il successo della grande impresa non potevaessere evidente per le menti di quell’epoca. L’accentramentosarà per essi più un problema che un’evidenza e si vedrà, peresempio, Charles de Laboulaye pensare nel 1849 che i grandigruppi industriali non sono che dei fenomeni artificiali, nati dauna politica protezionista (12).

Nello stesso tempo queste concentrazioni industriali nonmancano di provocare, là dove si producono, la scomparsa del-le antiche strutture e eventualmente la rovina degli antichi pro-duttori. La concorrenza tra la grande industria e la fabbricameno evoluta comporta la regressione dell’antica produzionedell’industria tessile. L’installazione delle filande elimina leimprese familiari e cancella il piccolo guadagno che i produtto-ri trovavano nel lavoro a domicilio. Come scrive Adolphe Blanquinel 1848, l’organizzazione dell’industria in unità centralizzatasostituisce alla pluralità delle imprese la concentrazione unita-ria, provoca la scomparsa delle “piccole imprese” e costringealla disoccupazione il produttore parcellare:

Vediamo tutti i giorni scomparire le piccole imprese, il lavoro sparpaglia-to, i lavori a domicilio. L’industria si organizza in fabbriche immense cherassomigliano a delle caserme o a dei conventi, provviste di un materialeimponente, servite da motori di una potenza infinita. Gli operai si am-mucchiano a centinaia, a volte a migliaia, in questi laboratori severi…(13).

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B. – Questi processi di accentramento sono intimamentelegati all’introduzione di nuove macchine di produzione e allameccanizzazione del lavoro. Possiamo datare l’anno 1815 comeil momento in cui la meccanizzazione si è definitivamente im-posta all’industria francese (14); a partire da questa data, in effet-ti, alcune industrie entrano in una fase di meccanizzazione ac-celerata, quali l’industria della carta che non contava più diquattro cartiere meccaniche nel 1827, che ne conta 12 nel 1834e un centinaio nel 1848(15). In vent’anni le condizioni tecnichedella produzione si troveranno, come in certi rami della produ-zione, totalmente trasformati dall’introduzione di nuove inven-zioni della scienza e della tecnologia. A Lilla il numero dei fusipassa da 180.000 nel 1832, a 400.000 nel 1853 e, appunto grazieai perfezionamenti tecnologici, il loro rendimento è raddop-piato durante lo stesso periodo (16).

Ma, qui ancora, la particolarità di questi fenomeni colpi-sce particolarmente le menti non tanto per la sua novità stori-ca, ma per il contrasto brutale che si manifesta tra la mec-canizzazione estremamente spinta e il mantenimento delle tec-niche antiche, strumenti, mestieri e utensili il cui perfeziona-mento è lento oppure inesistente. Le meccanizzazioni accelera-te rimarranno eccezioni fino al 1848. Se le macchine idraulichee poi le macchine a vapore si sviluppano sempre di più sotto lamonarchia di Luglio, esse si introducono in modo ineguale neidifferenti rami della produzione industriale e anche nei diversisettori della stessa industria. Come constata Villermé nella suaanalisi del 1840 (17), la meccanizzazione è realizzata già da que-st’epoca per quanto concerne la filatura del cotone: “Le filandedel cotone, soprattutto nell’Alto Reno, sono tutte attualmentedi grandi industrie” scrive (18); ma, per contro, nella tessitura lameccanizzazione è molto meno avanzata e sussistono ancoraimprese di campagna che eseguono solo la lavorazione manua-le. Per l’industria della lana, la filatura meccanica della lanacardata tende ad imporsi dal 1820, ma la meccanizzazione pro-gredisce lentamente per la lana pettinata. L’industria delle stof-fe rimane ancora molto più artigianale che industriale, e a Reimssi contano solo 5 o 6 grandi fabbriche 300 piccoli laboratori.Nell’industria della seta il perfezionamento del metodo Jacquardprosegue fino al 1850, ma senza imporre l’abbandono delle strut-ture artigianali.

Questa irruzione del macchinismo non manca di colpirele menti che sono allora in grado di constatare la giustapposizione

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nella stessa industria, nella stessa città, di tipi estremamente lon-tani di organizzazione meccanica. Nel 1849 Adolphe Blanquidescrivendo le tecniche produttive dell’industria cotoniera nel-la città di Rouen oppone “tre tipi di fabbriche”: quelle che utiliz-zano ancora arnesi artigianali, “vecchi banchi a fusi che dovrebbe-ro essere relegati nei musei di curiosità”, quelle che introducono i“buoni motori idraulici o a fuoco” e infine, le più perfezionate, le

fabbriche montate su un piede formidabile con dei banchi di 600 fusi, asvuotamento meccanico, dove non è stato lasciato all’uomo nulla chepossa discutere, ricordano la superiorità dell’artiglieria moderna su quelladei tempi passati(19).

Questa classificazione in termini di progresso, questo rigetto del-l’artigianato nell’arcaismo e nella derisione, illustrano una formadi pensiero che non poteva mancare di costituirsi di fronte allarapidità di queste trasformazioni. Questo sviluppo del macchinismodetermina, nei punti limitati dove si produce, delle concentrazio-ni di manodopera sconosciute o poco conosciute nel secolo pre-cedente, provoca uno spostamento della manodopera dalla cam-pagna verso la città che spiega in parte la crescita della popolazio-ne urbana. Ma provoca anche un fenomeno di dequalificazionedei ruoli di produzione. Al lavoro artigianale che esigeva un lungoapprendistato, succede un nuovo tipo di lavoro che esige solo qual-che ora di formazione. Lo sviluppo del macchinismo rende allorapossibile l’utilizzo di una manodopera non qualificata, esterna aiquadri sociali tradizionali. La statistica del 1847, stabilita dal 1840al 1845, indica che si contano nelle 63 province 254.000 donnecontro 672.000 uomini nelle industrie di più di 10 operai. I bambi-ni sarebbero nel numero di 131.000, particolarmente concentratinell’industria del cotone. Nell’Alto Reno si contano 13.000 bam-bini su un totale di 61.000 salariati e nella Senna Inferiore 15.000su 86.000 (20). Fa così la sua comparsa, assieme ad una situazione dibasso salario, un rapporto nuovo dell’uomo con lo strumento dilavoro che si sviluppa poi particolarmente durante il corso di que-sti anni. Come scrive nel 1848 Adolphe Blanqui, questo nuovolavoro operaio si trova “sottomesso all’ordine delle macchine” (21):all’artigiano che organizzava il suo lavoro e che conosceva i suoiarnesi dopo un lungo apprendistato, succede il manovale che su-bisce una disciplina rigorosa e esterna, che ignora il funzionamentocomplesso della macchina e che non ha bisogno di nessun ap-prendistato prolungato.

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C. – Questa estensione della grande industria nella primametà del XIX secolo avrà per conseguenza l’espansione del si-stema capitalistico di produzione, in particolare la sostituzionedel capitalismo industriale al capitalismo commerciale. Lasubordinazione tradizionale della produzione al commercio,farà posto ad un’inversione di questo rapporto, alla subordi-nazione del commercio al capitalismo industriale. Simultanea-mente si forma una nuova classe e una nuova frazione di clas-se, quella degli imprenditori industriali (22).

Senza dubbio il XVIII secolo comportava dei fenomenicomparabili in certi settori della produzione, ma a quell’epocaquesta costituzione del capitalismo industriale rimaneva limita-ta alle industrie nelle quali l’attrezzatura era particolarmentecostosa. Così l’industria mineraria, e particolarmente l’estrazio-ne del carbone, era passata verso la metà del XVIII secolo dallemani di piccoli imprenditori privati a grandi compagnie comela Compagnia d’Anzin (23). Queste società già avevano una for-ma di società per azioni: formate da ricchi finanzieri, negozian-ti e armatori, e contavano tra i loro azionisti nobili e magistrati.Ma questi capitali industriali rimanevano limitati a settori parti-colari. Nel tessile, al contrario, la concentrazione si era operatatra le mani del capitalismo commerciale e l’industria della setadi Lione offriva l’esempio tipico di questa concentrazione delcapitale tra le mani del mercante-fabbricante. Il mercante-fabbri-cante di Lione fornisce alle imprese la materia prima e i dise-gni, può fornire all’artigiano anche l’anticipo necessario per l’ac-quisto delle attrezzature, ma si limita alle operazioni commercialie non investe il suo capitale in una fabbrica centralizzata.

La decadenza dell’industria domestica sottolinea laregressione di questo tipo di capitalismo e, con l’avvento dellagrande industria, l’avvento del capitalismo industriale. Oramaila concentrazione si opererà non più nelle mani del commer-cio, ma nelle mani dell’industriale che continuerà l’accumula-zione dei mezzi di produzione. Questa nuova forma di concen-trazione colpisce sin da allora i settori di produzione che nonavevano cessato fino ad allora di appartenere alla piccola indu-stria. Non soltanto le filande fanno sparire le vecchie impresedi campagna e minacciano di assorbire i lavori di tessitura, mala concentrazione colpisce anche la confezione dei vestiti e del-la stoffa. A Parigi si diffonde il primo magazzino di confezioni,a place des Victoires, all’insegna di Bonhomme Richard (24). L’in-venzione della macchina da cucire, verso il 1830, rende possibi-le lo sviluppo della confezione e permette in questo ambiente

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tradizionalmente affidato a piccoli laboratori la formazione diuna produzione di tipo capitalista.

Questa conquista dell’economia da parte del capitalismoindustriale determina in quest’epoca un insieme di conseguen-ze complesse sulle modalità di rapporti fra i produttori, sulleforme di lavoro e sulla distribuzione delle ricchezze. Laregressione dei laboratori artigiani segna la fine di un tipo dirapporto che esisteva tra il capo operaio e i suoi compagni e lacomparsa di una relazione nuova, ovvero l’assenza di relazionetra l’imprenditore industriale e l’operaio. Come scrive T. J.Markovitch a proposito della distinzione tra l’artigiano e la fab-brica:

La distinzione essenziale tra l’artigianato e l’industria sta nel fatto che ilpadrone artigiano esegue gli stessi lavori (manuali) dei suoi operai,mentre il padrone industriale non li esegue e ricopre esclusivamentefunzioni di direzione(25).

Il capo artigiano è contemporaneamente padrone e operaio, ilcapo industria è esclusivamente il direttore. Il capitalismo indu-striale prosegue la divisione del lavoro e la specializzazione inizia-te nelle forme anteriori della produzione, ma fa apparire un tiponuovo di divisione poiché ormai l’operaio si vede relegato nel la-voro esecutivo, mentre la responsabilità dell’organizzazione è or-mai concentrata tra le mani del capo d’industria. Nello stesso tem-po il salario assumerà un nuovo significato: rivestirà sempre piùl’apparenza di un rapporto strettamente impersonale e materialetra l’esecutivo e una personalità lontana o una società anonima.Tutto il contesto dei rapporti personali e delle conoscenze checircondava il lavoro artigianale tende a sparire a misura dell’esten-dersi delle imprese capitaliste. Così si svilupperanno due tipi so-ciali sconosciuti o meno conosciuti nell’epoca precedente: il tipodi imprenditore capitalista che dirige le sue fabbriche senza esserenecessariamente presente e il cui potere cresce a misura dell’esten-dersi delle sue fabbriche e dall’altra parte il tipo d’operaio o ope-raia che vive esclusivamente del suo salario, privato di ogni respon-sabilità nell’impresa e relegato alle funzioni esecutive. L’opposi-zione si approfondisce non solo tra la nuova proprietà industrialee il salariato, ma anche tra un’attività caratterizzata dalla relativaindipendenza, lo spirito d’impresa e l’attività spersonalizzata doveogni manifestazione particolare sembra proibita.

Proudhon e Marx considereranno in primo luogo questiaspetti sociali del capitalismo e li organizzeranno attorno alla

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nozione di appropriazione del lavoro. Ma importa, prima dicercare come Proudhon interpreta la struttura economica delsuo tempo, sottolineare che questa dicotomia sociale tra capita-le e lavoro, costituendo l’opposizione delle classi, non era l’uni-co segno di questa evoluzione. Bisognerebbe in particolare mo-strare, in questi primi anni del XIX secolo, le trasformazioni so-pravvenute nell’ambito della gestione delle imprese, nella crea-zione dei circuiti finanziari, nel controllo economico dello Stato.

L’espansione delle imprese obbligava i capi industriali aintrodurre nella loro attività una razionalità e una contabilitàmolto lontana dai calcoli sommari dei quali poteva acconten-tarsi l’artigiano. La concentrazione orizzontale o verticale im-poneva di sottomettersi alla misura di fattori multipli e di ope-rare un calcolo rigoroso dei costi e dei benefici. La rapida diffu-sione degli scritti economici dopo il 1815 e l’introduzione nelvocabolario di concetti quantitativi poco conosciuti prima (pro-dotto lordo, prodotto netto, statistiche) confermano questointeresse per la razionalizzazione della produzione, interesseimposto dai mutamenti industriali. Non è un caso che la mo-narchia di Luglio fu il primo periodo dell’economia franceseche organizzò sistematicamente la diffusione delle informazio-ni statistiche nell’ambito dell’economia. Infatti è nel 1839 chefu ordinata la prima grande inchiesta industriale che fu con-dotta dal 1840 al 1845 e pubblicata iniziando dal 1847 (26). Que-sta prima inchiesta, che doveva essere metodicamente prose-guita con quella del 1861-1865 (27), mostrava per la prima voltauna sintesi della produzione nazionale con una estensione euna precisione che non avevano potuto raggiungere né l’in-chiesta di Tolosan alla vigilia della rivoluzione, né la “statisticadei prefetti” durante il periodo napoleonico. Conteneva quin-di dei dati quantitativi precisi sull’attrezzatura industriale delleimprese e la loro localizzazione, il volume d’affari, il valore dilocazione degli immobili industriali, il valore globale dei pro-dotti fabbricati e delle materie prime utilizzate e anche il nu-mero degli operai (uomini, donne e bambini) ed il loro salariomedio giornaliero. Così si può datare in questo inizio del XIXsecolo l’apparizione di una nuova rappresentanza dell’attivitàeconomica come oggetto unificabile in una conoscenza apredominanza quantitativa (28).

Certo bisognerà aspettare il Secondo Impero per vederestabilirsi una nuova concezione del sistema bancario come mezzodi espansione delle imprese industriali, però la Restaurazionepermette l’organizzazione di nuovi circuiti finanziari meno sfa-

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vorevoli allo sviluppo industriale di quanto lo fossero preceden-temente. Sotto l’Impero nessun prestito era stato emesso e nes-sun appello era stato fatto al credito pubblico e così il bilancionazionale non era né pubblicamente discusso né unificato (29).Dal 1818, al contrario, il governo lancia un prestito pubblicodestinato a realizzare il rimborso anticipato del contributo diguerra e permette al Debito pubblico di attirare sempre piùnumerosi acquirenti abbassando il minimo d’iscrizione (30). Leleggi del 1822 e 1827 stabilirono in maniera definitiva le regoled’unità e di periodicità obbligatorie del bilancio. Anche se que-ste riforme rimasero prudenti e senza dubbio arretrate rispet-to ai nuovi bisogni dell’industria, esse organizzarono progressi-vamente il credito e nello stesso tempo impegnarono defini-tivamente la responsabilità dello Stato nella gestione delle fi-nanze pubbliche.

In effetti, se questi primi anni del XIX secolo segnano lanascita dello sviluppo del capitalismo, impegnano anche que-sto sviluppo in un quadro di un controllo parziale dello Stato oper lo meno creano un rapporto stretto tra le istanze politichee i poteri economici. Senza dubbio la lontana tradizione delcolbertismo si trova ufficialmente ripudiata e il governo si impo-ne di non intervenire nei conflitti tra proprietari industriali eoperai; ma in realtà gli industriali e i grandi proprietari terrierinon cessano, durante tutto questo periodo e secondo le flut-tuazioni delle congiunture economiche, di esigere dal governodelle decisioni favorevoli ai loro interessi, con il mantenimentoe l’incessante revisione dei differenti regimi di protezione. E sisa che questo sistema protezionistico poteva effettivamente ave-re delle conseguenze favorevoli per un’industria, come potevadimostrare, ad esempio, l’industria della barbabietola che, ro-vinata nel 1815, si trovava invece molto fiorente nel 1830, gra-zie a una legislazione protezionistica. Già da quest’epoca, e pri-ma dei dibattiti che si sarebbero sviluppati tra i teorici del libe-ro scambio e i difensori del diritto di protezione, i rapporti di-retti ed efficaci si trovavano organizzati tra il politico e l’econo-mico in seno a questo capitalismo parzialmente rimesso all’im-presa privata.

3. - Il rifiuto delle strutture capitalistiche.

Possiamo tentare adesso di confrontare queste struttureeconomiche degli anni 1840 con il modello socioeconomico

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che doveva opporre loro Proudhon sia nella parte critica dellasua opera che nei suoi progetti di riforma. Dobbiamo tentare diprecisare la distanza tra la realtà economica e la teoria e verificarein quale misura la coscienza che Proudhon poteva avere della suacontestazione, corrispondeva comunque alle distanze effettive.

Notiamo in primo luogo che la riflessione di Proudhon apartire da Premier Mémoire sulla proprietà prende per oggettoqueste nuove strutture economiche in via di costituzione dal1815. Già da questa data, e più particolarmente dal 1846 nelSystème des contradictions, sono i problemi posti dallo sviluppoeconomico e dal settore industriale che diventano oggetto del-la sua riflessione. Come indicano i titoli dei capitoli del Systèmedes contradictions, sono i problemi della divisione del lavoro, delmacchinismo, del monopolio che sono motivo di riflessionecome oggetto di sapere e oggetto di scienza. Non in ragionesolo del loro carattere realistico, ma anche in ragione del carat-tere predominante nella totalità sociale. È in effetti dalle contrad-dizioni instaurate dopo la rivoluzione del’89 nelle nuove struttureeconomiche (31) che deve derivare il cambiamento sociale che tra-scina un mutamento fondamentale della società. Proudhon rico-nosce dunque, come avrebbe fatto Marx, a queste strutture eco-nomiche nuove un privilegio storico, decisivo, quando in realtàqueste strutture erano ancora lungi, soprattutto nella Francia de-gli anni 1840, di estendersi alla totalità dell’attività di produzione.In questa economia nazionale dove predomina la produzione ru-rale e artigianale, Proudhon elegge il settore economico più dina-mico ad agente essenziale della storia. Nello stesso tempo questosettore è visto come oggetto e come oggetto esterno all’osservato-re. Secondo una prospettiva che bisognerà interpretaresociologicamente, Proudhon si rifiuta di considerare dall’internoil sistema proprietario e di comprendere i tentativi incessantementefatti per superare le sue difficoltà di funzionamento. Invita il letto-re ad uscire dal sistema mettendosi di fatto a distanza e a conside-rarlo come un sistema deteriorabile e già condannato a sparire.La coscienza della morte necessaria di un sistema economico ob-bliga a intravederlo come una cosa o come un destino. Il rapportodefinito tra il lettore e il sistema si stabilisce come un rapportod’alterità e di estraneità.

Confrontare oggi le strutture economiche degli anni qua-ranta e il modello proposto da Proudhon nel Système des contra-dictions è fare apparire un’ampia distanza tra i dati e l’interpreta-zione teorica, tentare una comparazione largamente fuori livello.L’opposizione tra la complessità dei fenomeni e la logica che co-

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struisce Proudhon appare, in particolare, a livello dell’integrazio-ne delle strutture: essa distanzia una realtà diversa, eterogenea eun sistema intellettuale di un grande rigore logico.

Come hanno rapidamente indicato le note precedenti, lasocietà economica degli anni quaranta non costituisce un’uni-tà fortemente integrata. Si assiste al contrario durante questoperiodo alla comparsa di contrasti violenti tra i differenti tipi diproduzione che rilevano in qualche modo fasi distinte dell’atti-vità produttiva. Alcune forme di produzione rurale risentonoin qualche modo dell’Ancien Régime, allorché le concentra-zioni industriali sembrano costituire l’aspettativa di ciò che di-venterà la regola a fine secolo. Ma nel seno stesso del settoreavanzato della produzione industriale sbagliamo a costituire unmodello globale che renderebbe conto dei tratti essenziali diquesta economia complessa. Vi distinguiamo più esattamentedelle tendenze caratteristiche che si ritrovano in modo discon-tinuo nelle imprese distinte e che offrono in qualche modo dellestrutture differenti e male integrate. A livello delle organizza-zioni industriali una certa coerenza può essere messa in eviden-za tra l’estensione delle imprese, la concentrazione e lo svilup-po del macchinismo. Ma non è evidente come credette Prou-dhon che queste trasformazioni tecniche portassero necessa-riamente ad una riduzione generale dei salari e scatenasseroun meccanismo di pauperizzazione. La grande industria facevaanche emergere una nuova divisione del lavoro, una nuova di-stanza tra il proprietario industriale e l’esecutore, ma non eraevidente che queste nuove divisioni, mentre favorivano la costi-tuzione di nuove classi sociali, avrebbero radicalmente diviso lasocietà in due classi rivali. E delle ineguaglianze di sviluppo ap-parivano anche tra le organizzazioni industriali e le strutturestatiche dello Stato e, per esempio, la monarchia di Luglio simostrava incapace di favorire lo stabilirsi di un sistema favore-vole allo sviluppo industriale.

Sarebbe dunque molto artificiale pretendere di confron-tare qui due strutture semplici, l’una che noi pretenderemmoastrarre dalla realtà socio-economica degli anni 1840 e l’altrache sarebbe contenuta nella critica proudhoniana. Il caratterescientifico del tentativo proudhoniano si rivela precisamentenello scarto tra la complessità della realtà e la semplificazionedel modello descrittivo e esplicativo proposto. Proudhon si sforzadi tralasciare le difficoltà poste dall’atomizzazione e dalla plu-ralità dei fenomeni, tenta di costituire un modello logico relati-vamente semplice che permetta di trasformare il complesso in

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sistema, di fornire uno schema a partire dal quale l’intelligenzapotrà conoscere le diversità superandole. Questa messa in ordi-ne del disordine si opera nella critica di Premier Mémoire a parti-re dalla prospettiva sintetizzante apportata dalla denuncia del-la proprietà. Facendo della proprietà un furto effettivo, o inaltri termini una appropriazione delle forze collettive, Proudhonpropone di ripensare la complessità dei fenomeni economici apartire dal rapporto sociale che unisce e separa il proprietarioe i lavoratori in tutte le imprese di produzione e in tutti i settoridi attività economica. Scartando deliberatamente molteplici pro-blemi che potevano allora porsi su questo punto e le ricercheproseguite dagli economisti sulle leggi e sul funzionamento dellaproduzione delle ricchezze, Proudhon propone una nuova in-terpretazione schematizzante che sostituisce alle ricerche del-l’economia politica una descrizione socializzante di un rappor-to sociale antagonista. Sin da allora tutta la lettura del sistemacapitalista diventa possibile e si svolge su un nuovo piano, quel-lo delle contraddizioni sociali. Il Système des contradictions dovevaproseguire questo audace tentativo e sostituire alla grande com-plessità del reale il rigore di un modello logico fortemente inte-grato. Il regime capitalista appare allora come un sistema di con-traddizioni incatenate, concepibili soltanto con sotterfugi dellalogica e essenzialmente esprimibile in una rete di idee. Proudhonsi difenderà dal rimprovero che gli sarà fatto di sostituire al diveni-re economico un’impalcatura razionale (32), ma continuerà ad af-fermare che c’è necessariamente una distanza tra la complessitàdelle esperienze e la schematizzazione intellettuale, tra lacontemporaneità dei fatti e la necessità di un ordine logico.

Ma se non vi è modo di opporre due strutture forti l’unacontro l’altra, bisogna per contro sottolineare quale rapportosi disegna tra le forme diverse che ordinava la nuova economiae l’espressione che cercava di darne Proudhon.

La critica della proprietà fa apparire una contestazione opiù esattamente un rifiuto globale di un nuovo sistema econo-mico. Questa radicalizzazione del rifiuto si appoggia nellaproblematica proudhoniana sull’interpretazione sociale che èproposta dal regime proprietario. Avendo ricostituito la com-plessità dei fenomeni economici a partire dalla dicotomiasocioeconomica che opporrebbe il capitale e il lavoro, Proudhonpuò ricusare l’insieme di un sistema come un sistema antagoni-sta, come un sistema sociale fondato sullo sfruttamento dell’uo-mo. Ritrovato in tutte le forme dell’attività economica, nell’ot-tenere il benessere nel gioco degli scambi commerciali o nel

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sistema delle imposte, il furto perpetrato dal capitale contro illavoro denuncia l’insieme di un sistema e annuncia l’“impossibilità”del regime proprietario a sopravvivere. Ricusazione economicapoiché è dimostrato che il sistema fondato sull’appropriazionedel lavoro è ineluttabilmente condannato a sparire, ricusazionemorale poiché questa società fondata sull’ingiustizia sociale ledei valori elementari della giustizia e dell’uguaglianza. E in effettiquesta critica, al di fuori dei motivi morali che possono animar-la, colpiva esattamente le fondamenta del capitalismo commer-ciale e del capitalismo industriale, negando la sua propria con-dizione di possibilità. Facendo di ogni beneficio capitalista unfurto, la critica proudhoniana tende a escludere ciò che assicuraprecisamente al capitalismo il suo dinamismo, la creazione di unprofitto e la possibilità di un’accumulazione di capitale destinatoagli investimenti. Nello stesso tempo condanna l’attività capitali-stica nel suo significato immediato di ricerca del profitto e quindiin questo modo denuncia tutto lo spirito del sistema.

Ma questa denuncia globale va di pari passo con una suc-cessione di rifiuti particolari che Proudhon espone successiva-mente nel Système des contradictions e che mostra, al di là del ri-fiuto globale del sistema capitalista, una ricusazione delle diffe-renti strutture che si organizzano già all’inizio del XIX secolo.Proudhon rifiuta di considerare la grande impresa industrialecome la soluzione alle difficoltà economiche e come modellodell’organizzazione economica. Non che neghi la necessità ditale concentrazione o ne proponga la distruzione: si vedrà, alcontrario, nella sua parte costruttiva, che suggerisce un model-lo di organizzazione di queste compagnie industriali (33), che esigeun grande concorso di forze collettive che ritiene indispensabi-li. Ma i progetti proposti rifiuteranno sistematicamente di pren-dere per modello l’organizzazione economica della grandeimpresa, secondo l’immagine proposta dal capitalismo crescen-te. Allorché i fenomeni economici potevano mostrare l’urgen-za delle concentrazioni industriali e far pensare, come afferma-vano gli economisti, che la crescita della produzione dipendevadalla estensione delle imprese, Proudhon sottolinea al contra-rio i pericoli economici e sociali che comportava l’assorbimen-to delle piccole imprese da parte di quelle più vaste. Egli ricollegaquesta critica alla sua denuncia dei “monopoli” affermando chela monopolizzazione di un ramo industriale conduce all’estre-ma sottomissione dei lavoratori e al loro sfruttamento.

L’evoluzione economica offriva d’altra parte l’immaginedi una divisione crescente del lavoro e lì ancora non poteva

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non mancare di dimostrare, dopo Adam Smith, che la progres-sione della produzione industriale trovava una delle sue condi-zioni nella parcellizzazione del lavoro e la specializzazione deiruoli. E in effetti la nuova meccanizzazione dell’industria im-poneva una razionalizzazione del lavoro e una frammentazionedei lavori prima unificati. Qui ancora il Système des contradictionsrifiuta di prendere questa nuova strutturazione come modellodell’organizzazione economica. Senza disconoscere l’importan-za dei problemi posti da questi nuovi fenomeni e l’utilità di unaframmentazione dei ruoli, Proudhon inserisce la divisione dellavoro nel gioco delle contraddizioni economiche per costatarneil fallimento. Il regresso dell’uomo parallelamente al regressodei ruoli, l’abbrutimento dell’operaio, la diminuzione del suosalario conseguente alla specializzazione dei lavori, indicanoche non si può consentire di subire questa divisione, né pren-derla per una struttura ineluttabile.

Allo stesso modo la critica proudhoniana si rifiuta di ac-cettare la meccanizzazione come un modello sufficiente alla so-luzione dei problemi economici. Lì ancora il macchinismo èintrodotto nel vasto sistema delle contraddizioni che il capitali-smo edifica a misura del suo sviluppo e partecipa, come unodei termini dialettici della contraddizione, all’evoluzione delregime proprietario verso la sua fine. Ma più generalmente,come mostrano i testi secondari (34), bisogna notare che Prou-dhon si mostra poco legato a una meccanizzazione avventatadella produzione industriale. Al momento che incominciano anascere delle pressioni per uno sviluppo rapido delle ferrovie,si interroga sull’efficacia degli antichi mezzi di trasporto e sug-gerisce il loro mantenimento. Questa indifferenza riguardo alfenomeno del macchinismo in questa economia sotto la Monar-chia di Luglio, dove l’introduzione delle macchine modifica cosìrapidamente settori interi della produzione, suggerisce ancheuna reticenza in merito alla temporalità propria del sistemacapitalista. Gli economisti potevano in effetti constatare, con larapidità di ricambio delle macchine, con l’accelerazione dellaproduzione, un insieme di fenomeni che indicavano la nascita diuna nuova dimensione temporale, l’avvento di una temporalitàaccelerata, radicalmente opposta ai ritmi tranquilli della produ-zione tradizionale. Il macchinismo costituiva uno dei tratti essen-ziali di questo mutamento dei “tempi sociali” (35) che portava dairitmi rallentati di una società feudale e contadina ai ritmi rapidi diuna società industriale e tecnicistica. Il poco interesse o le reticenzedi Proudhon in merito a questa temporalità del capitalismo sug-

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gerisce che bisognerà cercare in altre strutture economiche i mo-delli che ispirarono la sua riflessione.

Il rifiuto delle strutture capitaliste conduce infine alle mo-dalità del rapporto sociale che il capitalismo pretende intro-durre tra gli individui e che si limiterebbe al libero confrontodelle individualità e degli interessi. La critica delle contraddi-zioni ha dimostrato che questa pretesa è in realtà unamistificazione e che, al di là dell’apparenza del contratto priva-to che unirebbe il datore di lavoro e l’operaio, si costituisce unrapporto sociale che oppone necessariamente il capitale ed illavoro. Come esprime De la capacité politique des classes ouvrières,le leggi apparentemente liberali che furono emanate dalla rivo-luzione dell’89 e che eliminarono gli ostacoli alla libertà d’im-presa, resero possibile un nuovo sistema d’antagonismo nelquale le pratiche individuali sono in effetti determinate dal ri-gore delle contraddizioni sociali. Comunque il liberismo eco-nomico non è una parola vana, si organizza in un sistema giuri-dico che rende possibile la libertà, per la proprietà, di costitui-re un potere assoluto e di opprimere il lavoro accaparrandose-ne la forza. La critica del furto capitalista mostra che questalibertà effettiva, che è quella della proprietà, non è in realtàche una forma di dispotismo. La schiavitù del lavoro, lo sfrutta-mento dell’uomo, l’estensione della miseria, la ripetizione del-le crisi, possono considerare come loro causa prima questa li-bertà dei capitalisti, questa anarchia essenziale dell’economiache nessuna unità razionale controlla. Il quadro catastrofico del-l’economia proprietaria che dipinge Proudhon, raggiunge quii principi sociali del capitalismo e ne rifiuta sia la teoria che iltessuto sociale. All’immagine liberale di un concerto sponta-neo di interessi privati, Proudhon oppone, secondo l’esigenzagenerale di una socializzazione dell’economia, l’immagine diuna riorganizzazione dell’economia della quale rimarranno dadefinire tutte le regole fondamentali.

4. - La riforma dell’industria

Il rifiuto delle strutture capitalistiche si trova infine con-fermato e chiarificato a livello dei progetti di riforma. In effettila critica del capitalismo non può non comportare delle riser-ve, delle attenuazioni e quindi anche delle ambiguità. Perchése è vero che a livello cosciente Proudhon formula una ricu-sazione del sistema capitalistico interpretato come un sistema

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di sfruttamento necessariamente condannato a sparire, è veroanche che ne sottolinea gli aspetti positivi e fa la distinzione tracerte forme insormontabili dell’economia che si manifestanonel capitalismo, forme che si manifesteranno in ogni tipo dieconomia, e i fenomeni transitori. Questo movimento di pen-siero, che continua nel Système des contradictions e che confrontale antinomie di ogni “epoca”, mette in evidenza la parte positi-va di ogni termine e così sfuma ogni rifiuto di un giudizio par-zialmente favorevole. Senza dubbio la divisione del lavoro è,nel regime proprietario, fonte di abbrutimento dell’operaio edi sottomissione all’impersonalità del lavoro, ma è vero ancheche la divisione del lavoro è la condizione dello sviluppo dellaproduzione e il mezzo di una specializzazione diventata indi-spensabile. Senza dubbio la concorrenza è, in seno all’anarchiaproprietaria, la fonte di incessanti catastrofi per molti produt-tori, ma è anche vero, ed è un principio che Proudhon difende-rà con estrema insistenza, che la concorrenza non deve essereesclusa dagli equilibri economici e che rimane comunque ne-cessaria al dinamismo di una società economica. Queste sfuma-ture potrebbero mettere in dubbio la fermezza del rifiuto dellestrutture capitalistiche e Marx, attenendosi a queste antinomieparziali, ha potuto concludere, nella sua risposta a Système descontradictions, che Proudhon non rifiutava esattamente il capi-talismo, ma che non cessava di oscillare tra l’approvazione e lacondanna. La critica proudhoniana deve dunque essere chiaraper la parte positiva dell’opera, per la dottrina socioeconomicache sarebbe, secondo l’attesa di Proudhon, chiamata a sostitu-irsi al disordine artificiale del regime proprietario.

Non è qui il caso di ripercorrere questa vasta elaborazio-ne teorica concernente la nuova società e che Proudhon desi-gna con i termini di mutualismo, anarchia positiva, federalismo,democrazia industriale o federazione agricolo-industriale. Ci aspettia-mo al contrario che il prosieguo di questi confronti strutturalici permetta di capire meglio questa vasta costruzione e ci im-ponga un ordinamento tematico. Noi possiamo per contro ri-prendere le formulazioni reiterate di Proudhon, particolarmen-te le sue dichiarazioni di intenzione che designano nelle lorograndi linee i significati generali di queste proposte.

Il concetto di mutualismo utilizzato dal 1839, ripreso nel-l’ultimo grande scritto di Proudhon (36), può servire da filo con-duttore a queste poche indicazioni. Questo concetto non cesse-rà di essere pensato in opposizione al distinto, all’unico e all’as-soluto: mentre la proprietà esclusiva si pone come un assoluto,

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la società economica deve fare avvenire la reciprocità dei termi-ni. Mentre lo Stato si pone come un potere unico e oppressivo,la mutualità instaura dei rapporti di scambio e di uguaglianzatra i centri di produzione. Così il mutualismo designa in primoluogo una rete di parti differenti e particolarmente di luoghi diproduzione distinti in cui i rapporti saranno costituiti su basi diuguaglianza. Il mutualismo designa dunque in prima approssi-mazione un sistema di relazioni tra i termini differenziati peropposizione a un sistema omogeneo di centralizzazione com-piuta. Così Proudhon non cesserà di opporsi al “dirigismo go-vernativo”, che egli definisce come un sistema unitario che as-sorbe le parti sotto una direzione unica, allo stesso modo che il“comunismo”, che egli definisce come un sistema omogeneodove si cancellerebbero le individualità e le differenze. Ilmutualismo prende così per fondamento e nello stesso tempoper principio un pluralismo sociologico ed economico consi-derato come una soluzione necessaria all’organizzazione eco-nomica. L’analisi sociologica serve qui come giustificazione te-orica delle proposte economiche (37); se il pluralismo economi-co deve essere preso come principio dell’edificazione socialistaè perché il mondo sociale è costituito da elementi essenzial-mente irriducibili, dialetticamente collegati e le cui relazioni econtraddizioni assicurano il mantenimento della vitalità eco-nomica. Sarà un’idea incessantemente ripetuta da Proudhonche l’unificazione economica in un centralismo monoliticoavrebbe necessariamente per effetto la distruzione del dinami-smo economico e le condizioni stesse della produzione. Biso-gnerà dunque che siano rispettate, contemporaneamente aduna certa libertà dei centri di produzione, le loro differenze edil loro pluralismo e che si costituisca un tessuto sociale e politi-co che garantisca il mantenimento di questo pluralismo econo-mico. Questo principio si troverà giustificato sul piano logicoquando Proudhon, negando le tentazioni che erano state an-che le sue nel 1846, denuncerà nell’idea di sintesi una mitolo-gia a carattere statale e affermerà senza ambiguità l’impossibili-tà di superare totalmente le contraddizioni sociali e la necessitàdi controbilanciarle in equilibri dinamici.

In secondo luogo il concetto di mutualismo designa i rap-porti particolari di associazione e di solidarietà che dovrannocostituirsi fra i differenti centri di produzione. Se il mutualismopresuppone una pluralità di centri, designa nello stesso tempoquesta integrazione particolare dei differenti centri di produ-zione in un sistema che li unisce senza distruggerli. Qui ancora

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Proudhon fonda questa “associazione” economica sul princi-pio sociologico della solidarietà effettiva nell’attività sociale. Lasua analisi del lavoro ha in effetti dimostrato il carattere essen-zialmente sociale della produzione, con la creazione dinamicadella forza collettiva come sintesi degli sforzi individuali. L’ana-lisi del lavoro fa apparire questa realtà specifica del sociale chesi manifesta particolarmente nella coesione degli sforzi e la so-lidarietà dei lavori, realtà che non trascende gli individui, mache li unisce in una totalità non riconducibile ai suoi elementi.Il mutualismo conferma e giustifica così i due “lati correlativi”della “legge fondamentale del lavoro”, che sono la divisione dellavoro e la forza collettiva (38): il mantenimento necessario delladifferenziazione dei centri di produzione prolunga la necessitàdella divisione del lavoro, come la solidarietà e le differenti formedi associazionismo prolungano la specificità della forza collettiva.Allo stesso modo che il pluralismo economico si opponeantiteticamente al governamentalismo e al comunismo, l’associa-zione che costituirebbe il mutualismo si opporrebbe all’individua-lismo dell’economia proprietaria rendendone impossibile l’acca-parramento del lavoro da parte del capitale. Sarebbe proprio diuna organizzazione economica mutualista di trasformare ogni isti-tuzione della società economica in funzione necessaria all’attivitàcollettiva e di fare di ogni produttore un membro “societario”,partecipe all’atto comune e al consumo dei prodotti (39).

Il mutualismo definisce così uno spazio sociale essenzial-mente pluralista e solidale, costituito da elementi relativamen-te autonomi e dialetticamente uniti, dove le forme di solidarie-tà, lungi dall’assorbire le differenziazioni, ne sarebbero al con-trario il risultato. I differenti poli di produzione conservando laloro autonomia e la loro libertà si costituiranno reciprocamen-te come dei limiti reciproci nello stesso tempo che si opporran-no, nel modello politico del federalismo, all’eventuale assorbi-mento da parte dello Stato (40). Questo conferma l’importanzadata da Proudhon al mantenimento della concorrenza econo-mica fra i produttori e fra i centri differenziati di produzione.Contro le minacce contenute nell’estensione dei monopoli,Proudhon afferma la necessità della concorrenza come princi-pio regolatore dell’attività collettiva; purché la concorrenza nonsia abbandonata all’anarchia liberale e alla casualità dei conflit-ti, non abbia più per fine un’accumulazione dell’appro-priazione del lavoro e permetta l’espressione della “spontanei-tà sociale”, la giusta “costituzione del valore” (41), e serva di sup-porto all’associazione vera dei produttori. Così in questo siste-

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ma essenzialmente pluralista, costituito da produttori e centridi produzione distinti, l’atto fondamentale dell’azione di pro-duzione sarà sicuramente quello dove si ricreeranno e si deci-deranno tra i poli di produzione i rapporti effettivi dell’econo-mia: l’atto del contratto. Lo stabilire i contratti economici, fis-sando i diritti e gli impegni per un tempo definito, atto per ilquale ogni unità di produzione abbandona una parte della sualibertà senza perdere la sua autonomia, caratterizzerebbe almeglio questa attività economica fatta di scambi concorrenzialifra poli economici differenziati.

Queste prime indicazioni suggeriscono la costituzione, nel-la teoria economica di Proudhon, di un’immagine essenzial-mente analitica dello spazio economico, dove i poli della pro-duzione sarebbero le imprese di piccole dimensioni, se non ar-tigiane. Comunque questa immagine, che sembrerebbe privile-giare la parcellizzazione industriale in un sistema statico del-l’economia, deve essere immediatamente corretta da un’altraprospettiva che privilegia al contrario l’organizzazione dei lavo-ri all’interno delle imprese e che mostra l’importanza e la nor-malità delle grandi imprese industriali.

Il problema delle imprese industriali si trova posto giànel 1840 nelle Premier Mémoire in merito all’analisi del furto pro-prietario. La risposta che viene data prende spunto non dai fur-ti che potrebbero introdursi nel gioco degli scambi, (l’aggiotaggio),ma dal furto che opera l’imprenditore di forze di lavoro con lanon restituzione del prodotto a quelli che l’hanno effettivamentecreato. Il furto descritto nelle Mémoire designa bene il plusvalo-re prodotto dal lavoro degli operai e accaparrato dal proprieta-rio con i mezzi di produzione (42). Quindi si trova al centro dellacritica l’impresa industriale, in quanto centro dell’economia ein quanto organizzazione che deve essere oggetto di una rifor-ma radicale. Questo punto deve essere sottolineato perché im-pegna tutta la definizione di mutualismo. Preso in effetti limita-tivamente, il mutualismo potrebbe concernere solo i rapporti tra ipoli di produzione, oppure le regole di scambio, senza toccare lestrutture dell’impresa industriale. In questa prospettiva, i proble-mi essenziali non sarebbero quelli delle regole commerciali(garantismo, assicurazioni, imposte) e concernerebbero solo l’or-ganizzazione di uno spazio economico, spazio pluralista, tra i polidistinti e impegnati in un rapporto di uguaglianza. Allo stessomodo, in questa prospettiva, nelle misura in cui sarebbe diminui-to il problema delle strutture dell’impresa, si potrebbe pensarerapidamente che Proudhon si sia preoccupato solo di rendere

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egualitari i rapporti di scambio tra i centri di produzione percepitiessenzialmente come imprese individuali o di medie dimensioni.

La critica iniziale che formula la denuncia dell’appro-priazione capitalistica apriva un’altra direzione e annunciaval’urgenza di una distruzione dei rapporti sociali immanenti al-l’impresa e la necessità di opporre a questi rapporti una nuovaorganizzazione dell’impresa stessa. Nello stesso tempo questariflessione doveva condurre a riconoscere l’importanza econo-mica della grande impresa, a sottolineare la sua utilità e con-temporaneamente a esigere una riforma completa delle suestrutture. E in effetti il problema della grande impresa si trove-rà ampiamente trattato dal 1849, quando Proudhon cominceràa formulare i principi della liquidazione dell’economia proprie-taria e dell’organizzazione delle forze economiche. Proudhonsottolineerà allora l’evidente necessità della grande impresa, perassicurare il massimo di produzione e anche di “libertà” (43); in-dicherà che ogni sfruttamento che esige il concorso di moltioperai e la combinazione di molte specializzazioni differentideve diventare centro di una “compagnia di lavoratori” (44).

Si tratta quindi qui, non più soltanto di regolamentare irapporti tra i centri differenziati, ma di riorganizzare la grandeimpresa, di tracciare uno schema strutturale nuovo, suscettibi-le di integrarsi nell’economia ugualitaria e dinamica voluta.Proudhon traccia qui le grandi linee di questa strutturazionesocioeconomica valida per le grandi imprese industriali (ferro-vie, miniere, fabbriche), per i sistemi di credito pubblico, per legrandi organizzazioni commerciali (docks, depositi) e i mezzidi comunicazione. Le compagnie operaie, invece di essere sot-tomesse alla volontà dell’imprenditore e al capitale, dovrannoin primo luogo essere detentrici dei mezzi di produzione del-l’impresa. Ogni membro dell’associazione, qualunque sia la suafunzione, possederà un diritto indivisibile della proprietà dellacompagnia (45) che sarà dunque detenuta soltanto dall’insiemedei produttori che ne faranno parte. I produttori associati par-teciperanno così direttamente all’attività dell’impresa, dovran-no partecipare ai benefici come parteciperanno alle spese dellacompagnia. In più i regolamenti e le decisioni che saranno adot-tate dovranno essere sottoposte alla volontà degli associati; lefunzioni che saranno assunte dai differenti membri dovrannoessere sottoposte all’elezione e alle regole della revocabilità.Proudhon aggiunge che questa partecipazione diretta di tuttigli associati alla gestione dell’impresa potrà essere effettiva solose l’operaio non è condannato a un ruolo parcellare, ma è prepa-

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rato, con una “educazione enciclopedica” (46) e con un apprendi-mento polivalente, a occupare temporaneamente impieghi diffe-renti e a comprendere l’insieme del funzionamento dell’impresaalla quale è associato. Nota ancora che questo controllo collettivodell’attività industriale non manca di incontrare delle difficoltà inragione dell’inesperienza della classe operaia e dell’ “insufficien-za della sua visione” (47), ma il mantenimento di questa gestionediretta resta il solo modello sociale suscettibile di assicurare la verasubordinazione della produzione al popolo.

Rimane infine da sottolineare che questa rappresentazio-ne pluralista dello spazio economico che sembra insistere, con-dannando il governamentalismo e il comunismo, sulla separa-zione e l’autonomia dei centri produttori, non esclude in alcunmodo l’organizzazione dell’economia a livello nazionale. La pre-occupazione di Proudhon sarà di scoprire nuove forme dicentralizzazione economica che evitino contemporaneamentei rischi di una dispersione disordinata e i pericoli dell’assorbi-mento da parte dello Stato (48). È questo che realizzerebbe ilsistema federativo dell’industria e dell’agricoltura e che permet-terebbe il libero confronto delle imprese a livello locale, pro-vinciale e nazionale e assicurerebbe la possibilità, a livello piùgenerale, di prendere decisioni concernenti l’insieme dell’eco-nomia. Proudhon insiste qui sui mezzi economici concreti chepermetterebbero di realizzare questa integrazione particolaretanto lontana sia dalla dispersione liberale che dall’assorbimentocomunista: così i sistemi di credito pubblico delle assicurazionimutualistiche, assicurando a tutte le imprese le condizioni delloro dinamismo concernente l’insieme dell’economia a livellonazionale, simbolizza questa nuova integrazione economica con-temporaneamente pluralistica e unificata. Insiste in modo parti-colare sull’organizzazione a livello nazionale di una contabilitàeconomica e sulla istituzione delle statistiche. Si aspetta da questestatistiche economiche che rendano coscienti i rapporti tra lemolteplici imprese, che permettano ai produttori come ai distri-butori di conoscere esattamente i bisogni e i prezzi e così di disci-plinare il mercato e di ristabilire i rapporti di uguaglianza, ma siaspetta anche da questi calcoli di contabilità che servano da stru-mento ad una previsione economica permettendo così l’organiz-zazione della produzione verso il suo avvenire (49).

Tre tratti essenziali sembrano dunque sottendere questarappresentazione sintetica dell’economia mutualistica. Con lacostituzione di una proprietà collettiva e una formazione enci-clopedica, i produttori diventerebbero gli associati e i gestori

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delle loro imprese industriali. Con lo stabilirsi di una mutualitàcontrattuale, i molteplici centri di produzione entrerebbero inun gioco di scambi uguali e reciproci, dove l’individualità diogni polo di produzione sarebbe rispettata e lo spazio economi-co mantenuto nella sua necessaria pluralità. Con la“centralizzazione liberale” delle imprese e le federazioni regio-nali, con l’istituzione di una contabilità nazionale e di statisti-che continuamente aggiornate, le grandi federazioni potreb-bero confrontarsi e le decisioni economiche concernenti l’in-sieme della società economica potrebbero essere prese a livellonazionale. Ad ogni scalino di questa associazione complessa ledecisioni sarebbero prese dagli stessi produttori, dai produttoriimmediati in seno all’impresa e dai loro rappresentanti revo-cabili nelle istanze generali.

5. - Il rifiuto del modello contadino

Se il confronto tra le strutture industriali dell’economialiberale e il modello proudhoniano ci ha permesso di sottoline-are i rapporti di opposizione tra questi termini, conviene cerca-re adesso se lo schema proudhoniano non intratterrebbe deirapporti più stretti con le strutture della produzione agricolanella Francia della Restaurazione. Questa ipotesi non può esse-re respinta senza un esame, perché differenti aspetti del pen-siero di Proudhon sembrano in conformità con l’organizzazio-ne delle produzione agricola.

Così è anche un problema costante di Proudhon quellodi proporre un modello economico che assicuri il mantenimen-to della proprietà contadina (50) e rispetti l’indipendenza delcoltivatore nell’organizzazione della sua produzione. Nello sche-ma piramidale che propone, dal produttore parcellare fino allagrande impresa, Proudhon difende il principio dell’impresa fa-miliare contadina, accettando così l’individualismo effettivodella produzione contadina durante il XIX secolo. Si può esse-re quindi tentati di formulare l’ipotesi di un rapporto omologicotra le forme della produzione agraria e lo schema di Proudhone di ammettere che le strutture contadine sono servite da mo-dello incosciente alla sua elaborazione teorica.

Importa comunque sempre più ricordare che la produ-zione agricola rimaneva, dopo la Rivoluzione, la produzionepiù importante nell’insieme del prodotto nazionale. Il valoredel prodotto agricolo lordo era alla fine della Restaurazione

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più di tre volte superiore a quello del prodotto industriale e piùdi due volte ancora all’inizio del Secondo Impero. Allo stessomodo, dal punto di vista della popolazione, se ci si attiene al-l’opposizione che distingue la popolazione rurale e la popola-zione urbana, secondo la definizione adottata nel 1846 (51), si sache la popolazione urbana rappresentava meno di un quartodella popolazione totale a questa data.

Non sarebbe dunque improbabile che Proudhon, prove-niente da un ambiente di artigiani e contadini, abbia inconscia-mente proiettato su un’economia in piena mutazione una gri-glia immaginaria ispirata dalla frammentazione agraria. Biso-gna ricordare in particolare le caratteristiche parcellari dell’agri-coltura a quest’epoca per trovarvi un’analogia con l’edificioproudhoniano e saremmo portati a interpretare il proudhoni-smo come una reazione teorica di contadini minacciati dall’in-dustrializzazione crescente.

Ora, attenendosi al confronto delle strutture, senza stu-diare l’immaginario o le aspirazioni collettive, non sembra cheuna tale ipotesi possa essere sostenuta.

L’instaurazione di un rapporto analogico tra il plurali-smo delle strutture agrarie e il pluralismo sociologico diProudhon rischia di fissarsi solo a livello della nostra rappre-sentazione. In effetti le strutture agrarie all’inizio del XIX seco-lo non offrivano in nessun modo l’immagine semplice e intelli-gibile di una pluralità di centri distinti e non si riducevano nem-meno alla giustapposizione della proprietà parcellare. Tanto alivello delle strutture di produzione, dei modi di appropriazione,che a livello delle stratificazioni sociali, la classe largamentemaggioritaria, i contadini, non offriva in nessun modo un mo-dello semplice e omogeneo che Proudhon avrebbe potuto ri-prendere sul piano teorico.

Sappiamo che le strutture della proprietà agricola offri-vano verso il 1840 i più violenti contrasti e non rappresentava-no in niente questa democrazia dei piccoli proprietari indipen-denti che La Montaigne nel 1793 aveva voluto stabilire. Sia chele grandi proprietà abbiano potuto essere ricomperate dai loroantichi proprietari al momento della vendita dei beni naziona-li, sia che ricchi borghesi abbiano potuto acquisire delle super-fici importanti, la vendita dei beni nazionali non ha necessaria-mente portato alla divisione dei beni. Secondo le statistichefondiarie del 1836 (52), se si classificano nella grande proprietàle quotazioni superiori a 20 franchi, la grande proprietà rap-presentava circa un quarto delle proprietà fondiarie, ma se si

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considera non più l’estensione del suolo posseduto, ma il valo-re dei terreni, l’importanza della grande proprietà era ancoramaggiore, perché rappresentava circa i quattro quinti del valo-re totale delle proprietà fondiarie. Allo stesso modo le proprie-tà parcellizzate non formavano un sistema omogeneo di unitàgiustapposte; la loro ristrettezza obbligava parecchi dei loroproprietari sia a lavorare come giornalieri presso altri proprie-tari sia ad aggiungere allo sfruttamento dei loro beni la colturadi parcelle affittate. Alla parcellizzazione della proprietà si ag-giungeva la diversità di regimi di sfruttamento che portavano auna differenziazione degli statuti sociali dal proprietario fon-diario, che affidava lo sfruttamento della terra ai suoi agricolto-ri, fino al giornaliero. A questa estrema diversità dei regimi diproprietà corrispondeva necessariamente una grande comples-sità della stratificazione della popolazione rurale. Si stima, sen-za che queste cifre possano essere date per definitive, che lametà delle famiglie contadine si trovava, verso il 1860, priva diproprietà fondiaria. Tra i proprietari, solamente la metà colti-vava esclusivamente i propri beni, vale a dire sufficientemente afar vivere la loro famiglia, l’altra metà doveva completare le suerisorse affittando altre terre (proprietari contadini e proprieta-ri affittuari) oppure più spesso ricercare un salario in aggiunta(proprietari giornalieri). Fra i non proprietari, i quattro quinticostituivano il proletariato agricolo, gli altri trovavano il loroimpiego come lavoratori contadini oppure come mezzadri. Lapopolazione attiva agricola costituiva dunque un’organizzazio-ne sociale fortemente gerarchizzata e ineguale, dove si diffe-renziavano profondamente i grandi proprietari fondiari, i pro-prietari che vivevano coltivando le loro terre, i proprietari chevivevano lavorando oltre che come contadini, come mezzadri ocome giornalieri, i contadini e i mezzadri non proprietari e in-fine i salariati, tra i quali si distinguevano ancora i fattori, i do-mestici e i giornalieri.

Sarebbe dunque illusorio cercare di stabilire un rapportoomologico tra l’unità del sistema proudhoniano e l’insiemedelle strutture agricole, poiché altrettanto bene queste propo-nevano dei modelli molto diversi e contraddittori che andava-no dalle grandi proprietà della Normandia, Piccardia e Ile deFrance e che evocavano la concentrazione di certi settori indu-striali, fino ad una proprietà così parcellizzata che non costitu-iva nemmeno un’unità di produzione. Per contro si può formu-lare l’ipotesi di un certo rapporto tra lo schema proudhonianoe un settore limitato di strutture agrarie, che corrispondeva a

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proprietà medie adattate ai bisogni e alle possibilità di sfrutta-mento di una famiglia. Sarà in effetti una delle rivendicazionidi Proudhon che la terra appartenga a quelli che la coltivano,sia che si tratti di una piccola proprietà pari alle possibilità disfruttamento di una famiglia, sia di una coltivazionepiù grandeche dovrebbe essere affidata a un gruppo di coltivatori (53). L’ipo-tesi di una omologia parziale tra i modelli proudhoniani e que-sto settore molto limitato delle strutture agrarie non dovrebbeessere respinta.

Lo scarto invece si allarga di nuovo se ci si interroga suimodi di funzionamento di queste strutture. Nella realtà econo-mica di questo inizio del XIX secolo è proprio la proprietà checostituisce l’ossatura legale effettiva della produzione agricola.È la proprietà che determina il benessere delle famiglie e defi-nisce il loro posto nella gerarchia sociale. E si sa che a questaimportanza effettiva della proprietà individuale corrispondevasecondo molte testimonianze una vera passione per la proprie-tà fondiaria da parte dei contadini. Il prosieguo della parcel-lizzazione dopo il 1830, la sproporzione dei prezzi delle parcellerispetto al loro rendimento, l’indebitamento dei contadini, causa-to più dall’acquisto di terre che dall’acquisto dell’equipaggiamen-to, confermano questo attaccamento passionale del contadino allaterra, questo rispetto della proprietà considerata sia mezzo di pro-duzione che fondamento di prestigio sociale (54).

Ora è proprio questa proprietà, polo centrale della pro-duzione, che Proudhon denuncia nel suo primo scritto. PremierMémoire dimostra precisamente questo, contro il regime pro-prietario dei contadini, che la proprietà non può in alcun modocostituire il fondamento dell’organizzazione economica comenon potrebbe essere oggetto di prestigio. La critica di Proudhontende sia a dimostrare che la proprietà deve essere eliminatache a formulare una condanna morale, veemente e aggressiva,contro il rispetto religioso dal quale è circondata. Premier Mémoireaggiunge alla dimostrazione che si vuole positiva e scientificaun attacco rabbioso del quale si può pensare che costituiscaun’aggressione contro ogni classe, ogni frazione di classe socia-le, rispettosa della proprietà come di un valore. Senza dubbioattaccando la proprietà e chiedendone la sua liquidazione,Proudhon precisa che non mette in discussione il “possesso”,cioè la restituzione dei mezzi di produzione ai produttori im-mediati. Preciserà nelle sue opere ulteriori che la terra deveessere rimessa a colui che la coltiva, come la fabbrica deve esse-re data in piena proprietà agli operai e agli impiegati. Ma se

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perviene a queste conclusioni, è dopo aver radicalmente spo-stato già in partenza, nella sua critica, il polo generatore dellavita economica: nella sua teoria del possesso rimane fedele aquesto principio fondamentale, che la produzione non è origi-nata dalla proprietà, ma esclusivamente dal lavoro e allo stessomodo il prodotto, poiché non viene dal capitale, non deve an-dare ai proprietari, ma esclusivamente ai lavoratori. In effettiquesta critica non ha per oggetto lo studio della proprietà con-tadina, ma il capitalismo commerciale e industriale. Comun-que la sua critica raggiunge anche la proprietà fondiaria e haper conseguenza di togliere al proprietario terriero il dirittoprivilegiato sul suolo, di negare ogni diritto esclusivo di pro-prietà e di esigere che il suolo non sia che provvisoriamenteaffidato a colui che è in grado di lavorarlo. Allora l’ipotesi chenoi avanziamo provvisoriamente di un rapporto tra lo schemateorico di Proudhon e la frazione contadina dei proprietari sfrut-tatori si trova largamente invalidata; non si capirebbe perché iproprietari, godendo dei privilegi accordati dal rispetto dellaproprietà, avrebbero potuto approvare una denuncia tendentea distruggere il fondamento dei loro privilegi. Saremmo tentatiallora di spostare l’accusa e di ricercare una relazione più stret-ta con quella frazione della classe contadina che era costituitada contadini e mezzadri che potevano rivendicare il possessodei loro mezzi di produzione con l’eliminazione della proprie-tà in quanto capitale. Comunque la marginalità di questo stratosociale e la rarità dei documenti relativi alle loro rivendicazionirendono questa imputazione largamente problematica.

Sembra piuttosto, a questo livello della nostra ricerca, chele concezioni economiche di Proudhon troveranno le loro ispi-razioni generali nella vita industriale degli anni 1840 e precisa-mente in una rottura della concezione rurale dell’economia.Fondando tutta la sua analisi sociale sul lavoro che produce,Proudhon scarta subito l’idea di una ricchezza dovuta alla terrae di una produzione naturale del suolo che le teorie fisiocraticheavevano sistematizzato. La realtà della vita produttiva agricolacon il suo rapporto primordiale con la natura, con la sua dipen-denza naturale, con l’aleatorietà dei buoni e cattivi raccolti, sitrova emarginata rispetto a una rappresentazione urbana indu-striale che fa del centro della vita produttiva non più la natura,ma l’uomo che lavora. Da allora il problema dello scambio tra iproduttori si trova così posto in primo piano; è dato, per la ca-ratteristica essenziale della vita sociale, in un periodo dove iproduttori contadini entravano difficilmente nel sistema di scam-

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bio che caratterizzava già la vita industriale. Verso il 1840 l’agri-coltura, soprattutto nelle piccole proprietà, conservava in largaparte la sua produzione per l’autoconsumo familiare. Tutta que-sta parte dell’attività contadina dipendente da una policolturaa carattere familiare si trova esclusa dallo schema proudhonianoche pone la vita dell’unità produttiva nella rete degli scambiincessanti. In effetti la designazione proudhoniana di un cen-tro produttore non poteva trovare il suo modello nell’impresaagricola, così come esisteva nel 1840, e non poteva trovare unsuo modello nemmeno nella grande proprietà legata al capita-le sfruttatore né nella proprietà parcellare orientata versoun’economia di sussistenza. Ed è proprio, sembra, in un altrosettore della produzione, un settore pienamente integrato neicircuiti commerciali, che bisogna cercare i modelli originali dellarappresentazione proudhoniana.

In più il progetto proudhoniano insiste sulla necessità diuna organizzazione collettiva della società economica. L’ogget-to della riforma è dunque di rimpiazzare l’individualismo, fon-te di furto e di disordine, con una socializzazione egualitariadella produzione. Proudhon organizza la concezione di questaorganizzazione su una rappresentazione spontaneista e fede-ralista insistendo sulla necessità di una organizzazione della pro-duzione e dei produttori stessi in seno a una centralizzazionedemocratica e risolutamente antiautoritaria . Questa rappresen-tazione esige che i rapporti economici e i contratti siano fissatidagli stessi centri di produzione e presuppone che siano effetti-vamente capaci di conoscere i bisogni del mercato, le condizio-ni della produzione, i valori e i prezzi. Ora una tale esigenza disocializzazione non poteva corrispondere alle realtà e alle pos-sibilità di una agricoltura non solidale, non industrializzata eessenzialmente disorganizzata. Il progetto proudhoniano pre-suppone l’integrazione di unità di produzione divenute coscientidelle necessità economiche globali, capaci di gestire matemati-camente la loro produzione secondo una contabilità rigorosa,suscettibili di capire e di trarre profitto dalle statistiche nazio-nali, tutte esigenze queste senza significato per dei contadinimale informati delle necessità commerciali e dei quali più dellametà sono ancora analfabeti (55). Si può pensare che gli inter-venti politici presi a livello delle istanze centrali erano più adat-ti alla realtà contadina, come mostra l’esempio della legislazio-ne protezionistica. Di fronte a un movimento dei prezzi, e perreagire all’abbassamento del prezzo del grano, i contadini sitrovarono uniti non per costituire una federazione agricola se-

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condo il modello proudhoniano, ma per chiedere allo Stato diproteggerli con dei decreti autoritari contro l’importazione dicereali stranieri ritenuti responsabili dell’abbassamento del prez-zo. Questo appello al potere statale e questa assenza totale diun’organizzazione spontanea autonoma, delineava un movimen-to esattamente inverso al progetto proudhoniano.

Così, malgrado alcune analogie parziali, vediamo le pro-poste di Proudhon allontanarsi risolutamente dai modelli con-tadini. Senza dubbio giustifica un certo individualismo econo-mico e difende l’autonomia del produttore, ma questa unità diproduzione avrà per prototipo non l’isolamento del contadino,ma l’unità di un gruppo stabilito secondo le regole della divi-sione e della partecipazione. Questa unità non sarà in alcunmodo assimilata a una monade economica, ma immediatamen-te ripensata in un tessuto di scambio che condizionerà la suaattività. L’unità economica dello schema di Proudhon non esi-ste di per sé. Esiste immediatamente in una attività collettiva eattraverso la molteplicità delle relazioni contrattuali che creaattorno ad essa (56). Privilegiando l’associazione contro l’isola-mento Proudhon si opponeva direttamente all’individualismoeconomico che caratterizzava l’organizzazione contadina. Masi opponeva anche a ciò che poteva sopravvivere, in alcune cam-pagne, dei beni comunali e dei diritti collettivi che potevanofondare una rappresentazione comunitaria o comunista dellatotalità sociale. Lo scagliarsi contro le mitologie dell’amore odella fratellanza va direttamente contro una rappresentazionecomunitaria le cui antiche forme di vita contadina offrivano unsubstrato storico. Benché le ricerche siano scarse su questo pun-to, è possibile che le comunità contadine, forse idealizzate, sia-no servite da modello alle costruzioni ideologiche comuniste,da Morelly a Etienne Cabet. In Proudhon invece, al contrario,il mito della comunità è violentemente condannato a favore diuno schema risolutamente differenziato giustificando le con-traddizioni, le divisioni e la concorrenza, purché queste sianoinserite nei rapporti di mutualità dinamica. E infine una terzapossibilità teorica che si trovava largamente scritta nellaparcellizzazione contadina, quella dello statalismo, si ritrova an-ch’essa violentemente condannata da Proudhon. Si sa che que-st’ultima possibilità era ben reale. Il sostegno che trovarono Na-poleone I e Napoleone III nella classe contadina pare confer-mare l’analisi di Marx che imputa alla parcellizzazione contadi-na l’appello a uno Stato potente se non a un Salvatore cesareo.Su questo punto non c’è soltanto opposizione tra le tendenze

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contadine e le proposte proudhoniane, ma anche contraddi-zione assoluta, poiché è precisamente questa sottomissione auno Stato potente che Proudhon continuamente combatte.

6. - Il modello manifatturiero (artigianato e media impresa)

Dopo aver così opposto il progetto proudhoniano ai mo-delli della grande industria e dell’organizzazione rurale, siamoportati, viceversa, a ricercare i rapporti eventuali tra le strutturedell’artigianato e delle medie imprese e le strutture proposteda Proudhon. Arriviamo quindi ad un’ipotesi che è stata spessosuggerita senza essere approfondita secondo la quale Proudhonavrebbe particolarmente espresso con i suoi scritti l’universoeconomico e mentale della piccola industria così come era or-ganizzata verso gli anni 1840 e 1865.

E senza dubbio bisogna dall’inizio ricordare la grande im-portanza relativa a questo settore della produzione nell’insie-me del prodotto industriale totale e quanto sarebbe falso ricon-durre la storia dell’artigianato durante il XIX secolo a quella diun declino continuo. Al contrario, nei primi anni del secolo, lestrutture artigianali erano sicuramente le più importanti nel-l’insieme della produzione industriale, sia dal punto di vista delprodotto totale che dal punto di vista del numero delle personeimpiegate.

Si sa in effetti che il reddito dell’artigianato nell’insiemedel reddito industriale superava largamente la parte dell’indu-stria propriamente detta. Dai calcoli di T. J. Markovitch la quo-ta dell’artigianato arrivava quasi al 70 % per il periodo dal 1835al 1844, il rimanente 30 % si divideva in modo ineguale tra ilprodotto delle fabbriche e la quota presunta del reddito indu-striale delle campagne. Queste cifre rimangono ancora al disotto della verità perché le inchieste industriali dell’epoca inse-rivano nell’industria tutte le piccole imprese che avrebberodovuto più validamente essere conteggiate nella categoria del-le imprese artigiane (57). È solo molto più tardi, verso la fine delXIX secolo, che il prodotto dell’industria riuscirà a raggiunge-re, e poi a superare, quello dell’artigianato; sotto il SecondoImpero il reddito artigianale era ancora quattro volte più altodel reddito dell’industria propriamente detta (58).

Questa larga predominanza dell’artigianato sull’industriatrova conferma nella ripartizione della popolazione attiva cheresta a quest’epoca in maggioranza utilizzata nelle piccole im-

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prese. Qualunque siano le difficoltà a utilizzare i censimentiprofessionali, poiché le distinzioni stabilite allora tendevano asopravvalutare l’importanza del sistema industriale, si può sti-mare che, su 4.250.000 persone che formavano la popolazioneattiva in questo settore, più di 3 milioni si trovavano allora nel-l’artigianato. Anche al di là di questo periodo, in cui Proudhoncominciò a formulare le sue teorie, gli effettivi della popolazio-ne artigianale erano ancora largamente predominanti: verso il1860-1865 questa proporzione era ancora tra il 70 e il 75 %della popolazione attiva (59).

Questa predominanza della produzione “artigianale” sitraduce in particolare nel mantenimento nelle grandi città diuna popolazione essenzialmente utilizzata nella “arti e mestie-ri”. Dal momento che le grandi industrie si sviluppano fuoridalle città e le industrie estrattive fissano sui luoghi della pro-duzione una popolazione operaia crescente, le città prendono,relativamente, un carattere ancora più artigianale che l’insie-me della nazione. Come è stato spesso sottolineato, la produ-zione industriale della città di Parigi non è dominata, prima del1848, dall’industria propriamente detta, ma dalle molteplicipiccole imprese che raggruppano una larga popolazione dioperai e artigiani, di maestri operai e di “lavoratori isolati”. Lecave di Ménilmontant, di Belleville e di Montmartre, le fabbri-che metallurgiche di Grenelle e di Vaugirard, il porto di LaVillette, non mancano di annunciare lo sviluppo futuro dell’in-dustria e di costituire un proletariato operaio, ma è soltantosotto il Secondo Impero che queste grandi imprese si sviluppe-ranno. Esse si trovano, d’altra parte, in maggioranza nei comu-ni suburbani che saranno annessi verso il 1869. Fino al 1848Parigi è essenzialmente il centro di molteplici imprese differen-ti raggruppanti una popolazione altamente qualificata e di unaeccezionale varietà:

Ebanisti di faubourg St. Antoine, orafi della Rue de Caire, rilegatori difaubourg St. Germaine…tipografi di faubourg Montmartre, calzolai diMontrouge…60),

caratterizzano questa popolazione più che i fonditori di Grenelleo i meccanici di Popincourt. Allo stesso modo, a Lione, l’indu-stria dominante è ancora quella della seta, ripartita in moltepli-ci laboratori.

Inoltre sarebbe ampiamente schematico immaginare unaevoluzione lineare con la quale l’industria avrebbe regolarmente

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distrutto queste antiche strutture e messo il sistema di produ-zione artigianale in situazione di scacco durante tutta la duratadel XIX secolo. Se questo schema è valido in alcuni settori, comeper esempio l’industria del cotone che prima del 1840 avevavisto la filatura industriale assorbire e distruggere i laboratoridi campagna, non potrebbe esserlo per altri dove la media im-presa continua a costituire la forma normale della produzione.Così nell’industria edile come nel commercio al dettaglio, lestrutture artigianali continueranno fino al XX secolo. E co-munque durante la seconda metà del XIX secolo, il numerodelle piccole imprese, invece di scendere, doveva aumentare inproporzione considerevole, passando da due milioni nel 1866a tre milioni e mezzo nel 1896 per raggiungere nel 1906 quasiquattro milioni (61). Perciò un osservatore, interrogandosi, nel1840, sull’avvenire dell’organizzazione economica, e risoluta-mente critico in merito al capitalismo monopolistico, non eraminimamente costretto dagli avvenimenti ad accettare l’elimi-nazione di un’organizzazione pluralista della produzione. Eragià chiaro che la concentrazione era necessaria in certi settorilimitati e non era necessario ritenere queste concentrazionicome una soluzione universale o una fatalità. E anche in queisettori dove le concentrazioni si sarebbero imposte alla fine delXIX secolo, la risposta non era data nel 1840 e sembravano aprir-si delle possibilità diverse. L’esempio della coltelleria di Thiersillustra bene questa situazione in un settore dove la concentra-zione apparirà solo nel XX secolo; la dispersione industrialeera accentuata quanto prima, ma non sembrava costituire unfreno al miglioramento della produzione; i laboratori erano riu-sciti a introdurre nella loro produzione una estrema divisionedel lavoro senza servirsi di una meccanizzazione spinta; eranoriusciti ad abbassare i prezzi fino a fare del loro prodotto l’og-getto di un consumo corrente (62). Non era dunque certo cheun’organizzazione più razionale degli artigiani e delle medieimprese sarebbe fallita abbassando i prezzi dei prodotti.

Comunque, nella nostra ricerca di una struttura econo-mica che poteva fornire a Proudhon un modello per il suo pro-getto, nuove difficoltà sopravvengono in ragione dell’estremadiversità che presentano questi concetti d’artigianato e di mediaimpresa. Una volta scartati i modelli della grande impresa e del-la dispersione rurale, ci troviamo davanti una diversità così con-siderevole che sembra difficile delineare una struttura coeren-te. Comunque, prendendo come guida la nozione proudho-niana di centro di produzione autonomo, possiamo scartare

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numerose forme secondarie (e ce n’erano molte in questo iniziodel XIX secolo, e non conformi a questa nozione). Così possiamoscartare il tipo di lavoro a domicilio che organizzano i padroni indu-striali o i mercanti subappaltando lavoratori temporanei isolati chenon avevano investimenti immobiliari e spesso senza macchinari.Questo modello, dove il lavoratore non gode di alcuna autonomiae non fa altro che vendere solo il suo lavoro a un datore di lavoro,si situa, nella visione proudhoniana, nella categoria dei rapportidi furto e sfruttamento. E allo stesso modo, possiamo scartare illavoro familiare industriale che prosegue nelle campagne e cheresta orientato verso l’autoconsumo, all’opposto della visioneproudhoniana che impegna tutti i centri di produzione nelle leg-gi del commercio e dello scambio.

Arriviamo così a una delimitazione più precisa e a un tipoideale di laboratorio o di manifattura, così come poteva appari-re agli occhi di Proudhon verso il 1840, tipologia che costituivail modello più esteso della produzione industriale e più impor-tante nella creazione del prodotto industriale lordo. È precisa-mente per questo che noi dobbiamo riavvicinare qui i due con-cetti di artigianato e manifattura, perché non sembra che pos-siamo introdurre una cesura netta tra l’impresa artigianale cheraggruppa due o tre compagni e la piccola manifattura che rag-gruppa una attrezzatura più perfezionata e utilizza una decinadi operai. Qualunque sia stato il vocabolario dell’epoca, la di-stinzione può essere solo fluttuante tra un laboratorio pariginodi ebanisteria che raggruppa cinque compagni e un’impresamarsigliese di saponi che ne utilizza venti. E per contro, la di-stanza è estrema tra queste strutture eminentemente diversifi-cate e le grandi industrie, le miniere e le fabbriche che tendo-no ad organizzare con l’impiego di un’attrezzatura massicciauna manodopera numerosa che i contemporanei paragonanoa degli “eserciti” (63).

Possono essere qui considerate tre caratteristiche genera-li che si ritroveranno in questo tipo di organizzazione economi-ca per opporle in effetti al modello della grande impresa indu-striale.

1) Qualunque sia la distanza tra il piccolo artigianato el’impresa manifatturiera, tra i livelli differenti di sviluppo delleattrezzature, possiamo opporre totalmente queste imprese alleindustrie propriamente dette secondo i criteri del rapporto so-ciale che unisce il padrone ai suoi operai. L’artigiano o il mae-stro operaio resta presente nella sua impresa ed è nello stessotempo padrone ed operaio, dirige e nello stesso tempo esegue

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ed effettua un lavoro manuale come tutti gli altri operai. Ben-ché incaricato di un ruolo di direzione e godendo di uno statussuperiore a quello del compagno, partecipa all’attività operaiariunendo in sé i compiti di direzione e di esecuzione(64). Al con-trario, la grande industria potrà caratterizzarsi per la separazio-ne di questi compiti. Da questo punto di vista lo sviluppo delleattrezzature non è il criterio maggiore poiché numerosi piccoliproduttori autonomi sono provvisti di macchine (calzolai, sarti,rilegatori) e le piccole manifatture che noi descriviamo quipossono possedere solo un’attrezzatura limitata. Si sa d’altraparte che in questo periodo dove il macchinismo era poco svi-luppato, l’aumento della produttività proveniva spesso più dauna migliore divisione del lavoro che dall’utilizzo di nuovemacchine.

2) La dimensione ridotta o media di queste imprese face-va sì che si mantenessero i rapporti tradizionali di proprietà.Qualunque sia la complessità del sistema di proprietà in seno aqueste imprese (affitto degli immobili, prestiti a corto e a lungotermine, divisione delle eredità), il modello tradizionale rima-neva la regola generale secondo la quale il maestro operaio o ilmanifatturiere era o poteva essere il proprietario dei suoi mezzidi produzione. Il capitale del piccolo produttore si trovava es-senzialmente investito nella sua impresa o più esattamente ilconcetto di “capitale” non poteva essere utilizzato, poiché lostrumento di lavoro si trovava ancora strettamente legato al suopossessore e alla sua famiglia. Al contrario lo sviluppo delle gran-di fabbriche produceva una dissociazione del capitale e dei mezziimmediati di produzione e nello stesso tempo la trasformazio-ne del bene di produzione in capitale convertibile. E lì ancorala grande differenza di denaro tra l’artigiano isolato e il mae-stro operaio non introduceva una rottura delle forme socialitra l’uno e l’altro. Senza dubbio la distanza tra l’artigiano dilivello economico più basso (manovale, lavoratore a domicilio)e il ricco maestro artigiano è grande; se si ammette che lo scar-to del secolo precedente non si era modificato, si può pensareche andasse da a 1 a 100 (65). Comunque, la forma giuridica effet-tiva del possesso rimaneva la stessa da un estremo all’altro nellamisura in cui il proprietario rimaneva effettivamente l’utiliz-zatore dei suoi mezzi di produzione, immediatamente presentinella sua impresa. E lì ancora una differenziazione totale appa-riva tra questo modo di possesso e la proprietà del “borghese”che vive dei benefici degli investimenti o dell’antico nobile chevive borghesemente delle rendite delle sue terre.

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3) Infine queste imprese diverse conservano un tratto co-mune che deriva dai precedenti, cioè quello di mantenere laloro autonomia nel gioco della concorrenza. Liberate, con larivoluzione dell’89, dalle barriere corporative, queste impresehanno la possibilità giuridica di organizzarsi e di gestire la loroproduzione senza doverne rendere conto né alla giurisdizionestatale o collettiva, né a una potenza finanziaria autoritaria. Inun periodo dove anche il credito alle imprese è inesistente, ilmaestro artigiano, o il manifatturiero, è pienamente capo e re-sponsabile del fallimento e della riuscita delle sue attività. Que-sta autonomia dell’impresa ha per necessario corollario il man-tenimento del pluralismo economico ed è precisamente questopluralismo che le grandi imprese tentano di distruggere, siaperché assorbono le piccole manifatture, sia più spesso perchéla loro migliore produttività determina una diminuzione deiprezzi e porta il piccolo produttore al fallimento.

In effetti tutte le caratteristiche che consideriamo qui, siache riguardino i rapporti sociali di produzione, i ruoli dei pro-duttori, la loro autonomia, il tipo di possesso degli strumenti, sitrovano brutalmente minacciate dall’espansione dell’industriamoderna che impone una riconversione delle strutture di pro-duzione, la regressione dei vecchi modelli della proprietà e inquesto modo il cambiamento delle abitudini, dei modi di vita edei modi di pensare.

Possiamo precisare il riavvicinamento tra le teorie diProudhon e questo tipo di organizzazione economica facendoriferimento all’esempio tipico della seteria lionese. Sappiamoin effetti che Proudhon visse a Lione dal 1843 al 1847 e l’ipotesidi un’influenza dei setaioli lionesi sulla formazione del suo pen-siero è già stata formulata (66). Non c’è dubbio in effetti cheProudhon abbia conosciuto molto bene un certo numero disetaioli, maestri operai o compagni, e i suoi Carnets danno testi-monianza della conoscenza che aveva dell’organizzazionesocioeconomica che costituiva l’industria della seta. Le allusio-ni alla seteria lionese sono particolarmente numerose neiCarnets, dal 1843 al 1847, nel momento in cui Proudhon formu-la gli elementi della sua “Associazione” o “Associazione progres-sista” dalla quale si aspetta la distruzione del regime proprieta-rio e l’installazione di una società egualitaria. Immagina quindiche il movimento di trasformazione sociale potrebbe avere comeorigine un certo numero di setaioli lionesi coscienti della ne-cessità di un tale cambiamento e risoluti a realizzarlo, stima chequesti setaioli sarebbero capaci di impossessarsi di tutta l’ “in-

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dustria della seta” e di promuovere così un movimento che in-vaderebbe tutta la società (67).

L’industria lionese della seta offriva un esempio tipico eparticolare di questa organizzazione industriale fatta di una plu-ralità di imprese autonome rimesse alla libera organizzazionedel maestro operaio.

Vi si trovano, senza ambiguità, le prime caratteristiche delregime di produzione artigianale, l’assenza di distinzione tra lefunzioni di direzione e di esecuzione. Gli 8.000 capi di labora-tori o maestri operai lavorano a domicilio, con la loro famigliae con i loro compagni o apprendisti che utilizzano. Prima di es-sere dei “padroni” per i loro compagni, sono “maestri” del loromestiere di tessitori, avendo una conoscenza tecnica specialisti-ca, sapendo organizzare e svolgere diverse mansioni (da 2 a 6in media) e lavorando essi stessi a fianco della loro famiglia edei loro operai (68). La funzione di direzione conferisce loro unaresponsabilità particolare, ma non li allontana dall’esecuzione.Questa mancanza di distinzione tra i compiti fa mantenere rap-porti diretti e personali tra tutti i membri del laboratorio. Men-tre le grandi industrie raggruppano in uno stesso luogo di lavo-ro degli operai sempre più lontani dai loro datori di lavoro, ilaboratori sparsi riuniscono solo un piccolo numero di compa-gni che stanno fianco a fianco col tessitore che li impiega. Men-tre la grande industria tende ad evidenziare un tipo di re-munerazione per cui l’operaio riceve un salario definito nelquale non può ritrovare il contenuto del suo lavoro, il compagnosetaiolo può ancora distinguere l’apporto del suo lavoro e leragioni della variazione delle somme ricevute. Ricevendo unaparte del prezzo a cottimo (in generale la metà) (69), percepisceun salario che resta direttamente legato a un tempo di lavorofornito e a una certa qualifica (70). Nei momenti di crisi, quandoil capo laboratorio sarà costretto, mancando le ordinazioni, amettere in disoccupazione alcuni compagni, questi potrannocercare le cause della loro miseria nella crisi commerciale o in-dustriale e non saranno necessariamente portati ad accusare iloro datori di lavoro immediati. Questa situazione non elimina-va totalmente i conflitti tra i compagni e i maestri operai, checomunque avevano interessi differenti, ma impediva che le lot-te avvenissero tra loro e rendeva sensibile la loro comunità diinteressi piuttosto che le loro divergenze. Così anche, malgra-do le grandi differenze di statuto e di livello di consumo, il vo-cabolario inglobava sotto lo stesso termine di “classe operaia” odi “classe dei tessitori” i maestri e gli operai. Come scriveva il

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maestro operaio Pierre Charnier:

La classe dei setaioli o tessitori è divisa e suddivisa come la società, ha isuoi poveri e i suoi ricchi, i suoi aristocratici e i suoi umili soggetti… (71).

La seconda caratteristica, il possesso privato dei mezzi diproduzione, si ritrova in questo sistema, ma precisamente sottoforma di possesso e non sotto forma di proprietà capitalistica. Ilcapo laboratorio è proprietario dei suoi strumenti di lavoro; lamanutenzione come l’acquisto di questo materiale gli incom-bono interamente. Ma questo bene di produzione non diventaoggetto di transazione commerciale che sarebbe fonte di pro-fitto, rimane organicamente legato al suo possessore che è allostesso tempo il suo utilizzatore. Secondo la terminologia diProudhon, qualunque vantaggio possa trarre il tessitore dai suoistrumenti di produzione, questi non diventano mai una “pro-prietà”: non sono trasformati in un capitale che sarebbe fontedi profitto di un proprietario nullafacente. Sappiamo che que-sto sistema di possesso aveva dimostrato la sua efficacia econo-mica poiché nel 1830 la situazione materiale dei setaioli eramolto superiore a quella di trenta anni prima (72). Ma l’organiz-zazione del lavoro in questa “fabbrica collettiva”, secondo l’espres-sione di Le Play, doveva rendere acuta la distinzione tra il pos-sesso immediato degli strumenti di produzione e la proprietàdi tipo capitalistico. In effetti se il capo laboratorio è possessoredei suoi strumenti di lavoro, non per questo è veramente pa-drone della sua produzione: egli dipende, in realtà, dal mercan-te-fabbricante o dal fabbricante che gli fornisce il lavoro. Il fabbri-cante si incarica della commercializzazione del prodotto, ma in-terviene anche nella fabbricazione e tiene così sotto la sua auto-rità il capo operaio. Anticipa il capitale, acquista le materie pri-me, le fa tingere, sceglie i disegni, prima di ordinarne l’esecuzio-ne ai capi laboratorio. Ed è appunto questo fabbricante che noncessa di trasformare la mercanzia in capitale e il capitale in mer-canzia, che aspetta il suo beneficio dall’aleatorietà dei mercati,che fissa le “tariffe” ai maestri operai, accantona il “meglio delprofitto” e corrisponde così alla definizione che Proudhon daràdel proprietario. Si può presagire che è proprio da questa sfaldaturasociale che separa i negozianti-fabbricanti dall’insieme dei setaioliche si produrrà il più vigoroso scontro sociale, e non tra i capilaboratorio e i loro compagni. In altri termini, secondo il vocabo-lario di Proudhon, il conflitto andrà a situarsi tra i possessori deimezzi di produzione e i loro proprietari accusati di “furto”.

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Infine la terza caratteristica, quella dell’autonomia dei la-boratori o delle manifatture in un sistema pluralistico, nonmanca di essere iscritta in tutta questa organizzazione, ma an-che con questa dimensione molto particolare di non essere pie-namente realizzata e di essere in lotta con una classe sociale piùagiata che ha dei privilegi superiori. In effetti i laboratori ed imaestri operai che li dirigono sono sicuramente autonomi ecostituiscono altrettanti piccoli centri particolari di produzio-ne. Essenzialmente distinte, queste imprese formano un insie-me sia omogeneo che pluralista dove l’identità delle attività nondistrugge una gestione particolare e personale. In effetti questaautonomia non si è mai realizzata poiché la produzione dipen-de dagli ordinativi del fabbricante, personaggio esterno al lavo-ro quotidiano, le cui decisioni non sono totalmente compren-sibili, ma si sa, particolarmente verso il 1830, che la fortuna sipuò edificare molto rapidamente (73). Si può intuire che il con-flitto tra la classe dei tessitori e la classe dei negozianti potràprendere la forma di una rivendicazione sociale per acquisirequesta autonomia che sembra promessa dall’organizzazionedella produzione e che si trova proibita per la presenza di unaclasse di proprietari. Così si troverebbe intimamente legato uninsieme di significati di rivendicazioni: critica della proprietà edella classe dei proprietari, rivendicazione di una autonomiadei centri di produzione e dei produttori, progetto di una eco-nomia liberata dalla tutela del capitale.

7. - L’omologia delle strutture economiche

Possiamo adesso considerare l’ipotesi di una omologiastrutturale tra, da un lato, questo modello reale, rappresentatodal sistema degli artigiani e dei manifatturieri così come lo illu-stra, in particolare, la “fabbrica collettiva” della seteria lionesee, dall’altro, il progetto socioeconomico proudhoniano. Anchese posti su piani differenziati dell’organizzazione fattuale del-l’elaborazione teorica, queste strutture sono, e in che misura, so-vrapponibili? A seconda dello sviluppo di queste ipotesi dovrem-mo precisare la natura di questo rapporto omologo e verificarese la costruzione proudhoniana debba essere ritenuta una ripe-tizione, una ridondanza incosciente di questa organizzazione,una sua giustificazione naïf, oppure al contrario una lucidareinterpretazione di questo dato storico.

Comunque, prima di esaminare queste ipotesi, bisogna

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ricordare quanto la metodologia proudhoniana investì le strut-ture economiche di carattere di realtà eminente in rapporto atutte le altre forme della realtà sociale. La dicotomia introdottatra la società “reale” e la società “artificiale” (74) designa nellasola attività produttrice, nel lavoro, la forza fondamentale dellasocietà e rigetta tutto ciò che deriva direttamente dall’artificio:il furto o l’illusione. Il rigetto verte in particolare sull’insiemedei fenomeni politici dei quali bisogna pensare, secondo prin-cipi di Saint-Simon, che non fanno che snaturare i rapporti so-ciali autentici che si annodano nell’attività di produzione. Que-sto rigetto verte ugualmente sulla religione, di cui si sa che pre-senta un modello teorico e pratico opposto ai rapporti che siinstaurano in una società economica egualitaria. Questi propo-siti non hanno soltanto un valore dottrinale che non avrebbeeffetto che nella società futura: essi valgono per la società pre-sente qualunque siano le mistificazioni dell’ideologia. Comemostra l’analisi proposta nel Système des contradictions, le struttu-re socioeconomiche sono le strutture predominanti della tota-lità ed è dal loro cambiamento che conviene aspettarsi la rior-ganizzazione rivoluzionaria della totalità sociale. Questi princi-pi generali suggeriscono che non si tratta proprio di vedere laristrutturazione socioeconomica come una delle dimensionirelative della società, ma di ritrovarne nella sua struttura la real-tà fondamentale, quella che organizza il sistema sociale nellapienezza dei suoi caratteri. E anche, nell’opera di Proudhon, leindicazioni che concernono la “liquidazione sociale” e l’orga-nizzazione delle “forze economiche” (75) sono ritenute a livellocosciente come essenziali nella sua dottrina.

La prima omologia che possiamo far apparire tra l’orga-nizzazione artigiano-manifatturiera e la sistematizzazione prou-dhoniana concerne la cellula produttiva, l’ “unità di produzio-ne”, che è il laboratorio. Così come l’impresa particolare formanel tessuto manifatturiero il polo di produzione, Proudhon pren-de per base della sua costruzione il laboratorio come prototipodella “società reale”. La critica iniziale, che conduce all’esigen-za di una rivoluzione sociale denunciando la proprietà privata,poggia su questa realtà socioeconomica che è il carattere collet-tivo del lavoro. L’indicazione anteriore che fa del lavoro la for-za primordiale della società, deve essere immediatamente cor-retta con la definizione del lavoro in quanto attività collettiva.Se la proprietà è un furto non è tanto in quanto accaparramen-to di ricchezza, ma perché si è organizzato l’accaparramentodel lavoro sociale, della forza collettiva che emana da questa

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coesione dei lavori. Si sa che la proprietà non si costituisce checon l’estorsione della forza collettiva che è immanente alle soleforze di lavoro. Tutto questo ragionamento poggia non tantosul lavoro o sulla semplice organizzazione della produzione eripartizione dei benefici, quanto sul carattere eminentementesociale e collettivo del lavoro e perché la divisione e la coesionedei lavori producono una forza essenzialmente eterogenea allasomma degli sforzi individuali per cui il furto è possibile senzache l’apparenza possa farne scoprire la realtà. Il contratto chepermette al proprietario di rimettere ad ogni operaio il salarioapparentemente conforme al suo lavoro, maschera l’appro-priazione con la quale il proprietario retribuisce l’operaio sol-tanto secondo i bisogni del suo mantenimento e conserva l’ef-fetto specifico del lavoro organizzato, la forza collettiva.

Questo ragionamento che si fonda sul carattere collettivodel lavoro e che prende per modello l’associazione dei lavorisecondo le leggi economiche della divisione del lavoro, ha con-temporaneamente per conseguenza di escludere le forme in-dividualiste della produzione e dell’appropriazione. Alle teorieliberali che mettevano l’accento sull’indipendenza necessariadell’imprenditore e sul rispetto della libertà economica,Proudhon oppone il meccanismo della coesione dei lavori, del-la riunificazione effettiva dei compiti, il carattere collettivo del-la produzione. All’immagine dell’imprenditore responsabile del-le sue imprese e padrone della sua attività, Proudhon opponela società immediatamente costituita da una “équipe” di lavora-tori associati investiti del solo potere di creazione economica.Quindi il capitale si trova spossessato di tutto il potere creativo,poiché la forza sociale nuova, la forza collettiva, trova il suo co-stituente soltanto nel gruppo sociale dei produttori immediati.Il capitale è respinto tra le forze antagoniste al lavoro sociale.Questo ragionamento esclude anche il modello di una produ-zione strutturata in modo parcellare. Senza dubbio Proudhonnon escluderà tra i suoi progetti il mantenimento di una agri-coltura parcellare i cui confini corrispondono alle possibilità dilavorazione di una famiglia. Ma si vede che il suo modello nodalerespinge essenzialmente una concezione atomistica dell’attivi-tà economica; la forza collettiva non nasce dai lavori indipen-denti e separati, ma da un’organizzazione sintetica dei lavoricosì come il laboratorio artigianale o la manifattura ne forni-scono un esempio. Così se il lavoro familiare è mantenuto, saràsolo a condizione di integrarsi in un sistema collettivo di credi-to, di assicurazione, di mutualità che ricreerà dei legami tra

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quello che era una volta disperso. Nello stesso tempo bisognanotare che facendo del laboratorio “l’unità costitutiva” (76) dellasocietà Proudhon esclude anche il modello sociale che potevatrovare nell’organizzazione della famiglia. Sottolineerà, e que-sto è indotto dalle note precedenti, che i rapporti famigliariinegualitari sono serviti da prototipo alle società antiche e feu-dali e che non potrebbero servire da modello nelle attività col-lettive essenzialmente egualitarie come esige una società indu-striale. Così non possiamo trovare né nell’individualismo dellaproprietà né nella gerarchia famigliare e meno ancora nellosfruttamento proprietario, il modello e il simbolo dell’organiz-zazione economica futura. Questo modello non può essere tro-vato che nel laboratorio non soltanto perché vi si realizzano irapporti della società, ma anche perché le potenze economi-che reali vi sono effettivamente concentrate.

In secondo luogo, si può stabilire un rapporto omologotra il pluralismo economico del sistema artigianale-manifattu-riero e il pluralismo socioeconomico di Proudhon. Bisogna ri-marcare in effetti che Proudhon non denuncia l’arcaismo diquesto sistema; anche quando si alzano delle voci divergentiche proclamano la decadenza dei piccoli laboratori oppure chevi si rassegnano, non vede in alcun modo la sua scomparsa, macerca al contrario i mezzi per assicurarne la vitalità eliminandolo sfruttamento proprietario. In effetti il mutualismo, come in-dica la sua definizione generale, presuppone la pluralità deilaboratori, il mantenimento di un tessuto socioeconomicopluralista in seno al quale i rapporti di uguaglianza e di recipro-cità siano stabiliti. Nello stesso tempo il mutualismo presuppo-ne che una certa autonomia e, come dice Proudhon, libertà, siasistematicamente assicurata al gruppo produttore. È questo unpunto sul quale Proudhon non cesserà di ritornare e che sotto-linea la sua originalità molto particolare tra i socialisti del suotempo. Come indica con estrema chiarezza il Système des con-tradictions, alla critica dell’individualismo liberale deve corrispon-dere una critica altrettanto rigorosa dell’antiindividualismocomunista che tenderebbe a distruggere l’autonomia dei cen-tri produttori in una omogeneità dispotica. Proudhon intendeper comunismo o comunità, tutte le dottrine che cercherebbe-ro la soluzione sociale in una fusione dell’individualità e delleimprese, in una solidarietà immediatamente affermata senzaconsiderazione delle differenze e delle necessità dell’economia.In Idée générale de la révolution, precisa che il principio generaledell’“associazione” non può essere considerato come una for-

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mula universale che avrebbe in sé magicamente le soluzionisociali e come se il solo fatto di dichiarare comuni degli inte-ressi potesse conciliarli. La divisione del lavoro, la forza colletti-va, la concorrenza, lo scambio, il credito, devono essere messein conto tra le forze economiche reali che assicurano la vitalitàdell’esistenza sociale, per contro il semplice fatto dell’associa-zione non può portare di per sé la crescita della produzione o laconciliazione degli interessi (77). L’associazione può e deve essereutilizzata quando è necessario come nel caso delle miniere o peralcune industrie, è allora utilizzata come un mezzo necessario enon come una soluzione all’insieme dei problemi economici. Ilmutualismo è dunque, come ripete molto chiaramente Proudhonnella sua De la capacité politique des classes ouvrières, opposto a unasoluzione unitaria dei rapporti economici, opposto all’agglo-merazione dei centri di produzione in una omogeneità falsamen-te solidale. Proudhon critica con la stessa veemenza le soluzioni diCabet e quelle di Louis Blanc, rimproverando alle prime di di-struggere l’individualità dei produttori e alle seconde di proporreun comunismo autoritario nel quale il produttore dovrebbe soloubbidire ad un potere governativo (78). Stima che queste soluzioni,malgrado le loro divergenze, non fanno in realtà che riprodurresu un altro piano il dispotismo del capitalismo e non fanno cheprolungarne le tare; esse tendono a costituire una immensa unità,della quale i monopoli capitalistici forniscono un esempio. Ora, ilmonopolio è “antisociale”, e simboleggia esattamente ciò che bi-sogna assolutamente evitare, l’unitarismo economico, la sottomis-sione dei centri di produzione a un’istanza autoritaria, l’assorbi-mento dell’unità in una omogeneità oppressiva.

Importa dunque mantenere la pluralità delle imprese equesta divisione spontanea del lavoro che si opera tra le diversebranche dell’industria. Come scriveva Proudhon, esprimendol’effettiva pluralità delle strutture artigianali e manifatturieredi questo inizio del XIX secolo, la vitalità economica esige ilmantenimento della “diversità” (79) e della separazione delle im-prese. Bisognerebbe qui precisare come Proudhon intendequesto pluralismo e in particolare quale dimensione ottimaleindividua per le imprese. Le sue indicazioni sono a questo ri-guardo prudenti, in ragione del principio generale secondo ilquale l’associazione deve essere estesa a seconda dei bisogniparticolari del ramo considerato. Non condanna le imprese didimensioni molto piccole, riconosce al piccolo commerciantee all’impresa agricola familiare la possibilità di conservare lesue dimensioni ridotte. Come indica esplicitamente, non c’è

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nessuna ragione di imporre a dei produttori indipendenti un’as-sociazione se questa non è adatta ai loro bisogni; avvalla dun-que la conservazione degli artigiani nella misura in cui questirisponderebbero alle necessità reali della produzione (80). Manon ne trae una conclusione per difendere il principio dellapiccola impresa; evita di citare delle cifre precise su questo pro-blema e non nasconde le sue simpatie per le imprese di mediedimensioni, non esclude in alcun modo la formazione di unitàdi produzione estese. Si può illustrare questa rappresentazioneproudhoniana con la situazione dell’industria lionese della setadove si era edificata, a fianco di antichi laboratori che utilizza-vano meno di dieci compagni, una vasta manifattura che rag-gruppava, su 250 mestieri, circa 600 operai (81). Nulla indica chesimili estensioni siano escluse dalla rappresentazione prou-dhoniana. Comunque, qualunque siano i limiti intravisti allaampiezza delle unità di produzione, rimane il fatto che questaestensione non è considerata come una soluzione adeguata aibisogni economici. Proudhon indica precisamente, conforme-mente all’immagine dell’economia manifatturiera, che non bi-sogna ricorrere alle concentrazioni che nella misura in cui essesono effettivamente necessarie, come se fossero delle unità au-tonome che nascondessero in se stesse i pericoli dai quali con-verrebbe premunirsi.

Così possiamo stabilire un rapporto omologo tra lo spa-zio economico costituito dagli artigiani e i manifatturieri e larappresentazione economica proudhoniana. All’autonomia del-l’impresa corrisponde, nello schema proudhoniano, la “liber-tà” dell’unità di produzione; alla relativa dispersione corrispondeil principio della pluralità; ai limiti delle imprese corrispondo-no le reticenze teoriche che riguardano le concentrazioni e imonopoli. Comunque non possiamo proseguire queste omo-logie, parola per parola, senza conoscere lo spirito delle rifor-me proposte. Se proseguiamo in effetti in questi confronti,costateremo che Proudhon, dopo aver ripreso le grandi lineedi questo spazio artigiano-manifatturiero, ne corregge in realtàle relazioni, prima di proporlo come una soluzione valida perl’insieme della società.

Questo scivolamento dall’omologia alla correzione puòapparire nella importanza e nell’interpretazione che Proudhondarà allo scambio economico. Si sa in effetti che in differentimomenti della sua evoluzione intellettuale non cessò di consi-derare l’instaurazione di nuove forme di scambio tra i produt-tori come una riforma essenziale, se non come la riforma princi-

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pale, suscettibile di trascinare l’equilibrio di tutte le forme econo-miche. In questi progetti anteriori al 1848, anche con la sua pro-posta di una banca di scambio, cerca non di modificare il sistemadi produzione, ma di instaurare le condizioni di uno scambiougualitario fra i produttori, di uno scambio giusto, secondo i prin-cipi generali dello scambio uguale dei lavori forniti (82).

Questa importanza data allo scambio è conforme alla strut-tura economica che è servita da modello all’elaborazione teori-ca. Per queste unità economiche specializzate secondo il prin-cipio della divisione del lavoro sociale, i problemi della vendita,degli sbocchi, dello scambio sono dei problemi immediati checondizionano tutta l’attività di produzione. Si può intuire cheper dei maestri operai o per dei manifatturieri responsabili delfunzionamento della loro impresa, questo problema non man-cava di apparire come la questione essenziale, più immediata-mente pressante che non la riorganizzazione dei modi di pro-duzione. Allo stesso modo le forme economiche medie, cheescludono le concentrazioni monopolistiche, possono essereritenute teoricamente uguali, in seno alle relazioni di scambio,a condizione che siano scartate, come voleva Proudhon, le for-me asociali dell’accaparramento, dell’usura e dell’aggiotaggio.E allo stesso modo si può riportare a questa organizzazione arti-giano-manifatturiera il principio proudhoniano del rispettodelle leggi della concorrenza: queste imprese di medie dimen-sioni, delle quali nessuno può pretendere il monopolio néun’azione privilegiata sul mercato, sono ben in effetti in situa-zione di concorrenza senza che questa situazione possa essereconsiderata, nei suoi limiti, come una causa effettiva di grandicrisi sociali. Allo stesso modo si può confrontare il tipo di pos-sesso dei mezzi di produzione che propone Proudhon con quelloche si trovava realizzato nei laboratori, per esempio presso isetaioli lionesi. Si sa in effetti che il maestro operaio era pro-prietario dei suoi strumenti, ma questa proprietà non era innessun modo quella che Proudhon aveva denunciato violente-mente: questi mezzi di produzione, immediatamente utilizzatie al servizio della sola produzione, non potevano trasformarsiin capitale distinto, sorgente di profitto, di “interessi” e di “ric-chezza”. Nello stesso modo Proudhon non rimetterà in causaquesto possesso: conformemente a questo rapporto esistentefra l’uomo e i suoi strumenti di lavoro, Proudhon non cesseràdi reclamare che la terra appartiene a chi la coltiva e che lafabbrica appartiene a quelli che vi partecipano.

Proudhon precisa in questa teoria dello scambio che la

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circolazione delle merci deve essere operata dagli stessi produt-tori, sia tra di loro che tra produttori e consumatori. La suainsistenza su questo punto tende chiaramente a escludere lacostituzione di circuiti commerciali indipendenti dai produtto-ri, che sarebbero accaparrati dagli intermediari che voglionotrarne profitto e la cui vittima sarebbe la società tutta intera. Equi ancora ritroviamo l’immagine di questi scambi diretti, tra-sparenti a quelli che ne sarebbero gli autori, così come poteva-no, almeno teoricamente, realizzarsi tra i produttori indipen-denti che dovevano smerciare una produzione relativamenteridotta e adattata a una clientela ipotizzabile se non conosciuta.Questo scambio sarebbe, secondo le formule dei primi scritti,uno scambio fatto direttamente dai produttori. Nelle formuleproudhoniane lo scambio deve essere effettuato dagli uominiche conservano un rapporto immediato con il loro prodotto econtinuano questo rapporto di immediatezza nelle transazioni.Questo schema esclude l’alienazione, l’esteriorizzazione e, si puòdire, la reificazione dei rapporti commerciali, come quelli chepotevano formarsi in un sistema capitalista dove il commerciotendeva a diventare un’attività specialistica eventualmente incontraddizione cogli interessi immediati dei lavoratori. Nellaostilità di Proudhon verso questa esteriorizzazione dei circuiticommerciali, si ritrova il conflitto tra le strutture di produzio-ne, in questo inizio del XIX secolo, e le potenze commerciali;più precisamente può ritrovarsi qui il conflitto che opponeva ilcapo laboratorio della seteria lionese ai negozianti o ai mercan-ti fabbricanti. Si sa in effetti che questi negozianti, senza parte-cipare direttamente alla produzione, comperavano le materieprime, anticipavano i capitali, fornivano il lavoro ai capi labora-tori e dirigevano totalmente la commercializzazione. Essi in-carnavano esattamente questo sviamento commerciale che Prou-dhon osteggia con veemenza.

Vi è dunque bene in questa rappresentazione dello scam-bio “uguale” una riproduzione dei rapporti economici e socialiistituiti in queste strutture artigiano-manifatturiere. Comunquese noi continuiamo questo confronto siamo costretti ad abban-donare il progetto di scoprire un puro rapporto omologo chefarebbe dei modelli proudhoniani il semplice specchio di una re-altà effettiva. Proudhon opererà in realtà una correzione profon-da della quale bisogna cercare di precisarne il senso e la natura.

Questa rappresentazione proudhoniana dello scambiouguale dei prodotti tra gli stessi produttori non corrispondevache parzialmente alla realtà economica. Si vede precisamente

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nel caso della seteria lionese che gli scambi erano accaparratida una organizzazione esterna ai capi laboratorio, interamenteorganizzata dai negozianti. Senza dubbio è impossibile dare ungiudizio di insieme sui sistemi di scambio dell’economia fran-cese degli anni 1840: rivestivano forme eminentemente diversi-ficate, dai mercati locali, dove i produttori venivano direttamentea commercializzare i prodotti, fino agli scambi internazionaliche erano organizzati da qualche grande casa installata nellegrandi città e nei grandi porti. È difficile misurare quale parte diprodotto industriale si trovava ad essere oggetto di un commerciodiretto e quale parte fosse oggetto di un commercio specializza-to. Almeno possiamo sapere che l’estensione commerciale davaluogo a un’estensione dei circuiti commerciali spossessando iproduttori del controllo dello scambio; e noi sappiamo, da esem-pi precisi, come l’insurrezione di Lione del 1831, che il conflittotra i capi laboratorio e i commercianti poteva arrivare alla violen-za armata. Quindi il progetto proudhoniano cambia di significa-to. Non può più apparirci come una riproduzione delle struttureartigiano-manifatturiere, ma come una certa denuncia del pre-sente, come un modello riportato, a partire da uno schema strut-turale empirico, per risolverne le difficoltà.

Se il capo laboratorio è teoricamente autonomo ed è ef-fettivamente padrone di organizzare la sua produzione al me-glio dei suoi interessi, in molti casi è praticamente subordinatosia a dei proprietari, sia a dei prestatori di capitali, sia ai nego-zianti. Il capo laboratorio lionese è solo parzialmente indipen-dente. Se è responsabile dell’organizzazione della sua fabbrica,è obbligato a produrre per un fabbricante che gli fornisce illavoro, gli paga il prezzo della manifattura quando riceve la stoffalavorata. Praticamente il capo laboratorio non è un produttoreindipendente e se non è un proletario è quanto meno un sala-riato pagato, in effetti, secondo un salario a cottimo (83). Il pro-getto proudhoniano tende a restituire a dei produttori sposses-sati del controllo della loro produzione, la piena capacità dellaloro azione in una nuova relazione economica ugualitaria. Maquesta uguaglianza che Proudhon postula nel suo progetto nonpotrebbe essere considerata una realtà effettiva. Non soltantoparecchi capi di piccole imprese si trovano minacciati dallo svilup-po della grande industria, ma le grandi disparità tra imprese dan-no luogo a dei conflitti in seno ai quali queste non si trovano innessun modo in “equilibrio”. Nel progetto di Proudhon le impre-se sarebbero in qualche modo poste in una relazione diretta, inuna relazione contrattuale comparabile a un faccia a faccia dove i

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protagonisti, informati del costo e dei tempi del lavoro, fissereb-bero onestamente e lucidamente i loro prezzi e i loro scambi.Questa conoscenza reciproca corrispondeva a una certa esperien-za degli “scambisti” in seno alle piccole imprese, ma precisamentequesta conoscenza per trasparenza tendeva a nascondersi o a scom-parire a misura dello sviluppo economico.

Dobbiamo dunque profondamente correggere questorapporto omologico che avevamo tentato di stabilire e distin-guere ciò che si trova effettivamente ripreso dalle strutture arti-giano-manifatturiere da ciò che è rifiutato o reinterpretato. Sen-za dubbio Proudhon esclude dal suo modello le strutture con-tadine e condanna con violenza le strutture capitalistiche. È inquesto spazio economico delle piccole manifatture che cerca legrandi linee di una “organizzazione economica” dove le impre-se, “indipendenti e libere” (84), entrando nella rete contrattualedei mutui scambi, realizzerebbero l’equilibrio dell’associazio-ne e della libertà. Ma questo tessuto economico mutualistico,così come l’immagina, non era sicuramente realizzato sotto isuoi occhi. Il suo progetto tende a liberare innanzi tutto gli arti-giani manifatturieri dalle minacce che fanno pesare su di loro imonopoli e le grandi imprese, a esorcizzare le minacce di unaeconomia considerata “anarchica”, che accumula le contraddi-zioni e la ripetizione delle crisi. Nello stesso tempo denuncial’arbitrarietà statale che tende a liberare questa organizzazioneeconomica dagli interventi esterni ad essa.

Ma la critica proudhoniana tende anche, a partire da que-sto modello, ad epurare la realtà. Il progetto proudhoniano nonè una semplice ridondanza di una struttura effettiva, ma la suacorrezione a partire da essa. Proudhon denuncia le inegua-glianze che esistono in seno a questo sistema così come la man-canza di libertà dei produttori. Denuncia l’oscurità degli scam-bi commerciali che impediscono l’istituzione di un commercioonesto dove i prodotti sarebbero scambiati contro altri prodottisecondo il loro costo esatto e secondo il lavoro che esprimono. Masoprattutto, affermando l’urgenza di una “associazione” che sia“progressista” o “mutualista”, Proudhon propone a dei produttoriessenzialmente separati di creare tra di loro dei rapporti di egua-glianza e di reciprocità che non esistevano in nessun modo nellarealtà. La distanza su questo punto è considerevole tra l’ambizio-ne di un mutualismo che pretende instaurare un’associazioneegualitaria estendendosi a tutte le forme di produzione e questeimprese isolate, in realtà non solidali. L’ambizione del progetto

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proudhoniano poggia sulla natura delle relazioni mutualisticheche devono passare dalla non solidarietà all’associazione e sul-l’estensione del modello che deve passare dall’associazione limita-ta all’insieme della società e da qui all’universalità.

Altrettanto bene possiamo mantenere l’ipotesi di una per-fetta omologia tra le strutture artigiano-manifatturiere e la strut-tura teorica del mutualismo. Più esattamente si può considera-re l’ipotesi di una estrapolazione creatrice, fatta a partire da questestrutture significative. Proudhon trova in seno ai fenomeni eco-nomici dei primi anni del XIX secolo un modello generale nelquale nota le condizioni della realtà economica e della validitàsociale, poi si interroga sulle modifiche che dovrebbero essereapportate a queste strutture affinché divengano il modello ge-neratore della trasformazione sociale. In effetti queste modifi-che andranno a colpire il funzionamento stesso di questa orga-nizzazione, poiché bisognerà inserire queste imprese in un va-sto insieme federativo e mutualistico, ricreare degli scambiegualitari e introdurre la solidarietà effettiva là dove non esiste-va. Il movimento di pensiero proudhoniano prenderebbe cosìquesti elementi in una struttura socioeconomica delimitata epercepita nella sua validità, nelle sue potenzialità giudicate im-minenti, corretta da una esigenza egualitaria e socialista, poiproiettata sull’insieme della società nella sua totalità.

Il movimento creatore di Proudhon si nota in effetti inquesta proiezione di un modello artigiano-manifatturiero sul-l’insieme della società economica e in particolare sullo sfrutta-mento agricolo e sulle grandi imprese. Nello schema prou-dhoniano l’agricoltura famigliare sussisterebbe. Ogni famigliapotrebbe, potendo, possedere quanta terra può sfruttare (85).Ma l’impatto delle riforme intraviste avrebbe l’effetto di modi-ficare le strutture giuridicoeconomiche distruggendo il siste-ma tradizionale della proprietà (non essendo più il suolo laproprietà di un uomo, ma il possesso di un produttore) e degliscambi (ogni coltivatore parteciperebbe a tutta l’estensione delsistema mutualistico e diventerebbe così l’associato di una pro-duzione socializzata). Si può pensare che il movimento di pen-siero proudhoniano corrisponda ad una estensione ai modi diproduzione agricola del modello individuato nelle strutturemanifatturiere.

Questa ipotesi si verifica più chiaramente nel settore del-le grandi imprese industriali, dove si vede Proudhon proiettaresu vaste unità di produzione il modello teorico ispirato dallestrutture manifatturiere e chiamare così a una totale distruzio-

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ne dei rapporti sociali del capitalismo liberale. Propone in ef-fetti, nel momento in cui si estende la proprietà capitalisticadelle fabbriche e delle miniere, che gli strumenti di produzio-ne diventino un possesso collettivo e indiviso di tutti gli operaie impiegati dell’impresa: la fabbrica diventerebbe proprietà deiproduttori immediati come un artigianato può essere il posses-so di uno o più artigiani. Si instaurerebbe così intorno a questaunità di produzione un vero gruppo sociale, una “compagniaoperaia”, radicalmente opposta al rapporto conflittuale che se-para l’imprenditore capitalista e gli operai nell’impresa capita-lista (86); allo stesso modo che una manifattura può costituirenei suoi limiti un gruppo sociale solidale e associato, la grandeimpresa, ad un livello di estensione più elevato, deve poter co-stituire un vero gruppo umano dove l’operaio troverà “il suofocolare, il suo habitat e il suo mondo sociale”. Allora scompari-rebbero i rapporti di ineguaglianza che dividono l’impresa, inparticolare scomparirebbe il principio del salariato, secondo ilquale l’operaio riceve una retribuzione fissata secondo i costidell’impresa. Reso partecipe all’attività di produzione, ogni ope-raio dovrebbe partecipare anche all’aleatorietà delle congiun-ture economiche: profittare dei periodi fasti e, se l’impresa co-nosce dei fallimenti, subirne i contraccolpi. Così come i compa-gni non dovrebbero ricevere un salario, ma una parte dei bene-fici dell’attività comune, l’operaio riceverebbe una parte, even-tualmente variabile, dei prodotti collettivi. Proudhon non diceche questi salari dovrebbero essere rigorosamente uguali, colche metterebbe l’accento a sua volta sulla divisione dei beni esull’equivalenza assoluta delle funzioni, mantiene al contrario,conformandosi alla tradizione dei compagni e manifatturieri chedifferenziavano la retribuzione secondo la gerarchia dei com-piti, il fatto che le funzioni dovrebbero dare luogo a dei salaridifferenziati secondo la qualità e la complessità dei lavori.

Il carattere rivoluzionario del progetto proudhoniano, lasua ispirazione manifatturiera, si manifesta in particolare nellasua concezione del lavoro in seno alle grandi imprese. Coscien-te della parcellizzazione dei compiti e della specializzazione cheimporrebbe allora lo sviluppo industriale, Proudhon affermache una educazione “enciclopedica” (87) dovrebbe permettereall’operaio di compiere le differenti funzioni, di giocare i diver-si ruoli imposti dalla divisione tecnica del lavoro. Allo stessomodo che un artigiano poteva svolgere le diverse funzioni ri-chieste dalla sua produzione e così avere una conoscenza sinte-tica dell’attività comune, l’operaio, dopo aver occupato diffe-

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renti posti nella sua industria, potrebbe avere una conoscenzaglobale dell’attività collettiva. La rivendicazione proudhonianatende così a restituire all’operaio parcellizzato, divenuto schia-vo della macchina (88), questa appropriazione effettiva del lavo-ro che poteva essere realizzata nella manifattura e la conoscen-za unificante che poteva avere della produzione. Infine questeproposte renderebbero possibile un totale capovolgimento deirapporti sociali che si realizzano nella fabbrica capitalista chepermetterebbe agli operai, da sottomessi e irresponsabili comesono nella fabbrica, di diventare cogestionari della loro impre-sa; eleggendo i dirigenti provvisori chiamati di volta in volta asedere nel consiglio, avrebbero non soltanto la funzione di con-trollo, ma eventualmente funzione di direzione in seno alla loroimpresa. Invece di essere sottomessi ad un potere autoritario eoppressivo, tutti i produttori immediati riuniti in compagnie ope-raie, parteciperebbero pienamente all’impresa che diverrebbecosì, non soltanto dal punto di vista della proprietà legale, madal punto di vista del suo funzionamento, la loro propria attività.La solidarietà e l’associazione che si possono costituire in un labo-ratorio artigiano o in una manifattura di medie dimensioni si tro-verebbero riprodotte a livello di fabbriche, senza che l’accresci-mento degli effettivi o l’ampiezza delle imprese vengano a modifi-care questa struttura sociale e le sue caratteristiche.

Alla fine di questo primo approccio che si proponeva diconfrontare le strutture economiche reali e il progetto prou-dhoniano, possiamo dunque stabilire una omologia strutturaletra il settore artigiano-manifatturiero e il modello progettato, edefinire l’estrapolazione creatrice con la quale Proudhon cor-regge la realtà alla quale si ispira e ricostruisce l’insieme dellasocietà economica a partire dal suo modello. Ispirandosi moltoprecisamente ad una organizzazione concreta, ne elimina le dif-ficoltà per erigerla a soluzione universale. Ci appare inutile pro-seguire questa dimostrazione sul piano della teoria politica; visi ritroverebbe questo movimento di critica e di ricostruzionecon il quale il modello pluralista e mutualista costituisce il ca-novaccio generale sul quale la società politica dovrebbe orga-nizzarsi federativamente: i comuni costituendo i fondamenti in-dipendenti e mutuamente legati di una organizzazione centra-lizzata senza governo esterno e oppressivo. Allo stesso modoche i laboratori conservano, nel mutualismo, la loro indipen-denza reciproca, i comuni e le regioni conserverebbero, nellafederazione politica, la loro autonomia relativa.

Comunque queste prime conclusioni restano limitate e

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non chiariscono che un aspetto dell’opera proudhoniana. Con-frontando le strutture storiche e il progetto economico ci rife-riamo in qualche modo all’ideologia e alle sue infrastrutturecome ci propone Marx, ma questo movimento di referenza nonci rende il clima dell’opera, della sua passione, e lascia alla finesfuggire il suo movimento interno. Avvicinando due strutturetendiamo a confrontare due strutture significative, ma non pos-siamo prenderne il senso immanente nell’insieme e da questoil senso dell’opera per l’autore e per i suoi contemporanei. Inparticolare ci sfuggirebbero la violenza dell’opera e il vigore diun movimento che si voleva radicale.

Questa insufficienza appare in particolare nel fatto che inquesto primo confronto non si può spiegare la scelta di certe pa-role provocatorie quale la parola “anarchia”. È rimarchevole cheProudhon, volontariamente moderato quando parla della violen-za e della rivolta, abbia scelto questo termine per caratterizzare ilsuo pensiero, e ciò fin dal 1840 (89), e l’abbia ripreso con ostinazio-ne nel 1848 nel momento più forte del movimento della rivoluzio-ne (90). La scelta di questo concetto deve essere sottolineata, per-ché fa risaltare in Proudhon la volontà di dissociarsi non soltantoda tutti i movimenti socialisti sospettati di conformismo, ma an-che da tutta una tradizione secolare di sottomissione. La parola“anarchia” era in effetti e in tutti i suoi significati, sinonimo didisordine, di confusione e di asocialità. Sia nel vocabolario politi-co che in quello poliziesco l’anarchia è assimilata al male, utilizza-ta per designare precisamente ciò che bisogna combattere (91). Nel1840, le parole che troviamo nel vocabolario dei riformatori insi-stono precisamente sulla creazione di rapporti più stretti fra i pro-duttori; “organizzazioni”, “associazioni”, “solidarietà”, “societario”,“armonia”, “comunismo” e ben presto “socialismo” (92). Proudhonriprende esattamente e lucidamente una parola carica di non va-lore, un termine maledetto, per designare una teoria che vuolecomunque costruttiva, della quale dice precisamente che è la solacostruttiva.

La scelta di questa parola provocatoria indica precisamen-te in Proudhon la volontà di opporsi a qualsiasi sottomissioneall’autorità e alle tendenze plebee che sospetta che siano in cer-ti movimenti socialisti o comunisti. Suggerisce, con l’impiegodeliberato di questo termine, un’inversione sociale radicale conla quale le basi economiche della società sarebbero in grado diorganizzare completamente la vita collettiva in modo tale che ipoteri, sia economici che politici o religiosi siano radicalmenteeliminati dalla società. Questo termine suggerisce così l’edifica-

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zione di una società senza precedenti storici esigendo una tota-le inversione delle strutture sociali e delle strutture mentali.La violenza di questa ambizione, il carattere radicale di questacritica, non possono essere ripensate che ad un altro livello dianalisi e con un confronto fra l’opera e i movimenti sociali del-l’epoca.

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SECONDA PARTE

L’OMOLOGIADELLE PRATICHE

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1. - L’estensione del problema

L’intenzione esplicita di Proudhon fu di prendere le dife-se delle classi operaie e di partecipare a una lotta politica desti-nata ad assicurare la loro “emancipazione”. Sin dal 1839, primaancora di aver scritto le sue Premier Mémoire sulla proprietà, pro-clama la sua volontà di prendere il partito delle classi produttri-ci (1); nel suo ultimo libro, definendo le condizioni di successopolitico delle classi operaie, riprende, in termini comparabili,l’intenzione iniziale. Questa scelta proclamata rivestiva un si-gnificato particolarmente chiaro in un periodo dove la difesadelle classi operaie si presentava come una opzione decisivaproposta agli scrittori e agli intellettuali. Dal 1825, la rapida dif-fusione del saintsimonismo aveva reso presente alla coscienzapubblica il problema del “miglioramento fisico e morale dellaclasse più numerosa” (2) e forgiata una rappresentazione collet-tiva della classe dei produttori. Più ancora sotto la monarchiadi Luglio, l’affermazione, spesse volte ripetuta, di una nuovadivisione della società in due classi opposte metteva lo scrittorenell’obbligo di prendere posizione in questo antagonismo, siaper negarne la gravità, sia per prendere parte per l’una o perl’altra delle classi. La scelta di Proudhon partecipa a questo mo-vimento di pensiero nel quale si situavano lucidamente e perrispondervi in modo diverso Fourier, V. Considérant, Enfantin,Michel Chevalier, Sismondi, Auguste Comte, Buchez, Lamennais,Pierre Leroux, Flora Tristan, Louis Blanc, Cabet, Th. Dezamy...Tutto questo movimento intellettuale disegnava un orizzonteintellettuale nettamente organizzato dove i concetti di classeoperaia, antagonismo di classe, sfruttamento dell’uomo sull’uo-mo, avevano un senso costituito dove le opzioni sociali prende-vano un rilievo particolarmente preciso.

Comunque l’intenzione di Proudhon non era soltanto di

lavorare senza sosta per l’affrancamento completo dei suoi fratelli edei suoi compagni (3),

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ma di riprendere e di esprimere, sul piano della conoscenza edella scienza, le pratiche operaie per farne i punti di partenzadella rivoluzione sociale. La sua ambizione ci obbliga dunquead esaminare le sue affermazioni e a verificare se avevano qual-che rapporto con la realtà.

Non sapremo in effetti considerare le intenzioni soggettivedi Proudhon come una prova della loro validità e la critica di Marxillustra questa possibilità di mettere in dubbio la verità delleaffermazioni di Proudhon. Ai suoi occhi Proudhon avrebbe com-pletamente ignorato il senso oggettivo della sua dottrina e, cre-dendo di promuovere l’azione della classe operaia, si sarebbe fat-to in realtà il portavoce della piccola borghesia francese.

Questo problema può essere visto a un livello preciso, quel-lo delle pratiche operaie reali, così come si possono osservarein seno alle classi operaie tra il 1830 e il 1865. Proudhon pre-tende in effetti proporre agli operai una strategia politica con-forme al loro essere e direttamente in continuità con la realtàdi classe: come teorizza in De la capacité politique des classes ouvrières,non bisogna considerare l’“idea operaia” che come un’espres-sione della realtà della classe e la strategia di mutualismo checome la continuazione, sul piano della generalità politica, dellapratica spontanea della classe operaia.

Queste proposte devono essere chiarite con un confron-to tra le pratiche operaie così come erano apparse in seno aquesto periodo e la teoria proudhoniana dell’azione politica.Dobbiamo aspettarci da questo confronto che confermi oppu-re che infirmi le tesi di Proudhon su questo argomento e desi-gni l’inserzione sociale della sua teoria. Questo confronto devepermettere l’esame di opinioni emesse da Marx e di ristabilirei rapporti effettivi di Proudhon con la classe operaia.

Ora, se la polemica ha potuto rispondere con facilità aqueste questioni, l’esame attento del problema solleva estremedifficoltà. La nozione stessa di “pratiche operaie” (4) non ha nul-la, in effetti, della chiarezza che le hanno dato Marx e Proudhone i due termini di classe operaia e di pratiche operaie non hanno innessun modo l’unità di senso che veniva loro prestata.

A. – Se possiamo nella stratificazione sociale degli anni1840 distinguere la borghesia, i contadini e la classe operaia,questa estrema generalità rimane molto lontana dalle distinzio-ni reali. Così come è necessario distinguere differenti borghe-sie, dobbiamo, per comprendere la complessità delle praticheoperaie, distinguere differenti frazioni in seno alle classi prole-

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tarie. Possono essere ricordati tre tipi di classificazione.Georges Duveau, nel suo studio su La vie ouvrière en France

sous le Second Empire, propone di distinguere quattro “gruppi”principali secondo la loro ripartizione ecologica. Un primo grup-po sarebbe costituito dall’insieme degli “operai contadini” (5)

ancora numerosi durante il Secondo Impero, che non hannorotto i loro legami con la vita di campagna: non agganciati allaloro attività industriale, sono ancora partecipi delle esperienzee dei valori della comunità rurale. – Il secondo gruppo è costi-tuito dagli operai che abitano i grandi “centri urbani di mediaimportanza” (6) quali Orléans, Joigny, Montereau; in queste pic-cole città, dove non esistono grandi stabilimenti di produzione,le industrie rimangono diverse e disperse e la differenziazioneprofessionale poco conosciuta; qualunque sia il mestiere eser-citato, i salari e le abitudini non conoscono dei cambiamentirapidi, la vita collettiva degli operai si svolge il più sovente inmodo pacifico. Secondo G. Duveau, questa vita collettiva parte-cipa di un certo “unanimismo”, ma questa unità non emanavadalla vita professionale, ma molto più dalla città stessa costi-tuendo, in quanto collettività urbana, un’unità sociale e cultu-rale. – Il terzo gruppo sarebbe costituito dagli operai che lavo-rano nelle piccole città dominate, come assorbite, da un gran-de stabilimento industriale: Le Creusot o Beancourt per esem-pio. Come Le Creusot è una creazione di Schneider, Beancourtè una creazione di Japy e l’operaio metallurgico di Creuzot èmolto più dipendente dal suo datore di lavoro che non legatoalla sua città. L’orologiaio di Beancourt è più l’operaio di Japyche membro di una collettività urbana. Bisogna prevedere chequesti operai saranno molto più legati alla loro situazione pro-fessionale e che le loro reazioni saranno differenti da quelle deigrossi gruppi integrati alla vita urbana. – E infine G. Duveauclassifica nel quarto gruppo gli operai che abitano nei grandicentri urbani come Lione o Parigi. Questo operaio, quantun-que sia assorbito dalla sua vita professionale, partecipa all’attivi-tà intellettuale di una grande città e trova nella ricchezza dellavita urbana la compensazione che non può conoscere l’operaiolimitato dalla vita professionale di un grande stabilimento. G.Duveau cita, a questo proposito, la testimonianza di ArmandAudiganne (7) che sottolinea che in queste città l’unanimismoforgiato dalla grande città sarebbe più forte dell’unità forgiatadal laboratorio oppure dalla fabbrica. Le reazioni operaie sa-rebbero rapportate molto più alla collettività urbana che all’uni-tà imposta dal raggruppamento del lavoro (8).

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Questa classificazione ci interessa perché corrisponde, ineffetti, a delle differenziazioni sensibili di comportamento. G.Duveau dimostra per esempio che le reazioni operaie al colpo diStato del 2 dicembre 1851 possono essere correlate con questaclassificazione: non furono né gli operai delle città, né gli operaidelle grandi industrie che reagirono più vigorosamente, ma glioperai contadini reagirono più in quanto uomini del popolo chein quanto operai e organizzarono la loro opposizione di concertocon i contadini (9). Allo stesso modo G. Duveau pone la creazionee la diffusione delle ideologie rivoluzionarie nei centri urbani, sot-tolineando la resistenza dei raggruppamenti operai contadini allapenetrazione delle nuove ideologie. Bisognerà dunque ricercarea quale di questi quattro raggruppamenti la teoria proudhonianapuò essere rapportata o almeno con quale di questi gruppi i rap-porti ricercati possono essere più stretti.

Comunque è necessario fare appello ad altri tipi di classi-ficazione. La classificazione di G. Duveau sceglie come criteriola ripartizione ecologica, e oppone i termini estremi della gran-de città e della campagna, ma dobbiamo anche considerare laripartizione degli operai per ramo industriale conformementealle diversificazioni professionali. Questa classificazione tradi-zionale (10) dovrà essere considerata perché ci importa sapere sela strategia proposta da Proudhon conveniva in modo partico-lare ad alcune categorie socio-professionali; se, per esempio,secondo un’ipotesi che spesso è stata proposta, era più confor-me alle aspirazioni degli artigiani operai che alle aspirazionidegli operai delle grandi industrie. Ma questa classificazioneper rami industriali importa anche per le grandi disparità cheseparavano, durante questo periodo, le industrie in pieno svi-luppo e le industrie stagnanti, trascinando con sé delle evolu-zioni contraddittorie nei tassi medi dei salari. Così tra il 1815 eil 1848, in una congiuntura economica generalmente poco fa-vorevole, i tassi salariali ebbero un’evoluzione differente in ogniramo industriale non toccato dal macchinismo e nei rami in viadi meccanizzazione. Sembra, malgrado l’insufficienza dei datistatistici su questi argomenti, che i salari si siano mantenuti alloro livello del 1815 nelle più antiche professioni, quali le co-struzioni edili, e siano stati orientati ad alzarsi nell’estrazionemineraria, settore in piena espansione. Per contro la discesadei salari era generalmente nelle professioni in via di mecca-nizzazione rapida come la metallurgia e soprattutto il tessileche raggiunge tra il 1810 e il 1850 il 40% del salario maschilenell’industria tessile (11). Queste cifre possono far pensare, come

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credette Marx, che lo sviluppo industriale provocava inelut-tabilmente l’estensione della pauperizzazione operaia. Comun-que queste indicazioni generali non rendono conto delle gran-di fluttuazioni che colpirono in maniera diversa i differenti ramie facevano apparire profonde crisi settoriali. Così vediamo chela “fabbrica collettiva” di Lione attraversa dei cicli di crisi edespansione che non ritagliano esattamente i cicli degli altri set-tori. Se l’industria della seta conosce una crisi nel 1830, cometutti i rami dell’industria, entra in una fase di ripresa nel ’31,mentre la ripresa non si fa ancora sensibilmente sentire neglialtri rami (l’insurrezione del novembre 1831, secondo la testi-monianza del prefetto di Lione Bouvier-Dumolard, non fu pro-vocata da una crisi industriale, ma dal mantenimento di salarimolto bassi in certi settori della fabbrica) (12). Invece il rallenta-mento degli affari che tocca la maggioranza degli articoli dellaseta all’inizio del 1834 e che fu all’origine dell’insurrezione diaprile non è risentito ugualmente in tutti gli altri rami dell’in-dustria. Questi fenomeni settoriali si incrociano fino al 1860con delle crisi di sussistenza (1817, 1828, 1832, 1838, 1840, 1847)provocando, con il loro cumulo, la brutale diminuzione delpotere di acquisto degli operai più sfavoriti.

Un terzo tipo di classificazione rimane da intravedere. Ineffetti né la classificazione geografica né la classificazione perrami industriali mettono in evidenza il mantenimento delle ge-rarchie fra gli operai e la disparità dei salari in seno a una stessaindustria. Non è comunque che un punto di vista molto astratto,che si pretende giudicare nell’insieme dei tassi dei salari, e questopunto di vista non saprebbe rendere conto della complessità dellastratificazione inerente alle classi operaie. In realtà, sullo stessoluogo di lavoro e in uno stesso ramo industriale, i salari varianoconsiderevolmente, opponendo, agli estremi della gerarchia deisalari, una aristocrazia operaia e degli operai particolarmentedeprivati. Durante tutto questo periodo, all’inizio la differenza simantiene tra i salari maschili e i salari femminili. Secondo l’in-chiesta fatta nel 1834 sulle discriminazioni, i salari degli uominierano in media il doppio dei salari delle donne: da 2 franchi a 2,25F. per gli uomini e di 1 franco per le donne. Se si aggiungono aquesti numeri i salari dei bambini (da 0,5 F. a 0,75 F.) si raggiungeuna scala di salari che varia da 0,50 F. per un bambino a 3 F. per unoperaio qualificato, cioè da 1 a 6 (13). Si ritrova lo stesso scarto nelleminiere della Loira, dove i salari vanno da 1 a 6 franchi, i più bassisalari erano dati ai “pousseurs” che spingevano i carrelli e quellipiù elevati ai “piqueurs” (14). Così, contrariamente alla previsio-

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ne di Marx, che pensava che tutti i salari si sarebbero ravvicinatiin ragione dell’equivalenza del lavoro “astratto”, grandi scarti simantenevano, i più alti salari erano riservati ai mestieri perico-losi o qualificati. Essi potevano anche variare considerevolmen-te da una regione all’altra, i salari della stessa professione eranoin media più elevati in città che in campagna. Aggiungiamoinfine che si sono potute produrre delle variazioni eccezionalinei salari che concernevano una stessa categoria di lavoro: se-condo l’inchiesta di R.L. Villermé, alcuni operai delle fabbri-che di tulle guadagnavano fino a 15 o 20 franchi nel 1823 eprendevano soltanto 3 franchi o 1,50 F. nel 1840 (15). Bisogne-rebbe chiedersi quali conseguenze poterono avere queste bru-tali variazioni e queste incertezze sulla psicologia degli operai.

Viene fuori da queste brevi indicazioni che la classe ope-raia degli anni 1840-1865 non formava in nessun modo un’uni-tà economica omogenea e sarebbe tendenzioso cercare inProudhon il portavoce o l’espressione di una classe unificata.Molto più validamente bisognerebbe chiedersi a quale frazionedi classe poteva essere più vicino e quali rapporti si possonodistinguere tra la sua opera e le differenti frazioni operaie. Nul-la indica a priori che degli strati così differenziati abbiano avu-to degli atteggiamenti, delle attese e delle aspirazioni perfetta-mente identiche.

B. – La necessità di precisare e di distinguere si impone seci si interroga sulle pratiche delle classi operaie. Se intendiamoin effetti con questo temine tutte le condotte, il modo di rap-portarsi di queste classi nei confronti delle altre classi sociali,evitando di scegliere una sola pratica arbitraria eretta a caratte-re essenziale, dobbiamo sottolineare la pluralità di questi modidi comportamento, alcuni familiari e ripetitivi, altri creativi ed“effervescenti”, dalle forme originali della vita quotidiana finoall’eccezionale azione rivoluzionaria. Queste distinzioni interes-sano la nostra ricerca perché dovremo individuare il più esatta-mente possibile la posizione di Proudhon di fronte a questecondotte differenziate e ricercare quale tipo di pratica giustifi-ca e cerca di promuovere.

1) I numerosi studi consacrati alla vita operaia (16) hannotradizionalmente messo in rilievo la particolarità dei costumioperai durante i primi due terzi del XIX secolo e riconosciutouna distinzione profonda tra le abitudini borghesi o contadinee quelle operaie. Comunque, come sottolinea a giusto titolo G.

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Duveau, le generalità formulate frettolosamente dai romanzie-ri e gli avversari delle classi operaie corrispondono poco allacomplessità della realtà. La vita quotidiana dell’operaio conta-dino, ancora parzialmente integrato alla comunità rurale, nonpotrebbe essere assimilata alla vita degli operai della grandefabbrica, la cui attività era dominata interamente dalle necessi-tà dell’impresa. E anche le rappresentazioni di costume diffusefra le classi agiate: l’immoralità operaia, l’importanza dell’oste-ria, l’irreligiosità, l’assimilazione tra classi lavoratrici e classipericolose, non potrebbe essere considerata senza esame. Piùgiustamente bisognerà distinguere differenti tipi di famiglieoperaie, dall’operaio contadino fino all’operaio artigiano dellagrande città, non senza dimenticare che queste differenze dicostumi e comportamenti non sono esclusivamente dipendentidalla professione e dall’appartenenza ad una classe, ma dipen-dono anche da altri tipi di comunità che siano rurali o urbane.I cambiamenti di residenza e la necessità di interiorizzare lenuove norme, rivestono per alcune famiglie un carattere dram-matico e ansiogeno. Se le mutazioni demografiche ed econo-miche sono lente all’inizio del secolo, si accelerano sotto il Se-condo Impero, obbligando le famiglie a rinunciare alla loroantica cultura e molti operai ad adottare un nuovo mestiere.Questi cambiamenti sono sentiti tanto più dolorosamente inquanto obbligano a una revisione dei valori antichi in mezzo aun clima di insicurezza economica e senza che il cambiamentosia vissuto come la garanzia certa di un miglioramento dellecondizioni di vita.

2) Contrariamente all’opinione generalmente riconosciu-ta dalle classi borghesi, le strutture delle corporazioni non era-no state distrutte con il decreto del 1791 che proibiva le associa-zioni di mestiere, le gilde e le coalizioni (17); esse continuaronocon il mantenimento del compagnonnage e in modo particolarenei mestieri non direttamente toccati dalla meccanizzazione.Ma questa ignoranza nella quale erano tenute le classi borghesiindica bene il carattere spontaneo e propriamente operaio diqueste organizzazioni. Esse non costituivano delle sopravvivenzedi poco conto o delle semplici vestigia sclerotizzate, ma anchedelle pratiche autonome, incessantemente rinnovate e sponta-neamente ricostituite. Il fatto che si siano mantenute lungo tut-to il XIX secolo e per certe professioni fino al XX secolo (18),allorquando erano legalmente proibite e dunque prive del so-stegno della formalizzazione giuridica, indica chiaramente ilcarattere specificamente operaio di queste organizzazioni e la

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vivacità delle pratiche che a loro corrispondevano. Quando lepratiche religiose o politiche mettevano l’operaio in presenzadi rappresentanze delle altre classi sociali e lo trascinavano adialogare in un linguaggio che non era necessariamente il suo,il compagnonnage non lo confrontava che con i suoi pari e lomanteneva in seno alla propria classe. Il confronto di questapratica con le strategie proposte da Proudhon potrà dunqueessere particolarmente illuminante, poiché Proudhon preten-de di rimanere fedele alla pratica delle classi operaie e incon-trerà nel compagnonnage una pratica soltanto spontanea.

3) Allo stesso modo dovremo confrontare la praticaproudhoniana con la pratica che fioriva sotto la Restaurazionee la monarchia di Luglio e che fu la fondazione delle società dimutuo soccorso. Qui ancora il confronto dovrà essere altrettantoattento perché la creazione di queste società, la loro organizza-zione, la fissazione e la percezione delle quote, la distribuzionedei fondi, si facevano completamente al di fuori delle autoritàpolitiche. Lo Stato si limitava alle funzioni di registrazione e disorveglianza. Queste pratiche spontanee che continuavano inuna certa misura le attività operaie anteriori alla Rivoluzione,presero una brutale estensione durante tutta la prima metà delXIX secolo. Il movimento di creazione di queste società si svi-luppa prima a Parigi, dove si contavano 132 mutue professiona-li nel 1823, poi a Lione e in tutta la Francia. Tra la Rivoluzionedi Luglio e la votazione delle leggi contro le associazioni nel-l’aprile 1834, molte società si costituirono nei diversi mestieriper fondare delle casse di mutuo soccorso, di previdenza e se leleggi di aprile 1834 ostacolarono questo sviluppo, non riusciro-no a distruggere le società costituite. L’atteggiamento diProudhon in merito a queste società dovrà essere altrettantopiù precisato poiché queste associazioni, dette filantropiche,servirono soprattutto da maschera a delle società di resistenza checoprivano non solo i rischi tradizionali di malattia o di inciden-te, invalidità, ma i rischi delle lotte operaie e anche la disoccu-pazione dovuta allo sciopero. Una delle più potenti, la Societàdel Mutuo Dovere, fondata a Lione nel 1828 dai setaioli, e cheservì da modello a molte società simili, fu all’origine delmutualismo e delle insurrezioni del 1831 e 1834. Queste socie-tà, che si proponevano prima di tutto di difendere il livello deisalari, le condizioni del lavoro, prolungavano, sorpassandola, lapratica del compagnonnage e tracciavano gli abbozzi del sin-dacalismo del XX secolo.

4) La pratica operaia dello sciopero deve essere sottoline-

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ata e distinta da altre pratiche perché aveva un significato parti-colarmente chiaro in seno alle relazioni di classe. Faceva appa-rire senza ambiguità possibili un rapporto di conflitto tra gliinteressi dei padroni e gli interessi degli operai e l’emergenzadi una lotta sociale a livello dei rapporti economici. Dal mo-mento in cui i compagni abbandonavano il loro lavoro o rifiuta-vano di riprenderlo, malgrado le pressioni che erano esercitatesu di loro, essi manifestavano senza ambiguità la rivalità dei lorointeressi con quelli dei datori di lavoro e nello stesso tempofacevano nascere la realtà particolare del loro stato sociale. Pre-cisamente nel periodo che noi studiamo, e soprattutto dal 1830al 1848, ogni anno fu segnato da un certo numero di scioperiche non riuscirono ad essere arrestati né dalle condanne, nédall’interdizione delle coalizioni. Gli scioperi dei compagni car-pentieri, rinnovati nel 1822, nel 1832-’33, nel 1845, mostranol’esistenza di un’organizzazione spontanea degli operai, orga-nizzazione condannata dalle leggi, ma continuamente perse-guita e l’esistenza di una rappresentazione comune concernen-te una strategia per l’utilizzo dei mezzi di pressione. Questi scio-peri non avevano nulla di eccezionale e si produssero sia a Pari-gi che in provincia. Nel 1834-1844, i tribunali portarono succes-sivamente in giudizio per scioperi e coalizioni i tessitori a Bernay,i tessili a Rennes, i fioristi a Parigi, i cappellai a Lione, i carpen-tieri a Bourges, gli imbianchini a Rueil, gli scaricatori, i murato-ri, i manovali, i terrazzieri, i carpentieri a Parigi (19). Queste pra-tiche, come riteneva Marx nel 1846 (20), supponevano l’esisten-za di un’attività organizzativa autonoma, di un’insieme di deci-sioni comuni per unificare l’azione, per combattere gli operaiindipendenti o discutere dell’opportunità dell’azione, ma ave-vano anche l’effetto di ravvicinare gli operai nell’azione e difavorire la presa di coscienza dell’identità degli interessi. Di più,in certi periodi i movimenti di sciopero, estendendosi, sembra-vano realizzare nei fatti, e prima che l’idea fosse stata formula-ta, lo sciopero generale. Così, nel 1840 a Parigi, lo sciopero deisarti, cominciato in luglio, trascinò poco a poco, e con la scon-fitta provvisoria delle conciliazioni, lo sciopero dei bottai, deicalzolai, dei falegnami, dei tagliatori di pietra, degli ebanisti,dei serraturieri. In settembre dei raggruppamenti ebbero luo-go alla Porte Saint-Denis, un posto di polizia fu attaccato e ilministro dovette mettere le truppe sul piede di guerra comenei periodi degli stravolgimenti politici (21). Così il problemadel significato politico di questi movimenti si trova esplicitamen-te posto e ci fu, per esempio, un dibattito aperto nei giornali e

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in seno al governo per sapere se l’insurrezione di Lione nelnovembre 1931 fu soltanto l’effetto di un conflitto economicooppure se si doveva vedere come un movimento di opposizio-ne alle strutture politiche. Gli scioperi portavano così alla co-scienza del tempo i problemi di cui Marx avrebbe fatto un pun-to essenziale nella sua dottrina politica; la trasformazione dellelotte economiche in scontro politico.

5) Se gli scioperi portavano brutalmente alla coscienzadel pubblico l’esistenza di una opposizione di interessi e simul-taneamente l’esistenza di una classe operaia e d’una classe deidatori di lavoro o degli industriali, alcune pratiche operaie siorientavano in un altro senso e inventavano delle forme econo-miche nuove di organizzazione: le associazioni. È in larga misu-ra per comodità di classificazione che noi distinguiamo dellepratiche differenti nelle società di mutuo soccorso, le coalizio-ni e i differenti tipi di associazione: in molti casi, le società dimutuo soccorso si trasformarono spontaneamente in società diresistenza e allo stesso tempo delle coalizioni mutarono in asso-ciazioni. Comunque le associazioni che proliferarono a partiredal 1830 avrebbero incitato a nuove forme di pratiche tantoimportanti storicamente in quanto avrebbero proposto model-li originali di contestazione sociale e politica. Senza fare quil’inventario dei differenti tipi di associazione che furono creatiallora dai maestri di laboratorio e dagli operai, consideriamo ilmodello dei setaioli lionesi e quello delle associazioni operaiedella produzione. Creato nel 1828 da un gruppo di capi operailionesi, il mutualismo cercava di rompere la loro separazione edi creare fra i vari laboratori un’associazione di uomini e diinteressi in vista del “miglioramento della sorte degli operai”.Secondo lo statuto iniziale (che venne reso pubblico soltantodopo l’insurrezione di aprile 1834) gli obiettivi dell’associazio-ne non erano quelli di fondare una associazione di produzio-ne, ma di creare fra tutti gli aderenti un sistema d’informazio-ne reciproca, di permettere il prestito degli utensili, di racco-gliere le quote, di creare un sistema di aiuto fraterno (22). Si sache in realtà questi obiettivi prudenti furono sorpassati nellosviluppo dell’associazione, che si trasformò in società di resi-stenza e partecipò alle insurrezioni del 1831 e del 1834 (23).Quanto alle associazioni di produzione, esse prendevano comepunto di partenza un principio completamente differente, poi-ché si costituivano in unità collettive di produzione fondate con-formemente al progetto di Buchez, su un fondo sociale comu-ne inalienabile. L’Associazione dei doratori fondata nel 1834, la

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tipografia Lacrampe fondata dagli operai tipografi, illustrava-no questa pratica nuova con la quale gli operai, coscienti deiconflitti inerenti tra i “capi d’industria e gli operai” e “conside-rando che l’associazione nel lavoro è l’unico modo di affranca-re le classi salariali” (24), offrivano alle differenti professioni untipo di organizzazione destinato nel loro spirito a realizzarel’“emancipazione” del proletariato.

6) Senza dubbio non si può fare una distinzione comple-ta fra le pratiche operaie che concernevano gli scioperi o lediscussioni per fissare il “tariffario” e le pratiche politiche. Saràprecisamente un problema posto alle coscienze dei contempo-ranei sapere se i movimenti di rivendicazione professionale sonospontaneamente portati a rimettere in causa l’ordine politico esapere in che momento un conflitto economico poteva trasfor-marsi in movimento politico rivoluzionario, ma questo dibatti-to supponeva anche la distinzione fra questi due tipi di prati-che, e in effetti questa distinzione si inscriveva nella realtà. Ilcompagno che si limitava alle riunioni tradizionali del compagnonnageed istituiva i suoi rapporti con un suo capo nel quadro dei me-stieri, partecipava ad una organizzazione esclusivamente cor-porativa e, al contrario, l’operaio che militava per esempio inun gruppo animato da Blanqui, partecipava a un raggruppa-mento la cui vocazione era risolutamente politica. Ora si sa cheil periodo dal 1820 al 1848 fu particolarmente fecondo di movi-menti politici clandestini il cui obiettivo era in primo luogo dirovesciare il governo esistente. La carboneria costituita verso il1821, le società repubblicane, Aiutati, il cielo ti aiuterà, Gli amicidel popolo, I compagni del Rodano, che parteciparono all’insurre-zione lionese di novembre, mantengono questa evoluzione chedoveva condurre all’esplosione del febbraio 1848. Si sa che que-ste società raggruppavano in generale più rappresentanti delleclassi medie che operai, ma è importante, per puntualizzare leteorie di Proudhon a questo proposito, precisare che questi rag-gruppamenti tendevano a ravvicinare le rivendicazioni operaieoppure cercavano di appoggiarsi ad esse. Ma importerà più an-cora esaminare quali relazioni possono essere stabilite tra la di-namica dei movimenti propriamente operai e l’evoluzione delpensiero di Proudhon che, partito da una denuncia dello sfrut-tamento proprietario, finisce con un’analisi della capacità poli-tica delle classi operaie.

7) Il confronto tra la prassi operaia durante l’insurrezio-ne del novembre 1831, dell’aprile 1834 a Lione, del febbraio1848 e la strategia proposta da Proudhon deve essere eminen-

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temente chiarito. Senza dubbio queste pratiche furono ecce-zionali e limitate nel tempo, ma nella misura in cui esse sfuggi-vano alla routine della vita quotidiana e agli obblighi della vitaprofessionale, esse dovevano rivelare contemporaneamentedelle possibilità costanti, rivelare le attitudini profonde in meri-to all’ordine stabilito e mostrare, con la loro direzione, gliobbiettivi della classe operaia. E poiché Proudhon non ha ces-sato di considerarsi come il teorico della rivoluzione, noi dob-biamo poter capire più chiaramente in queste fasi eccezionali ilsenso dell’atteggiamento proudhoniano. Questo confronto sup-pone che si possa fare apparire gli orientamenti di queste prati-che operaie, che si cerchi di ritrovarne una certa unità di signi-ficato e quale difficoltà possa incontrare questo tentativo.

8) Infine bisogna considerare, in mezzo a queste praticheoperaie così differenziate, tutte le pratiche di espressione dipropaganda che presero una rapida espansione dopo il 1830. Èappunto un’azione quella di fondare un giornale, di redigereun articolo o anche di leggere o discutere con altri compagni. Sisa che precisamente quegli anni videro per la prima volta nellastoria della società francese l’apparire di molteplici giornali scrit-ti dagli operai e di pubblicazioni destinate ai lettori operai. Nelmese di settembre 1830 apparvero, per esempio, tre giornali icui titoli ne esprimevano sufficientemente le intenzioni: Il gior-nale degli operai; L’Artigiano, giornale della classe operaia; Il Popolo,giornale generale degli operai, scritto da loro stessi. Queste pubblica-zioni erano i sintomi di una nuova forma di coscienza sociale,ma avrebbero agito anche come mezzo di diffusione di nuoveforme di pensiero, veicolato i significati, formulato dellerivendicazioni, creato nuovi linguaggi in seno alle classi opera-ie. Quando per esempio L’Artisan scriveva nel suo prospetto del26 settembre 1830:

… Secondo noi il popolo non è altra cosa che la classe operaia: è leiche dà valore ai capitali sfruttandoli, è su di lei che riposa il commer-cio e l’industria degli Stati…(25),

partecipa praticamente e lucidamente a un’impresa intellettualeche cerca di comunicare ai suoi lettori operai una nuova co-scienza di se stessi o in altri termini una nuova coscienza di clas-se. Importa quindi posizionare Proudhon in queste pratiche didiffusione ideologica e precisare il suo posto nei molteplici temiche diffusero allora i giornali repubblicani, saintsimoniani,fourieristi e comunisti.

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2. - La strategia proudhoniana

I propositi di Proudhon concernenti la strategia rivoluzio-naria non mancano di comportare alcune ambiguità. Così duran-te la rivoluzione del 1848 il suo progetto di rovesciare le struttureeconomiche con l’istituzione di una Banca di scambio, fa appelloa una pratica parziale e progressiva che apparve rapidamente inef-ficace, ma durante lo stesso periodo, chiama a una distruzioneradicale, a una “liquidazione” (26) del regime proprietario eall’instaurazione dell’“anarchia positiva”. Non è qui il luogo perricordare in dettaglio questi propositi apparentemente difficili daconciliare: aspettiamo al contrario che l’investigazione sociologicavenga a chiarire le oscurità di questa espressione. Noi evochere-mo qui le indicazione più generali e le loro grandi linee.

Sappiamo con l’analisi della proprietà e il suo funzionamentoche il sistema delle contraddizioni porta a una rivoluzione neces-saria, a un’inversione totale dei rapporti sociali ed economici.Questa rivoluzione è contemporaneamente una conseguenza,poiché persegue un movimento d’organizzazione e didisorganizzazione che è immanente all’estensione del lavoro, euna rottura con il passato poiché l’ordine sociale che sarà instau-rato con l’atto rivoluzionario farà sorgere un tipo di società chenon è mai stata realizzata nel passato. Il tema essenziale di questariflessione sulla rivoluzione concerne la sua definizione e il suoobiettivo; come sottolineano in vari modi le opere scritte durantela rivoluzione del 1848, la rivoluzione futura, rompendo con lalunga tradizione delle rivoluzioni politiche, sarà una rivoluzionesociale che ha per vocazione di spezzare il sistema economico fon-dato sulla proprietà privata e di edificare una società economicaegualitaria, la società anarchica o mutualista. L’atto distruttore dellarivoluzione porterebbe essenzialmente all’eliminazione del capi-tale e del furto capitalista, ma simultaneamente toccherebbe ledue forze analoghe al capitale e la cui unità forma il sistema socia-le del regime proprietario: lo Stato e la religione (27). La rivoluzio-ne, eliminando così il sistema dell’ineguaglianza nelle sue struttu-re economiche, politiche e ideologiche, edificherebbe una socie-tà opposta termine a termine alla società di classe.

Proudhon si proporrà di rispondere alle tre domande chesuscita questa concezione della rivoluzione: da chi sarà fatta?Con quali mezzi? A quali condizioni? Poiché la rivoluzione haper fine l’emancipazione del lavoro e non più una modificazio-ne del governo, non potrà essere operata che dai produttori

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stessi; il senso della rivoluzione, l’appropriazione delle forzeeconomiche da parte dei produttori, indica che sono i soli ca-paci di realizzare questa mutazione che deve fare di loro gliunici agenti della vita sociale. Comunque questo principio nonporta Proudhon ad attenersi alla dicotomia del proletariato edella borghesia; non soltanto utilizza spesso l’espressione piùvaga e più generale di popolo, ma non esclude, almeno provviso-riamente, che le classi medie possano effettuare la rivoluzionesociale a profitto della classe operaia (28). Questa ambiguità è al-trettanto acuta come il fatto che l’esitazione concernente il sog-getto collettivo dell’atto rivoluzionario non inficia in nulla il prin-cipio generale secondo il quale l’emancipazione dei produtto-ri può essere operata solo dai produttori stessi. Nell’ultima ope-ra di Prudhon, De la capacité politique des classes ouvrières, preciseràdi nuovo che il progetto rivoluzionario non può venire che daiproduttori stessi, che non sarebbe in nessun modo portato dal-l’esterno alle classi rivoluzionarie, che realizzando la rivoluzionenon potrebbero che realizzare il proprio essere classe.

Proudhon non risponde meno direttamente alla questio-ne dei mezzi che userebbero i produttori in seno alla “vera pra-tica rivoluzionaria”, ma le sue indicazioni non mancano qui,ancora, di creare delle difficoltà. Che si tratti dell’associazioneprogressiva, come è descritta nei libretti anteriori al 1848, oppu-re della Banca di scambio, i mezzi pratici che sono preconizzaticostituiscono una presa diretta e militante delle forze economi-che, poiché il fine della rivoluzione è di restituire ai produttoril’organizzazione delle forze economiche, l’atto rivoluzionariodeve essere immediatamente preliminare a questa organizza-zione con l’instaurazione di rapporti economici d’associazio-ne. Secondo il progetto formulato poco prima del 1848, l’in-staurazione del rapporto di reciprocità tra produttori e tra iproduttori e i consumatori, sarebbe in qualche modo l’inizio diun vasto movimento di sovversione il cui effetto sarebbe di di-struggere radicalmente il regime sociale del capitalismo; l’esten-sione necessaria di un tale modello trascinerebbe da se stessal’eliminazione del capitale e quindi anche dello sfruttamentoche essa ha instaurato (29). Il mezzo preconizzato sarebbe dun-que rigorosamente limitato a una creazione socio-economicaspontanea, evitando sistematicamente il ricorso alla violenza nel-l’azione politica. Comunque se Proudhon non si fida in effettidelle violenze dei moti (30) e dubita della loro efficacia rivoluzio-naria, fa appello comunque alla rabbia di classe e minaccia apiù riprese la borghesia di una violenza che romperebbe la sua

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opposizione ai suoi interessi. Nello stesso tempo se condannaancora con molta energia il ricorso all’azione politica che avreb-be per effetto l’abbandono degli obiettivi sociali della rivoluzio-ne, accetta comunque nel 1848 di entrare all’Assemblea costi-tuente, stimando senza dubbio che l’azione politica poteva pro-muovere le riforme economiche, e sarà per portare le classioperaie alla capacità politica che il suo ultimo libro sarà scritto.

Quest’ultima opera, che si propone di guidare l’azioneoperaia, apporta la risposta più precisa ai problemi delle condi-zioni della rivoluzione sociale distinguendo le “tre condizionifondamentali” (31) che sarebbero la coscienza di classe, la teoriaed infine la pratica reale. A proposito della coscienza di classeProudhon indica che è una conseguenza di uno stato di fattonato dall’“organizzazione industriale”: la divisione di tutta lasocietà moderna in due classi antagoniste, “l’una di lavoratorisalariati, l’altra di proprietari capitalisti e imprenditori” (32). Cosìgiudica che le classi operaie abbiano largamente raggiunto nel1865 la coscienza di sé stesse, cioè a dire la coscienza della lororealtà sociale e delle funzioni che rivestono nella società, maanche della loro dignità e del loro valore. Si deve sottolinearequi che Proudhon non definisce la coscienza di classe con lasola conoscenza che la classe sociale avrebbe della sua realtà edei suoi rapporti effettivi con le classi rivali, ma sottolinea chequesta coscienza è immediatamente coscienza valorizzante chepermette alla classe di innalzarsi come valore positivo nella suadignità e nel suo diritto. Interessa ricercare se una tale valoriz-zazione della classe aveva qualche radicamento nelle classi ope-raie francesi di quell’epoca, se a quell’esperienza essa rispon-deva. Al soggetto dell’“Idea” operaia, cioè delle teorie propriedelle classi operaie, Proudhon risponde affermativamente alladomanda di sapere se nel 1865 le classi operaie possedevanouna teoria che era loro propria in “perfetto contrasto con lateoria borghese” (33); le classi operaie hanno già formulato unaconcezione generale della società (noi potremo dire una visio-ne del mondo perché questa concezione non poggia solo sullestrutture sociali, ma anche sull’“ordine universale”), rimane daformulare meglio questa teoria ed è il ruolo che compete alteorico sociale. Ma Proudhon precisa, come aveva già fatto nel-le sue opere precedenti, che questa idea è un’idea propria del-la classe operaia e che non è altro che la nozione della propriacostituzione: con la formulazione teorica la classe operaia tra-duce e spiega la “legge del suo essere” e crea la “nozione dellapropria costituzione” (34). La classe operaia non riceve dunque

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in nessun modo la sua teoria dall’esterno, per esempio daisapienti o dai filantropi provenienti dalla classe borghese:Proudhon non nega che scrittori esterni alla classe operaia ab-biano potuto formulare delle teorie vicine al socialismo, ma negache siano all’origine profonda della teoria operaia che ha lasua fonte reale nella classe stessa: questa, formulando la suaidea, non ha fatto che seguire la propria “ispirazione” (35). Cosìquesta teoria, proveniente dalla classe stessa, non è dissociabiledalla pratica e Proudhon aggiunge che il mutualismo è già invia di realizzazione; rileva che gli operai hanno già cominciatosegretamente dei tipi di organizzazione che prefigurano le gran-di linee della società anarchica futura (36). Qui ancora bisogneràcercare se Proudhon indica la pratica precisa e soprattutto qua-le importanza e quale significato poteva avere a quell’epoca lapratica delle società di mutuo soccorso.

Infine, a proposito della terza condizione della promo-zione della classe operaia alla capacità politica, il passaggio allapratica effettiva, Proudhon risponde che è lì che si trova la dif-ficoltà provvisoria del proletariato; se le classi operaie sono giàlargamente illuminate sulle loro dottrine, esse non sono anco-ra giunte “a dedurre da questi principi una pratica generaleconforme” (37). Questa formula evoca una progressione che siopererebbe verso il 1865 in seno alle classi operaie, ma significaanche che le pratiche parziali evocate precedentemente sareb-bero suscettibili di sviluppo e senza dubbio che la liquidazionesociale starebbe aspettando l’estensione delle pratiche operaiespontanee e da questo momento si ritrova in seno al pensierodi Proudhon questa difficoltà che non manca di sollevare la suaconcezione della rivoluzione, perché contemporaneamenteProudhon non cessa di sottolineare l’urgenza e la necessità diuna rottura storica radicale tra il sistema borghese e il sistemamutualista, ma non cessa di mettere in guardia contro una vio-lenza che potrebbe essere soltanto politica e non avere cosìnessuna conseguenza decisiva. In modo che il suo pensiero sem-bra esitante su questo punto essenziale, sia che esso giustifichiun passaggio lento e pacifico al mutualismo, sia che esalti lagrandezza di una rivoluzione dagli effetti rapidi e violenti.

Queste teorie devono essere chiarite con le posizioni chefurono prese contro gli altri teorici socialisti. Ora, se le teorie pos-sono sembrare esitanti, gli atteggiamenti polemici furono di estre-mo vigore, manifestando così una estrema fiducia da parte del-l’autore nella validità delle sue concezioni. Questi atteggiamentifurono d’altra parte rimarchevolmente costanti, sia contro P.

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Leroux, Louis Blanc, Blanqui o Cabet. Si vede allora Proudhoncondannare con estrema energia le tesi umanitarie di P. Lerouxanche quando l’ampiezza generosa della visione cristiana diquesto autore avrebbe dovuto attirare la sua simpatia; egli per-cepisce al contrario questi appelli all’amore e alla fratellanzacome una minaccia diretta contro il movimento di emancipa-zione della classe operaia, come se la pratica operaia si oppo-nesse radicalmente all’evocazione degli ideali astratti, fosseroessi universali. La sua opposizione a Louis Blanc fu ancora piùviolenta e significativa; nel 1848, senza più attardarsi in dettaglidi proposte che potevano formulare il “sistema di Lussembur-go”, denuncia nelle concezioni di Louis Blanc una pratica di-rettamente contraria all’ispirazione operaia, poiché, invece diincitare a una rivoluzione fatta dai produttori, si richiama a unaautorità statale incaricata di imporre agli operai delle decisioniprese al di fuori di essi. Afferma allora (38) che una tale rivoluzio-ne “dall’alto” non avrebbe altro effetto che rinforzare le poten-ze oppressive e si rivelerebbe in effetti identica ai tentativi rea-zionari. Questa critica si affianca a quella diretta contro i comu-nisti, in particolare contro Etienne Cabet. In effetti Proudhon as-simila il principio statalista, che imputa a Louis Blanc, al princi-pio comunista; nei due casi, invece di fondare l’attività socialesul libero contratto dei gruppi, si nega l’indipendenza dei cen-tri sociali per sottometterli a una potenza autoritaria investitadel titolo di collettività. Apparentemente opposti alla borghe-sia, questi sistemi oppressivi non farebbero che prolungarne iprincipi, ossia il rispetto dell’autorità e dell’unitarismo. Sappia-mo al contrario che l’emancipazione operaia doveva trascinarela scomparsa dello Stato dispotico e per raggiungerla mantene-re la pluralità delle iniziative dei gruppi in una organizzazionedelle mutualità. Anche se Proudhon non ha così ampiamenteconfutato la posizione di Blanqui, le critiche precedenti non man-cano di raggiungere anche la concezione di una azione politicaparziale, poiché l’azione politica non conduce di per sé alla rivolu-zione sociale e poiché il luogo di origine di una rivoluzione auten-tica non può essere un piccolo gruppo, anche se fosse estrema-mente risoluto, ma devono essere le classi operaie stesse.

Meglio che la lettera della dottrina, queste polemiche de-limitano molto vigorosamente il significato di questa vera prati-ca rivoluzionaria che Proudhon designa come l’unica efficace.Questa pratica si opporrebbe radicalmente a ogni ricorso agliideali religiosi o umanitari, proibirebbe il ricostituirsi di unpotere politico trascendente, si allontanerebbe assolutamente

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dai tentativi comunisti e anche distruggerebbe, in seno allemasse operaie, alcune tendenze che si manifestano verso un’or-ganizzazione statalista comunitaria. Ma l’accumulazione di que-ste negazioni e di questi rifiuti, non ha mancato di sorprenderenumerosi contemporanei, sia che l’abbiano ritenuto un perico-loso agitatore, sia che non abbiano visto in lui che un brillantesofista, abile a accumulare i paradossi, ma incapace di proporreuna pratica realizzabile. Ora, mentre lo si accusava di trascinaregli eventuali discepoli in strade senza uscita, Proudhon rispon-deva precisamente che i suoi progetti erano più direttamente le-gati alla pratica reale delle classi operaie e che non faceva cheesprimere al meglio le forze “reali” e le pratiche già realizzate.

Il confronto fra il pensiero di Proudhon e l’ambiente so-ciale può dunque qui effettuarsi in un campo assai rigorosa-mente delimitato. Dobbiamo ricercare a quali pratiche socialipossono essere avvicinate queste strategie proudhoniane, dob-biamo cercare se questo discorso esprime una pratica o qualerapporto intrattiene con questa pratica: è forse omologo, ripe-titivo, generalizzatore? Proudhon ha formulato a livello di lin-guaggio teorico una pratica già organizzata o, al contrario, nonavrebbe che sognato un’azione senza nessun rapporto con larealtà? E se ha espresso in modo coerente una certa pratica,qual era l’importanza storica di questa? Non era che una so-pravvivenza del passato, oppure conteneva le premesse del suosviluppo? Dovremo accedere con questo confronto a un giudi-zio d’insieme sulla situazione del proudhonismo così come sulsuo significato. In seno a questo confronto dovremo anche po-ter mostrare il carattere utopico o realista del proudhonismo.Questo confronto deve mostrare se il proudhonismo fu un rap-porto diretto con il sogno operaio (e si sa che i progetti utopici,le creazioni di nuove religioni, conobbero in quest’epoca unosviluppo eminentemente significativo di una mentalità partico-lare) o se fu al contrario indistintamente mischiato ai modi diattività di alcuni ambienti operai.

In realtà si può sin da ora presagire che la strategia pro-posta da Proudhon, come pure l’insieme delle sue proposte checoncernono le pratiche operaie, non fu omologa a tutte le pra-tiche effettive e si trova al contrario in contraddizione con alcu-ne di loro. Si sente che la lotta condotta da Proudhon non fuunicamente orientata contro la classe possidente, ma anchecontro alcune pratiche operaie e così Proudhon si trova, co-scientemente o incoscientemente, in disaccordo con alcuni stratidelle classi operaie. Anche questo confronto deve condurci a

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rispondere alla domanda di sapere a quali strati operaiProudhon poteva essere più vicino e quale tipo di operaio ab-bia potuto prendere a modello. Tre tipi di pratiche devono es-sere più particolarmente prese a confronto: il compagnonnage,le società di mutuo soccorso e il mutualismo.

3. - I compagnonnages

È un fatto estremamente vero che i grandi riformatorisociali degli anni 1848, Louis Blanc, Proudhon, Pierre Leroux,abbiano quasi mantenuto il silenzio a proposito del compagnonnagee che gli stessi che si proposero di difendere e organizzare leclassi operaie abbiano potuto mantenere il silenzio sulle piùpotenti organizzazioni operaie dell’epoca. Sia che queste orga-nizzazioni siano state abbastanza segrete da rifiutarsi alla cono-scenza dei teorici, sia che questi abbiano partecipato all’igno-ranza delle classi non operaie, essi contribuirono a svilupparela credenza che queste organizzazioni non erano che delle cor-porazioni feudali sopravvissute e che erano in via di regressionee senza importanza sociale.

È molto difficile ancora oggi misurare l’importanza realedel compagnonnage nel corso del XIX secolo e anche nella pri-ma parte del secolo dove si conviene che esso sia più esteso epiù attivo che sotto il Secondo Impero. Così Octave Festy, fa-cendo la storia dei movimenti operai all’inizio della monarchiadi Luglio, afferma la scomparsa del compagnonnage già in que-st’epoca (39), mentre lo storico del compagnonnage Emile Coornaertafferma al contrario una recrudescenza di queste organizzazionitipicamente operaie prima della rivoluzione del 1848 (40). Questocontrasto delle conclusioni è tanto più difficile da rilevare per-ché si collega a una completa divergenza nella interpretazionedelle pratiche operaie: O. Festy tende a considerare gli scioperie le coalizioni, così frequenti durante questo periodo, come ilsegno della scomparsa del compagnonnage e come l’indice di for-me nuove di azione, “improntate… a tendenze sociali” (41). E.Coornaert interpreta al contrario gli stessi fatti come il segnodel mantenimento del compagnonnage e attribuisce alle organizza-zioni dei compagni le coalizioni e gli scioperi. Non potremmo pre-tendere di essere netti in un dibattito così complesso, tanto piùdifficile da esaminare poiché i compagni si circondavano siste-maticamente del più grande segreto. Il dibattito concerne inparticolare il significato di queste pratiche e l’importanza di

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queste strutture operaie, sia che si ritengano le forme delcompagnonnage come un folklore che nascondeva una praticanuova, sia che si prendano al contrario le strutture come unlegame efficace che rendeva possibili dei conflitti organizzaticontro i padroni. Senza dubbio non si può dimostrare qui unconfine assoluto, perché non si può nel corso di tutto questoperiodo designare un momento preciso nel quale delle pratichenuove sono apparse sotto forme antiche e inversamente, e non ècerto che parole nuove abbiano sempre espresso realtà nuove.Come vedremo più tardi, quali siano state le forme coscienti edapparenti, la scomparsa del compagnonnage non significava neces-sariamente la scomparsa di tutte le pratiche che esso organizzava.

Nel 1840, comunque, non si poteva considerare che le“associazioni di compagnonnage” avessero cessato di esistere; essesi mantenevano più vivaci e nella loro forma antica nel seno deisettori industriali meno toccati dalla meccanizzazione, cioè neisettori ancora predominanti in questo primo inizio del XIX se-colo. La più celebre era quella dei carpentieri di Parigi i cuiscioperi (1822, 1832, 1836, 1837, 1843, 1845) manifestavanochiaramente la continuità delle strutture dei compagni. Lo scio-pero del giugno 1845, che mobilitò da 4.000 a 5.000 scioperantie si concluse con la traduzione di 19 compagni carpentieri da-vanti ai tribunali, attesta il vigore e la solidarietà compagnonicain alcune professioni durante questo periodo.

Questa resistenza energica dei compagni contro le minac-ce di smantellamento delle loro associazioni minacciate dal-l’estensione dell’economia liberale, il mantenimento di questestrutture sociali anche quando la legislazione le ignorava o lecombatteva, attestano quanto queste forme antiche continua-vano a rispondere a dei bisogni sociali particolarmente vivi.Come ha sottolineato E. Durkheim (42), non si può dubitare chequeste corporazioni abbiano espresso dei bisogni profondi e laloro spontaneità in questo periodo sfavorevole mostra sufficien-temente che non erano soltanto delle sopravvivenze inadegua-te di una società superata. I Doveri continuavano ad organizzarele assunzioni e lottavano perché questo monopolio dell’assun-zione rimanesse tra le mani dei compagni; degli scioperi scop-piarono per esempio a Bordeaux nel 1824 per protestare con-tro l’istituzione di un ufficio municipale di collocamento cheavrebbe tolto agli operai il controllo del lavoro. Come sottol’Ancien Régime, le associazioni dei compagni permettevano aglioperai di costituire un fronte unito contro i padroni e rispon-devano così a un bisogno predominante degli operai, la difesa

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dei loro salari. Ma ancora bisogna aggiungere, come rimarcaDurkheim, che queste associazioni rispondevano più general-mente a un insieme di bisogni affettivi; esse esaltavano i senti-menti di fratellanza e di solidarietà, come testimonia la fedeltàai costumi, ai segni visibili e ai riti iniziatici dei quali si può pen-sare che permettevano di riaffermare simbolicamente la pre-senza dei rapporti di solidarietà e attaccamento dell’individuoalla comunità sociale. In un periodo dove l’isolamento perso-nale, la miseria e la disoccupazione costituivano delle minacceevidenti, l’associazione dei compagni era sia una garanzia psico-logica sia uno strumento di lotta economica.

Proudhon non poteva ignorare le strutture del compa-gnonnage, perché aveva fatto il giro di Francia nel 1832 e perchéera informato dei tentativi che erano stati fatti da alcuni compa-gni quali Pierre Moreau e Agricol Perdiguier (43), per riformarei “Doveri” e adattarli alle nuove condizioni economiche e poli-tiche. Ma si può precisamente verificare, confrontando i pro-getti di Agricol Perdiguier e la strategia che proponeva Proudhon,quanto si situasse risolutamente all’esterno dell’organizzazionedei compagni esistente. Mentre Perdiguier parla esclusivamenteai compagni nel quadro del compagnonnage per riformare le cre-denze e i riti, per rimediare ai conflitti che oppongono i differentiDoveri, Proudhon si pone immediatamente fuori dell’associazioneesistente per parlare a tutti i produttori e “uomini del popolo” (44).E mentre Perdiguier si propone di riformare i compagni e dunquenon invita a una sovversione dell’ordine economico che differen-zia i padroni e gli operai, Proudhon invita alla soppressione dellacondizione salariale con la riorganizzazione generale della societàeconomica. Come scrive E. Coornaert, Perdiguier “credette dipoter fare entrare tutta la classe operaia nell’alveo del compa-gnonnage” (45), mentre Proudhon invitava in effetti i compagni a di-struggere le loro forme antiche.

In effetti le opposizioni tra le strutture dei compagni e lastrategia proudhoniana concernono i principi generali di que-sti due termini. La pratica dei compagni si inseriva necessaria-mente nella differenziazione delle associazioni. I tre grandiDoveri, Devoir de Maître Jacques, Devoir de Liberté, Union, divideva-no i compagni in associazioni rivali e si sa che le risse erano fre-quenti tra i membri dei differenti Doveri, tra le Cagots e leDevoirant. Senza dubbio delle proposte erano state fatte per su-perare queste divisioni, sia predicando la riconciliazione comefaceva A. Perdiguier, sia anche proponendo la fusione delle tregrandi società esistenti come proponeva Pierre Moreau, ma le

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proposte di fusione rimettevano totalmente in causa le tradizio-ni dei compagni e non potevano realizzarsi partendo dalle strut-ture esistenti. Si può pensare, al contrario, che le difficoltà obiet-tive che incontravano gli operai per ottenere e conservare unimpiego e la concorrenza che ne risultava, portavano a mante-nere le divisioni, autorizzavano le esclusioni e incitavano a man-tenere alcune garanzie offerte dalle strutture rigorosamente soloper i compagni. I conflitti che nacquero tra i Doveri e le violenzeche opposero i veri compagni e gli operai indipendenti che era-no reclutati direttamente dai padroni, non erano semplici con-seguenze di libagioni eccessive, ma il risultato dei conflitti diinteresse che opponevano gli operai tra loro. La strategiaproudhoniana che incita i produttori a istituire dei rapportieconomici e contrattuali, nega, come per definizione, questadiversificazione operaia e richiama immediatamente a conside-rare cadute tutte le antiche separazioni. Da questo punto divista la rottura è radicale, tra una pratica che si iscrive nelladifferenziazione dei Doveri, nella gerarchia degli “aspiranti”,degli “affiliati”, dei “giovani uomini”, dei “compagni ammessi”e dei “completi” e una pratica egualitaria che romperebbe lestratificazioni antiche per non considerare altro che i rapportisociali di produzione tra centri economici reputati uguali.

Proponendo come fine la liquidazione del sistema pro-prietario, come mezzo l’organizzazione economica contrat-tualizzata, Proudhon incitava a una distruzione di una certa vi-sione del mondo, propria dello spirito dei compagni. Le sueviolenze verbali intorno ai valori dell’amore e della fratellanza,raggiunsero anche tutta una tradizione spirituale propria dellesocietà dei compagni che assimilava le società operaie a dellegrandi famiglie. Quando Perdiguier scriveva nel suo progettodi costituzione del compagnonnage e fratellanza del 1848:

…che in tutte le città della Francia i compagni riuniti non formano cheuna sola e unica famiglia… il più forte aiuterà il più debole… il più riccoaiuterà il più povero(46),

esprimeva questo spirito comunitario, fedele alle formule delcristianesimo, che Proudhon non cessava di attaccare. Allo stes-so modo la critica che Proudhon avrebbe sviluppato con acca-nimento contro la Chiesa e in modo più particolare contro lareligione cristiana, prende in contropiede i compagni e la lorofedeltà alla Chiesa cattolica. In effetti durante il XIX secolo,malgrado un distacco più grande riguardo alla religione, i Dove-

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ri non cessarono di affermare la loro fedeltà alla Chiesa, sollevan-do così la violenza critica di Proudhon. Da questo punto di vista icompagni, con il loro rispetto delle gerarchie, con il senso dei pri-vilegi distinti, con il loro conformismo religioso, rivelano una cul-tura anteriore al 1789, mentre Proudhon con le sue rivendicazioniegualitarie e la sua irreligiosità aggressiva, rivela una nuova menta-lità fortemente marcata dalla grande Rivoluzione.

Ma senza dubbio dobbiamo andare oltre e chiederci se lesocietà dei compagni non formavano elementi di conservazionein opposizione allo spirito riformatore o rivoluzionario. Per ilsuo rispetto delle tradizioni e il carattere parcellare delle suelotte economiche, la pratica del compagnonnage non poteva co-stituire una contestazione globale della società economico-po-litica. Ancor più, se le società di compagnonnage non erano auto-rizzate, esse erano tollerate dal potere politico; senza dubbio lapolizia diffidava dei Doveri e arrestava quelli che dirigevano gliscioperi, ma i governi si attennero a una politica di prudenzadefinita dal prefetto di polizia Réal, sotto il Primo Impero: sor-vegliare i compagni e limitarsi a “reprimere gli eccessi”. Le leggidel 10 aprile 1834, anche se dirette contro le associazioni ope-raie, non furono concepite contro di loro e il prefetto di poliziadi Parigi rassicurò gli amministratori (47). Sotto il Secondo Im-pero “il compagnonnage non ispirava nessuna inquietudine par-ticolare” (48). In questo l’indifferenza dei compagni riguardo allapolitica si oppone profondamente all’apoliticità proudhoniana:l’indifferenza dei compagni si inserisce in un sistema sociale perlimitare i danni e per tentare di difendere gli interessi di grup-po (un Dovere può essere assimilato ad un gruppo di pressio-ne); l’apoliticità proudhoniana definisce al contrario una stra-tegia che, evitando di sottomettersi a un potere o a un partitopolitico, cerca la creazione di una nuova società politica. Lasocietà di compagnonnage invitava a difendere interessi partico-lari, mentre Proudhon invitava a negare gli interessi particola-ri, in una riorganizzazione generale della società.

Evidentemente il proudhonismo dovette trovare il suo mo-dello all’esterno dell’esperienza del compagnonnage. In effetti seil compagno è legato al suo mestiere, non è legato al centro diproduzione, atelier o manifattura. Come ben esprime l’usanzadi fare il giro di Francia, anche se tendeva a scomparire, il compa-gno non era legato al laboratorio, ma riteneva necessario spo-starsi da un laboratorio a un altro e da una città all’altra. Il cen-tro del suo inserimento sociale era certo il suo mestiere e il suoDovere, e non il laboratorio del padrone. Proudhon prenderà al

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contrario a modello il rapporto tra l’operaio nel laboratorio edil gruppo sociale costituito dal raggruppamento dei lavori nel-l’impresa di produzione. Anche se Perdiguier propone di raf-forzare l’attaccamento dell’operaio al suo gruppo corporativo,Proudhon pensa a integrare il produttore in un rapportoegualitario di produzione e a ricostruire su questo modello irapporti di scambio tra i centri di produzione e di consumo. Sipuò già proporre l’ipotesi che il compagnonnage raggruppassedegli operai spesso legati all’ambiente rurale, come testimonial’uso ancora molto presente all’inizio del XIX secolo di andarea lavorare in città, lasciando la famiglia in campagna (49) e che ilproudhonismo esprima al contrario un’esperienza urbana,l’esperienza dell’operaio o dell’artigiano profondamente lega-to al suo luogo di lavoro, che può considerare come proprio.Mentre il compagno non si stima responsabile della gestione dellaboratorio, si vedrà invece l’operaio proudhoniano, impegna-to non soltanto nel suo mestiere, ma nella sua impresa, interro-garsi sulle vendite ed i mercati, ansioso di dominarne le regole.

Non è dunque nelle società di compagnonnage e nelle loropratiche che possiamo trovare il rapporto più diretto che uni-rebbe l’opera proudhoniana all’ambiente operaio. Come con-fermerà ancora l’atteggiamento di Proudhon verso gli scioperi,la strategia che propone invita ad una azione molto diversa dal-la pratica di compagnonnage tradizionale.

Eppure questa opposizione non concerne che le istitu-zioni del compagnonnage e non si dovrebbe confondere l’attivitàdegli uomini e le loro istituzioni provvisorie. Anche l’opposi-zione tra il proudhonismo e il compagnonnage non corrispondead un’identica opposizione tra il proudhonismo e i compagni.Al di là delle strutture provvisorie, Proudhon ha potuto ispirar-si ad una pratica che superasse le istituzioni, inversamente glioperai venuti dal compagnonnage poterono scoprire nel prou-dhonismo un richiamo più che soddisfacente ad alcune delleloro aspettative.

Sembra necessario in effetti ravvicinare le certezze fonda-mentali tipiche del pensiero proudhoniano all’esperienza se-colare dei compagni. La dicotomia proudhoniana tra la società“reale” e la società “artificiale” che separa due universi sociali eche investe il mondo degli operai, dei produttori, l’eminenterealtà in opposizione all’artificiosità del mondo degli sfruttato-ri e dei politici, prolunga, sembra, un’esperienza di compagnonnageripensata in una prospettiva di valorizzazione sociale. Questaintuizione che attraversa tutto il proudhonismo e assicura la

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sua estrema fiducia nella presenza di forze potenti e latenti cherimarrebbero da organizzare, trova le sue origini e la giustifica-zione nell’effettiva spontaneità di queste forze di compagnonnagee nella loro singolare resistenza a tutti i tentativi di assorbimen-to o di distruzione. Si può certamente pensare in modo validoche la certezza proudhoniana della realtà specifica e l’indi-struttibilità delle classi operaie si radica in questa esperienzastorica delle resistenze del compagnonnage che traevano originefin dall’alto Medio Evo.

Quando Proudhon dice che le forze del lavoro sono eter-ne, che sono indistruttibili, quando afferma che queste forze siorganizzano necessariamente al di fuori del controllo dello Sta-to e devono quindi organizzarsi autonomamente, prolunga sulpiano della teoria una pratica ancestrale del compagnonnage, fat-ta di ostilità verso i poteri e di abitudine all’illegalità. Allo stessomodo l’attenzione che Proudhon presta alla lotta di classe el’interpretazione essenzialmente economica che ne dà, prolun-gano la pratica ancestrale del compagnonnage, fatta di resistenzae di rivendicazione.

Inversamente, se l’opposizione è completa tra la teoriaproudhoniana e le strutture delle fratellanze, i rapporti sonomolto più complessi tra la teoria e i tentativi reali, i cambiamen-ti che effettuavano allora i compagni. Sappiamo in effetti, dopoil 1810 e in modo particolare dopo la rivoluzione del 1830, chedei compagni cominciarono a rivoltarsi contro le strutture gerar-chizzate dei Doveri e a creare delle nuove società che rompeva-no coscientemente le forme arcaiche per instaurare delle socie-tà fondate sul principio dell’uguaglianza dei membri. Degli “aspi-ranti”, degli “affiliati” e dei “giovani uomini” cominciarono arivoltarsi contro le fratellanze ufficiali e contro la disciplina cheveniva loro imposta. Sin dal 1811 gli aspiranti calzolai si separa-rono dalla loro società a Bordeaux, formarono la loro società esi diedero il nome di “societari”. Nel 1823 gli aspiranti falegna-mi fecero la stessa cosa e crearono la Société des Indépendants ( odella Beneficenza). Più ampio ancora fu il movimento che svilup-parono a Tolone nel 1830 gli aspiranti serraturieri: si rivoltaro-no contro i compagni “ammessi” e “completi”, gettarono le basidi una nuova società aperta a tutti gli aspiranti, che chiamaro-no L’Union. Queste società ricevettero progressivamente le ade-sioni dei falegnami-ebanisti, dei serraturieri-meccanici, deimembri delle quattro corporazioni (ferrai, calderai, fonditori,coltellai) poi dei sellai, maniscalchi, cordai, pellettieri (50). Nel1845 L’Union pubblicava un regolamento unitario che soppri-

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meva le distinzioni fra aspiranti e affiliati oppure fratelli am-messi e completi; tutti gli operai erano messi sullo stesso pianod’uguaglianza. Si vede con questo esempio che l’ostilità diProudhon contro la chiusura e contro la gerarchizzazione delleantiche fratellanze era comunque condivisa dagli operai e inparticolare dai più giovani. Proudhon prosegue questo movi-mento di contestazione. Si pone in un conflitto che attraversale classi operaie e che è anche, verso il 1830, un conflitto digenerazione; prende le parti dell’Union contro i Devoirs de MaîtreJacques et de Liberté, il partito di Pierre Moureau che affermava lanecessità di riformare i Doveri secondo i principi della rivoluzio-ne, contro la moderazione conservatrice di Agricol Perdiguier.Così i rapporti tra i compagni e l’opera proudhoniana sono piùcomplessi di quanto potevano sembrare allo stesso autore. Sen-za dubbio era portato ad opporsi radicalmente alle strutturefeudali delle società di fratellanza, ma lui stesso si iscrive in unatradizione operaia della quale riprende spontaneamente i si-gnificati: l’autonomia, la fiducia in sé, la certezza di possedereun’irriducibile originalità. Persegue i movimenti più egualitariche si manifestano in seno alle antiche forme e che erano ingrado di creare nuove strutture. Più ancora bisognerebbe sot-tolineare che le nuove pratiche che studieremo, in particolarela pratica del mutuo soccorso, nella quale noi troveremo unodei modelli pratici dove Proudhon cerca le grandi linee del suosistema, trovarono la loro realizzazione in seno alle fratellanze.

Il movimento complesso che doveva condurre dalle strut-ture del compagnonnage alle società di mutuo soccorso, poi alledifferenti forme di associazione, non avvenne con una succes-sione di rotture assolute, ma con una serie di evoluzioni, di ten-tativi, di innovazioni che ci appaiono come delle innovazionirelative, anche quando certi contemporanei ebbero la sensa-zione di una rottura o di una “rigenerazione” assoluta. Così lapratica del mutuo soccorso doveva, con il suo sviluppo pratico eteorico, condurre alla regressione delle fratellanze, ma era essastessa una pratica che proveniva dalle fratellanze e intimamen-te legata alla tradizione. Proudhon si trova situato in un movi-mento che rompe violentemente con le strutture arcaiche, mache si sviluppa in realtà per mutazioni relative. Chiama quindia nuove forme di pratica (e la sua indifferenza nei confrontidegli scioperi è particolarmente caratteristica della sua rotturacon le pratiche tradizionali delle fratellanze) ma non fu capitodagli operai perché prolungava delle esperienze vissute, propo-nendo contemporaneamente il superamento delle strutture

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antiche verso una sovversione sociale.

4. - Le società di mutuo soccorso

Se i rapporti sono veramente di opposizione tra le strut-ture di fratellanza e il progetto proudhoniano, troveremo alcontrario una omologia strutturale tra le società di mutuo soc-corso e la rappresentazione proudhoniana e, a livello delle pra-tiche, una profonda identità di forme di azione. Rapporto chesi situerà qui molto più nettamente a livello delle forme dellapratica; nel compagnonnage Proudhon denunciava essenzialmen-te le strutture, particolarmente le strutture di gerarchizzazionee di divisione; al contrario si troverà ripreso nella spontaneitàdelle società di mutuo soccorso il modello dei rapporti socialiche si trovava incessantemente ricreato dalla pratica degli ope-rai impegnati nelle attività comuni. Prima di poter giustificarequesta proposta, possiamo in effetti formulare l’ipotesi cheProudhon abbia trovato in questa pratica, cioè in questa attivitàspontanea con la quale degli operai e più esattamente dei pro-duttori si organizzavano secondo un rapporto egualitario percreare tra di loro dei rapporti di scambio e di protezione, unmodello sociale della sua teoria. Sappiamo che in queste socie-tà i produttori costituivano una collettività che rimanevaimmanente e nella quale i rapporti fondati sulla reciprocità ri-vestivano dei caratteri di equità e di trasparenza. Questi gruppilimitati non imposero niente agli individui, nessuna costrizio-ne, il produttore vi aderiva secondo il proprio consenso; sap-piamo che i partecipanti non dovevano subire una gerarchia,poiché aderivano per aiutarsi l’un l’altro; stabilivano liberamentei loro statuti e i loro contratti e comunque si aspettavano daquesta messa in comune dei loro apporti materiali la continuitàdi una società suscettibile di integrare e di proteggere l’indivi-duo isolato. La società di mutuo soccorso offriva il modello diun’associazione di interessi individuali, ma di un’associazionenella reciprocità e col mantenimento delle differenze, poiché imembri, garantendosi quello che conveniva mettere in comu-ne, non rinunciavano alla loro indipendenza e evitavano di cre-are una comunità di beni. Senza dubbio possiamo dimostrareche Proudhon doveva rifiutare i confini stretti di queste socie-tà, poiché queste si limitavano generalmente a un centinaio dimembri, ma si può pensare che Proudhon vi trovò il modellopratico che ripensò in una sintesi personale.

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La restaurazione della monarchia di Luglio fu marcatadalla grande diffusione di queste società di mutuo soccorso,spontaneamente create dagli operai e piccoli produttori. Que-sto movimento di creazione si sviluppò dapprima a Parigi, dovesi contavano 132 mutue professionali alla fine del 1823, poi inprovincia e particolarmente a Lione. Si può pensare che allavigilia del 1848 il loro numero superasse le duemila unità, matutte queste società non erano ufficialmente riconosciute, quindiqueste cifre possono anche essere ipotetiche. Prenderemo comeesempio solo l’Association typographique et philanthropique di Nantesche ha studiato O. Festy (51). Il 26 maggio 1833 gli operai tipo-grafi di Nantes, dopo parecchi tentativi infruttuosi di fondareun’associazione comune, crearono l’Associazione tipografi per l’isti-tuzione di una cassa di mutuo soccorso e di previdenza della città diNantes. Il regolamento che fu adottato lo stesso giorno fu firmatodai 75 soci presenti. Il preambolo dello statuto esprimeva l’urgen-za degli operai di associarsi e proseguiva in questi termini:

… e diciamo ai signori padroni tipografi: Noi non invidiamo né levostre ricchezze né i vostri piaceri, no! ma un salario capace di procu-rarci un letto modesto, un ricovero dalle vicissitudini del tempo, delpane per la nostra vecchiaia e la vostra amicizia in cambio della no-stra… Perché non dovremmo riunirci per parlare con calma dei no-stri affari, dell’esistenza delle nostre famiglie e degli interessi dellenostre fabbriche?

Secondo gli statuti che si erano date, le associazioni si impegna-vano a fornire soccorso ai loro membri in caso di malattia o diincidenti e durante la loro vecchiaia; si incaricavano anche del-le spese dei funerali; davano inoltre un soccorso agli aderentiche fossero obbligati a lasciare Nantes per mancanza di lavoro.L’articolo 13 degli statuti prometteva l’appoggio dell’associa-zione ad ogni membro che fosse stato licenziato da una tipogra-fia per aver rifiutato di accettare gli “usi contrari a quelli stabili-ti”; tutti i membri si impegnavano in effetti ad “esigere tutto ciòche fosse stabilito e a rifiutare tutto ciò che fosse contrario ailoro interessi e ai loro diritti”. Infine la società fissava le regoledella sottomissione all’autorità: “Nell’interesse della società ilsignor sindaco avrà il diritto di ispezionare due volte all’anno,di sei mesi in sei mesi, tutta la sua contabilità” (52). Come dovre-mo sottolineare e come doveva confermare la storia di questasocietà, queste formule prudenti esprimevano ben altro che unasemplice volontà di mutuo soccorso e una tale società era, già

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dalla sua costituzione, un gruppo socioeconomico di resistenzaimpegnato in un ampio conflitto di classi sociali.

L’originalità di questi gruppi spontanei deve essere sotto-lineata. Essi costituivano degli esempi particolari di ciò che è statochiamato in seguito gruppi primari o elementari, così comeCharles H. Cooley li ha caratterizzati e che Edward A. Shils de-finisce in questi termini:

Gruppi caratterizzati da un alto grado di solidarietà, dal non formalismodelle regole che guidano la condotta dei propri membri e dall’autono-mia nella creazione di queste regole.

L’autore aggiunge che

la solidarietà implica una stretta identificazione dei membri gli uni congli altri e con tutti i simboli del gruppo che hanno potuto formare (53).

Le proposte possono, in una larga misura, essere applicate al grup-po formato dalla società di mutuo soccorso. Queste società ebbe-ro all’inizio l’estrema originalità di essere perfettamente spon-tanee, di non essere decise da alcun potere esterno ad esse, siareligioso che statale. Esse proseguivano una tradizione larga-mente anteriore alla Rivoluzione dell’ 89 con la quale le anti-che corporazioni e le antiche confraternite costituivano dei fondidi previdenza. Ma la loro caratteristica di spontaneità, e dun-que il loro rapporto diretto con i bisogni sociali e personali,appare durante la Restaurazione e la monarchia di Luglio ancorpiù viva nonostante la legislazione ufficiale, suggellata dal de-creto del 2 marzo 1791 che scioglieva le corporazioni e la leggedel 10 aprile 1834 che proibiva le associazioni, le ponesse senon nella illegalità almeno in un clima di sospetto. Il movimen-to creativo che le anima si situerà “alla base”, con una attivitàlibera che esclude, nella sua essenza, ogni intervento di unaforza esterna o, secondo un vocabolario che si costituisce allorae che Proudhon riprenderà, escludendo tutti gli interventi ve-nuti “dall’alto”. Come scriverà giustamente P. A. Bleton, che fupresidente della Société des Ouvriers sur or et argent di Lione:

…al contrario delle altre istituzioni sociali dove l’impulso è semprestato dato dall’alto verso il basso, il movimento mutualista si è fattodal basso verso l’alto (54).

L’operaio o il capo laboratorio che aderiva a una tale società,

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non lo faceva perché obbligato, ma per libera scelta e nessuna for-za d’intervento poteva obbligarlo a versare la sua quota oppureimpedirgli di ritirarsi dalla società. Non era la regola che garantivala durata del gruppo, ma la volontà dei partecipanti di mantenerloin funzione. Quando i lavoratori del gesso di Lione scrivono neiloro statuti del 1811

che fondando un’opera di beneficenza, hanno voluto seguire l’esempiodi un ordine che si stabilisce in un gran numero di professioni (55)

dicono bene che fondano essi stessi la loro associazione e scelgonoun modello sociale inventato dai produttori stessi. La notevole du-rata di queste associazioni manifesta, nell’assenza di unaistituzionalizzazione obbligatoria, la potente solidarietà che dove-va unire i suoi differenti membri. Il piccolo numero dei parteci-panti (spesso meno di cento), la precisione degli obiettivi comuni,la natura integrante degli obiettivi che miravano a proteggere l’in-dividuo dalla miseria e dai lutti, non potevano mancare di favoriree di mantenere nei partecipanti un “alto grado di solidarietà”. Senzadubbio si può immaginare che, in un tale raggruppamento, unoperaio più attivo e più intraprendente poteva giocare un ruolodi animatore e diventare provvisoriamente un “leader”, ma la na-tura del raggruppamento e dei suoi fini impediva che le decisionifossero prese da un solo individuo o, secondo la tipologia di KurtLewin, che il comando fosse accaparrato da un capo autoritario. Acausa delle dimensioni del gruppo, della sua ubicazione su un’areaurbana limitata, tutti i partecipanti si conoscevano e dovevano sen-tire dei legami particolari con ognuno dei propri associati. In ef-fetti la pratica mutualistica, l’interesse che ognuno provava affin-ché le quote fossero regolarmente raccolte, la conoscenza precisadelle persone a cui i fondi erano accordati, il carattere collettivodelle decisioni, determinavano necessariamente la pluralità dellecomunicazioni e il sentimento di solidarietà di ognuno dei parte-cipanti. Utilizzando lo schema di Alex Bavelas sui differenti mo-delli di comunicazione, possiamo dire che la rete di comunicazio-ne in queste società non poteva essere né centralizzata néautocratica, ma costituiva una rete completa (fig.1) dove ogni mem-bro era ugualmente integrato all’attività comune. Senza dubbio lerelazioni concrete erano modificate dal particolarismo delle per-sonalità e delle affinità individuali, ma il tipo di attività comune,impegnando ognuno verso tutti e verso ogni partecipante, legava-no concretamente l’interesse di un membro all’interesse di ognu-no. Quale che fosse il ruolo provvisorio di un animatore, la rete

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degli interessi non poteva che prendere la forma di una “rete omo-genea” come descritta da Harold Leavit (56) (fig.2).

Il tipo di socializzazione che si instaurava in questi gruppideve essere precisato e costituiva un modello che aveva le suespecifiche particolarità. I partecipanti si trovavano in stato diuguaglianza poiché tutti dovevano mettere la quota per esseremembri della società e si trovavano impegnati in un rapportodi reciprocità, poiché non portavano la loro quota se non incambio di una protezione promessa. Più esattamente il rappor-to di mutualità o di reciprocità era costitutivo dell’associazionead esclusione di ogni altro elemento creatore. Questa reciproci-tà concerneva rigorosamente degli interessi e portava in qualchemodo uno scambio di beni materiali, anche se i valori e i sim-boli collettivi non cessavano di essere evocati dai partecipanti. Ilgruppo non aveva per fondamento un progetto morale o spiritua-le quale era la realizzazione della “fratellanza”, ma un compitomateriale: la costituzione di un fondo di riserva, l’allocazione del-le pensioni, l’organizzazione dei soccorsi, la gestione dei fondi co-muni. Il gruppo non era più un gruppo di discussione o un clubpolitico, ma un gruppo costituito per un impegno preciso e si or-ganizzava in funzione di questo impegno.

L’originalità di questi gruppi affiora dai paragoni che sipossono abbozzare con i grandi tipi di raggruppamento ai qua-li si oppongono. In una società fortemente ineguale e gerar-chizzata come era la società francese all’inizio del XIX secolo,questi gruppi facevano nascere, non in teoria ma in pratica, dei

(fig.1) (fig.2)

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rapporti sociali di uguaglianza o più esattamente di reciprocità.Ma se questi gruppi determinavano con la loro stessa esistenzauna denuncia dell’individualismo liberale o capitalista, non ar-rivavano in nessun modo a forme di comunismo come avrebbe-ro potuto essere l’associazione o la divisione dei beni. La socie-tà di mutuo soccorso non operava nessuna confusione delleproprietà, ma rifiutava ugualmente l’isolamento dell’individua-lismo e la divisone dei beni (eppure l’idea di una “divisionedelle terre” era presente alla coscienza dell’epoca), essa instau-rava un tipo di rapporto sociale rispettoso dell’indipendenzadegli individui e comunque associativo. Anche questo tipo diraggruppamento sfugge alle grandi tipologie classiche diTönnies o di Durkheim: non appartiene né a un tipo comunita-rio arcaico, né all’impersonalità delle società individualiste; manon si riduce nemmeno soltanto alla solidarietà imposta dalladivisione del lavoro sociale, poiché i partecipanti rifiutano diabbandonarsi alle strutture organiche della divisione per crea-re un’associazione reciproca ed egualitaria (57). Queste societàsfuggono anche alle tipologie spenceriane dell’omogeneo e del-l’eterogeneo, del militare e dell’industriale. Si sente che la dop-pia lotta portata da Proudhon contro l’individualismo e controil comunismo potrebbe ben trovare in questa struttura socialela sua omologia e il suo significato.

Prima di tracciare queste omologie tra la struttura di que-sti gruppi di mutuo soccorso e il modello mutualistico prou-dhoniano, sarebbe interessante scoprire quali conseguenze psi-cologiche esistenziali poteva avere sui suoi partecipanti il fun-zionamento di questi raggruppamenti. Non si può dubitare ineffetti che una pratica così spontanea e che esigeva da parte deipropri attori un forte sentimento di responsabilità personale, nonabbia suscitato degli atteggiamenti molto precisi e originali. In as-senza di inchieste dirette, le sole che potrebbero permetterci unadescrizione più rigorosa di questi atteggiamenti, possiamo im-maginare quali significati furono interiorizzati da questi parteci-panti facendo riferimento alle espressioni degli statuti di questesocietà. Questi statuti fanno apparire una singolare ripetizione deitemi a carattere morale, fanno un uso frequente delle nozionimoralizzatrici (“benessere, dignità, felicità, giustizia, morale, reli-gione, aiuto reciproco”) e di espressioni umanitarie (“amarsi l’unl’altro…, farsi del bene…, conformarsi ai principi prescritti dallamorale”) (58) che manifestano presso gli associati un singolare vi-gore delle attitudini morali e una vivace coscienza dell’impor-tanza dei principi immediatamente realizzati nella pratica.

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Il funzionamento di queste società esigeva che ogni asso-ciato fosse chiaramente cosciente degli obiettivi comuni e cheindubbiamente gli fossero chiari i propri interessi all’internodel gruppo, poiché aderiva volontariamente e poiché il mante-nimento dell’associazione era assicurato soltanto dal rinnovodei versamenti volontari. Il funzionamento di un tale tipo diraggruppamento suppone in effetti il mantenimento regolaredi una “rete di comunicazione” parallela alla struttura del grup-po e che ne assicuri la sua persistenza. In altri termini l’associa-zione non può esistere che grazie a una diffusione omologadell’informazione, grazie ad un costante rinnovamento dellarappresentazione degli attori, rappresentazione che è adeguataalla totalità e che è effettivamente creatrice dell’attività comu-ne. Da qui si può dedurre, come hanno dimostrato le ricercheconcernenti i gruppi primari, che tali associazioni a forte inte-grazione sociale, e dove l’attività era rigorosamente autonoma,dovevano manifestare una “morale” particolarmente elevata,tanto più elevata d’altronde se il gruppo poteva sentirsi minac-ciato dalle forze esterne. Se è vero, come fanno apparire le ri-cerche sui gruppi elementari (59), che un gruppo ristretto mani-festa un’etica tanto più elevata quanto più la sua attività è spon-tanea e il suo modello democratico, si capisce che questi grup-pi abbiano manifestato “un alto grado di solidarietà” e insistitosui valori ideali di cui si consideravano portatori.

Il funzionamento di questi gruppi supponeva anche lacreazione di regole comuni, la costituzione di un codice preci-so che definisse rigorosamente le norme di funzionamento, idiritti degli associati e gli obblighi dell’associazione verso i di-soccupati oppure gli ammalati. Proprio perché la società eraautonoma e non poteva fare affidamento su di un codice civilegià redatto, essa doveva creare il proprio diritto, prevedere lecondizioni di ammissione, l’importo delle quote, le regole diattribuzione del fondo e farlo con una razionalità sufficienteaffinché le aleatorietà si trovassero già integrate. Da qui la pre-cisione e la minuzia di alcuni statuti (60). Questo aspetto giuridi-co deve essere particolarmente sottolineato perché lo ritrovia-mo sotto forma omologa nel pensiero proudhoniano. L’ampiez-za degli statuti e la qualità della loro formalizzazione sottoline-ano l’estrema importanza che attribuivano loro gli operai e l’at-tenzione che portavano alla loro redazione.

Ma soprattutto bisogna sottolineare che le condizioni diesistenza e di funzionamento di queste società portavano gliassociati ad aderire liberamente a queste regole, a considerare

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questi sistemi giuridici come appartenenti loro direttamente inopposizione ad un diritto astratto imposto dal diritto ufficiale edal codice napoleonico. Gestendo i fondi delle loro società, gliaderenti dovevano interiorizzare le loro norme e si può pensa-re che avessero la sensazione di vivere il loro proprio diritto, direalizzare ciò che si chiamerà più tardi il diritto sociale, prove-niente direttamente dalla spontaneità creatrice dei gruppi. Inaltri termini essi vivevano il diritto senza norme trascendentali,senza potere e senza Stato in una democrazia economica che sirealizzava senza deleghe di potere. Aggiungiamo infine chequesto diritto poteva essere immediatamente assimilato all’equi-tà o alla giustizia poiché la società era retta dal principio del-l’uguaglianza dei partecipanti: non era escluso che gli aderentipotessero avere entrate differenti, ma la pratica mutualistica erainstauratrice di una pratica di uguaglianza.

Si può dire che l’operaio oppure il capo operaio che par-tecipava a una tale società ne era direttamente un gestore ocogestore, poiché doveva partecipare alla gestione dei soldi co-muni. Questa nozione di gestione o di autogestione deve essereapplicata qui in senso stretto, perché non soltanto l’aderentedeve partecipare alla gestione e alle decisioni comuni, ma puòanche considerarsi come il creatore della sua società. Sia cheabbia lui stesso partecipato alla redazione degli statuti, sia cheabbia scelto di aderire a una società già stabilita, non può man-care di ritenere la società come sua, di sentirla come un “noi”dal momento in cui si trova integrato. Il suo parere è sollecitatoper una modifica degli statuti, la sua partecipazione è necessa-ria al mantenimento dei fondi comuni e la piccola dimensionedel gruppo gli permette di percepirne l’unità e controllarnedemocraticamente le decisioni.

Possiamo dunque comprendere come questi gruppi pri-mari, gruppi limitati, autonomi, a forte solidarietà, siano statifocolai di sentimenti sociali particolarmente acuti e che abbia-no dato luogo a delle formulazioni morali stranamente reiterate.Il fatto è che in effetti questi gruppi rispondevano a dei larghibisogni di sicurezza e di socializzazione. L’affermazione, spessoripetuta, secondo la quale la distruzione delle corporazioni du-rante la rivoluzione aveva rigettato l’operaio in un isolamentocontro il quale ha dovuto reagire, anche se generica, sembraessere quella più valida. La spontaneità di queste società fa rite-nere che rispondevano ad un “istinto” sociale, che costituivanodelle risposte funzionali all’anomia effettiva nella quale si tro-vavano uomini privi delle garanzie date dalla ricchezza. Si può

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pensare che questi gruppi costituivano immediatamente, conla loro stessa esistenza, anche una terapia all’ansia che non man-cava di provare un gran numero di questi operai. Vi trovavanonon soltanto soddisfazione ai loro bisogni di socializzazione,ma anche l’esaltazione dei sentimenti di fratellanza. Non sem-bra opportuno rapportare la volontà di moralizzazione che ab-biamo constatato in questi gruppi al ricordo delle corporazionie ridurli a una sopravvivenza dei tempi feudali. L’abbondanzadelle formule moralistiche non può spiegarsi che con una cau-sa prossima e in questo caso con l’esperienza del gruppo prima-rio e autonomo. Due sono i valori che si troveranno particolar-mente esaltati: la dignità e la fratellanza. Si può pensare chequesta esperienza collettiva era in effetti creatrice di un senti-mento acuto di autonomia e di fierezza personale. Questo sen-timento di dignità era ancor più vivo dato che la creazione diqueste società si iscriveva in una stratificazione sociale dove ilprestigio si trovava largamente attribuito alle classi possidenti erifiutato alle classi operaie. L’attività del gruppo si trovava dun-que ad instaurare un sentimento nuovo: quello di non esserepiù dipendente o subordinato, ma bensì membro di una collet-tività che agisce contro, ma liberamente, all’interno di una so-cietà ineguale. Questa dignità è anche un’affermazione di sécontro gli altri e le formule dei preamboli hanno spesso delletinte di aggressività contro i padroni. Quando gli operai tipo-grafi di Nantes scrivono nei loro regolamenti rivolgendosi aiproprietari tipografi: “Noi non invidiamo né le vostre ricchez-ze, né i vostri piaceri, no!”, essi affermano con una negazione laloro indifferenza alla ricchezza, ma è possibile cogliere in que-sta formula uno schiaffo verso i padroni, nei quali si sospetta ildiritto alla gioia, ai piaceri. Si sa, come ricorderemo più in là,che queste società dette di benefattori, divennero società di re-sistenza secondo un processo iscritto nelle loro intenzioni ini-ziali. Il valore di fratellanza non fu meno sottolineato, sia cherivesta la formula evangelica dell’amore del prossimo (61) oppu-re la forma laica della giustizia. Ma qui ancora queste formuleimpregnate di religiosità non possono essere soltanto attribuitealla tradizione religiosa; sembra piuttosto che le formule cri-stiane servano da strumento espressivo a un’esperienza imme-diata, l’esperienza della solidarietà in un piccolo gruppo crea-tore. Bisogna sottolineare in effetti che, unendo dei beni mate-riali, queste società univano in realtà delle persone. Esse eranoapparentemente solo un’associazione di risparmio e rifiutava-no giustamente di cadere sotto i colpi delle leggi contro le asso-

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ciazioni. Ma il potere politico le sospettava a giusta ragione,perché poteva sospettare che un’associazione di risparmio ser-visse a mascherare una riunione di persone. In effetti l’ambi-zione di una società di mutuo soccorso era certamente di esten-dere la sua protezione alla personalità dell’aderente, di inte-grarlo nel gruppo prendendo a carico i suoi rischi e i suoi inci-denti. Si può sottolineare a questo proposito questa clausolaparticolare secondo la quale l’associazione si faceva carico an-che delle spese di funerale: si indovina che, al di là delle preoc-cupazioni materiali, la società tendeva a integrare l’uomo e lasua famiglia fino alla morte e ad affermare che il decesso colpi-va il gruppo nel suo insieme e assumeva significato per tutti isuoi membri. Non manchiamo qui di trovare uno dei modellicon il quale una società si sforza di integrare l’imponderabiledella morte e di dare all’uomo l’assicurazione che la sua mortesarà vissuta dalla collettività e resa così significante. Ritrovere-mo in Proudhon lo stesso senso di ripensare la morte e lo stessosforzo per il superamento in un integrazione sociale.

Proudhon e le società di mutuo soccorso. – È in questa praticaoperaia dell’associazione mutualistica che noi possiamo scopri-re la struttura sociale interpersonale della quale Proudhon faràil centro della sua visione socioeconomica. E noi possiamo for-mulare adesso l’ipotesi di una omologia strutturale tra questepratiche operaie e mutualistiche e la creazione teorica diProudhon. Vedremo ulteriormente che questa ipotesi non è ope-rativa per la totalità del pensiero proudhoniano e che convienestudiare anche la dinamica di questi gruppi, la loro trasforma-zione verso le associazioni di produzione per comprendere glialtri aspetti del proudhonismo, ma noi cogliamo nell’organiz-zazione di queste società il tema centrale dell’universo prou-dhoniano, il tipo di struttura che per sviluppo e per estensioneorganizzerà l’anarchismo economico e il federalismo politico.Al di là di queste modalità diverse (associazioni progressive, Ban-che di scambio, anarchia positiva, federalismo, democrazia industria-le), si ritrova, in effetti, un sistema costante, organizzato secon-do questo modello di mutualità con ciò che comporta di reci-procità egualitaria in uno scambio dei beni e in una rete socialeche integri i suoi elementi senza dissolverne la loro specificità.

Nel De la capacité politique des classes ouvrières, Proudhondefinisce il mutualismo in una notevole formula sintetica dellaquale dovremo precisare ogni termine mettendola in relazionecon le indicazioni anteriori sulle società di mutuo soccorso:

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La vera mutualità… è quella che dà, promette e assicura servizio perservizio, valore per valore, credito per credito, garanzia per garanzia;che sostituendo dappertutto un diritto rigoroso a una carità languen-te, la certezza del contratto all’arbitrio degli scambi, scartando ognivelleità, ogni possibilità di aggiotaggio, riducendo alla sua più sempli-ce espressione ogni elemento aleatorio, rende il rischio comune, tendesistematicamente ad organizzare i principi stessi della giustizia e unaserie di doveri positivi e per modo di dire di pegni materiali(62).

In questa opera, che riprende nel suo insieme sistematico i la-vori anteriori, Proudhon fa di questa idea di mutualismo il princi-pio della futura società, il modello che dovrebbe ordinare tuttii rapporti economici e, per diluizione dei poteri politici nellasocietà economica, strutturare la totalità della società. Comeesprime chiaramente:

Il principio più elementare della morale tende a diventare il fonda-mento del diritto economico e il centro di nuove istituzioni(63).

Parte dall’esempio delle assicurazioni, grazie alle quali i mem-bri di una società si garantivano reciprocamente contro il ri-schio con il gioco dei premi e che dovevano essere organizzatesecondo il modello mutualistico con l’eliminazione del furtooperato dalle compagnie di assicurazione. A partire da questoesempio che illustra ciò che sarà un rapporto socioeconomicoegualitario equilibrato, Proudhon estende questo principio alcommercio, per dimostrare che doveva essere uno scambio dimercanzie al loro giusto prezzo, poi al salario, per dimostrareche doveva e poteva corrispondere al valore delle giornate dilavoro, poi a tutti i rapporti particolari dell’economia.

Se quest’ultima opera è particolarmente sistematica e fadel rapporto mutualistico il “centro” di tutto il sistema, questeindicazioni erano contenute nelle opere anteriori e, sotto for-me diverse, la stessa struttura nodale si trovava al centro di dif-ferenti modelli proposti. Il sistema della Banca di scambio, pro-posto nel 1848, era fondato su questo stesso principio di scam-bio reciproco e ugualitario tra i produttori che, con l’equiva-lenza dei valori, escludendo il furto capitalista, avrebbe distrut-to il regime dell’appropriazione. Il progetto di una “associazio-ne progressiva” formulato prima del 1848 era anche costruitosu questo modello di scambio uguale tra i produttori e qui an-cora, secondo una dinamica che avrebbe dissolto il regime ca-

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pitalista. Molto più generalmente questa struttura mutualistica,rapporto sociale istituito in uno scambio materiale e creatoredi una solidarietà per reciprocità, si trovava definita da Proudhonfin dal 1839, prima ancora che fosse espressa la critica del regi-me proprietario, quando si proponeva di scoprire un sistema direciprocità che non fosse né l’individualismo liberale, né il co-munismo e che avrebbe instaurato tra gli attori economici rap-porti di equilibrio rispettando la loro indipendenza relativa (64).Fin da quest’epoca Proudhon riprendeva il modello della so-cietà di mutuo soccorso per farne la legge della società futura.Ma importa sottolineare che, al di là dell’omologia strutturale,il modello mutualista si raddoppia nell’universo proudhonianocon i caratteri che aveva effettivamente nella pratica operaia.Lo scopo di Proudhon è di pensare in primo luogo l’instau-razione di un rapporto tra i partecipanti, di definire non gliobiettivi della produzione o i mezzi ottimali dell’organizzazio-ne industriale, ma la natura del sociale e la relazione che si sta-bilisce fra gli uomini. E proprio questo creavano queste associa-zioni con il loro movimento di costituzione: facevano apparireun rapporto sociale ed è dalla natura di questo rapporto cheprovenivano le forme ordinate della loro azione. Allo stessomodo il loro scopo era di organizzare tra gli associati uno scam-bio e il loro fine, almeno all’origine, si limitava a creare un rap-porto di equivalenza, un contratto sociale, cioè economico.Proudhon riprenderà questo modello e anche in lui il centrodelle prospettive non sarà l’associazione di produzione, ma l’as-sociazione di scambisti; si vedrà apparire l’associazione di pro-duzione solo come corollario di un sistema, senza che lo sche-ma d’insieme sia abbandonato da questa aggiunta. Nella pro-spettiva proudhoniana importa in primo luogo organizzare icontratti sul modello mutualistico e l’organizzazione socialistadell’impresa scaturirà da questa reciprocità dei contraenti (65).

Proudhon poteva dunque affermare che il mutualismoera una pratica operaia spontanea e che non bisognava in nes-sun modo attribuirla a qualche riformatore del quale gli operaidovessero essere dei discepoli. E poteva anche pensare che que-sto mutualismo affondava le sue radici molto al di là della Rivolu-zione dell’89, poiché queste pratiche rinnovavano in effetti, se-condo un modello nuovo, delle pratiche corporative. La fidu-cia di Proudhon nella spontaneità dell’idea operaia raddoppiasia la realtà, il carattere perfettamente spontaneo di queste cre-azioni sociali, che la certezza dei mutualisti stessi di realizzare deiprincipi ancestrali immanenti alla stessa vita sociale. Nello stesso

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tempo si può comprendere che Proudhon si sia considerato noncome un innovatore utopista, ma come un portavoce incaricatosoltanto di chiarire una pratica parzialmente realizzata. Si capiscecosì come abbia esortato gli operai ad estendere le loro pratiche ecome si aspettasse una vasta eco dei suoi tentativi teorici.

Due aspetti colpiscono particolarmente in questa ripro-duzione della pratica delle società di muto soccorso in seno al-l’opera proudhoniana: il collegamento intimo dell’azione e deldiritto sociale e l’investimento dei valori morali in questa prati-ca. Sappiamo quanto queste società fossero portate, per la loronatura e la loro attività, a porre un’estrema attenzione alla re-dazione dei loro statuti e dunque accordassero una grande im-portanza alla formalizzazione giuridica spontanea. Ma nello stes-so tempo esse erano portate a riprendere questa confusionedel concetto di diritto che designa sia la forma giuridica che ildiritto morale. Come esprimono numerose formulazioni deipreamboli: la società instaura un ordine di fatto, ma quest’ordi-ne corrisponde a un’obbligazione morale spontanea (66). Que-sto aspetto giuridico si ritroverà nell’opera proudhoniana e lacertezza più volte espressa che l’atto sociale essenziale, cioè lostabilire il contratto economico, è instauratore di un diritto chedovrà incessantemente modificare la creatività sociale. Ma iltermine diritto conserverà questo doppio senso che esprimeva-no gli associati e che unisce in un concetto sintetico il fatto e ilvalore. Come esprime la definizione che dà Proudhon delmutualismo, l’atto contrattuale instaura immediatamente un“diritto rigoroso”, in altri termini questo diritto è sia un fattosociale che un valore e una norma.

Allo stesso modo possiamo capire, a partire da questa pra-tica operaia, questa interpretazione così particolare di Proudhonche insiste in modo ripetitivo sull’importanza della giustizia chefa dell’atto di associazione mutualistica l’incarnazione di que-sto valore. Questa affermazione implica che l’atto mutualisticosia di per se stesso portatore del valore e, come Proudhon scri-ve nel De la justicie dans la Révolution et dans l’Eglise, che la giusti-zia non possa essere soltanto un’idea perché essa stessa è unarealtà. Queste formule ripetono gli statuti delle società di mu-tuo soccorso che valorizzavano intensamente la loro attività eassimilavano la pratica mutualistica all’incarnazione dei più altivalori umani. Ma il confronto non deve essere limitato qui al-l’espressione, come se Proudhon non facesse che ripetere l’ideo-logia mutualista; dicendo che il fatto è ideale e che la giustizia sifa realtà nell’atto mutualistico, ribadisce la pratica degli associati,

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poiché in effetti questa pratica era anche una teoria in azione,un progetto sociale immediatamente realizzato. L’atto mutualisticonon era un semplice fatto sociale, ma la realizzazione di un si-gnificato e, per gli uomini che fondavano la loro società, l’incar-nazione di idee o, come dirà Proudhon, la realtà della giustizia.

Infine questa ridondanza del modello mutualistico desi-gna quali nemici dovranno essere combattuti. Limitandosi prov-visoriamente alle teorie economiche, due nemici si trovano im-mediatamente designati: l’individualismo liberale e il comuni-smo. Non si può dubitare, come ha notato Durkheim (67), chequeste associazioni erano state delle reazioni positive all’anomiamantenuta nelle classi lavoratrici dal capitalismo liberale. Nellostesso tempo esse offrivano un modello sociale totalmente op-posto al principio del profitto e della libera concorrenza, mo-dello la cui estensione era necessariamente negatrice delliberalismo. Anche Proudhon non cesserà di denunciare il “ca-pitalismo borghese” e ne criticherà precisamente l’ineguaglian-za, la mancanza di solidarietà, scoprendo essenzialmente inquesto sistema l’assenza di una organizzazione sociale sintetica.Ma il modello mutualistico fa sorgere immediatamente un al-tro nemico, molto più inatteso in questo periodo del XIX seco-lo, nel quale il comunismo non costituiva un’ideologia forte-mente sviluppata: la “comunità”. E in effetti se il mutualismo èpreso come principio fondamentale della società futura, impor-terà precisarne i caratteri e differenziarlo dalle forme socialicon le quali si potrebbe confondere. Sappiamo che queste so-cietà, se erano delle associazioni, non erano assolutamente del-le comunità e i loro membri non volevano che si confondesseroi loro beni e che questi venissero spartiti. Bisognerà dunqueprecisare questa nozione di associazione, poiché essa rappre-senterà la speranza di una rigenerazione sociale, ma a condizio-ne di essere usata con il più grande rigore (68).

La dinamica delle società di mutuo soccorso. – Questo confron-to tra le strutture delle società mutualistiche e la teorizzazioneproudhoniana deve essere continuato sul piano delle dinamiche.Rimane da spiegare perché Proudhon possa avere accordatouna tale fiducia a questo modello mutualistico e aspettarsene la“soluzione” del problema sociale; rimane da spiegare questo mi-scuglio di fiducia e di violenza propria, normalmente, di un grup-po combattivo, ma sicuro del suo successo. Nel caso in cuiProudhon avesse soltanto esaltato i valori di piccoli gruppi margi-nali, si potrebbe a buon diritto ritenerlo un idealista turbolento.

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Invece la storia di queste associazioni mutualistiche neglianni anteriori al 1848 mette in evidenza non soltanto la loro sin-golare vitalità, ma anche la loro aggressività politica, la loro attitu-dine a trasformarsi spontaneamente in “società di resistenza”.

L’Association typographique et philanthropique fondata aNantes nel 1833 può di nuovo servirci d’esempio; essa illustraquesto movimento di trasformazione che spingeva associazioniapparentemente pacifiche verso le lotte sociali. L’associazioneera fondata teoricamente soltanto a fini umanitari e soltantoper “stabilire una cassa di mutuo soccorso e di previdenza”, mail tenore degli statuti fa già apparire tutt’altra volontà: non sol-tanto quella di difendere gli interessi dei partecipanti, ma an-che quella di instaurare il proprio ordine economico, di codifi-care i propri rapporti con gli impiegati e con l’autorità pubbli-ca. Quando i tipografi scrivono nei loro statuti che decidono diopporsi “a tutto ciò che sarà contrario ai loro interessi e ai lorodiritti” (69), quando indicano che il “signor sindaco” avrà diritto diverificare la loro contabilità due volte all’anno, essi si erigonolegislatori del loro gruppo anche se consentono a sottomettersialla legislazione ufficiale. Il gruppo, una volta costituito, tendead agire da solo, ad affermare la sua autonomia, a formare, se-condo il vocabolario di Charles H. Cooley, un noi relativamenteindipendente e ansioso di conservare questa autonomia. Nel-l’ottobre 1833, il tipografo di Nantes Renou scriveva per esem-pio ai tipografi di Bordeaux, che avevano chiesto delle informa-zioni sulla nuova società:

Noi abbiamo ricevuto una lettera da Lione, che ci annuncia la nascitadi una società tipografica, stabilita su delle basi molto più larghe dellanostra; ma anche approvando la loro intenzione, noi siamo decisi aconservare la nostra indipendenza e tra di noi esisteranno soltantodei rapporti di amicizia(70).

Il passaggio da una pratica puramente mutualista ad una prati-ca di resistenza nei conflitti con i padroni e i datori di lavoro,doveva farsi in molti casi senza transizione. La dinamica di taligruppi, fortemente solidali e coscienti dei loro “diritti”, dovevanecessariamente portarli a resistere contro gli attacchi esterni ea difendere i loro interessi e dunque i loro salari. Si vedono adesempio i tipografi da Nantes vantarsi del loro primo successomeno di due mesi dopo la fondazione della loro società. Sabato13 luglio gli operai di una tipografia, avendo il capo tipograforidotto il loro salario, decisero la sospensione dal lavoro già dal

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lunedì e imposero al tipografo di firmare un tariffario. Questaassenza di transizione tra la società di mutuo soccorso e il grup-po di resistenza, avendo per obiettivo la difesa degli interessicorporativi, si manifesta per esempio nel 1833 a Parigi dove siassiste alla fondazione di società filantropiche che si trasforma-no immediatamente in gruppi di pressione nei conflitti sociali.Così gli operai piegatori fondano il 1°ottobre una società dimutuo soccorso e abbandonano il lavoro il giorno stesso dellaredazione del loro statuto, lo stesso fanno i maestri calzolai ecordai avendo rifiutato loro di accordare un aumento di sala-rio. Allo stesso modo gli operai orafi costituirono il 20 ottobreuna Associazione di mutuo soccorso al solo fine di organizzare laloro azione per una rivendicazione salariale (71). Nello stessoperiodo apparivano delle nuove associazioni dette Borse ausilia-rie (per esempio quelle che crearono a Parigi degli operai dellefonderie nell’ottobre 1833) organizzate secondo i principi delmutualismo e il cui fine era di fornire delle prestazioni agli ade-renti che rifiutavano di subire una riduzione di salario oppure chesoffrivano “per il sostegno degli interessi della professione” (72).

La vivacità del dinamismo di questi gruppi primari si ma-nifesta d’altra parte nella loro volontà di espansione e nel suc-cesso dei loro tentativi in questo senso. Si sa in effetti che que-ste associazioni mutualiste partecipavano ad un grande movi-mento generale, sia informandosi reciprocamente delle loroattività, sia cercando di estendersi alla Francia intera secondoforme che evocano in anticipo il federalismo proudhoniano.Questa espansione era d’altra parte necessaria per la natura deiconflitti contro i padroni, poiché dovevano evitare che un im-prenditore potesse utilizzare manodopera a prezzi inferiori. Cosìi tipografi di Nantes inviano nel luglio 1833 una circolare “allediverse stamperie che si trovano in un raggio di 50 leghe e nellepiù grandi città di Francia” nella quale esprimono il timore chegli operai estranei alla città accettino l’offerta dei padroni divenirvi a lavorare. I tipografi invitano i loro corrispondenti acreare delle associazioni simili alla loro; esprimono la speranzache i tipografi “si affretteranno a formare tra di loro associazio-ni simili alla nostra e che impegnino le città vicine a fare altret-tanto” (73). Questa speranza non fu vana; le istruzioni giudiziarierivelarono l’intensità degli scambi fra le diverse associazioni, ladiffusione delle parole d’ordine di sciopero a livello nazionale.Nello stesso tempo venivano fatti tentativi per organizzare leassociazioni operaie a livello nazionale, come esprime ad esem-pio il titolo del regolamento firmato a Parigi nel novembre 1833

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dagli operai calzaturieri: Federazione di tutti gli operai di Francia,regolamento della corporazione degli operai calzaturieri (74).

Allo stesso tempo queste associazioni mutualistiche ma-nifestarono il loro singolare dinamismo con la loro potenza dicreazione, con la possibilità, dove si trovarono, di inventare for-me nuove di associazione delle quali alcune portarono tra l’al-tro a superare e a far sparire le strutture iniziali. È in effetti apartire da queste società già costituite che si formarono i primitentativi di creare le associazioni di produzione e se queste nuo-ve strutture facevano apparire una concezione molto nuova del-l’associazione, esse erano possibili soltanto a partire dall’espe-rienza più generale del mutualismo. Lo si vede ad esempio nel1833, presso gli operai calzolai di Lione. Questi operai avevanofondato in ottobre una associazione sotto il nome di Società delPerfetto Accordo, che permise di ottenere un aumento dei salarima, avendo timore che i vantaggi acquisiti non potessero essereconservati, i “concordisti” decisero di creare una seconda socie-tà, detta L’Associazione dei Fratelli della Concordia, che doveva fon-dare incessantemente la propria casa centrale di commercio. AParigi la Società filantropica degli Operai piegatori decise di fondareuna fabbrica aperta ai membri della loro società; per costituirei fondi necessari al laboratorio essa chiese ai capi artigiani e alpubblico delle prenotazioni e delle sottoscrizioni (75). A Marsi-glia, nel dicembre 1833, fu fondata l’Associazione commerciale de-gli Operai tornitori, che annunciò al pubblico che eseguiva tuttele ordinazioni con un ribasso del 12% sui prezzi ordinari (76).Questo movimento di creazione spontanea (77) delle associazio-ni di produzione a partire dai modelli mutualistici e ilsuperamento del modello iniziale si ritrovano abbastanza chia-ramente nella proposta anonima fatta agli operai bottai di Mar-siglia nel settembre 1834 nel giornale Le Peuple souverain. L’au-tore scrive:

L’associazione è un mezzo sicuro per arrivare alla distruzione del sala-rio perché, obbligandovi a versare in una cassa comune una piccolasomma mensile, essa può in pochi anni permettervi di fare concor-renza ai vostri datori di lavoro (78).

Così il modello mutualistico del fondo comune creato dalla rac-colta delle quote, si trasforma in capitale di produzione. E l’au-tore prosegue, denunciando la parte “troppo minima” che glioperai ricevono dalla loro produzione:

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Non è in un aumento di salario che voi l’otterrete; è al contrario di-struggendo il salario, … questa piaga della società.

E l’autore conclude, sintetizzando così un movimento dipensiero che annuncia degli elementi essenziali del proudhonismo,che gli operai arriveranno a “rovinare i padroni...” (79).

Noi possiamo adesso correggere l’ipotesi che abbiamo pro-posto di una omologia strutturale tra la struttura delle societàmutualistiche e la teoria proudhoniana. In effetti non è soltan-to la struttura di queste società che si raddoppia nel pensieroproudhoniano, ma certamente il suo dinamismo di ampliamen-to e di creazione così come si manifesta in particolare dal 1830al 1848. E simultaneamente si può capire come Proudhon ab-bia potuto avere una così forte fiducia nel modello mutualistico,poiché era in effetti fondato su una pratica reale manifestata damolteplici tentativi comparativi.

Proudhon penserà, dopo lo sviluppo di questi tentativi,che la liquidazione delle antiche forme economiche doveva ope-rarsi con una estensione dell’associazionismo operaio fino ailimiti nazionali. Ma conformemente a questi tipografi di Nantes,che volevano la moltiplicazione delle associazioni simili alla loroe comunque il mantenimento delle loro autonomie, penseràche questa espansione non esige la sottomissione dei gruppiparziali ad una autorità centrale, ma che deve al contrario ope-rarsi attraverso gruppi che conservino la loro autonomia in unafederazione.

In più ritroveremo nel movimento proudhoniano questopassaggio senza transizione dal mutualismo all’associazione ope-raia di produzione. È rimarchevole in effetti che Proudhon nonabbia parlato prima del 1848 di questo modello di impresa ope-raia, poi nel momento in cui ne formulerà i principi (80), chenon abbia sottolineato questa revisione delle sue concezioni.Ma questa assenza di rottura era in larga misura iscritta nellapratica operaia e siccome l’associazione di produzione si iscri-veva come un adattamento dei modelli anteriori, Proudhon potépensare che non doveva rivedere i suoi principi per giustificarequesto nuovo tipo sociale. Nel suo pensiero il mutualismo ri-marrà il modello strutturale fondamentale che disegna l’insie-me degli equilibri economici e trova nella “compagnia opera-ia” una applicazione particolare.

Ma, molto più generalmente, si ripete negli appelli prou-dhoniani una pratica operaia tendente al capovolgimento del-

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la società economica con una trasformazione delle condizionisociali e della produzione. Il principio di una riforma che avreb-be per oggetto le condizioni non più politiche ma sociali e chedovrebbe farsi con il lavoro, si iscrive come in filigrana in tuttiquesti tentativi che noi abbiamo richiamato. Quando per esem-pio un operaio anonimo scrive in Le Peuple souverain di Marsi-glia che il fine è di “rovinare i padroni” e di distruggere il sala-riato, egli esprime in anticipo il fine che assegnerà Proudhonalla rivoluzione sociale e quando aggiunge che il mezzo debbaessere l’organizzazione di nuove associazioni operaie, tratteg-gia ciò di cui Proudhon farà un principio e che esprimerà di-cendo che la riforma sociale deve essere operata esclusivamen-te con il lavoro e con l’organizzazione economica. Il compitoche si proponeva Proudhon non era dunque di portare una“ricetta” nuova ai produttori, ma bensì di teorizzare le praticheoperaie che gli apparivano garanti di una vera rivoluzione.

5. - Il Mutualismo lionese

Qualunque sia la fedeltà di Proudhon al modello dellesocietà di mutuo soccorso, questo avvicinamento resta abbastan-za generale e sembra possibile isolare, in mezzo ai molteplicimodelli d’associazione che videro la luce in questa prima metàdel XIX secolo, un modello più direttamente omologo alla strut-tura proudhoniana: il Mutualismo lionese. Questo movimentoprodurrà, soprattutto alla sua origine, le forme delle società dimutuo soccorso, ne riprenderà l’ispirazione e poi costituirà delleforme originali il cui rapporto con il proudhonismo sembraeccezionalmente stretto. La particolarità del Mutualismo lionesein rapporto alle società mutualistiche residue risiede in partico-lare nell’appartenenza sociale degli attori, nei loro rapporti re-ciproci. In effetti gli aderenti alle società di mutuo soccorso nonavevano necessariamente una stessa professione né uno statutoidentico. E ritornando su questo problema dell’origine socialedegli attori, noi vedremo che alcune società di mutuo soccorso,a Lione per esempio, raggruppavano sia i maestri artigiani, sia icapi-laboratorio che gli operai di diverse professioni ed anchevecchi militari. Non era dunque l’identità delle appartenenzesocioeconomiche che determinava necessariamente la sceltadegli aderenti e portava alla costituzione di una società. La so-cietà di mutuo soccorso appare piuttosto come una reazioneall’isolamento economico, reazione che darà vita a delle forme

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di solidarietà esterne alle appartenenze professionali. Il proget-to proudhoniano al contrario fa appello ai produttori in quan-to tali e li invita a creare la società nuova iniziando dalle loroattività di produzione e riorganizzando immediatamente i rap-porti economici tra i poli di produzione. Da qui il progettoproudhoniano si raddoppia nelle grandi linee delle associazio-ni mutualistiche, si stacca in modo decisivo non soltanto per-ché sostituisce a degli obiettivi di sicurezza, di benessere, degliobiettivi socioeconomici, non soltanto perché designa unariorganizzazione che concerne precisamente le “forze econo-miche”, ma anche per il fatto che designando nel produttore ilsolo attore efficace egli è portato a fare del laboratorio il fulcrosociale esclusivo. Il problema non sarà più di raggruppare indi-vidui, ma di regolare i rapporti economici tra i produttori, chesiano collettivi o individuali. Ora è proprio di questo che ilMutualismo lionese, società formata dai capi laboratorio setaioli,offriva l’esempio. Non si tratta più allora di una associazione diindividui, ma di una associazione di produttori aventi degli in-teressi comuni da difendere e che si danno per fine lariorganizzazione della produzione. Ma di più, e qualunque sia-no state le intenzioni degli aderenti, non erano più dei privatiche si trovavano associati ma dei focolai di produzione, poichéil capo laboratorio si trovava ad essere responsabile della suaunità economica.

La storia del Mutualismo forniva a Proudhon un rimar-chevole esempio di quella spontaneità che egli individuava nel-la pratica organizzativa delle classi operaie. Le origini delMutualismo, così come sono state studiate da Fernand Rude (81),mostrano in effetti il radicamento storico del movimento nelletradizioni anteriori alla Rivoluzione e la persistenza, nello spiri-to del fondatore, Pierre Charnier, dei modelli d’associazionecostituiti prima dell’avvento della grande industria. Esse fannoapparire anche quanto poco questa associazione debba ai rifor-matori sociali, contrariamente all’illusione comune che fa deiteorici socialisti i creatori dei movimenti sociali. Tra i motiviche lo portarono a suggerire una riunione dei capi laboratorio,Charnier non cita la lettura di Fourier, Saint-Simon o Owen,autori che sicuramente non conosceva nel 1825 quando comin-ciò a concepire il suo “piano simbolico” (82), ma bensì le difficol-tà economiche incontrate e il “bisogno di associarsi”. Come diràProudhon nella Capacité politique des classes ouvrières, i produtto-ri non ebbero maestri da seguire per inventare le forme socialidel mutualismo. In più, come mostrano gli inizi difficili del

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Mutualismo (83), qualunque sia stato il ruolo di Charnier nellaformulazione del progetto iniziale, il movimento non è statosubordinato a nessuna personalità particolare; appena Charniermanifesta delle esitazioni a formare la società di fronte al so-spetto delle autorità prefettizie, si trova un nuovo leader,Bouvery, per realizzare ciò che era stato progettato (30 marzo1828) e quando Charnier abbandonò la direzione del movimen-to, una nuova società, i Devoir mutuel, succedette alla Société deSurveillance et d’Indications mutuelles. Sin dai primi giorni si ve-dono i soci fondatori formare un gruppo, parlare in prima per-sona plurale e imporre la loro volontà all’ispiratore provvisoriodel movimento (84).

La costituzione di questa società verifica la concezioneproudhoniana della spontaneità sociale che designa con que-sto termine il doppio carattere teorico e pratico di un’attivitàsociale autentica. Essa conferma la forma descritta in De la Justicesecondo la quale “l’idea viene dall’azione e ritorna all’azione…”.Il Mutualismo era sicuramente un insieme di pratiche concre-te, ma sin dall’origine un insieme di pratiche altamenteteorizzate, discusse dialetticamente e legate a un sistema d’in-terpretazioni e di giustificazioni. Nel racconto che fa della fon-dazione del Mutualismo, Charnier mostra che questo movimen-to nacque da libere discussioni tra capi laboratorio; scrive ricor-dando le conversazioni tra operai mentre aspettavano nella “gab-bia” dei magazzini:

da più anni utilizzavo il tempo passato aspettando di essere servitonella gabbia a chiacchierare con i capi reparto sull’arte e il bisogno diassociarsi (85).

In questa fortunata formulazione Charnier esprime il caratteresintetico dell’atto di fondazione del movimento, il rapporto di-retto tra la realtà dei bisogni e l’azione tendente a soddisfarli enello stesso tempo sottolinea il carattere collettivo e coscientedella pratica futura. Come scrive, i bisogni da soddisfare eranoconosciuti e provati da tutti:

Questi bisogni, erano la necessità indispensabile di stroncare i nume-rosi e rovinosi abusi dei quali eravamo vittime (86);

quanto alla riforma proposta, essa sarà semplice e cosciente-mente adattata alle condizioni obiettive imposte da una legisla-zione ufficiale:

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Questa arte consisteva semplicemente nell’indire delle riunioni di ventipersone che si conoscessero…(87).

La pratica proposta dunque deve prendere la forma di un’azio-ne collettiva intenzionale emanata dalla coscienza dei bisognireali e di una rappresentazione immediata della finalità dellapratica. Come scrive Charnier nel regolamento che redige per lafutura società, l’azione dell’associarsi è immediatamente pensataattraverso il suo fine:

Uniamoci per aumentare i nostri benefici con la diminuzione dei nostrinon valori (88).

Questo carattere eminentemente intenzionale dell’instaura-zione, e questo rapporto diretto tra una pratica effettiva e unateorizzazione della pratica, si troveranno espressi al momentodella costituzione definitiva della società (28 giugno 1828). Ilnuovo regolamento che venne allora adottato comincia con unpreambolo dove il significato molto generale del Mutualismo èmesso in evidenza; i mutualisti sono molto attenti a darsi inqualche modo una carta che esprima il senso generale delleloro azioni: il lavoro e la sua grandezza (“il lavoro è un tesoro, illavoro che in apparenza sembra soltanto penoso è al contrariouna fonte infinita di prosperità e di felicità”) (89). Come diràProudhon, la pratica operaia incarna una “idea” e questa idearitrova i principi più fondamentali della vita sociale:

L’associazione prende il nome di Mutualismo, che significa faremutualmente come si vorrebbe che fosse fatto a se stessi (90).

Più di dieci anni prima i creatori del Mutualismo fissavano così iprincipi generali che Proudhon doveva riprodurre sistematiz-zandoli. Questa pratica era immediatamente una pratica riven-dicativa, che definiva una strategia collettiva, una praticacombattiva designando i suoi nemici nello stesso tempo che ipropri alleati. Questa strategia metterà in particolare l’accentosul carattere nettamente autonomo del movimento e sul conte-nuto espressamente economico delle lotte da intraprendere.L’autonomia del movimento si iscrive alle origini stesse dellasocietà poiché il senso stesso di questa azione è, per i capi labo-ratorio, di contare soltanto su se stessi e di non attendere da unpotere tutelare la soluzione delle loro difficoltà. Se l’idea di

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un’emancipazione dei lavoratori da parte dei lavoratori stessinon è stata formulata, essa è in qualche modo vissuta nella pra-tica quando i setaioli si concertano per creare la loro associazio-ne e difendere i propri interessi. Si sa che il movimento operaiocrebbe dopo il luglio 1830 quando gli operai compresero, dopoaver partecipato alla rivoluzione a fianco della borghesia, chenon avrebbero ottenuto nessun beneficio da questo cambiamen-to di potere. Il giornale saintsimoniano Le Globe mise allora inbocca agli operai questa formula lapidaria: “Vogliamo fare unarivoluzione per noi” (91). Questa coscienza di un’azione emanci-patrice autonoma si trova già espressa nei primi mutualisti quan-do proponevano di unirsi tra di loro senza ricorrere ad un qual-siasi potere esterno ad essi.

Ma questa formulazione saintsimoniana di una rivoluzio-ne per noi segna nello stesso tempo l’originalità del Mutualismoin rapporto alla rappresentazione politica che potevano avere icapi saintsimoniani. In effetti la strategia che è proposta daifondatori del Mutualismo è chiaramente incentrata sull’orga-nizzazione del lavoro, sulla creazione di rapporti nuovi tra i pro-duttori e tra i centri di produzione. Come dirà Proudhon, trovan-do questa ispirazione fondamentale, l’azione sociale deve darsiper obiettivo, non di riformare la società politica per fare leriforme economiche, ma di riorganizzare in primo luogo i rap-porti di forza economici. Per quanto utopico fosse, il primo “pia-no simbolico” che fu redatto da Pierre Charnier e che servì dibase al primo Mutualismo, concerneva soltanto una società acarattere economico e non faceva nessuna allusione a un’azio-ne politica. Molto più concreto, il secondo regolamento desi-gna molto precisamente i tre “doveri” del mutualista e tutt’e treconcernono solo i rapporti sociali di produzione. Il primo do-vere imposto ai mutualisti

è di indicarsi con franchezza e lealtà, mutualmente e generalmente,tutto ciò che poteva loro essere utile e necessario concernente la loroprofessione;

il secondo di

soccorrersi con il prestito di utensili per quanto possibile, epecuniariamente per mezzo delle quote nelle disgrazie che potesseroaccadere ad uno di loro (incendio, morte improvvisa, ecc.) (92);

il terzo dovere impone di aiutarsi mutualmente, in modo

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particolare in occasione di morte. Così le preoccupazioni poli-tiche si trovano escluse da questi impegni; non sono scartateper principio, più esattamente si trovano assenti nel seno diun’attività interamente orientata verso la riforma immediatadelle condizioni economiche. Tanto più sarà scritto nel regola-mento che è

espressamente proibito di occuparsi, anche solo di parlare, di que-stioni politiche o religiose nel corso della riunione (93),

ma questa causa non fa che confermare lo spirito generale del-la nuova istituzione.

La formulazione di questi doveri sembra molto moderatase viene comparata alle conseguenze sociali del Mutualismo.Ma precisamente questa storia del Mutualismo, che farà di que-sta società l’istigatrice delle giornate del novembre 1831, illu-mina sia la dinamica di questo gruppo che il significato reale diqueste formulazioni apparentemente prudenti. Il progettomutualistico, anche nel suo teorico più moderato P. Charnier,le cui opinioni politiche erano d’ispirazione legitti- mista, si iscri-veva in una situazione di conflitto contro “il commercio”, cioè adire contro la classe degli industriali e degli imprenditori. Comescriverà P. Charnier, l’intenzione iniziale del Mutualismo eracertamente diretta contro il liberalismo economico e i suoi rap-presentanti; il suo fine era

procurare delle garanzie al salario e ispirare agli operai la sfiducia e l’odiocontro il commercio, che aveva un solo fine, quello di arrivare al potereper abusarne a suo profitto (94).

Si assiste in effetti dal giugno 1828 al novembre 1831 a unaradicalizzazione molto rapida del movimento che conferma erivela questa situazione iniziale. La formulazione dei doveri sot-tolinea gli obblighi di solidarietà secondo il modello delle so-cietà di mutuo soccorso e si può pensare che l’associazione siconsacra a questa attività nei primi mesi della sua esistenza. Ma,sin dal febbraio 1831, la società mutualista, forte allora di “cin-quanta maestri della Croix-Rousse” (95), partecipava alla diffu-sione di una petizione per la riforma del consiglio dei saggi. Inquesta rapida transizione si ripete quella evoluzione spontaneache abbiamo sottolineato in seno alle società di mutuo soccor-so e che le porta a trasformarsi in società di resistenza. Da feb-braio a ottobre l’associazione, i cui effettivi passano da 50 a 250

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membri, riesce a prendere la direzione del movimento di malcon-tento e a organizzare i quasi 8.000 capi laboratorio che esistevano allo-ra nella città di Lione. All’assemblea generale dei capi laboratorio,convocata alla Croix-Rousse l’8 ottobre sotto la presidenza diBouvery, “il leader del secondo Mutualismo” (96), i 300 presentidecisero di dividere i capi laboratorio in 40 circoscrizioni diquartiere e di invitare ogni circoscrizione a nominare due dele-gati. La Commissione dei capi laboratorio della città di Lione e deidintorni, così composta da 80 delegati o “commissari”, dovevanominare a sua volta un ufficio, la Commissione centrale (97). Il 10ottobre, a una seconda assemblea, 1500 capi laboratorio si riu-nivano e decidevano la redazione di una petizione destinata alprefetto e al sindaco pregandoli di regolare il prezzo degli arti-coli della seta, cioè di fissare una tariffa minima.

Così, alcuni mesi dopo la sua fondazione, l’associazione,apparentemente fondata a fini di beneficenza, riusciva a riuni-re l’insieme dei capi laboratorio superando così largamente ilimiti tradizionali delle società di mutuo soccorso e entrava inconflitto aperto con gli imprenditori. Come esprime senzaremore la petizione adottata il 16 ottobre, e comunque redattain termini prudenti, la miseria dei capi laboratorio e dei compa-gni doveva essere attribuita ai negozianti; denuncia

tutta la turpitudine di un gran numero di negozianti senza pudore,per la fortuna dei quali noi anticipiamo l’alba e prolunghiamo a not-te inoltrata un lavoro per il quale non arrossiscono a diminuire gior-nalmente il salario (98),

e aggiunge che è venuto il momento che la classe dei tessitori,

cedendo all’imperiosa necessità, deve e vuole cercare di porre termi-ne alla sua miseria (99).

La fissazione delle tariffe, che avrebbero ottenuto il 26 ottobre,avrebbe dunque preso la forma di una prova di forza tra glioperai e gli imprenditori. In effetti il giorno della firma deltariffario gli operai della seta organizzarono un’ampia manife-stazione di strada nella quale circa 6.000 di loro, avvicinandosidalla periferia verso la piazza dei Giacobini e la piazza Bellecour,sfilarono in silenzio, formati in squadre di venti uomini, dandoagli osservatori una prova della loro forza e della potenza dellaloro organizzazione. Come scrisse allora un testimone della ma-nifestazione, gli operai davano così la dimostrazione che pote-

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vano costituire una classe distinta, “formando una sorta di Sta-to nello Stato” (100). Sappiamo che i conflitti con i fabbricantipresero allora un carattere sempre più violento e sfociaronoalla fine nell’insurrezione dei setaioli che iniziò il 21 novembree che doveva rendere gli operai di Lione padroni della cittàfino al ritorno delle truppe all’inizio del mese di dicembre. Cosìla relativa moderazione delle espressioni mutualistiche non cideve indurre in errore: la rapida evoluzione del movimento versoun confronto aperto con gli imprenditori, la sua possibilità diorganizzare l’insieme degli interessati e di condurli verso unavera presa del potere, confermano la forza del movimento e,dietro le formule moderate, una violenza latente. Bisogna dun-que ritrovare nei concetti proudhoniani di mutualità emutualismo altro piuttosto che dei modelli intellettuali, masoprattutto delle organizzazioni effettive dotate di una potenzaeccezionale e di strutture mobili capaci, in effetti, e in condizionifavorevoli, di trascinare l’insieme degli strati operai in un combat-timento rivoluzionario.

Comunque il ritorno delle truppe nella città di Lione nonfece sparire il Mutualismo. La sconfitta di un movimento cheaveva rivestito, qualunque siano state le intenzioni degli attori,un carattere politico non poteva significare la sconfitta del mo-vimento spontaneo che aveva per obiettivo l’organizzazione deiproduttori in seno alla loro attività di produzione. Così la storiadrammatica dell’insurrezione di Lione del ’31 e ’34 forse puòessere piuttosto considerata come il sintomo di un fenomenopiù esteso che era la singolare esistenza di queste società. Lacontinuità del Mutualismo dopo la sconfitta del 1831 mostrache al di là delle peripezie politiche non cessano di mantenersie di ricostituirsi queste strutture spontanee che offrono così laprova che il conflitto era più profondo dello scontro politico. Èquesto dinamismo delle strutture operaie che Proudhon avreb-be designato quando invitava gli operai a capovolgere la societàiniziando da queste organizzazioni spontanee e non con un’azio-ne esclusivamente diretta contro la sfera del politico. Ma sem-pre più il Mutualismo lionese offriva a Proudhon un modellodi organizzazione che sembra l’ispiratore più diretto della suaelaborazione teorica.

Come abbiamo visto precedentemente, la pratica del mu-tualismo era troppo largamente estesa nelle classi operaie per-ché Proudhon avesse bisogno di cercare nel solo Mutualismolionese il senso di questo concetto. E altrettanto la pratica deiprimi mutualisti riprendeva in larga misura delle forme di pra-

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tica più volte sperimentate intorno a loro; si vede fiorire peresempio negli statuti del mutualismo la costituzione di un fon-do di soccorso secondo lo schema usuale delle società di mutuosoccorso. Ma, come doveva confermare questa storia politica delMutualismo, quest’associazione superava largamente, integrando-le, le pratiche di mutualità e offriva un modello originale di orga-nizzazione. Questo modello doveva avere, agli occhi di Proudhon,l’eminente privilegio di proporre una strategia immediatamenteorganizzata e immediatamente organizzatrice, facendo così dellarivoluzione un’azione non differita. Proudhon vede in effetti inquesta organizzazione mutualistica non la promessa e l’iniziodella rivoluzione futura, ma più esattamente la struttura futuraimmediatamente manifestata, strutturazione di cui ritiene disottolineare la “logica” e la validità universale.

All’inizio, a differenza delle società di mutuo soccorso,gli aderenti partecipano all’associazione a titolo di lavoratori opiù esattamente di produttori. Mentre una società di soccorsopoteva raggruppare dei lavoratori e dei non lavoratori, metteredi fronte degli operai di professioni diverse, e dunque impe-gnare i partecipanti a titolo individuale, il Mutualismo racco-glieva i partecipanti nel gioco delle loro professioni e secondole forme preesistenti della divisione del lavoro. Sin da allora ilfine dell’associazione non poteva che spostarsi e la difesa degliinteressi comuni, cioè l’ottenimento di un tariffario, si sostitui-sce, malgrado le reticenze di Pierre Charnier, agli obiettivi uma-nitari. Il gruppo così costituito doveva proporsi non più la sicu-rezza in seno alle relazioni sociali esistenti, ma la trasformazio-ne dei rapporti sociali. Sarà, agli occhi di Proudhon, la primacondizione della mutazione sociale: che questa sia operata dailavoratori in quanto produttori e con un’azione portata avantisulle loro condizioni sociali di lavoro. La rivoluzione saràrealizzabile, dirà, soltanto dai produttori appropriandosi essistessi delle relazioni di produzione e non da cittadini che agi-scono all’esterno delle relazioni economiche.

In più questa riforma è strutturata, come non cesserà diripetere Proudhon, senza nessun ricorso a una potenza tutela-re. Senza dubbio i mutualisti più moderati avrebbero speratodal potere politico un arbitraggio reso in loro favore contro inegozianti-fabbricanti; ma la storia del Mutualismo, dalla suafondazione fino all’insurrezione di novembre, mostra che ilgruppo così costituito non aspettava dall’autorità centrale chela conferma delle proprie volontà ed era capace di eliminarequesta autorità se essa non corrispondeva alle sue attese. Per

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riprendere l’espressione con la quale G. Gurvitch designava laclasse sociale, si può dire che il Mutualismo aveva una vocazio-ne alla multifunzionalità, cioè che aveva la vocazione di riorga-nizzare esso stesso i rapporti sociali e di ricostituirli secondo ilproprio modello. Il fatto stesso che i mutualisti avessero delleopinioni politiche molto diverse e che, fondato da un realistaconvinto come P. Charnier, il movimento abbia potuto condur-re l’insurrezione di novembre insieme ai repubblicani, mostrabene che le strutture mutualiste possedevano una esistenza pro-pria, una loro originalità e che il movimento aspirava ad impor-re la propria costituzione senza preoccuparsi degli alleati prov-visori che potevano sostenerla. Ma questa autonomia del movi-mento offriva anche a Proudhon il modello di una vera demo-crazia interna nella quale la volontà del gruppo non si trova innessun momento delegata a un capo. Nella storia del movimen-to non si vede apparire un dirigente autoritario che monopoliz-zi i poteri di decisione e nemmeno un teorico che gli operai siproponessero di seguire. Noi conosciamo gli animatori delmovimento che furono P. Charnier, Bouvery, Masson-Sibut, Lebor-gne, Chaboud…, ma non vediamo nessuno di questi leadersaccaparrarsi il movimento e diventare un leader autocratico.Questi uomini conservano le loro attività professionali e nellostesso tempo assumono gli impegni provvisori in seno all’attivi-tà collettiva. Inversamente non si vede che questi operai si sianoaffettivamente identificati con un capo del quale avrebbero fattoun’immagine ideale e al quale avrebbero ubbidito. I conflitti chesi manifestarono spesso nel movimento lasciano pensare al con-trario che una certa diffidenza si manifestava verso i “presidenti” eche il gruppo era rapidamente capace di eliminare un capo cheentrava in disaccordo con le decisioni collettive. Proudhon faràsistema di questa negazione del capo autocratico, dicendo che ledecisioni non possono nascere che dall’incontro delle differentivolontà; sarà uno dei significati dell’anarchia positiva.

Infine Proudhon poteva trovare nel Mutualismo, poichéassociava nei rapporti di reciprocità dei centri di produzionedistinti, un disegno particolarmente preciso del suo sistema so-cio-economico. In effetti il Mutualismo non era esattamenteun’associazione di persone, ma un’associazione di laboratoridella seta: se i capi laboratorio difendevano i loro interessi, essidifendevano più esattamente gli interessi dell’impresa della qua-le erano responsabili e confrontavano così dei luoghi di produ-zione al di là delle loro persone. Questa situazione si trova con-fermata dal fatto che trovavano l’appoggio dei loro compagni

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nei conflitti contro i negozianti. Proudhon interpreterà, sem-bra fedelmente, questa situazione dicendo che il rapporto so-ciale fondamentale è il rapporto che si instaura tra i produttori,che siano individui oppure collettivi; delimitare la grandezzadelle imprese era meno essenziale di instaurare tra di loro deirapporti di uguaglianza e di reciprocità. E senza dubbio si puòcogliere qui ciò che doveva apportare alla pratica mutualista lateoria proudhoniana; Proudhon dirà che la soluzione del pro-blema sociale consiste nel generalizzare i rapporti di scambio edi mutualità tra i centri di produzione. Ora questa indicazionesi trova formulata solo parzialmente negli statuti del Mutualismo.Se tutta la pratica dei mutualisti era orientata nel senso delloscambio reciproco dei servizi, delle informazioni, essa, negliscambi materiali, sottolineava soltanto il “prestito di utensili”;Pierre Charnier aveva così formulato questi doveri di scambionel suo primo regolamento:

4° Indicarsi tutti gli oggetti dei quali esiste il bisogno di vendere, com-perare o scambiare; 5° Prestarseli mutualmente (101).

Proudhon doveva dunque superare ampiamente queste propo-ste, poiché un mutuo scambio non doveva essere per lui unasemplice relazione tra le altre, ma un modello universale chia-mato a riorganizzare su un fondamento giusto la totalità dellerelazioni sociali. Ma questa stessa generalizzazione era resa pos-sibile dalla struttura pluralista del Mutualismo in seno al qualei centri di produzione, se sceglievano di associarsi, rifiutavanodi confondersi in una comunità. Bisognava dunque, affinchéuna generalizzazione del modello fosse possibile, che venissepromosso questo rapporto con mutui scambi, che venisse este-so all’insieme delle forze economiche senza ripudiare il princi-pio della pluralità dei gruppi. Da allora Proudhon avrebbe scar-tato, nell’immagine del Mutualismo, ciò che apparirà ancoralegato alle preoccupazioni di beneficenza e avrebbe conservatociò che annunciava la teoria del contratto tra poli economicidifferenziati.

6. - La correlazione più stretta: i maestri-operai setaioli

Possiamo adesso rispondere alla questione dell’imputa-zione sociale del proudhonismo. Allo stesso modo con cui ab-biamo tentato nella prima parte di questa ricerca di stabilire

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una correlazione tra il progetto proudhoniano e una strutturaeconomica, dobbiamo qui proporre una ipotesi concernentela correlazione più stretta che possa essere stabilita tra il pro-getto di Proudhon e un gruppo sociale il più definito possibile.Considerando il principio generale secondo il quale una teoriapolitica non è soltanto una creazione individuale, ma anche unaformulazione che trova le sue origini in un ambiente socialecircoscritto, dobbiamo rispondere alla questione del soggettoreale che si esprimerà con il proudhonismo. Al di là dell’espres-sione propria a Proudhon che ha fornito i temi fondamentali,quale gruppo sociale era portatore di queste percezioni e que-ste esperienze particolari o, in altri termini, chi parla?

Ma si può verificare, con le indicazioni precedenti, quan-to questa domanda rischia di suscitare confusione. Essa implicauna rappresentazione schematica, se non ideologica, dell’orga-nizzazione sociale e la sua riduzione a una stratificazione eco-nomica semplice. Nella società francese degli anni 1840, la que-stione può avere efficacia a condizione di eliminare la rappre-sentazione mitica di una classe operaia unificata, impegnata inuna situazione sociale omogenea e nascondente in sé, sostan-zialmente, una ideologia politica unica. Il breve richiamo chenoi abbiamo fatto alle diversificazioni economiche, professio-nali e statutarie, ci avverte sufficientemente dell’impossibilitàdi fare correlare una teoria e l’insieme delle classi lavoratrici.Dobbiamo pure ricusare l’affermazione di Proudhon e la suaconvinzione di esprimere gli interessi e la volontà della classeoperaia nella sua totalità; i conflitti ideologici acuti che doveva-no manifestarsi nel corso della rivoluzione del 1848 in seno alleclassi operaie, confermano questa eterogeneità sociale, questacorrispondente pluralità delle ideologie. Conviene dunque de-limitare in seno a queste classi complesse, di quale gruppo ilproudhonismo poteva essere espressione e a quale esperienzasociale poteva avvicinarsi di più.

La questione avrà significato, d’altra parte, solo se si puòprecisare quali siano i termini esatti che si pretende far correlare.La nozione di classe sociale o anche la nozione più precisa digruppo socio-professionale in seno a una classe, rinvia solo adegli stereotipi finché non si precisi quali siano le esperienze ei tipi d’azione che si sceglie di considerare. Nulla indica che leesperienze e le azioni di un gruppo sociale siano a priori omo-genee e che, per esempio, le sue pratiche religiose siano in rap-porto di rigorosa equazione con delle pratiche economiche.Può darsi, come suggerisce Marx per tutte le classi della società

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francese del 1848, che il fenomeno sia più importante in unadata congiuntura, che sia precisamente la contraddizione dellepratiche in seno ad una stessa classe. Altrettanto bene nella for-mulazione di un’ipotesi concernente la correlazione più strettatra gruppo sociale e un’opera politica bisognerà non soltantoprecisare i limiti e le caratteristiche di questo gruppo, ma anchequale pratica propria a questo gruppo bisogna considerare.

I capitoli precedenti ci conducono all’ipotesi di una cor-relazione particolarmente stretta tra la strategia politica propo-sta da Proudhon e la pratica economica dei capi laboratoriolionesi. Quali possano essere state le circostanze accidentali chepermisero a Proudhon di conoscere l’azione di questi setaioli,e che non dobbiamo studiare qui, sembra che una omologiaparticolarmente stretta possa essere stabilita tra il suo progettopolitico e la loro azione di organizzazione così come la diresse-ro all’inizio degli anni 1830. Noi cercheremo di verificare que-ste ipotesi considerando successivamente la pratica economicadi questi capi laboratorio, poi il loro comportamento nel corsodei conflitti rivoluzionari. Il loro atteggiamento nel corso dellesituazioni di guerra civile potrà essere eminentemente rivelato-re delle tensioni latenti; esso deve comunque essere oggetto diuno studio distinto in ragione stessa del suo carattere eccezio-nale. Questa distinzione è talmente importante che bisogneràcercare quale pratica si trova particolarmente valorizzata daProudhon in mezzo a questi tipi di azioni differenziate.

Lo statuto sociale di questi setaioli può essere precisatonegativamente e positivamente. Negativamente questi mutualistisono molto lontani dall’operaio agricolo, la cui urbanizzazioneprovvisoria o recente non ha rotto il rapporto con la comunitàrurale. Il setaiolo è un uomo di città. Tutte le sue attività si svi-luppano nel seno della città, così come i suoi clienti sono con-centrati nelle città. Questo radicamento urbano è ancora piùprofondo per il setaiolo lionese che partecipa ad una organiz-zazione industriale vecchia di più secoli e il cui passato è cor-rentemente esaltato nelle cerimonie e nelle conversazioni cor-renti. Nella tipologia proposta da G. Duveau, che distingue l’ope-raio della campagna, l’operaio dei centri medi e l’operaio dellagrande città, il setaiolo fa nettamente parte di quest’ultima ca-tegoria. Secondo questo stesso autore bisognerà dunque aspet-tarsi di veder apparire in mezzo a questi operai una certa unitàideologica favorita dall’intensità degli scambi urbani e da unacerta omogeneità culturale. Allo stesso modo essi si differenzia-no nettamente dai rami dell’industria alla quale essi partecipa-

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no. Contrariamente ad altri rami dell’industria, le tecniche checoncernono la seteria non conobbero che un’evoluzione lentadurante questo periodo e allo stesso modo, malgrado qualchetentativo di concentrazione, la distribuzione della “fabbrica col-lettiva” in piccoli laboratori distinti doveva rimanere immutatadurante tutta la vita di Proudhon. In questa prima metà delXIX secolo, all’interno stesso dell’industria tessile, la produzio-ne della seta rimane uno dei settori non stravolti dalla concen-trazione industriale e dall’introduzione delle macchine. Si puòcapire che per questi operai il problema più pressante non fuquello dell’adattamento al progresso meccanico e che le ansie-tà non furono legate a questo problema. Come abbiamo vistonella prima parte, questo fenomeno dell’evoluzione lenta nonè eccezionale prima del 1848 e non fa della seteria un caso uni-co. Sappiamo al contrario che questo tipo di produzione è an-cora predominante durante questo periodo. La seteria lioneseoffre un modello sociale che si ritrova sotto forma differente,per delle produzioni dissimili, a Limoges, a Thiers, a Parigi.Infine dal punto di vista dei salari e del livello di vita, bisognasottolineare che questi capi laboratorio non si situano in nes-sun modo tra gli strati economicamente più sfavoriti. È nel set-tore in via di rapida meccanizzazione che dovevano manifestar-si le riduzioni più brutali dei salari mentre i settori meno indu-strializzati conoscevano nell’insieme una relativa stabilità. In piùi capi laboratorio conservano un certo privilegio in rapporto ailoro compagni, poiché sono gli ultimi, in caso di rarefazionedel lavoro, a conoscere la disoccupazione. Essi possiedono spessoun piccolo capitale che permette loro di resistere per più tem-po alla cessazione del lavoro. Questa situazione relativamenteprivilegiata fa prevedere che le preoccupazioni maggiori nonsaranno limitate al problema della sopravvivenza e che le insur-rezioni non saranno necessariamente delle rivolte per la fame;ci si può attendere da una classe sociale relativamente privile-giata che essa sia sensibile ad altri aspetti della situazione socia-le, per esempio all’irrazionalità della produzione nel suo insie-me e ai modi di superarla.

Positivamente i capi laboratorio della seteria possiedonoun insieme di tratti economici distinti che permette di conside-rarli come una unità sociale. Allo stesso tempo questa identitàdelle situazioni faciliterà lo scambio delle comunicazioni in senoal gruppo in caso di conflitto con altri gruppi. Su questo puntola differenza è grande tra il Mutualismo e le società di mutuosoccorso e noi troviamo nel Mutualismo un gruppo sociale molto

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più omogeneo e senza dubbio molto più resistente alle prove.Bisogna aspettarsi di ritrovare nel Mutualismo l’intensità socia-le che noi vediamo svilupparsi in una società di mutuo soccor-so, ma bisogna aspettarsi che questa solidarietà sia rinforzatadall’identità di interessi e dalle somiglianze delle situazioni. Lesocietà di mutuo soccorso raggruppavano in effetti degli indivi-dui appartenenti a dei rami industriali molto differenti e anchea degli strati sociali differenziati. Il rilevamento delle società dimutuo soccorso a Lione prima del 1850 mostra che degli operaidi “diversi stati” si associano frequentemente malgrado la diversitàdella loro appartenenza professionale. Una associazione del 1828raggruppa “ragazzi di cassa e di magazzino, muratori, parrucchie-ri”, un’altra fondata nel 1847 raggruppa a sua volta

commessi e impiegati, stati diversi, lavoratori del gesso, impiegati deldazio, vecchi amici della Croix Rousse (102).

In altre associazioni si constata anche la presenza di rappresen-tanti della borghesia a fianco degli operai; una associazione fon-data nel 1810, anteriormente è vero al periodo dei conflitti so-ciali acuti, raggruppa

maestri fabbricanti di seteria, tessitori, fonditori, decoratori, mercantidi vino, falegnami (103).

Questa grande eterogeneità del raggruppamento sociale sug-gerisce di distinguere, in mezzo a queste associazioni, quelle lacui area di reclutamento si estende al di là delle frontiere diclasse e quelle che raggruppano soltanto degli operai della stes-sa professione. Sono le associazioni di questo secondo tipo chesi riveleranno le più dinamiche e le più combattive.

Il Mutualismo fa parte di questa seconda categoria poi-ché, precisamente, i capi operai si impegnavano in quantosetaioli e in vista di scambiare delle indicazioni utili per la loroprofessione. Anche in questo il Mutualismo superava la defini-zione ufficiale della società di beneficenza per annunciare leformule del sindacalismo moderno. Questo gruppo omogeneocostituito da produttori svolgenti delle funzioni identiche nelprocesso di produzione, comporta delle caratteristiche ben pre-cise che bisogna sottolineare. Questi capi laboratorio sono sindall’inizio dei produttori. Ma il termine produttore, del qualeil saintsimonismo aveva fatto un valore sociale, si applica quinel suo senso più rigoroso. A differenza del salariato, che si tro-

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va inserito in un lavoro collettivo dove non può misurare esatta-mente il suo apporto né percepire isolatamente ciò che produ-ce, il capo laboratorio ha un rapporto immediato con la mate-ria che trasforma e può rapportare continuamente la trasfor-mazione dei suoi pezzi di stoffa al tempo di lavoro fornito. Sen-za dubbio è incaricato di ripartire il lavoro tra quelli che lavora-no con lui: sua moglie, i suoi figli ed eventualmente due o trecompagni, ma continua a tessere in mezzo a loro e non cessa dipercepire la progressione del lavoro. Allo stesso tempo ha unrapporto diretto con il mercante-fabbricante e sa che il fabbri-cante non può fare a meno del suo lavoro di produttore, non èintegralmente subordinato a un sistema sul quale non avrebbenessun controllo, ancora meno è escluso dalla società economi-ca. Se è operaio, lo è nel senso che Proudhon dà a questo termi-ne, quando ne sottolinea il senso etimologico e valorizzante. Ilsetaiolo è proprio il produttore di una mercanzia precisa e laqualità del suo lavoro si manifesta chiaramente dalla bellezzadella stoffa tessuta.

Da questo momento appare l’estrema particolarità dellasituazione sociale del capo laboratorio al punto che è, si puòdire, di volta in volta un salariato o un produttore indipenden-te o ancora un proletario o un gestore. È un salariato perchéproduce per conto di un fabbricante che fissa i prezzi che sa-ranno pagati al produttore. Il capo laboratorio riceve esatta-mente un salario a cottimo come l’operaio, che nella grandeimpresa è retribuito secondo il lavoro fornito. Questa dipen-denza concerne anche la natura del lavoro poiché il mercante-fabbricante sceglie le materie prime e impone i disegni primadi passare le ordinazioni. Il capo laboratorio è un esecutoresottomesso alle decisioni del suo datore di lavoro o, nel linguag-gio di Proudhon, sottomesso al potere del capitale.

Ma contemporaneamente il capo laboratorio conserva uncerto margine di indipendenza ed è, qualunque sia il suo in-debitamento, proprietario dei mezzi di produzione sui qualilavora o fa lavorare. È a lui che competono i costi di acquisto, dimanutenzione e di montaggio delle attrezzature e dunque devegestire questo capitale e calcolare rigorosamente i rischi e i van-taggi dei suoi investimenti e non può contare in questo che suse stesso o sul consiglio dei suoi pari. Qualunque siano i limitidi queste iniziative e il carattere rigoroso delle norme tradizio-nali che definiscono il suo lavoro, rimane in larga misura re-sponsabile. Il suo statuto professionale definisce sia la sua di-pendenza che la sua libertà. Non possiede capitale suscettibile

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di essere sganciato dallo strumento del lavoro e non può lavo-rare che nella misura in cui può vendere il suo tempo di lavoro,ma il potere del suo datore di lavoro si ferma a questo acquisto.La sua libertà incomincia al di là di questa vendita; ma diventaallora importante l’organizzazione del suo lavoro ed esercitareliberamente la sua arte.

Secondo la dicotomia proposta da Marx, distinguendo illavoro astratto e il lavoro qualificato, il setaiolo lionese fornisceun lavoro qualificato, cioè un lavoro personale, all’opposto dellavoratore legato a una grande impresa, che non vende che ilsuo tempo di lavoro. I capi laboratorio non costituiscono dun-que un’aristocrazia operaia, se si designano con questo termi-ne gli operai meglio pagati di un’impresa. Non è la loro collo-cazione in una scala di salari che caratterizza il loro ruolo nellaproduzione, ma la loro funzione di responsabilità e la loro rela-tiva autonomia; è tramite queste funzioni particolari che si diffe-renziano sia dai datori di lavoro, poiché non possiedono né capi-tali né il potere di decisione, sia dai compagni, poiché devono co-munque gestire la loro debole unità di produzione. Ma, se noncostituiscono una aristocrazia, formano comunque un’élite se sidesigna con questo termine degli operai aventi, nella loro specia-lità, del saper fare e delle conoscenze molto estese, possedendod’altra parte una cultura eccezionale. Gli storici del Mutualismohanno sottolineato quanto i setaioli, e particolarmente i capi-labo-ratorio, penetrati da una lunga tradizione professionale e legati aun lavoro artistico, fieri della loro originalità, costituirono un’uni-tà culturale eccezionale; la diffusione molto rapida delle granditeorie sociali in questo gruppo testimonia della sua apertura e dellasua grande curiosità di spirito (104).

Esamineremo nell’ultima parte di questa opera se la cor-relazione può essere proseguita sul piano delle mentalità, ma aldi là di questo livello la correlazione si stabilisce tra le esperien-ze quotidiane di questi capi laboratorio e le esperienze dellequali Proudhon fa il suo punto di partenza. Il capo laboratorio,per la sua collocazione nel sistema sociale, stabilisce con i pote-ri politici, con il suo datore di lavoro, con i suoi pari e con i suoicompagni delle relazioni sociali molto precise che ci sembranoomologhe a quelle che Proudhon erige a sistema.

Nei suoi rapporti con lo Stato il setaiolo lionese è impe-gnato in una relazione di grande distanza oppure di larvatoconflitto. Quale che possa essere il suo apprezzamento dellapolitica, e per esempio il suo attaccamento alla persona del re,non dipende dalle decisioni del governo e l’esperienza delle

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crisi congiunturali gli mostra che la sua sorte dipende in primoluogo dai problemi economici e non dal potere politico. Que-sta distanza è, nel 1840, molto più profonda di quanto lo fosseprima del 1789, dove il re poteva ancora intervenire per facili-tare la conclusione di una crisi. L’inefficacia economica dellaRivoluzione del 1830 ha dimostrato agli occhi dei setaioli chenon esisteva nessun rapporto diretto tra un cambiamento dipersonale al governo e la prosperità industriale. Questa distan-za poteva essere sentita ancora più vivacemente a Lione, cittàlontana dal potere centrale, piuttosto che a Parigi. Dopo il 1830questo rapporto con i poteri si carica di ostilità. Non che i capi-laboratorio siano in conflitto aperto con le autorità locali o conla polizia: anzi al contrario i responsabili dell’ordine pubblicohanno un pregiudizio meno sfavorevole per questi setaioli cheper i compagni della fratellanza dei quali temono la turbolenza.In effetti questi gestori che sono responsabili della buona ma-nutenzione dei loro utensili manifesteranno nei periodi di ri-volta un’estrema cura nella protezione degli strumenti di pro-duzione; per contro appena vogliono essere innovatori e in par-ticolare creare tra di loro dei rapporti di associazione e solida-rietà, si trovano in contrapposizione con la repressione legale.Questo vigore delle interdizioni è tanto più sentito quanto piùi desideri di associazione sono più vivi, ma dopo la formulazio-ne delle rivendicazioni su questo argomento, il carattere repres-sivo del potere legale si fa sentire con la pubblicazione delleleggi che proibiscono le coalizioni. Così il Mutualismo è fonda-to segretamente e le riunioni si svolgono clandestinamente;come le organizzazioni simili, è organizzato per piccole celluleper sfuggire alla legge del codice penale che esige un’autoriz-zazione per le riunioni di più di venti persone. Questa doppiaesperienza della distanza e del conflitto troverà la sua espressio-ne nella corrente dell’opera proudhoniana. Al di là delle de-nunce violente a carattere anarchico, si esprime più ancora unadistanza tra la “realtà” della società economica e i poteri politici.Le opere anteriori al 1848 sono caratterizzate riguardo a questopunto dalla loro grande indifferenza in merito ai poteri; mentretutta la azione riformatrice si applica all’organizzazione econo-mica e la violenza della denuncia ha per oggetto lo sfruttamen-to del lavoro, la questione del potere politico non è sufficiente-mente considerata, come una conseguenza secondaria dei rap-porti di produzione. Come i setaioli del 1831 posero la questionedel potere dopo aver posto il problema della loro organizzazioneeconomica, Proudhon solleverà la questione politica soltanto dopo

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la “questione sociale” e sempre in funzione di questa.Se il rapporto col potere politico è un rapporto lontano,

la relazione del capo laboratorio con il mercante-fabbricanteche gli fornisce il suo lavoro è al contrario perfettamente chia-ra. Il capo laboratorio è in effetti quotidianamente in rapportocon il fabbricante dal quale dipende personalmente per il suolavoro e per la sua esistenza. È questo rapporto che culminanell’esperienza del capo laboratorio che fa apparire tutte le al-tre come secondarie. Ora questo rapporto è necessariamenteconflittuale in ragione stessa dell’organizzazione della “fabbri-ca collettiva”. Non che sia necessario immaginare che questi rap-porti siano stati sempre violenti ed astiosi; era possibile che deirapporti di tolleranza intervenissero con i fabbricanti liberali. Mala natura stessa del rapporto tra i fabbricanti e il capo reparto èper definizione un rapporto di conflitto e precisamente di conflit-to economico. Il capo laboratorio dipende interamente da chi loimpiega e tutte le sue risorse sono legate al prezzo che ottiene peril suo lavoro, cioè il prezzo delle stoffe e dei tessuti. Ora questoprezzo è necessariamente oggetto di dibattito e di discussione,poiché niente ne fissa il valore. Così la rivendicazione essenziale èquella di ottenere un prezzo costante, la “tariffa” che assicureràun minimo di sicurezza al tessitore. Fra il capitale e il lavoro ilrapporto è necessariamente di conflitto, come dimostreràProudhon in tutte le sue opere economiche. Non si trattava né diuna scoperta, né di una rivelazione. Anche prima del 1789 deifabbricanti avevano chiaramente spiegato l’obbligo nel qualeerano di mantenere i prezzi del lavoro a un basso livello. EtienneMayet, nel suo Mémoire sur les manufactures de Lyon (1786) avevaesposto la necessità nella quale si trovava il fabbricante di “man-tenere l’operaio in un bisogno continuo di lavoro” e di conte-nere la manodopera a un basso prezzo (105). Dal lato dei setaiolila lotta non è meno vivace e non meno cosciente. La pratica deifurti (sull’oncia) suscita delle discussioni molto violente e man-tiene un clima di sfiducia. Il fatto che i capi-laboratorio posse-dessero una relativa indipendenza, invece di eliminare i conflit-ti, li avvelenava. Il capo-reparto si trova legato al fabbricante darapporti più complessi di quanto non lo sia il salariato al suodatore di lavoro; deve per esempio migliorare i suoi mezzi di pro-duzione in vista dei lavori che gli saranno forniti, ma senza chequeste promesse abbiano fatto impegnare il fabbricante. Così suc-cedeva che un capo reparto, sulla fede di una promessa, si indebi-tasse per comperare o modificare gli utensili, poi si scontrasse colrifiuto del fabbricante di tener fede ai suoi impegni (106). Delle

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denunce frequenti prolungano queste discussioni. In più la si-tuazione particolare del capo reparto, l’ampia conoscenza deiprezzi di mercato, gli permettono di esaminare in modo criticogli argomenti dei fabbricanti per contenere il prezzo del lavo-ro. I fabbricanti non mancano di invocare il peso della concorren-za straniera, i furti dei quali sono vittime da parte dei tintori, degliaspatori, delle difficoltà incontrate nella vendita delle mercanzie,ma i capi reparto sono in grado di discutere questi argomenti e diesaminarne il fondamento.

Gli anni che precedettero la rivoluzione del 1848 aveva-no rimarcato un aggravamento di questa situazione. Lo svilup-po economico che determinava uno sviluppo commerciale siera tradotto in un accrescimento del numero dei negozianti ein un aumento dei benefici. I fabbricanti che impiegavano qua-rant’anni per fare fortuna nel XVIII secolo, si ritiravano ormaidopo dodici o quindici anni (107). L’antico fabbricante legatoalla sua industria, che intratteneva dei rapporti paterni con isuoi artigiani, cede il posto ad un capitalista commerciante cheha una coscienza molto più viva del profitto e delle possibilitàdi arricchimento. Il contrasto tra la ricchezza e il lavoro è piùprofondo di una volta e, per il setaiolo, scandaloso. In Proudhonsi troverà la reiterazione di questa indignazione contro il capi-tale sfruttatore, con la particolarità di individuare il capitale nellapersona del proprietario e denunciarne il suo “egoismo” (108).

Questo conflitto economico con i fabbricanti aveva pre-so, durante questo periodo, una configurazione nuova con l’in-tervento sempre più evidente dell’amministrazione al fianco dei“padroni”. Senza dubbio questa collusione non era nuova, maera meno visibile nell’ Ancien Régime e i fasti dell’Impero aveva-no potuto relegarla al secondo posto nelle preoccupazioni.L’estensione del capitalismo e una legislazione proveniente dallarivoluzione del 1789 le davano un carattere molto più netto. Isetaioli ne fecero un’esperienza diretta durante le insurrezionidel 1831 e 1834, quando i fabbricanti si appoggiarono senzaambiguità alle forze dell’ordine e quando i mutualisti, nella lorolotta per la fissazione delle tariffe nella loro agitazione controla legge sulle associazioni, si scontrarono direttamente con ipoteri politici. Come in Proudhon la lotta economica conducea una lotta politica e allo stesso modo la “questione sociale”rende evidente l’esistenza di una collusione tra il capitale e ipoteri. Più esattamente in questa percezione dove il potere deifabbricanti è primordiale, la politica è percepita come un’ema-nazione del potere economico.

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I capi reparto sperimentano dunque una lotta di classenel senso che sono condotti a partecipare agli interessi dei lorogruppi e a quelli dei loro compagni pur percependo i loro datoridi lavoro come membri di una stessa classe ostile. Il raccontoche fa Pierre Charnier delle origini del Mutualismo illustraquesta unità di interessi, questa facilità a mettere in rilievo lacomunità degli obiettivi e nello stesso tempo l’unità che spon-taneamente è prestata al gruppo sociale dei fabbricanti. Quan-do descrive, per esempio, la discussione che aveva nella gabbiaaspettando la consegna delle mercanzie e durante la quale ri-cordava ai capi reparto il

mancato rispetto delle promesse dei fabbricanti, quando questi au-mentavano il costo degli utensili…,

utilizza spontaneamente il loro e il noi, raggruppando i fabbri-canti in una unità e investendo i setaioli della funzione di sog-getto; le lotte personali sono considerate come frammenti diuna lotta di classe. E per loro come per Proudhon la lotta di clas-se non diventa né un’astrazione né una formula per spiegare tuttii problemi; resta un’esperienza concreta della quale rendere con-to e che bisogna in ogni situazione spiegare con precisione. I fab-bricanti non formano un’entità impersonale, essi rimangono de-gli individui dei quali bisognerà spiegare gli atteggiamenti.

A partire da quest’esperienza si può capire la formulaintroduttiva di Proudhon: la proprietà, è un furto. Questa formu-la è introdotta in un’analisi economica che spiegherà la forma-zione del capitale e il suo rinnovamento con l’accaparramentodel plusvalore, ma non si può mancare di sottolineare il suocarattere emotivo che esprime all’inizio un’esperienza sociale euna rivolta. Per il capo reparto, che ha una conoscenza chiara eesaustiva del suo lavoro, che può misurare come dirà Proudhonil diritto e l’avere, la discussione sulle tariffe è un dibattito control’accaparramento del fabbricante; la ricchezza è percepita comeun furto perpetrato contro il produttore. Questa percezionepuò essere altrettanto più netta se il capitale fabbricante rima-ne un capitale commerciale che non comporta i rischi del capi-tale industriale. L’investimento nelle attrezzature è sopportatodall’artigiano. La ricchezza del fabbricante sembra costituirsicosì solo del lavoro del produttore e delle manipolazioni com-merciali fraudolente che saranno anche oggetto di una denun-cia violenta da parte di Proudhon. Ma nello stesso tempo noisappiamo che questa formula lapidaria su il furto proprietario

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non induce al rifiuto del possesso degli strumenti di produzio-ne. Questa dialettica, che è un punto essenziale della dottrinaproudhoniana, da una parte denuncia il carattere antisociale dellaproprietà assoluta e d’altra parte giustifica il possesso, vale adire la funzione, l’uso di un capitale per un produttore in vistadel lavoro. Si sa che Proudhon non cesserà di ergersi control’espropriazione generale, chiederà che le famiglie contadine ei piccoli commercianti rimangano possessori dei loro mezzi diproduzione, che le grandi imprese siano di proprietà delle com-pagnie operaie. Questa teoria è ben conforme al modo di relazio-ne che ha l’artigiano con gli attrezzi: il capo laboratorio è pro-prietario dei suoi utensili e, poiché li utilizza lui stesso, è esclu-so che questo possesso possa diventare fonte di sfruttamento.Nello stesso tempo si può facilmente immaginare come la curache portava nella manutenzione del suo materiale, la fierezzache poteva trarne, dimostrerà ai suoi occhi l’utilità sociale diquesto rapporto di possesso. Nell’idea di un’appropriazionegenerale Proudhon vedrà anche la minaccia di una regressionemorale e nel possesso una garanzia di dignità e di libertà. Daallora il problema si porrà in questi termini: come eliminare ilfurto capitalista evitando la comunità dei beni e senza romperequesto rapporto organico dell’uomo con i suoi strumenti?

A questi rapporti incessantemente conflittuali con i fab-bricanti si oppone radicalmente il rapporto con i pari. Mentrele relazioni con i datori di lavoro, o in altri termini con il capita-le, sono dei rapporti di subordinazione e di opposizione, i rap-porti con i pari sono privi di rivalità. Sono dei rapporti di ugua-glianza, qualunque possano essere le differenze nell’abilità onel numero di utensili posseduti. Senza dubbio un capo repar-to può aver timore che uno di suoi pari accetti un prezzo infe-riore al suo, minacciando così le tariffe ottenute, ma precisa-mente questa minaccia non può, in una situazione di essenzialeuguaglianza, che incitarlo a stringere i legami con gli altri setaioliper evitare che questi diventino dei concorrenti. Sarà precisa-mente uno dei primi obiettivi del Mutualismo quello di rende-re effettivi gli interessi comuni ed impedire i rischi di concor-renza. Questi rapporti di uguaglianza e di equivalenza degli sta-tuti rivestono dei caratteri molto particolari che li differenzia-no nettamente dai rapporti che possono avere tra di loro glioperai di una stessa fabbrica o i piccoli possidenti di una stessacittà. Questi capi reparto sono riuniti da una stessa subor-dinazione ai fabbricanti e provano durante le crisi la solidarietàestrema dei loro interessi, ma non possono essere confusi nella

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stessa impresa che li integra. Si indirizzano a dei fabbricantidifferenti e discutono separatamente i compiti che vengono loroaffidati e i prezzi che otterranno, lavorano nel proprio labora-torio e a livello stesso dei loro utensili, utilizzano dei mestieriche richiedono un lavoro individuale. I rapporti che hanno coni loro pari sono dunque essenzialmente differenti da quelli chesi creano tra gli operai della grande impresa. Non esiste fra diloro quella solidarietà oggettiva che impone la fabbrica e checorrisponde simultaneamente a una depersonalizzazione dellavoro. Le relazioni fra i capi reparto hanno questa particolari-tà d’essere un rapporto di solidarietà tra salariati, ma tra salaria-ti indipendenti. Questi uomini sono anche dei maestri operai esi incontrano in quanto individui distinti e responsabili dellapropria gestione. Si può prevedere che questo statuto di indi-pendenza sarà tanto più valorizzato e difeso quanto più saràminacciato; in un periodo in cui la concentrazione della pro-duzione si rende possibile e in cui questa concentrazione por-terà alla distruzione di questo margine di libertà e di potere ecertamente ad una diminuzione delle risorse, si può prevedereche questi statuti saranno aspramente difesi. Il rapporto da cre-are fra i pari sarà dunque un rapporto di scambio o di mutualità,cioè un rapporto tra uguali e ciò che sarà respinto più violente-mente sarà il termine minaccioso: la perdita dell’indipendenzanella comunità. Proudhon dunque si situa esattamente in que-sta problematica; instaurare un rapporto economico tra poli diproduzione differenziati respingendo il comunismo autorita-rio con altrettanta energia che il liberalismo capitalista. L’omo-logia è qui altrettanto stretta che possibile tra il rapporto socia-le dei capi industria e le loro pratiche mutualiste, tra le loropratiche e la problematica proudhoniana.

Si può sottolineare che i rapporti che si stabiliscono traquesti produttori e salariati indipendenti non sono in nessunmodo assimilabili a delle relazioni tra piccoli borghesi. Senzadubbio, se si intende per piccoli borghesi l’insieme degli indivi-dui che non sono né grandi possidenti né operai delle grandiimprese, i capi reparto saranno considerati nelle classi medie,ma una stratificazione così grossolana porterà poca chiarezzasulla società francese del XIX secolo. Comunque nella compren-sione di questa nozione confusa rientrano delle caratteristicheche sono direttamente antinomiche allo statuto dei setaioli.Mentre il piccolo borghese avrebbe nella sua produzione unruolo marginale, se non parassitario, il capo reparto è veramenteun produttore: nel processo di produzione si situa senza ambi-

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guità tra i lavoratori diretti. Non è in nessun modo un interme-diario, come lo è il prototipo del piccolo borghese, il piccolo com-merciante; non si aspetta nulla dal commercio e dal traffico el’aggiotaggio gli è sconosciuto. Infine i rapporti che intrattiene coni suoi pari non sono in nessun modo improntati a caratteri di riva-lità, come invece si presta allo spirito e alla situazione del piccoloborghese. Si sente che l’appellativo di piccolo borghese potrebbeavere l’effetto di misconoscere totalmente la specificità di questasituazione o forse con l’obiettivo di nasconderla.

I rapporti stabiliti fra i capi reparto e i loro compagni sonotanto importanti per la nostra ricerca in quanto il pensiero diProudhon comporta su questo punto dei silenzi singolari. Cosìprolisso sugli scambi tra i produttori, egli non precisa nulla suquesto punto, pur essenziale, dei rapporti tra i capi reparto e icompagni. Ma forse questa fluttuazione corrisponde alla com-plessità dei rapporti effettivi e allo stesso tempo a una reticenzadei capi laboratorio a rispondere chiaramente a queste domande.Lo status del capo laboratorio non manca di essere relativamenteprivilegiato rispetto a quello del compagno. Il possesso degli stru-menti gli procura più sicurezza e più prestigio. Detiene nellasua piccola sfera una certa autorità sui suoi impiegati e li co-stringe a eseguire i loro impegni. Lo si vede per esempio neitesti del Mutualismo, così come furono redatti nel 1827-1828:uno dei compiti del Mutualismo era di riformare gli abusi nociviai capi reparto che sono, da parte dei compagni, la non esecuzio-ne della legge sui libretti e da parte degli apprendisti la nonesecuzione dei contratti di apprendistato(109). Si indovinano die-tro questi progetti di riforma i conflitti che non mancavano disorgere tra i capi reparto e i compagni o gli apprendisti. Comun-que appare, sia dal punto di vista dell’organizzazione della fab-brica collettiva che dal punto di vista delle insurrezioni politi-che, che la conflittualità tra i setaioli sia stata di gran lunga infe-riore alla lotta condotta contro i fabbricanti. Durante gli annianteriori al 1848 il conflitto essenziale si situa non più tra isetaioli, ma tra la classe operaia e i fabbricanti, sottolineandocosì l’identità degli interessi tra i compagni e i maestri operai.L’uso del termine di “classe operaia” e di “setaioli” consacra que-sta situazione designando sia l’artigiano che l’operaio artigiano.

Questa relativa identità degli interessi è favorita dai limitimolto stretti del laboratorio. I più importanti capi laboratorioutilizzano cinque o sei compagni e la maggioranza ne utilizzamolto meno. Proprio perché gli artigiani lavorano soli o con leloro famiglie, si contano per 8.000 capi reparto soltanto 30.000

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compagni. Anche se c’è una differenza numerica, bisogna com-pararla alle cifre molto più ridotte dei fabbricanti raggruppatisotto 400 ragioni sociali. Più importante è il fatto che, in questopiccolo laboratorio, la somma dei benefici, il prezzo del lavoro,sono conosciuti; il compagno riceve una parte definita del sala-rio fissato dal fabbricante. Egli riceve, secondo gli usi stabiliti, lametà del prezzo della commessa ricevuta dal capo reparto perle stoffe lavorate, due terzi per gli articoli correnti. La regolari-tà di questa norma permette di evitare la discussione sulla divi-sione dei salari allorché la variazione considerevole dei prezzisuscita dei disaccordi incessanti con il padronato.

Questa comunità d’interessi doveva manifestarsi nelle for-me d’espressione comuni. Il primo giornale lionese consacratoai setaioli, L’Echo de la fabrique, il cui primo numero appare il 30ottobre 1831, confonde in una stessa lotta i due strati operai.Quando scrive:

Senza difese fino ad oggi contro i maneggi del commercio… gli sfor-tunati operai hanno scelto come arma difensiva dei loro diritti la pub-blicità (110),

marca bene la divisione sociale fra il commercio e gli operai desi-gnando esplicitamente sotto questo secondo termine i capi-re-parto e gli operai della seta. Durante l’insurrezione del novem-bre 1831 gli uni e gli altri partecipano agli stessi combattimentidi strada e per esempio il 25 ottobre dello stesso anno, quando6.000 setaioli sfilano per le arterie della città divisi in gruppidisciplinati (con “decurie” e “centurie”), gli osservatori non di-stinguono più nei loro ranghi i maestri operai dai compagni. Allostesso modo i processi intentati contro gli episodi di coalizionecolpiscono indistintamente gli uni e gli altri; quando Jules Favre,avvocato degli indiziati, difende 14 setaioli (il 27 e 28 ottobre1833) perseguiti per la loro partecipazione alla coalizione delmese precedente, li raggruppa sotto il termine di “proletari” eL’Echo de la fabrique intitola il suo resoconto “Processo deimutualisti e dei ferrandiniers” (111).

L’ambiente operaio dei setaioli è abbastanza eterogeneo,ma non conosce grandi conflitti interni e i suoi organizzatoririmangono essenzialmente i capi reparto. Il Mutualismo rag-gruppa i capi reparto mentre i compagni formano la Società deiFerrandiniers. A volte sono i mutualisti che scatenano i movimentidi sciopero, come per esempio il 14 febbraio 1834 quando icapi reparto danno il segnale di interrompere il lavoro; a volte

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sono i ferrandiniers che chiedono di proseguire lo sciopero control’opinione dei maestri operai. Ma in un periodo anteriore al 1848è proprio il Mutualismo e non la Società dei Ferrandiniers che ispirae organizza le lotte del novembre 1831, febbraio 1833 e febbraio-aprile 1834; debole numericamente, la Società dei CompagnonesFerrandiniers subisce la supremazia incontestata dei mutualisti.Secondo la testimonianza di Audiganne,

il Mutualismo, già dalla metà del 1831, aveva preso la mano nella dire-zione degli interessi popolari (112).

Sono proprio questa situazione e questa dinamica sociale che sitrovano espresse nell’opera di Proudhon e perfino nelle omis-sioni concernenti questi problemi. Proudhon non vede o nonvuole vedere che le ingiustizie o le tensioni possono prodursi,nel suo sistema mutualistico, nel seno stesso di un’impresa. Sup-pone che i tempi di lavoro sarebbero facilmente individuabili eammette, senza ulteriori approfondimenti, che gli associati siintenderanno per remunerare i talenti particolari. Nello stessotempo si ritrova nel suo atteggiamento una certa riserva riguar-do alle “masse” o, come scrive, riguardo alla plebe. Non si ritrovain lui quella idea, comunque comune a quell’epoca, secondo laquale la rivoluzione nascerebbe dalla estrema miseria. Senzadubbio questa indicazione non è assente dalle sue analisi, manon è al proletariato più povero che affida il compito di orga-nizzare la società. Allo stesso modo non si trova in lui la ripro-duzione di quelle omelie, familiari all’epoca, sulla miseria ope-raia, e nemmeno una demagogia che investirebbe le classi po-vere, e in ragione della loro povertà, della verità politica. Per ilcapo laboratorio non si tratta di attendere da una massamessianica la soluzione del problema sociale, ma piuttosto di riorganiz-zare la vita economica su un piano mutualistico e ugualitario, diriprodurre nelle grandi imprese questo modello del mutualismo.Questo programma include una certa sfiducia riguardo ai sognicomunisti e di fratellanza che trovano un’eco tradizionale inmezzo ai compagni.

Così la frazione della classe operaia della quale Proudhonsi fa il teorico, può essere definita e riconosciuta nelle sue carat-teristiche proprie. Questi produttori sono impegnati in una lot-ta di classe insormontabile all’interno dei rapporti economiciistituiti; ma questa lotta riveste un carattere particolare perchénon oppone soltanto dei ricchi e dei poveri, ma anche dei gruppiche pretendono di gestire in modo opposto la produzione. Poi-

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ché il capo reparto è un produttore gestionario, egli stesso ècapace di giudicare i circuiti commerciali e le regolamentazionieconomiche, e la sua attenzione si porta spontaneamente sullariorganizzazione o sulla rivoluzione delle istituzioni economi-che. Abituato all’organizzazione del lavoro e alle sue difficoltà,sarà meno portato a fare della rivoluzione un sogno paradisiaco,sarà più incline a riflettere sulle modalità concrete dell’orga-nizzazione futura, e sul suo funzionamento. Nello stesso tempoè abituato a contare solo su se stesso e sui suoi pari e si puòaspettare da questo strato sociale che sia particolarmente ribel-le ai tentativi di manipolazione dovuti a elementi esterni.

Questa conclusione non significa che l’ideologia deimutualisti o la sistematizzazione proudhoniana abbia potuto ave-re per area di diffusione solo questo strato minoritario. Al contra-rio gli avvenimenti ulteriori, per esempio il fatto che i primi rap-presentanti in seno alla Association internationale des Travailleurserano proudhoniani, e più ancora la manifestazione quasi unani-me di un proudhonismo diffuso nella Comune del 1871, doveva-no sufficientemente mostrare quanto il messaggio di Proudhonsuperava ampiamente la classe dei maestri operai. Non possiamoaffrontare qui questo vasto problema sociologico della diffusionecosì estesa del proudhonismo, ma soltanto suggerire delle ipotesi.Se le nostre conclusioni precedenti sono esatte, bisognerà verifi-care innanzi tutto se i militanti operai più attivi durante il periodo1830–1871 non fossero provenienti da questa stessa classe desi-gnata da Proudhon. Questa ipotesi sembra dover essere verificataper i militanti operai della Prima Internazionale. Ma bisogneràanche esaminare in questo lungo periodo la natura dei rapportisociali tra gli artigiani salariati e i loro compagni; se si verificava,come fu il caso fra i mutualisti ferrandiniers, che si mantenesse unalarga intesa e più ancora che i maestri operai esercitassero un cer-to ascendente sui loro compagni, si capirebbe più facilmente l’ascol-to del messaggio proudhoniano nell’insieme delle classi operaie.Infine bisognerebbe ricercare se i compagni operai non trovaronoanch’essi un’espressione delle proprie aspirazioni nelle formuleproudhoniane; nulla permette in effetti di affermare l’esistenza diun’opposizione insuperabile tra le mentalità, le aspirazioni e leimmagini di questi differenti gruppi sociali. L’esame dei lo-ro atteggiamenti politici deve permettere di confermare o diinfirmare questa ipotesi.

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7. - Mutualismo e Rivoluzione

La correlazione che noi abbiamo stabilito tra il Mutualismoe il progetto proudhoniano deve essere verificata a livello del-l’azione politica. Si può pensare che il Mutualismo comportavanella sua dinamica proprio la vocazione ad un capovolgimentoprofondo della società nel suo insieme, oppure bisogna pensa-re, al contrario, che si limitava in teoria e in pratica ad una dife-sa corporativa? Senza cercare di dare qui una definizioneesaustiva dell’atto rivoluzionario, ammettiamo che un movimen-to possa essere definito rivoluzionario se si organizza in vista diuna trasformazione generale della società che implichi in parti-colare la creazione di nuovi rapporti di potere e una nuova di-stribuzione delle classi sociali. Questa questione deve essere po-sta meno a livello delle intenzioni che a livello delle azioni; impor-ta essenzialmente sapere se questa organizzazione specificamenteeconomica intervenga realmente sul piano degli “affari generali”in vista di trasformarli. Proudhon era autorizzato ad aspettarsi daun movimento paragonabile la rivoluzione o, secondo la sua espres-sione, la liquidazione sociale? Oppure commise precisamente que-st’errore decisivo di prendere per movimento rivoluzionario unmovimento di rivendicazione corporativo, come ne esistettero pa-recchi tra il 1830 e il 1848? L’esame delle lotte condotte da questicapi reparto durante questo periodo dovrà apportare degli ele-menti di risposta a queste domande.

Questo interrogativo deve allo stesso tempo illuminare lateoria politica di Proudhon che è stata correntemente sospetta-ta di contraddizione su questo punto. La critica violenta delfatto politico, le sue parole d’ordine che richiamano a una rivo-luzione sociale e non a una rivoluzione strettamente politica,l’hanno fatto considerare, in particolare dagli autori marxisti,come un teorico “riformista” se non controrivoluzionario. Nonavendo fatto appello né alla creazione di un partito di unitariavocazione politica, né all’espropriazione generale dei beni di pro-duzione, non avrebbe fatto, malgrado una fraseologia rivoluzio-naria, che incitare a qualche riforma favorevole ai lavoratori ri-schiando così di distoglierli da una lotta realmente rivoluzionaria.Ora, l’esame delle lotte fatte dai mutualisti tra il novembre 1831e l’aprile 1834 e durante la rivoluzione del 1848, fa apparire unmovimento originale nel suo spirito e nella sua pratica che con-duce da un’organizzazione spontanea a carattere corporativoverso un’azione politica violenta e insurrezionale. Questa dina-

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mica a volte si confonde con l’azione di gruppi a vocazionepuramente politica, ma conserva in ogni tappa la sua originali-tà e la resistenza propria.

Bisogna sottolineare di nuovo la spontaneità di questomovimento. In una società complessa nella quale esistono giàdelle organizzazioni strutturate e numerosi modelli ai quali icapi reparto potevano fare riferimento, i fondatori del Mutualismonon si infeudarono in nessuna organizzazione per creare il loromovimento. Essi non ricevettero nessuna parola d’ordine e nes-suna direttiva di qualsiasi origine essa fosse. Il racconto che faPierre Charnier delle origini del Mutualismo illustra chiaramen-te ciò che Proudhon doveva designare con l’espressione sponta-neità d’azione (113). Charnier descrive le discussioni che precedet-tero la fondazione del movimento nelle quali non intervennenessun elemento esterno ai gruppi dei capi reparto: discussio-ni, disaccordi, proposte formulate e poi abbandonate, tutti iprogetti sono elaborati dagli stessi interessati in seno al gruppo.Più esattamente l’elaborazione comune si fa scartando gli altriraggruppamenti e contro questi; essa si fa direttamente controi fabbricanti e in una certa misura contro i compagni che si so-spettano, soprattutto nel primo periodo della fondazione, diinsubordinazione (114). Questa attività puramente spontanea sisvolge anche come reazione contro l’apatia precedente del grup-po. Pierre Charnier è cosciente di dover superare ciò che chia-ma l’inerzia della classe operaia; egli descrive se stesso come

infiammato di vendetta contro l’infame abuso che si faceva dell’iner-zia della classe operaia

e il suo racconto lo mostra in effetti accanito nel far accettare isuoi progetti malgrado le reticenze iniziali dei suoi futuri asso-ciati. Ma questa spontaneità è più esattamente creazione spon-tanea di una istituzione; la questione immediata è proprio lanuova organizzazione tra i capi reparto e lo stabilire dei nuovirapporti regolari tra i laboratori. Se si può dare qui una primaindicazione su questo concetto di anarchia che Proudhon uti-lizzerà per caratterizzare questa situazione, si nota che in que-sto esempio l’anarchia è esattamente il rifiuto di una disorga-nizzazione, una reazione contro un disordine e la creazione diun nuovo ordine, ordine direttamente deciso dagli interessati esempre sotto il loro controllo.

Si tratta, nel progetto di Charnier, di unirsi, “di associaretutti i maestri tessitori della nostra città” (115): creare liberamen-

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te un’organizzazione autonoma.Allo stesso modo il funzionamento della nuova associa-

zione si svolgerà al di fuori di ogni immissione di elementi estra-nei, i mutualisti sono particolarmente attenti su questo punto ehanno scritto nel loro regolamento che ognuno dovrà osserva-re un “segreto inviolabile verso qualsiasi intruso” (116). Questiprincipi escludono notoriamente l’intervento di qualsiasi par-tito politico. È dunque spontaneamente e solo con la loro deci-sione collettiva che i mutualisti condurranno la loro impresa;in effetti, qualunque sia la loro collusione con altri gruppi, imutualisti conserveranno essenzialmente la loro autonomia didecisione nel corso delle lotte insurrezionali. Rifiuteranno diinfeudarsi nei partiti politici insieme ai quali lotteranno provvi-soriamente.

Questa spontaneità d’azione si rivelerà d’altra parte nellemotivazioni delle azioni condotte che non risiedono esclusiva-mente nelle difficoltà economiche e nell’eccesso di miseria.Senza dubbio le penose condizioni di lavoro, la durata dellagiornata da 16 a 18 ore e più ancora la caduta dei prezzi dellavoro, condizioneranno la rivolta dei setaioli. Questa miseriaeffettiva è incessantemente commentata dai capi reparto e daicompagni e cantata nella celebre canzone dei setaioli:

E noi, poveri setaioli, senza drappi ci mettono sottoterra.Siamo noi i setaioli.Noi siamo tutti nudi.

Prima dell’insurrezione di novembre 1831, la seteria lioneseaveva conosciuto una crisi acuta conseguente alla Rivoluzionedel 1830. Questa industria di lusso era stata direttamente colpi-ta dalla recessione commerciale e alla fine del 1830 dei compa-gni avevano ripreso la vecchia tradizione dei cantanti e dellecantanti di strada con la quale i setaioli privi di lavoro si rasse-gnavano alla mendicità. È comunque da rimarcare come l’in-surrezione di novembre non si sia prodotta in una fase di crisiacuta, ma al contrario si sia sviluppata in un periodo di relativosviluppo. Dal febbraio 1831 la fabbrica aveva ritrovato un’attivi-tà normale e, dopo una recessione in giugno-luglio, il lavoroera ripreso regolarmente dal mese di agosto (117). L’insurrezio-ne di novembre non fu dunque alla lettera una “rivolta dellafame”, qualunque sia stata la situazione miserevole dei setaioli.Allo stesso modo i setaioli non chiedono in questo momentodel lavoro, poiché i mestieri sono tutti attivi, non chiedono nem-

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meno una diminuzione dell’orario di lavoro, poiché non sonosottomessi al regolamento comune; chiedono precisamente, inun periodo nel quale gli affari sono prosperi, un salario confor-me alla nuova congiuntura economica, una tariffa “proporzio-nata allo stato del commercio” (118). Conoscendo in quanto capilaboratorio quali benefici i fabbricanti possono trarre, giudica-no opportuno di riprendere un’antica rivendicazione e stima-no che sia venuto il momento di imporla.

Questo sfasamento tra la crisi economica e la lottarivendicativa chiarisce un punto importante di questa spontaneitàche Proudhon avrebbe teorizzato. Questa discontinuità tempora-le mette in evidenza l’insufficienza di un giudizio, banale a quel-l’epoca, che stabiliva un rapporto diretto tra la miseria e l’insur-rezione. Sismondi, Eugène Buret, Louis Blanc, avevano ampia-mente sviluppato questa tematica e dopo la crisi di novembre igiornali dell’opposizione non mancavano di riprenderla. Comescrive Le Globe del 27 novembre 1841,

non sappiamo ancora per esperienza cosa sono degli uomini che com-battono per avere del pane

e allo stesso modo si ripeterà più volte che l’insurrezione segna

decisamente la guerra di quelli che non hanno niente contro quelliche hanno qualcosa.

Ma, quale che sia la generica verità di queste proposte, esse ten-dono a negare l’originalità delle lotte dei setaioli per ricondurlea delle semplici reazioni necessarie, reazioni delle quali si pen-sa che non si produrrebbero se gli operai non conoscessero lafame. Così anche i saint-simoniani potevano pensare che que-ste rivolte non si sarebbero prodotte se la società fosse stata or-ganizzata più razionalmente secondo i principi che essi propo-nevano. Proudhon esprimerà tutt’altro punto di vista afferman-do che i produttori hanno creato da se stessi la loro organizza-zione e che essi devono imporla alla totalità dell’organizzazio-ne economica. È proprio in effetti ciò che egli poteva constata-re allo stato embrionale in un Mutualismo che non era il sem-plice riflesso di una crisi economica, effetto che sparirebbe conla prosperità, ma veramente un’organizzazione autonoma, li-beramente istituita e che agiva secondo le proprie scelte.

Durante i primi giorni del novembre 1831, alla vigilia del-l’insurrezione, il Mutualismo si presenta dunque come un’or-

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ganizzazione fortemente strutturata, ancorata nel lavoro quoti-diano e capace di prendere delle decisioni impegnando l’insie-me dei suoi aderenti. A fianco di questa organizzazione coeren-te, diversi gruppi politici sono particolarmente deboli e divisi.Più gravemente questa divisione mette in evidenza delle attitu-dini perfettamente contraddittorie che avrebbero indebolito leorganizzazioni operaie. Benché l’evoluzione politica ulterioreabbia condotto a minimizzare l’importanza dei partigiani del re,numerosi indizi lasciano pensare che l’immagine di un re genero-so, protettore degli operai contro i ricchi, non era in nessun modoscomparsa in certe famiglie operaie. Pierre Charnier ne è un esem-pio e non vedeva nessun contrasto tra la creazione del Mutualismoe la protezione reale, sperando al contrario di difendere lamonarchia contro l’invasione del commercio delle classi borghe-si con l’organizzazione operaia (119). All’indomani della Rivolu-zione di Luglio, molti operai avevano sperato in un cambiamentodi dinastia che sostenesse i loro interessi e in parte è sulla delu-sione di questa aspettativa che i partiti repubblicani dovevanoappoggiarsi. A Lione i “carlisti” partigiani di Carlo X ed EnricoV trovano, nei mesi che precedono l’insurrezione del novem-bre 1831, degli aderenti anche nelle classi popolari. Durante legiornate della rivolta, un preteso Luigi XVII (il “barone diRichemont”) si manifesta senza sollevare un’ostilità particola-re. E allo stesso modo la caduta dell’Impero non ha eliminato ilrimpianto di un bonapartismo che doveva manifestarsi durantetutto il periodo che precede il 1848 fino alla elezione massicciadi Napoleone III alla presidenza della Repubblica. A Lione comealtrove l’immagine di Bonaparte cristallizzava i rimpianti manmano che il tempo abbelliva le glorie dell’Impero. Si vedonoqueste immagini dell’imperatore protettore del “popolo lavo-ratore” sopravvivere perfino nei ranghi dei mutualisti; essi scri-vono nel marzo del 1834 che “il genio della nostra epoca, ilgrande Napoleone”, se fosse vissuto fino all’insurrezione delnovembre 1831,

avrebbe cercato, compreso questa dolorosa catastrofe, perché egliavrebbe scavato fino in fondo alla piaga, e l’esistenza del popolo lavo-ratore sarebbe cessata, noi abbiamo l’intima convinzione, di essereancora oggi un problema da risolvere (120).

A queste opzioni monarchiche o bonapartiste, si oppongono igruppi e le ideologie repubblicane. Il ravvicinamento tra ope-rai e repubblicani si manifesta il 5 giugno 1832 durante il fune-

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rale del generale Lamarque, quando le grida di “viva la Repub-blica! abbasso Luigi Filippo! abbasso la pera molla!” sono urla-te nel corteo dove le corporazioni operaie erano insieme allaSociété des Amis de Peuple. Nell’ottobre 1833 nella Société républicainedes Droits de l’Homme, milita un certo numero di operai: il calzo-laio Efrahem, i tipografi Le Monnier e Pasquier-Labruyère, de-gli ebanisti, dei falegnami, dei guantai. Ma si sa che i repubbli-cani stessi sono divisi: sin dall’insurrezione che segue i funeralidel generale Lamarque, le opposizioni sorgono sia tra i repub-blicani politici che si raggruppano attorno al National che tra irepubblicani sociali il cui organo, La Tribune, si impegna piùnettamente nel movimento delle riforme sociali. In questo mo-vimento molto aperto si sarebbero espresse le grandi dottrinedei riformatori sociali: il saintsimonismo, il fourierismo, le dif-ferenti dottrine dell’associazione (Buchez).

L’opposizione era dunque flagrante fra le associazioni ope-raie direttamente fondate sulle strutture economiche e l’estre-ma diversità di queste tendenze e di questi raggruppamenti po-litici, opposizione che Proudhon avrebbe sottolineato. Agli oc-chi di molti operai questi partiti politici fuggitivi potevano ap-parire di poco peso di fronte alla stabilità e alla continuità dellaloro organizzazione. Più pesantemente apparve loro che questigruppi non provenivano in nessun modo dalle classi operaie eappartenevano essenzialmente alle classi medie. A Parigi la Sociétédes Droits de l’Homme è costituita in maggioranza da rappresen-tanti della borghesia e della piccola borghesia e anche a Lione,dove l’associazione detta dei Volontaires du Rhône è animata nel-l’agosto 1831 dal capo reparto Jacques Lacombe, il reclutamen-to dell’associazione non era limitato alle classi operaie. La di-stinzione tra le organizzazioni professionali e i gruppi politiciera dunque perfettamente netta durante questo periodo e nonmancava di essere conosciuta dai partecipanti; si capisce comegli operai mutualisti, avendo creato un’associazione che appar-teneva loro direttamente e che aveva un reclutamento perfetta-mente omogeneo, abbiano potuto considerare i partiti politicicome elementi esterni e rilevanti in qualche modo di un’altrasfera sociale che la loro. A partire da queste esperienze, nellamisura in cui cercavano essi stessi le “soluzioni ai problemi so-ciali”, essi affermavano lucidamente la separazione tra il politicoe il sociale e formulavano chiaramente il rifiuto di considerare iproblemi sociali sotto l’ottica di una lotta esclusivamente politica.

Durante le rivolte, sollevazioni e insurrezioni che segna-rono la monarchia di Luglio, l’insurrezione lionese del novem-

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bre 1831 fu rivelatrice delle potenzialità delle classi operaie inquell’epoca e instauratrice di una situazione originale nellaquale gli insorti dovettero rispondere alle nuove questioni chela loro pratica veniva a creare. Importa ricordare qui i trattiessenziali di questa insurrezione condotta dai capi laboratorio eprecisare in che misura Proudhon doveva prenderla a modello.

Nonostante questa osservazione sia evidente, bisogna sot-tolineare che questa insurrezione fu un’insurrezione “sociale”,fatta dagli operai in occasione di problemi concernenti la lorosituazione economica. Essa offre lo schema molto particolaredi una lotta operaia nata da un conflitto con il padronato e sisviluppa con la sua dinamica interna sul piano politico senzache il significato iniziale sia abbandonato. Essa si sviluppa pro-gressivamente con un’azione rivendicativa condotta dagli ope-rai organizzati professionalmente e con un’azione politica diconfronto con tutti i poteri stabiliti. Essa si contrappone in que-sto completamente alle rivoluzioni del 1830 e del 1848, nellequali gli obiettivi della lotta furono già in partenza l’opposizio-ne alle decisioni del governo. Le ragioni immediate di questerivoluzioni furono le decisioni concernenti la vita politica, idecreti di Luglio, la riforma del sistema elettorale e l’azionerivoluzionaria che finì con il cambiamento delle forme di go-verno, la partenza di Carlo X e l’instaurazione della Repubbli-ca. Doveva essere chiaro agli occhi di Proudhon che queste ri-voluzioni non toccavano in nulla l’essenziale e che nello stessotempo la rivoluzione sociale doveva essere operata da altri attoriche quelli che erano intervenuti durante queste rivoluzionipolitiche.

Chiedendo di fissare le tariffe, e nient’altro che questo, isetaioli posero un’esigenza che apparteneva loro in proprio eche concerneva soltanto l’organizzazione dei rapporti econo-mici. Come esprime molto chiaramente la celebre formula “vi-vere lavorando o morire combattendo” scritta sulla bandieranera, i setaioli non speravano da un cambiamento di governo oda una decisione politica il miglioramento della loro condizio-ne, essi la rivendicavano direttamente e utilizzando le propriearmi la riconoscevano come loro rivendicazione. Non cercanoin nessun modo di darsi un nuovo potere politico, dal qualeaspettarsi la soluzione delle loro difficoltà, ma si rifiutano diporre il problema in questi termini e cercano di imporre diret-tamente la loro volontà. Con queste intenzioni, non disdegna-no di ricorrere provvisoriamente ai servizi delle autorità muni-cipali e prefettizie; quando il 25 ottobre la commissione riunita

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in prefettura, e composta dai fabbricanti e dai capi laboratorioin numero uguale, annuncia la firma del tariffario, i manife-stanti riuniti nella strada acclamano il prefetto, il barone Bouvier-Dumolard. Ma è precisamente questa indifferenza ai poteri po-litici che renderà possibile la ripresa del movimento e la suaradicalizzazione: appena gli operai constatano che gli impegnipresi non sono mantenuti, riprendono il loro movimento in-surrezionale, si scontrano con diversi ostacoli fisici e istituzio-nali che si oppongono a loro, eliminano i poteri esistenti e cre-ano finalmente un nuovo potere politico. L’insurrezione, parti-ta da una rivendicazione strettamente economica, diffidente inmerito al dominio politico, finisce con la creazione di una nuo-va organizzazione sociale e si può dire con la distruzione prov-visoria del potere dello Stato.

Alcuni aspetti di questa insurrezione operaia devono es-sere precisati poiché si trovano direttamente nella concezioneproudhoniana della rivoluzione. Gli operai manifestano, comescrive Proudhon, una “forza” politica: impongono il loro pote-re nelle piazze e rovesciano, almeno provvisoriamente, tutti icontrolli politici e militari. Essi intervengono spontaneamentein risposta alle proprie concezioni: non ricevono nessuna paro-la d’ordine dai partiti politici o più esattamente diffidano diuna eventuale politicizzazione del loro movimento. Il 23 no-vembre il ruolo dei Volontaires du Rhône diventerà preponderante,ma il Mutualismo non si confonderà per questo con questo mo-vimento e si vede per qualche ora costituirsi due poteri distinti,quello dei Volontaires du Rhône in Municipio e quello dei capi disezione operaia.

Il Mutualismo interviene come forza offensiva che sce-glie i suoi nemici in funzione dei propri obiettivi. Sin dall’iniziodel movimento la forza avversaria che si trova designata è esclu-sivamente l’insieme dei fabbricanti; il nemico da colpire non èin partenza il potere politico o le autorità amministrative, ma ilpotere economico dei fabbricanti. Il potere politico è talmentepoco attaccato apertamente che tenta di giocare un ruolo diconciliazione e di svolgere la funzione di arbitro tra gli operai ei padroni. Non sbagliano gli osservatori che sottolineano che larivolta dei setaioli era essenzialmente una lotta tra classi rivali.Ma lo Stato si trova attaccato nella dinamica del movimento ein seguito dalla sua collusione con la classe possidente. La lottanon era politica nella sua intenzione; più esattamente essa ri-fiutava di esserlo, ma era portata alla fine a sottomettere la cittàal solo potere degli operai. Se ci si attiene alla pratica degli ope-

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rai durante questo periodo, e senza tener conto delle divergen-ze o delle esitazioni che poterono manifestarsi nel corso del-l’azione, l’unità del loro movimento li conduce ad una rivendi-cazione risolutamente economica e ad una eliminazione deipoteri legali. Il 21 novembre, quando il raggruppamento si for-ma alla Croix-Rousse e quando gli “emissari” vanno di laborato-rio in laboratorio per incitare quelli che lavorano a scendere instrada, gli operai non hanno altra intenzione che quella di ma-nifestare violentemente la loro volontà di vedere applicato il“tariffario”. Ma al termine dei tre giorni di rivolta, la città sitrova senza governo. Come scrive con tutta la chiarezza possibi-le il prefetto Bouvier-Dumolarde, mercoledì 23 novembre alledue del mattino,

tutte le forze militari di tutte le armi, quella della gendarmeria, dellaguardia nazionale… sono state costrette… a lasciare, alle due, il Co-mune… e a ritirarsi al di fuori della città… Noi siamo stati costretti alasciare occupare il Comune dalle truppe dell’insurrezione, che era-no diventate padrone su ogni cosa. L’insurrezione domina tutti i po-teri… e le leggi e i magistrati sono senza forza (121).

Tra il 24 novembre e il 3 dicembre, data dell’entrata in città delletruppe del maresciallo Soult, la città sarà interamente affidataal potere degli operai insorti. In seguito ad un’insurrezione stret-tamente sociale, sarà creata una situazione rivoluzionaria.

Si trovava così posto, dall’azione e nell’azione, il proble-ma del rapporto tra una rivoluzione sociale e una rivoluzionepolitica. Si sarebbe immediatamente posta la questione di sape-re quali erano stati i rispettivi ruoli dell’organizzazione stretta-mente operaia e dei gruppi politici: in altri termini, poiché ilMutualismo e i Volontaires du Rhône erano le due organizzazioniessenziali, quali furono i rispettivi ruoli? Le testimonianze do-vevano, subito all’indomani degli avvenimenti, essere diver-genti. Era seducente per il ministero mettere in rilievo il carat-tere non politico di queste violenze, ricondurle al semplice scon-tro economico e negare così che il governo in atto fosse statocontestato. Le Moniteur del 29 novembre afferma che queste ri-volte si erano svolte

in assenza completa di ogni idea politica, di ogni simbolo di partito,di ogni clamore sedizioso attraverso questi disordini… senza alcunairritazione contro il governo stesso (122),

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cosa che era molto lontana dalla verità. Il prefetto de l’Isère scrive-va il 26 novembre che l’insurrezione non aveva nessun caratterepolitico e che si trattava solo “di discussioni domestiche, senza rap-porto con l’ordine politico” (123). Al contrario i capi dei Volontairesdu Rhône affermavano che l’insurrezione aveva un significato poli-tico e si sforzarono sin dal 21 novembre di dirigerla.

La discussione non poteva mancare di aprirsi poiché ineffetti i rapporti tra il movimento operaio e i movimenti politicierano stati molto stretti. Il simbolo stesso dell’insurrezione, labandiera nera, e la sua iscrizione “vivere lavorando o morirecombattendo”, era un simbolo ambiguo; apparentementeapolitico, questo slogan sarebbe opera di un operaio repubbli-cano, il sarto Jean-Claude Romand (124). Nei combattimenti chesi svilupparono nei differenti quartieri sembra difficile discer-nere se l’iniziativa era dovuta ai gruppi operai o ai gruppi costi-tuiti politicamente: nella fluidità dei combattimenti, si può im-maginare che gli operai si siano uniti indifferentemente ai duetipi di gruppi e che certamente alcune operazioni siano statefatte da colonne provvisoriamente costituite che non aderivanoa nessuna organizzazione. Ma è chiaro, per contro, che al mo-mento delle decisioni i due movimenti rimasero distinti e chel’originalità rispettiva delle organizzazioni operaie e del movi-mento politico repubblicano si mantenne durante tutta la du-rata dell’insurrezione. Sappiamo che la rivolta fu provocata dalleassociazioni operaie e che l’iniziativa delle prime manifestazio-ni era dovuta interamente a loro; la grande manifestazione del25 ottobre che fu il preludio all’insurrezione, fu completamen-te opera dei capi laboratorio e dei compagni della seta, allo stes-so modo che i suoi obiettivi erano strettamente limitati ad otte-nere il tariffario. Nella successione degli avvenimenti si assiste auno sforzo dei Volontaires du Rhône per prendere la direzione diun movimento del quale non sono gli autori e per accrescere iloro aderenti approfittando delle circostanze. Per quanto stret-ti siano i rapporti tra i Volontaires du Rhône e gli ambienti operai,si vede l’organizzazione politica sforzarsi di utilizzare il movi-mento operaio per orientarlo secondo i propri fini politici. Ilcapo dei Volontaires du Rhône, Lacombe, esprime chiaramentequesta distinzione tra il movimento operaio spontaneo e l’azio-ne dell’organizzazione politica nel manifesto che redige all’Ho-tel de Ville il 23 novembre. Ricorda che i Volontaires du Rhôneesistevano prima di queste giornate “dolorose” e la formula cheutilizza indica proprio che l’organizzazione, formata “da uffi-ciali, sottufficiali e soldati”, non si confondeva con le organizza-

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zioni operaie. Egli scrive:

Noi invitiamo i signori ufficiali, sottufficiali e soldati, che prima di que-ste dolorose giornate formavano il corpo provvisoriamente organizzatodei Volontaires du Rhône, a riunirsi immediatamente; prenderanno perpunto centrale l’Hotel de Ville, dove i loro concittadini li aspettano conla più viva ansietà(125).

La formula utilizzata indica che l’organizzazione non si trovaraggruppata dopo tre giorni di rivolta e che deve convergereverso l’Hotel de Ville per prendere in mano la direzione muni-cipale. Per assicurare “l’ordine e la tranquillità pubblica”, il parti-to politico deve prendere il potere centrale e senza dubbio man-tenere la sua gerarchia militare ai tre livelli che sono evocatinel richiamo. Lacombe esprime in seguito molto chiaramenteil suo intento di ottenere un reclutamento operaio favorevole allecircostanze:

Noi speriamo che soprattutto gli operai verranno ad ingrossare i nostriranghi; ed è principalmente a loro che il nostro appello è rivolto (126).

Questo appello che fu unanimemente accettato dallo “statomaggiore provvisorio” potrebbe essere commentato parola perparola per opporlo al movimento operaio e più ancora per veri-ficare quanto Proudhon si sarebbe opposto radicalmente a que-sta ideologia repubblicana. Notiamo soltanto che il manifestonon si rivolge agli operai ma ai lionesi senza distinzione di clas-se, che non viene fatta nessuna allusione alle rivendicazionioperaie dopo i combattimenti che avevano per obiettivo soloqueste rivendicazioni, che il richiamo sembra mirare solo allainstaurazione di un’autorità fortemente gerarchizzata senza chenessuna allusione sia fatta né al controllo dei poteri, né allaloro elezione. Gli argomenti per invitare la popolazione ad ac-cettare questo nuovo potere non evocano in alcun modo unarivoluzione sociale, ma al contrario il patriottismo e l’amoredell’ordine:

Nelle circostanze gravi nelle quali si trova la nostra bella città, i vostriconcittadini, con cui avete condiviso i pericoli, fanno appello al vostropatriottismo, al vostro amore per l’ordine e la tranquillità pubblica (127).

Dopo tre giorni di lotte sociali nei quali gli operai avevano ten-tato di imporre la loro volontà ai fabbricanti e rimesso in di-

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scussione il principio del rispetto della proprietà, il manifestochiudeva con una frase ispirata al 1789:

Che il nostro manifesto sia: Libertà, Rispetto delle persone e delleproprietà!

Si capisce quindi facilmente che i mutualisti più coscienti ab-biano non solo notato l’estrema distanza che separava questaideologia politica dal loro progetto sociale, ma anche sospetta-to in questi tentativi dei Volontaires du Rhône una manovra direcupero tendente a soffocare le loro rivendicazioni. Potevanoancor più diffidare di questo tentativo dato che lo stato maggio-re provvisorio, che aveva appena approvato il testo di questomanifesto, non era costituito da operai: era una composizioneeterogenea dove gli artigiani, i piccoli commercianti e i piccoliborghesi era insieme agli operai setaioli (128). La netta differen-za di reclutamento che opponeva le organizzazioni operaie e igruppi repubblicani, si ritrovava al momento delle decisioni ri-voluzionarie. Sembra, d’altra parte, che gli operai presenti inmezzo ai Volontaires du Rhône siano stati più spesso dei compagnie non dei capi laboratorio, il che confermava il ruolo maggioredei capi laboratorio nel movimento strettamente operaio.

Questa separazione e, in una certa misura, questa opposi-zione tra il movimento politico ed il movimento operaio, trovafinalmente la sua consacrazione nel conflitto che si apre il 24 no-vembre tra lo stato maggiore provvisorio e i rappresentanti operai.Nella mattinata il capo laboratorio Martinon e il caporeparto Dia-no, si recano al Comune per esprimere il loro rifiuto di obbedireagli ordini dello stato maggiore repubblicano, “li interpellano sulfondamento del loro potere” (129), significando così un conflittodi potere tra il movimento operaio e il potere, ai loro occhiusurpato, di un partito politico. Nella giornata, i rappresentan-ti degli operai della seta fissano la composizione di una Commis-sione di operai che elimina gli elementi non operai, e nella qualedominano i capi del Mutualismo. Fino al ritorno delle truppe,la città di Lione sarà così amministrata da questa Commissioneoperaia o Consiglio dei Sedici che, malgrado la sua lealtà apparen-te verso le autorità legali, è pure un organismo originale, nongerarchico e fondato sull’insurrezione operaia. Come scriveMonfalcon:

Le autorità hanno solo un potere nominale e sono poste sotto la sor-veglianza di una commissione operaia (130).

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Le organizzazioni operaie provano così che hanno la “capacitàpolitica”, come dirà Proudhon, di soppiantare i poteri tradizio-nali e di amministrare la città. Nessun disordine importanteagiterà la città tra il 24 novembre e il 3 dicembre.

Proudhon era dunque perfettamente autorizzato ad aspet-tarsi dalle organizzazioni operaie che queste si trasformassero,con la loro estensione e la loro radicalizzazione, in organizza-zioni rivoluzionarie oppure, in altri termini, che il mutualismoattui direttamente la rivoluzione. E quando scrive Système de lamutualité, bisogna avere presente che non designa un piano diriforma o una ricetta sociale, ma una struttura sociale combat-tente a vocazione rivoluzionaria. Importa sottolineare che, ri-cordando le gesta insurrezionali dei setaioli, Proudhon designale classi operaie come quelle che furono e dovranno essere lenuove classi rivoluzionarie. Quello che lui chiama la “difesa”delle classi operaie, non deve essere in alcun modo interpreta-to come una difesa degli interessi immediati di questi classi, macome una partecipazione ad una dinamica della quale bisognapensare, secondo il modello insurrezionale lionese, che condu-ca ad una rivoluzione di un tipo radicalmente nuovo.

Questa nuova rivoluzione ha in effetti pochi rapporti conla tipologia delle rivoluzioni politiche avvenute nel 1789 e nel1830 e che doveva di nuovo ripetersi nel 1848. Nelle insurrezio-ni operaie, Proudhon intravedeva dei movimenti esclusivamen-te sociali, condotti dagli stessi operai, che agivano a partire dal-le loro organizzazioni spontanee. Si tratta certamente di lottedi classe, ma non si tratta in nessun modo di lotte massicce traclassi compatte senza organizzazioni proprie, ma al contrariodi lotte che hanno significato soltanto per i focolai organizzatidai quali emanano. C’è infatti una continuità organica tra ilmutualismo e la rivoluzione; gli operai, organizzandosi, comin-ciano la rivoluzione, così come non sono totalmente sconfittida una disfatta provvisoria; la rivoluzione è “in permanenza”(131) tra gli operai associati. Questa rivoluzione non esclude laviolenza, come dimostra la storia della insurrezione lionese, mala violenza che giustificherà Proudhon sarà quella dei mutualisti,cioè una violenza controllata e contenuta; dopo l’insurrezione,loderà gli operai per aver messo sotto la loro salvaguardia gliedifici pubblici e gli strumenti di lavoro (132), ma questa “mode-razione”, come quella di Proudhon, è solo degli operai gestionaripronti alle violenze, ma in nessun modo desiderosi di distrug-gere gli strumenti dei quali conoscono l’importanza.

Questa originalità irriducibile si manifesta all’estremo

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nell’antinomia del sociale e del politico. Essa si esprime col ri-fiuto degli operai di sottomettersi ai partiti, qualunque essi sia-no, carlisti, bonapartisti o repubblicani, e con una pratica in-surrezionale autonoma che tende a distruggere le relazioni tra-dizionali fondate sull’autorità. L’insurrezione lionese offre aProudhon il modello di una rivoluzione sociale che non si aspettanulla dal potere, che non si ricostituisce con la mediazione diuna autorità, ma pretenderebbe annullare questo pericolosocerchio politico per instaurare immediatamente l’ordine di cuiè portatrice.

Si intravede l’intenzione centrale di Proudhon: lottare peril rinnovamento e il trionfo di questa rivoluzione immediata-mente sociale. Bisognerà, poiché queste insurrezioni sono falli-te, prendere atto dell’incapacità in cui si sono trovati i “politici”di realizzare la rivoluzione sociale e analizzare perché i tentatividi questo genere sono per natura destinati ad impedire le vererivoluzioni. Bisognerà dimostrare l’opposizione radicale tra ipartiti che restano fedeli, come tutti gli Stati del passato, al prin-cipio di autorità, e una “rivoluzione” che tende, precisamente,ad eliminare qualsiasi autorità. Ma bisognerà anche fare la criti-ca delle insurrezioni operaie, delle loro esitazioni e delle lorodebolezze provvisorie. Poiché le organizzazioni operaie conten-gono le forze e le strutture che decideranno dell’avvenire, im-porterà, in particolare, ben definire queste “associazioni opera-ie” per evitare che esse si lascino sedurre da modelli estraneialla loro pratica. Da questa problematica i cui termini sono po-sti dalla pratica spontanea, Proudhon trova anche degli argo-menti e degli obiettivi della sua lotta.

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TERZA PARTE

L’ OMOLOGIADELLE VISIONI DEL MONDO

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La ricerca delle origini dei temi proudhoniani nel qua-dro di una storia delle idee conduce a risultati deludenti. È faci-le designare gli autori che hanno “influenzato” Proudhon ed in-dicare le opere dalle quali ha potuto prendere i materiali. Sap-piamo, ad esempio, che le sue conoscenze economiche sononutrite dalla lettura degli economisti del suo tempo e, nel Systèmedes contradictions, cita abbondantemente i lavori che utilizza: nonsoltanto gli autori “classici” quali Adam Smith, Ricardo, J.B. Sayo Malthus, ma anche Michel Chevalier, Adolphe Blanqui,Charles Comte, Dunoyer, Rossi, Passy, Ott, ecc. La sua analisidell’appropriazione del lavoro da parte del capitale, trova lesue origini in una meditazione sul principio del valore-lavoro,così come era stata formulata da Adam Smith e dalla quale Marxdoveva trarre una conclusione simile. L’evoluzione dei suoimetodi intellettuali è stata largamente marcata dalla conoscen-za che ebbe della dialettica hegeliana; nel suo Premier Mémoire,in cui non gli interessava molto essere rigoroso, non esita a por-re i problemi della proprietà in termini di diritto naturale, inun vocabolario che evoca molto più i secoli degli illuministi chela filosofia storicistica del XIX secolo.

L’influenza di Hegel si fa sentire nella seconda grandeopera, La création de l’ordre, prima che Proudhon abbia incon-trato Marx, ma si può riconoscere anche nella disposizione for-male delle parti, l’ordine della legge dei tre Stati, così comel’aveva disegnata A. Comte. Il Système des contradictions è, di tuttii suoi scritti, il più vicino al metodo hegeliano anche se si trattapiù del libero utilizzo di una struttura di pensiero che della ri-presa rigorosa di un metodo. Dopo questa opera, Proudhoncostituisce un metodo proprio che evoca sia le norme politichedi Montesquieu o di Benjamin Constant sul pluralismo politicoe la limitazione reciproca dei poteri che la dialettica storica dellaPhénoménologie de l’Esprit. Quanto alle origini del suo socialismo,esse si collocano chiaramente in quel movimento intellettualeche è stato tracciato da Saint-Simon e Fourier sin da prima del

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1820. Nelle sue prime opere Proudhon polemizza in seno aquesta problematica che ha sostituito alle discussioni politicheil problema dell’organizzazione socioeconomica; riprende iltema saint-simoniano dell’amministrazione delle cose che fa se-guito al governo delle persone e il metodo fourierista delle “se-rie”. In tutti i suoi scritti, Proudhon non cessa di polemizzarecon gli autori socialisti del suo tempo, Louis Blanc, PierreLeroux, Blanqui, Vidal, Villegardelle, e si definisce in rapportoa loro oppure contro di loro. Si è potuto dimostrare che le sueformule più vigorose erano riprese da autori dell’epoca: la ce-lebre formula, “la proprietà è un furto” si trovava già nel librodi Brissot de Warville (Recherches sur le droit de propriété et sur levol, 1780) e la critica anarchica dei poteri era già stata formula-ta da William Godwin (Enquiry concerning Political Justice, 1793).Più validamente ancora bisognerebbe cercare nei movimentianarchici o preanarchici della Rivoluzione dell’89 i primiispiratori del proudhonismo, che sarebbero Jaques Roux, Jean-François Varlet, Leclerc, Claire Lacombe.

Queste ricerche sulle origini non mancano di portare luceindispensabile sull’opera di Proudhon e allo stesso modo dicapire la violenza dei suoi propositi quando rilegge gli scrittidei quali voleva combattere l’influenza politica. La radicalitàdella sua denuncia del socialismo statale non si comprende senon ci si attarda sulle pagine di Louis Blanc e sugli articoli deigiornali repubblicani che potevano in effetti fargli temerel’instaurazione di un regime fortemente costrittivo, opposto allesue aspirazioni fondamentali. Ma queste ricerche, se indicanol’originalità di un pensiero, non possono darci le ragioni delleopzioni fondamentali; esse possono mostrare il più precisamentepossibile il concatenamento di un pensiero, le adesioni e i rifiuti,ma non possono spiegare perché Proudhon fece queste scelte conuna tale violenza. Esse rischiano anche di perdersi nella ricercadell’unità stessa del pensiero e di non poterne isolare corretta-mente gli assi essenziali in rapporto alle riflessioni secondarie.Allo stesso modo un’analisi strutturale del campo intellettualenel quale si è posto Proudhon non potrebbe rispondere a que-ste questioni. Senza dubbio una tale analisi eviterebbe questaframmentazione dei temi che non superano una storia delleidee, essa trae più fruttuosamente l’unità della problematica diun’epoca e può così articolare più vigorosamente la logica diun pensiero individuale e la logica di un pensiero collettivo. Sidovrà scoprire con queste ricerche come le tematiche del pen-siero si trovano forgiate, sintetizzate dalla logica del tempo e

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come il proudhonismo ripete o dissolve delle unità tematiche.L’opera di Elzbacher, consacrata all’anarchismo, risponde aqueste intenzioni e fa apparire l’inserimento di Proudhon inun sistema di pensiero anarchico designando contemporanea-mente la sua originalità (1). Eppure in tali ricerche le ragioniprofonde delle opzioni proudhoniane ci sfuggono di nuovo ese noi impariamo che Proudhon crea una variante originaledell’anarchismo, niente ci indica perché difese così violente-mente, per esempio, il federalismo invece di cercare delle con-ciliazioni tra il centralismo e il pluralismo, possibilità che nonera esclusa nei suoi primi lavori.

Queste ricerche rischiano anche di disperdere il caratte-re passionale di un pensiero a profitto della sua tematica. Oranoi non sapremmo separare, nel proudhonismo, la violenzadelle opzioni dalle opzioni stesse. Questo pensiero forma unasintesi teorica, pratica e affettiva. Se essa si dice scientifica, vuo-le anche essere rigorosamente impegnata; designa delle azionida intraprendere, disegna i contorni e gli obiettivi, ed ha comescopo, chiaramente espresso, di favorire un’azione politica de-finita; allo stesso tempo essa esprime senza ambiguità degli odie dei fervori e non è per caso che delle immagini peggiorative oesaltanti si mischiano all’esposto teorico. Come è stato spessodetto, nell’opera proudhoniana si esprime una certa sensibilitàed una certa volontà che sono inseparabili dall’opera. Questarelazione intima tra le passioni e la teoria è valida per qualsiasipensatore politico, che è anche un cittadino impegnato in unalotta politica, essa è ancor più valida per un pensatore rivoluzio-nario, i cui rifiuti sono violenti, contemporaneamente politicied esistenziali e il cui pensiero è ossessionato dalla rappresenta-zione delle sofferenze attuali e dall’immagine di una societàfutura meno dolorosa per gli uomini. Importa dunque ritrova-re in questo pensiero non soltanto i temi fondamentali che neunificherebbero le visioni secondarie, ma anche le intuizioniprime, le intuizioni sconvolgenti e appassionate che hanno for-mato in qualche modo le ossessioni permanenti di Proudhon.Se riusciamo a mettere in rilievo queste certezze prime, potre-mo capire, come ammette anche Bergson, che Proudhon abbiaprovato il bisogno, per comunicare al lettore le proprie intui-zioni, di accumulare le immagini e i comparativi, di accatastaretante pagine quando spesso una breve dimostrazione sarebbestata sufficiente. Forse si comprenderà così questa insoddisfa-zione, che non cessa di esprimere egli stesso di fronte ai suoiscritti, sicuro di non aver ancora espresso tutto quello che cer-

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cava, sicuro di non avere ancora sufficientemente trasmesso allettore ciò che non era soltanto una verità intellettuale, ma an-che tutta una forma di vita e una visione del mondo.

Noi ci proponiamo di cercare, al di fuori del discorsoproudhoniano, la sua spiegazione e di stabilire qui una relazio-ne tra le sue evidenze fondamentali e l’ambiente dove sono sta-te espresse. Dopo aver, nelle due parti precedenti, ricercato leomologie tra le strutture economiche e il progetto proudho-niano, tra le pratiche sociali e la pratica proposta, dobbiamocercare a quale sistema di pensiero Proudhon si trovava più vi-cino. Considerando l’ipotesi generale secondo la quale nel cor-so di questa prima metà del XIX secolo le differenti classi e idifferenti strati sociali avevano un linguaggio proprio e una strut-tura mentale e, anch’esse, delle evidenti passioni, possiamoporre la questione dell’omologia più diretta tra la visione delmondo proudhoniano e la visione del mondo di un gruppoparticolare.

Nulla indica, a priori, che un autore sia in rapporto dicorrispondenza con tutte le caratteristiche di uno stesso grup-po sociale. È possibile che un autore esprima molto più l’ideo-logia di un gruppo che la sua pratica reale, o ancora che desi-gni un gruppo sociale con un linguaggio ripreso da un altro.Secondo l’analisi formulata da Lukács, Balzac offrirebbe que-sto esempio, di un autore effettivamente legato a una visionedel mondo aristocratico che descriveva comunque e più ade-guatamente l’universo borghese(2). Questa stessa differen-ziazione, assicurata dalla contraddizione sociale, avrebbe permes-so la più grande acuità di osservazione. Non sembra essere questoil caso di Proudhon e il massimo di prossimità che ci è apparso alivello delle pratiche, ci sembra dover essere ritrovato a livello del-le visioni del mondo. L’ipotesi che noi cercheremo dunque di ve-rificare suggerirebbe l’esistenza di un rapporto omologico tra leevidenze fondamentali di Proudhon e l’universo mentale di que-sti operai gestionari dei quali il modello tipico ci è dato dal capolaboratorio lionese, artigiano e operaio, indipendente e salariato.

Importa sottolineare che nel 1828, al momento in cui isetaioli decidono di fondare il Mutualismo, o secondo i terminidi Proudhon, nel momento in cui si organizzano, non sono innessun modo dei teorici. Non sono nemmeno i fedeli di unasetta che creano una Icarie o una Phalanstère, secondo i pianidefiniti dal maestro, essi sono prima di tutto dei pratici, fiduciosidi risolvere problemi che si pongono loro. Se hanno una certarappresentazione della loro nuova organizzazione e un certo

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linguaggio comune, questo linguaggio non è il loro fine, ma lostrumento di un’azione ritenuta essenziale. Quindi bisognereb-be esaminare se Proudhon non ha avuto il sentimento di espri-mere una pratica che non aveva ancora trovato il suo linguag-gio e di portare a conoscenza, o come lui dice, di rendere scien-tifica ciò che era all’inizio una pratica spontanea. E sin da allo-ra bisognerebbe precisare se Proudhon non è stato in qualchemodo più vicino ad una pratica operaia che ad un linguaggiooperaio, se il senso della sua impresa non fu anche di renderepiù coerenti i rapporti fra il pensiero e l’azione.

Non potremmo dunque stabilire qui una correlazione trale forme di pensiero compiuto e sistematizzato. Se, nell’operaproudhoniana, si tratta di sottolineare delle intuizioni fortemen-te cariche di sentimento, più ancora nel linguaggio operaio bi-sogna cercare, non dei sistemi intellettuali ma degli atteggia-menti fondamentali, i rifiuti e le adesioni che informano l’azio-ne. Le espressioni che ci sono state conservate, testi di manife-sti, slogan lanciati nel corso di manifestazioni, i testi scritti, me-morie, statuti di associazioni operaie, disegnano un insieme com-plesso dove i valori e i nemici sono fortemente sottolineati. Delleparole compaiono cariche di un sentire positivo o negativo. Aldi là delle formulazioni si distinguono lì ancora delle attitudinigenerali, dei modi di percezione e delle aspirazioni coerenti. Èsoprattutto a questo livello che deve essere situato il confronto tral’opera e l’ambiente: tra l’intuizione fondamentale di Proudhon eciò che si può chiamare un certo ethos operaio (3).

Se questa correlazione potesse essere stabilita, essa permet-terebbe di comprendere a quale aspettativa rispondeva il pensieroproudhoniano e si potrebbe meglio spiegare la singolare diffusio-ne di questo pensiero tra gli operai militanti. Si potrebbe anchemisurare meglio quanto Proudhon fece opera di creazione.

1. – Il campo intellettuale del pensiero politico (1830-1848)

Per cogliere questa identità di pensiero tra alcuni ambientioperai e Proudhon, converrebbe ricordare la comune opposi-zione all’ideologia avversaria. Sarebbe necessario collocare illoro pensiero in seno al sistema intellettuale degli anni 1830-1848 in tutta la sua estensione. Ricorderemo qui solo le grandilinee di questo immenso campo intellettuale.

Questo campo del pensiero politico pervenne verso glianni 1840 al suo massimo di apertura e di estensione. Mai le

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teorie politiche, e le visioni del mondo alle quali esse corrispon-dono, erano state così opposte in Francia come durante questianni, nei quali si esprimono contemporaneamente la scuola cat-tolica realista, il razionalismo dei dottrinari, il liberalismo indi-vidualista, il pensiero repubblicano ed i differenti socialismi.Senza dubbio queste opposizioni corrispondono, come spiegaSaint-Simon sin dal 1820, alla giustapposizione dei “sistemi so-ciali”, differenti e contraddittori: il sistema feudale resiste vana-mente alle progressive conquiste del “sistema industriale” e que-sto si trova già bloccato dagli attacchi del socialismo. Nello stes-so tempo si rivelano, attraverso i conflitti ideologici, i conflittitra le classi sociali, non che questi conflitti fossero senza prece-denti, ma trovano, per la prima volta e nell’eguaglianza recen-temente ottenuta, il loro mezzo di espressione. In mezzo a que-ste violenze verbali che fanno eco alle violenze sociali del 1830,1831, 1834, 1848, molti pensano, come Saint-Simon e A. Comte,che la rivoluzione non è compiuta, che l’Europa attraversa unperiodo critico la cui effervescenza stessa annuncia il termine. Sipensa che la storia attraversi un periodo di tormenti e l’impor-tante, sin dall’inizio, è trovare la soluzione del problema sociale perfar uscire l’umanità dalle torture che conosce (4).

Comunque, malgrado la profondità delle opposizioni, unlinguaggio comune attraversa queste ideologie contraddittorie,e assicura degli accavallamenti inattesi. Le violenze e gli odi sa-ranno tanto più violenti quanto i metodi divergenti incontranodei problemi identici. Quale fu il significato della rivoluzionedel 1889? Quali devono essere i rapporti tra il re e il Parlamen-to? Qual è il ruolo della religione nello Stato e quale deve esse-re? Cosa ne è della proprietà e dei mali della concorrenza? Qualedeve essere la giustizia sociale? Tutte queste domande si pongo-no a tutti gli spiriti. E, malgrado il proclamato rifiuto delle ana-lisi e dei modi di porre le domande, sono di fatto riprese dagliavversari politici, quali ad esempio l’intuizione di Bonald sulleleggi naturali dell’ordine sociale che si troverà ripresa in Comte eche segnerà in una certa misura Proudhon (5).

Il monarchismo teocratico. – Senza dubbio, dopo il 1830,nessuna opera importante difende la teoria di un reame catto-lico e assoluto nei termini in cui l’avevano espressa Bonald e deMaistre. Importa comunque collocare questa grande teoria aduno dei poli del pensiero politico degli anni 1840. Pur non es-sendo sistematizzata, resta diffusa nei giornali monarchici comeLa Quotidienne e Le Drapeau blanc che sono venduti in provincia

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e nelle campagne. Durante le prime elezioni a suffragio univer-sale nel 1848, si vedrà che la mentalità tradizionalista, fatta dirispetto dei nobili, di fiducia nell’autorità, di attaccamento alcattolicesimo, rimaneva, come aveva effermato Chataeu- briand,più potente di quanto credessero gli scrittori confinati nelle lorograndi città. Ma, soprattutto, questa teoria costituirà un polo diriferimento per tutti i pensatori politici, il fine scandaloso e ilsistema teorico contro il quale bisognerà prendere posizione.Quando Proudhon scriverà la sua grande opera anticlericale Dela justice, non cesserà di aver presente la théorie du pouvoir di cuiBonald aveva dato un’immagine epurata e si sforzava di dimo-strare la perfetta contraddizione tra l’anarchismo e l’assolutismo.

Eliminando la critica storica e il razionalismo degli Illu-ministi, Bonald aveva posto a livello dei principi la questionedel potere politico e formulato in tutta purezza il principio del-la sovranità reale. Non che il potere debba essere “uno” e “es-senzialmente indipendente” (6) per delle ragioni utilitarie, maperché le leggi naturali definiscono in tutte le società questanecessità. Allo stesso modo i legami della sovranità reale e dellareligione non sono stati mantenuti per delle ragioni subalterned’ordine pubblico, ma perché la religione cattolica è consustanzialealla società in modo che la dissociazione del temporale e dellospirituale porta irrimediabilmente la rovina della società, la con-testazione e le rivoluzioni (7). I “sistemi eterni della società” (8)

possono dunque essere scoperti, rivelando sia la naturalità del-le gerarchie sociali, la necessaria sottomissione dei soggetti e lademenza criminale di ogni insubordinazione.

Ognuno dei punti di una tale dottrina avrebbe suscitatola collera di Proudhon. Ma, inversamente, si può presentire laprofondità dell’odio che potevano sollevare questi scritti da partedegli intellettuali penetrati da una tale dottrina. Più ancora chel’ostilità politica, Proudhon susciterà in questi degli odi religio-si ed è soprattutto l’ateismo che si troverà in lui denunciato.Nel 1850 un pamphlet cattolico termina lo scritto di denuncia con-sacrato a Proudhon, con queste parole: “Anatema su di lui” (9). E,nel 1852, quando Louis Veuillot fa una lunga critica de Larévolution sociale démontrée, denuncia meno le dottrine politichedell’anarchismo, che gli sembrano semplicemente ridicole, chel’ateismo di Proudhon, che fa di lui un criminale a cui l’ordinepubblico dovrebbe con tutti i mezzi impedire di nuocere (10).Tra questi tradizionalisti e Proudhon la violenza e l’odio rivela-no una vera guerra di religione.

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Dottrinari e liberali. – Il fossato era dunque incolmabile tra itradizionalisti, che cercavano nella visione organicistica dellasocietà il fondamento della sovranità, e le dottrine che, fedeli alXVIII secolo, cercavano nella sovranità della ragione (11) i principidella legislazione. Liberato dal prestigio del principio di autori-tà il problema era posto dalla scoperta razionale di una veritàpolitica. Il problema era formulato in termini di ragione e diprincipio e Proudhon avrebbe, nei suoi primi scritti, posto inquesti termini la questione della giustizia sociale. Le sue rifles-sioni sulla ragione, che tendono a sostituire il concetto di ragio-ne collettiva a quello di ragione individuale, rispondono allaproblematica dei dottrinari e allo stesso modo egli poteva ricor-darsi della loro la teoria dell’equilibrio dei poteri nei suoi ulti-mi lavori sul federalismo politico ed economico (12).

Il liberalismo politico, sotto la forma che gli aveva datoper esempio Benjamin Constant, poneva a Proudhon un pro-blema al quale si sforzava di dare una nuova risposta, cioè quel-lo della libertà individuale. Quando Benjamin Constant espri-me le sue riserve in merito ad un “riconoscimento astratto dellasovranità popolare”, della quale teme che essa costituisca unanuova oppressione sociale, disegna una problematica che saràquella di Proudhon: assicurare la libertà effettiva degli indivi-dui sfuggendo ai pericoli dei nuovi dispotismi politici che ri-schiano di giustificare le forme “metafisiche” di Rousseau (13).Ma il liberalismo avrebbe offerto anche il fine più coerente deisuoi attacchi contro il potere e contro il principio di proprietà:quando il liberale cerca la salvaguardia delle libertà nella esattadefinizione delle differenze di potere e di autorità, Proudhonproclama che non ci sono accomodamenti con i poteri e che lalibertà comincia solo con la loro distruzione. Più direttamenteancora, mentre Benjamin Constant, riprendendo i principi dellarivoluzione del 1789, vede nella proprietà il “fondamento” del-l’edificio sociale, Proudhon dimostrerà che questa proprietà è“impossibile” e che porterà la società alla sua morte.

Su questi punti che sono fondamentali, non poteva esser-ci una conciliazione possibile; prima del 1848 alcuni economi-sti liberali, quali Adolphe Blanqui, che si fece difensore di PremierMémoire contro la censura reale, potettero manifestare qualcheinteresse per le “strane” teorie di Proudhon, ma dopo il giugno1848, quando fu provata la nocività di queste dottrine, questo inte-resse fece posto all’orrore, come testimonia Daniel Stern (14).

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Il pensiero repubblicano. – Se si definisce il pensiero repub-blicano con quella esigenza “di uguaglianza e di giustizia”, conquel disprezzo delle ineguaglianze ingiustificate, con quel sen-so della “dignità” che si manifestarono nelle società segrete, nellaCarboneria dopo il 1820, Proudhon fa parte di questo movi-mento politico diretto contro il potere esistente (15). È in seno aquesto movimento che si formula l’esigenza di giustizia dellaquale farà il cuore del suo pensiero e il suo stile rivoltoso evocaspesso la verve vendicatrice di Bérarger o di Paul-Louis-Courier.Ma come i giovani operai comunisti che accusavano nel 1840 LeNational di tralasciare le questioni sociali e di tradire la rivolu-zione (16), Proudhon è di quelli che sospettano i repubblicani divoler prolungare le ingiustizie economiche consacrandosi es-senzialmente ai conflitti politici. Nel 1840 partecipa a quelmovimento di pensiero che si manifesta con la rottura tra LeNational ed il giornale di Flocon, La Réforme, dove le questionisociali soppiantano i dibattiti politici. Radicalizzando questomovimento, Proudhon non si contenta di ridurre l’importanzadel politico, ma la nega; e sin da allora gli diventeranno sospet-te tutte le modalità di repubblicanesimo e più ancora quelleche entreranno in contraddizione con la sua concezione, inparticolare quelle di Louis Blanc e Buchez, dove riconosce unasopravvivenza dello spirito giacobino. Il problema non è piùper lui, nel 1840, di dibattere sulle forme ottimali di governo odi scegliere la migliore strategia per prendere il potere, comefanno Blanqui, Raspais o Barbes, ma soltanto di operare la rivo-luzione economica, unica cosa importante.

I socialismi. – È in questo movimento di pensiero sociali-sta che si colloca Proudhon, movimento inaugurato nel 1820da Saint-Simon, sviluppato dopo il 1825 dalla scuola saint-simoniana e che ha già, nel 1840, le sue sette e i suoi maestri:Fourier, Owen, Cabet. In questo movimento si è anche costitu-ito un nuovo tipo di intellettuale, un nuovo ruolo sociale, quel-lo del teorico, istruito di economia politica, di scienze sociali eche si propone di formulare la riforma necessaria ai conflittisociali. Teorici e pratici nello stesso tempo, attesi e ascoltati negliambienti operai, Fourier, Louis Blanc, Pierre Leroux, Cabet,saranno, tra il 1840 e il 1848, i più conosciuti di questi “riforma-tori sociali”, ma anche molti altri partecipano a questo movi-mento: F. Vidal, Constantin Pecqueur, Audiganne, Dezamy,Villegardelle, Jules Lechevalier, Buchez, Considérat, Flora

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Tristan, Lamennais, Vinçard, Corbon, ecc. Le polemiche cheprima del 1830 si erano limitate a dei cenacoli hanno, nel 1840,preso una forma pubblica; i giornali operai come L’Atelier a Pa-rigi, L’Echo des fabriques a Lione dibattono di progetti di associa-zione. Le Phalanstère, La Phalange, La Démocratie pacifique, difen-dono le tesi fourieriste, Cabet dirige Le Populaire, Louis Blanc laReveu du progrès politique, social et littéraire, Th. Dezamy L’Egalitaire,Pierre Leroux la Revue indépendante. La questione sociale è di-ventata una questione largamente estesa e i riformatori si rivol-gono ad un pubblico costituito (17).

Un certo numero di temi sono comuni a questi moltepli-ci scritti: Sismondi, Eugène Buret (18), Louis Blanc (19) hannodescritto in modo dettagliato l’estrema miseria delle classi ope-raie più sfavorite. Questa rappresentazione dell’ineguaglianzadelle condizioni rende sensibile l’esistenza delle classi sociali ei loro conflitti d’interessi. Questa lotta delle classi non è in nes-sun modo una dimensione ignorata, e non soltanto Blanqui cheha proclamato, durante il “Processo dei quindici” conseguente al-l’insurrezione dei setaioli, “la guerra tra i ricchi e i poveri”, maanche lo stesso Guizot alla tribuna della Camera nel dicembre 1831ha dichiarato che i disordini di Lione avevano rivelato, al di làdelle questioni politiche, l’esistenza di una “lotta tra alcune classi”(20), lotta che metteva in questione la proprietà privata. Allo stessomodo s’è costituito, in merito alle riforme che si propongono, unvocabolario comune che designa una certa coesione delle discus-sioni: associazione, solidarietà, diritto al lavoro, organizzazione del lavo-ro, emancipazione del proletariato, socialismo…

Ma, al di là di questo linguaggio comune, il movimentosocialista si divide in molteplici tendenze; ogni scuola pretendedi possedere la formula dell’avvenire, ogni autore sembra di-fendere un’invenzione. Fourier, Cabet stimano necessario for-giare una città ideale che gli uomini dovranno realizzare men-tre altri insistono sull’utopismo di tali tentativi. P. Leroux,Pecqueur, Lamennais vogliono conciliare il cristianesimo e ilsocialismo, gli atei rispondono che il socialismo non può essereche materialista. Blanqui chiama ad una rivoluzione immediatae violenta, mentre Cabet consente solo mezzi pacifici. L. Blancassicura che l’associazione deve essere obbligatoria, ma Corbondifende l’associazione volontaria. Cabet proclama, contro i so-cialisti, che l’umanità non ha “salvezza” (21) che nel comunismo,ma deve combattere anche altri comunismi, quelli di Lapen-neraye, Dezamy, Pillot, l’abbé Constant…

Nel 1840 Proudhon si colloca lucidamente nei conflitti

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aperti da più di dieci anni, ma la sua veemenza e fiducia in sestesso esprimono la certezza di portare un messaggio nuovo.

2. - Le passioni dominanti

Era un tema comune, intorno al 1848, quello di sottoli-neare l’intensità delle passioni negli ambienti popolari. Oppo-nendo la freddezza borghese alle passioni operaie, Daniel Sternscrive nel 1850:

È in altre regioni che noi sentiremo la vita vera, la passione in tutte le sueforme, l’amore e l’odio, il sentimento del diritto e l’istinto della vendet-ta, l’invidia selvaggia e i nobili sentimenti, soprattutto la fede nei princi-pi, l’entusiasmo per le idee, il presentimento dell’avvenire…(22).

Si può dubitare del valore di questo giudizio in quanto assegnaalle classi favorite la saggezza e la moderazione, ma si può an-che ammetterne la sua validità in ciò che concerne la potenzadelle passioni in seno alle classi lavoratrici, come conferma laviolenza dell’insurrezione del 1830 e del 1848. Si può ammette-re che le classi minacciate, sfavorite, poste di fronte allo spetta-colo della ricchezza, inserite nella contraddizione di una ideo-logia egualitaria e dell’ineguaglianza materiale, non potevanomancare di reagire violentemente nei conflitti politici. Esse do-vevano anche riconoscersi nelle parole e negli scritti violente-mente denunciatori. Proudhon partecipa direttamente, col suostile violento e a volte enfatico, a queste espressioni appassiona-te. Ma, come nota giustamente Daniel Stern, queste passionicollettive erano molto diverse, a volte contraddittorie: le violen-ze del compagnonnage, la crisi di sentimentalismo del marzo 1848,il coraggio politico delle giornate di giugno, gli incendi dei con-venti a Lione, rivelano delle possibilità molto diverse, degli at-teggiamenti e dei poli di ostilità ben distinti. Allo stesso modo alivello delle espressioni teoriche, le passioni fondamentali diPierre Leroux, di Cabet o di Proudhon, non sono assolutamen-te identiche.

I poli di aggressività. – Due odi essenziali possono esseresottolineati nell’opera di Proudhon: l’odio per la proprietà el’odio per l’autorità. A quale passione sociale fanno eco? Ladenuncia dell’ineguaglianza economica, legata alla convinzio-ne che è il popolo il vero creatore di ogni ricchezza, aveva larga-

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mente superato la scuola saint-simoniana che l’aveva formula-ta. Vignerte, uno dei redattori del manifesto redatto dalla Sectiondes Droits de l’Homme nel 1833, scriveva per esempio sul National:

Ecco ciò che si dice nelle sezioni: …Abbasso il monopolio delle ric-chezze! Abbasso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo! Abbasso leineguaglianze sociali! Viva il popolo, sovrano di diritto! Che tra pocolo sarà di fatto… È il popolo che cura e coltiva il suolo; è lui che fecon-da il commercio e l’industria; è lui che crea tutte le ricchezze. A luidunque appartiene il diritto di organizzare la proprietà, di fare un’equaripartizione delle spese e del benessere sociale (23).

E, in questa rivolta largamente espressa, Proudhon non era nem-meno il primo a teorizzare il rapporto di sfruttamento e a spiegar-lo con l’accaparramento dei valori prodotti dal lavoro: EugèneBuret aveva, nel 1840, elaborato una nozione del lavoro-mercan-zia e suggerito che il profitto non aveva per origine che il lavoro edil suo sfruttamento. Proudhon riprenderà questo tipo di spiega-zione che annuncia la teoria marxiana del plusvalore.

Comunque, l’esperienza emozionale che esprime PremierMémoire riveste forme precise che la differenziano nettamentein questo concerto di indignazione. È rimarchevole che l’ac-cento non sia messo sul fatto, abbondantemente sottolineatodagli operai e dai socialisti, della miseria, e che invece di dirige-re l’indignazione del lettore sullo spettacolo dei misfatti econo-mici del sistema capitalistico, incentri la sua attenzione sul furtoche perpetuerebbe il proprietario a detrimento del lavoratore.Proudhon non dipinge la miseria delle classi lavoratrici come po-tevano fare E. Buret, Louis Blanc ed tanti altri giornalisti;egli si rifiuta di partecipare a questa compassione generale chesi esprimeva anche nei giornali favorevoli al governo e al regi-me economico esistente. Allo stesso modo, rompe quella asso-ciazione mentale largamente diffusa che univa intimamente lospettacolo della miseria e l’invenzione dei processi necessarialla sua scomparsa. Quando Louis Blanc scrive L’Organisationdu travail, descrive lungamente la miseria operaia causata dallaconcorrenza, poi cerca, in conclusione, “in quale maniera sipotrebbe, secondo noi, organizzare il lavoro” (24). Questa formadi pensiero è familiare a degli operai che oppongono alla de-scrizione della loro situazione attuale le diverse formule d’asso-ciazione. Un libello del 1833 firmato da un operaio sarto, haper esempio per titolo: Riflessioni di un operaio sarto sulla miseriadegli operai in generale, la durata delle giornate di lavoro, il tasso dei

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salari, il rapporto attualmente stabilito tra gli operai e i capi laborato-rio, la necessità delle organizzazioni di operai come mezzo per migliorarela loro condizione (25). Nulla indica comunque che questa indi-gnazione di fronte alla misera esprima necessariamente unaesperienza propria operaia; essa si ritrova anche negli scrittoridelle altre classi sociali scandalizzati dallo spettacolo del dolo-re. Allo stesso modo, questi mali del regime visti in qualche mododall’esterno, possono servire da argomento per un’altra causa,più politica che sociale. Per gli spiriti che tendono all’avventodella repubblica e all’eliminazione del potere di Luigi Filippo,l’estensione della miseria è l’argomento principe per raccoglie-re le adesioni operaie e per denunciare il regime politico.

L’indignazione proudhoniana esprime una rivolta parti-colare. Essa esclude la commiserazione di fronte alla povertàper incentrare la sua aggressione contro gli uomini, i proprieta-ri, considerati i responsabili della miseria. Non si tratta più, al-lora, di piangere degli esseri sofferenti, ma di accusare gli auto-ri del male e contemporaneamente di analizzare i meccanismidella spoliazione. L’esperienza emozionale che è messa al cen-tro dell’analisi non è quella della miseria, ma è quella di unaspoliazione della quale il soggetto che si esprime è vittima. Nonsi può più trattare di una condizione di povertà che potrebbeessere dipinta dall’esterno e che potrebbe suscitare un fatalismonella rassegnazione o un bisogno di evasione, ma bensì dell’espe-rienza di un soggetto attivo che esprime la sua indignazione eche rivendica che gli si restituisca ciò che gli è dovuto. Proudhonparla a nome degli uomini che la subiscono in quanto produt-tori e che hanno la certezza di essere direttamente derubati diciò che appartiene loro normalmente e giustamente.

Gli argomenti che sono portati, qualunque sia il loro va-lore scientifico, delineano questa certezza prima e il movimen-to di furore che le è inerente. Gli argomenti non si pongono alivello della ripartizione ingiusta della ricchezza. Il soggetto cheeleva la sua protesta non lo fa definendo la sua povertà di fron-te alla ricchezza; allo stesso modo non esprime l’invidia di unbenessere del quale sarebbe stato defraudato. Niente è più lon-tano da questo piagnisteo che il sogno icariano di un benesserefacile e razionalizzato. Allo stesso modo il soggetto non si de-scrive come la vittima di un sistema contro il quale non sapreb-be rivoltarsi. La rivolta proudhoniana esprime un defrau-damento del quale avrebbe un’esperienza diretta e del qualepotrebbe designare gli autori. A differenza dei compagni, la cuiesperienza della miseria potrebbe esprimersi più adeguatamente

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nel compiangersi, nella rivolta intermittente o nell’evasione nel-l’immaginario, il rivoltoso proudhoniano designa un rapporto con-creto e costante che avrebbe con il proprietario, come quello chel’artigiano operaio può avere con il fabbricante.

L’argomento essenziale unisce una doppia intuizione,quella del lavoro produttore e quella del diritto al prodotto delsuo lavoro. Senza dubbio l’idea che il popolo fosse il solo pro-duttore non era nuova nel 1840: essa era stata ampiamente espo-sta da Saint-Simon che aveva fatto degli industriali i soli autoridella ricchezza, ma precisamente Saint-Simon non aveva limita-to ai soli operai e artigiani la capacità industriale e faceva delcapitale una delle sorgenti dei valori. È dunque essenziale perla critica proudhoniana attaccare a lungo i saint-simoniani edistruggere il dogma dell’ineguaglianza delle capacità per di-mostrare che nessuna superiorità potrebbe essere accordata aitalenti, perché non c’è nessun altro criterio che il lavoro effetti-vo di produzione. I fourieristi saranno esclusi contemporanea-mente e accusati di mantenere i profitti del capitale. Il rivoltosoproudhoniano si impegna a dimostrare che egli è l’unico pro-duttore e sospetta i talenti, le capacità delle professioni liberalidi inventare nuovi sistemi per prolungare il suo sfruttamento.Non basta dunque attaccare il capitale, bisogna anche diffidaredi quelli che pretendono di far parte dei produttori e potrebbe-ro essere soltanto complici degli sfruttatori. Il rivoltoso prou-dhoniano, all’opposto del compagno che potrebbe essere porta-to a dare fiducia alle capacità e a rimettere la sua sorte in manoad una nuova classe politica, tiene invece a designare chiara-mente i suoi sfruttatori e ad essere riconosciuto come il soloproduttore effettivo.

E sin da allora il dibattito è immediatamente posto in ter-mini di legittimità. Si può rimpiangere, in nome di una analisi“scientifica”, che dopo aver disegnato l’analisi della formazio-ne del plusvalore Proudhon si sia posto sul terreno della giusti-zia e investa i produttori di un diritto, in qualche modo, natura-le. Ora questo passaggio immediato dall’analisi oggettiva allarivendicazione morale è al contrario essenziale a questa denun-cia della proprietà. Non si tratta in nessun modo, in effetti, dilimitarsi ad una dimostrazione scientifica soddisfacente per lospirito, ma anche di esprimere nello stesso tempo l’esperienzadi una classe che si è sentita lesa e derubata di ciò che giusta-mente le spetta. Da qui l’imperiosa necessità di legittimare larivendicazione operaia e di dimostrare che essa possiede, edessa soltanto, il diritto. Non è per acconsentire al linguaggio

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tradizionale dei giuristi che Proudhon discute lungamente del-le teorie giustificanti il diritto della proprietà, ma anche perstrappare ai proprietari le loro giustificazioni ideologiche e re-ligiose e per dimostrare che il produttore è moralmente auto-rizzato a distruggere il meccanismo del furto. Come scriveràulteriormente: “Mi limitavo soltanto a chiedere giustizia” (26).Questo spostamento della legittimità esige una discussione suldiritto, sul giusto e sull’ingiusto; ed è proprio in questi terminiche Proudhon presenta la sua opera al suo amico Bergmann:

Ecco qual è la strada sommaria del mio lavoro. Soggetto di tutta l’opera:determinare l’idea del giusto, il suo principio, il suo carattere e la suaformula (27).

La particolarità dell’inserimento sociale di Proudhon si precisacon la sua distinzione tra la proprietà e il possesso, che pareben costituire il miglior sintomo di questa situazione. Se con-danna in effetti con tutto l’arsenale degli argomenti scientificie giuridici la proprietà assoluta, giustifica al contrario l’utilizzosociale dei mezzi di produzione, il possesso. Si può supporreche una classe totalmente spossessata e senza nessuna esperien-za del possesso, fosse portata a generalizzare la sua esperienza ea rivendicare la comunità dei beni. È l’ipotesi di Marx secondola quale il meccanismo dell’espropriazione condurrebbeall’espropriazione degli espropriatori e alla proprietà colletti-va. Senza dubbio la lunga tradizione comunista marcata daBabeuf, Buonarroti, Dezamy, troverebbe un’eco tra coloro chenon potevano sperare una forma qualsiasi di proprietà.Proudhon rifiuterà al contrario, e con la più grande energia,questa tentazione comunista ricercando tra l’individualismoproprietario e la comunità un sistema di socializzazione dellaproprietà. Questa posizione ideologica appare ben corrispon-dere ad uno stato sociale ben determinato, quello degli artigia-ni o dei capi laboratorio che non sono né fabbricanti capitalisti,né compagni e che vorrebbero che fossero distrutti i privilegidella proprietà privata, ma rifiutano assolutamente di vederesparire il potere relativo che hanno sui loro strumenti. Allo stessomodo non li si può confondere con i piccoli proprietari terrieri,isolati sul loro suolo, come non si può confondere il prou-dhonismo con quella democrazia dei piccoli proprietari indi-pendenti che i Montagnardi avevano progettato di istituire. Imutualisti lionesi si proposero, associandosi, di porre un osta-colo alle esazioni dei fabbricanti, ma non pensavano in alcun

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modo di rimettere ad una proprietà collettiva il controllo cheavevano sui loro mestieri: come dirà Proudhon, esprimendo laloro esperienza e la loro volontà, il fine è di sostituire “dapper-tutto il diritto relativo e mobile della mutualità industriale aldiritto assoluto della proprietà” lasciando all’individuo o al grup-po i propri mezzi di produzione. Questo movimento del pen-siero proudhoniano che sembra rifiutare tutte le soluzioni pro-poste precedentemente e che in realtà respinge le due possibi-lità che sono l’individualismo capitalista e la comunità dei beni,traspone adeguatamente questa posizione sociale dei capi labo-ratorio che rifiutano con la stessa energia l’assorbimento nellamanifattura capitalista e la minaccia dello spossesso. Per imutualisti lionesi come per gli artigiani operai francesi, il possesso(e non la proprietà, fonte di profitto) è garante dell’attività econo-mica e, come dirà più tardi Proudhon, della libertà del produtto-re. Sappiamo che gli operai proudhoniani lotteranno in seno allaPrima Internazionale contro il comunismo dei beni, che si ade-gueranno solo ad alcune formule di “collettivismo” (28).

Tutta l’opera di Proudhon si trova attraversata da un se-condo odio, altrettanto potente di quello contro il furto pro-prietario: l’odio per i poteri, l’odio per l’autorità. Lo stesso fu-rore unifica le tre forme di oppressione: lo Stato, il Capitale e lareligione, svelando in questi sistemi “analoghi” tre forme di au-torità, tre potenze trascendenti l’uomo e che è necessario di-struggere radicalmente. Più ancora della critica del regime ca-pitalistico, questo furore antiautoritario caratterizza l’ethosproudhoniano e definisce, in seno ai socialismi del XIX secolo,la sua originalità. Esso esprime un senso specifico della libertà,un orrore per la sottomissione che ordina la dicotomia del po-tere e della vita in una coppia irrimediabilmente antinomica. Ilpensiero di Proudhon non cessa di opporre, come due poli con-cettuali e sociologici, l’autorità e la libertà, la trascendenza el’immanenza, l’assoluto e il relativo, l’arbitrario e la ragionesociale, assimilando l’autorità al male e la libertà alla vita (29).Questo odio dei poteri sostiene la vigilanza del pensiero prou-dhoniano e gli fa scoprire, in certi socialismi già diffusi in que-sto inizio di XIX secolo e nel comunismo, il risorgere del pen-siero autoritario. Opera una assimilazione, che non poteva chescandalizzare gli adepti di questi socialismi, tra questi sistemi eil sistema capitalista. Nello stesso tempo questa passione antiau-toritaria riveste un significato molto particolare che differenziatotalmente l’anarchismo di Proudhon dall’anarchismo di unoStirner. La rivolta contro i poteri non si fa in nome della sogget-

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tività o in nome della libertà individuale, ma in nome della li-bertà sociale e dell’autonomia dei produttori liberamente asso-ciati. L’originalità di Proudhon si manifesta su questo puntonon soltanto di fronte ai socialismi, ma anche rispetto ai diffe-renti anarchismi.

Si sa che questo tema sarebbe risorto con la più grandenettezza durante i dibattiti della Prima Internazionale e avreb-be trascinato al conflitto i partigiani di Marx e i partigiani diBakunin, conflitto che avrebbe portato alla dissoluzione del-l’Internazionale.

Meglio che la satira della proprietà, questa passione acu-ta contro la rinascita delle oppressioni pone il pensiero di Prou-dhon nel seno stesso delle classi operaie contro le scuole socia-liste costituite. I socialismi dei quali denuncia l’autoritarismoerano in effetti largamente diffusi tra le classi operaie al mo-mento in cui opporrà il suo anarchismo. Il saint-simonismo ave-va reso familiare il progetto di una “organizzazione scientificaindustriale” dell’economia (30) e aveva ricevuto un grande ascol-to negli ambienti operai. A Lione la missione saint-simoniananella quale figuravano Laurent de l’Ardèche e Pierre Lerouxaveva ottenuto dall’aprile al giugno 1831 immenso successo negliambienti popolari. E senza dubbio i saint-simoniani criticavanoi poteri abusivi, ma giustificavano l’instaurazione della merito-crazia, e consentivano l’instaurazione di una Chiesa dominatadal potere papale. Allo stesso modo la concezione socialista diLouis Blanc riceveva, prima del 1848, una larga accoglienza nelleclassi operaie, come testimonia la sua nomina nel governo prov-visorio e l’organizzazione dei Laboratori nazionali. Questi pro-getti di organizzazione del lavoro potevano tanto più sedurregli operai perché non cercavano di instaurare una forzarepressiva, ma nello spirito di Louis Blanc, di organizzare un“potere tutelare” (31) destinato a proteggere gli operai dai malidel liberalismo. È precisamente questa nuova protezione accor-data “dall’alto” che provocherà la rivolta di Proudhon. E allostesso modo la sua estrema vigilanza su questo punto gli fa diffi-dare delle nuove forme di oppressione nelle omelie umanitarieo di fratellanza. Qui ancora non si contrappone soltanto a qual-che teorico come Pierre Leroux, Flora Tristan, Lamennais oCostantin Pecqueur, ma a tutta una mentalità largamente diffu-sa nelle classi operaie e che confermerà, per esempio, lo slan-cio di fratellanza del 1848. In una società profondamente se-gnata dal cristianesimo e dove le associazioni dei compagni con-tinuavano a rivendicare il sostegno della chiesa, ogni proposta

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che annunciava una riconciliazione tra la religione e il sociali-smo non poteva mancare di suscitare interesse. Attaccandol’ideologia umanista nella sua versione religiosa, Proudhon sol-levava scandalo in seno alla stessa classe operaia.

Questo rifiuto si estende anche ad ogni setta che preten-da di imporre, dall’esterno, come il fourierismo, la sua formulaalle classi operaie. Si estende anche ad ogni uomo, ad ogni lea-der, che pretenderebbe guidare la classe operaia: poiché la ri-voluzione deve venire dall’emancipazione dei produttori, poi-ché questa non è garantita che dalla libertà degli uomini, lapretesa di una “ragione” individuale di governare non può es-sere che controrivoluzionaria. La stessa scienza non può eriger-si a sovrana a meno che non sia che l’espressione resa coerentedel movimento organico della società. Il comunista, così comeè stato definito da Etienne Cabet, dunque cumulerà tutti i vizicosì designati; non soltanto tende a sottomettere i produttori aun sistema unificato e totalitario, non soltanto mischia a delleriforme contrarie alla libertà una ideologia di ispirazione catto-lica (32), ma sarà anche la realizzazione della volontà di un indi-viduo promosso al rango di profeta.

Tutte queste critiche esprimono una stessa passione, l’odioper i poteri, anche se sono fondati su una democrazia popola-re, e una stessa volontà, quella di assicurare la libertà dei pro-duttori e, da questa, l’eguaglianza sociale. La critica proudho-niana della democrazia fondata sul suffragio universale conferme-rà questa estrema attenzione alle possibilità di ricostituzione deipoteri oppressivi. Ma opponendosi così a tante ideologie diffu-se nell’ambiente operaio, Proudhon sembra isolarsi considerevol-mente da alcuni ambienti ai quali pretende rivolgersi. Questiconflitti indicano bene che egli occupa un posto distinto partico-lare in seno alle classi operaie e che il suo rapporto con unostrato della classe operaia deve essere nettamente delimitato.Non si può scartare l’ipotesi di un certo radicamento di questamentalità antiautoritaria nella tradizione contadina. L’esperien-za delle lotte antifeudali, il ricordo della rivoluzione del 1789,l’ostilità tradizionale contro l’imposta, mantenevano in alcunicontadini un atteggiamento di sfida verso i poteri del governoche si può in effetti ravvicinare all’atteggiamento di Proudhon.Gli piace ricordare le sue origini semicontadine e semioperaieed evocare compiaciuto il suo avo Tournesis del quale la suafamiglia aveva fatto un eroe alla stregua di Jacques Bonhomme.Comunque questa diffidenza contadina verso i principi è bendifferente dall’antiautoritarismo proudhoniano. Se si chiarisce

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questa mentalità con il voto contadino del 1848 e 1851, sembrache la sfiducia contadina si concilia, come dirà Marx ne Il 18Brumaio, con l’attesa di una protezione. Il bonapartismo, cosìdirettamente opposto al proudhonismo, esprimerà questa am-biguità nella quale l’ostilità verso i potenti si concilia con un’ade-sione al potere carismatico. L’antiautoritarismo di Proudhon alcontrario ha per ragion d’essere la volontà di sostituirsi ai pote-ri politici e non può essere dissociato da questa attitudine chele classi operaie possono costituire esse stesse tutte le forzeregolatrici incaricate di animare l’esistenza collettiva. Più esat-tamente si può pensare che lo spirito proudhoniano poteva es-sere presente in questi artigiani-contadini e in questi artigiani-operai tra i quali il senso contadino dell’indipendenza rimane-va attuale, ma che si inseriva già nel circuito degli scambi (33).

L’anarchismo proudhoniano è in effetti un anarchismodi produttori sociali. Non si può dissociare nelle formule diProudhon il principio dell’eliminazione dello Stato dal princi-pio della sostituzione dei poteri con l’associazione mutualistica.Ciò significherà l’espressione anarchia positiva che sintetizza inuna stessa formula la negazione dello Stato e l’affermazionedella società economica. È dunque tra gli operai che hanno fidu-cia nelle loro possibilità obiettive, credendo, a torto o a ragio-ne, di essere capaci, organizzandosi, di soppiantare tutti i pote-ri, che conviene ricercare un’omologia tra un’ideologia spon-tanea e la struttura del pensiero proudhoniano.

E, di nuovo, è nell’ambiente dei maestri operai che i mutua-listi lionesi ci hanno offerto la tipologia nella quale noi possia-mo ritrovare più adeguatamente questa omologia. I due aspettidell’anarchismo proudhoniano, negazione del potere e volon-tà di sostituirsi ai poteri, si trovano intimamente mischiati. Lanegazione del potere non vi è necessariamente espressa eteorizzata, ma è vissuta come la forma normale dell’azione diorganizzazione. Si vedono i mutualisti dichiararsi risolutamenteindifferenti alla politica e risoluti a sostituirsi totalmente alle deci-sioni esterne. Pierre Charnier, loro fondatore, concepisce ilMutualismo come una “massoneria operaia, neutra in politica”(34), e questo principio dell’esclusione del politico sarà mante-nuto in tutto lo sviluppo della società. Il senso di questa esclu-sione si manifesterà durante l’insurrezione del novembre 1831,quando i mutualisti organizzeranno spontaneamente il loro pro-prio potere al Comune di Lione. I setaioli non concepironoallora una ripartizione dei poteri tra le autorità “legittime” eloro stessi, e mostrarono che la loro indifferenza in materia

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politica non significava un’accettazione dei poteri insediati: mapiuttosto essi si eressero in potere autonomo incaricato di assi-curare soltanto gli affari generali (35). Conducevano così a lorotermine numerosi tentativi fatti dai maestri-operai di diversi ramiindustriali che sognavano di riorganizzare tutta la società eco-nomica sul modello delle proprie associazioni.

Ma questa indipendenza che affermano nella loro prati-ca questi mutualisti è anche affermata contro alcuni elementidelle classi operaie. Questi capi reparto non si accontentano dirivendicare contro le classi privilegiate la loro emancipazione,essi fanno anche attenzione, come fa Proudhon, alle minacceche potrebbero sorgere dalle stesse classi operaie. Lo si vede aLione, in questa stessa insurrezione, dove eliminano lo statomaggiore degli attivisti repubblicani e lo stesso Lacombe, cheaveva animato questa centralità politica al suo inizio, benchéfosse anche lui un capo laboratorio. L’associazione operaia eli-mina tutte le forze estranee, senza lasciarsi impressionare dallasolidarietà di classe. E, allo stesso modo, questi mutualisti nonconsentono durante questo periodo a dimettersi a favore di ununanimismo popolare che poteva loro proporre l’ideologia re-pubblicana. Non acconsentono nemmeno a fondersi in un’as-sociazione più vasta, né a cessare di differenziarsi dai ferrandiniers.La loro pratica esprime chiaramente la loro diffidenza riguar-do alle sette e alle formule che non corrisponderebbero allapropria organizzazione. Come dirà Proudhon con loro, la solu-zione del problema sociale risiede nell’associazione operaia stes-sa, escludendo ogni potere esterno.

Questa volontà di essere se stessi, di non delegare la pro-pria volontà, di non confondersi con una mitica comunità, cor-risponde anche ad una certa fiducia in sé. Al furore di rivoltarisponde anche, presso questi capi laboratorio, una fierezza edanche una certa moderazione. Si può formulare l’ipotesi chedelle classi sociali radicalmente alienate e miserevoli avevanotendenza ad operare una dissociazione di se stesse e a rinnega-re la totalità del loro essere per rompere l’alienazione. Si puòpensare che il bonapartismo assicurava questa funzione di for-nire a degli uomini spossessati una forma di giustificazione conl’identificazione con un altro da sé. Questi mutualisti, al con-trario, che possedevano una certa indipendenza, esprimono an-che una certa riconciliazione con se stessi e la volontà di unanuova adesione a se stessi. Anche il loro furore contro la priva-zione non è senza una certa moderazione e anche un certo or-goglio. Il manifesto dei sessanta, redatto dagli operai e dagli ope-

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rai-artigiani, illustra questa psicologia fatta di aggressività tran-quilla e di fiducia nel proprio valore. Negli scritti di Proudhonsi esprime la stessa ambiguità. Attraverso la sua violenza verbalesi mantiene un’alterigia che traspare in particolare nella suaironia. Come il capo reparto che esalta la sua amarezza, ma cheè anche convinto del suo buon diritto e dell’avvenire dei suoiprogetti, Proudhon si può permettere una certa altezza di tono.L’ironia proudhoniana si fonda socialmente su un gruppo so-ciale che si sente minacciato ma che conosce anche la debolez-za dei suoi avversari e che non arriva fino all’angoscia. Qualun-que siano le sconfitte eventuali, sa che la società ha bisogno dilui e che finirà con l’imporsi.

Forse traiamo da qui il punto della dottrina proudhonianache poteva avere la più larga diffusione. Se il setaiolo lionese cioffre il miglior modello di questo anarchismo “positivo”, egli è,su questo punto, largamente tipico nelle classi operaie di que-sto inizio di XIX secolo. Come abbiamo visto nella parte pre-cedente, i maestri operai, i compagni liberi dai legami di compa-gnonnage, che fondavano la loro federazione autonoma e le loroassociazioni cooperative, aspiravano anch’essi a creare una nuovasocietà economica indipendente dai poteri e la cui libera esten-sione avrebbe soppiantato la costrizione politica. Partecipava-no in una larga misura di questo stato d’animo spontaneamen-te portato verso il socialismo antiautoritario. Si può compren-dere in questo modo che questo aspetto del proudhonismo siastato dunque ben compreso. La situazione generale dell’eco-nomia a quest’epoca, il fatto che la produzione artigianale emanifatturiera vi era ancora dominante, lasciano facilmentepensare che molti dei produttori e molti degli operai abbianoritrovato l’eco delle loro aspirazioni profonde nell’immaginedi un’economia che avrebbe garantito la loro indipendenza enello stesso tempo la loro sicurezza. Nella Prima Internaziona-le i rappresentanti francesi potranno transigere sulle differentiformule di collettivismo, ma non potranno cedere quando cre-deranno di riconoscere nel marxismo la nuova forma di sociali-smo autoritario, sia che abbiano sentito che l’essenza delproudhonismo vi veniva contestata, sia piuttosto che rivoltan-dosi contro l’autoritarismo essi abbiano spontaneamente ritro-vato la dinamica del pensiero di Proudhon.

I valori: il lavoro e la giustizia. – Tra i valori positivi cheesalta Proudhon, la libertà, il mutualismo, l’uguaglianza, duevalori possono essere particolarmente sottolineati: il lavoro, poi-

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ché è considerato come agente esclusivo della vita sociale e del-la storia, la giustizia, poiché esprime l’insieme dei valori desti-nati a rimpiazzare le antiche credenze e le antiche religioni.

L’elogio del lavoro, l’esaltazione della sua dignità, sonoallora e dal secolo degli illuministi, l’oggetto di abbondantiformulazioni. Dopo il 1820 le formule saint-simoniane, facen-do della classe dei lavoratori la sola classe utile e, nello stessotempo, la classe detentrice della suprema dignità, fanno partedel vocabolario usuale degli operai innovatori. Quando ad esem-pio i doratori su legno di Parigi fondano nel 1832 la Société del’Union des Doreurs, essi formulano così il preambolo del lororegolamento:

I firmatari… grandi e potenti per la conoscenza che hanno acquisitodella dignità dell’uomo che lavora per vivere e far vivere quelli che nonlavorano, hanno di comune accordo, avendo coscienza che l’industrio-so proletario è l’uomo più utile, posto quest’ultimo al primo grado dellascala sociale…(36).

Il lavoro non è soltanto creatore dei valori necessari all’esistenza,investe l’operaio di una eminente dignità che gli permette di piaz-zarsi moralmente al primo posto. Proudhon, facendo del lavoro ilfattore essenziale della storia e la fonte dei valori morali, riprendequesta associazione largamente diffusa nelle classi operaie.

Comunque, al di là delle generalità, l’interpretazione par-ticolare che fa di questa valorizzazione del lavoro si differenziaprecisamente dall’interpretazione di Saint-Simon, di Louis Blanco di Cabet. Quando Saint-Simon affermava che la classe lavora-trice era la sola classe utile, presentava essenzialmente questofatto come il risultato di un’osservazione e ne traeva argomentiper comprenderne l’evoluzione storica. La sua preoccupazio-ne non era di esprimere i valori sperimentati nell’atto del lavo-ro, ma di dimostrare scientificamente quale era lo stato delleforze sociali e che cosa bisognava attendersi dai loro conflitti.Questa preoccupazione scientifica sarà quella di Marx che sirifiuterà di riprendere queste glorificazioni del lavoro in unasocietà che fa precisamente sparire l’antica indipendenza dellavoratore; il suo fine non sarà dunque di valorizzare il lavoro,ma bensì di riprendere la prospettiva scientifica e storica di Saint-Simon analizzando le conseguenze necessarie dei conflitti pro-vocati dallo sviluppo industriale. Nemmeno i riformatori qualiLouis Blanc, F. Vidal e A. Audiganne si propongono di fare dellavoro l’esclusivo valore; essi si preoccupano soprattutto di tro-

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vare le forme istituzionali più adatte a risolvere i conflitti susci-tati dalla produzione. L’accento si trova allora messo sia sulsottoconsumo e sui mezzi per aumentare la produzione, sia suidisordini industriali dei quali si cerca la soluzione. In molti teo-rici e particolarmente in Et. Cabet il problema del consumosupera totalmente il valore del lavoro. La pittura edenica dil’Icarie descrive l’agio e il piacere che conosceranno gli Icariani,l’uguaglianza che regnerà tra di loro, e valorizza così non più illavoro, ma le forme ugualitarie del consumo (37). Si sa che que-sta apologia del consumo passivo (e si potrebbe dire l’alienazio-ne nel consumo) doveva sollevare il disgusto di Proudhon chevi vedeva il simbolo stesso della remissione delle libertà. Con lapiù viva coscienza delle divergenze teoriche, Proudhon ripudiaanche con la massima violenza le etiche del godimento e delconsumo che tendono a ridurre il lavoro ad uno stato strumen-tale. Per le stesse ragioni gli ripugnano i progetti di Fourier chetende a riorganizzare i valori in funzione delle esigenze pas-sionali individuali e non più in funzione dei caratteri oggettivie soggettivi dell’azione di produzione.

La valorizzazione proudhoniana del lavoro si distinguedunque molto nettamente tra queste differenti teorie e sembraesprimere bene un’esperienza particolare. Cerca di valorizzarel’azione del lavoro per se stessa, magnificare l’attività produttri-ce, escludendo le sue conseguenze che potrebbero essere il be-nessere o i piaceri del consumo. Senza dubbio riconosce che lapreoccupazione del benessere è diventata generale, ma attribu-isce precisamente questo interesse alla classe borghese e nonalle classi delle quali vuol essere difensore. Allo stesso modo sirifiuta di fare del lavoro una legge coercitiva, teoria che attribu-isce, per denunciarla, alla religione cattolica. Il lavoro non èuna necessità imposta all’uomo da una legge trascendente odalle leggi biologiche dei suoi bisogni, il lavoro è in se stesso unatto libero, è “libero di natura, di una libertà positiva e interio-re” (38). Costituisce nello stesso tempo l’atto generatore per ec-cellenza; fa nascere la stessa società, che non è che un’organiz-zazione e il concerto dei lavori particolari, trasforma questa so-cietà con il dinamismo delle sue evoluzioni e genera le struttu-re politiche, è infine la fonte della giustizia e del pensiero filo-sofico. In altri termini l’atto della produzione è l’atto essenzial-mente “reale” in opposizione all’artificiosità del politico e allavacuità delle arti di consumo; è l’atto “totale” poiché lavorandoil produttore attualizza contemporaneamente il fatto sociale ela giustizia. Il produttore rappresenta con il suo atto la totalità

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dei valori. Come dicevano i fondatori del Mutualismo:

Il lavoro è un tesoro; il lavoro, che in apparenza sembra soltanto pena efatica, è al contrario una fonte inesauribile di prosperità e di felicità (39).

Proudhon cerca così di esprimere l’esperienza di una classe chesi dà come impegno la produzione, pronta ad assumere inte-gralmente il suo agire come esistenza propria. Il produttoreproudhoniano rifiuta di fuggire la propria realtà, la rivendica alcontrario come realtà stessa e come condizione dell’universali-tà delle sue rivendicazioni. Così, perfettamente conciliato conse stesso, il produttore deve rifiutare ogni sottomissione a degliimperativi esterni: è in se stesso e nella sua azione che troveràtutte le condizioni della sua affermazione politica.

Non possiamo trovare tra le espressioni operaie dell’epo-ca delle formulazioni rigorosamente identiche. Sarà precisamen-te la funzione dell’intellettuale, Proudhon, il trasporre l’espe-rienza sul piano del linguaggio e coordinare in un insieme teo-rico delle espressioni frammentarie. Comunque questa formadi valorizzazione del lavoro è ben in rapporto di affinità conquella esperienza particolare che può avere il capo laboratorio,responsabile della sua attività e dalla quale trae la sua fierezza ele condizioni della sua affermazione nel suo lavoro. Su questopunto le sfumature che separano gli atteggiamenti dei compagnonse quelle dei capi laboratorio sono sensibili. Il capo laboratorioè più ansioso del compagno di mantenere la bellezza e la qualitàdella sua produzione. Pierre Charnier vuole “riportare l’ordinee la bella manodopera”, mantenere il buon nome della “superbafabbrica di seteria di Lione” che “rifornisce tutta l’Europa” (40). Siidentifica nel suo ruolo di produttore e difende questa identifi-cazione. Il compagno, al contrario, se partecipa a questa valo-rizzazione, si preoccupa più di difendersi dalle minacce che locircondano nel proprio lavoro; le unioni e le associazioni che sicreano dopo il 1830 hanno il duplice obiettivo di fissare o di-fendere i salari e di ridurre la giornata di lavoro. Quando idoratori su legno redigono il regolamento della loro Unione,fissano con precisione l’ammontare del salario e la lunghezzadella giornata (41). In altri termini, il compagno sposta il luogodelle valorizzazioni; si interessa alla remunerazione e alle con-dizioni di lavoro, manifestando così che la gestione non gli ap-partiene e che bisogna dunque difendersi contro il lavoro.

La passione per la giustizia sembra dover essere interpre-tata comparabilmente, come l’espressione di una esperienza

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operaia particolare, e come la volontà di difendere un gruppoe di imporre le sue aspirazioni. Senza dubbio l’abbondanza dellepagine dedicate a questo argomento, il carattere enfatico diquesta apologia, suggeriscono l’intuizione di un conflitto diffi-cile da superare. Comunque se il ricorso a questa nozione indi-ca un’inquietudine di fronte alle possibilità concrete, essa nonimplica una discontinuità con l’esperienza. Nell’apologia dellagiustizia si incontrano sia un’esperienza operaia che il deside-rio di imporre una volontà politica.

L’esaltazione della giustizia si iscrive in una lotta condot-ta contro la società capitalista. Poiché la società costituisce unsistema in cui tutte le parti si rispondono e si sostengono, èessenziale attaccarne le credenze. Questo sarà il fine di un gran-de libro di Proudhon, De la justice dans la Révolution et dans l’Eglise,quello di operare un rovesciamento dei valori, di dissacrare lareligione a profitto della giustizia. Ma la violenza di questa esal-tazione si rivolge anche contro gli ideali di amore e di fratellan-za che erano largamente presenti nel linguaggio operaio. At-taccando l’ideale di fratellanza e le risonanze religiose che com-portava, Proudhon attacca direttamente l’ideologia del compa-gnonnage e contemporaneamente gli stessi compagni nella loroorganizzazione. La difesa della giustizia deve servire a denun-ciare la mancanza di solidarietà, l’ineguaglianza, lo sfruttamen-to proprio del regime proprietario e a combattere nei compagnile ideologie religiose e comunitarie.

Proudhon riprende così la pratica dei mutualisti e magni-fica anche, universalizzandola, la loro ambizione parzialmenteespressa. La giustizia non è altro in effetti che la teoria dellamutualità che mantiene l’indipendenza dei contraenti e che liunisce in un rapporto di scambio e di reciprocità. Essa è confor-me a questa pratica operaia, che sfugge alla contraddizione dellaproprietà e del comunismo e istituisce un rapporto “di equità”tra i partecipanti come volevano i fondatori del Mutualismo (42).Ma associandosi i mutualisti non cercavano soltanto di difende-re i loro interessi, essi pensavano anche che la loro pratica ave-va un valore universale e che essa costituiva il modello dellefuture relazioni sociali. Un mutualista scrive, per esempio, neL’Echo de la fabrique del 31 ottobre 1841 che le associazioni ditipo mutualistico

sono anche naturalmente portate a far sbocciare questa vasta e generaleassociazione di tutti gli individui tanto desiderata dai filantropi del no-stro periodo (43).

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Si sa che la moderazione di queste formule copriva eccezionalipotenzialità insurrezionali, così come aveva mostrato il recentepassato. Come gli operai di diverse professioni che sognano diriorganizzare l’insieme dei rapporti economici con la diffusionedelle loro associazioni, i mutualisti progettano di provocare l’asso-ciazione di tutte le forze economiche secondo le loro concezionidell’associazione. La passione proudhoniana esalta questi dueaspetti del mutualismo: il fare e il sognare. Essa esalta il rapportodi mutualismo investendolo del valore supremo della giustizia. Lagiustizia si fa realtà nel contratto nel momento in cui due volontàsi concertano per un’azione comune senza abbandonare la lorolibertà relativa. Come dire che la giustizia non è un ordine esternoche verrebbe ad imporsi alle volontà, essa è la forma stessa del-l’azione. Nello stesso tempo questi rapporti di mutualismo sonoin qualche modo la realizzazione del diritto e dell’immagine diciò che sarà la futura società economica. Così con la voce diProudhon i maestri operai si fanno legislatori supremi. Più esatta-mente essi sono, nella loro pratica e nel loro progetto, la realtàdella giustizia, la realizzazione del diritto. Non potrebbero abban-donare nulla della loro sovranità.

3. - Il campo della coscienza e i suoi limiti

Se l’ipotesi che noi perseguiamo di un’omologia struttu-rale tra il pensiero proudhoniano e l’ideologia di una frazionedelle classi operaie è esatta, questa ipotesi deve essere verificataa livello delle scelte e dei limiti della conoscenza. In questi anni1840 nessuna necessità assoluta imponeva ad un pubblicista dicentrare la sua riflessione sulla natura sociale della proprietàprivata: ben altri campi si offrivano alla riflessione, le scienzedella natura, le arti, la letteratura e i differenti giornali dell’epocaoffrivano all’opinione pubblica una pluralità di centri d’inte-resse. Come ogni riflessione, la ricerca di Proudhon sceglie isuoi oggetti con un’azione di selezione e di eliminazione, equesta intenzionalità selettiva è altrettanto più vigorosa in quantosi vuole politicamente impegnata. Prima del 1850, Proudhonsceglie essenzialmente due oggetti che formano il contenutodel suo campo di coscienza: la critica della proprietà e del capi-talismo, la formulazione dei progetti rivoluzionari. PremiersMémoires e Système des contradictions économiques rispondono allaprima domanda, gli scritti anarchici del 1848 e L’idée générale dela Revolution au XIX siècle, alla seconda. Questi due oggetti sono

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presenti contemporaneamente nel pensiero di Proudhon; il lororapporto organico è evocato sin dal 1846 nel Système descontradictions e solennemente espresso nella formula distruggia-mo ed edifichiamo.

Questa selezione dei temi non si caratterizza soltanto nel-l’ambito del vasto campo delle opinioni e delle conoscenze del-l’epoca, ma anche in seno al pensiero socialista degli anni 1840.Saint-Simon ad esempio, e Auguste Comte dopo di lui, avevamesso al centro della propria riflessione la dimensione storicadella realtà sociale. Si era impegnato a legare il presente dellaRestaurazione al passato del sistema feudale e all’avvenire dellasocietà industriale ed è proprio questa visione storica che con-cludeva l’azione politica delle classi industriali. È alla storia cheera demandata la verità del presente e, poiché la storia era su-bordinata allo sviluppo industriale, è questa necessaria esten-sione della grande industria che bisognava interrogare. QuandoMarx riprenderà, dopo il 1845, la problematica di Saint-Simon,ne riprenderà la definizione degli oggetti di studio: questo ne-cessario sviluppo delle forze produttive condiziona anche losviluppo della storia e ne forma in qualche modo il destino.

Proudhon non poteva sfuggire totalmente a questa tenta-zione: ne La création de l’ordre, che doveva ben presto rinnegare,aveva tentato di conformarsi a questa forma di pensierostoricistico. Questo tentativo doveva rimanere senza futuro escomparire a profitto delle questioni immediate e pressanti: lacritica del sistema economico e la ricerca della soluzione del pro-blema sociale. Queste due questioni sono sentite come impostedalle circostanze, dall’intensità dei conflitti sociali, dall’urgen-za di una situazione drammatica.

Ora sono proprio queste due questioni che si pongonosin dall’inizio le organizzazioni operaie e più particolarmente isetaioli lionesi. La prima questione aveva preso la sua formula-zione precisa dopo il 1830, quando gli operai della seta avevanoraggiunto la convinzione che non potevano aspettarsi nulla daipoteri pubblici. Se, prima della Rivoluzione di Luglio, i maestrioperai potevano ancora sperare nella protezione dello Stato,secondo le norme della società feudale, l’esperienza del 1830aveva mostrato che la collusione provvisoria con le classi privile-giate era senza domani e che nessun soccorso poteva essere at-teso, né dal re né dalla nuova classe politica. Dopo le giornatedi luglio il ministero aveva chiaramente affermato che non glicompeteva di intervenire tra il fabbricante e il capo laboratorioper fissare i salari. Dopo l’insurrezione del novembre 1831, il

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ministro del commercio d’Argout ricordava in una circolare aiprefetti (44) che l’amministrazione doveva astenersi dall’interve-nire nel libero gioco delle leggi economiche. Sconfessando ilprefetto Bouvier-Dumolard che, sotto la pressione delle mani-festazioni di strada, aveva partecipato alle negoziazioni per fis-sare il tariffario, il ministro precisava che l’amministrazione pub-blica non aveva

né il diritto, né i mezzi per intervenire in questa contrattazione, e ancormeno di determinarli con un tariffario.

Gli operai lionesi, la cui preoccupazione maggiore era, comedimostrano la creazione ed il successo del Mutualismo, la situa-zione economica, dovevano così convincersi che non dovevanopiù contare sulla partecipazione dei poteri pubblici e che si tro-vavano ormai di fronte ai fabbricanti senza intermediari (45). Ilproblema maggiore e l’oggetto della riflessione non era solo laquestione sociale nella sua generalità, ma il rapporto socio-econo-mico stabilito tra il fabbricante, detentore del capitale, e il caporeparto, detentore della forza lavoro. È proprio questo oggettoche Proudhon sceglie di esaminare in Qu’est-ce que la propriété?,dove il problema politico è escluso dal campo della coscienza edove il centro dell’investigazione è il rapporto stabilito tra ilproprietario ed il lavoratore. Proudhon fa più che risponderead una attesa operaia, egli riprende una questione posta e parlail linguaggio dei capi laboratorio.

Allo stesso modo, ricostruendo la città futura, Proudhonriprende una questione largamente dibattuta nella classe ope-raia e che veniva trattata allo stesso tempo dai teorici socialisti ecomunisti. Partecipa a questo immaginario operaio che trova lasua espressione in molteplici progetti di riforma e modelli d’as-sociazione. Comunque l’oggetto trattato deve essere ancoradefinito. Mentre un compagno come Agricol Perdiguier ha perscopo solo il compagnonnage e sogna soltanto di riformarlo (46),Proudhon immagina la rifondazione totale della società e, comei mutualisti, vuole raggiungere con la sua riflessione l’insiemedegli equilibri economici. Allo stesso modo le questioni cheformulano i mutualisti escludono il ricorso all’edificazione del-la città utopica: essi vogliono vedere nella loro attuale organiz-zazione e nelle proprie creazioni il modello di associazione fu-tura. Mentre Fourier e Cabet invitano ad un divorzio radicaletra la percezione del presente e l’invenzione di un mondo futu-ro, Proudhon e questi mutualisti si rifiutano di dissociare l’im-

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maginario dal reale e nella propria azione vogliono trovare iprodromi del futuro.

Da questa selezione dell’oggetto la percezione operaiaopera una dicotomia tra il reale e il non reale o, come diràProudhon, del reale e dell’artificiale (47). È reale quel mondo dellavoro che il soggetto sperimenta e dal quale si aspetta la solu-zione ai problemi che pone. È artificiale, in particolare, il mon-do della politica che è lasciata alle opinioni, alle fazioni e allasorte. Allo stesso modo nella dicotomia proudhoniana sarannolargamente sospette le produzioni letterarie che saranno accu-sate di non trattare più dei “veri” problemi del tempo.

In più gli oggetti percepiti sono oggetto di intenzionalitàopposte, sia che li si percepiscano dall’interno e li si valorizzi,sia che li si tratti come cose e li si critichi. Quando i mutualisti eProudhon parlano di mutualità o di lavoro, glorificano la loroazione e operano in un certo senso una erotizzazione positiva.Essi ne sottolineano la necessità e la grandezza morale, li de-scrivono come i luoghi della libertà. Proudhon traccia unasacralizzazione della mutualità e ne fa il fulcro del diritto e del-la giustizia. Dicendo che la società economica rigenerata dallagiustizia possiede

la sua realtà, la sua individualità, la sua essenza, la sua vita, la sua ragionepropria,

egli presta all’azione mutualistica tutte le caratteristiche dellapienezza e della soggettività. Al contrario, il funzionamento dellaproprietà e, nel Système des contradictions économiques, l’insiemedei regimi capitalistici sono percepiti dall’esterno e comparatia dei meccanismi necessari. L’economia capitalista non è sol-tanto denunciata per le disarmonie che determina, ma èricondotta ad un sistema chiuso fatalmente condannato alla suaautodistruzione. Opponendolo al mondo libero del lavoroProudhon ne fa il mondo della “fatalità” e dell’oppressione.Dopo che tanti difensori della proprietà hanno cercato di di-mostrare la necessità che univa ai loro occhi la proprietà e lalibertà, Proudhon dimostra al contrario che, nel sistema capita-lista, l’appropriazione è il mondo estraneo della necessità. Sipuò comparare questa percezione proudhoniana, che codificai sistemi e li rende esterni, a quella percezione che potevanoavere degli operai che consideravano dall’esterno questo mon-do differente e minaccioso. L’abitante di La Guillotière o di LaCroix-Rousse percepisce come un altro mondo la società di

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Terreaux e di piazza Bellecour; le insurrezioni seguono questipendii per andare ad attaccare questo centro malefico. QuandoProudhon applicherà allo sviluppo del capitalismo il metododialettico non si preoccuperà di seguire alla lettera il metodo diHegel, ma cercherà soltanto di utilizzare l’idea generale di unalogica delle contraddizioni per meglio dimostrare le sue analisianteriori: come aveva scritto ne le Premier Mémoire, importa soltan-to dimostrare che il sistema della proprietà è oggettivamente de-stinato a distruggersi a causa di una necessità immanente.

È una stessa percezione codificante che condanna il “fata-lismo” dello Stato. Qui ancora il mutualista rifiuta di identificar-si con lo Stato e di stabilire con esso un rapporto soggettivo disubordinazione. Mentre le autorità utilizzano ancora il linguag-gio della fiducia e del paternalismo, mentre Agricol Perdiguiersi commuove della benevolenza che gli manifestano Chateau-briand e i giornali monarchici (48), Proudhon oggettivizza lapolitica e non consente di differenziare i molteplici sistemi diorganizzazione dei poteri. Tutte le modalità di governo si trova-no fissate in una unità e condannate a ripetere il modello del-l’assolutismo. Questo lato estremo della dissociazione autoriz-zerà una negazione assoluta e la ricerca di una società politicaorganizzata su “basi” totalmente nuove. Questa esteriorizzazionesi applica anche, e con le stesse conseguenze, alla religione ov-vero, secondo il titolo scelto per De la justice, alla Chiesa. Nelmomento in cui il clero non cessa di invitare i fedeli ad in-teriorizzare i modelli tradizionali e a partecipare all’esperienzareligiosa, Proudhon rifiuta di entrare in questo dialogo e di af-frontare le questioni metafisiche della religione. Le sue rispo-ste su questi argomenti, in un momento in cui l’eclettismo filo-sofico li dibatte ampiamente, sono singolarmente vaghe e nonrisvegliano in alcun modo il suo interesse. A queste domandeappassionanti risponde con sufficienza che soltanto gli spiritimalati possono porle. Il suo proposito è al contrario di conside-rare la religione come un fatto sociale, come una dimensioneoggettiva delle creazioni umane e di esaminarla in quanto tale.Come l’operaio che rigetta nello stesso mondo i poteri pubbli-ci, i proprietari e i “gesuiti”, Proudhon si distanzia radicalmen-te dalla esperienza religiosa e impone alla religione una perce-zione che ne fa un oggetto di studio.

Così questa situazione sociale particolare fondava unacerta attitudine scientifica. Se si ammette che una creazionescientifica esige sia un metodo di oggettivazione e, particolar-mente per le scienze sociali, un metodo di radicamento in

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un’epoca e in un ambiente, si può precisare lo statuto scientifi-co del proudhonismo in quanto conoscenza legata ad un am-biente. Proudhon è portato a prendere, in rapporto al suo og-getto, una prospettiva molto differente da quella che fu, ad esem-pio, di Saint-Simon. Non impegnato nelle classi dalle quali cer-cava la sua promozione, Saint-Simon poteva applicare al suooggetto una percezione storica e insistere sull’ampio destinoche faceva succedere i modelli di organizzazione sociale dallasocietà feudale alla società industriale. Impegnato al contrarioin una pratica che gli sembra razionale, e comunque non espres-sa, Proudhon si propone di esprimere questa esperienza e didarle legittimazione scientifica. Non proverà, come A. Comte,il bisogno di fondare metodologicamente la sua sociologia su-gli apporti cumulati delle scienze naturali e delle scienze biolo-giche, ma crederà possibile basarla sulla conoscenza immediatadel lavoro e dei suoi conflitti. E così perviene, come il mutua-lismo oppresso dalle minacce economiche legate al suo liberolavoro, ad un doppio linguaggio. La sua sociologia del capitali-smo percepirà in modo acuto l’interrelazione dei fenomenieconomici e dei fenomeni sociali e tenderà a fissare l’oggettoin un sistema fortemente strutturato e suscettibile di un tratta-mento scientifico. La sua sociologia del lavoro e delle dinamicheoperaie ricuserà al contrario ogni sistema e tenderà a mettere inrilievo la spontaneità dei movimenti, a sottolineare tutti i rischi disclerosi cui andrebbero incontro i dinamismi reali. Si può in modovalido fissare questa sociologia sullo statuto particolare del mae-stro operaio che percepisce il capitalismo come una cosa ma che ècomunque, a causa della sua formazione, in grado di dominarlointellettualmente e desidera farlo. Ma rifiuta di oggettivizzare lapropria azione e di ridurla a delle necessità e rivendica la possibi-lità di rimanere padrone al posto limitato che è il suo.

Si sente che questa posizione intellettuale avrà i suoi limiti ela sua acuità. Proudhon sarà perfettamente insensibile, ad esem-pio, all’eccezionale ricchezza della letteratura romantica e sentirà,anche riguardo a Victor Hugo, una ostinata freddezza. Il lirismodei nostalgici del mondo feudale lo lascerà indifferente quanto ifervori religiosi. Anzi non concede nulla nemmeno ai compa-gnonnages comunque così resistenti nel corso di questo periodo.L’importanza sociologica dell’esercito gli sfugge in questa prospet-tiva che considera soltanto le forze economiche come le forzedominanti. Nello stesso tempo minimizza il peso storico dei con-flitti politici, proponendo così della Rivoluzione del 1848 e delcolpo di Stato del 2 dicembre delle spiegazioni parziali.

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Contemporaneamente questa situazione sociale e intel-lettuale di partecipazione ai movimenti operai permette aProudhon di distinguere i problemi non percepiti dalla mag-gioranza dei teorici socialisti. Il capo laboratorio mutualista,qualunque sia la sua partecipazione alle classi operaie, non ap-prova ciecamente tutte le manifestazioni. Scaricato dal compi-to di piacere, è molto abile a discernere ciò che ritiene pericoliinerenti alle classi sfavorite. I suoi attacchi contro il comunismosono diretti contro una dottrina che condanna e anche contro la“plebe” che teme si lasci sedurre da un sistema che determinereb-be di nuovo il suo asservimento. Denuncia così la cecità delle dot-trine socialiste che rifiutano di considerare i pericoli e le debolez-ze dei movimenti operai e fanno in modo naïve affidamento sul-l’entità popolare. Nello stesso tempo percepisce con grande acuitài silenzi e i “ vuoti” dei socialismi autoritari che non fanno ai suoiocchi che rinnovare gli errori dei regimi autocratici.

4. - L’anarchismo

Gli storici dell’anarchismo hanno giustamente sottoline-ato la permanenza di alcuni temi intellettuali dal XVIII secolofino all’opera di Proudhon e l’esistenza di una tradizione anar-chica segnata dai nomi del curato Meslier, degli Enragés del 1793,Jacques Roux, Varlet, Leclerc e Claire Lacombe (49). Così il temacentrale di una contraddizione insuperabile fra il potere delloStato e la rivoluzione che Varlet esprime dicendo che “governoe Rivoluzione sono incompatibili” aveva trovato la sua formula-zione molto prima che Proudhon la scoprisse. Questa continui-tà è altrettanto e più convincente dato che l’ambiente socialedegli Enragés del 1793 è comparabile, in un certo senso, all’am-biente dei mutualisti e che la città di Lione era stata toccata,all’epoca, dalla propaganda degli Enragés parigini (50).

Questa permanenza ideologica non può essere sottostimata,ci sembra comunque debolmente esplicativa dell’organizzazio-ne particolare dei temi proudhoniani. Bisogna notare cheProudhon, che ha l’abitudine di citare tutte le sue letture, evo-ca solo rapidamente il movimento degli Enragés e non sembraaver conosciuto con precisione gli scritti e le dichiarazioni diVarlet o di Jacques Roux. Questo silenzio induce a pensare cheun’esperienza diretta potrebbe essere più determinante e quindipiù illuminante per la comprensione della sua opera. Ma so-

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prattutto, l’anarchismo socialista di Proudhon segna un taglionella storia dell’anarchismo. Mentre gli Enragés, esprimendo loscandalo dell’ingiustizia e della miseria, continuavano a ragio-nare in termini politici, Proudhon concentra la sua riflessionesulla critica della società economica e sull’edificazione dellanuova organizzazione socio-economica. Qualunque possa esse-re l’importanza delle sue eredità intellettuali, rimarrà da spie-gare l’essenziale del pensiero proudhoniano, cioè la promozio-ne dei problemi economici da un lato e il legame rigoroso chesi trova stabilito tra la critica del presente e l’ampia elaborazio-ne del sistema futuro. Più che a una tradizione, Proudhon par-tecipa a quella generazione degli anni 1840 che ha interiorizzatola fine delle barriere giuridiche di ordini e di statuto e che sco-pre il persistere delle diseguaglianze economiche e l’apparizio-ne di nuove classi sociali. I capi laboratorio lionesi hanno trattodal 1789 e dal 1830 la lezione che le rivoluzioni politiche nonhanno fatto che spostare le fonti del potere, che i problemi darisolvere devono dunque essere posti su un nuovo terreno. Comescrivevano tra di loro nel 1832:

L’ordine delle cose era cambiato, ma il dispotismo, cacciato dai castelli,si era rifugiato nei depositi (51).

Più precisamente il suo pensiero, che unisce strettamente lacostruzione immaginaria della società futura alla critica del pre-sente, evoca un ambiente sociale che ha già realizzato con lasua pratica questo legame organico tra la negazione dell’attua-le e l’affermazione del futuro. Le associazioni operaie, più par-ticolarmente il Mutualismo, avevano già creato questo legameorganico tra la negazione e l’affermazione poiché esprimevanopraticamente la loro rivolta contro la società esistente e simbo-leggiavano ciò che pensavano essere la società futura.

Qualunque fosse il linguaggio che i mutualisti dessero allaloro impresa, offrivano a Proudhon il modello di un’anarchiarealizzata o, secondo il suo vocabolario, di un’anarchia positiva.La certezza di Proudhon secondo la quale l’instaurazione delmutualismo segnerebbe una rottura essenziale nella storia del-l’umanità, ripete i sentimenti millenaristi che provarono i pri-mi mutualisti fondando la loro associazione. Quando quarantacapi laboratorio, raggruppati intorno a Bouvery, costituironodefinitivamente il Mutualismo il 28 giugno 1828, essi fecero diquesta data il punto di partenza di un’era nuova, il primo gior-no de “l’anno uno della Rigenerazione” (52). E allo stesso modo,

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quando i doratori su legno di Parigi fondarono nel 1832 la loroUnione, essi fecero di quest’anno “il primo anno del rinnova-mento industriale”. Proudhon provò questo sentimento collet-tivo condiviso da numerosi operai secondo i quali la creazionespontanea dell’associazione operaia segnava l’avvento di unmondo radicalmente nuovo. Ma questo millenarismo non è af-fatto un’aspettativa passiva e non potrebbe essere confuso conl’aspettativa religiosa di un paradiso che potrebbe sopraggiun-gere da un momento all’altro: il mutualista ha il sentimento divivere, di creare esso stesso questa rigenerazione dell’esistenzasociale. Il suo atto è immediatamente rivoluzionario e istituen-te. Non si tratta di attendere la rivoluzione che verrà a liberarli,ma di cominciare, di fare la rivoluzione là dove si trova e controle istituzioni che l’hanno dominata fino ad allora. L’atto fonda-tore è esso stesso la risposta alla domanda posta dall’asser-vimento economico. L’atto rivoluzionario porta in sé la realiz-zazione, l’organizzazione della società futura. In questo modoil capo laboratorio, se è pronto a fare la rivoluzione, non è prontoa fare qualsiasi rivoluzione. Se anima l’insurrezione del novem-bre 1831, non partecipa allo stesso modo alla rivoluzione politi-ca del febbraio 1848, né alle giornate di giugno. A Parigi gliebanisti del faubourg Saint-Antoine non interverranno che 48ore dopo l’inizio dell’insurrezione (53). Il fatto è che per questicapi laboratorio una rivoluzione autentica non può essere néuna collusione con le classi possidenti, né una insurrezionepolitica, né una sommossa della fame, ma l’azione di organizza-zione di condizioni di esistenza, azione posta dai produttori stes-si, realizzando la loro “emancipazione” in questa creazione.

La rivoluzione anarchica non può essere quindi fatta chedai produttori. Come Proudhon non cesserà di ripetere duran-te la rivoluzione del 1848, è radicalmente impossibile che l’anar-chia sia realizzata da una decisione dello Stato. È possibile cheuna società comunista sia istituita da una rivoluzione “dall’alto”poiché deve realizzare la sottomissione degli individui e la lorointegrazione in una forma unica (54). Al contrario una societàanarchica che liberi la pluralità delle volontà individuali non puòessere realizzata che “dal basso”… “per iniziativa delle masse” (55).Non può dunque essere realizzata dalla forza irriflessiva di unafolla provvisoriamente unificata in un’integrazione parossistica.Non può essere realizzata che “dall’istinto” popolare: essa esige “ilconcerto” dei lavoratori, la loro ragione e le loro esperienze, comeesige da parte loro la consapevolezza della loro azione. Essa deverealizzarsi senza leader poiché il produttore non saprebbe sotto-

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mettersi volontariamente a profitto di un capo o, come diceProudhon, di un “idolo”. Il culto del capo può convenire ad unaplebe alienata, non può trovare posto in una società anarchica (56) (57).

Il termine rivoluzione non designa dunque solo quel mo-mento eccezionale in cui l’insurrezione riesce a distruggere l’an-tico edificio sociale. Quando i mutualisti cominciano la rige-nerazione della fabbrica hanno la certezza, non di annunciareuna rivoluzione, ma di realizzarla secondo la propria scala. CosìProudhon parlerà a volte della rivoluzione breve ed ecceziona-le, a volte di quel “movimento più profondo” che può durarepiù decenni, se non più secoli, e con il quale si realizzerebberola giustizia e la libertà. Allo stesso modo non è contraddittorioche possano alternarsi delle formule di estrema violenza e delleriflessioni caratterizzate dalla moderazione; allo stesso modo imutualisti partecipano alle lotte sanguinose delle insurrezioni,poi utilizzano un linguaggio ponderato per commentare la loroorganizzazione. Proudhon lancia virulente invettive contro gliostacoli all’avvento dell’anarchia, poi ragiona come un conta-bile del registro del dare e dell’avere nelle economie mutua-listiche. I due discorsi non possono essere dissociati, essi si chia-riscono l’un l’altro come l’atto d’instaurazione risponde allacritica e la chiarisce. Per i mutualisti come per Proudhon, l’anar-chia è contemporaneamente distruzione, critica e affermazione.La negazione mutualistica o proudhoniana verterà sia sul capi-tale, sullo Stato e sulla religione e comporterà dei caratteri si-mili: la denuncia di questi tre “sistemi” come i tre poteri socialie la loro assimilazione in un rapporto di analogia. Senza dub-bio la critica teorica e la critica pratica vertono prima di tuttosull’appropriazione capitalista; la priorità di questo problemain Proudhon risponde alla priorità di questa preoccupazionenell’associazione operaia. Ma se questo rifiuto è in primo luogoeconomico, esso si iscrive anche in un conflitto di potere con ifabbricanti. Le formule valorizzanti che utilizzano gli operai perdesignare la loro associazione esprimono bene la loro volontàdi legittimare la loro azione ai propri occhi e contro la volontàdegli imprenditori. Si tratta per loro, più ancora che per i lorocompagni, di sfuggire all’autorità dei fabbricanti e di riprende-re il controllo della loro attività. Nella misura in cui essi restanodetentori dei loro mezzi di produzione e abituati a gestire leloro piccole imprese, si sono impegnati in un conflitto di auto-rità con i loro datori di lavoro, desiderosi di negare l’autoritàche li domina. Quando Proudhon denuncerà il furto proprie-tario, non mancherà di fare anche dell’imprenditore un potere

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che una società anarchica dovrebbe annullare. In questo sensola lotta economica implica già una lotta politica.

E la stessa negazione anarchica dello Stato, se è anchelotta contro le classi dominanti, è prima di tutto una lotta con-tro l’autorità esterna o, nel vocabolario di Proudhon, contro ilpotere “trascendentale”. Infatti la storia del Mutualismo fa ap-parire, almeno alle origini del movimento, una profonda indif-ferenza alla vita politica e una singolare tolleranza della plurali-tà delle opinioni. Pierre Charnier ha delle simpatie carliste, ilcapo laboratorio Jacques Lacombe è il capo dei Volontaires duRhône e i fondatori scrivono nel loro statuto l’interdizione dellediscussioni politiche e religiose. Ma questa apparente indiffe-renza che si ritroverà nel tono irrispettoso di Proudhon verso ilpotere, rivela il suo significato durante l’insurrezione, sia che gliinsorti mettano agli arresti i rappresentanti del governo, come ilprefetto Bouvier-Dumolard nel novembre 1831, sia che caccinodal Comune lo stato maggiore repubblicano. Essi temono in effet-ti di vedersi defraudati della loro vittoria e che di nuovo un’autori-tà esterna venga ad imporre una volontà diversa dalla loro. Daquesto punto di vista in effetti tutti i poteri sono equivalenti:Proudhon riprenderà questo movimento di pensiero dicendo chela restituzione della libertà ai produttori passa attraverso la distru-zione di ogni governo e che di fronte alla rivendicazione operaiaall’autonomia ogni Stato è oppressore e assolutista. Senza dubbioqueste formule sono un limite nel suo pensiero, ma esse sono unmomento necessario e non superato poiché è a partire da questorifiuto assoluto che dovrà porsi il problema dei centralismi nellasocietà federata. Suffragio universale, democrazia sono dei termi-ni che devono essere sospettati e criticati. Deve dunque esserestabilita un’assimilazione tra il capitale e il potere politico. Comedicevano i capi laboratorio, che situavano i nuovi poteri nei loro“depositi”, il principio d’autorità non è semplicemente incar-nato dallo Stato o, come si diceva allora, dal Ministero, è analogi-camente presente nella proprietà. Agli occhi di Proudhon, comeagli occhi dei mutualisti che vedono i poteri pubblici prendereil partito dei fabbricanti, il capitale ed il governo non sono chedue aspetti complementari della stessa oppressione. Come scri-ve nel Système des contradictions économiques:

Il problema consiste dunque per le classi lavoratrici…, nel vincere con-temporaneamente il potere ed il monopolio.

Questa assimilazione si estende, e per le stesse ragioni, alla reli-

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gione e più esattamente alla Chiesa cattolica. Prima di esserediscussa nei suoi principi teorici, essa è rifiutata in quanto pote-re, in quanto autorità che sfuggirebbe al controllo degli operaiassociati. Senza dubbio uno studio delle “influenze” non potreb-be trascurare l’apporto teorico della critica razionalista e dellamassoneria sul pensiero proudhoniano e sul pensiero operaiolionese, ma l’atteggiamento dei mutualisti di fronte alla religioneesprime prima di tutto la loro volontà di autonomia in rapportoad una forza sociale. Essi escludono dalle loro riunioni, allo stessomodo, le discussioni politiche e le discussioni religiose, ricusanocosì ogni ingerenza del politico e del religioso. Come Proudhon,rimproverano alla religione di non essere fedele ai principi gene-rali del Vangelo e di entrare in conflitto sociale con le loro esigen-ze. Questa critica sociale della religione costituisce a questo titoloun momento essenziale del pensiero dei mutualisti nella misurastessa in cui essa è più anticlericale che antireligiosa. È proprio aproposito della religione che i mutualisti si dicono anarchici; comescrivono nel marzo 1834 nella loro risposta alla lettera del deputa-to Charles Dupin, se si considerano “anarchici” è proprio in ragio-ne del ruolo sociale della Chiesa che, invece di entrare in conflittocon i poteri oppressivi, partecipa direttamente e analogicamentea questa oppressione (58).

L’anarchismo sarà in questo triplice rifiuto pensato unita-riamente. Il pensiero di Proudhon, come il pensiero e la praticadei mutualisti, opera una totalizzazione delle autorità e le rifiu-ta in uno stesso movimento. Come scrive Proudhon, riprenden-do questa sintesi pratica: il movimento operaio deve scartare esostituire ogni trascendenza e realizzare a tutti i livelli della re-altà sociale la filosofia dell’immanenza (59). Ma questo movimentodi rifiuto e di sfida non può in nessun modo dissociarsi dall’af-fermazione che la giustifichi: la possibilità per i produttori diassumere integralmente l’organizzazione e la gestione dellaproduzione. I contemporanei che considerassero solo le nega-zioni di Proudhon e, in particolare, il suo ateismo non potreb-bero vedere in lui che uno spirito sedizioso accanito nello sfida-re e nel distruggere, portando solo disordine e violenza. Ora,nel suo pensiero che prende per modello e per argomento leorganizzazioni operaie, l’anarchismo designa positivamente unagire operaio, un’organizzazione spontanea della quale biso-gna scoprire e promuovere i caratteri propri. Il lavoro si organiz-za, cioè i produttori, come i mutualisti lionesi, non aspettanoda un governo il piano razionale della loro organizzazione, cre-ano essi stessi liberamente una organizzazione contrattuale e

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mobile nella quale alienano la loro libertà soltanto nei limitidella loro scelta. È in ragione di questi fatti e di queste poten-zialità effettive che vi sarà modo di combattere non soltantol’usurpazione politica, ma anche i tentativi dei socialisti autori-tari che pretendono di “organizzare il lavoro” con un potere“tutelare”, cioè di sottomettere i produttori ad una nuova costri-zione esterna. Nessun gruppo particolare potrà dunque arrogarsi,con il pretesto della razionalità, il diritto di dirigere le forze econo-miche. Proudhon può riprendere l’espressione di Saint-Simonsecondo la quale il regime industriale sostituirebbe al governo dellepersone l’amministrazione delle cose, ma eliminando l’ambiguitàdi questa formula. L’amministrazione delle cose poteva in effettiessere rimessa non ai lavoratori, ma a degli esperti o dei capi d’in-dustria detentori delle capacità e incaricati di gestire ragionevol-mente l’economia per il bene dei suoi esecutori. Ora la ragioneoppure la scienza intesa in questo modo possono ricostituire, comeindica Proudhon in De la justicie, un nuovo dispotismo: la ragionenon appartiene a una saggezza trascendentale, essa non ha altrolegame che l’incontro dei produttori stessi realizzando incessante-mente la “ragione collettiva” (60).

L’organizzazione spontanea degli operai presentava, ver-so il 1840, forme troppo diverse perché il teorico potesse accet-tarle tutte. Per quanto flessibile sia il progetto proudhoniano,tanto che può integrare, dopo i socialismi di scambio, le asso-ciazioni di produzione, egli rifiuta i limiti del compagnonnagealtrettanto quanto i laboratori nazionali. L’anarchismo esige,secondo il modello fornito dal Mutualismo e suscettibile di al-largamento, una concezione nuova dell’impresa, il mantenimen-to della pluralità dei poli di produzione, l’instaurazione dellaloro mutualità.

Le indicazioni di Proudhon concernenti l’impresa e lecompagnie industriali tendono ad eliminare, in seno all’impre-sa, i poteri assoluti e le gerarchie immutabili. Esse tendono aricostituire l’impresa ad immagine di un laboratorio dove sa-rebbero mantenuti tra i partecipanti rapporti di uguaglianza edi solidarietà. Le diatribe lanciate contro la scuola saint-simoniana, accusata di difendere le capacità e anche le inegua-glianze, tendono a combattere nel seno dell’impresa le gerar-chie funzionali. Come il mutualismo, e contrariamente alle at-tese di certi compagni comunisti, Proudhon non difende il prin-cipio di un salario uniforme: anzi vorrebbe al contrario che ladivisione dei benefici sia proporzionata all’impegno e alla qua-lità del lavoro fornito. Ma sottolinea che i partecipanti devono

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poter occupare successivamente diverse mansioni (61) e conser-vare così una visione globale della produzione. Qui l’aspirazio-ne più volte espressa dai rappresentanti operai alla formazionedi una migliore conoscenza della loro professionalità si trovaripetuta e sistematizzata in Proudhon. Con un’educazione nel-la quale la formazione intellettuale completerebbe incessante-mente l’apprendistato, nella quale sarebbe superato il contra-sto sociale tra le formazioni manuali ed intellettuali (62), il pro-duttore sarebbe in grado di occupare tutte le funzioni in senoall’impresa. Di nuovo, sul piano dell’insegnamento, il progettoproudhoniano risponde alla volontà operaia di distruggerel’esteriorità dei poteri come le ineguaglianze di classe e di resti-tuire ad ognuno il diritto di partecipare in modo egualitarioalle decisioni dell’impresa. Rifiutando il modello di una strettadivisione del lavoro e di una specializzazione delle funzioni chevenivano proposte dalle grandi manifatture, Proudhon difen-de il modello del laboratorio con la sua socialità particolare e lasua relativa uguaglianza. Come precisa meglio nell’Idée généralede la Révolution, la riforma dell’impresa industriale deve permet-tere ad ogni partecipante di intervenire nelle decisioni colletti-ve e di prendere parte al “consiglio”. Così come i capi laborato-rio, egli non manifesta un eccessivo interesse per i ritmi di ac-crescimento della produzione, considerando che questa orga-nizzazione deve anche assicurare uno sviluppo migliore, ma in-sistendo molto più sulla natura dei rapporti sociali e dei rap-porti di autorità in seno all’impresa (63).

Allo stesso modo, ispirandosi alla pluralità dei laboratori,Proudhon pone come condizione per il mantenimento dellelibertà, la struttura pluralistica delle forme economiche. Per luicome per questi capi laboratorio lionesi che vedevano costrui-re a La Saurvagère uno stabilimento raggruppante, nel 1830,seicento operai che lavoravano su 250 mestieri, la concentra-zione industriale era un pericolo imminente. Proudhon denun-cerà su questo argomento, non soltanto i “monopoli”, fonte didisoccupazione e sfruttamento, ma tutte le forme di associazio-ne nelle quali egli crederà di scoprire qualche limitazione allalibertà. È che in effetti, ai suoi occhi, il mutualismo ha già ap-portato, al problema dibattuto dell’associazione, la risposta pra-tica che tende a risolvere i mali provocati dal disordine econo-mico, mantenendo la relativa indipendenza dei centri di pro-duzione. Il pluralismo delle imprese si iscrive così come un ele-mento necessario dell’anarchia positiva. È precisamente condelle relazioni stabilite tra gruppi distinti che si realizzerà quel-

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l’equilibrio che non poteva introdurre l’autorità dei proprietari.Riprendendo questo modello, Proudhon doveva dunque met-tere al centro della sua riflessione il problema dello scambio e,come si propone sin dal 1845 (64), l’instaurazione degli scambiegualitari. A differenza dei compagni che concepivano la loroUnione come dei gruppi di difesa contro il padronato, a diffe-renza delle associazioni di produzione che si preoccupavano dicreare dei nuovi centri di produzione, i mutualisti avevano im-mediatamente affrontato il problema degli scambi e tentato dirisolvere le loro difficoltà con la creazione di un nuovo tipo dirapporto tra i centri di produzione. Come i capi laboratorio, eallargando le loro innovazioni, Proudhon avrà la sensazione discoprire in questi liberi contratti, radicalmente opposti al Con-tratto sociale del quale farà il simbolo della dimissione politica, ifondamenti di una società economica autonoma. Marx nonmancherà di ridicolizzare i progetti degli operai proudhonianisul riconoscimento del giusto prezzo e sull’importanza del cre-dito gratuito. Ma per il capo laboratorio che conosce i tempidel lavoro e che ha bisogno di un credito poco oneroso perrealizzare e sviluppare le sue attrezzature, queste nozioni han-no un senso preciso e nello stesso tempo hanno un valore diesempio per l’edificazione sociale. Come dice Proudhon, ripren-dendo la loro pratica e la loro preoccupazione, il rivoluziona-rio è anche un contabile che sa scoprire l’errore nei conti del capi-talismo e che può pensare all’equilibrio delle forze economi-che secondo le regole del dare e dell’avere.

L’anarchismo, al momento in cui Proudhon lo formula,non è dunque in alcun modo un’utopia. L’estrema fiducia cheProudhon manifesta trova la sua giustificazione nel suo gradodi fedeltà ad una pratica effettivamente realizzata. Egli esprimeuna pratica già strutturata che, nel 1840, non ha soltanto messoalla prova la resistenza e le sue possibilità di durata, ma ha di-mostrato anche le sue potenzialità insurrezionali. Se, come diceProudhon commentando l’elezione di massa di Luigi Bonaparte,un popolo può agire secondo i “suoi sogni” (65), egli può pensa-re, al contrario, sviluppando i suoi temi anarchici, che esprimefedelmente una “società reale” che si organizza al di là dei falsipoteri. E poiché queste potenzialità restano sconosciute o com-battute dalle forze contrarie, il teorico dovrà difenderle al suoposto secondo i propri mezzi.

L’integrazione di questo anarchismo, che Proudhon espo-ne soprattutto durante la rivoluzione del 1848, in un federalismoindustriale e politico, sembra ubbidire soprattutto allo sviluppo

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logico di un sistema. Se è importante al fine di rispettare l’auto-nomia dei gruppi produttori e di esorcizzare i poteri unitari,bisogna condurre questi principi fino al loro termine e distrug-gere la struttura napoleonica dello Stato. Comunque anche quil’ipotesi di una grande conformità del pensiero proudhonianonell’ambiente degli operai setaioli può essere confermata. Ben-ché la teoria politica federalista sia potuta pervenire a Proudhonda altre fonti, bisogna notare anche che era stata politicamenteesposta a Lione durante l’insurrezione del novembre 1831 cheaveva suscitato tra le autorità lo stesso scandalo del federalismoproudhoniano trent’anni più tardi. Il 23 novembre, all’Hotelde Ville, i capi dei Volontaires du Rhône, istigati da Pérenon, redi-gono un manifesto in cui, ricusando le autorità legali, invitanola popolazione lionese a eleggere un’assemblea regionale desti-nata a rimpiazzare la municipalità e il potere prefettizio. Essoaffermava:

Lione avrà i suoi comizi, o assemblee primarie generali; i bisogni delpopolo provinciale saranno finalmente ascoltati e una nuova guardiacivile sarà organizzata; niente più ciarlatanismo ministeriale per im-porceli(66).

Nello spirito dei redattori, ogni corporazione e, in particolare,le corporazioni operaie, dovevano nominare i loro delegati alle as-semblee primarie realizzando così una rappresentanza profes-sionale operaia a livello regionale. Essi prevedevano d’altra par-te l’organizzazione delle corporazioni di stato, d’arte e mestieri, nelseno delle corporazioni provinciali depositarie della propria so-vranità. Le autorità legittime non mancarono di vedere in que-sta proclamazione una “provocazione criminale” e “il manife-sto dei rivoltosi” (67). Quali che siano i dettagli e le divergenze traqueste linee e il federalismo proudhoniano, è rimarchevole che leidee di base, la distruzione della centralizzazione politica, la plura-lità delle sovranità, la rappresentanza operaia, fossero state formu-late così a Lione, in un momento in cui la libertà d’espressione eraprovvisoriamente acquisita. In questo modo alcuni temi cari ailegittimisti potevano pervenire a Proudhon, stabilendo così unacerta continuità tra le strutture mentali anteriori alla grande Rivo-luzione e il pensiero proudhoniano.

Al di là delle prime definizioni dell’anarchismo limitateall’organizzazione delle forze economiche, Proudhon perveni-va nel 1862 a sistematizzare le tendenze federaliste degli operailionesi, a elaborare una nuova concezione dello spazio politico

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che confermava trasponendolo sul piano politico-economico,quello spazio sociale e pluralista che avevano creato tra loro icapi laboratorio.

5. - La creazione proudhoniana

Se la fecondità di un’ipotesi può essere verificata dal suomargine di errore, dobbiamo applicare questa regola all’ipote-si che abbiamo proposto e verificare in che misura essa si appli-ca agli scritti di Proudhon che non concernono direttamente lafilosofia politica. La nostra ipotesi ci sembra rendere conto ade-guatamente del progetto anarchico e federalista, della conce-zione degli equilibri economici, della teoria della rivoluzione,ma non rende conto allo stesso modo di tutte le proposte diProudhon, nemmeno di quelle che non può spiegare intera-mente l’atto di creazione di un genio particolare.

Non sapremmo considerare, ad esempio, i lavori econo-mici di Proudhon come il semplice riflesso di una struttura so-ciale operaia. Se il Système des contradictions économiques è costru-ito, come abbiamo cercato di dimostrare, a partire da una per-cezione operaia dell’esteriorità del sistema capitalistico e dallaconoscenza dello sfruttamento, esso si sviluppa appoggiandosisu una vasta informazione tratta all’esterno dell’esperienza pri-mitiva. Proudhon partecipa così a più culture, utilizza una in-formazione fornita dalla “scienza borghese” e cerca di conte-starla a partire dalla classe della quale si fa portavoce. Allo stes-so modo cerca anche di utilizzare gli schemi della logicahegeliana per giustificare le proprie strutture logiche. Così nonsapremmo sostenere senza altra precisazione che il pensieroproudhoniano si trovi “determinato” dalla sua partecipazioneall’ambiente degli artigiani salariati come se la conoscenza diqueste omologie potesse darci tutte le chiavi dell’opera. In modopiù valido potremmo trovare qui la creazione proudhonianache funziona a partire da un insieme di intuizioni fortementecoerenti e si prolunga con l’assimilazione polemica di una cul-tura scientifica proveniente da un altro ambiente sociale. Que-sto tipo di invenzione si manifesta così chiaramente nelle PremierMémoire dove Proudhon getta all’inizio, come una sfida, l’intui-zione operaia del furto capitalista, analizza brevemente il suomeccanismo, poi espone per confutarli gli argomenti sviluppa-ti dagli ambienti conservatori. L’ipotesi sociologica mette quiin rilievo non la totalità dei ragionamenti, ma le certezze inizia-

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li che delimitano in seno alla riflessione la verità e l’errore, il “re-ale”, cioè la giustizia e la mutualità, e l’aberrante.

L’ipotesi si rivela, d’altra parte, più o meno valida a se-conda delle opere considerate. Essa ha il suo massimo di utilitàper comprendere scritti come Solution ou problème social e De lacapacité politique des classes ouvrières che hanno come scopo ditratteggiare gli schemi della società mutualistica, ma la suafecondità è tanto più limitata quanto più Proudon si discostadalle discussioni socio-politiche. Essa mostra una netta separa-zione fra i lavori anteriori al 1840 e tutte le altre opere. I primiscritti di Proudhon, Essai de grammaire générale e De la célébrationdu dimanche, sfuggono in larga misura alla nostra spiegazione.Tutto avviene come se, in queste opere giovanili, Proudhon ab-bordasse dei soggetti che gli erano imposti, i problemi di lin-guistica, la pratica domenicale, e come se scoprisse se stesso eassumesse la sua condizione sociale solo con la sua critica dellaproprietà. Al di là di questa data l’unità tematica manifestaun’unità tanto forte quanto nell’ultima opera, De la capacité, ri-prende e arricchisce i temi fondamentali tracciati nel 1840.

L’importante opera dedicata alla guerra, La guerre et lapaix, è solo parzialmente chiarita dall’ipotesi che abbiamo svi-luppato. Si può suggerire che le premesse sono tratte da questeintuizioni fondamentali delle quali la sociologia può rendereconto: avendo affermato l’immanenza del diritto nella realtàsociale, Proudhon doveva logicamente concludere che il fattoera creatore di un diritto e così la vittoria era storicamenteinstauratrice di un diritto riconosciuto. Ma non potremmo sen-za arbitrio sostenere che questa intuizione imponeva a Proudhondi sviluppare tutte le sue conseguenze. Più validamente dobbia-mo pensare che le circostanze particolari, l’esilio, lo spettacolodelle guerre internazionali, vennero a sollecitare la sua rifles-sione in una direzione nuova. La sociologia della conoscenzanon potrebbe rimpiazzare qui la ricerca attenta delle condizio-ni biografiche o congiunturali.

Si vede meglio così che la nostra ipotesi pretende racchiu-dere solo le grandi linee di una struttura mentale: essa tenta difar apparire, in riferimento a una struttura sociale e a una pra-tica di classe, la logica di un pensiero e la coerenza dei temiessenziali. Essa permette di separare gli sviluppi secondari e leossessioni permanenti, le condizioni generali della creazione,senza pretendere di rendere conto allo stesso modo di tutti isuoi sviluppi. Bisognerebbe cercare in campi particolari, qualila filosofia morale, l’estetica e i giudizi, così spesso critici, di

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Proudhon sulle donne, l’apporto e i limiti della nostra ipotesi.

La filosofia. – L’importanza estrema data alla morale, allaformulazione delle norme che dovranno essere interiorizzate erealizzate, risponde ad esigenze coscientemente espresse negliambienti sociali che servono da modello alla creazione prou-dhoniana. Gli statuti delle società di mutuo soccorso e di altreassociazioni non mancano mai di comportare delle formulemorali che esprimano il significato dei fini perseguiti. Questiassociati o questi societari sono in effetti impegnati in un’azio-ne autonoma e provano fortemente il bisogno di giustificare laloro impresa e di formularne le norme. Più ancora per questimutualisti che agiscono al di fuori della società ufficiale, al difuori delle regole dettate dalla religione, che devono nascon-dersi dai fabbricanti e, in una certa misura, diffidare dei compa-gni, importa opporre ai linguaggi tradizionali una valorizzazionedella propria azione. Pierre Charnier non manca, per esempio,tracciando il piano del primo Mutualismo, di esaltare “la giusti-zia” e “la purezza dei principi originali” (68). Proudhon sentiràvivamente che l’azione dell’organizzazione economica, cosìcome la concepisce, esige in effetti l’adozione di atteggiamentinettamente differenziati dai modelli diffusi negli altri gruppisociali. Se ogni produttore deve assumere la sua libertà econo-mica, se non può aver fiducia né in un potere politico che assi-curerebbe la razionalità, né in una potenza economica esterna,né nelle autorità religiose, importa in effetti che siano formula-te e diffuse delle norme di tipo nuovo. Come per questimutualisti, la rivendicazione delle responsabilità va di pari pas-so con una forte inventiva delle regole e con una fortevalorizzazione di queste norme e, poiché la Chiesa è il simbolodell’antica morale, è contro di essa che saranno dirette le nuo-ve formulazioni.

Il grande libro di Proudhon, De la justice dans la Révolutionet dans l’Eglise, esprime nelle sue intuizioni generali questa in-tenzione collettiva. L’antinomia della Chiesa e della Rivoluzio-ne sottolinea la certezza di dover ricostruire interamente l’edi-ficio dei valori morali e di opporsi termine a termine alle mora-li giustificatrici dell’antico ordine delle cose. Come il mutualistaha la sensazione di reinventare la sua morale in funzione delsuo essere e della sua pratica, Proudhon mette al centro del suolibro, dopo aver denunciato secondo la trilogia abituale la reli-gione, lo Stato e la proprietà, il valore fondamentale del lavoro,fonte e fondamento della giustizia. L’esigenza primaria di di-

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gnità, l’orrore per l’asservimento e l’avvilimento, che ritorna-no come un leitmotiv in tutte le associazioni operaie, si esprimo-no nell’esaltazione proudhoniana del lavoro e del lavoratore.Alla dichiarazione dei mutualisti:

Se non vogliamo diventare completamente schiavi o essere interamenteasserviti, abbiamo bisogno di assemblee e poi di una associazione (69),

risponde la dimostrazione proudhoniana secondo la quale lamoralità e la dignità non si realizzano che in rapporti egualitarie nelle associazioni dei lavori. Allo stesso modo questa partico-lare gravità, che fa a volte di Proudhon un severo moralista,esprime bene l’ethos degli artigiani responsabili che non sepa-rano la coscienza dei loro doveri dalla rivendicazione dei lorodiritti. Al contrario dei compagni, che possono essere portati dauna parte a privilegiare le loro rivendicazioni, dall’altra a venirmeno alle loro responsabilità confidando nelle autorità religio-se, questi capi laboratorio non acconsentono ad abbandonarené i loro diritti né i loro obblighi. Charnier prevede, per esem-pio, che saranno esclusi dal Mutualismo quelli che ruberannosul peso, quelli che falsificheranno le mercanzie,

quelli che si renderanno colpevoli di frodi verso i loro compagni o ap-prendisti, modificando i prezzi del fatturato o con falsi sconti (70).

Perché questi artigiani conservino una reale autonomia e sianoautori della loro gestione essi devono interiorizzare le loro regolee formularne il codice. Per quanto esplicativi possano esserequesti riavvicinamenti essi non possono fornirci la completa co-noscenza di questi sviluppi. Piuttosto, essi sottolineano le carat-teristiche della creazione di Proudhon che, riprendendo que-ste aspirazioni, le traspone in una totalità intellettuale con lapretesa di essere universale. Non si può ottenere quest’insiemeteorico con la semplice ridondanza del linguaggio operaio. L’am-bizione di Proudhon è di sintetizzare le aspirazioni frammentariein una somma teorica abbastanza estesa per poter essere opposta,come una Bibbia, al corpo del pensiero teologico. E da questomomento un’opera dovrà essere scritta per dibattere non piùdelle riforme economiche e politiche, ma dei principi fondamen-tali dell’Essere e della conoscenza. Proudhon si propone alloracoscientemente di creare, come egli dice, una filosofia popolare, de-stinata a modificare l’immaginario sociale e ad estirpare dagli spi-riti gli antichi modi di pensare. Si tratta “dell’avvento del popolo

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alla filosofia” e, più esattamente, di far addivenire il popolo allafilosofia. Senza dubbio, riprendendo il termine giustizia,Proudhon è cosciente di ripetere una parola più volte ripetutanei discorsi operai, ma egli pensa anche che un sistema filosofi-co capace di sostituirsi alla religione nel pensiero popolare habisogno di un concetto che sintetizzi la totalità del sistema. Bi-sogna dunque che questo concetto trasponga, sacralizzandola,la pratica culminante. Bisogna ancora che si eriga a regola su-prema e possa essere un mezzo d’azione per dominare gli even-tuali conflitti. Il concetto di giustizia risponde a queste inten-zioni. Assimilando al valore supremo i rapporti di eguaglianzae di scambio, Proudhon sacralizza l’atto della produzione e eri-ge l’atto del mutualismo a criterio del bene. La lotta fatta con-tro tutte le forme di trascendenza si giustifica pienamente inquesta visione rivoluzionaria; importa, per valorizzare radical-mente l’atto del produttore, abbattere il dogma della trascen-denza, sradicare la paura degli uomini di fronte a un qualcosa“al di sopra” di se stessi. Importa non di profanare il sacro, madi sacralizzare il profano, di rapportare tutte le attività sociali alfondamento sacro che sarà la giustizia, cioè l’insieme dei rap-porti e delle azioni imparziali. Nello stesso tempo la giustiziasarà eretta a principio regolatore, essa servirà da modello perregolare la vita di gruppo: allo stesso modo in cui la religione ela sua filosofia della trascendenza servivano da modello ad unasocietà non egualitaria e gerarchizzata, la giustizia e la filosofiadell’immanenza serviranno da paradigma ad una società egua-litaria. Da questo momento potranno essere utilizzate espres-sioni che evocano apparentemente una filosofia innocentemen-te spiritualista; sarà possibile scrivere che “la giustizia… gover-na il mondo” (71) a condizione che si precisi che la giustizia nonè una rappresentazione, ma la forma stessa dei rapporti sociali.

Il fine della creazione filosofica sarà dunque di partecipa-re ad un’azione sociale sovvertendo i valori dell’antica società.Questo fine non sarà raggiunto finché la critica non raggiungal’integrità dei valori e disegni un’immagine integrale dell’esi-stenza futura. Bisognerà definire ed esaltare un nuovo tipo dicomunicazione tra gli uomini, un nuovo rapporto rispetto almondo, una nuova relazione con la cultura, definire una nuovaimmagine dell’uomo. I capitoli dedicati al matrimonio, all’amo-re, all’atteggiamento dell’uomo di fronte alla morte, esprimo-no questa intenzione di rispondere alla totalità delle questioniumane e di costituire un modello dell’essere “totale”. In questacreazione Proudhon fa più che riprendere le pratiche operaie,

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legittimandole, egli tende a dare loro un valore universale pren-dendo per modello la tradizione religiosa e la sua vocazioneall’universalità.

L’arte. – Delle riflessioni analoghe devono essere fatte at-torno all’estetica di Proudhon. L’approccio sociologico cheabbiamo proposto non potrebbe spiegare sufficientemente leteorie estetiche e le conoscenze di storia dell’arte oggetto dePrincipe de l’art (72). Il contenuto storico di queste riflessioni nonpuò fare riferimento diretto al gruppo sociale del quale Prou-dhon si fa espressione: tracciando l’evoluzione delle arti plasti-che dall’arte egiziana, non fa che riprendere gli elementi diuna cultura artistica organizzata al di fuori delle classi operaie.Comunque le grandi linee della sua teoria sembrano dover es-sere riportate ancora a questo ethos del quale troviamo gli ele-menti nel suo ambiente sociale e nella sua volontà di legittimar-lo in tutti gli ambiti dell’esistenza.

Le ragioni per scrivere un’opera sull’arte, quando Prou-dhon è cosciente di mancare di informazioni su questo argomen-to (73), attengono meno alla sua vanità che alla certezza di dovercondurre anche qui una lotta politica e sociale. Portatore di un’eticaparticolare, egli ha il sentimento di dover dire su questo argomen-to ciò che non è stato mai detto dalle altre classi sociali, di doveresprimere esigenze che devono essere quelle dei produttori. Nel-lo stesso tempo egli legittima un’esigenza di appropriazione di ungruppo sociale contro dei gruppi rivali. Le critiche negative pun-teranno contro tutte le scuole i cui temi e i cui stili saranno incontraddizione con i valori operai. In pittura l’arte classica di Davido di Ingres come le opere di scene militari di Horace Vernet saran-no ricusate in nome della stessa esigenza di comunicazione. Comescrive lucidamente Proudhon:

Tocca a noi profani, gente dal lavoro servile… fare la scomposizionedell’arte… (74),

ora questi temi classici, così come i soggetti religiosi o militari,sono perfettamente esterni all’ethos operaio e non saprebbero ri-spondere alla sua attesa. Proudhon ricusa con non meno violenzala scuola romantica e il lirismo di Delacroix: il vero artista nondeve imporre le sue fantasie soggettive.

Ciò che noi chiediamo loro, non sono le loro impressioni personali,sono le nostre (75),

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e poiché i valori reali sono i valori sociali di giustizia e di equità,ogni compiacimento nell’idealizzazione dei valori soggettivi saràsospetto. Per le stesse ragioni la dottrina dell’arte per l’arte saràrespinta con orrore poiché in effetti nella sua formulazione essaafferma la totale indipendenza dell’artista in rapporto alle classisociali e si oppone antiteticamente all’esigenza di appropriazioneproudhoniana.

L’arte deve avere per obiettivo, ripete Proudhon, di espri-mere i valori supremi di una società ed è vera ed autentica sol-tanto quando è realmente in accordo profondo con la sua epo-ca. In altri termini, l’arte moderna deve in primo luogo offrireagli uomini un’immagine fedele di se stessi, uno specchio del-l’umanità reale; la funzione prima dell’arte sarà di dipingere larealtà sociale nella sua diversità e nella sua autenticità. L’entu-siasmo di Proudhon per le opere di Courbet esprime la scoper-ta di una pittura che risponde a questi principi e più ancora lagioia di una riconciliazione con la creazione artistica. Nella pit-tura classica e romantica, Proudhon percepisce un universo stra-niero che minaccia i suoi valori: nella pittura di Courbet eglitrova, al contrario, un improvviso adeguamento tra il suo uni-verso e quello dell’arte. Si entusiasma, davanti all’Enterrement àOrnans (76), nel ritrovare, con un’intensità brutale, l’immaginedi un mondo reale, familiare, le cui caratteristiche sono magni-ficate e giustificate dalla creazione dell’artista. Dal realismo, lavita quotidiana accede alla giustificazione.

Nello stesso tempo, come quegli artigiani ansiosi di di-fendere il loro statuto con una morale, Proudhon esige dall’ar-te che assolva un obbligo sociale ed esalti i valori della giustizia.L’opera più apprezzata sarà quella che potrà esprimere violen-temente la realtà sociale, denunciare le sue tare ed evocare quin-di un ideale da realizzare. Les casseurs de pierres di Courbet, illu-stra questa concezione; il dipinto esprime l’esatta realtà dellamiseria, denuncia nello stesso tempo un’ingiustizia sociale e re-alizza così una “pittura socialista” (77). L’attesa operaia si trovasoddisfatta ed esige di riconoscersi nel mondo dell’arte e di ri-conciliare la creazione artistica con la sua volontà politica. L’ar-te così concepita sarà sia un’adesione alla realtà sociale che unatto rivoluzionario (78).

La condizione femminile. – I pregiudizi di Proudhon con-tro l’emancipazione delle donne possono servire a mettere inevidenza gli errori di una sociologia della conoscenza. Si vedebene su questo esempio come un altro tipo di spiegazione, da

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tutt’altro punto di vista, porterebbe maggiore chiarezza e per-metterebbe una comprensione più approfondita. Un approc-cio psicanalitico ritroverebbe senza dubbio nell’infanzia diProudhon un attaccamento particolarmente vivo a sua madre,legato ad un certo eclissarsi della figura del padre nella costel-lazione familiare. Esso farebbe verosimilmente apparire unacerta ripugnanza verso la sessualità, confermata dal matrimo-nio tardivo e ragionato di Proudhon e forse, come pertinente-mente qualcuno ha suggerito, da una tendenza latente all’omo-sessualità (79). Una lettura psicanalitica inviterebbe a situare que-sto antifemminismo in una struttura intellettualmente più am-pia, dove l’orrore fondamentale della castrazione si ripetereb-be a tutti i livelli della sua riflessione nell’orrore di tutte le auto-rità e di tutti gli esseri viventi. Si spiegherebbe così la frequenzadi immagini sessuali nell’opera di Proudhon, l’orrore, per esem-pio, della prostituzione, ed è proprio per questo che l’emancipa-zione della donna possa essere stata sentita come una minaccia.Comunque, l’approccio sociologico o socio-psicologico non man-ca di portare, anche qui, l’indispensabile complemento. Perquanto personale sia l’atteggiamento di Proudhon su questoargomento, è completamente comprensibile se riferito agli ana-loghi atteggiamenti che si manifestavano allora nelle classi ope-raie. La concorrenza tra gli uomini e le donne sul mercato dellavoro, il super sfruttamento del lavoro femminile e la degradazio-ne fisica che comportava non mancavano di suscitare delle de-nuncie del lavoro femminile, nella speranza di vedere la donnasfuggire a questi obblighi. Più profondamente, l’immagine tradi-zionale della madre, guardiana del focolare, non aveva ancora persola sua potenza e Proudhon, riprendendo questa immagine, mani-festa soprattutto un’assenza di originalità. In mezzo a tanti altri, glistatuti del primo Mutualismo offrono un esempio di questomoralismo severo, alleato di un antifemminismo convinto che siripete nell’opera di Proudhon. Secondo il regolamento adottatonel 1828, sono ammessi soltanto i

capi laboratorio… di una probità irreprensibile, sposati, di buona mora-lità, promossi mutualisti e conformi ai propri doveri (80)

e le donne non potevano essere ammesse nell’associazione. Nonsi potrebbe vedere in questa esclusione una semplice forma: essacorrisponde a una struttura sociale fortemente radicata che ri-mette all’uomo gli impegni di produzione e relega la donna ailavori domestici.

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Senza dubbio i problemi dell’emancipazione della don-na si trovavano allora posti. Flora Tristan aveva pubblicato nel1838 le sue Pérégrinations d’un paria, poi De l’émancipation de lafemme nel 1845, e il saint-simonismo aveva, per primo, difeso ilprincipio dell’uguaglianza dei sessi. Comunque non si può con-cludere che Proudhon abbia mancato di solidarietà, su questopunto, col movimento sociale operaio. Il movimento saint-simoniano aveva in effetti mostrato che la difesa dei diritti delladonna poteva trovare più eco nelle classi privilegiate che nelleclassi operaie. I suoi attacchi contro il divorzio, contro la libertàdella donna, per quanto singolari appaiano oggi, avevano un’in-tenzione polemica diretta contro le classi borghesi. Allo stessomodo le sue intemperanze naïves contro l’amore e la sessualità,corrispondono adeguatamente alla sua etica che si oppone alnarcisismo dell’amore e alla “privatizzazione” familiare. Se il prin-cipio del piacere deve trovare la sua realizzazione nella vita so-ciale, importa scongiurare il pericolo di vederlo realizzarsi nellavita privata: importa di ristabilire alla famiglia il principio di realtà.Questi pregiudizi rivelano anche un interrogarsi sulla possibili-tà dell’anarchismo. Tutto il movimento di critica che denunciale assise tradizionali della società, la proprietà, il potere politi-co, la religione, conduce a porre drammaticamente il proble-ma della libertà e dei controlli sociali. Proudhon cerca di di-struggere tutti i sistemi di repressione e non può trovare garan-zie all’ordine sociale né in una scienza sovrana, né in una ditta-tura popolare, né in una pretesa razionalità economica. Sin daallora il pericolo di un lassismo politico e di una incoerentelibertà morale si profila, nella problematica del proudhonismo,come uno scoglio immediato. L’anarchismo sarà dunque possi-bile solo se la costrizione è consentita da ogni individuo e se larepressione, che non può più essere esterna, è interiorizzata daogni partecipante. In opposizione allo “io debole” (81) che Prou-dhon crede di trovare nelle donne, l’anarchismo esige dai suoisoggetti un io forte, consentendo una libera autodisciplina. Cosìgli appelli alla “virtù” hanno un senso coerente che non puòessere staccato dalla volontà rivoluzionaria.

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CONCLUSIONI

La creazione proudhoniana si iscrive in quell’ampio mo-vimento operaio degli anni 1830-1848, segnato dalla proli-ferazione delle associazioni. Contemporaneamente le societàdi mutuo soccorso, le associazioni e le unioni provenienti daiDoveri dei compagni, le associazioni di consumo, poi di produ-zione, facevano pensare che le classi operaie erano entrate inun movimento di rigenerazione della vita sociale e obbligavanoa ricercare, in mezzo a queste innovazioni spontanee, quelleche rispondevano più adeguatamente ai bisogni collettivi.Proudhon si inserisce in questa problematica sociale non sol-tanto per assumerne il dinamismo, ma per chiarire un movi-mento ancora disordinato e per combattere le tendenze che glisembrano vane, utopiche o pericolose.

Noi abbiamo cercato di mostrare che la sua teorizzazione,partecipando a questo vasto movimento, corrisponde più ade-guatamente alla pratica dei setaioli lionesi, a questa Associazionedi mutualisti la cui manifestazione più violenta era stata nel 1831la direzione dell’insurrezione di novembre. Questa imputazio-ne particolare non implica in nessun modo che Proudhon si siafatto semplicemente difensore di un’organizzazione specialecondannata a rimanere il fondamento di una corporazione par-ticolare. Egli credette, non senza ragione, che le strutture ela-borate dai capi laboratorio avevano un valore universale e chenello stesso tempo questi produttori rappresentavano il model-lo tipico ideale del vero produttore.

Il richiamo dei caratteri particolari di questo statuto pro-prio dei setaioli ci permetterà di trarre il significato sociale delproudhonismo.

Questi capi laboratorio si collocano senza ambiguità nel-la categoria dei salariati. Non sono detentori di un capitale chepossa procurare loro un beneficio, non possono che vendere,secondo l’espressione formulata in quell’epoca, il loro lavorocome una mercanzia sul mercato. I fabbricanti che li utilizzano

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detengono sia i capitali che il potere di decisione. Sono loro afissare i salari dei capi laboratorio e dei compagni, decidendo ilprezzo del lavoro. Il capo laboratorio è così remunerato secon-do il sistema del salario a cottimo. Questa situazione impegnaquesti capi laboratorio in una situazione di conflitto con i fab-bricanti e, come si vedrà durante l’insurrezione, in una “guerradi classe” contro i proprietari dei capitali. La lotta intrapresa perla fissazione del tariffario è comparabile alle lotte condotte du-rante questo periodo dagli operai e compagni contro i padroniper ottenere degli aumenti di salario; i mutualisti utilizzeranno glistessi metodi: la coalizione e lo sciopero. In questo modo Proudhonpartecipa a questo movimento rivendicativo generale che si iscri-ve nella contrapposizione dei datori di lavoro e dei salariati.

Ma, allo stesso tempo, questi capi laboratorio si distinguo-no dai loro compagni e conservano una certa autonomia nel-l’organizzazione del loro lavoro. Possedendo alcuni mestieri,detentori di una specializzazione altamente qualificata, non sonointegralmente sottomessi o “alienati” a una volontà esterna. De-tengono un certo potere nella gestione e nell’organizzazionedel loro laboratorio, assumono alcuni dei loro compagni. Di fron-te al potere dei fabbricanti essi conservano una certa autono-mia, possono cambiare datori di lavoro o dipendere da più diuno, possono scegliere il loro lavoro e discuterlo. Non sono deipuri esecutori; essi intervengono, al loro posto che è limitatoma necessario, nella gestione della produzione.

Sarebbe un’illusione ridurre questo statuto sociale allasopravvivenza e vedere in questi artigiani salariati uno stratosociale in via di rapida liquidazione. Come abbiamo ricordato,questa condizione era largamente tipica della prima metà delXIX secolo e non è completamente scomparsa oggi; più anco-ra, come vedremo terminando, questa condizione doveva rin-novarsi nel seno stesso delle grandi imprese. Si sente qui la ra-gione per cui Proudhon doveva rimanere un enigma irritanteper Marx: credendo ad una sparizione totale e rapida di questaclasse operaia salariata e responsabile, Marx non poteva com-prendere un teorico che se ne faceva l’espressione; nello sche-ma del Capitale, Proudhon non ha posto e non dovrebbe, innessun modo, esistere.

Questi capi laboratorio sono impegnati in una strutturasocio-economica molto particolare. Unificati dal potere deldatore di lavoro, essi rimangono separati gli uni dagli altri erelativamente autonomi sia dal fabbricante che dai laboratorivicini. Non conoscono né l’integrazione in uno statuto identi-

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co, come gli operai della fabbrica, né la separazione degli arti-giani tradizionali. Ancor meno possono essere confusi con i“piccolo borghesi” il cui tipo sarebbe sia il funzionario dipen-dente dello Stato, sia il piccolo commerciante interessato allaformazione di un beneficio commerciale e impegnato in rap-porti di rivalità con i suoi concorrenti.

Sappiamo che questi capi laboratorio, in accordo con iloro compagni, si organizzarono sin dal 1828 secondo un model-lo la cui efficacia e resistenza dovevano confermarsi fino allafine del secolo. Questo modello si differenziava radicalmentedalle comunità dei compagni e dalle società di mutuo soccorso,senza confondersi con le associazioni di produzione. Conserva-va traccia delle società di mutuo soccorso poiché la società co-stituiva anche una rete di assicurazione e di mutua assistenza epoteva anche svolgere le funzioni che prima erano svolte daicompagni per le rivendicazioni salariali. Nello stesso tempo que-sto modello non escludeva la creazione di società di produzio-ne e si vedrà Proudhon aggiungervi questa possibilità, ma lastruttura primordiale del modello rimaneva il mutualismo o lamutualità, cioè a dire un’associazione pluralizzata di produtto-ri o di “compagnie operaie” fondata sull’uguaglianza dei con-traenti, istituendo tra loro degli scambi equi. La storia delmutualismo doveva confermare l’ambizione dei suoi fondatoridi creare una organizzazione indipendente dallo Stato e in gra-do di svilupparsi senza ricorso ai poteri pubblici. Essi ambivanoa creare una organizzazione corporativa, ma contemporaneamenteerano convinti che le strutture che istituivano erano conformi aibisogni generali e che esse rivestivano così una forma universale.Ciò facendo si impegnavano essi stessi, senza attendere gli ordinivenuti da un potere politico, in un processo di rivoluzione socialeo, secondo la loro espressione, d’emancipazione e di rigenerazione.

Importa precisare il più chiaramente possibile in che cosaProudhon può essere considerato come un’espressione di que-sta frazione particolare di classe operaia. Un autore può in ef-fetti riprendere di una classe sociale sia la sua situazione di fat-to, sia le sue aspirazioni, la sua creazione, i suoi sogni. È, peresempio, l’ipotesi di Marx a proposito dei socialismi utopici cheessi formulerebbero la compensazione immaginaria di un pro-letariato incapace di condurre il proprio destino. Allo stessomodo Proudhon indica che il bonapartismo corrisponderebbeal sogno degli operai francesi e non alla loro realtà. Questorapporto deve essere altrettanto più preciso da permettere didecidere se il proudhonismo può essere considerato un’uto-

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pia, un’ideologia o un mito politico. Se non fa che rispondereimmagi- nariamente alle contraddizioni e esprimere le vane spe-ranze di una classe, si dovrebbe sottolineare il suo margine diutopia e di illusione; se al contrario ripete, legittimandola, l’azio-ne positiva di un gruppo, importerà ritrovarne nei limiti storiciindicati il carattere pratico e realista.

La ricerca delle omologie ci ha condotto a delle conclu-sioni differenti sui rapporti del proudhonismo con le struttureeconomiche della “fabbrica collettiva”, con la pratica deimutualisti e la loro ideologia. Abbiamo visto che Proudhon, nelsuo progetto di società economica anarchica o federalista, ri-prende il modello della fabbrica lionese distruggendo la suaorganizzazione verticale e gerarchizzata in tre gruppi sociali:fabbricanti, maestri operai e compagni. Questa correzione nonlascia sussistere nulla dei rapporti sociali che sottintendono ilprocesso del lavoro, ma conserva uno schema di una produzio-ne realizzata dai laboratori o dalle manifatture distinte in un tes-suto economico pluralista. Questo schema non impedisce in nes-sun modo la creazione di grandi imprese rimesse a delle compagnieoperaie, ma esclude e condanna la formazione di monopoli. Al con-trario della visione storica del Capitale che mette l’accento sul cam-biamento delle strutture economiche e lega l’avvento della rivolu-zione alla scomparsa delle manifatture, Proudhon ancora l’azionerivoluzionaria nel presente manufattoriale. Si sente già che le “classioperaie” non avranno da aspettarsi dalla dinamica capitalista larivoluzione salvatrice, ma che dovranno operare immediatamen-te nel loro quadro presente.

Questo primo confronto non conduce ad una risposta pie-namente positiva, poiché Proudhon, riprendendo la distribu-zione delle manifatture, ne nega l’essenziale, cioè la strutturadelle classi e dei rapporti sociali. Al contrario l’omologia è moltostretta tra l’attività organizzativa di questi capi laboratorio e ilsuo progetto socio-economico. Proudhon non riprende lo sta-tuto sociale dei suoi capi laboratorio come esisteva verso il 1840,ma riprende lo schema del mutualismo, cioè il modello di quellaorganizzazione creata dai capi laboratorio contro i fabbricantie che essi mantenevano anche contro i sospetti o le minacce deipoteri pubblici. Questo punto ci sembra, al termine di questaricerca, essenziale per una giusta comprensione del proudho-nismo. Questa dottrina politica non è l’espressione di uno stra-to sociale, ma l’espressione di un’azione e sono essenzialmentequeste pratiche operaie che hanno determinato queste opzioniintellettuali. Proudhon non ripete una struttura sociale, espri-

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me quel movimento di creazione operaia che fu il mutualismoe lo riprende nella sua dinamica che doveva condurre alle in-surrezioni. La classe sociale di cui si parla, non è dunque giusti-ficata nel suo essere, né descritta nella sua attualità o la sua sof-ferenza, ma valorizzata per la sua azione e trattata immediata-mente come il soggetto della sua azione. Si trova trasposta nelproudhonismo, non la stessa classe, ma la sua innovazione, lasua azione di organizzazione che nello stesso tempo è un’azio-ne combattiva dalla quale Proudhon si attende che si estendaall’insieme della società. L’omologia più stretta si situa qui tral’attività gestionaria di questi mutualisti, attività a vocazione socia-le o, in altri termini, transpolitici e il messaggio proudhoniano.Pertanto il pensiero proudhoniano, innestato su una pratica rea-le, ha una vocazione strategica e non cessa di ritracciare i pianid’azione per chiarire questa pratica alla quale si ispira.

Ma troverà così, in questa evocazione delle azioni, unacerta distanza in rapporto agli attori che erano serviti da mo-dello. I tipi di azione proposti, il mutualismo, la presa di possessodegli strumenti di produzione, potranno essere separati dagli au-tori iniziali e presentati come dei modelli a tutti i produttori. Lastrategia ispirata dal mutualismo potrà essere eretta in azione uni-versale costituente sia il mezzo che il fine della rivoluzione.

In questa prospettiva le relazioni che si possono stabiliretra il proudhonismo e le ideologie dei mutualisti sono contem-poraneamente meno importanti e meno chiarificatrici. Nullaindica che gli aderenti al Devoir mutuel abbiano, su tutti i punti,condiviso le stesse concezioni religiose o filosofiche. Sarà preci-samente una delle intenzioni di Proudhon di portare una coe-sione intellettuale dove questa mancava. La partecipazione aqueste associazioni supponeva la presenza di un etica comunee la formulazione di quei valori del lavoro, di onestà, di dignità,che ritroviamo espressi negli statuti delle associazioni e che ri-troviamo come fondamento della filosofia morale di Proudhon.Questi valori, se si esprimevano più precisamente nella redazio-ne degli statuti e se prendevano in bocca a questi operaigestionari un accento particolare di gravità, erano sufficiente-mente condivisi dalla classe operaia perché il messaggioproudhoniano trovasse lì un’eco che superava largamente i li-miti di questo strato operaio.

Lo stabilire queste omologie permette di fare apparire lacoerenza propria al pensiero proudhoniano, coerenza che ri-schia di sfuggire in ragione dell’abbondanza degli sviluppi eche risalta chiaramente da quelle relazioni continue con il grup-

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po sociale significato.Di fronte alle costruzioni audaci di Fourier e Cabet, la

coesione del proudhonismo non attiene alla fermezza del pro-getto immaginato, ma all’unità stessa del gruppo al quale si ispi-ra. Contrariamente allo schema di Marx, questo strato operaionon era un rudere sprovvisto di vita e “sballottato” tra la bor-ghesia e il proletariato. La storia dei conflitti del 1831 o del1871 mostra al contrario la singolare realtà di questo ambienteche possiede le sue strutture, la sua cultura e la sua resistenzaparticolare. Dopo la sconfitta del 1848, Proudhon non abban-donerà nulla delle sue speranze, convinto di appoggiarsi su unaclasse che una sconfitta provvisoria non può far scomparire.

In questa fedeltà ad un gruppo Proudhon attinge la con-tinuità delle sue tematiche e contemporaneamente la loro cor-rezione permanente. Se il suo pensiero può scartare questioniessenziali, ricorrere a metodi poco assimilati, attardarsi provvi-soriamente su materie secondarie, esso non cessa di ritornareai problemi principali che saranno la critica della società eco-nomica e politica, l’edificazione del modello sociale rivoluzio-nario. Nello stesso tempo, poiché non si tratta di una ricettasociale inventata una volta per sempre, ma della strategia diuna classe sociale, bisognerà sempre riprendere e discutere l’or-ganizzazione economica. Non si può arrivare su questo argo-mento ad un dogma definitivo, ma soltanto ricordare le grandilinee di un progetto che le classi produttrici non mancherannodi adattare secondo lo sviluppo sociale. In questo modo apparenel pensiero di Proudhon un certo ordine delle tematiche se-condo la loro importanza e il loro grado di integrazione. Leintuizioni fondamentali che sono la condanna dell’individuali-smo economico e del comunismo, il rifiuto del centralismo del-lo Stato e delle autorità religiose, formano il centro di un pen-siero congruente al gruppo sociale significato. Il rifiuto dell’in-dividualismo e della comunità che esprime il mutualismo, lasua indifferenza ed il suo allontanamento delle autorità pubbli-che e religiose, strutturano con grande coerenza il pensiero diProudhon attraverso le sue apparenti confusioni. Le incoeren-ze patenti possono illuminarsi con questa coerenza fondamen-tale. Non è contraddittorio dire che bisogna distruggere la pro-prietà e poi che bisogna conservarla, se si intende che bisognadistruggere l’albinaggio e conservare il possesso o una proprie-tà socializzata. È possibile dire che bisogna eliminare il potere,poi affermare che lo Stato è necessario, se si intende che biso-gna distruggere lo Stato autoritario e ricostituire un potere con-

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federale. Parimenti si può attaccare violentemente la Chiesa econservare una certa tolleranza verso le religioni se si tratta sol-tanto di distruggere il potere politico dell’autorità religiosa.Nulla può essere dissociato da questi apparenti paradossi, nonsolo perché si chiariscono reciprocamente in questo pensierocosciente della contraddizione dei fenomeni sociali, ma ancheperché il pensiero proudhoniano, innestato su un gruppo so-ciale che ha l’ambizione di estendere il suo modello alla societàglobale, si dà per obiettivo di abbracciare la totalità. Tutti i temiproudhoniani, malgrado il loro disordine apparente, si orga-nizzano in una filosofia che fa eco all’ambizione di una classeed alla sua certezza di erigersi in classe universale. Nello stessotempo non sfugge che alcuni sviluppi, meno direttamente di-pendenti dall’ambiente significato, hanno un rapporto menonecessario con le intuizioni fondamentali: le ricerche sulla guer-ra, per esempio, o la critica del femminismo, sono meno inte-grate all’economia del sistema e non gli sono indispensabili.

La sistematizzazione di queste omologie non implica innessun modo che il proudhonismo non sia che la ripetizione distrutture o di pratiche effettive. Nella misura in cui si proponedi definire una pratica, si impone anche di liberarne i significa-ti e di farne scienza, secondo la sua espressione. Ciò facendo,Proudhon persegue un’insieme di intenzioni complesse che ri-spondono alla congruenza in cui si è impegnato.

Lo stile di Proudhon ci indica in quale senso possono es-sere cercate queste intenzioni. Questo stile chiaro tende a tra-smettere senza ostacolo un messaggio che incita ad una pratica.Il vigore delle immagini, il carattere violento dei paradossi, ten-dono a mantenere viva l’attenzione, a creare delle attitudinisemplici propizie all’azione. L’eloquenza del tono cerca di su-scitare nel lettore un’emozione favorevole al rafforzamento delleconvinzioni trasmesse. Si tratta sia di spiegare un tema che diconvincere il lettore del suo valore e della sua legittimità.

Ed è proprio ad un compito di legittimazione che adem-pie il proudhonismo. Dimostrando la validità dell’associazioneoperaia, Proudhon investe la pratica delle classi operaie di unvalore universale. Egli tende ad innalzare queste classi a deten-trici esclusive della verità politica. Tutte le apologie del lavorotendono a ricostruire una scala di valori che situerà in cimal’atto delle classi produttrici e legittimerà così la loro rivendica-zione del potere politico. Se la giustizia è il valore supremo chedeve dominare tutte le relazioni sociali e se ha per realtà princi-pale questa relazione di mutualità instaurata dai produttori, si

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deve concludere che i produttori hanno il diritto ed il doveredi imporre la loro pratica all’insieme della società. Portatori ecreatori della giustizia, i produttori sono giustamente chiamatiad organizzare la vita sociale e a distruggere gli antichi poteri.

Nel rapporto delle forze, così costituito verso il 1840, il prou-dhonismo tende a diminuire la potenza dei poteri istituiti, com-battendo il rispetto a loro collegato. Egli riprende, sia con iro-nia, sia con la dimostrazione, l’irriverenza spontanea di talunioperai verso i poteri politici o religiosi per accrescerne la vio-lenza. Le lunghe diatribe contro lo Stato tendono a rafforzarela resistenza verso le iniziative del potere, come la critica dellereligioni tende a distaccare le classi operaie dai valori tradizio-nali. Lo sforzo di dissacralizzazione perseguito da Proudhon hala doppia funzione di rafforzare la resistenza delle classi opera-ie alle autorità e di diminuire il prestigio e la forza di questeultime. L’esposizione delle dimostrazioni tende a colpire le classiprivilegiate suscitando la messa in causa dei loro privilegi e pro-vocando una cattiva coscienza favorevole alla loro dismissione.Questo progetto di diffondere una sfiducia nel seno stesso del-le classi possidenti non è mai totalmente abbandonato e spiegaanche il desiderio di ottenere una certa udienza dalle stesse.

La legittimazione della pratica operaia esige che avvenga-no contemporaneamente la svalorizzazione dei poteri stabilitie la rivalutazione dell’associazione operaia. Le critiche alla cul-tura ufficiale, la satira della religione, la denuncia degli oppres-sori, convergono verso un unico fine, spossessare le classi privile-giate e le istituzioni del loro potere e di opporre loro, per antinomia,i valori operai. Questo doppio movimento trova la sua espressionepiù radicale nell’opposizione tra religione e giustizia che annun-cia una inversione totale delle fonti della legittimità (1).

Nello stesso tempo Proudhon si propone di risponderead una attesa operaia coordinando le diverse aspirazioni in uninsieme intellettualmente organizzato. Sarà quindi il contenu-to del Cathéchisme politique a raggruppare in un breve compen-dio di facile comprensione i principi generali di un’azione poli-tica giusta. Proudhon si aspetta da questa organizzazione di prin-cipi che sistematizzi delle idee complesse e che assolva nellostesso tempo una funzione integrativa nelle menti. Diventa im-portante modificare la rappresentazione che gli uomini hannodel loro presente, suscitare in essi una rappresentazione favore-vole alla loro azione e, in particolare, fornire una immaginecoerente del loro futuro. La reiterazione di questa tematica ri-sponde alla preoccupazione di scongiurare l’inquietudine e l’an-

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goscia degli uomini di fronte al loro avvenire comunicando unimmaginario rassicurante e esaltante. Alla critica radicale delleistituzioni corrisponde una volontà, fortemente sentita, di of-frire agli uomini una immagine coerente della società futura.In questo modo il pensiero potrebbe effettivamente assolvere ilruolo di guida per l’azione, e ciò sarebbe la vocazione del socia-lismo scientifico, secondo le parole di Proudhon.

Questo appello politico si propone di condurre una lottanel seno stesso delle classi operaie. Proudhon non ignora ledivisioni e i litigi che dilaniano le associazioni operaie, e peresempio, i dissensi che si manifestano in seno ai mutualismi.Non ignora altresì l’indifferenza di alcuni operai, la sopravvi-venza del conservatorismo politico in altri e più ancora questaalternanza di atmosfera febbrile e di apatia che appariva duran-te le insurrezioni e così lontana dal suo progetto. Si proponequindi di modificare l’azione operaia toccando non soltanto isistemi di rappresentazione ma le attitudini sociali; bisogna ras-sicurare il lettore sulle possibilità obiettive della sua situazione,mantenere per esempio la speranza di una rivoluzione sociale,all’indomani del colpo di stato del dicembre 1851, nel momen-to in cui le possibilità di una rivoluzione sembrano annientate.Con questi appelli e queste rassicurazioni, gli operai sarannoincitati ad assumere la loro situazione e la loro pratica. Ma l’ap-pello di Proudhon è contemporaneamente una messa in guar-dia contro i tentativi che non corrisponderebbero esattamentea pratiche operaie autentiche. Esaltando le forme organizzativespontanee Proudhon tende a svalutare le imprese politiche cheritiene essere di fuga o di dimissioni. Cerca anche di svalutarequalunque sistema che potrebbe distruggere la libertà dei produt-tori in nome della fratellanza o dell’uguaglianza, qualunque siste-ma che ricostituirebbe una “solidarietà meccanica” invece di una“solidarietà organica” legata alla divisione del lavoro.

Il fine è dunque di promuovere, per mezzo della diffusio-ne di un modello assiologico, l’appropriazione da parte dei pro-duttori della loro attività. La svalutazione delle forze avverse,l’esaltazione della realtà operaia e della sua prassi, tendono afacilitare la riconquista, da parte dei produttori, della loro pro-pria esistenza. Certamente bisogna eccitare ad una lotta controi poteri esterni, ma diventa urgente anche definire esattamentele condizioni con le quali il produttore resterà padrone dellasua gestione o, se partecipa ad una “compagnia operaia”, le con-dizioni della sua partecipazione alla creazione collettiva. Nullasarebbe acquisito se la rivoluzione avesse per risultato la rico-

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stituzione di un potere esterno alla volontà dei produttori e sesi ritrovassero sottomessi ad una nuova alienazione; si trattaquindi non solo di chiamare ad una lotta di distruzione, maanche di preparare, tra gli operai e le classi medie, gli atteggia-menti che predisporranno ad una appropriazione vera dellasocietà politica ed economica. Solo a questa condizione le strut-ture elaborate nei limiti corporativi diventeranno universali ecostituiranno la società futura.

L’intenzione di Proudhon si definisce così in un contestosociale: giustificare una tipologia di pratica operaia, spiegarneil senso e le potenzialità, dimostrarne la legittimità e l’universa-lità in modo da promuovere la sua estensione alla società nelsuo insieme. In altri termini giustificare una rivolta e una prati-ca affinché provochino e organizzino la rivoluzione sociale.

Queste note dimostrano la difficoltà di classificare il prou-dhonismo in categorie semplificatrici quali l’ideologia, il mitopolitico, l’utopia. È in effetti in questi differenti confronti tra lestrutture sociali ed il sistema proposto, fra le intenzioni dell’au-tore e le influenze effettivamente ottenute, che potrebbe fon-darsi un giudizio tendente a far entrare il proudhonismo in unadi queste categorie. Questi termini non sono sufficientementeprecisi per delineare la complessità dei rapporti e sembra che iltermine utopia, spesso utilizzato per qualificare l’opera diProudhon, abbia soprattutto assolto funzioni polemiche.

Se si designa con il temine di ideologia ogni sistema intel-lettuale corrispondente ad un gruppo sociale, destinato a co-prire una parte della realtà e ad apportare una fallace compen-sazione, bisognerà evitare di qualificare come ideologico il pen-siero di Proudhon. Se si giudica la condotta dei militanti prou-dhoniani e in particolare l’azione dei delegati francesi in senoalla Prima Internazionale, la loro fedeltà al proudhonismo nonebbe l’effetto di distoglierli dalla loro appartenenza di classe nédi distoglierli dagli interessi dei lavoratori. Importa al contrarioricordare che questi operai che furono i più attivi durante glianni 1861-1871 elessero per guida intellettuale Proudhon, men-tre molti teorici venivano proposti loro. Invece di aver provoca-to un occultamento della loro situazione obiettiva, il pensierodi Proudhon sembra al contrario aver permesso loro di assume-re meglio questa situazione e di adempiere a compiti conformiai loro interessi. Esso li rese particolarmente attenti ai rischi diuna dimissione a profitto dei partiti politici che non avrebberorisposto alle loro attese. Anche se vi è nel proudhonismo unaesaltazione a volte euforica, non si è mai visto che questa abbia

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condotto i suoi adepti ad accontentarsi di soddisfazioni imma-ginarie.

Parimenti non vi si può discernere il mito politico, se siintende con questo un discorso essenzialmente inadeguato allepossibilità reali di un gruppo sociale. L’esperienza della Comunemostrerà le sue possibilità oggettive di realizzazione e l’intimitàdel rapporto tra il proudhonismo e le esigenze popolari. Più giu-stamente potremmo applicargli la definizione che Karl Man-nheim ha proposto del concetto di utopia: il proudhonismocostituì, in effetti, una rappresentazione che superava la realtàdell’epoca e tendeva alla propria realizzazione trasformando que-sta realtà (2). Questa definizione è comunque soltanto indicati-va: solo la restituzione dei rapporti organici tra le aspirazioni, lepratiche operaie e la teoria ci permette di comprendere per-ché i militanti operai, provenienti da questo strato particolare diartigiani e di maestri operai, si siano riconosciuti nel proudhonismoe vi abbiano trovato le ragioni per proseguire la loro azione.La sconfitta della loro impresa mostra le ragioni della sconfittarelativa del proudhonismo. Proudhon commette in effetti l’er-rore, che doveva riprendere Marx, di sottovalutare la resistenzadel capitalismo e le sue possibilità di adattamento. Ma più diret-tamente la sua grande intimità con un ambiente sociale limita-to doveva condurlo a sopravvalutare le possibilità di gestionedelle classi operaie e a generalizzare le capacità che si trovava-no circoscritte in uno strato sociale più limitato di quanto pen-sasse. La sua illusione è qui complementare a quella di Marx:mentre quest’ultimo, nel Capitale, tende ad isolare un determinismoeconomico, Proudhon tende al contrario ad accordare troppo allepossibilità rivoluzionarie di una élite operaia.

Ma l’attualità del proudhonismo al di là della Comune diParigi, nel sindacalismo rivoluzionario, nella Rivoluzione russadel 1917, nei tentativi moderni di autogestione, confermano lapersistenza di situazioni sociali comparabili a quelle nelle qualisi è organizzato questo pensiero. In questo senso, il proudho-nismo riveste un significato a lungo termine che supera larga-mente le sue sconfitte provvisorie. Si percepisce che esprimesseuna disarmonia profonda della società industriale ed una esi-genza precisa di appropriazione: non esprimeva soltanto unarivolta contro l’espropriazione dei mezzi di produzione o con-tro la miseria, ma una rivolta contro la privazione dei controlli,contro “l’esteriorizzazione” dei poteri, e, simultaneamente, ilprogetto chiaramente elaborato di riprendere questi poteri conla gestione diretta, la partecipazione e il decentramento econo-

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mico. Da ciò si capisce che questi due aspetti del pensieroproudhoniano: da una parte le formule aggressive che neganoogni valore ai poteri e all’autorità, dall’altra parte, le formulemoderate che progettano una organizzazione pluralista edecentralizzata di centri autonomi, possano rivestire una singo-lare attualità appena condizioni sociali comparabili si troveran-no riunite.

È proprio per questo che la rivolta studentesca del mag-gio 1968, a Parigi e in provincia, ha fatto singolarmente rivive-re, come è stato giustamente sottolineato(3), lo spirito prou-dhoniano. Non furono soltanto formule o slogan che richiama-vano frammenti di questo pensiero che riapparvero, ma bensìla sua profonda unità nel suo duplice aspetto di negazione deipoteri autoritari e di aspirazione all’autonomia degli individuie dei gruppi con la loro partecipazione o la loro autogestione.Questa insurrezione non ebbe per motore delle rivendicazioniimmediatamente economiche – e per questo poté essere quali-ficata “post-marxista” – ma non ebbe nemmeno un obiettivostrettamente “politico” tendente, per esempio, ad un cambia-mento di governo. Le esigenze manifestate riguardavano tuttele istituzioni nel loro principio e opponeva loro una critica ra-dicale senza pretendere di sostituirli con un sistema dai contor-ni definitivamente precisi.

I rifiuti vertevano essenzialmente sul principio del poteree dell’autorità percepito come una “alienazione” della volontàe dell’esistenza stessa degli individui. Come Proudhon che con-testava le gerarchie e le autorità dovunque esse fossero, gli stu-denti denunciarono

la strutture essenzialmente verticale ed autoritaria delle relazioni so-ciali, l’assenza di iniziativa e di dialogo a tutti i livelli (4).

La dicotomia proudhoniana del potere esterno e dell’autono-mia dei gruppi, dell’ “alto” e della “base”, con la valorizzazionedelle sue iniziative spontanee, costituì un asse essenziale del-l’ideologia del movimento studentesco. Si denunciò meno ungoverno particolare che l’accentramento dei poteri e delle de-cisioni, e si rivendicò, non un altro sistema di decisioni, ma ilpossesso del potere per il potere, riprendendo così il significatoproudhoniano “dell’emancipazione degli individui”. Con lo stes-so movimento furono denunciati i partiti politici, le burocrazie,gli Stati, accusati di appropriarsi dei poteri di decisione e dirigettare i subordinati in un ruolo esecutivo senza responsabili-

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tà. Contemporaneamente riapparve la diffidenza proudhonianaverso una razionalizzazione sociale che sarebbe affidata allascienza e la sua affermazione secondo la quale non vi potrebbeessere ragione se non proveniente dalla libera concertazionedegli interessati stessi.

Per questo le rivendicazioni economiche divennero se-condarie, o più esattamente sospettate, come lo erano state daProudhon, di favorire il perpetuarsi delle oppressioni. Lerivendicazioni poggiarono in primo luogo sulla distribuzionedei poteri e il movimento propose immediatamente l’afferma-zione del “potere studentesco”. Ma anche questo termine erasospetto per ciò che suggeriva di parziale e di contrario allalibertà. Si trattava quindi di affermare l’iniziativa, l’autonomiadelle persone e dei gruppi, di liberare come voleva Proudhonla creatività, di ricostituire una autentica “vita sociale” alla base.Bisognava quindi distruggere non soltanto gli accaparramentidi potere, le gerarchie abusive, ma anche gli isolamenti, le se-gregazioni sociali, le specializzazioni culturali favorevoli all’alie-nazione dei poteri, rompere le barriere di classe, rompere laseparazione tra lavoratori intellettuali e manuali, aprire le uni-versità ai lavoratori. Bisognava, come Proudhon non aveva smes-so di ripetere, ripensare completamente l’educazione affinchéessa non fosse più un fattore di separazione sociale, ma un agentedi uguaglianza, distruggere, in particolare, una cultura aristo-cratica concepita come “un patrimonio di privilegiati”. Quindila rivoluzione da fare era proprio una rivoluzione sociale e nonuna rivoluzione politica, essa colpiva tutte le istituzioni e in pri-mo luogo quella in cui ogni individuo era impegnato; più anco-ra essa era culturale, poiché, così come aveva ampiamente svilup-pata Proudhon, una tale rivoluzione esigeva anche la trasforma-zione di tutti i modi di pensare. L’ideologia non era concepitacome una super struttura della quale si aspettava la revisione attra-verso cambiamenti economici, ma come una dimensione politicae pratica in seno alla quale l’azione era necessaria. Per cui non èsorprendente che le proposte pratiche che furono elaborateabbiano ricordato molto precisamente i principi di Proudhon.Queste proposte non furono né dettagliate, né dogmatiche, fe-deli in questo allo spirito proudhoniano che non può include-re la spontaneità in un sistema che la distruggerebbe. È rimar-chevole però che i principi generali di questa ricostruzione so-ciale ritrovino sia il movimento critico di Proudhon sia le sueformule. Contro l’alienazione del potere venne proposta l’au-tonomia delle unità sociali, oppure, contro l’accentramento

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giacobino, il decentramento. Non che l’autonomia fosse pro-posta come una ricetta sufficiente, ma, conformemente alfederalismo proudhoniano, l’emancipazione di gruppi parzialifu concepita in seno a relazioni di uguaglianza e reciprocità,oppure potremmo dire, mutualista. Come in Proudhon, unatale risposta sollevava il problema del coordinamento o dellapianificazione dell’attività economica e, come nella sua conce-zione finale, questo organismo fu concepito come uno strumen-to di informazione ed escluso da ogni attribuzione di poterediscrezionale. Il principio fondamentale che formava la preoc-cupazione essenziale di queste riflessioni non era né la prospe-rità né l’accelerazione della produzione, ma, secondo i principisviluppati nel Idée générale de la Révolution au XIX siècle:

l’autogestione del lavoratore e la cogestione di ogni unità di produzionee di consumo da parte di tutti i lavoratori che vi appartengono (5).

Sarebbe troppo arrischiato pretendere di fornire, in poche pa-role, una spiegazione di questa presenza del proudhonismo inquesto movimento studentesco. Comunque si può abbozzareun certo ravvicinamento tra l’ambiente sociale che doveva espri-mersi attraverso l’opera di Proudhon e la situazione degli stu-denti. Senza dubbio lo studente non è un produttore, ma è can-didato a funzioni sociali comparabili a quelle dei capi laborato-rio; come essi, è chiamato ad assumere compiti di responsabili-tà ma, come essi, minacciato di perderli o inquieto del loro si-gnificato. È rimarchevole che queste rivendicazioni autoge-stionarie non siano state formulate dai gruppi sociali più sfavoritieconomicamente, così come il proudhonismo non sia stato for-mulato dai compagni e operai delle grandi fabbriche. Parimentinessun partito politico ne aveva fatto la sua piattaforma. Questerivendicazioni sono state fatte da elementi non organizzati po-liticamente, impegnati in una situazione di forte tensione con-tro le istituzioni e ansiosi di riprendersi la loro autonomia con-tro un sistema dove le decisioni erano prese al loro esterno. Manello stesso tempo, a causa della loro formazione e della lorocultura, gli studenti, come quella aristocrazia operaia, sono ca-paci di discutere gli obiettivi dell’azione sociale e stimano esse-re capaci di assumerne la scelta. Da questo momento il conflit-to diventa un conflitto di potere, il pegno, la rifondazione, nonpiù del politico, ma delle istituzioni nel loro insieme, e la solu-zione proposta, l’appropriazione della gestione. Si potrebbe

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ancora comparare lo sforzo degli studenti verso gli operai allosforzo dei proudhoniani verso i compagni: nei due casi il caratte-re radicale delle esigenze non ha mancato di suscitare una cer-ta difficoltà di comprensione.

Questi avvenimenti lasciano pensare che il pensieroproudhoniano, lungi dall’appartenere ad un tipologia sorpas-sata di conflitto sociale, potrebbe rivestire un significato moltoattuale; nella misura in cui si rinnova la situazione che esso haespresso, esso può annunciare il significato di futuri mutamen-ti sociali.

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NOTE

INTRODUZIONE.

1. MARX, Misère de la philosophie ; PROUDHON, Philosophie de lamisère, introduzione di J-P. PETER, Union Générale d’Edition, 1964,p. 17-19.2. Proudhon, Œuvres choisies, testi presentati da Jean BANCAL, Paris,Gallimard, 1967, Prefazione, p. 40-41.3. Louis ALTHUSSER, Pour Marx, Parigi, Maspéro, 1965, p. 88.4. Alain SERGENT e Claude HARMEL, Histoire de l’anarchie, Pari-gi, Le Postulan, 1949, p. 135-140. Daniel GUERIN, L’Anarchisme, Pari-gi, Gallimard, 1965, p. 52.5. Citato da John BARTIER, Proudhon et la Belgique, L’actualité deProudhon, Istituto di Sociologia dell’Università Libera di Bruxelles,1967, p. 179.6. Ibid.., p. 177.7. La Révolution sociale démontrée, Rivière, p. 383.8. Daniel STERN (M. de Flavigny, contessa di Agoult), Histoire dela Révolution de 1848, Parigi, A. Lacroix-Verboeckoven, 1880, p. XVII.9. A. Edouard CROS, 6 febbraio1863, Correspondance, Lacroix, t.XII, p. 281.10. Engels a Sorge, 17 marzo 1872.11. BAKUNIN, La teologia politica di Mazzini, Frammenti e varianti,Archives Bakounine, Lehning, Leiden, Brill, 1961, t. I, p. 241.12. Risposta di un internazionalista a Mazzini, Ibid., t. I, p. 9.13. “ Il mezzo e la condizione, se non l’obiettivo principale dellarivoluzione è l’annientamento del principio di autorità sotto tutte leforme possibili, è l’abolizione completa dello Stato, politico e giuridi-co, perché lo Stato, fratello minore della Chiesa, come l’ha perfetta-mente dimostrato Proudhon, è la consacrazione storica di tutti idispotismi, di tutti i privilegi, la ragione politica di ogni asservimentoeconomico e sociale, l’essenza stessa e il centro di ogni reazione.”Lettres à un Français sur la crise actuelle, (1870), Parigi, Oeuvres, t. II,Note di James GUILLAUME, Storck, 1907, p. 107-108.14. Aux frères de l’Alliance en Espagne (1872), Max NETTLAU, Thelife of Michael Bakounin, Londra, 1896-1900, t. I, p. 70.

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15. Archives Bakounine, t. I , p. 170.16. Ibid., p. 241.17. Jean BANCAL. La Democrazia industriale di Proudhon, Revuede l’Action populaire, luglio 1966; La socio-economia di Proudhon,Cahiers de l’I.S.E.A. aprile 1966.18. A J.B. von Schweitzer, 24 gennaio 1865, traduzione di M. RUBELe L. EVRARD, Parigi, Gaillimard, “Pléiade”, 1965, I, p. 1456.19. Ibid..20. Ibid., p. 1457.21. Ibid., p. 1458.22. Ibid.23. Henri BACHELIN, P.-J. Proudhon, socialiste national, Parigi,Mercure de France, 1941.24. Ibid., p. 145.25. Les précurseurs, Proudhon, Soc. d’Ed. Econ. E Soc., Parigi, 1942.Bibl. Naz. 4° V 14.314 (92).26. Ibid., p. 6.27. Ibid., p. 8.28. Ibid., p. 10.29. Ibid., p. 11.30. Ibid., p. 12.31. Le 18 Brumaie, Editions Sociales, 1949, p.39.32. Emile COORNAERT, Les compagnonnages en France du Moyen Ageà nos jours, Parigi, Ed. Ouvrières, 1966, p.107.33. Marx à Kugelman, 9 novembre 1866, Editions Soc. Internationales,Parigi, 1930, p. 60.34. René REMOND, La droite en France de 1815 à nos jours, Parigi,Aubier, 1954, cap. I.35. Joseph GABEL, La fausse conscience, Parigi, Editions de Minuit,1962, p. 20-25.36. Pierre ANSART, Marx e la teoria dell’immaginario sociale,Cahiers internationaux de Sociologie, 1968, Vol.XLV.37. Georg LUCKÁS, Histoire et conscience de classe, Ed. de Minuit,1960, p. 73.38. Cfr. Karl MANNHEIM, Ideologie et Utopie, Parigi, Rivière, 1956,p. 137.39. Erwin PANOFSKY, Architecture gothique et pensée scolastique, tra-duzione e postfazione di Pierre BOURDIEU, Parigi, Ed. de Minuit,1967.40. Pierre BOURDIEU, ibid., p. 147.

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PRIMA PARTE: Omologie delle strutture economiche.

1 Arthur-Louis DUNHAM, La révolution industrielle en France (1815-1848), Parigi, Michel Rivière & C., 1953, p.3892 J.C. TOUTAIN, Il prodotto dell’agricoltura francese dal 1700al 1958, II, La crescita, Cahiers de l’I.S.E.A., serie AF, n°2, n° 115, luglio1961, p. 137.3 A.-L. DUNHAM, op, cit., p 388.4 Tihomir J. MARKOVITCH, L’industria francese dal 1789 al1964, Fonti e metodi, Cahiers de L’I.S.E.A., Serie AF, n° 4, n° 163, lu-glio 1965 p. 210-212.5 A. de CAMBRIAIRE, L’autoconsommation agricole en France,Rennes, 1952, p. 166.6 M. WEBER, L’étihque protestante et l’esprit du capitalisme, Parigi,Plon, 1964, p. 17.7 VILLERME’, Tableau de la condition des ouvriers en coton, laine etsoie, Parigi, 1840.8 Henri SEE, Histoire économique de la France, t. II, Les temps modernes(1789-1914), A. Colin, 1951, p. 154.9 Ibid., p. 95.10 Hubert RICHARDOT, Histoire des faits économiques, ( con la col-laborazione di Bernard SCHNAPPER), Dalloz, 1963, p. 405.11 Henri SEE, op, cit., p. 174.12 Ch. De LABOULAYE, De la démocratie industrielle, Parigi,Guillaumin, 1848, p. 21-22.13 Adolphe BLANQUI, Des classes ouvrières en France pendant l’année1848, Parigi, Pagnerre, 1849, p. 15.14 Alla fine dell’Impero, “ il macchinismo si è introdottodefinitivamente nell’industria francese”. Ch. BALLOT, L’Introduction dumachinisme dans l’industrie française, Lille, 1923, p. 30.15 Henri SEE, op, cit., p. 166.16 Ibid., p.163.17 VILLERME, Tableau de la condition des ouvriers en coton, laine etsoie, op, cit.18 Ibid., t. I, p. 321.19 Adolphe BLANQUI, Des classes ouvrières en France pendant l’année1848, Parigi, Pagnerre, 1849, p. 43-44.20 Statistique industrielle de 1847, la sua interpretazione in Salaires etdurée du travail dans l’industrie française (Pubblicazione dell’Ufficio delLavoro, 4 vol. in-8°), citato da Henri SEE, op, cit., p. 177-178.

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21 Adolphe BLANQUI, Des classes ouvrières en France pendant l’année1848, Parigi, Pagnerre, 1849, p. 15.22 Henri SEE, Les origines du capitalisme moderne, Esquisse historique,Parigi, A. Colin, 6a edizione, 1951, cap. VII.23 Marcel ROUFF, Des mines de charbon en France au XVIII° siècle,Parigi, 1922.24 Henri SEE, Histoire économique de la France. Les temps modernes,1789-1914, Parigi, Collin, 1951, p. 172.25 Tihomir J. MARKOVITCH, L’industria francese dal 1789 al1964, Fonti e metodi, Cahiers de l’I.S.E.A. Storia quantitativa dell’eco-nomia francese, AF 4, n° 163, luglio 1965, p. 205.26 Statistiques de la France, Industrie. Parigi, t. I, 1847; t. II, 1848; t.III, 1850; t. IV, 1852.27 Statistiques de la France, Industrie. Nancy, 1873 .28 Tihomir J. MARCOVITCH, Il reddito industriale e artigianalesotto la monarchia di Luglio e il Secondo Impero, Cahiers de l’I.S.E.A.Storia quantitativa dell’economia francese, AF 8, aprile 1967, p. 11-15.29 Marcel MARION, Histoire financière de la France depuis 1715, A.Rousseau, t. V, 1928.30 Legge del 17 agosto 1822.31 Système des contradictions, passim; Capacité politique des classesouvrières, p. 94-95.32 Note a margine dell’esemplare di Misère de la philosophie, Costes,p. 135.33 Idée générale de la Révolution, p. 174-176.34 Des réformes à opérer dans les chemins de fer, 1855.35 Secondo il concetto proposto da G. GURVITCH, in Lamultiplicité des temps sociaux, Parigi, C.D.U., 1958.36 Capacité politique des classes ouvrières, 2a parte.37 “ Il modo morale, come il mondo fisico, riposa su una pluralitàdi elementi irriducibili e antagonistici, e è proprio dalla contraddizio-ne di questi elementi che appaiono la vita ed il movimento dell’uni-verso”. Théorie de la propriété, p. 206.38 “ Divisione del lavoro e forza collettiva sono due facce correlativedi quella stessa legge”. De la création et de l’ordre, p. 311.39 “ Il cittadino, poiché lavora, produce, possiede – funzione dellasocietà – e non è affatto funzionario dello Stato ”. Théorie de la propriété,p. 165.40 “ Affinché una forza possa tenere l’altra a rispetto, bisogna chesiano indipendenti l’una dall’altra”. Ibid., p. 138.41 Système des contradictions économiques, t. I, p. 247-248.42 Premier mémoire, “ Qu’est-ce que la propriété ? ”, p. 215.43 “ Quello che avviene davanti ai nostri occhi, nelle ferrovie, nel-la navigazione, nelle istituzioni di credito, ecc…, prova che l’avvenire,

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cioè la potenza, la libertà, la sicurezza, la ricchezza sono per i grandicapitali. Con grandi capitali … noi intendiamo le grandi imprese, lecose fatte su grande scala, con le masse, e che richiedono ordinativi,consorzi”. Réformes à opérer dans l’exploitation des chemins de fer (1855),Ed. Lacroix, t. XII, p. 252.44 Idée générale de la Révolution du XX siècle, p. 276.45 Ibid., p. 282.46 Ibid.47 Ibid., p. 283.48 “ Al posto di questo accentramento materialistico e assorbentedei poteri pubblici, dobbiamo creare l’accentramento intellettuale eliberale delle forze economiche”. Ibid., p. 154.49 Capacité politique des classes ouvrières, p. 155.50 “ Non vi è nessun pericolo per la libertà del lavoro, del creditoe dello scambio, ché ogni famiglia di coltivatore possegga tanta terraquanta ne possa coltivare”. Théorie de la propriété, Ed. Lacroix, p. 254.51 Secondo la quale la popolazione di ogni comune con più di2.000 abitanti, e agglomerato al capoluogo, è definita come urbana.52 Cf. Georges DUPEUX, La société française, 1789-1960, Parigi,A.Colin, 1964, p. 117-129.53 “ E’ chiaro che la mezzadria deve sparire e la terra rimanerenelle mani di chi la coltiva”. Droit au travail et à la proprieté (1848).54 H. de BALZAC, Les paysans (1838).55 Secondo il rilevamento del ministero della guerra, nel 1832, lametà dei coscritti erano analfabeti; 48 % sapeva leggere e scrivere, 4% sapeva solo leggere.56 “ Nella società del lavoro … non vi sono lavoratori, ma un sololavoratore, unico, diversificato all’infinito”. Carnets, 11 marzo 1846.57 Tihomir J. MARCOVITCH, Il reddito industriale e artigianalesotto la monarchia di Luglio e il Secondo Impero, Cahiers de l’I.S.E.A.,aprile 1967, p. 84-85.58 Ibid., p. 88.59 Ibid., p. 87.60 Georges DUVEAU, La vie ouvrière en France sous le Second Empire,Parigi, Gallimard, 1946, p. 218.61 Georges DUPEUX, La société française, 1789-1960, Parigi, A.Collin, 1964, p. 175.62 Paul COMBE, Thiers et la vallée industrielle de la Durolle, Annalesde géographie, 1922.63 Adolphe BLANQUI, Des classes ouvrières en France pendant l’année1848, Parigi, Pagnerre, 1849.64 “ È il criterio del lavoro e non del capitale che deve presiederealla distinzione tra industria e artigianato, poiché nell’industria il la-voro di direzione e quello esecutivo sono separati, mentre sono unifi-cati nell’artigianato”. T. J. MARKOVITCH, Il reddito industriale e ar-

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tigianale sotto la monarchia di Luglio e il Secondo Impero, Cahiers del’I.S.E.A., aprile 1967, p. 86.65 A. DAUMARD e F. FURET, Strutture e relazioni sociali a Pariginel XVIII secolo, Cahiers des Annales, n° 18, A. Collin, 1961.66 “ Il soggiorno a Lione ha segnato Proudhon più di quel che sipossa credere”. Fernand RUDE, C’est nous les canuts. L’insurrectionlyonnaise de 1831, Parigi, Domat, 1954.67 “ L’associazione, una volta costituita su un punto, invade tutto.Così, appena i setaioli avranno una impresa con un mercato di 100 o200 mila individui, tutta l’industria della seta cadrà presto nelle loromani”. Carnets, n° 2 (1848), t. I, p. 205.68 Fernand RUDE, op, cit., p. 8.69 Ibid.70 In opposizione al “ lavoro astratto “, come lo descrive Marx,Capital, Ed. Sociales, 1950, I. 1, t. I, p. 72.71 Citato da Fernand RUDE, op, cit., p. 9.72 Ibid., p. 9-13.73 “ … spinti dal desiderio di un rapido guadagno, essi ( i fabbri-canti ) facevano pesare, pesantemente, sulla classe operaia tutti i pro-blemi causati da una situazione difficile”. Ibid., p. 16.74 Carnets, n° 6, t. II, p. 272.75 Idée générale de la Révolution, 5° e 6° studio.76 Système des contradictions, t. II, p. 238.77 Idée générale de la Révolution au XIX siècle, p. 166.78 Système des contradictions, t. II, cap. XII.79 Idée générale de la Révolution, p. 15680 Idée générale de la Révolution, p. 175; Capacité politique des classesouvrières, p. 187.81 F. RUDE, C’est nous les canuts, p. 9.82 Carnets, n° 2, t. I, p. 214.83 F. RUDE, C’est nous les canuts, op, cit., p. 8.84 Programme révolutionnaire, p. 330.85 Idée générale de la Révolution, p. 275.86 Ibid.., p. 275-291.87 Ibid.., p. 282.88 MARX, Capital, Ed. Sociales, 1950, I. 1, t. 2, p. 60.89 Premier Mémoire, 1840, p. 335. Notiamo che l’opera di STIRNER,L’unique et sa propriété, apparve nel 1844.90 Solution du problème social, 1848, Lacroix, vol. VI, p. 87.91 Citiamo ad esempio il titolo di una tesi di medicina del 1762:GILIBERT, L’Anarchie médicinale ou la Médecine considérée comme nuisibleà la Société, Lione.92 Citiamo ad esempio un titolo di Pierre LEROUX che assimilal’anarchia a tutto quel che bisogna distruggere: Projet d’une constitutiondémocratique et sociale fondée sur la loi meme de la vie et donnant, par une

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organisation véritable de l’Etat, la possibilité de détruire à jamais la monar-chie, l’aristocratie, l’anarchie, et le moyen infaillible d’organiser le travailnational sans blesser la liberté, Parigi, G. Sandré, 1848.

SECONDA PARTE: Omologia delle pratiche.

1. Lettre de candidature à la pension Suard (1839), p. 15-16.2. SAINT-SIMON, Nouveau Christianisme.3. Lettre de candidature à la pension Suard, minuta, p. 16.4. Capacité politique des classes ouvrières, p. 91-92.5. La vie ouvrière en France sous le Second Empire, Parigi, Gallimard,1946, p. 228.6. Ibid., p. 227.7. A. AUDIGANNE, Les populations ouvrières et les industries de laFrance dans la mouvement social du le XIX siècle, Parigi, Capelle, 2a edi-zione, 1860, t. I, p. 293-294.8. G. DUVEAU, op. cit. 226.9. Ibid., p. 100-101.10. Cfr. per esempio Louis-René VILLERME, Tableau de l’état physiqueet moral des ouvriers employés dans les manifactures de coton, de laine et desoie, Parigi, J. Renouard, 1840, 2 vol.11. Georges DUPEUX, La société française, 1789-1960, A. Collin, 1964,p. 145.12. Compte rendu des évènements qui ont eu lieu dans la ville de Lyon aumois de novembre 1831, di BOUVIER-DUMOLARD, prefetto del Rhone,Lione, 1832.13. Emile LEVASSEUR, Histoire des classes ouvrières et de l’industrie enFrance de 1789 à 1870, Parigi, A. Rousseau, 2a ed., 1904, t. II, p. 253.14. Ibid., p. 263.15. L.-R. VILLERME, op. cit., t. I, p. 133-134.16. Studi sociali (Audiganne, Blanqui, E.Levasseur ) o romanzati( Balzac, E. Zola, V. Hugo ).17. “ Decreto di Allarde”, 2-17 marzo 1791, “ Legge Le Chapelier ”,14-17 giugno 1791.18. Emile COORNAERT, Les compagnonnages en France du Moyen Ageà nos jours, Parigi, Ed. Ouvrières, 1966, 1a parte, cap. IV-V.19. Emile LEVASSEUR, Histoire des classes ouvrières et de l’industrie enFrance de 1789 à 1870, Parigi, A. Rousseau, 2a ed., 1904, t. II, p. 245.20. Misère de la philosophie, Costes, 1950, p. 208-209.21. Elias REGNAULT, Histoire de huit ans, Parigi, Jeanmaire, 1881,p. 191.22. Louis BLANC, Histoire de dix ans, Parigi, Pagnerre, 1841-1844, t.IV, p. 493 e seguenti.

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23. Fernand RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832,Parigi, Domat-Montchrestien, 1944.24. Premesse agli statuti della società Leroy, Thibault & C., denomi-nata Association chrétienne des Bijoutiers en doré, 1834.25. Tratto da Octave FESTY, Le mouvement ouvrier au début de la mo-narchie de Juillet (1830-1834), Parigi, E. Cornély, 1908, p. 66-67.26. Idée générale de la Révolution, 5° saggio.27. Confession d’un révolutionnaire, p. 282.28. Ibid., p. 373.29. Carnets, n°2, 1845-1846.30. Lettera a Marx, 17 maggio 1848.31. Capacité politique des classes ouvrières, p. 89.32. Ibid., p.96.33. Ibid., p. 91.34. Ibid., p. 90-91.35. “ Le classi operaie non si sono date nessun capo… hanno se-guito la loro ispirazione…”. Ibid., p. 110.36. Ibid., p. 122.37. Ibid., p. 92.38. Confessions d’un révolutionnaire, p. 81.39. Octave FESTY, Le mouvement ouvrier au début de la monarchie deJuillet (1830-1834), Parigi, E. Cornély, 1908, p. 251, 332 .40. Emile COORNAERT, Les compagnonnages en France du Moyen Ageà nos jours, Parigi, Ed. Ouvrières, 1966, p. 66-68.41. Octave FESTY, op. cit., p. 332.42. De la division du travail social, Premessa alla seconda edizione,Parigi, Presses Universitaires de France, 5a ed., p. XXVII.43. Le livre du compagnonnage, publicato nel 1839; A. PERDIGUIERaveva pubblicato la prima raccolta di canti nel 1834.44. Avvertissements aux propriétaires, p. 245.45. Emile COORNAERT, op. cit., p. 89.46. Citato da E. COORNAERT, op. cit., p. 84.47. O. FESTY, Le mouvement ouvrier de 1830 à 1834, op. cit., p. 343-344.48. Emile COORNAERT, op. cit., p. 107.49. Louis CHEVALIER, Classes laborieuses et classes dangereuses, Pari-gi, Plon, 1958, p. 547.50. Emile COORNAERT, op. cit., p. 86-87.51. Octave FESTY, op. cit., p. 192 e seg.52. Ibid., p. 193.53. Edward A. SHILS, studio del gruppo elementare, in Harold D.LASWELL e Daniel LERNER, Les sciences de la politique aux Etats-Unis,Quaderni della Fondazione Nazionale delle Scienze Politiche, n° 19,Parigi, A. Collin, 1951, p. 65.54. P. A. BLETON, Les sociétés de secours mutuels à Lyon, Lione, A.Storck, 1881, p. 11.

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55. Ibid., p. 3.56. Alex BAVELAS, Rete delle comunicazioni in seno a gruppi po-sti in condizioni sperimentali di lavoro, in H. D. LASSWELL e D.LERNER, Les sciences de la politique aux Etats-Unis, op. cit., p. 185-198, C.FLAMENT, Réseaux de comunication et structures de groupe, Parigi, Dunod,1965, p. 30-74.57. E. DURKHEIM, De la division du travail social (1893).58. Citiamo per esempio un estratto degli statuti di una società divellutai lionesi (1827) : “ I maestri fabricanti che vorranno far partedella società devono capire che per esservi ammessi, devono confor-marsi ai principi prescritti dalla morale e dalla religione, et che il com-pito degli associati è farsi del bene, amarsi come fratelli, e di non faread altri quel che non si vorrebbe ricevere”. Citato da P. A. BLETON,Les sociétés de secours mutuels à Lyon, Lione, A. Storck, 1881, p. 5.59. Pensiamo qui alle conclusioni di Elton Mayo e alle opere di J.-L. Moreno e Kurt Lewin.60. Citiamo per esempio un estratto degli statuti redatti per unasocietà di operai calzolai costituita a Parigi nel maggio 1833 : “ art. 7.– Non vi saranno apprendisti prima di tre anni, a partire dal 1° otto-bre 1833, a meno che la Società non ne abbia riconosciuto l’esigenza;allora la Società sarà convocata , e i façonnier o i mastri che ne avran-no l’intenzione lo faranno sapere; tireranno a sorte; e l’apprendistaverserà 100 franchi nella cassa della Società e darà sei mesi del suotempo a colui che sarà stato sorteggiato; mentre il figlio o il fratellosono esenti da tutte queste formalità; come anche il figlio di moglievedova di risolatore”. Citato da O. FESTY, op. cit., p.226.61. “ Amatevi l’un l’altro, e fate ad altri ciò che vorreste ricevere.Questa morale sublime deve essere messa in pratica per la felicità de-gli uomini, poiché essa può consolare l’umanità e addolcire l’ingiusti-zia della sorte.” Lione, Peigners, 1810.62. Capacité politique des classes ouvrières, p. 132 (già sottolineato).63. Ibid., p. 131.64. De la célébration du dimanche, p. 61.65. Idée générale de la Révolution, p. 187-200.66. “ Se l’amore del prossimo obbliga gli uomini a soccorrersi gliuni con gli altri e di aiutarsi nel bisogno, come adempiere a questocompito senza l’unione e il concorso di un certo numero di uominidotati di questo principio ?”. Société de maitres fabricants d’étoffes de soies,tulles, bas et passementeries, Lione, 1832.67. Division du travail social, Premessa per la seconda edizione,Presses Universitaires de France, 5a ed., p. II e XXVII.68. Idée générale de la Révolution, 3° saggio.69. O. FESTY, op. cit., p. 193.70. Ibid., p. 195.71. Ibid., p. 228.

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72. Ibid., p. 203.73. Ibid., p. 193.74. Ibid., p. 251-252.75. Ibid., p. 227.76. Ibid., p. 284 ; Peuple souverain del 5 gennaio 1834.77. Una storia completa di questo movimento non può sotto stima-re il ruolo importante di Buchez in questa creazione, ma il gran nu-mero di tentativi identici mostrano che il suo progetto si inserisce inun movimento sociale più esteso. Cfr. F.-A. ISAMBERT, Buchez ou l’agethéologique de la sociologie, Parigi, Cujas, 1967.78. Peuple souverain del 9 settembre 1834; O. FESTY, op. cit., p. 286.79. Ibid..80. Cfr. in Idée générale de la Révolution, introduzione di AiméBERTHOD, p. 39-53.81. Fernand RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832,Parigi, Domat-Monchrestien,1944.82. Ibid., p. 128. O. FESTY, op. cit., p. 93.83. Ibid., p. 127. O. FESTY, op. cit., p. 93.84. Bouvery e i co-fondatori scrivono a Pierre Charnier: “ Abbiamol’onore di informarvi che essendo venuti al vostro invito, siamo spia-centi di non avervi visto”. F. RUDE, op. cit., p. 137.85. Ibid., p. 125.86. Ibid.87. Ibid.88. Ibid., p. 129.89. Ibid., p. 141.90. Ibid., p. 142.91. “ I commercianti hanno fatto una rivoluzione per loro, ce l’ave-vano con i nobili e i preti, se ne sono sbarazzati; volevano occupareposti, l’hanno fatto; si sono serviti del popolo per fare la rivoluzione epoi non se ne sono più occupati. Vogliamo fare una rivoluzione pernoi”. Le Globe, n° 331, 27 novembre 1831, lettera di PEIFFER eFRANCOIS, capi della Chiesa san simoniana di Lione, testo citato daF. RUDE, p. 403.92. Ibid., p. 142.93. Ibid., p. 144.94. Ibid., p. 140.95. Ibid., p. 235.96. Ibid., p. 306.97. Ibid.98. Si può riconoscere in questo ragionamento gli inizi della teoriaprudhoniana del furto capitalista.99. F. RUDE, op. cit., p. 312.100. BAUNE , Essai sur les moyens de faire cesser la détresse de la fabrique,Lione, 1832, citato da F. RUDE, op. cit., p. 317-318.

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101. F. RUDE, op. cit., p. 130.102. P.-A. BLETON, Les société de secours mutuels à Lyon, Lione, Storck,1881, p. 3.103. Ibid.104. “ Sorprendenti per la loro istruzione ed il loro gusto artistico,dotati di carattere riflessivo e aperto, di natura mistica, essi formava-no una corporazione compatta e originale, la più notevole che esistes-se in quell’epoca”. O. FESTY, Le mouvement ouvrier au début de la monar-chie de Juillet, Parigi, Cornély, 1908.105. “Diventa quindi molto importante per i fabbricanti di Lione man-tenere l’operaio nel bisogno permamente del lavoro; di non dimentica-re mai che i bassi salari della mano d’opera non soltanto è per lorovantaggioso, lo diventa ancora di più, rendendo l’operaio più laborioso,regolato nei suoi costumi e più ancora sottomessi alle loro volontà.” E.MAYET, Mémoire sur les Manifactures de Lyon, a Londra, 1786, p. 61.106. Pierre Charnier dovette così organizzare tre mestieri nel 1825per vedersi poi rifiutato il lavoro promesso.107. Fernand RUDE, C’est nous les canuts, Parigi, Domat-Montechrestien, 1954, p.16.108. Qu’est-ce que la propriété ?, p. 258.109. F. RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832, Parigi,Domat-Montechrestien, 1944, p. 133.110. O. FESTY, op. cit., p. 104.111. Ibid., p. 174-175.112. AUDIGANNE, Les populations ouvrières et les industries de la France,Parigi, Capelle, 1860, t. II, p. 27.113. Système des contradictions, t. I, p. 34.114. F. RUDE, , Le mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832, op. cit., p.127.115. Ibid.116. Ibid., p. 142-143.117. Fernand RUDE, C’est nous les canuts, op. cit., p. 14.118. Ibid., p. 15.119. F. RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832, op. cit., p.139-140.120. O. FESTY, Le mouvement ouvrier au début de la monarchie de Juillet,op. cit., p. 314.121. Fernand RUDE, C’est nous les canuts, op. cit., p. 92.122. O. FESTY, Le mouvement ouvrier au début de la monarchie de Juillet,op. cit., p. 112-113.123. Ibid., p. 113.124. Fernand RUDE, C’est nous les canuts, op. cit., p. 40-41.125. Ibid., p. 111.126. Ibid.127. Ibid.

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128. Ibid., p. 109. Louis Rousset che gioca un ruolo importante in que-sto stato maggiore, è proprietario di una fabbrica di carta da parati.129. Ibid., p. 178.130. J.-B. MONFALCON, Histoire des insurrections de Lyon, en 1831 et1834, d’après des documents authentiques, Lione, 1834.131. Tost à la Révolution, Confessions d’un révolutionnaire, p. 399.132. Louis BLANC, Histoire des dix ans, Parigi, Pagnerre, 1841-1844,t. III, p. 75.

TERZA PARTE: Omologia delle visioni del mondo.

1. Paul ELTZBACHER, L’anarchisme (tradotto da Otto KARMIN),Parigi, Giard & Brière, 19022. Georg LUKÁCS, Balzac et le réalisme français, Parigi, Maspéro, 1967.3. Nel senso che Max Weber dà a quel termine.4. DERRION, Constitution de l’industrie et organisation pacifique ducommerce et du travail, ou Tentative d’un fabricant de Lyon pour terminerd’une manière definitive la tourmente sociale, Lione, 1834.5. A. de BONALD, Théorie du pouvoir politique et religieux dans lasociété civile, démontrée par le raisonnement et par l’histoire, Costanza, 1795.6. De BONALD, Démonstration philosophique du principe constitutifde la société, Migne, t. I, p. 55.7. “ È dunque provata dall’esperienza e dalle confessioni formalidei nemici del cristianesimo, che senza papa non vi è Chiesa; senzaChiesa niente cristianesimo, niente religione, niente società”. LAMENNAIS, De la Religion considérée dans ses rapports avec l’ordre politiqueet civil (1825-1826).8. De BONALD, op. cit., p. 3.9. E. GREGOIRE, Proudhon au tribunal de la pénitence, Parigi, Giraud,1850, p. 52.10. Articoli da L’Univers, riprodotto in Révolution sociale démontrée,p. 371-384.11. “La sola che merita questo nome, sovrana superiore ai popoli,come ai re, voglio dire la sovranità della ragione, solo ed unico legisla-tore dell’umanità”. ROYER-COLLARD, Discours, citato da DominiqueBAGGE, Les idées politiques sous la Restauration, Parigi, Presses Universitairesde France, 1952, p. 102.12. “ Stabilite prima l’autorità, poi create le libertà come contrap-peso”. ROYER-COLLARD, Discours, Ibid., p. 103.

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13. “ Il riconoscimento astratto della sovranità popolare non au-menta per nulla la somma delle libertà individuali; e se si atribuisce aquesta libertà una latitudine che non può avere, la libertà può andarepersa, malgrado questo principio, oppure a causa di questo princi-pio”. Benjamin CONSTANT, Principes de politique applicables à tous lesgouvernements représentatifs et particulièrement à la France, 1815, Parigi,Gaillimard, “Pléiade”, p. 1104.14. “ Dall’insurrezione di giugno, la repulsione che ispiravaProudhon era diventata un vero sentimento di orrore”. Daniel STERN,Histoire de la Révolution de 1848, Parigi, Lacroix, 1880, p. 491.15. “ Con repubblicanesimo intendo parlare di quella sete di ugua-glianza e di giustizia, di quel disdegno per le distinzioni che non proven-gono dal merito personale, di quel bisogno di controllo di tutti gli attidel potere, infine di quella coscienza della dignità dell’uomo e del citta-dino che lo fa resistere all’arbitrario e indignarsi all’idea del despotismo”.La jeune France del 20 giugno 1829, citato da Georges WEILL, Histoire duparti républicain en France (1814-1870), nuova edizione, Parigi, Alcan, 1928,p. 19-20.16. Ibid., p. 143.17. G. WEILL, I giornali operai a Parigi (1830-1870), Revue d’histoiremoderne et contemporaine, IX, ott. 1907, febb. 1908, p. 89-103.18. A. E. BURET, De la misère des classes laborieuses en Angleterre et enFrance; de la nature de la misère, de son existence, de ses effets, de ses causes etde l’insuffisance des remèdes qu’on lui a opposés jusqu’ici, avec l’indicationdes moyens propres à en affranchir les sociétés, Parigi, Paulin, 1840.19. Louis BLANC, Organisation du travail, Parigi, Pagnerre, 1840.20. “ È sopraggiunta un’altra questione: la rivoluzione di Luglioaveva sollevato solo questioni politiche, questioni di governo; da que-sti problemi la società non era per nulla minacciata. Cosa è successopoi? Sono sopraggiunte questioni sociali. Vi è stata lotta tra alcuneclassi, ce l’hanno dimostrato le sommosse di Lione. Vi sono oggi at-tacchi contro le classi medie, contro la proprietà …”. Moniteur universel,n° 356 (22 dicembre 1831), seduta della Camera del 21 dicembre.21. E. CABET, Ma ligne droite ou le vrai chemin du salut pour le peuple,Parigi, 1841.22. Daniel STERN, (Marie de Flavigny, comtesse d’Agoult), Histoirede la Révolution de 1848 (1850-1853), Parigi, A. LACROIX-VERBOECKOVEN, 1880, p. XI.23. VIGNERTE, lettera al National (4 agosto 1833), citata da S.CHARLETY, La monarchie de Juillet (Histoire de France contemporaine, E.LAVISSE), Parigi, Hachette, 1921, p. 98-99.24. Louis BLANC, Organisation du travail (1839) : “ Il governo sarebbeconsiderato come il regolatore supremo della produzione…”, Bruxel-les, Hauman, 1845, p. 117.25. Citato da O. FESTY, Le mouvement ouvrier au début de la monarchie

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de Juillet, op. cit., p. 221-222.26. A. Villiaumé, 24 gennaio 1856, Correspondance, t. VII, p. 9.27. A. Bergmann, 12 febbraio 1840, Correspondance, t. I, p. 183.28. Cfr. Jean FREYMOND, La Première Internationale, Ginevra, Droz,1962, 2 vol.29. Si potrebbero commentare quelle antinomie con questo slo-gan formulato durante l’insurrezione studentesca del maggio 1968 aParigi : “ Il potere è l’inversione della vita.”30. Come scrive giustamente Daniel STERN: “ Le parole sansimoniane di riabilitazione, di emancipazione, di organizzazione scien-tifica e industriale, di solidarietà, ecc… passarono nel linguaggio del-la stampa quotidiana, influenzando a loro insaputa quelle stesse per-sone che dicevano essere, o credevano, avversari della dottrina”. Histoirede la Révolution de 1848, op. cit., p. XIII.31. Louis BLANC, Rivoluzione francese, Histoire de dix ans, 1830-1840, (1841-1844), Parigi, Pagnerre, 1840, t. I, p. 130.32. Etienne CABET, Le vrai christianisme selon Jésus-Christ, Parigi, LePopulaire, 1846.33. Come scrive giustamente G. DUVEAU, La vie ouvrière en Francesous le Second Empire, Gallimard, 2a ed., 1946, p. 100.34. F. RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832, op. cit., p.139.35. Ibid., p. 527.36. Regolamento della Société de l’Union des Doreurs (1832), Bibl. Nat.Lb 51, 4.760.37. Etienne CABET, Voyages et aventures de lord William Carisdal enIcarie, Parigi, Souverain, 1840.38. De la justice, t. III, 6° saggio, p. 81.39. F. RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832, op. cit., p. 141.40. Ibid., p. 129.41. Capitolo II, art. 12 : “Gli operai doratori su legno sono divisi intre categorie, i doratori effettivi devono guadagnare 3,50 franchi per9 ore e mezzo di lavoro senza distinzione.”, Art. 13: “ I preparatori cheapprontano il materiale devono guadagnare 3 F. al giorno”.42. F. RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon, op. cit., p. 142.43. Ibid., p. 147.44. Le Moniteur del 19 dicembre 1831.45. O. FESTY, Le mouvement ouvrier au début de la monarchie de Juillet,p. 117-119.46. Agricol PERDIGUIER, Le livre du compagnonnage, Parigi, Pagnerre,1841.47. Carnets, n° 6, t. II, p. 272.48. Agricol PERDIGUIER, Le livre du compagnonnage, Parigi, Pagnerre,1841, p. 16.49. Alain SERGENT e Cl. HARMEL, Histoire de l’anarchie, Parigi, Le

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Portulan, 1949,50. “ Ciò che il pensiero di Proudhon deve a Lione rivoluzionaria,dove Leclerc aveva fatto i suoi studi sulla rivoluzione, che la propa-ganda degli Enragés toccò certamente, e che esercitò la sua influenzasul padre dell’anarchia con l’intermediario di Fourier, che crebbe inquell’ambiente, e degli operai mutualisti che conobbe verso il 1840…”Ibid., p. 107.51. Rapporto fatto e presentato al Sig. Presidente del Consiglio deiministri sulle cause generali che hanno portato agli avvenimenti diLione da due capi laboratorio, 1832.52. F. RUDE, C’est nous les canuts, op. cit., p. 17.53. P. DOMINIQUE, Les journées de juin, Berger-Levrault, 1966, p.208.54. “ La rivoluzione dall’alto è inevitabilmente la rivoluzione voluta apiacere del principe, all’arbitrario di un ministro, all’indecisione di unaassemblea, alla violenza di un club; è la rivoluzione della dittatura e deldespotismo… Così la vogliono i bianchi, gli azzurri, i rossi, e sono tuttid’accordo su questo punto”. Confessions d’un révolutionnaire, p. 81-82.55. Ibid., p. 82.56. “ Nerone, cosa orribile che un democratico non deve mai dimen-ticare, Nerone è l’idolo popolare”. De la justice, t. IV, 12° saggio, p. 404.57. “ Ogni fratello mutualista non ha capo, eccetto l’assemblea ge-nerale o il consiglio, se non l’indicatore settimanale; al di fuori diquesto e anche al di fuori della seduta o funzione, siamo tutti fratelli”.F. RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon, op. cit., p. 143.58. Echo de la fabrique, 9 marzo 1834, citato da O. FESTY, op. cit., p.313.59. Proudhon non era il solo ad utilizzare, verso il 1840, il terminedi anarchismo. J. J. May, uno dei fondatori di L’Humanitaire, giornale“comunista”, scriveva nel 1841: “ Il governo democratico deve essereanarchico, nell’accezione scientifica, non rivoluzionaria del termine”.Citato da Daniel STERN, Histoire de la Révolution de 1848, Parigi, Lacroix-Verboeckoven, 1880, p. 239.60. De la justice, t. III, 7° saggio, p. 200-283.61. Idée générale de la Révolution, p. 282.62. Ibid., p. 326-331.63. Ibid., 6° saggio.64. Carnets, n° 2.65. La Révolution démontrée, p. 128, 260.66. Citato da F. RUDE, C’est nous les canuts, op. cit., p. 114.67. Ibid., p. 117.68. F. RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon, op. cit., p. 129.69. Citato da O. FESTY, Le mouvement ouvrier de 1830 à 1834, op.cit., p. 186.70. F. RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon, op. cit., p. 132.

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71. De la justice, Programma, t. I.72. Du principe de l’art et de sa destination sociale (postumo).73. “ io, così poco intenditore… scrivere un libro sull’arte! ”, a FelixDelbasse, 7 luglio 1864, Correspondance, t. XIII, p. 319.74. Du principe de l’art, p. 46.75. Ibid., p. 121.76. Ibid., p. 174-177.77. Ibid., p. 194, “ gli spaccapietre valgono una parabola del Vange-lo; è morale in azione.” Ibid., p. 197.78. “ La nostra epoca … è … rivoluzionaria. Bisogna che anchel’arte lo sia”. Ibid., p. 246.79. D. GUERIN, Proudhon e l’amore “unisessuale”, Arcadie, genn.-febb., 1965, n° 133-134.80. F. RUDE, Le mouvement ouvrier à Lyon, op. cit., p. 143.81. De la pornocratie dans les temps modernes (postumo), p. 353.

CONCLUSIONI

1. “ Si tratta di svelare al mondo, con testimonianze autentiche, ilpensiero, il vero pensiero del popolo moderno; di legittimare le sueaspirazioni riformatrici e il suo diritto alla sovranità.”, Capacité politiquedes classes ouvrières, p. 49.2. Karl MANNHEIM, Idéologie et Utopie, Rivière, 1956, IIa parte.3. Raymond ARON, La Révolution introuvable, Parigi, Fayard, 1968,p. 32, 46, 115.4. Rapporto Università critica, Facoltà di Diritto e Scienze Econo-miche di Parigi, giugno 1968.5. Siamo in marcia, Quelle université, quelle société ?, Parigi, Seuil,1968, p. 157.

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B I B L I O G R A F I A

INTRODUZIONE: problemi di metodo

ALTHUSSER (Louis), Pour Marx, I, Parigi, Fr. Maspéro, 1965.ANSART (Pierre), Marx e la teoria dell’immaginario sociale, Cahiersinternationnaux de Sociologie , 1968, vol. XLV.BOUDON (Raymond), A quoi sert la notion de “structure” ?, Parigi,Gallimard, 1968,BOURDIEU (Pierre), Ambiti intellettuali e progetto creatore, LesTemps modernes, novembre 1966, n° 246.CHAMBOREDON (Jean-Claude), PASSERON (Jean Claude), Le métierde sociologue, I, Parigi, Mouton-Bordas, 1968.DURKHEIM (Emile), De la division du travail social, Parigi, F. Alcan,5a ed., 1926.ELTZBACHER (Paul), L’anarchisme, tradotto da Otto KARMIN, Pari-gi, Giard & Brière, 1902.FLAMENT (C.), Réseaux de comunication et structures de groupe, Parigi,Dunod, 1965.GABEL (Joseph), La fausse conscience, Parigi, Ed. de Minuit, 1962.GOLDMANN (Lucien), Le Dieu caché, Parigi, Gallimard, 1956.GURVITCH (Georges), La multiplicité des temps sociaux, Parigi, Centrodi Documentazione Universitaria, 1958.- Les cadres sociaux de la conaissance, Parigi, Presse Universitaire deFrance, 1966.LUCKÁS (Georges), Histoire et conscience de classe, Parigi, Ed. de Minuit,1960.- Balzac et le réalisme français, Parigi, Maspéro, 1967.MANNHEIM (Karl),Essays on the sociology of knowledge, Londra,Routledge & Kegan Paul, 1952.- Idéologie et utopie, Parigi, Rivière, 1956.MARX (Karl), Le 18 Brumaire, Parigi, Editions Sociales, 1949.

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- Misère de la philosophie, Parigi, Costes, 1950.MERTON (Robert K.), Eléments de théorie et de méthode sociologique, Pari-gi, Plon, 1965.PANOFSKY (Erwin) Architecture gothique et pensée scolastique, traduzio-ne e post-fazione di Pierre Bourdieu, Parigi, Ed. de Minuit, 1967.SARTRE (Jean-Paul), Critique de la raison dialectique, Parigi, Gallimard,1960.SHILS (Edward A.), Studio del gruppo elementare, in Harold D.Lasswell e Daniel Lerner, Le scienze della politica negli Stati Uniti,Cahiers de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, n°19, Parigi,A.Colin, 1951. Alex Bavelas, Rete di comunicazione in seno a gruppiposti in condizioni sperimentali di lavoro, ibid..WEBER (Max), L’éthique protestante et l’esprit du capitalisme, Parigi, Plon,1964.

PRIMA PARTE

A- Inchieste e testimonianze

Archives Nationales : Serie F (Amministrazione generale di Francia); F11 , Sussistenze. Mercuriale dei mercati (1829-1848).Archives du Département du Rhone :Società di mutuo soccorso (numeri da 1 a 249),Condizione delle sete. Ufficio di titolazione. Rapporto annuale delmovimento delle operazioni.Rilevamento statistico, 1805-1894.Archives statistiques du ministère des Travaux Publics, de l’Agriculture e duCommerce, publiée par le ministre d’Etat de ce département, Parigi, ImprimerieRoyale, 1837.Statistique industrielle de 1847, Salaires et durée du travail dans l’industriefrançaise, Ufficio delLavoro, 4 vol., t. I, 1847; t. II, 1848; t. III, 1850; t. IV, 1852.Statistique de l’industrie à Paris, 1847-1848, Parigi, Guillaumin, 1851.Statistique de la France, Industrie, Nancy, 1873.LE PLAY (Frédéric), Les ouvriers européens, 6 vol., Parigi, Dentu, 2a ed.,1877-1879.LEROY-BEAULIEU (Paul), De l’état moral et intellectuel des populationsouvrières et de son influence sur le taux des salaires, Parigi, Guillaumin, 1868.REYBAUD (Louis), Essai sur la condition morale, intellectuelle et matérielledes ouvriers qui vivent de l’industrie de la soie, Parigi, Didot, 1860.TURGAN, Les grandes usines, Etudes industrielles en France et à l’étranger,

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10 vol., Parigi, Bourdillat-Lévy, 1860-1874.

B- Saggi

BALLOT (Charles), L’introduction du machinisme dans l’industriefrançaise, Lille, 1923.BLANQUI (Adolphe), Des classes ouvrières en France pendant l’année 1848,Parigi, Pagnerre,1849CAMBRIAIRE (A. de), L’autoconsommation en France, Rennes, 1952.BOURGIN (Georges e Hubert), Les patrons, les ouvriers et l’Etat. Lerégime de l’industrie en France de 1814 à 1830, 3 vol., Parigi, 1912-1941.COMBE (Paul), Thiers et la vallée industrielle de la Durolle, Parigi, Annalidi geografia, 1922.DAUMARD (A.), e FURET (F.), strutture e relazioni sociali a Pariginel XVIII° secolo, Cahiers des Annales, n° 18, Parigi, Collin, 1961.DUNHAM (Arthur-Louis), La Révolution industrielle en France, 1815-1848, Parigi, Rivière & C. 1953.DUPEUX (Georges), La société française, 1789-1960, Parigi, Colin, 1964.LABOULAYE (Ch. de), De la démocratie industrielle, Parigi, Guillaumin,1848.LABROUSSE (C.-E.), La crise de l’économie française à la fin de l’AncienRégime et au début de La Révolution, t. I, Parigi, Presses Universitaires deFrance, 1943.LEVASSEUR (Emile), Histoire des classes ouvrières et de l’industrie en Francede 1789 à 1870. Parigi, A. Rousseau, 2a ed., 1904.MARKOVITCH (Tihomir J.), Il reddito industriale e artigianale sottola monarchia di Luglio e del Secondo Impero, Cahiers de l’I.S.E.A.,Storia quantitativa dell’economia francese, serie AF, n° 8 ; aprile 1967.- L’industria francese dal 1789 al 1964, Fonti e metodi, Cahiers del’I.S.E.A., serie AF, n° 4 ; luglio 1965, n° 163.MARION (Marcel), Histoire financière de la France depuis 1715, Parigi,A.Rousseau, t. V, 1928.RICHARDOT (Hubert), con la collaborazione si Bernard Schnapper,Histoire des faits économiques , Parigi, Dalloz, 1963.ROUFF (Marcel), Les mines de charbon en France au XVIII siècle, Parigi,1922.SEE (Henri), Histoire économique de la France, t. II; Les temps modernes(1789-1914), Parigi, Colin, 1951.- Les origines du capitalisme moderne, Esquisse historique, Parigi, A.Colin, 6a ed., 1951.

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TOUTAIN (J. C.), Il prodotto dell’agricoltura francese dal 1700 al 1958,t. II: La crescita, Cahiers de l’I.S.E.A., serie AF, n° 2; luglio 1961, n° 115.VILLERME (Louis-René), Tableau de l’état physique et moral des ouvriers employésdans les manifactures de laine et de soie, Parigi, J. Renouard, 1840, 2 vol.

SECONDA PARTE

A - Inchieste e testimonianze

Archives Nationales : Processi dei Mutualisti, fascicolo CC 631Regolamento della società Leroy, Thibault & C., detta Associationschrétienne des Bijoutiers endoré , 1834 – Regolamento della Société desVeloutiers lyonnais, Lyon, 1827. – Regolamento della Société des Ouvrierscambreurs, Parigi, 1833 – Regolamento della Société des Peigniers en corne,Lione, 1810 – Regolamento della Société des Maitres fabricants d’étoffes desoie, tulle, bas et passementeries, Lyon, 1832.Livre de règle des Jolis Compagnons Tourneurs ( Archivio dell’Associazio-ne operaia) (riprodotto In E. Coornaert, Les compagnonnages, Parigi,Ed. Ouvrières, 1966, p. 356-384).Rites des Charpentiers du Devoir de Liberté (estratto da un quaderno degliarchivi dell’ Union Compagnonnique) (ibid., p. 384-385).Giornali: Le Globe, Le Censeur, Le Peuple souverain, L’Echo de la fabrique(Lione), L’Echo des ouvriers (Lione), L’Artisan, Journal de la classe ouvrière.BAUNE , Essai sur le moyen de faire cesser la détresse de la fabrique, Lione,1832.BOUVIER-DUMOLLARD, prefetto del Rhone, Compte rendu desévènements qui ont eu lieu dans la ville de Lyon au mois de novembre 1831,Parigi, Tenon, 1832.CORBON (A.), Le secret du peuple de Paris, Parigi, Pagnerre, 1863.DERRION , Constitution de l’industrie et organisation pacifique du commerceet du travail, ou tentative d’un fabricant de Lyon pour terminer d’une manièredéfinitive la tourmente sociale, Lyon, 1834.FAVRE (Jules), de la coalition des chefs d’atelier de Lyon, Lione, L. Babeuf,1833.GRIGNON, Réflexions d’un ouvrier tailleur sur la misère des ouvriers en général,la durée des journées de travail, le taux des salaires, les rapports actuellementétablis entre les ouvriers et les maitres d’atelier, la nécessité des associations d’ouvrierscomme moyens d’améliorer leur condition. Firmato Grignon, operaio sarto, mem-bro della società dei Diritti dell’Uomo, Parigi, Herban, 1833.GUIZOT (François-P.-G.), Mémoire pour servir à l’histoire de mon temps,Parigi, Michel Levy Fratelli, 1858-1867, 8 vol.LACOMBE (Jacques), ex capitano dell’Impero, Aux amis de la vérité,

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Lione, De Brunet, 1831.MAYET (E.), Mémoire sur les manufactures de Lyon, Londra, 1786.MONFALCON (J.-B.), Histoire des insurrections de Lyon en 1831 et 1834,d’après des documents authentiques, preceduta da un Essai sur les ouvriersen soie et sur l’organisation de la Fabrique, Lione e Parigi, 1834.PERENON (Louis-Marie), Appels aux honnetes gens, Premier mémoirejustificatif, s.l.n.d. (Ginevra , 1832 ).PERIER (Casimir), Camera dei Deputati, Comunication faite au nomdu Gouvernement sur les troubles de Lyon, dal Sig. Presidente del Consiglio, seduta del 25novembre 1831.

B – Saggi

AUDIGANNE (A.), Les populations ouvrières et les industries de la Francedans le mouvement social du XIX siècle, Parigi, Capelle, 2a ed., 1860.BLANC (Louis), L’organisation du travail, Parigi, Pagnerre, 1840.- Histoire de dix ans, Paris, Pagnerre, 1841-1844.BLETON (P.-A.), Les sociétés de secours mutuels à Lyon, Lione, A. Storck,1881.BURET (Eugène), De la misère des classes laborieuses en Angleterre et enFrance; de la nature de la misère, de son existence, de ses effets, de ses causes etl’insuffisance des remèdes qu’on lui a opposés jusqu’ici, avec l’indication desmoyens propres à en affranchir les sociétés, Parigi, Paulin, 1840.CABET (Etienne), Voyages et aventures de Lord William Carisdal en Icarie,Parigi, Souverain, 1840.- Ma ligne droite ou le vrai chemin de salut pour le peuple, Parigi, 1841.- Le vrai christianisme selon Jésus-Christ, Parigi, Le Populaire, 1846.CHEVALIER (Louis), Classes laborieuses et classes dangereuses, Parigi,Plon, 1958.COORNAERT (Emile), Les compagnonnages en France du Moyen Age ànos jours, Parigi, Editions Ouvrières, 1966.DOLLEANS (Edouard), Histoire du mouvement ouvrier, t. I, 1830-1871,Parigi, A. Colin, 1936.DOMINIQUE (Pierre), Les journées de juin, Parigi,, Berger-Levrault,1966.DUTACQ (François), Histoire politique de Lyon pendant la Révolution de1848, Parigi, E. Cornély, 1910.DUVEAU (Georges), La vie ouvrière en France sous le Second Empire, Pa-rigi, Gallimard, 1946.FESTY (Octave), Le mouvement ouvrier au début de la monarchie de Juillet(1830-1834), Parigi, E. Cornély, 1908.GODART (J.), L’ouvrier en soie. Monographie du tisseur lyonnais.Etudehistorique, économique e sociale. Prima parte: La regolamentazione del

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lavoro, Parigi, Lyon, 1899.GUILLAUME (James), L’Internationale, documents et souvenirs, Parigi,Société Nouvelle de Librairie et d’ Edition, 1905-1910, 4 vol.MICHELET (Jules), Le Peuple, Parigi, Hachette, 1846.MOREAU (Pierre), operaio fabbro, De la réforme des abus du compagnonnageet de l’amélioration du sort des travailleurs, Auxerre, G. Maillefer; Parigi,Prévot, 1848.PERDIGUIER (Agricole, detto l’Avignonese la Virtù), Le livre ducompagnonnage, contenant des chansons de compagnons, un dialogue surl’architecture, un raisonnement sur le trait, une notice sur le compagnonnage, larencontre de deux frères, et un grand nombre de notes …, Parigi, l’autore,1840.- Lettre à P. Moreau, sociétaire serrurier, à propos de son livre intitulé :De la réforme des abus du compagnonnage, Parigi, l’autore, 1843.REGNAULT (Elias), Histoire de huit ans, Parigi, Jeanmaire, 1881.RUDE (Fernand), Le mouvement ouvrier à Lyon de 1827 à 1832, Parigi,Domat-Montchrestien, 1944.- C’est nous les canuts, l’insurrection lyonnaise de 1831, Parigi,Domat, 1954.STERN (Daniel) (Marie de Flavigny, comtesse d’Agoult), Histoire de laRévolution de 1848, Parigi, A.Lacroix-Verboeckoven, 1880.TCHERNOFF (Iouda), Associations et socétés secrète sous la DeuxièmeRépublique, 1848-1851, Parigi, Alcan, 1905.

TERZA PARTE

A - Inchieste e testimonianze

Réglement de la Société des doreurs, Parigi, Stampa Sétier, 1833.Réglement de la Société philantropique de MM. Les Tailleurs, Parigi, Mie,1833,Giornali : Moniteur universel, L’Univers, Le National, Le Peuple (Parigi,1848), La Tribune ouvrière.Les précurseurs, Proudhon, Sociéte d’Edition Economique et Sociale,Parigi, 1942.BERNARD e CHARNIER, Rapport fait et présenté à M. le Président duConseil des Ministres sur les causes générales qui ont amené les évènements deLyon par deux chefs d’ateliers, Lione, s.d. (1832).FREYMOND (Jean), La Première Internationale, Ginevra, Droz, 1962, 2 vol.

B - Saggi

BACHELIN (Henri), P. J. Proudhon, socialiste national, Paris, Mercure

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de France, 1941.BAGGE (Dominique), Les idées politiques sous la Restauration, Parigi,Presses Universitaires de France, 1952.BAKOUNINE, La théologie politiche de Mazzini, Fragments et varientes,Archivio Bakunin, Lehning, Leiden, Brill, 1961, t. I.- Aux frères de l’Alliance en Espagne, (1872), Max Nettlau, The life ofMichael Bakounine, Londra, 1896-1900. T. I.- Fédéralisme, socialisme, antithéologisme, Parigi, G. Nataf, 1969.BARTIER (John), Proudhon e il Belgio, in L’actualité de Proudhon,Institut de Sociologie de l’Université Libre de Bruxelles, 1967.BONALD (A. de ), Théorie du pouvoir politique et religieux dans la sociétécivile, démontrée par le raisonnement et par l’histoire, Costanza, 1795.- Démonstration philosophique du principe constitutif de la société,Oeuvres complètes, Parigi , Migne, 1859.CHARLETY (S.), La monarchia di luglio, in Histoire de France contemporaine(E. Lavisse), Parigi, Hachette, 1921.CONSTANT (Benjamin), Principes de politique applicables à tous lesgouvernements représentatifs et particulièrement à la France, (1815), Parigi,Gallimard, “Pleiade”, 1957.GREGOIRE (E.), Proudhon au tribunal de la pénitence, Parigi, Giraud,1850.GUERIN (Daniel), Proudhon e l’amore unisessuale, Arcadie, genn.-febb. 1965, n° 133-134.ISAMBERT (Fr.-A.), Buchez ou l’age théologique de la sociologie, Parigi,Cujas, 1967.LA MENNAIS, De la religion considérée dans ses rapport avec l’ordre politiqueet civil, Parigi, Bureau du “Mémorial catholique”, 1825.- Essais sur l’indifférence en matière de religion, Parigi, Tournachon-Molin e H. Seguin, 1817.LEROUX (Pierre), Projet d’une constitution démocratique et sociale fondée surla loi meme de la vie et donnant, par une organisation véritable de l’Etat, lapossibilité de détruire à jamais la monarchie, l’aristocratie, l’anarchie, et le moyeninfaillible d’organiser le travail national sans blesser la liberté, Parigi, G. Sandré,1848.MARX (Karl), Lettre a J.B. von Schweitzer, 24 gennaio 1865, traduzioneM. Rubel e L. Evrard, Parigi, Gaillimard, “Pleiade”, t. I, 1965.- Marx à kugelmann, Parigi, Ed. Soc. Internationales, 1930.REMOND (René), La droite en France de 1815 à nos jours, Parigi, Aubier,1954.ROYER-COLLARD, Fragments philosophiques, Parigi, 1828-1836.SERGENT (Alain) e HARMEL (Claude), Histoire de l’anarchie, Parigi,Le Portulan, 1949.STIRNER (Max), L’Unique et sa propriété (1844), Paris Jean JacquesPauvert, 1960.WEILL (Georges), Histoire du parti républicain en France, 1814-1870,

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Parigi, Alcan, Nuova Ed., 1928.- I giornali operai a Parigi, 1830-1870, Revue d’Histoire moderne etcontemporaine, IX, ottob. 1907 – febb. 1908.

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INDICE

PREFAZIONE 9

INTRODUZIONE 15

PRIMA PARTEL’omologia delle strutture economiche

1. La complessità delle strutture economiche nel 1840 412. Le grandi imprese industriali 433. Il rifiuto delle strutture capitalistiche 514. La riforma dell’industria 575. Il rifiuto del modello contadino 646. Il modello manifatturiero (artigianato e media impresa) 717. L’omologia delle strutture economiche 79

SECONDA PARTEL’omologia delle pratiche

1. L’estensione del problema 972. La strategia proudhoniana 1093. I compagnonnages 1154. Le società di mutuo soccorso 1235. Il Mutualismo lionese 1416. La correlazione più stretta: i maestri-operai setaioli 1517. Mutualismo e Rivoluzione 168

TERZA PARTEL’omologia delle visioni del mondo

1. Il campo intellettuale del pensiero politico (1830-1848) 1892. Le passioni dominanti 1953. Il campo della coscienza e i suoi limiti 2104. L’anarchismo 2165. La creazione proudhoniana 226

CONCLUSIONI 235

Note 251Bibliografia 269

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Finito di stampare nel mese di maggio 2000

Stampato in proprio - Samizdat

Pescara via Milite Ignoto n° 72