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9 Salve, eccomi qua! Sono di nuovo io, Magi- gum, la ragazzina di gom- ma americana con il corpo molle e modellabile. L’indomabile protagonista di Lo strano mistero di Cartoonville è tornata tra voi. Non è passato molto tempo da quando dovetti affrontare Illecitus Intral- lazzini e la sua gang di topacci che si erano impadro- niti di Cartoonville, la più bella e divertente città del mondo dei cartoni animati, nella quale sono nata e dove ho sempre vissuto felice. La storia che ora state per leggere ha dell’incredibile e anch’io, che l’ho vissuta direttamente, stento ancora a credere a ciò che è accaduto nella mia scuola. Penso, quindi, che sia proprio il caso che io ve la racconti nei minimi dettagli, proprio così com’è accaduta. Leggetela tutta d’un fiato, vivendola attraverso i miei occhi e le mie emozioni, e ricordatevi che se è certamente importante capire bene quello che ci capita intorno, lo è ancora di più comprendere cosa succede dentro di noi, nella nostra mente, nella nostra anima, nel nostro cuore. Un abbraccio a voi e… buona lettura! Magigum

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Salve, eccomi qua!

Sono di nuovo io, Magi-

gum, la ragazzina di gom-

ma americana con il corpo molle e

modellabile. L’indomabile protagonista di

Lo strano mistero di Cartoonville

è tornata tra voi. Non è passato molto

tempo da quando dovetti affrontare Illecitus Intral-

lazzini e la sua gang di topacci che si erano impadro-

niti di Cartoonville, la più bella e divertente città del

mondo dei cartoni animati, nella quale sono nata e

dove ho sempre vissuto felice.

La storia che ora state per leggere ha dell’incredibile

e anch’io, che l’ho vissuta direttamente, stento ancora

a credere a ciò che è accaduto nella mia scuola. Penso,

quindi, che sia proprio il caso che io ve la racconti nei

minimi dettagli, proprio così com’è accaduta.

Leggetela tutta d’un fiato, vivendola attraverso

i miei occhi e le mie emozioni, e ricordatevi che se

è certamente importante capire bene quello che ci

capita intorno, lo è ancora di più comprendere cosa

succede dentro di noi, nella nostra mente, nella nostra

anima, nel nostro cuore.

Un abbraccio a voi e… buona lettura!

Magigum

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«Buongiorno dormiglioni! In piedi, forza, è Ra-

dio Cartoonville che vi dà la sveglia e vi invita a

tuffarvi a pesce in questa meravigliosa giornata.

Un esercito di disegnatori ha riempito il nostro

cielo di uno splendido colore azzurro e…»

«Click!»

A occhi chiusi, con un fulmineo gesto della

mano, premo il tasto OFF della radiosveglia e

mi giro dall’altra parte. Dormirò «solo» per altre

dieci ore…

Due minuti dopo: «Allora, poltroni, non avete

capito? Il sole è alto e decine di uccellini e cer-

biatti, presi in prestito dal classico Biancaneve

e i sette nani, sono pronti ad accogliervi fuori

dalla porta. Mettetevi in marcia verso le vostre

attività del giorno…»

«Tunf!»

Stavolta, con una manata poderosa, lancio la

radiosveglia contro il muro. Un rimbalzo e mi

ritorna sulla pancia. Provo ancora a dormire e

quella:

«Insomma, Magigum, alzati e vai a scuola! Oggi

è un giorno importante e potranno accadere cose

nuove e sconvolgenti. Scendi giù dal letto, lavati, fai

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colazione e prepara lo zaino, tra un quarto d’ora

il Ranabus graciderà fuori dal tuo giardino».

«Va bene, va bene… mi arrendo», dico io alzan-

domi, aprendo piano gli occhi e stiracchiando le

braccia di gomma americana fino a toccare il

soffitto della mia cameretta. Scosto la tendina

e guardo fuori.

«Che cielo, ragazzi! — penso — Devono aver

usato un nuovo tipo di azzurro, più intenso e

brillante. È il caso che mi prepari, in fondo an-

dare a scuola non è poi così brutto.»

Apro la finestra, respiro a fondo l’aria puli-

ta e fresca della mia città e grido il mio solito

saluto:

«Buongiorno Cartoonville, arrivo!»

Latte, caffé, biscotti, yogurt e succo di frutta:

colazione fatta!

Acqua, sapone, dentifricio, spazzolino, vestiti

e zaino: sono pronta!

«Cra, Cra, Cra!» il Ranabus è arrivato.

Esco sul prato del giardino, facendo attenzione

a non calpestare i bisognini che cerbiatti e uccel-

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lini di Biancaneve hanno depositato sull’erba e,

con un salto, mi piazzo nell’unico posto ancora

libero del buffo mezzo che tutte le mattine mi

porta a scuola. Mi allaccio la cintura e… via!

Il Ranabus inizia a saltare, sorvolando il tet-

to delle automobili e rimbalzando sull’asfalto

arancione delle strade. Ogni balzo è uno scom-

bussolamento nella pancia, dove latte, caffé,

biscotti, yogurt e succo di frutta si mescolano

tra loro, e una risata a crepapelle, perché c’è

sempre qualcuno che batte la testa contro la

morbida carrozzeria del Ranabus. Tutti sono

contenti di andare a scuola, il problema è solo

scoprire dov’è finita questa mattina.

Sì, perché la scuola non è proprio un edificio

tradizionale. Al contrario, ha la forma di una gran-

de palla che di notte si muove, rotola e rimbalza,

fermandosi ogni volta in un posto diverso.

È proprio il caso di dire che a Cartoonville «la

scuola è una palla», ma non nel significato che

di solito si dà a questa colorita espressione. In

realtà, da noi la scuola è una cosa molto diver-

tente, a cominciare dal momento dell’entrata.

Entrare, infatti, non è una cosa semplice,

dato che bisogna indovinare la porta o, meglio,

l’apertura giusta. Tra le tante, ce n’è una sola

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che permette l’accesso, le altre ti si chiudono

addosso mentre stai passando, ti masticano un

po’ e poi ti risputano fuori con un rutto. Certe

volte, per entrare, ho bisogno di cinque o sei

tentativi e quando alla fine ci riesco quasi mi

dispiace, perché sentirsi masticati, in fondo, è

una bella sensazione… specie per me che sono

fatta di gomma americana.

Il Ranabus salta e rimbalza in ogni angolo di

Cartoonville, ma della scuola nessuna traccia.

Torna indietro e ricomincia il giro da capo, ma

niente.

Poi un ragazzo seduto in coda urla: «Guardate,

laggiù in mezzo al laghetto… la scuola stamat-

tina è finita a mollo!»

Esplode una risata generale, mentre il Rana-

bus si gira su se stesso e, sbuffando, affronta

l’acqua fresca del lago: che fortuna essere un

mezzo anfibio!

Una volta che siamo arrivati a sfiorare la Pal-

lascuola, ogni studente sceglie un’apertura per

entrare. Io resto a guardare i primi tre che, dopo

qualche secondo, vengono risputati fuori, tutti

masticati, in mezzo all’acqua del laghetto.

«Che bello — penso — un tuffo mattutino è

proprio quello che ci vuole!»

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Mi avvicino a un ingresso, chiudo gli occhi

ed entro. Che sfortuna: ho azzeccato al primo

colpo quello giusto.

Entro con passo svelto nel grande atrio, arrivo

dall’Amicocitofono e suono il campanello, tenendo

i piedi ben fermi sulla botola di smistamento.

«Chi è che suona?» dice la voce del citofono.

«Sono Magigum, buongiorno mio caro» ri-

spondo io.

«Ciao Magi, come ti va oggi?»

«Veramente molto bene… è una splendida

giornata» dico a voce alta.

«E cosa ti aspetti da questa giornata?» do-

manda ancora lui, e io, di rimando:

«Qualche sorpresa. Anzi, molte sorprese,

come ha detto anche la mia radiosveglia questa

mattina».

Con uno scatto repentino la botola sotto ai

miei piedi si apre e inizio a scendere vorticosa-

mente su uno scivolo di gomma che, dopo curve

a gomito, discese mozzafiato e giri della morte,

mi proietta in classe.

Stamattina l’aula è veramente una forza:

c’è un grande tappetone rosso che copre tutto

il pavimento e le pareti sono dipinte di giallo

canarino Titti.

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Tolgo subito le scarpe e mi siedo vicino alla

mia amica Rosi.

Rosi è la mia migliore amica. È una splendida

ragazza con i capelli lisci e biondi, gli occhi az-

zurri e un sorriso luminoso come il sole. Tutti

i ragazzi della scuola hanno una cotta per Rosi

ma lei, bella com’è, sembra meravigliarsi e un

po’ infastidirsi per questo. D’altra parte, sente

su di sé gli sguardi ostili di molte ragazze che

sono invidiose di lei. Io con Rosi mi trovo bene,

insieme facciamo delle lunghe chiacchierate e

delle mitiche mangiate di gelati.

«Ciao Rò — le dico — che materie abbiamo

stamattina?»

«Non lo so ancora, Magi, ma spero non ci sia

Storia dei cartoni perché non ho studiato ab-

bastanza e non ricordo un accidente dell’ultima

lezione» mi risponde lei.

Un po’ infastidita dalla sua solita e ingiustificata

paura della storia, le dico sottovoce: «Ma la smetti

di preoccuparti per quattro cose da ricordare?

Basta sapere che Pongo e Peggy sono i due cani

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genitori, Rudi e Anita sono i loro padroni, Crudelia

Demon è la “cattiva” che vuole farsi una pelliccia

di pelo di dalmata e Gaspare e Orazio sono i suoi

due imbranati aiutanti. Certo non ci chiederanno

il nome di tutti i 101 cuccioli, che diamine!».

Rosi sembra rassicurata da quanto le dico,

ma improvvisamente: «Stunf!».

La porta dell’aula si apre di schianto, stac-

candosi dai cardini e restando tra le mani di

un omone gigantesco, con una grande barba e

una nuvola di capelli crespi e neri.

«Queste porte moderne — borbotta — le

disegnano resistenti come il formaggino!»

L’uomo osserva infastidito la porta, poi la ap-

pallottola riducendola alla stregua di una pallina

da tennis e la butta nel cestino della carta.

Io resto a bocca aperta, squadrando incredula

dalla testa ai piedi quella specie di gigante.

«E tu cos’hai da guardare? — mi urla lui — Non

hai mai visto una persona un po’ più alta della

media? Ti faccio forse paura?»

«Io non ho paura di niente — gli rispondo fie-

ra, sapendo di mentire — è solo che lei è entrato

in classe in un modo un po’ brusco e…»

Non faccio in tempo a finire la frase che mi

ritrovo sollevata da terra, tenuta per il colletto

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della camicia da quell’energumeno che mi parla

a due centimetri dal viso:

«Adesso vediamo se non hai paura di nien-

te…».

L’uomo tira fuori dalla tasca dei pantaloni

un barattolo di vernice nera e lo svuota su

una parete dell’aula, dove si forma una grande

macchia scura e gocciolante. Poi, dopo aver

preso bene la mira, mi lancia contro il muro

con violenza. Mentre volo temo di spiaccicarmi

contro la parete, poi, con grande sorpresa mi

accorgo che il muro è morbido e io entro nella

macchia nera, ritrovandomi in un posto freddo

e spaventosamente buio.

Non è vero che non ho paura di niente, stare

da sola in un posto buio che non conosco mi

terrorizza. Devo subito familiarizzare con lo

spazio in cui mi trovo. Non si vede un accidente,

il buio è talmente nero che non riesco nemme-

no a vedere le mani che mi avvicino agli occhi.

Sento un respiro affannoso: c’è qualcuno qui

vicino e la cosa mi fa salire il cuore in gola. Mi

muovo verso quel respiro e, improvvisamente, lo

sento più forte alle mie spalle. Mi giro di scatto

e avverto un soffio gelido sul viso, come se un

pupazzo di neve mi avesse alitato sulla faccia.

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Allungo le braccia, terrorizzata, ma non riesco

a toccare niente e nessuno. Devo capire come

è fatto questo posto! Mi distendo per terra e

inizio a espandere il mio corpo di gomma ame-

ricana, cercando di occupare tutto lo spazio,

alla ricerca di una parete, di una porta, di un

qualsiasi punto di riferimento. Mi allargo, mi

estendo, ormai lo spessore del mio corpo è simile

a quello della pellicola trasparente che uso per

avvolgere l’anguria nel frigo, ma niente… non

riesco a raggiungere e toccare nulla. Il respiro

che sentivo prima ritorna più forte, simile a un

lamento. Allora mi raccolgo tutta e mi faccio

più piccola che posso. Inizio a tremare. «Chi c’è?»

urlo con il cuore che mi batte impazzito. Il buio

è impenetrabile e comincio a tirare pugni nel

vuoto e a piangere disperata.

Due mani possenti mi afferrano alle spalle e

mi trascinano indietro come fossi un fuscello

nel vento.

«Aiuto! Aiutatemi!» urlo, mentre improvvi-

samente il buio è rotto da una luce forte che

rimbalza sulle pareti gialle e mi ferisce gli occhi.

Sono fuori dalla macchia nera e vedo tutti i miei

compagni che fissano stupiti la mia faccia terro-

rizzata e le lacrime che mi cadono sulla camicia.

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L’uomo gigantesco mi tiene sollevata, stringendo

le sue grandi mani sulle mie spalle.

«Ecco la vostra coraggiosa compagna… lei non

ha paura di niente!» dice con tono di scherno.

Poi mi lascia andare e io cado, rimbalzando

sul tappetone rosso, umiliata e piena di rabbia

per quello che è successo. Lui, con una risata

beffarda, continua a prendersi gioco di me e io

scopro cosa significa odiare qualcuno.

Resto distesa per terra e sento il bisbigliare

dei miei compagni che commentano l’accaduto.

Incrocio lo sguardo di Rosi che mi guarda come

se non fossi più io, come se per la prima volta

avesse visto una Magigum diversa. Questo pro-

prio non riesco a sopportarlo, mi alzo in piedi,

sento un nodo alla gola e capisco che le lacrime

stanno nuovamente per uscire copiose. Serro i

pugni e abbasso lo sguardo. No, non posso più

stare in questo posto, me ne andrò e non ci

tornerò mai più. Inizio a correre e, in un lampo,

scappo via dall’aula. Risalgo al contrario lo sci-

volo che mi ha portato in classe, dimenticando

che sarebbe molto più semplice e meno faticoso

utilizzare la cordascensore. In due minuti sono

di nuovo nell’atrio e mi attacco al campanello

dell’Amicocitofono, suonando all’impazzata.

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Nella grande sala riunioni, seduti in silenzio

su piccole sedie di legno, sono già in attesa mol-

tissimi studenti della scuola. Gli altri che, come

noi, arrivano a gruppi, vengono prelevati e ac-

compagnati ai loro posti da solerti pinguini che

svolgono la funzione che è stata assegnata loro

con ostentata professionalità. Mi guardo intor-

no: saranno almeno una trentina i pinguini che,

con la scritta «Staff» stampata sul petto, vanno

e vengono tra l’ingresso della sala e le sedie pre-

disposte per ospitare tutti gli studenti. Un’altra

decina, che invece ha la scritta «Security», sta in

piedi intorno a un imponente tavolo di noce, sul

quale sono poggiati microfoni e diverse bottiglie

d’acqua minerale. Ecco che entra il Tricopreside.

Lentamente, così come gli impone la sua mole,

va a sistemarsi dietro al tavolo e si siede su una

sedia speciale, rinforzata e ben più larga di quelle

destinate a noi ragazzi. Dopo un po’, una grande

animazione pervade la sala: arrivano altri pin-

guini che circondano un omino poco più alto di

loro, vestito con giacca e cravatta e con un largo

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sorriso stampato sulla faccia. Tutti scattano in

piedi e cercano di vedere il nuovo padrone della

scuola, l’illustrissimo Maramaldo de Rubeis. Solo

adesso mi rendo conto che intorno al tavolo,

spingendosi l’uno con l’altro per farsi largo e

conquistare una felice posizione, ci sono almeno

una ventina di fotografi e teleoperatori che fanno

scattare i loro flash per immortalare lo storico

momento. Maramaldo sorride e alza un braccio

con la mano aperta in segno di saluto. Esplode

un applauso nella sala e ho l’impressione che il

fragore del battito delle mani sia amplificato da

piccoli microfoni direzionali sistemati dapper-

tutto. Avverto una sensazione di disgusto. Vorrei

alzarmi e andare via, poi penso che restare sia

importante per capire, per parlare, per dire quello

che penso e impedire che avvenga qualcosa di

irreparabile. Cerco con lo sguardo gli occhi di Rosi,

sono fissi su quell’omino così potente. Osservo i

miei compagni di classe e mi rendo conto che

curiosità e ammirazione si combinano nei loro

stati d’animo. Il Tricopreside si alza faticosamente

e indica a colui che si sta impossessando della

mia scuola una poltrona rossa, simile al trono

di un re. Maramaldo, utilizzando un piccolo ban-

chetto, si arrampica sul trono, si sistema in modo

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da poter vedere e poter essere visto da tutti e,

poi, assume un’espressione seria e concentrata,

lasciando sulle proprie labbra un’ombra di sor-

riso, simile a un ghigno terribile. Tutto è pronto:

sta per iniziare il primo discorso di un uomo

che tutti considerano un benefattore e che io,

al contrario, vedo come «il nemico».

«Carissimi studenti, — esordisce con voce

chiara e decisa — a voi che rappresentate il fu-

turo della città di Cartoonville e la speranza di

tutto il mondo dei cartoni, rivolgo il più sentito

benvenuto nella mia scuola.»

Un primo applauso, avviato dai solerti pingui-

ni, proseguito dal Tricopreside e poi seguito dalla

quasi totalità degli studenti, esplode nella sala

e fa vibrare le pareti e i vetri delle finestre.

«Il compito che la mia coscienza — riprende

Maramaldo all’esaurirsi dei battimani — mi ha

imposto di realizzare è quello di rendere migliori

le vostre menti e le vostre anime, grazie a una

scuola migliore!»

L’accento posto sull’ultima parola della frase

rappresenta un esplicito invito a ripetere l’ap-

plauso e l’uditorio non si fa certo pregare.

«La scuola Ordine e sviluppo — prosegue — ren-

derà ognuno di voi un vero protagonista della

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società di domani e trasformerà le vostre vite

in una sfida continua, tesa alla conquista di

obiettivi sempre più ambiziosi.»

C’è qualcosa che non mi piace nella sua voce.

Le sue parole non significano niente per me.

Inizio ad agitarmi sulla sedia.

«Ordine e sviluppo sono elementi essenziali

per la vostra educazione. — spiega — L’ordine

vi insegnerà a rispettare l’importanza dei ruoli

di ciascuno e l’obbedienza verso coloro che

tanto fanno per voi. Lo sviluppo vi garantirà

un futuro ricco e felice, nel quale vi distingue-

rete dalla massa, sarete in grado di contare

più degli altri, saprete comandare e guidare

gli altri.»

Io non mi voglio distinguere e non voglio co-

mandare nessuno, penso. Voglio solo continuare

a divertirmi a scuola ed essere felice.

«Ma badate bene! — la sua voce diventa dura

e minacciosa — Ci sono ancora in giro soggetti

che la pensano diversamente, che considera-

no la scuola un luogo in cui insegnare delle

sciocchezze che non servono allo sviluppo e

all’ordine, ma solo a creare confusione. Che inse-

gnano la mollezza dei sentimenti più infantili,

delle libertà più inopportune. Di tutto ciò noi

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abbiamo fatto piazza pulita e cancelleremo

ogni ulteriore segnale dovesse manifestarsi

in futuro.»

«Ecco, — penso — sta parlando di me, è riu-

scito a leggermi nel pensiero, mi vuole cancel-

lare.» È meglio affrontare subito la situazione:

parlerò! Alzo la mano per chiedere la parola,

ma nessuno si accorge di me. Distendo in

alto il mio braccio di gomma fino a sfiorare

il grande lampadario che pende dal soffitto,

facendo tintinnare i suoi pendagli di cristallo,

ma nessuno mi nota. Allungo allora il braccio

in direzione di Maramaldo e gli sventolo le

cinque dita della mia mano davanti alla faccia,

ma ancora niente, lui continua imperterrito

il suo discorso. Decido di parlare e interrom-

perlo, per dire che no, io non ci sto. Io voglio

ancora mollezze e sentimenti e dello sviluppo

non me ne importa un fico secco. Io sono una

ragazzina e voglio divertirmi. Nel momento in

cui spalanco la bocca per urlare le mie sensa-

zioni, una piccola e gelida ala me la chiude con

forza, mentre, come morse di acciaio, altre ali

si serrano intorno alle mie soffici braccia, mi

sollevano e, nell’indifferenza generale, mi por-

tano fuori dalla sala. I pinguini della Security

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mi trascinano di peso e mi chiudono a chiave

in uno stanzino, dove arriva amplificata da

piccoli altoparlanti la voce di Maramaldo De

Rubeis che conclude il suo discorso:

«Ho ingaggiato per voi i migliori insegnanti

che sapranno forgiare le vostre personalità, ren-

dendovi dei vincenti, dei personaggi di successo.

Sappiate apprezzare tutto ciò e manifestare

sempre la vostra gratitudine verso chi ha creato

per voi questa meravigliosa opportunità. Buon

anno scolastico, miei cari, impegnatevi per voi,

per il vostro futuro, per la vostra città e… per

la mia scuola!».

Un altro assordante applauso accompagna

le ultime parole di Maramaldo e io, chiusa nello

stanzino, mi risparmio di vedere la sua faccia

soddisfatta, il suo falso sorriso e la sua uscita

trionfale, circondato dalla scorta dei pinguini

e illuminato dai flash dei fotografi.

La rabbia e l’angoscia che provo dentro di me

sono indescrivibili. Adesso, appena mi apriranno

la porta, prenderò a pugni quegli stupidi pingui-

ni, rincorrerò Maramaldo per dirgliene quattro,

occuperò la tricopresidenza fino a che non mi

restituiranno la mia scuola. Appena verranno

ad aprirmi… ma sono già passati parecchi mi-

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nuti e nessuno è venuto. Inizio a urlare: «Aprite!

Sono chiusa qua dentro, fatemi uscire!». Passa

altro tempo. Urlo ancora: «Stupidi pinguini,

aprite questa cavolo di porta!». Non sento più

né voci, né passi: la scuola è deserta. Insisto:

«Basta con questo maledetto scherzo, voglio

andare a casa. Aprite uccellacci con il cervello

congelato!». Niente. Mi hanno lasciata chiusa

qui dentro. Questa deve essere la punizione per

me. Solo perché volevo intervenire e dire la mia,

ho attentato all’ordine e allo sviluppo e adesso

devo pagare. Mi lasceranno qui tutta la notte e

domani vorranno accertarsi che io abbia capito

la lezione.

«Aprite! Maledetti, aprite! — urlo fuori di me

— Voglio uscire… voglio andare via…»

E scoppio in un pianto rabbioso, e butto

a terra tutto quello che trovo appoggiato

sul tavolo dello stanzino, e prendo a calci la

porta, e sbriciolo i gessetti colorati disposti

ordinatamente nelle loro scatole di cartone,

e rovescio a terra le carte del cestino, e urlo e

piango e urlo… ma nessuno mi sente, nessuno

mi aiuta.