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Saistica Aracne 165

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Saggistica Aracne165

Augusta Morelli

Un acuto nel silenzioGiacomo Lauri Volpi

Copyright © MMXARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133/A–B00173 Roma

(06) 93781065

isbn 978–88–548–3617–4

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: novembre 2010

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Indice

7 Prefazione Perché un libro sul tenore Giacomo Lauri Volpi

9 Capitolo I Come nacque il nostro rapporto epistolare

1.1. Luci e ombre – 1.2. Ricordi e commenti di Giacomo Lauri Vol­pi – 1.3. In arte Giacomo Lauri Volpi – 1.4. Ritratti – 1.5. «Gli anni mi pesano» – 1.6. Scusi, Lei chi è? – 1.7. L’ultima lettera – 1.8. Come ricevetti la notizia della sua morte – 1.9. Che dire?

33 Capitolo II Passaggi della sua vita d’artista

2.1. Infanzia e prima giovinezza (1892–1921) – 2.2. La carriera arti­stica (1921–1928) – 2.3. La celebrità (1928–1939)

93 Capitolo III Due vite che si incontrano

3.1. 1949. Dopo la guerra – 3.2. 1952–1956 – 3.3. 1957–1959 – 3.4. 1964. Giacomo usciva dalle scene del suo amato Paese – 3.5. 1970. Un anno infelice – 3.6. 20 novembre 1975. Muore mio padre

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123 Capitolo IV Ricordi e commenti

4.1. Franco Corelli in visita al buen retiro – 4.2. Maria Callas – 4.3. I grandi autori del periodo verista – 4.4. I giovani e il teatro lirico – 4.5. Cinquantesimo della morte di Giacomo Puccini – 4.6. Gia­como Lauri Volpi e la politica – 4.7. Nel centenario della nascita di Arturo Toscanini – 4.8. Domenica 18 marzo 1979

139 Appendice fotografica

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Prefazione

Perché un libro sul tenore Giacomo Lauri Volpi

Giacomo Lauri Volpi, considerato fra i più grandi tenori di tutti tempi, è stato dimenticato.

Oggi, quando si vuole paragonare un personaggio lirico a una voce d’altri tempi, si cita esclusivamente Caruso. Ciò è inconcepibi­le, se soltanto si pensa che Lauri Volpi aveva una voce potentissima, capace di estendersi dal fa naturale contrabbasso al fa naturale so­pracuto, padrone assoluto di tre ottave di vibrazione.

Questo libro nasce dal mio desiderio personale di ricordarlo come artista e come persona.

Era nato da una famiglia povera in un piccolo paese del Lazio, La­nuvio; autodidatta, con applicazione durissima e severissima disciplina, Giacomo seppe arrivare alla gloria nel mondo raffinato e selettivo della musica lirica, lavorando con tutti i più grandi musicisti del suo tempo, tra cui Puccini, Toscanini e Mascagni. Amò l’Italia profondamente, ma purtroppo non ne fu riamato con altrettanta passione; negli anni diffi­cili del fascismo, la sua arte fu la vera ambasciatrice all’estero del nostro Paese.Tutto questo emerge distintamente dalle lettere della nostra cor­rispondenza, che mi accingo a condividere con i miei lettori.

Mio padre fu il suo più intimo ed affezionato amico. Da adole­scente, con le sue pittoresche vesti di scena, Giacomo entrò nella mia fantasia.

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Da giovane adulta, invece, cominciai ad interessarmi a lui ben oltre i suoi personaggi; ero curiosa di conoscere la natura di quell’ar­tista straordinario che riusciva ad emozionarmi tanto; volevo sapere che genere di uomo si nascondesse dietro alla capacità di rappresen­tare tanti eroi diversi, spesso contrastanti, tutti però accomunati da forza e determinazione.

Incoraggiata da mio padre, cominciai a scrivergli. Il nostro rap­porto divenne molto intimo e sincero, e scoprii delle doti di Giaco­mo insospettabili: la profonda conoscenza dell’animo umano, una cultura straordinaria che egli viveva sinceramente, facendone una guida per la sua arte e la sua interiorità, una generosità nobile e si­lenziosa, un uomo dagli affetti delicati e profondi.

Tutto questo mal si accorda con le accuse che in vita lo descrisse­ro come un “divo” capriccioso e prepotente, rivoltegli da una stam­pa ed un mondo lirico invidiosi e superficiali.

Nell’intento di restituire a tutti questo personaggio straordinario, voglio condividere quello che mi ha dato, per ricordare un grande italiano altrimenti destinato all’oblio.

Perché la storia ci insegna che il progresso contiene ciò che di importante appartiene al passato.

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Capitolo I

Come nacque il nostro rapporto epistolare

1.1. Luci e ombre

Ero una giovanetta alla quale il padre imponeva, ogni tanto, di recarsi al Teatro dell’Opera di Roma.

Giacomo Lauri Volpi lo conobbi così, dalla cosiddetta “picciona­ia” del teatro.

Mi lamentavo perché vedevo i personaggi troppo lontani. Ma mio padre sosteneva che quello era il posto dove si sentiva il vero calore della gente, che inveiva o applaudiva determinando il successo o l’in­successo dell’opera.

Non posso nascondere che, data l’età, avrei preferito non addor­mentarmi su quella sedia tanto rigida. La sofferenza di mio padre era tale, nel vedermi disattenta, che non riusciva a capacitarsene. Allora, poveretto, cercava di coinvolgermi in tutti i modi. Ogni tan­to mi svegliava da quel torpore musicale, per raccontarmi la storia dell’opera, nella speranza che riuscissi, attraverso le sue spiegazioni, a capire meglio quella tale melodia.

Volevo molto bene a mio padre, dunque decidevo di recitare la parte della persona interessata. Subito vedevo il sorriso nascere nel suo sguardo. Non avevo però messo in conto che, da quel momento, non mi sarei più salvata. Più tardi capii che ne era valsa la pena, per­ché oggi amo molto la musica e, in particolare, quella lirica.

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Giacomo Lauri Volpi non seppe mai quale tormento aveva provo­cato nella mia mente.

Una volta, annoiata e refrattaria a qualunque cosa mi si diceva, finsi di interessarmi ai buffi vestiti che indossavano i personaggi.

Mio padre si dimostrò molto contento. E si mise a spiegarmi det­tagliatamente ogni particolare.

Un’altra volta, invece, rimasi molto irritata quando sentii il pub­blico urlare per una nota che non aveva raggiunto l’esito sperato, mentre, un minuto prima, tutti si erano alzati, battendo fragorosa­mente le mani.

All’interno di quella scatola esplosiva che si chiama “piccionaia”, succedeva di tutto: i commenti erano urla, l’euforia sembrava un ronzio di mille api messe insieme. Non riuscivo a rendermi conto del perché si arrivava a una tale asprezza di sentimenti nei confronti di quel malcapitato artista.

1.2. Ricordi e commenti di Giacomo Lauri Volpi

Quel senso di ingiustizia, che pian piano imparai a non soppor­tare, crebbe così tanto dentro di me che mi indusse a informarmi, a crearmi davvero una piccola cultura su quel mondo.

Mio padre ne fu oltremodo felice e mi invogliò a scrivere a Giaco­mo perché, secondo lui, avrei apprezzato e capito meglio con quan­ta abnegazione, dedizione, e in alcuni momenti sofferenza, l’artista doveva sostenere il difficile ruolo di un personaggio d’opera.

Inviai la prima lettera tremando dalla paura. Invece Giacomo mi rispose con pacata tenerezza. Il segreto me lo svelò lui stesso: «Co­nosco ogni cosa della tua vita, perché il mio grande amico me ne ha fatto partecipe». Dopo questa rivelazione, presi molto coraggio, fino al punto di chiedergli se potevo scrivere un libro verità su di lui. Restai in attesa della risposta terrorizzata, pensando di aver osato davvero troppo.

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Invece, mi rispose soltanto: «Perché?». La sua vita mi incuriosiva. Avevo voglia di scoprire i suoi sacrifici,

le sue sconfitte, le sue vittorie, insomma i suoi segreti.

Tu hai visto in scena e hai udito questa voce insurrezionale fin dai verdi anni della tua adolescenza. Tuttora, ti senti animata dalle rimembranze. Forse, allora, rimanesti colpita dall’immagine canora del principe ignoto o di Manrico? Anche la principessa Maria di Savoia mi scrisse, ormai è trascorso qualche anno, che sempre le è rimasta nella memoria la figura di Radames e lo squillo di quella voce nella celeste Aida. L’animo romantico dell’eterno femminino idealizza i perso­naggi scenici, in virtù della visione poetica dell’esistenza. Tu, cara Augusta, hai perfettamente ragione nel ritenere che io ho ricreato in me i personaggi della finzione scenica. Tu hai capito ciò che i critici non hanno saputo, avendo soltanto rilevato le interpretazioni vocali registrate nei dischi, tutt’altro che fedeli. Dunque, se scriverai ciò che ti proponi, hai già un’idea concreta di questo ve­terano artista, di cui tu senti l’affinità elettiva così eloquentemente espressa nel romanzo goethiano.

Pur avendo avuto la conferma di poter parlare tranquillamente con lui, restai comunque ancora più sorpresa quando, nella succes­siva lettera, mi confermò il suo entusiasmo: «Sì, risponderò ai tuoi quesiti non solo a viso aperto, ma pure a cuore aperto, affinché il tuo futuro libro risulti palpitante e strenuamente sincero. Stai bene, cara, e procura di non stancare la mente nell’assidua ricerca di nuovi orizzonti».

Cominciai svelandogli i miei segreti, interessandolo con i turba­menti di una donna giovane, alla ricerca della sua libertà.

Dalle sue parole emergeva un sotterraneo disappunto verso quelle persone che non conoscevano né giustizia né rispetto verso gli altri.

In me, invece, il desiderio di conquistare serenità aveva prevalso quasi su tutti gli aspetti della vita. Gli scrissi. Mi rispose:

Tu, Augusta, hai una sola aspirazione: trovare serenità. Per serenità io intendo armonia, la quale non si raggiunge se non con il dominio dello spirito sull’anima, la quale per la stessa natura umana decaduta, è assai proclive a servire più il corpo che la mente. La libertà è il risultato di quell’armonia, e non è mai sicura finché l’anima non si senta idea di Dio in Dio. Ma l’itinerario per raggiungere la piena

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coscienza di sé è lungo e doloroso, e oggi come non mai, dato il materialismo bestiale che aggredisce l’umanità in ogni strato sociale.

Insistetti sull’argomento: «Quale sistema potrebbe svelare il se­greto per diventare liberi dentro di noi?».

Nessun sistema filosofico ha risolto il problema. I teologi trattano del libero arbi­trio con nebulose espressioni e ci fanno sempre responsabili delle nostre azioni, evitando di alludere alle influenze ereditarie, alla pressione di circostanze e di ambienti. I penalisti, come Ferri e Lombroso. Il fatto è che persino i santi peccano sette volte al giorno. E la chiesa esorta i fedeli a invocare la grazia divina, l’unica arma efficace contro le strapotenti alleate: il mondo (la società), il demonio (il genial male), la carne (l’attrazione istintiva tra i sessi). Che può fare una povera anima, sola e disarmata? Siamo circondati da un mistero enorme, con tutte le migliori intenzioni non possiamo sottrarci a una certa predestinazione. Si è detto che la vita è un “non senso”; sì sto vivendo da tanti anni, e mi sembra di non essere mai vissuto. Contemplo le varie fasi della mia esistenza come uno spettatore davanti a uno schermo. Come tapini, oserei affermare che, alla fine, ogni uomo confessa di aver tutto sba­gliato. Se ti raccontassi numerosi episodi della mia esistenza, dall’orfanatrofio alla vita in collegio, in trincea, sulla ribalta, ti daresti conto che nelle vicende umane opera una realtà trascendentale che sconcerta. Come vedi ti parlo in piena since­rità. Nella vita ho debellato inimicizie strapotenti. Ma fin dal ginnasio pensai al famoso motto Facere et pati fortia romanurn est, lottare, rafforzare il carattere per vincere. Mi ascolti?

Sì, ero pienamente d’accordo. Però non è facile attuare ciò che riteniamo ragionevole.

A quei tempi, poi, mi sentivo come un pesciolino appena pescato, che tenta di tornare al mare. Ma anche il maestro mi sembrava cadu­to in una rete, forse la mia.

La televisione italiana mi fornì lo spunto per chiederglielo; aveva mandato in onda, in versione integrale, l’Otello di Verdi con la regia di Franco Zeffirelli, e la direzione musicale del maestro Carlos Kleiber.

Mi dilungai a parlare di Domingo, la cui voce, per la difficoltà dei toni, non mi era sembrata del tutto adatta a quel tipo di opera, men­tre ero rimasta affascinata dal temperamento e dalla efficacissima interpretazione.

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Mi rispose :

Brava, ti riveli una terribile e lucida critica melodrammatica. Hai perfettamente ra­gione. Il protagonista dello spettacolo scaligero non ha voce verdiana per rappre­sentare il personaggio che incarnò, primissimo, un tenore squillante come Buccina di Guerra, che si chiamava Tamagno. Ma questi, se ha la voce adatta alla parte eroica, non ha le mezzevoci necessarie al duetto d’amore, al monologo, alle sfuma­ture dell’ultimo atto, quando, pugnalatosi, evoca la bellezza di Desdemona come un sogno!Ebbene, Domingo, ai tempi di Verdi, sarebbe stato un tenore di seconda catego­ria. Proviene dalla classe baritonale e non può scattare, insorgere, svettare con voce tagliente, insurrezionale. La Scala ha sfoggiato regia, scene, voci collettive allo scopo di far passare in seconda linea le voci primarie, appunto perché non disponeva dei tre protagonisti capaci di assolvere il loro compito. La Freni si è dimostrata del tutto impari nella parte, per essere un soprano essen­zialmente lirico; il baritono sembrava un ciarlatano. Iago deve essere insinuante, tortuoso, fluido. Maurel, il primo Iago, non esibiva facoltà vocali clamorose, ma sapeva modulare con perfidia una voce comune ma perfettamente appropriata al carattere del bifido personaggio.

Il suo giudizio si dimostrava altrettanto severo quando si trattava di criticare se stesso. Tanto che la preparazione per interpretare un personaggio, diventava esasperante e sofferta.

Sicuramente era necessaria una forza d’animo eccezionale, e lui l’aveva!

Mi domandi se siamo sempre coscienti di “essere”. No. Quasi sempre si agisce per riflessi condizionati. Feci circa quattro anni di guerra e di armistizio, e dedicai quarant’anni alla ribalta lirica. Ebbene, ti confesso che non mi riconosco soltanto trincerista né personaggio scenico. Per questa ragione ti dissi una volta, che non so di essere vissuto: di essere io. Quando ci penso, oggi, mi vedo irriconoscibile e mi sento tradito, deluso. Goethe parla chiaro «Ogni mortal mister gustai: l’amore della vergine, l’amore della dea. Ma il real fu dolore, e l’ideal fu sogno». E Cal­deròn avverte: «La vida es sueño, y los sueños, sueños son». Cosi è. Però v’ha un conforto. Nei momenti assoluti, dobbiamo persuaderci che ognuno di noi è un l’idea di Dio in Dio e che l’uomo e tutte le sue cose, alla fine dei tempi, al termi­ne dell’evoluzione cosmica, Dio sarà tutto in tutti (Deus omnia in omnibus), mi spiego?

Parlavo spesso di lui con mio padre, che era suo grande amico.

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Risultava così schivo, così pieno di umano pudore, così porta­to per la vita semplice, così proteso a nascondere anche le sue doti migliori che, a conoscerlo bene, il ruolo artistico poteva sembrare perfino una costrizione. Invece, anche attraverso l’arte, Lauri Volpi esprimeva se stesso.

È vero che parlava di sé con toni enfatici, perché considerava la sua voce un miracolo, ma è anche vero che, nella vita privata, era un uomo completamente diverso.

So che la mia voce illuminò la tua anima adolescente, rammemorando tu la ma­gica atmosfera della Turandot a Caracalla; la favola del Gozzi che forse influì nella tua decisione di scrivere fiabe per diletto di fanciulli e di adulti. La Turandot ri­mane una delle opere da me preferite perché Puccini scrisse la parte del principe ignoto pensando alla mia voce. La sfida tra gelo (Turandot) e fuoco (Calaf ) esige temperamenti di straordinaria passionalità e voci sferzanti, pronte allo scatto e allo squillo.

A volte, pensando a lui, rivedevo la sfarzosa scenografia della Tu-randot; risentivo la sua voce salire fin sulle gradinate più alte delle Terme di Caracalla, prima sommessa (“Non piangere Liù, se in lon­tano giorno”), poi avvincente e persuasiva (Nessun dorma), e infine potente (“all’alba vincerò, vincerò, vincerò”) rompere ogni indugio per disperdersi nelle tenebre della notte.

Avevo a mia disposizione tanti articoli e recensioni scritti da noti giornalisti. Ritenni opportuno che alcuni brani di essi potessero as­solvere al compito che mi ero proposto: quello di scrutare il suo pensiero.

Il grande scrittore Giovanni Papini, per esempio, lo definì «Il pri­mo originale creatore della filosofia del canto rivelatrice dei più alti misteri della voce umana», mentre A. Paglialunga si dilungò soste­nendo che «Giacomo Lauri Volpi non era soltanto quel grande arti­sta che tutti conoscevano e che aveva lasciato un segno particolare nel teatro lirico con interpretazioni che facevano testo, ma era anche un uomo di cultura, un filosofo appunto e un autentico cristiano che non faceva mistero della sua fede».

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Anche la Chiesa, nel nome di alcuni suoi rappresentanti, gli rico­nobbe queste doti.

Il cardinale Cento, in una lettera all’autore, affermò che i libri di Lauri Volpi colmavano una lacuna nella bibliografia cristologica.

Cresciuto alla scuola dei Padri Gesuiti, percorsi gli studi classici, rimase, pur attraverso le esperienze ben note della sua attività artisti­ca, un innamorato del pensiero socratico. Alla sua crescita interiore mancò la nascita di un figlio al quale avrebbe potuto lasciare il dono prezioso della sua caleidoscopica esperienza. Forse scrivere tanti ar­ticoli e libri aveva riempito quel vuoto?

Avevo da poco finito di leggere Lettera ad un bambino mai nato di Oriana Fallaci, dove l’autrice descrive lo stato d’animo di una don­na che parla e interroga il bambino che ha in grembo, nella quasi segreta speranza di essere aiutata da lui, nella decisione che non sa prendere da sola.

Cara e gentile Augusta, mi rispose, mi chiedi quali sono i motivi che m’indussero a scrivere Voci parallele, La voce di Cristo e Misteri della voce umana. Si tratta di un trittico in cui analizzai il verbo canoro nell’uomo, e il verbo divino nel Cristo Sto-ries. Per essere io un miserabile tenore, i critici letterari del mio Paese non si sono degnati di leggerli, mentre l’Unione Sovietica ha pubblicato la traduzione del pri­mo libro nella lingua di Tolstoj e Dostoevskij: un onore immenso per l’autore, che il traduttore russo chiamava “cavaliere divino del bel canto”. Quanto all’incisione dei miei dischi, debbo dirti che, nel registrarli non ho inteso esprimere il massimo di me stesso, perché non ho mai avuto fiducia nelle capacità degli apparecchi tecnici di riprodurre le vibrazioni fisiche e spirituali della mia voce. Il tecnicismo è la morte dell’anima.

Mi sembrò, con tutta franchezza, una risposta mutila. Non con­tenta, rifeci la domanda, appigliandomi all’imperante femminismo, il cui argomento principe era l’aborto, nelle sue sfaccettature.

Giacomo fu molto incisivo:

Credo che le riflessioni della scrittrice, atea confessa, non debbano influire sul tuo spirito. Come si può discutere sulla vita negando l’esistenza del Creatore della vita. Io non ho avuto figli, né sono donna per rispondere ai quesiti della mater­

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nità. Le femministe si agitano a vuoto, e contribuiscono a rendere confusa la situazione regnante nei rapporti dei sessi. Il cerebralismo porta la donna fuori della sua sfera di attività organica, propria del suo sesso. Senza l’armonia di tutte le facoltà, non è facile condurre felicemente a termine la gestazione. Il feto risente di tutte le anomalie della gestante. Penso che oltre i 35 anni di età, la donna non sta nelle migliori condizioni di ge­nerare. Del resto, l’erotismo truculento della moderna società permissiva logora i corpi innanzi tempo, e distrugge i valori poetici del connubio. Hai ragione tu, asserendo che la stessa chiesa fa da Pilato nel trattare lo spinoso problema genetico. Stiamo in pieno caos nemico del cosmos che vuol dire ordine inalienabile, perenne. L’uomo vuole bruciare le tappe della evoluzione. Non comprende che ci trovia­mo solo agli inizi. La vanità e la curiosità sospinsero Eva a cercare il male. Le conseguenze sono alla vista in tutti i campi, cara Augusta. Lascia stare quella Fallaci di nome e di fatto. E volgi la mente alla perfezione idea­le dell’essere, e ricorda Kant: «Due cose grandi ha l’uomo: il cielo stellato di sopra e la legge morale di dentro».

Dalle lettere che ci scambiavamo, dalle mie in cui manifestavo poco a poco i miei abbagli, la mia dedizione a lui, e dalle sue, sempre più ingiuntive, potevo capire che ormai ero diventata una sua allie­va, avevo conquistato la sua fiducia e il suo affetto.

1.3. In arte Giacomo Lauri Volpi

Col doppio nome Lauri Volpi, Giacomo nacque artisticamente il 3 gennaio 1920, cantando al Costanzi di Roma la Manon di Massenet.

«Aggiunsi al cognome quello di Lauri come doppio augurio: mi ricordai la favola di Dafne che, sfuggendo alle brame di Febo–Apol­lo, venne trasformata in alloro».

Gli chiesi come affrontava il vasto pubblico, sempre pronto a fi­schiare se una nota non era ben intonata.

Li affrontavo con la certezza di vincerlo, ridurlo a subire la mia volontà. Io sono stato sempre un timido. Ma sapendo che si veniva in teatro con intenzioni poco amichevoli, trasformavo la mia timidezza innata in aggressiva temerarietà, per istinto di conservazione. Ero sicuro che le frecce della mia voce avrebbero colpito

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nel segno e penetrato in profondità. Applicavo il conatus sese perseverandi di spino­ziana memoria.La cultura aiuta la coscienza, “l’eterna compagna che l’uom francheggia” a ri­bellarsi alle ingiustizie e alle insidie. Venivo dalla trincea del Podgora, conoscevo la psicologia del demos, sempre incerto e pauroso, se non si suggestiona con la fortezza dell’animo, ch’io significavo con la gioia del canto. Ero “il capitano che canta” e i soldati mi seguivano come se si sentissero protetti dall’atmosfera musi­cale creata da una voce canora. Che ignorava se stessa. Insomma, riuscivo a creare una specie di campo magnetico scaturito dall’urto fra la volontà individuale e la collettiva. Non so se rendo l’idea.

Queste parole cosi esplicative fanno capire quanto amasse il suo duro lavoro e la sua patria. E mi fecero ricordare quando più tardi, amareggiato, decise di lasciare l’Italia.

In una serata conviviale, durante la quale veniva assegnato il pre­mio “Anna Magnani” a Maurizio Costanzo, noto giornalista e con­duttore di programmi televisivi, ebbi l’occasione di conoscere Paolo Grassi, ex sovraintendente alla Scala di Milano e allora Presidente della Rai. Fu molto cortese nel ricordare la voce di Giacomo, che definì “indimenticabile”.

Fin da bambina raccontavo fiabe come un impulso che non sape­vo trattenere. Questa mia propensione verso un mondo di fantasia mi restò addosso per sempre. Tanto è vero che, raggiunta la mag­giore età, sentii il bisogno di pubblicarle. Nacquero così Ciopi — il cane che abbaia alle stelle e Zurletto e altri racconti fiabeschi. Sarebbe stato un sogno proseguire su quella strada. Ma, a volte, sollecitati dalle circostanze della vita, che prende altre direzioni, siamo portati a cambiare il percorso dei nostri desideri.

Lavoravo in banca e il direttore della rivista interna, non so anco­ra come riuscì a individuarmi, mi propose alcune interviste a perso­naggi del mondo contemporaneo: cosa che feci, e mi portò a sco­prire, come in uno specchio contro specchio, i miei pregi e difetti, che non conoscevo. Quasi un’analisi psicologica, che addirittura fece molto bene alla mia salute. Alla fine, pensai di riunire le interviste già proposte, e altre nuove, in un libro che intitolai: Scusi, Lei chi è?

18 Un acuto nel silenzio

Giacomo non soltanto ne era al corrente, ma sapeva bene che anche un’intervista dedicata a lui non sarebbe sfuggita alla mia penna birichina. Cominciai col raccontargli l’intervista fatta a Die­go Fabbri.

Diego Fabbri, considerato il più grande drammaturgo del Nove­cento dopo Pirandello, mi aveva molto stupito per la sua timidezza e per la sua ritrosia. Non certo per la sua enorme cultura.

«Coincido con le idee del drammaturgo», mi rispose Giacomo, «si tratta di versi che provocano smarrimento e denunciano l’angoscia esistenziale che pervade il tuo spirito, cara Augusta. Con la tenacia tu arriverai a raggiungere lo scopo che ti prefiggi».

Per quanto le sue parole fluivano limpide e le mie domande si moltiplicavano, mi resi conto però, di essere ancora all’inizio di que­sto lungo viaggio.

1.4. Ritratti

Mi confrontai, allora, con Ciro Poggiali, rileggendo un suo ar­ticolo.

All’interprete teatrale in genere, melodrammatico in specie, si confanno l’intel­lettualità, la cultura o non piuttosto l’ignoranza, e l’istinto? La bilancia sembra pendere dalla parte della semplicità. Verdi, pur meticoloso, non si preoccupava che i suoi interpreti sapessero di storia, di filosofia ecc.Gabriele D’Annunzio, di una sua interprete, disse che era stata un’attrice igno­rantissima. Rosina Storchio, prima donna del mondo lirico moderno, era stata sguattera in un’osteria. Caruso, Titta Ruffo, Tamagno ebbero i calli alle mani prima di impaludarsi in assise di potenti e d’eroi. Ecco spiegato dunque il perché di tanta animosità nei confronti di Giacomo. Era avvocato, capitano, combattente decorato, scrittore, ma soprattutto uomo di cul­tura. C’era tutto perché potesse infastidire. Giacomo preparava accuratamente ogni particolare e si irritava quando trovava persone che si avventuravano in im­prese più grandi di loro. I risultati della sua serietà venivano comunque prima o poi premiati. Il Papa con­fidenzialmente gli disse: «L’ho sentita tante volte alla radio. Che bella voce la sua!».

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Vittorio Emanuele Orlando gli prodiga plausi per le fatiche lette­rarie. Papini gli scrive: «La sua voce non potrebbe essere così pura e squillante se non provenisse da uno spirito geniale e da un’anima ge­nerosa». Un noto accademico di Copenaghen commentò: «Per me Roma e Lauri Volpi sono unità inseparabili».

Lauri Volpi:

Purtroppo, cantare non è né facile né comodo. Guai a chi vi si presenta da pecora. Bisogna sentirsi leoni, generosi, forti. Ce ne sono le prove: Battistini dopo mezzo secolo di trionfante carriera, chiese invano alla Carelli (divenuta da cantante im­presaria) una recita d’addio. Il baritono Amato chiese invano che lo scritturassero come direttore di scena. A Firenze non si volle organizzare nulla per onorare la vecchiaia di Titta Ruffo, che aveva abbandonato anzi tempo le scene. Mascagni muore il 2 agosto tra il silenzio nazionale.

Il carattere di Lauri Volpi, definito bizzoso e scontroso, fuorviò completamente i giudizi della gran parte delle persone, che videro in lui il riscontro di una durezza comportamentale. Ma tanto il pre­giudizio fu sciocco a credersi, quanto inutile a combattersi.

Un giorno il ministro Alfieri, dopo una burrascosa serata al Teatro dell’Opera, in cui c’era stato un attrito tra un maestro di musica e il tenore bizzoso, lo mandò a chiamare e gli diede incarico di andare a cantare a Belgrado, conferendo a quel compito un sapore diplomati­co, sicuramente di propaganda di italianità.

Toscanini gli permise, nel 1929, nella celebre stagione lirica a Berlino, di far “corona” su una cabaletta verdiana atta a far scattare il pubblico. Ma il maestro Gui non fece lo stesso a Roma, e avvenne lo scontro.

All’estero, invece, nessun atteggiamento polemico. In Italia non si risparmia neppure Caruso al Dal Verme, nel 1915.

Il credo di Lauri Volpi era «Se io, in ogni tempo, avessi prestato voce all’opinione mia propria e non al consenso dei più vari pubblici, la mia carriera si sarebbe conclusa assai presto».

Una volta gli domandai come mai, durante la sua carriera, non ave­va mai acconsentito a concedere il bis di un qualsiasi pezzo d’opera.

20 Un acuto nel silenzio

Mi rispose: «Pensa se lo avessi fatto e non avessi riconfermato la stessa emotiva partecipazione. Il pubblico è capace anche di distrug­gerti». Invece, secondo me, si tratta proprio di serietà. Non si può morire disperati al freddo, senza che ci sia stata precedentemente una motivata partecipazione.

Questa sua maniera di essere onesto e rispettoso fu però travisata. Si pensò ad un carattere altero e superbo.

Giacomo fu invece un uomo fondamentalmente onesto, non è assolutamente vero che si preoccupò soltanto di se stesso. Cantanti noti e non ne seppero qualcosa. Elargì aiuti economici e quant’al­tro possa fare un uomo che crede nei rapporti umani e umanitari. Avrebbe voluto che si aprissero scuole e università del canto. Dalla lontana Russia, e se ne sentì onorato, gli chiesero di diventare mae­stro di canto; insegnare cioè quella filosofia e quella tecnica del can­to di cui lui era veramente maestro. Avrebbe desiderato che molti grandi interpreti fossero stati ricordati dignitosamente.

Spinse l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori a comprendere l’importanza di istituire fondi, attraverso recite e concerti di benefi­cenza, per vedere sorgere nelle principali città d’Italia la Casa dell’Ar­tista Lirico con la sua Università Popolare Lirica.

«Le voci dei divi», scrisse, «a cui il tempo tolse freschezza, hanno sempre la virtù di educare, istruire, insegnare».

1.5. «Gli anni mi pesano»

1977: Roma si preparava a vestirsi con gli addobbi di rito. Da bambina vivevo in un paese, e il Natale mi appariva semplice­

mente straordinario. L’atmosfera che si creava diventava magica. Ba­stava che cadesse la neve o che si accendesse il fuoco sotto il camino, per avere un’idea surreale dell’avvenimento.

Oggi il frastuono, anche mentale, fuorvia i sentimenti più belli e li fa apparire banali o insignificanti.

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Il 10 dicembre, dunque prima del Natale, in una bella cartolina raffigurante un dipinto famoso, nel ringraziarmi degli auguri per il suo compleanno (l’11 dicembre), mi confidò «Gli anni mi pesano. E gli occhi mi tradiscono, provocando allucinazioni nel cervello. È proprio vero: Senectus ipsa morbus».

Rimasi molto confusa nel leggere queste espressioni. Subito gli ri­sposi, manifestando apertamente la mia apprensione per quanto mi aveva comunicato. Giacomo cercò subito di ridimensionare quanto mi aveva confidato.

«Cara, sei rimasta confusa, non ricordo quanto abbia potuto esprimerti per disorientarti così. Alla mia età primaverile, non so, alle volte, ciò che mi detta la rammollita materia grigia. Non mi dare importanza e non trattarmi come un fanciullino. Non sono più colui che tu vedi a tergo nelle vesti del duchino di Mantova (al Motropoli­tan, stagione 1923–24). Ruit hora, tu stai tranquilla».

Quando il 28 febbraio 1978, Lauri Volpi apparve in televisione nella trasmissione Odeon, strinsi i denti. Temevo che le sue schiette risposte venissero fraintese. Ma lui mi lesse nel pensiero: «Compren­do che al vedermi in tv tu abbia sentito sorpresa e spavento. Ho voluto rammentare agli italiani le nequizie che l’autore della Bohème dovette patire per colpa del Nume scaligero. Ho sempre lottato per rendere giustizia ai nostri grandi. Ricevo, da ogni parte d’Italia, en­tusiastici commenti».

Purtroppo la sua sincerità veniva spesso scambiata per presun­zione. Con il tempo imparò a proteggersi e lo fece con veemenza. In verità, dentro di lui c’era solo tanta amarezza: «Cinque anni fa, inauguravo Il Nerone di Boito al Teatro dell’Opera; né il teatro né i giornali romani si sono degnati di ricordare l’avvenimento… bel Paese, il mio!».

Giacomo non era un uomo che si risparmiava: «Devo risponde­re personalmente alle decine di persone che sollecitano autografi e consigli circa la fonetica artistica».

«Cara», mi riscrisse, «gli anni mi pesano».

22 Un acuto nel silenzio

La sua costante presenza nella mia vita era stata molto importan­te. Avevo sofferto di una grande timidezza, ma con lui avevo aperto il mio cuore.

Ogni volta che Giacomo cercava di difendersi da un nemico, qua­lunque esso fosse, se ne presentava un altro che bisognava sconfig­gere. Certe volte era inevitabile che la stanchezza si facesse sentire. In alcune sue lettere notavo come uno sfiancamento, come se la sua forza, il suo coraggio, venissero meno. Allora provavo ad alleggerire le sue tensioni, distraendolo con miei ricordi, e ben conoscendo la sua disposizione d’animo a recepire qualsiasi argomento.

Avevo conosciuto il cardinale Pignedoli per merito dei miei li­bri di favole e, stupefatta, avevo appreso da lui in persona che, ogni anno, si recava a pregare sulla tomba di Kristian Andersen. Stupito nel sapere che non avevo letto l’opera di Tolkien, mi inviò lo Hobbit, proprio il giorno prima della famosa riunione per il Conclave. Era fra i cardinali ritenuti più papabili, invece elessero il cardinale Lucia­ni, che prese il nome di Giovanni Paolo I.

Giacomo mi rispose che il cuore degli uomini è semplice, e le fiabe lo sanno raccontare.

Questa espressione mi piacque tanto, me ne fece ricordare un’al­tra che aveva scritto Giacomo Leopardi: «Il bambino vede il tutto nel niente». Visto che si parlava di fiabe, colsi l’occasione per dialogare ancora sui miei libri.

1.6. Scusi, Lei chi è?

Lo avevo intitolato così perché avrei voluto scoprire quale uomo si celasse dietro l’inevitabile maschera del personaggio. Ne parlai a Giacomo. Subito mi suggerì un titolo: Sprazzi d’anime. Lo intitolai, invece: Scusi, Lei chi è?

In esso venivano raccolte, come ho già accennato, ventidue inter­viste a personaggi contemporanei di quel periodo, compresa la sua.

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Nell’inviarglielo ebbi un po’di paura. Invece gli piacque talmen­te tanto che, forse esagerando, lo definì oltremodo interessante per profondità d’intuito psicologico che «…l’intelligente, colta, avve­nente, intervistatrice rivela attraverso lo studio di così vari e diversi personaggi che interpreta con squisita grazia e coraggiosa interpre­tazione».

E prosegue:

Hai voluto glorificarmi perché, sin dall’adolescenza, hai seguito le mie burrasco­se vicende e ti sei persuasa che io sono un autentico romano, avvezzo a parcere subiectis et debellare superbos. Un simile carattere non poteva non cozzare contro il pecorume nauseabondo del teatro italiano. Tu mi hai capito a fondo perché mi vuoi bene, e sai che ti voglio bene. Comprendo la tua gioia di puerpera all’ap­parire del tuo libro, così pervaso di fremente passione. Mi auguro che la critica letteraria del bel paese riconosca i meriti della giovane scrittrice, così vibrante ed emotiva. L’invidia è cattiva ispiratrice, sempre propensa a negare la realtà operan­te di anime innamorate del bello e del buono. Non ti scoraggiare, e batti il ferro finché è caldo. Io non mi arresi all’assedio di potenti malevoli. Iddio mi protesse e mi proteg­ge con la sua guida costante. Sai quanto gli anni mi pesano eppure la mia voce persiste intatta. Ieri registrai Celeste Aida, forma divinali e sullo stesso timbro di trent’anni fa. Ho così la prova che Dio esiste e non abbandona i suoi devoti, se anche immeritevoli. L’11 dicembre compio 86 anni. Quante cose ho visto e udito. Tu citi spesso Gian Battista Vico per i famosi “ricorsi storici”, io lo cito per l’as­sioma stupendo: verum ipsum factum. Sono i fatti che contano. E tu, mia buona Augusta, dimostri, con i fatti, di possedere un’anima di singolare bellezza. Ricevi, con le mie congratulazioni, i più affettuosi auguri di successo e di salute, tibi gra-tulor, mihi gaudio.

Quando si vuole veramente bene (e Giacomo non era certo capa­ce di fare complimenti), sembra quasi che non si è detto abbastan­za alla persona che ci interessa. Infatti non si accontentò di avermi parlato del mio libro con parole esaltanti, volle riscrivermi, come se avesse voluto aggiungere bene al bene: «Il tuo libro è un’autentica antologia di acute e argute interviste con vari personaggi, tra i quali hai voluto inserire anche il personaggio che, a 86 anni, canta Celeste Aida, il che è una riprova della esistenza di un essere Supremo al

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quale, oggi, non tutti credono. Persino donnette, miserabilmente microcefale, proclamano alla televisione “Io sono atea!”. Iddio esiste e fa miracoli. Questa voce è tale che, se tu l’ascoltassi, rimarresti esterrefatta, come avviene a molte visitatrici sensibili e colte, che l’hanno ascoltata. Mi dici che ti auguri di potermi parlare diffusa­mente a voce. Quando? Ne sarei lietissimo».

Fu munifico di complimenti, come si fa, in genere, con le persone alle quali si vuole molto bene:

Tu hai un’abilità peculiare nell’astrarre dagli intervistati l’ima sostanza del pensie­ro. Io, che ti vedo sempre adolescente, non riesco a raffigurarti adulta e sapiente, così ricca di magnetica sensibilità. In me è rimasta la poesia della puerizia. Non ricordo quale grande ha lasciato scritto: «Beati gli anziani che hanno serbato gli impulsi e la fantasia dei fanciulli».

Quando, invece, lesse l’intervista fatta a Gianni Rodari, si inquietò:

Il favolista asserisce di non credere nell’ispirazione. Eppure, senza questo pri­vilegio, non si composero i capolavori dell’arte. Rossini, ancora giovane, smi­se di comporre quando l’ispirazione non irraggiò più la sua fantasia musicale, quell’ispirazione, sotto il cui slancio scrisse il Barbiere e il Guglielmo Tell. Il grande artista è l’amanuense della divinità. Tu non ti far deviare, inventa te stessa. Ispira­zione è l’esaltazione di tutto l’essere, credimi.

A lungo mi parlò anche di un altro personaggio:

Ti vedo ritratta nell’intervista con Giovanni Hajnal. Ti trovo irriconoscibile. Ieri favole, oggi interviste, magnifica palingenesi. Come hai fatto a intervistare il pittore su un soggetto così estraneo alla tua mentalità, come quello dell’arte mosaica? Mi dici che vuoi scrivere su di me. Un profilo umano o artistico? Conosci l’evoluzione somatica della mia voce che incominciò leggera, poi diven­ne lirica, infine eroico–drammatica? Ma ho fiducia nella tua intelligenza, e spero che te la caverai con onore.

Sì, avrei voluto tanto incontrarlo, e glielo comunicai come se avessi già preso definitivamente la decisione. Ma lui conosceva bene i miei problemi; sapeva che mia madre era malata e sofferente. Per­

1. Come nacque il nostro rapporto epistolare 25

ciò, quando mi riscrisse, sorvolò sull’argomento: «Cara, mi scrivi “la fede che lei ha in Dio, incrollabile, mi è di esempio”. Guai a me se non l’avessi avuta, in guerra e nel mondo dell’arte! A quest’ora sarei pulvis et umbra. Ti mando la foto a tergo perché tu possa ricordare le serate all’Opera, quando tuo padre accompagnava l’adolescente Augusta ad ascoltare dall’anfiteatro la voce del Principe Ignoto».

La foto riproduce Giacomo nelle vesti di Andrea Chénier. Guar­dandola mi tornò alla mente un episodio di quando ero bambina. Assistevo, con mia madre e mio padre, alla famosa Opera di France­sco Cilea.

Ad un certo momento Andrea, il personaggio dell’opera, sale su una carrozza trainata da due cavalli in fuga. Subito mi accorsi che qualcosa rotolava sul palcoscenico. Non riuscii subito a capire di cosa si trattasse, ma poi guardando Lauri Volpi più attentamente, lo vidi pettinato in altra maniera. La sua parrucca era volata via. Restai sconcertata. Ma lui non si scompose minimamente anzi, rimanendo nel ritmo del personaggio, scese con entusiasmo dalla carrozza e con impressionante velocità, riprese a salutare il pubblico. Gli ap­plausi scrosciarono come una tempesta di grandine.

Sembrerà strano quello che dico ma, abituata a conoscerlo così vivace e pronto, non immaginavo proprio che potesse invecchiare.

Invece, questo era proprio un argomento che gli stava molto a cuore a lui. Non riusciva a comprendere come una persona anziana doveva essere considerata fuori uso.

Dunque l’esperienza non è un bene prezioso? Nel 1962 sul quotidiano «Momento sera», Giacomo affrontò il

difficile argomento con molta determinazione, intitolandolo La ver-gogna dei 70 anni.

Per aver difeso, in una recente polemica sul Teatro dell’Opera, la personalità di Tullio Serafin, nominato consulente artistico, il cronista di un quotidiano cittadi­no ha avuto la cortesia di ricordare ai suoi lettori che io ho compiuto settant’anni e mi definisce «L’ex cantante che si sbizzarrisce di combattere i mulini a vento». Definizione esatta e splendida di cui, sono grato al collega capo cronista (anch’io

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scrivo articoli su giornali e riviste), poiché mi obbliga a segnalare ai lettori che seguono questa rubrica, un compleanno che, altrimenti, avrei lasciato passare sotto il silenzio. Settant’anni non sono davvero pochi, ed io quasi mi vergogno di esserci arrivato sano e salvo. È vero, io sono un ex cantante di teatro, ma non uno qualunque. Adesso poi, canto solo per me — direbbe Carmen nell’opera bizetiana — e come lei, aggiun­go: «Forse, penso. Vietarmi chi può di pensar e di scrivere ciò che penso?». Sì, mi diverto a fare il Don Chisciotte (che non era davvero uno stupido ma soltanto un matto; di quella matteria che vorrebbe gli uomini più cavallereschi e decenti), e a combattere contro mulini a vento pur sapendo che gli idealisti non furono mai presi sul serio. Ho associato mente, cuore e voce, in perfetta armonia contro avversità, che non mancano mai a chi si batte per un ideale d’arte e uno stile di vita. Comunque, appunto perché ex cantante, posso opinare sulle cose e i casi di teatro, e in qualità di settantenne ho giudizio da vendere per significare idee positive e rispettabili.

Nello stesso periodo di quella lettera, un rotocalco milanese ave­va pubblicato, con il titolo La Scala aprirà le sue porte ai giovani, un articolo che così conclude il commento al cartellone della stagione lirica: «Per la cronaca, quest’anno, faremo a meno della Callas e della Tebaldi. Ma non ne sentiremo la mancanza. Anzi, sarà un bene (sic), se vogliamo che queste due gloriose primedonne, già incamminate lungo il viale del tramonto, ci lascino con un buon ricordo di sé».

Le due soprano, che avevano sì e no quindici anni di carriera, non arrivavano ancora a 40 anni. Figuratevi che cosa avrebbero rovescia­to le ardue meningi di quel disinvolto commentatore se le magni­fiche artiste avessero cantato, a 65 anni la Turandot a Caracalla e, a 67, il Trovatore al Teatro dell’Opera, come è capitato al nostro Don Chisciotte. Le avrebbe condannate addirittura al rogo o a essere se­polte vive.

E chi difese le ancora giovani Callas e Tebaldi contro l’offensore? Scrisse Giacomo: «Cantante non è sinonimo di ignorante; settanten­ne non è sinonimo di cretino, caro collega giornalista. Avanti, allora, contra los molinos de viento».

Sicuramente, Giacomo, non aveva torto. Le istigazioni e le inso­lenze non dovrebbero avere posto nella mente degli uomini