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Salve, eccomi qua!
Sono di nuovo io, Magi-
gum, la ragazzina di gom-
ma americana con il corpo molle e
modellabile. L’indomabile protagonista di
Lo strano mistero di Cartoonville
è tornata tra voi. Non è passato molto
tempo da quando dovetti affrontare Illecitus Intral-
lazzini e la sua gang di topacci che si erano impadro-
niti di Cartoonville, la più bella e divertente città del
mondo dei cartoni animati, nella quale sono nata e
dove ho sempre vissuto felice.
La storia che ora state per leggere ha dell’incredibile
e anch’io, che l’ho vissuta direttamente, stento ancora
a credere a ciò che è accaduto nella mia scuola. Penso,
quindi, che sia proprio il caso che io ve la racconti nei
minimi dettagli, proprio così com’è accaduta.
Leggetela tutta d’un fiato, vivendola attraverso
i miei occhi e le mie emozioni, e ricordatevi che se
è certamente importante capire bene quello che ci
capita intorno, lo è ancora di più comprendere cosa
succede dentro di noi, nella nostra mente, nella nostra
anima, nel nostro cuore.
Un abbraccio a voi e… buona lettura!
Magigum
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«Buongiorno dormiglioni! In piedi, forza, è Ra-
dio Cartoonville che vi dà la sveglia e vi invita a
tuffarvi a pesce in questa meravigliosa giornata.
Un esercito di disegnatori ha riempito il nostro
cielo di uno splendido colore azzurro e…»
«Click!»
A occhi chiusi, con un fulmineo gesto della
mano, premo il tasto OFF della radiosveglia e
mi giro dall’altra parte. Dormirò «solo» per altre
dieci ore…
Due minuti dopo: «Allora, poltroni, non avete
capito? Il sole è alto e decine di uccellini e cer-
biatti, presi in prestito dal classico Biancaneve
e i sette nani, sono pronti ad accogliervi fuori
dalla porta. Mettetevi in marcia verso le vostre
attività del giorno…»
«Tunf!»
Stavolta, con una manata poderosa, lancio la
radiosveglia contro il muro. Un rimbalzo e mi
ritorna sulla pancia. Provo ancora a dormire e
quella:
«Insomma, Magigum, alzati e vai a scuola! Oggi
è un giorno importante e potranno accadere cose
nuove e sconvolgenti. Scendi giù dal letto, lavati, fai
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colazione e prepara lo zaino, tra un quarto d’ora
il Ranabus graciderà fuori dal tuo giardino».
«Va bene, va bene… mi arrendo», dico io alzan-
domi, aprendo piano gli occhi e stiracchiando le
braccia di gomma americana fino a toccare il
soffitto della mia cameretta. Scosto la tendina
e guardo fuori.
«Che cielo, ragazzi! — penso — Devono aver
usato un nuovo tipo di azzurro, più intenso e
brillante. È il caso che mi prepari, in fondo an-
dare a scuola non è poi così brutto.»
Apro la finestra, respiro a fondo l’aria puli-
ta e fresca della mia città e grido il mio solito
saluto:
«Buongiorno Cartoonville, arrivo!»
Latte, caffé, biscotti, yogurt e succo di frutta:
colazione fatta!
Acqua, sapone, dentifricio, spazzolino, vestiti
e zaino: sono pronta!
«Cra, Cra, Cra!» il Ranabus è arrivato.
Esco sul prato del giardino, facendo attenzione
a non calpestare i bisognini che cerbiatti e uccel-
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lini di Biancaneve hanno depositato sull’erba e,
con un salto, mi piazzo nell’unico posto ancora
libero del buffo mezzo che tutte le mattine mi
porta a scuola. Mi allaccio la cintura e… via!
Il Ranabus inizia a saltare, sorvolando il tet-
to delle automobili e rimbalzando sull’asfalto
arancione delle strade. Ogni balzo è uno scom-
bussolamento nella pancia, dove latte, caffé,
biscotti, yogurt e succo di frutta si mescolano
tra loro, e una risata a crepapelle, perché c’è
sempre qualcuno che batte la testa contro la
morbida carrozzeria del Ranabus. Tutti sono
contenti di andare a scuola, il problema è solo
scoprire dov’è finita questa mattina.
Sì, perché la scuola non è proprio un edificio
tradizionale. Al contrario, ha la forma di una gran-
de palla che di notte si muove, rotola e rimbalza,
fermandosi ogni volta in un posto diverso.
È proprio il caso di dire che a Cartoonville «la
scuola è una palla», ma non nel significato che
di solito si dà a questa colorita espressione. In
realtà, da noi la scuola è una cosa molto diver-
tente, a cominciare dal momento dell’entrata.
Entrare, infatti, non è una cosa semplice,
dato che bisogna indovinare la porta o, meglio,
l’apertura giusta. Tra le tante, ce n’è una sola
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che permette l’accesso, le altre ti si chiudono
addosso mentre stai passando, ti masticano un
po’ e poi ti risputano fuori con un rutto. Certe
volte, per entrare, ho bisogno di cinque o sei
tentativi e quando alla fine ci riesco quasi mi
dispiace, perché sentirsi masticati, in fondo, è
una bella sensazione… specie per me che sono
fatta di gomma americana.
Il Ranabus salta e rimbalza in ogni angolo di
Cartoonville, ma della scuola nessuna traccia.
Torna indietro e ricomincia il giro da capo, ma
niente.
Poi un ragazzo seduto in coda urla: «Guardate,
laggiù in mezzo al laghetto… la scuola stamat-
tina è finita a mollo!»
Esplode una risata generale, mentre il Rana-
bus si gira su se stesso e, sbuffando, affronta
l’acqua fresca del lago: che fortuna essere un
mezzo anfibio!
Una volta che siamo arrivati a sfiorare la Pal-
lascuola, ogni studente sceglie un’apertura per
entrare. Io resto a guardare i primi tre che, dopo
qualche secondo, vengono risputati fuori, tutti
masticati, in mezzo all’acqua del laghetto.
«Che bello — penso — un tuffo mattutino è
proprio quello che ci vuole!»
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Mi avvicino a un ingresso, chiudo gli occhi
ed entro. Che sfortuna: ho azzeccato al primo
colpo quello giusto.
Entro con passo svelto nel grande atrio, arrivo
dall’Amicocitofono e suono il campanello, tenendo
i piedi ben fermi sulla botola di smistamento.
«Chi è che suona?» dice la voce del citofono.
«Sono Magigum, buongiorno mio caro» ri-
spondo io.
«Ciao Magi, come ti va oggi?»
«Veramente molto bene… è una splendida
giornata» dico a voce alta.
«E cosa ti aspetti da questa giornata?» do-
manda ancora lui, e io, di rimando:
«Qualche sorpresa. Anzi, molte sorprese,
come ha detto anche la mia radiosveglia questa
mattina».
Con uno scatto repentino la botola sotto ai
miei piedi si apre e inizio a scendere vorticosa-
mente su uno scivolo di gomma che, dopo curve
a gomito, discese mozzafiato e giri della morte,
mi proietta in classe.
Stamattina l’aula è veramente una forza:
c’è un grande tappetone rosso che copre tutto
il pavimento e le pareti sono dipinte di giallo
canarino Titti.
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Tolgo subito le scarpe e mi siedo vicino alla
mia amica Rosi.
Rosi è la mia migliore amica. È una splendida
ragazza con i capelli lisci e biondi, gli occhi az-
zurri e un sorriso luminoso come il sole. Tutti
i ragazzi della scuola hanno una cotta per Rosi
ma lei, bella com’è, sembra meravigliarsi e un
po’ infastidirsi per questo. D’altra parte, sente
su di sé gli sguardi ostili di molte ragazze che
sono invidiose di lei. Io con Rosi mi trovo bene,
insieme facciamo delle lunghe chiacchierate e
delle mitiche mangiate di gelati.
«Ciao Rò — le dico — che materie abbiamo
stamattina?»
«Non lo so ancora, Magi, ma spero non ci sia
Storia dei cartoni perché non ho studiato ab-
bastanza e non ricordo un accidente dell’ultima
lezione» mi risponde lei.
Un po’ infastidita dalla sua solita e ingiustificata
paura della storia, le dico sottovoce: «Ma la smetti
di preoccuparti per quattro cose da ricordare?
Basta sapere che Pongo e Peggy sono i due cani
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genitori, Rudi e Anita sono i loro padroni, Crudelia
Demon è la “cattiva” che vuole farsi una pelliccia
di pelo di dalmata e Gaspare e Orazio sono i suoi
due imbranati aiutanti. Certo non ci chiederanno
il nome di tutti i 101 cuccioli, che diamine!».
Rosi sembra rassicurata da quanto le dico,
ma improvvisamente: «Stunf!».
La porta dell’aula si apre di schianto, stac-
candosi dai cardini e restando tra le mani di
un omone gigantesco, con una grande barba e
una nuvola di capelli crespi e neri.
«Queste porte moderne — borbotta — le
disegnano resistenti come il formaggino!»
L’uomo osserva infastidito la porta, poi la ap-
pallottola riducendola alla stregua di una pallina
da tennis e la butta nel cestino della carta.
Io resto a bocca aperta, squadrando incredula
dalla testa ai piedi quella specie di gigante.
«E tu cos’hai da guardare? — mi urla lui — Non
hai mai visto una persona un po’ più alta della
media? Ti faccio forse paura?»
«Io non ho paura di niente — gli rispondo fie-
ra, sapendo di mentire — è solo che lei è entrato
in classe in un modo un po’ brusco e…»
Non faccio in tempo a finire la frase che mi
ritrovo sollevata da terra, tenuta per il colletto
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della camicia da quell’energumeno che mi parla
a due centimetri dal viso:
«Adesso vediamo se non hai paura di nien-
te…».
L’uomo tira fuori dalla tasca dei pantaloni
un barattolo di vernice nera e lo svuota su
una parete dell’aula, dove si forma una grande
macchia scura e gocciolante. Poi, dopo aver
preso bene la mira, mi lancia contro il muro
con violenza. Mentre volo temo di spiaccicarmi
contro la parete, poi, con grande sorpresa mi
accorgo che il muro è morbido e io entro nella
macchia nera, ritrovandomi in un posto freddo
e spaventosamente buio.
Non è vero che non ho paura di niente, stare
da sola in un posto buio che non conosco mi
terrorizza. Devo subito familiarizzare con lo
spazio in cui mi trovo. Non si vede un accidente,
il buio è talmente nero che non riesco nemme-
no a vedere le mani che mi avvicino agli occhi.
Sento un respiro affannoso: c’è qualcuno qui
vicino e la cosa mi fa salire il cuore in gola. Mi
muovo verso quel respiro e, improvvisamente, lo
sento più forte alle mie spalle. Mi giro di scatto
e avverto un soffio gelido sul viso, come se un
pupazzo di neve mi avesse alitato sulla faccia.
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Allungo le braccia, terrorizzata, ma non riesco
a toccare niente e nessuno. Devo capire come
è fatto questo posto! Mi distendo per terra e
inizio a espandere il mio corpo di gomma ame-
ricana, cercando di occupare tutto lo spazio,
alla ricerca di una parete, di una porta, di un
qualsiasi punto di riferimento. Mi allargo, mi
estendo, ormai lo spessore del mio corpo è simile
a quello della pellicola trasparente che uso per
avvolgere l’anguria nel frigo, ma niente… non
riesco a raggiungere e toccare nulla. Il respiro
che sentivo prima ritorna più forte, simile a un
lamento. Allora mi raccolgo tutta e mi faccio
più piccola che posso. Inizio a tremare. «Chi c’è?»
urlo con il cuore che mi batte impazzito. Il buio
è impenetrabile e comincio a tirare pugni nel
vuoto e a piangere disperata.
Due mani possenti mi afferrano alle spalle e
mi trascinano indietro come fossi un fuscello
nel vento.
«Aiuto! Aiutatemi!» urlo, mentre improvvi-
samente il buio è rotto da una luce forte che
rimbalza sulle pareti gialle e mi ferisce gli occhi.
Sono fuori dalla macchia nera e vedo tutti i miei
compagni che fissano stupiti la mia faccia terro-
rizzata e le lacrime che mi cadono sulla camicia.
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L’uomo gigantesco mi tiene sollevata, stringendo
le sue grandi mani sulle mie spalle.
«Ecco la vostra coraggiosa compagna… lei non
ha paura di niente!» dice con tono di scherno.
Poi mi lascia andare e io cado, rimbalzando
sul tappetone rosso, umiliata e piena di rabbia
per quello che è successo. Lui, con una risata
beffarda, continua a prendersi gioco di me e io
scopro cosa significa odiare qualcuno.
Resto distesa per terra e sento il bisbigliare
dei miei compagni che commentano l’accaduto.
Incrocio lo sguardo di Rosi che mi guarda come
se non fossi più io, come se per la prima volta
avesse visto una Magigum diversa. Questo pro-
prio non riesco a sopportarlo, mi alzo in piedi,
sento un nodo alla gola e capisco che le lacrime
stanno nuovamente per uscire copiose. Serro i
pugni e abbasso lo sguardo. No, non posso più
stare in questo posto, me ne andrò e non ci
tornerò mai più. Inizio a correre e, in un lampo,
scappo via dall’aula. Risalgo al contrario lo sci-
volo che mi ha portato in classe, dimenticando
che sarebbe molto più semplice e meno faticoso
utilizzare la cordascensore. In due minuti sono
di nuovo nell’atrio e mi attacco al campanello
dell’Amicocitofono, suonando all’impazzata.
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Nella grande sala riunioni, seduti in silenzio
su piccole sedie di legno, sono già in attesa mol-
tissimi studenti della scuola. Gli altri che, come
noi, arrivano a gruppi, vengono prelevati e ac-
compagnati ai loro posti da solerti pinguini che
svolgono la funzione che è stata assegnata loro
con ostentata professionalità. Mi guardo intor-
no: saranno almeno una trentina i pinguini che,
con la scritta «Staff» stampata sul petto, vanno
e vengono tra l’ingresso della sala e le sedie pre-
disposte per ospitare tutti gli studenti. Un’altra
decina, che invece ha la scritta «Security», sta in
piedi intorno a un imponente tavolo di noce, sul
quale sono poggiati microfoni e diverse bottiglie
d’acqua minerale. Ecco che entra il Tricopreside.
Lentamente, così come gli impone la sua mole,
va a sistemarsi dietro al tavolo e si siede su una
sedia speciale, rinforzata e ben più larga di quelle
destinate a noi ragazzi. Dopo un po’, una grande
animazione pervade la sala: arrivano altri pin-
guini che circondano un omino poco più alto di
loro, vestito con giacca e cravatta e con un largo
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sorriso stampato sulla faccia. Tutti scattano in
piedi e cercano di vedere il nuovo padrone della
scuola, l’illustrissimo Maramaldo de Rubeis. Solo
adesso mi rendo conto che intorno al tavolo,
spingendosi l’uno con l’altro per farsi largo e
conquistare una felice posizione, ci sono almeno
una ventina di fotografi e teleoperatori che fanno
scattare i loro flash per immortalare lo storico
momento. Maramaldo sorride e alza un braccio
con la mano aperta in segno di saluto. Esplode
un applauso nella sala e ho l’impressione che il
fragore del battito delle mani sia amplificato da
piccoli microfoni direzionali sistemati dapper-
tutto. Avverto una sensazione di disgusto. Vorrei
alzarmi e andare via, poi penso che restare sia
importante per capire, per parlare, per dire quello
che penso e impedire che avvenga qualcosa di
irreparabile. Cerco con lo sguardo gli occhi di Rosi,
sono fissi su quell’omino così potente. Osservo i
miei compagni di classe e mi rendo conto che
curiosità e ammirazione si combinano nei loro
stati d’animo. Il Tricopreside si alza faticosamente
e indica a colui che si sta impossessando della
mia scuola una poltrona rossa, simile al trono
di un re. Maramaldo, utilizzando un piccolo ban-
chetto, si arrampica sul trono, si sistema in modo
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da poter vedere e poter essere visto da tutti e,
poi, assume un’espressione seria e concentrata,
lasciando sulle proprie labbra un’ombra di sor-
riso, simile a un ghigno terribile. Tutto è pronto:
sta per iniziare il primo discorso di un uomo
che tutti considerano un benefattore e che io,
al contrario, vedo come «il nemico».
«Carissimi studenti, — esordisce con voce
chiara e decisa — a voi che rappresentate il fu-
turo della città di Cartoonville e la speranza di
tutto il mondo dei cartoni, rivolgo il più sentito
benvenuto nella mia scuola.»
Un primo applauso, avviato dai solerti pingui-
ni, proseguito dal Tricopreside e poi seguito dalla
quasi totalità degli studenti, esplode nella sala
e fa vibrare le pareti e i vetri delle finestre.
«Il compito che la mia coscienza — riprende
Maramaldo all’esaurirsi dei battimani — mi ha
imposto di realizzare è quello di rendere migliori
le vostre menti e le vostre anime, grazie a una
scuola migliore!»
L’accento posto sull’ultima parola della frase
rappresenta un esplicito invito a ripetere l’ap-
plauso e l’uditorio non si fa certo pregare.
«La scuola Ordine e sviluppo — prosegue — ren-
derà ognuno di voi un vero protagonista della
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società di domani e trasformerà le vostre vite
in una sfida continua, tesa alla conquista di
obiettivi sempre più ambiziosi.»
C’è qualcosa che non mi piace nella sua voce.
Le sue parole non significano niente per me.
Inizio ad agitarmi sulla sedia.
«Ordine e sviluppo sono elementi essenziali
per la vostra educazione. — spiega — L’ordine
vi insegnerà a rispettare l’importanza dei ruoli
di ciascuno e l’obbedienza verso coloro che
tanto fanno per voi. Lo sviluppo vi garantirà
un futuro ricco e felice, nel quale vi distingue-
rete dalla massa, sarete in grado di contare
più degli altri, saprete comandare e guidare
gli altri.»
Io non mi voglio distinguere e non voglio co-
mandare nessuno, penso. Voglio solo continuare
a divertirmi a scuola ed essere felice.
«Ma badate bene! — la sua voce diventa dura
e minacciosa — Ci sono ancora in giro soggetti
che la pensano diversamente, che considera-
no la scuola un luogo in cui insegnare delle
sciocchezze che non servono allo sviluppo e
all’ordine, ma solo a creare confusione. Che inse-
gnano la mollezza dei sentimenti più infantili,
delle libertà più inopportune. Di tutto ciò noi
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abbiamo fatto piazza pulita e cancelleremo
ogni ulteriore segnale dovesse manifestarsi
in futuro.»
«Ecco, — penso — sta parlando di me, è riu-
scito a leggermi nel pensiero, mi vuole cancel-
lare.» È meglio affrontare subito la situazione:
parlerò! Alzo la mano per chiedere la parola,
ma nessuno si accorge di me. Distendo in
alto il mio braccio di gomma fino a sfiorare
il grande lampadario che pende dal soffitto,
facendo tintinnare i suoi pendagli di cristallo,
ma nessuno mi nota. Allungo allora il braccio
in direzione di Maramaldo e gli sventolo le
cinque dita della mia mano davanti alla faccia,
ma ancora niente, lui continua imperterrito
il suo discorso. Decido di parlare e interrom-
perlo, per dire che no, io non ci sto. Io voglio
ancora mollezze e sentimenti e dello sviluppo
non me ne importa un fico secco. Io sono una
ragazzina e voglio divertirmi. Nel momento in
cui spalanco la bocca per urlare le mie sensa-
zioni, una piccola e gelida ala me la chiude con
forza, mentre, come morse di acciaio, altre ali
si serrano intorno alle mie soffici braccia, mi
sollevano e, nell’indifferenza generale, mi por-
tano fuori dalla sala. I pinguini della Security
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mi trascinano di peso e mi chiudono a chiave
in uno stanzino, dove arriva amplificata da
piccoli altoparlanti la voce di Maramaldo De
Rubeis che conclude il suo discorso:
«Ho ingaggiato per voi i migliori insegnanti
che sapranno forgiare le vostre personalità, ren-
dendovi dei vincenti, dei personaggi di successo.
Sappiate apprezzare tutto ciò e manifestare
sempre la vostra gratitudine verso chi ha creato
per voi questa meravigliosa opportunità. Buon
anno scolastico, miei cari, impegnatevi per voi,
per il vostro futuro, per la vostra città e… per
la mia scuola!».
Un altro assordante applauso accompagna
le ultime parole di Maramaldo e io, chiusa nello
stanzino, mi risparmio di vedere la sua faccia
soddisfatta, il suo falso sorriso e la sua uscita
trionfale, circondato dalla scorta dei pinguini
e illuminato dai flash dei fotografi.
La rabbia e l’angoscia che provo dentro di me
sono indescrivibili. Adesso, appena mi apriranno
la porta, prenderò a pugni quegli stupidi pingui-
ni, rincorrerò Maramaldo per dirgliene quattro,
occuperò la tricopresidenza fino a che non mi
restituiranno la mia scuola. Appena verranno
ad aprirmi… ma sono già passati parecchi mi-
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nuti e nessuno è venuto. Inizio a urlare: «Aprite!
Sono chiusa qua dentro, fatemi uscire!». Passa
altro tempo. Urlo ancora: «Stupidi pinguini,
aprite questa cavolo di porta!». Non sento più
né voci, né passi: la scuola è deserta. Insisto:
«Basta con questo maledetto scherzo, voglio
andare a casa. Aprite uccellacci con il cervello
congelato!». Niente. Mi hanno lasciata chiusa
qui dentro. Questa deve essere la punizione per
me. Solo perché volevo intervenire e dire la mia,
ho attentato all’ordine e allo sviluppo e adesso
devo pagare. Mi lasceranno qui tutta la notte e
domani vorranno accertarsi che io abbia capito
la lezione.
«Aprite! Maledetti, aprite! — urlo fuori di me
— Voglio uscire… voglio andare via…»
E scoppio in un pianto rabbioso, e butto
a terra tutto quello che trovo appoggiato
sul tavolo dello stanzino, e prendo a calci la
porta, e sbriciolo i gessetti colorati disposti
ordinatamente nelle loro scatole di cartone,
e rovescio a terra le carte del cestino, e urlo e
piango e urlo… ma nessuno mi sente, nessuno
mi aiuta.