Saggi Di Storia Del Diritto Moderno

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SAGGI DI STORIA DEL DIRITTO MODERNO PRESENTAZIONE Domenico Alfeno Vario,Giuseppe Maria Galanti,Luigi de’Medici sono tre autorevoli giuristi che operarono sullo sfondo dell’epilogo dell’antico regime pur avendo scenari politici e funzioni diverse. “NISI UTILE EST QUOD AGIMUS,STULTA EST GLORIA” LE INSTITUTIONES JURIS NEAPOLITANI DI DOMENICO ALFENO VARIO 1.La storia e l'utile Tale massima fu posta dal giurista campano in apertura di un’importante RAPPRESENTANZA e sintetizzava il suo pensiero. Fu lettore di Pandette e di diritto feudale presso la “Regio-Imperiale Università” di Pavia.Egli pensava che per preparare meglio gli studenti al foro era necessario lo studio della codificazione adrianea dello jus praetorium e non l’opera di “Einecio”. Incentrando lo studio dello ius civile sull’analisi delle diverse actiones si riusciva a proiettarlo più direttamente sul piano fattuale. Ma questo tipo di approccio alle fonti romane,che si presentava meno austero apparve un’opzione troppo distante dalle forme ufficiali,e fu ostacolato a tutti più livelli. La formazione culturale e ideologica dei futuri giuristi e interpreti del diritto,anche in virtù dell’esperienza personale,secondo Vario,doveva essere completa. Tale formazione doveva partire dall’università:il vero giurista,per differenziarsi dagli squallidi pratici o “decisionanti”,non doveva utilizzare le “brevissime somme delle leggi”,né la molteplicità delle opinioni dottrinali,egli piuttosto avrebbe dovuto acquisire le RATIONES profonde,i principi generali su cui s’incarnava tutto il sistema ordinamentale;ma questo processo di apprendimento doveva svilupparsi mediante metodi induttivi e non deduttivi. Di qui la preferenza per l’editto perpetuo,che era,tra le fonti romane,quella più permeata di concretezza e la più adatta a fornire i “lumi” per intraprendere una sana e corretta attività nei tribunali. Lo stesso carattere pratico fu presente nella metodologia didattica di Vario: egli affermò la necessità che,dopo la dettatura il latino,il docente spiegasse la lezione in lingua italiana. Solo attraverso dispute verbali svolte “nell’ordinario idioma” gli studenti avrebbero potuto decodificare i testi e coglierne appieno il messaggio. La proposta era di chiara matrice illuministica e già collaudata nelle scuole meridionali. Secondo il giurista campano,l’innovazione mirava a combattere l’ignoranza dei discenti,e talvolta anche dei docenti;tuttavia non si creava così una completa rottura con la tradizione tardo umanistica,perché si realizzava una combinazione mista e quindi per molti aspetti ancora moderata. Nel XVI secolo la lingua ‘nazionale’ si rivelò uno strumento efficacissimo che agevolò la diffusione di importanti svolte ideologiche e religiose,fondamentali anche nella definizione degli equilibri tra le potenze del continente. Lo stesso Vario aveva avuto modo di sperimentarla in prima persona,quando era studente,e di apprezzarne l’utilità grazie alle riforme di Carlo di Borbone. Il programma culturale enunciato dallo studioso di Sala Consilina,se coincideva nelle linee generali con le vedute e con il piano scientifico elaborato dal conte Firmian per la ristrutturazione dell’università pavese,rilevava anche una notevole indipendenza intellettuale ed un temperamento irruento,elementi che pesarono molto nei suoi rapporti con l’ambiente lombardo e sui successivi sviluppi di carriera. Letta in questo contesto,risulta chiaro che la RAPPRESENTANZA,concepita come strumento di autodifesa contro le incomprensioni le animate critiche rivoltegli,ebbe un significato ben più rilevante. La memoria,elaborata a Pavia negli anni della piena maturità,rappresenta il manifesto dei traguardi intellettuali raggiunti da Vario. Era ispirata all’UTILITAS e riusciva a conciliare razionalismo cartesiano e classicismo. Per correggere i difetti della giurisprudenza,il giurista di Sala era convinto che bisognasse operare all’interno del diritto comune,conservando intatto il sistema ed invertendo

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SAGGI DI STORIA DEL DIRITTO MODERNO PRESENTAZIONE Domenico Alfeno Vario,Giuseppe Maria Galanti,Luigi de’Medici sono tre autorevoli giuristi che operarono sullo sfondo dell’epilogo dell’antico regime pur avendo scenari politici e funzioni diverse.

“NISI UTILE EST QUOD AGIMUS,STULTA EST GLORIA” LE INSTITUTIONES JURIS NEAPOLITANI DI DOMENICO ALFENO VARIO

1.La storia e l'utile Tale massima fu posta dal giurista campano in apertura di un’importante RAPPRESENTANZA e sintetizzava il suo pensiero. Fu lettore di Pandette e di diritto feudale presso la “Regio-Imperiale Università” di Pavia.Egli pensava che per preparare meglio gli studenti al foro era necessario lo studio della codificazione adrianea dello jus praetorium e non l’opera di “Einecio”. Incentrando lo studio dello ius civile sull’analisi delle diverse actiones si riusciva a proiettarlo più direttamente sul piano fattuale. Ma questo tipo di approccio alle fonti romane,che si presentava meno austero apparve un’opzione troppo distante dalle forme ufficiali,e fu ostacolato a tutti più livelli. La formazione culturale e ideologica dei futuri giuristi e interpreti del diritto,anche in virtù dell’esperienza personale,secondo Vario,doveva essere completa. Tale formazione doveva partire dall’università:il vero giurista,per differenziarsi dagli squallidi pratici o “decisionanti”,non doveva utilizzare le “brevissime somme delle leggi”,né la molteplicità delle opinioni dottrinali,egli piuttosto avrebbe dovuto acquisire le RATIONES profonde,i principi generali su cui s’incarnava tutto il sistema ordinamentale;ma questo processo di apprendimento doveva svilupparsi mediante metodi induttivi e non deduttivi. Di qui la preferenza per l’editto perpetuo,che era,tra le fonti romane,quella più permeata di concretezza e la più adatta a fornire i “lumi” per intraprendere una sana e corretta attività nei tribunali. Lo stesso carattere pratico fu presente nella metodologia didattica di Vario: egli affermò la necessità che,dopo la dettatura il latino,il docente spiegasse la lezione in lingua italiana. Solo attraverso dispute verbali svolte “nell’ordinario idioma” gli studenti avrebbero potuto decodificare i testi e coglierne appieno il messaggio. La proposta era di chiara matrice illuministica e già collaudata nelle scuole meridionali. Secondo il giurista campano,l’innovazione mirava a combattere l’ignoranza dei discenti,e talvolta anche dei docenti;tuttavia non si creava così una completa rottura con la tradizione tardo umanistica,perché si realizzava una combinazione mista e quindi per molti aspetti ancora moderata. Nel XVI secolo la lingua ‘nazionale’ si rivelò uno strumento efficacissimo che agevolò la diffusione di importanti svolte ideologiche e religiose,fondamentali anche nella definizione degli equilibri tra le potenze del continente. Lo stesso Vario aveva avuto modo di sperimentarla in prima persona,quando era studente,e di apprezzarne l’utilità grazie alle riforme di Carlo di Borbone. Il programma culturale enunciato dallo studioso di Sala Consilina,se coincideva nelle linee generali con le vedute e con il piano scientifico elaborato dal conte Firmian per la ristrutturazione dell’università pavese,rilevava anche una notevole indipendenza intellettuale ed un temperamento irruento,elementi che pesarono molto nei suoi rapporti con l’ambiente lombardo e sui successivi sviluppi di carriera. Letta in questo contesto,risulta chiaro che la RAPPRESENTANZA,concepita come strumento di autodifesa contro le incomprensioni le animate critiche rivoltegli,ebbe un significato ben più rilevante. La memoria,elaborata a Pavia negli anni della piena maturità,rappresenta il manifesto dei traguardi intellettuali raggiunti da Vario. Era ispirata all’UTILITAS e riusciva a conciliare razionalismo cartesiano e classicismo. Per correggere i difetti della giurisprudenza,il giurista di Sala era convinto che bisognasse operare all’interno del diritto comune,conservando intatto il sistema ed invertendo

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specialmente sull’insegnamento delle discipline giuridiche in modo da influire sulla formazione tecnica dei futuri giuristi. 2.Un genovesiano neoumanista Alle affilate critiche rivolte contro un sistema epistemologico ingombrante e improduttivo,il professor Vario ancorava la sua esplicita e decisa propensione antigesuitica. Egli intendeva porsi sulla scia di Costantino Grimaldi e di Gian Vincenzo Gravina. L’adesione al razionalismo e la condanna del metodo aristotelico-scolastico furono ribadite nel periodo pavese,tuttavia non portarono mai Vario ad immaginare una svolta complessiva,che superasse i confini della cultura e della scientia. Il suo orientamento ideologico,segnato dalla fiducia nel sistema giuridico-politico e nella possibilità di risolvere gli squilibri dall’interno,fu tipico dei giuristi che operarono nell’ambito del diritto comune. Se i contatti con la cultura genovesiana lo aprirono agli sviluppi del pensiero cartesiano,le circostanze di vita e di carriera lo riportarono sulle vie della moderazione e ad inquadrarsi,in qualche maniera,nei binari tracciati dalla tradizione. Nell’ampia schiera degli allievi di Genovesi,Vario non raggiunse quel risalto che avrebbe meritato e che ebbero altri giuristi d’indirizzo illuministico. Comunque quella di Vario fu una personalità poliedrica,in cui si mescolavano la passione neoumanistica per gli studi storico-filosofici e di letteratura classica con quella non meno forte per le scienze naturali. Il realismo critico conosciuto da Vario rappresentò una costante anche nella sua attività d’interprete e di storico del diritto. Quando nel periodo pavese gli fu attribuita la cattedra delle Pandette,divenne primaria l’esigenza di approfondire e d’inquadrare le tematiche giuridiche tradizionali in una prospettiva più generale. L’impianto teorico del discorso doveva oltrepassare gli schemi di una disciplina specialistica e circoscritta,quale lo IUS REGNI NEAPOLITANI,in cui Vario era assai ferrato,per incentrarsi sulle strutture portanti e sui principi del diritto. Se gli interessi dell’intellettuale salese,con il trasferimento nella Lombardia austriaca,si polarizzavano prevalentemente sulle fonti giuridiche romane,in particolare pregiustinianee,la singolarità degli argomenti trattati(EDITTO PERPETUO) e l’impostazione del metodo prescelto (latino-italiano) confermarono pienamente il pragmatismo critico della sua formazione intellettuale. Il diritto del passato aveva la sua ragion d’essere nella possibilità di congiungersi all’esperienza giuridica del presente,senza paralizzarla,e di offrire sani criteri di razionalità agli operatori,nell’applicazione delle norme. Creando un continuo collegamento tra le vicende della società antica e di quella coeva,la storia del diritto diventava funzionale alla comprensione e al miglioramento dell’attualità giuridica. 3.”Ius Regni” e gerarchia delle fonti Vario,mentre era a Napoli,aveva profuso il suo impegno nello studio del diritto patrio e della sua storia istituzionale. Per motivi professionali l’erudita salese s’incamminò nell’impresa non facile di esplorare le origini dello IUS REGNI e di farne emergere le profonde RATIONES. In tale prospettiva,la sua prima opera pubblicata,le ISTITUTIONES IURIS NEAPOLITANI(1767),merita attenzione,perché permeata da un approccio storico che apriva una stagione fiorente di trattazioni manualistiche,sviluppatasi a Napoli nei successivi anni’70 e’80 e collegata all’insegnamento privato.Vario si mostrava attento agli atteggiamenti sociali e di governo. Nella sua ricostruzione,il giurista tentava di rintracciare le peculiarità delle strutture che avevano conferito una precisa identità all’ordinamento statuale e che continuavano a caratterizzarlo. Egli tracciava una sorta di snella e moderna storia delle istituzioni giuridiche del Regno. Che il diritto,oltre che con i percorsi della SCIENTIA,s’intrecciasse con le scelte operate dalla società e dalla politica,fu uno dei principi-guida del lavoro intrapreso. Le tematiche affrontate dallo storico,però,si discostano dal progetto enunciato,che attribuiva al primo libro la trattazione degli IURA PERSONARUM,per privilegiare

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più direttamente la parte plubbicista dello IUS REGNI. E’ chiaro che per Vario la vita delle situazioni giuridiche e delle istituzioni non godeva di un’autonomia propria,ma era fortemente condizionata dai fattori esterni,in particolare dalle scelte sociali e politiche,per cui l’interprete era tenuto a storicizzare e contestualizzare i fenomeni. Per quanto riguarda il riferimento al divino,Vario preferisce interpretarlo sul piano dei contenuti materiali e non metafisici e ne dà un significato espositivo,riferendo che erano UTILITER comprese nello IUS REGNI anche disposizioni riguardanti le chiese e i suoi ministri e largamente quelle contro le eresie. Appare imperniato su un criterio non meno sostanziale l’esame del delicato e vastissimo argomento delle fonti giuridiche e della loro attuale gerarchia. Il primato della VOLUNTAS PRINCIPIS e delle sue SANCTIONES era indiscusso. Il REGIUM IUS,accanto alla produzione giuridica di diretta emanazione del sovrano,aveva recepito e conferito validità a molte norme consuetudinarie traducendole in atti scritti e formali. L’importanza riconosciuta da Vario ai MORES,veri pilastri dell’ordinamento giuridico napoletano,emerge anche da altre considerazioni di seguito formulate. Al secondo posto della scala egli collocava proprio le consuetudini,ed in particolare quei corpi normativi corpi normativi derivati AB EXTERARUM GENTIUM,ossia quelle consuetudini feudali di origine longobarda e a quelle marittime di origine spagnola. Vario,però,riconosceva il valore legislativo delle sentenze del Sacro Regio Consiglio:operava,a questo punto,una difficoltà oggettiva. Mentre l’intento di Vario era di rafforzare,mediante l’analisi filologica,la MENS LEGIS,ossia la VOLUNTAS del legislatore o del sistema,egli non poteva trascurare un dato di fatto assai evidente:il magistrato godeva di larghi spazi di discrezionalità interpretativa,e diventava,in concreto,creatore del nuovo diritto. 4.Diritto romano e “ius langobardorum” Per delineare la fisionomia e le peculiarità dello IUS REGNI,nella sua matrice consuetudinaria,bisognava volgere lo sguardo indietro di oltre un millennio,soffermarsi sulle vicende che avevano segnato la fine di un’epoca florida,quella giustinianea,governata con AEQUIS LEGIBUS. A seguito delle invasioni barbariche,specialmente da parte dei longobardi,si era verificato un profondo sconvolgimento politico e sociale che,oltre ad infrangere l’unità politica della Penisola,aveva spezzato quel solido vincolo di appartenenza che legava le popolazioni italiche alla più raffinata civiltà e cultura romana. Che il diritto dei longobardi ,al confronto di quello romano,risultasse rozzo era dimostrato da una delle più significative innovazioni introdotte dagli invasori:IL DUELLO GIUDIZIARIO. Considerando che la giustizia ufficiale era affidata a soluzioni violente e private,emergeva -secondo Vario- un’altra grave conseguenza:l’assenza del giudice pubblico impediva che si pervenisse a una soluzione imparziale,e l’autorità del potere costituito ne usciva largamente sminuita e delegittimata. Intanto,proprio quella cesura,creata dall’avvento dello IUS LANGOBARDORUM,diede l’avvio nel Mezzogiorno alla formazione di un ordinamento nazionale specifico,con una sua particolare ed autonoma fisionomia. Lo IUS ROMANORUM,sempre secondo Vario,aveva subito una lunga fase di declino,iniziata con l’età longobarda,e solo più tardi aveva riassunto vitalità e prestigio. A seguito del crollo di effettività,quel diritto si era tramandato attraverso i franchi in maniera esigua e marginale,mentre il clero aveva continuato ad utilizzarlo più massicciamente. Solo dopo la scoperta,avvenuta ad Amalfi,del Digesto(Littera Fiorentina),fu sancita una generale ripresa di quella tradizione normativa,nelle forme dell’IUS COMMUNE. Si escludeva che nel Regno il popolo avesse SCIENTIA diretta di quegli antichi testi normativi romani. Alcuni stralci dell’autorevole diritto erano pervenuti alle generazioni successive attraverso la tradizione e i MORES,in cui si erano fusi elementi romanistici e longobardi. A Napoli,tra l’altro,prima della dominazione sveva non esistevano accademie e centri di studio,per cui la nascente cultura giuridica ebbe limitate possibilità di circolazione. Le affermazioni di Vario concordavano con quelle di Pietro Giannone,secondo cui solo con Federico II le PANDETTE cominciarono ad essere lette ed avere sempre maggior peso.

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Non a caso prima del ritorno in uso del digesto,il diritto prevalente nel SUD sarebbe stato il longobardo. 5.Dai duchi normanni ai monarchi svevi I modelli giuridici e istituzionali introdotti dai longobardi erano sopravvissuti a lungo,resistendo anche alla dominazione normanna. Il re RUGGIERO impegnato nella risoluzione di urgenti problemi esterni e di situazioni da affrontare sul piano militare,non fu ancora in grado di predisporre interventi veramente innovativi riguardo all’assetto interno del regno. lo stesso Vario perveniva a soluzioni analoghe affermando che non si erano verificate grandi svolte. Il carattere territoriale della potestà monarchica conferiva al sovrano il compito primario di amministrare la giustizia,lo considerava garante e tutore dei diritti particolari,vigenti per tradizione nel territorio del regno,e capace di modificarli se in contrasto con l’AEQUITAS. RUGGERO II d’Altavilla,dopo aver dismesso la sua autorità di conte per auto procurarsi re di Sicilia,per assicurarsi la dipendenza dalla Corona di tutti i territori sottomessi,aveva perpetuato i meccanismi del modello feudale e quindi mantenuto in vita un’organizzazione pattizia e pluralistica. La feudalità affondava le sue radici nell’età longobarda ,quando in base al diritto di guerra le terre conquistate erano ripartite,come BENEFICIA,tra i più valenti e fidati guerrieri. Quanto ai più estesi poteri giurisdizionali,secondo Vario,l’acquisizione da parte dei baroni inizialmente era stata determinata dai MORES e non da una specifica volontà regia.La fonte di legittimazione quindi rimaneva interna al feudo. Vario citò una costituzione del normanno GUGLIELMO II per dimostrare che nel tempo erano state poste significative limitazioni riguardo alle competenze giurisdizionali. Erano state istituite piccole corti locali e contestualmente definiti i relativi giudici d’appello. Vario dedicò una lunga disanima alle ragioni dell’oblio in cui era finita la costituzione di Guglielmo II,ed apportò molte critiche all’interpretazione riduttiva operata dai glossatori ed in particolare da Andrea d’Isernia. L’intento della trattazione di Vario era di stabilire un punto fermo che valesse anche nell’attualità:al superamento della REGALITA’ NEGOZIATA altomedievale e del sistema costituzionale vetero-pattizio,aveva contribuito sensibilmente l’affermazione del principio secondo cui il regime di ciascun feudo dipende strettamente dall’atto d’investitura. L’orientamento enunciato da Vario si ancorava palesemente ad una linea regalistica,che coincideva con quei fermenti culturali che a Napoli già germogliavano e che avevano trovato riscontro anche negli ambienti ministeriali. Cominciavano a maturare idee di rinnovamento giuridico-istituzionale ancora moderate,tendenti più a colpire gli abusi del baronaggio,che a formulare veri progetti eversivi con soluzioni radicali. Ricondurre il sistema feudale nell’orbita della VOLUNTAS REGIA significava assoggettarne l’estensione all’AUCTORITAS PRINCIPIS,arginandone per il momento l’autonomia e gli eccessi. In tale direzione si rammentava la svolta costituzionale che si era realizzata con l’ascesa di FEDERICO II alla guida del Mezzogiorno. Non è un caso che il titolo III dell’opera DE SUMMA REGIS MAIESTATE fosse dedicato quasi interamente a tale sovrano. La fondazione della monarchia,infatti,secondo Vario non poteva che collegarsi all’età sveva;sulla stessa posizione si era attestato anche GIOVAN BATTISTA VICO,ma il giurista salese aveva colto il limite di alcune generalizzazioni fotmulate. L’assetto conferito da Federico all’organizzazione dello Stato poggiava su principi ben definiti,orientati a realizzare l’accentramento delle funzioni e ad esaltare un apparato tecnico e laico. L’imperatore era intervenuto sul settore giurisdizionale:aveva riassunto il potere di nomina dei giudici e disciplinato le possibilità di ricorso alla giustizia degli arbitri;tale argomento fu un tema assai caro al professore di Sala. 6.I secoli dell’oppressione feudale

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Federico II era stato un grande re perché aveva avviato nel regno di Napoli un processo di riorganizzazione amministrativa e giudiziaria. L’istituzione dello Studio pubblico a Napoli era stato del tutto funzionale a quel disegno. Puntando sui giuristi e sulla loro preparazione,ordine ed efficienza diventarono i criteri di gestione del governo centrale. Nello stesso tempo Federico,propugnando la derivazione regia delle funzioni giurisdizionali e militari regolamentò anche la potenza feudale e riuscì a ridimensionarla. Attraverso le dominazioni che seguirono,questi risultati subirono un forte appiattimento. Le riforme giurisdizionali disposte da ROBERTO D’ANGIO’ attraverso 4 capitoli,le EPISTOLAE ARBITRARIE,avevano regolamentato e accresciuto l’AUCTORITAS IUDICANDI dei presidi provinciali. Poi quelle disposizioni erano state estese anche ai baroni così l’inversione di rotta rispetto all’età fridericiana appariva a Vario quanto mai limpida. Con ALFONSO d’ARAGONA il MERUM ET MIXTUM IMPERIUM fu concesso a tutti i baroni. Questa volta l’elargizione non fu il sintomo di un particolare FAVOR del sovrano,piuttosto fu dettata da ragioni di opportunità politica. Solo mantenendo stabili gli equilibri di potere già esistenti e mostrando una generale benevolenza,la futura successione dinastica non avrebbe incontrato ostacoli e FERRANTE sarebbe stato riconosciuto come legittimo re. Intanto la ricaduta sull’organizzazione del regno di Napoli non poté che risultare negativa,e per la Corona destabilizzante. Solo con il viceré don PEDRO de TOLEDO la potenza baronale fu arginata con una mirata e più specifica politica di diritto. Vario,tuttavia,aveva piena consapevolezza che i numerosi provvedimenti emanati non erano riusciti a risollevare completamente i vassalli dalle angherie e dalle vessazioni a cui erano sottoposti. La sua analisi si fermava alla metà del ‘500,senza alcun riferimento all’attualità. La scelta operata probabilmente scaturiva dalla fondata consapevolezza che nel SUD il sistema feudale era rimasto in vita integro e ancora ben radicato. 7.Diritto e cultura ‘moderna’ Attraverso molti brani delle INSTITUTIONES,Vario manifestò i punti salienti della sua linea interpretativa,dimostrando che dai primi secoli del II millennio la dinamica del diritto e delle istituzioni era stata largamente condizionata dalle vicende reali della società e della gestione politica. Oltre alle oppressioni emergenti sul piano socio-politico,che derivava dal sistema feudale,il giurista poneva in luce come il MEDIOEVO era stato segnato da altre forme di tirannia,meno esplicite ma altrettanto dirette .Contro la libertà del pensiero e delle idee,la cultura ufficiale aveva risentito delle pressanti influenze esercitate dalla CHIESA e dalla SCOLASTICA. Erano passati secoli prima che nel panorama italiano si arrivasse a demolire le astrazioni acritiche e monistiche su cui poggiava gli schemi consolidati. Il quadro teorico complessivo aveva iniziato a sgretolarsi ad opera di alcune figure chiave tra cui: LORENZO VALLA,TELESIO e GALILEI. Il momento di svolta effettiva e generalizzata,però,doveva collegarsi alla diffusione del pensiero moderno francese. Vario esaltava la positività di questi fermenti culturali da lui pienamente condivisi,che avevano finalmente espulso le barriere e sbloccato tutte le discipline da una lunga fase di stasi. Anche l’università aveva incamerato alcuni risultati di questi cambiamenti intellettuali ed il contributo,anche economico,di BARTOLOMEO INTIERI per l’istituzione della cattedra di MECCANICA e COMMERCIO ne era prova tangibile. A Napoli l’altro vero promotore del ritorno agli STUDI LIBERI era stato CELESTINO GALIANI,convinto cartesiano ma anche lockiano e newtoniano. Egli operò prima che si concludesse il felice periodo del XVIII sec.,iniziato con l’avvento di CARLO d’ASBURGO e chiuso dalla partenza da Napoli di MONTEALEGRE(1707-1746),in cui governo assoluto e cultura illuministica ebbero facili relazioni. In linea con il governo del Segretario di Stato sivigliano,il monaco celestino si era fatto promotore di grandi riforme per tentare una rigenerazione degli studi superiori. Suo nipote FERDINANDO era presentato da Vario come degno erede di quel filone culturale. Non è causale che l’erudito di PRINCIPATO CITRA,avvinto dalle idee laiche ed

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illuministiche,citasse tra i maggiori giuristi politici del REGNO il ministro FRANCESCO VENTURA,reggente di Cancelleria e riformatore illuminista. Su progetto di PIETRO CONTEGNA,quel LEADER del ministero togato era stato l’artefice primario del SUPREMO TRIBUNALE del COMMERCIO,nonché presidente di quella nuova corte di giustizia. L’organo presentava caratteristiche assolutamente moderne,che lo separavano in tutto dal vecchio apparato giurisdizionale:vantava competenze esclusive in materia economica e di scambi,era composto anche da mercanti e soprattutto procedeva secondo un rito snello e meno formale,trattando le controversie in punto di fatto e non di diritto. Allo stesso ambiente,permeato dalla cultura ‘moderna’,era legato anche NICCOLO’ FRAGGIANNI,giurista e potente magistrato,di cui Vario riconosceva lo spessore intellettuale ed i meriti professionali. La sua linea,realistica e prudente,anche dopo il governo di CARLO di BORBONE,era stata un efficace elemento di raccordo tra corte e cultura illuminista. Vario cita,anche,CARLO MAURI,l’eminente uomo di legge ed esperto uomo politico che nel 1735 fornì un intelligente contributo alla riforma delle magistrature. 8.”Libertates Ecclesiasticae” Guidato da un acuto spirito critico,il giurista campano nel suo trattato non aveva mai trascurato di soffermarsi sul ruolo assunto dalla CHIESA di ROMA e dal suo diritto. L’analisi storica consentiva di decifrarne gli apporti culturali complessivi e l’influenza esercitata relativamente agli sviluppi della vita civile napoletana. Non deve meravigliare che un sacerdote come Vario,guardando all’utilità pubblica,assumesse un atteggiamento problematico e si ponesse in una prospettiva laica. Certamente egli non fu estraneo a quei fermenti che si conclusero,nello stesso anno di pubblicazione del volume,dell’espulsione della COMPAGNIA di GESU’ dal Regno. In direzione simile si erano mossi CONTEGNA,GALIANI e GENOVESI. La caduta dell’impero romano e le invasioni barbariche avevano segnato,anche per la CHIESA,la chiusura di un’epoca e l’inizio di una lunga fase di crescita e di espansione. Il prerequisito di questo sviluppo,secondo Vario,era stata l’emancipazione da ogni forma di sottoposizione,giuridica e potestativa,all’autorità civile. Attraverso il fenomeno giuridico e l’assimilazione dei principi romanistici,le strutture ecclesiastiche avevano trovato un fondamento solido su cui costruire la propria identità e consolidare la raggiunta autonomia. La debolezza del potere statale aveva chiaramente avvantaggiato la posizione dei ministri della fede,generando a loro favore immunità reali e personali,con conseguenze di rilievo specialmente in campo giurisdizionale;sul concetto di LIBERTA’ ECCLESIASTICHE Vario dichiarava di essere stato ammonito dal censore ecclesiastico. Nel rispetto di tale non trascurabile suggerimento,alla fine del libro,il giurista era intervenuto su quell’argomento specifico. Rettificando il giudizio espresso su quelle LIBERTATES,tentava di ridurne il potenziale ideologico e di proporre un significato più equilibrato. Tuttavia il senso del discorso non si era ammorbidito. Secondo Vario l’estensione delle prerogative ecclesiastiche aveva ricevuto una notevole spinta anche dal FALSO EDICTO M. CONSTANTINI che avrebbe sottoposto all’IMPERIO PONTIFICIS l’Italia e le altre province dell’Europa occidentale. Egli tentava di dimostrare che il testo dell’imperatore romano era stato usato proficuamente per legittimare l’autorità crescente delle strutture ecclesiastiche. In tale direzione il diritto d’asilo aveva rappresentato,per la potestà ecclesiastica ,un altro punto di vista. Ripercorrendo la storia,si riscontrava che a monte dell’ immunità locale non vi era stata una specifica elargizione di papa SILVESTRO,come suggerivano alcuni storici ecclesiastici,ma una mera pratica consuetudinaria. Una prima regolamentazione era stata disposta con il CODICE TEODOSIANO in cui s’indicavano le aree franche dalla giurisdizione regia ed i casi esclusi,ma da allora il privilegio riconosciuto alla CHISA era accresciuto. Vario affermò che il diritto d’asilo era stato all’origine di continui scontri con l’autorità civile. Contro i molti abusi perpetrati,il concordato

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del 1741 aveva compiuto un’ampia trattazione della materia,disciplinando dettagliatamente la tipologia dei luoghi sacri compreso nel privilegio. Che Vario intendesse tutelare il sovrano dallo strapotere ecclesiastico emerge anche da altri elementi. Nell’edizione delle CONSTITUTIONES REGNI SICILIARUM,da lui curata ed edita nel 1773,è singolare che alla sola PREDECESSORUM NOSTRORUM avesse aggiunto un suo COMMENTARIUS. La particolare attenzione manifestata per quella costituzione sveva,era rivolta a richiamare fonti più antiche,addirittura bizantine,per dimostrare che già in epoche lontanissime la chiesa era stata ostacolata e contrastata dall’autorità civile. Fondandolo sul retaggio della tradizione e sulle situazioni consolidate,l’obiettivo di difendere le prerogative dello STATO sicuramente acquisiva maggiore energia e si fortificava. Un argomento analogo fu oggetto della dissertazione elaborata dal 47enne campano per il concorso,del 1777,per la cattedra di DIRITTO DEL REGNO. Il tema dei DIRITTI REGALI,questa volta,era esaminato attraverso una costituzione di RUGGIERO II che andava oltre i rapporti con la sfera ecclesiastica,per estendersi ai diritti fiscali,già imposti dagli imperatori bizantini,ed alla necessità dell’assenso nella vendita dei feudi. Ai diritti della sovranità e al loro primato s’attribuiva un’immagine certamente vincente. 9.Conclusioni Il complesso delle considerazioni,e dei relativi richiami alle fonti,prova che il giurista campano sviluppò fin dall’inizio della sua formazione culturale un forte interesse per il collegamento tra cultura e società. Quelle suggestioni provenivano da un ambiente napoletano che attraversava una fase d’intenso fermento critico e di rapido approccio verso l’illuminismo. Vario era anche un esperto della storia e della documentazione giuridica. A Napoli,ed ancor più a Pavia,fu quest’elemento della sua preparazione il punto di forza su cui poté fondarsi per far fronte alle esigenze materiali. Nell’illustre Università lombarda,il suo metodo d’insegnare e di pensare fu posto in discussione,ed è stato analizzato il significato della sua scelta a favore del metodo ‘culto’ francese,che era ,per altro,già fortemente consigliato dalla RATIO STUDIORUM prescritta dagli statuti di quell’istituzione. Anche l’opzione verso quella tecnica interpretativa riceve luce da una serie varia e coerente di preferenze manifestate da Vario. Basti ricordarne alcune:l’esaltazione della monarchia fridericiana quale modello luminoso di organizzazione politica;l’ammirazione con cui guardava all’esperienza statale francese;le lodi pertinenti e molto orientate a favore dei giuristi napoletani AFRANCESADOS,che erano stati capaci di fondere specializzazione tecnica e ampia visione socio-economica;la considerazione delle CONSUETUDINES fonti legittimate dalla PRINCIPIS REDACTIO,e tali perciò da configurare una fonte popolare della sovranità,che riceveva il crisma della legittimazione entrando a far parte di un armonico ordine statale. In queste manifestazioni indirette e professionali del suo pensiero è da scorgere la cifra particolare e profonda del giurista campano. Ogni riferimento alle realizzazioni più riuscite del costituzionalismo moderno sarebbe andato oltre i tempi storici di Vario viveva,e ben al di là dei limiti accademici ch’egli era costretto ad imporsi e che comunque frenavano il suo comportamento esterno,fin troppo ardimentoso. Tuttavia appare sufficientemente chiaro che Vario guardava intensamente ad una civiltà più moderna,più dinamica,più libera,come quella che si stava organizzando OLTRALPE. Non mancano precisi appigli testuali che possono documentare la sintonia dello sfortunato docente pavese con altri intellettuali ‘regnicoli’che pagarono un prezzo altissimo per contribuire al risveglio e riscatto della PATRIA COMUNE napoletana ed italiana.

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TESTAMENTO FORENSE. LINEE DI UN PROGETTO COSTITUZIONALE 1.Un’opera d’autore A conclusione di un’intensa esperienza scientifica e,di lì a poco anche esistenziale,GIUSEPPE MARIA GALANTI nel 1806 realizzò la sua ultima opera:Il TESTAMENTO FORENSE che era anonima,divisa in due tomi,e prima della morte dell’autore non ebbe altre repliche;fu dato in stampa con la falsa data di VENEZIA.[Il primo tomo si apre con la fantasiosa genesi del testo:un avvocato veneziano,di ritorno da un viaggio a Napoli,portò con se due manoscritti,uno intitolato TESTAMENTO FORENSE DI UN MAGISTRATO,l’altro SAGGIO STORICO SUI PROGRESSI DELLE COGNIZIONI NEL REGNO PUGLIESE.]La scelta consapevole di un titolo agile e non tematico rivela subito che si è di fronte ad un’elaborazione complessa non indenne dalle umane contraddizioni. Per una personalità brillante ed eccentrica,come GALANTI,la decisione di rimanere nell’ombra fu una necessità dettata da motivi contingenti,una mossa prudente adottata al cospetto del nuovo regime. I contenuti ed i toni di TESTAMENTO FORENSE risultano tutt’altro che pacati:l’autore,sempre in bilico tra moderazione e radicalismo,sviluppava una critica serrata all’ANCIEN REGIME mettendo in rilievo le ragioni profonde della prolungata e caotica convivenza,nel SUD,del “regno forense” e della feudalità. Nel corso degli anni ‘80 il pensiero critico,superando la moderazione e i limiti del messaggio genovesi ano,mostrava chiari segni di apertura verso le tematiche costituzionalistiche. Le puntuali analisi dei riformatori risultavano oramai pronte a spostarsi su un piano ideologico complessivo e quindi a dar vita ad un progetto generale di rinnovamento. Questo traguardo fu raggiunto anche dall’intellettuale sannita che spaziava dal piano finanziario-fiscale a quello storico-giuridico e dalla filosofia alla politica. Egli compì continui approfondimenti,anche teorici,in rapporto all’ambiente napoletano,ma non solo:si mostrò aperto al confronto e pronto a recepire i nuovi orientamenti di pensiero provenienti d’Oltralpe. 2.Diagnosi corografica e proposte di riforma Che sotto il nome modesto di FORO,Galanti intendesse riferirsi alla “STATISTICA DI OGNI PAESE”,è dichiarato espressamente nel suo TESTAMENTO. Ispirandosi alla tradizione romana classica,ma anche alla sistematica radicata dalla REPUBBLICA DEI TOGATI,con quel termine il giurista sannita si riferiva specificamente alla “costituzione”materiale dello STATO,alla sua organizzazione civile e politico-economica. Egli si era più volte occupato di questi temi in altri contesti antecedenti,ma la variazione in TESTAMENTO FORENSE,può indicarsi come l’elemento di assoluta novità,il segno maturo di una visione complessiva e unificante,che superava nettamente le posizione ricognitivo e frammentarie espresse in passato. Le 1000 sfaccettature dell’ordine giuridico instauratosi nel REGNO si riassumevano nel diritto,e soprattutto nella gestione che di esso i LEGUM DOCTORES praticavano. La fisionomia assunta dal Regno e le relative logiche gestionali furono tratteggiate da Galanti con una precisione sintetica e sostanziale:l’avvocato sannita intendeva porre in risalto come nel succedersi delle varie dominazioni avesse preso avvio un processo di stratificazione normativa,che convogliava in un unico ordinamento corpi giuridici e costumi diversi. Tale composizione aveva generato a livello istituzionale una serie di scompensi ed anomalie;su un terreno tanto sconnesso,la cultura giuridica era riuscita a muoversi con competenza e disinvoltura:aveva legittimato la monarchia e il potere degli apparati burocratico-giurisdizionali.

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Sotto l’influenza dell’esperienza francese,GALANTI,elaborò progetti di riforma che riuscirono a spingersi oltre la ragione economica,per investire la ragion civile e le leggi fondamentali dello stato. Ma mancando di dati precisi la situazione di fine secolo non consentiva una diagnosi completa;quindi l’avvocato sannita utilizzò la prospettiva diacronica ed indicò un principio valido per ogni tempo:attraverso l’indagine storica risultava agevole vedere se si è migliorati o no nel mistero della giustizia e verificare quando si è disposti a cambiare. Dei 2 obiettivi l’ultimo governo borbonico aveva accolto solo il primo. La compresenza di numerosi materiali è un altro elemento che contraddistingue peculiarmente l’opera del 1806,si tratta dei principali progetti di rinnovamento che il giurista sannita elaborò,e che quando l’antico regime si era ormai concluso decise di ricucire. Che lo scenario economico-politico del SUD richiedesse una svolta costituzionale decisiva fu una convinzione espressa da Galanti già prima che terminasse il secolo XVIII. L’idea di un profondo rinnovamento nel periodo della crisi post-repubblicana rinverdì il suo spirito:fu allora che decise di raccogliere le sue principali proposte di riforma accanto alle delusioni finali. Su quella scelta editoriale incisero anche gli stimoli e le nuove occasioni di confronto,che gli fornì il viaggio appena concluso nelle più sofferenti regioni centrosettentrionale. 3.Con la corte e… Per la sua fedeltà alla MONARCHIA,Galanti,aveva pagato un prezzo molto alto;continui disagi e difficoltà anche economiche avevano accompagnato la sua attività. Se durante e dopo la morte della breve REPUBBLICA del 1799 il giurista sannita fu vittima della comune indifferenza e poi costretto a nascondersi,le esperienze maturate negli ultimi lustri del secolo non erano state meno travagliate. Attratto da promesse di una facile carriera aveva lasciato l’attività forense per affidare alla corte napoletana le sue competenze e disponibilità. Le materie economiche e politiche avevano prodotto subito ammirazione e larghi consensi:le inchieste compiute dall’avvocato rilevavano conoscenze scientifiche e modernità di vedute,premesse necessarie per instaurare un rapporto di costruttiva collaborazione con gli ambienti di governo. Nella politica E’NECESSARIO AVERE LO SPIRITO LIBERO DA PREGIUDIZI,ISTRUITO DELLE LEGGI,DEGLI AVVENIMENTI PASSATI,DELLO STATO DELLE NAZIONI:MA BISOGNA,ANCHE,ESSERE ANIMATO DA VIRTU’,CIOE’ DA TALENTI DI UN CERTO CALIBRO. Tutte qualità presenti in Galanti e funzionali alla rappresentazione che la Corona in quegli anni voleva dare di se. La somma degli avvenimenti,che dopo il 1780 aveva cambiato il clima politico napoletano e compromesso l’immagine e la credibilità della regina e della corte,era l’indice di una crisi gravissima e incombente,da arginare con immediati cambiamenti di rotta e di uomini. Il ritorno dalla Sicilia di DOMENICO CARACCIOLO ,nel 1786,la carica di primo ministro,avrebbe certamente ridato lustro al governo. Questa iniziativa fu adottata in linea con un disegno più generale di rinnovamento che mirava ad incidere sull’opinione pubblica:le riforme dovevano risultare tangibili e vistose. Gli incarichi affidati ad uomini come Galanti,erano gratificanti sul piano personale,ma non destinati a scalfire l’immobilismo del sistema;queste erano le regole del nuovo gioco. Il sannita visse una fase di grande ottimismo e speranze:la possibilità di elaborare un programma di riforma globale per soddisfare i bisogni pubblici in maniera definitiva,fu una vera missione ma anche un modo per esibire il suo talento. Pensando di poter influire significativamente sulle scelte politiche,accantonò le linee moderate espresse alcuni anni prima per attestarsi su soluzioni radicali. Lo STATUS QUO appariva paralizzato dalla persistenza dei vecchi centri di potere,che opprimevano le province e annientavano i rapporti civili. La situazione delle finanze statali era posta in primo piano:i MALI della patria non derivavano soltanto dalla quantità dei tributi e di dazi imposti,ce n’erano di maggiori,il giurista si riferiva ai meccanismi di gestione e di riscossione,in particolare al sistema parassitario degli “ARRENDAMENTI”,che moltiplicava

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all’infinito il debito pubblico con vantaggi limitati e per pochi. Lo scenario mostrava una condizione economica assolutamente debilitata,insostenibile per i sudditi e rovinosa per il governo. Si profilava quindi la necessità di un intervento organico e razionale,non diverso da quello promosso in Francia da TURGOT e già vigente in Inghilterra. Le maggiori responsabilità del sottosviluppo sociale del regno e di un’economia scarsamente produttiva erano da attribuirsi al sistema feudale. Su questa fondamentale problematica l’intellettuale si era soffermato a lungo nelle sue opere,ma variando continuamente atteggiamento e punto di vista. Il perno intorno a cui ruotava la proposta formulata nel 1786 era rivolto da un totale abolizione di quel SISTEMA. Queste stesse posizioni furono ripercorse in TESTAMENTO FORENSE,ma per ora gli sembrava inaccettabile il rimedio di puntare sulla devoluzione e,come in Sicilia,di realizzare gradualmente il recupero dei feudi alla Corona ricorrendo a strumenti giuridici e processuali. Il giurista si poneva dalla parte del governo ma non era disposto a trascurare gli interessi della collettività:i due piani erano complementari per cui bisognava mirare alla sicurezza sia del trono che dei cittadini. In nome della pubblica felicità,ingenuamente,arrivò da immaginare la trasparenza delle finanze e dei conti pubblici. Quest’idea,ben lontana da quella che aveva ispirato l’istruzione del CONSIGLIO DELLE FINANZE,faceva parte del disegno galantiano di offrire al governo napoletano un progetto politico-istituzionale illuminante,che progettava la trasmutazione verso un modello produttivo che avrebbe dato risultati proficui in tempi brevi,per l’erario e per la società. Non fu certo un caso che le accorate pagine in cui Galanti raccolse queste idee fossero comprese in quella parte della DESCRIZIONE DELLE SICILIE che risultò più sgradita alla corte e che,dopo l’edizione del 1788,egli non riuscì a ripubblicare prima del 1806. 4. …con l’Europa L’evoluzione dell’assolutismo costituzionale verso una forma di dispotismo sedicente illuminata aveva creato forti scompensi nel tradizionale sistema di gestione del regno:indebolendo gli apparati,negli ultimi lustri del ‘700 cominciavano a vacillare anche i più consolidati equilibri di potere. Mentre la struttura di governo si militarizzava e rispondeva ad una linea verticistica,le magistrature supreme apparivano tese ad affilare i loro strumenti tecnici di difesa per resistere agli scossoni che minacciavano di spegnere la plurisecolare autorevolezza e segreta politicità. L’autonomia residuata fu gestita nell’ottica della continuità ideologica con le antiche tradizioni e con il vecchio sistema ministeriale;pur seguitando a muoversi nell’ambito della IURIS PRUDENTIA,da cui si poteva aspettare ancora qualche garanzia,l’interesse prevalente coincise con l’autoconservazione. Galanti fu abile smascherare le logiche ingombranti,anche private,del potere. Durante la sua lunga pratica dei tribunali e delle Segreterie di Stato egli aveva acquisito piena consapevolezza dei meccanismi legali dell’antico regime e della loro invasività. I principi su cui si fondava l’ORDINE CIVILE rispecchiavano la mentalità dei togati e gli interessi settoriali. Il realismo critico del sannita,di formazione genovesiana,non costituì mai un limite allo sviluppo del pensiero personale. Dall’ultimo quarto di secolo,gli ambienti più all’avanguardia del continente avevano maturato l’idea che l’esperienza giuridica non era materia soltanto tecnica e riservata a DOCTORES esperti:mentre gli addetti ai lavori ammantavano di legalità le vicende mondane il popolo cominciava a reclamare chiarezza e una diretta partecipazione. Contro quei meccanismi sofisticati le istanze di fondare l’ordinamento dello Stato sulla base di coordinate democratiche penetravano con rapida progressione. La maggioranza degli illuministi era al corrente di questo nuovo sentire:percepiva che l’intera società aveva preso coscienza del significato politico dei diritti e che pretendeva di diventarne soggetto attivo autorappresentandosi. Galanti aveva il significato delle sollecitazioni provenienti da tutta Europa,che elaborò e trasfuse in molti suoi progetti,poi in TESTAMENTO FORENSE. Mostrò di condividere appieno l’idea di Rousseau di instaurare un ORDINE

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POLITICO rinnovato,che fosse naturalmente giuridico,ma lontano dagli schemi tradizionali,fondato sul diritto pubblico e sull’interesse comune 5.Un giurista scomodo? I rapporti di Galanti con il governo e le Segreterie divennero intensi solo dopo gli anni ’80 del secolo;dal 1790,però,fu inviato in giro per il Regno come VISITATORE. Le cognizioni acquisite durante i continui spostamenti costituirono la base su cui presero corpo numerose relazioni,poi convogliate in dettagliati piani di riforma:i viaggi compiuti e i dati raccolti incentivavano il moltiplicarsi delle sue riflessioni,ma l’attuazione di tante valide proposte fu continuamente differita e poi accantonata. Questo sistema rientrava nei disegni di MARIA CAROLINA:serviva ad appagare nell’immediato le diffuse esigenze di rinnovamento,ma non a innovare realmente. L’intento del governo era di lasciare largo spazio alle trattative e,nell’attesa di risoluzioni definitive,di mantenere ferma la gestione intrapresa e le possibilità di arbitrio. Su un piano più specifico,le peregrinazioni di GALANTI offrivano il vantaggio di allontanare dai posti di comando un personaggio troppo audace e potenzialmente pericoloso. Galanti riteneva che,per abbattere le minacce rivoluzionarie,il governo dovesse porsi,come obiettivo primario,il benessere del Regno;gli appariva indifferibile l’attuazione di riforme valide e durature e che avessero incidenza a livello costituzionale. Questo era in sintesi il messaggio più volte ribadito con schietta lealtà e a volte con toni duri,nelle relazioni presenti in TESTAMENTO FORENSE. La generosa fiducia accordata alla Corona si abbinava a decise sollecitazioni,ma in realtà motivi soggettivi ed oggettivi impedirono a tante idee un effettivo decollo. 6.Segni di un rinnovato radicalismo Nel percorso ideologico di GALANTI la rivoluzione francese rappresentò una tappa fondamentale. Per quanto nei suoi scritti siano riscontrabili riferimenti espliciti scarsissimi,egli fu consapevole della cesura realizzata e delle prospettive di generale riordinamento che tale vicenda apriva sul piano della politica e del diritto. Il crollo degli schemi del passato,anche se era avvenuto in forma clamorosa e a discapito della monarchia,mostrò che per l’ANCIEN REGIME il destino era ormai segnato. Si faceva strada una nuova percezione dell’ordine,esterno al mondo giudiziario e forense,di cui lo stato,in un’eccezione molto allargata,diventava attore e protagonista;ma con l’emergere della NAZIONE si paventavano ripercussioni anche estreme riguardo alla stabilità del regime regalistico e alla sua sopravvivenza. L’opzione galantina,invece,manteneva il sovrano in una posizione centrale,quale depositario della volontà e delle esigenze generali:più concretamente l’avvocato cercò d’illuminare e persuadere la corte che,per scongiurare la diffusione nel Regno del contagio rivoluzionario,si dovesse adottare una DIFESA preventiva,ossia investire nelle riforme senza ulteriori rinvii;l’operazione di vendita dei latifondi,gestita dal duca di CANTALUPO(1793),apparve proprio come l’inizio di queste riforme. Se nella fase post-rivoluzionaria GALANTI si mostrò disposto a stemperare il radicalismo totalizzante,il suo atteggiamento fu dettato più dall’ambiente esterno e dalle particolari vicende contingenti,che dall’oggetto specifico della questione;infatti la politica complessiva di MARIA CAROLINA,che era impegnata a fronteggiare innanzi tutto le emergenze militari e finanziarie,ristagnava in un immobilismo di fondo,compromettendo la riuscita di interventi ampi e razionali. Al problema feudale,il cui impianto giuridico-istituzionale stava subendo i primi colpi,il sannita rivolse attenzione continua,vigilando sugli aspetti controversi e sull’effettività dei risultati che il processo evolutivo prometteva. Per quanto operazione politicamente rilevante,la vendita dei feudi

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devoluti non conduceva ad un’effettiva distruzione del sistema feudale,ma ne perpetuava gli svantaggi,facendo del compratore un nuovo “sovrano sull’acquisto fatto”.Non era poi da sottovalutare la particolare situazione che si verificava all’interni dell’erario:i pesi feudali gravanti sul bene non si estinguevano mai del tutto per la duplicazione della figura del fisco,allodiale e della Corona. Questo stava a dimostrare che era urgente realizzare la RIFORMA DEI TRIBUTI diretti e indiretti aggiornando il CATASTO,in modo che ognuno pagasse in proporzione alle ricchezze possedute. Ma la buona riuscita di tante operazioni non era poi così automatica,era condizionata dalla ristrutturazione del settore giudiziario e forense. Il ritorno di Galanti alla moderazione fu un’esperienza di breve durata. 7.Contro lo ‘spirito forense’ L’elemento che maggiormente distingue TESTAMENTO FORENSE dalle altre opere giuridicho-politiche di Galanti è la convinzione che per incidere sull’organizzazione dello stato bisognava rinnovare il “TEMPIO DELLA GIUSTIZIA”.La sua esperienza di avvocato gli aveva insegnato che il potere dei TOGATI era più forte della feudalità e più tenace della monarchia. Il vero ostacolo alla piena realizzazione di qualunque cambiamento,giuridico istituzionale o economico che fosse,da vari secoli si annidava nelle logiche forensi. La forza dei DOCTORES IURIS e gli spazi di autonomia che essi avevano acquisito poggiavano su una mentalità arcaica,emersa in epoca medievale e mai più dimessa. Il carattere sacerdotale,di cui si fregiavano i ministri regi,era sorretto dall’idea che i giuristi con la loro SCIENTIA fossero gli unici soggetti in grado di rilevare valori oggettivi e universali e,perciò,di trasfonderli nella realtà;finendo ovviamente per dominarle. Contro quel retaggio culturale che elevava i giuristi a PADRI DELLA PATRIA,Galanti volle perpetrare la sua ultima battaglia. Lo spirito forense dimostrava di essere resistente,difficile da abbattere:era sopravvissuto ai duri attacchi che,negli anni ’70,avevano colpito il PARLAMENTO di PARIGI e le magistrature napoletane;il che lasciava presagire che solo un attacco frontale,rivoluzionario o politico,potesse distruggere quel baricentro del sistema. Secondo l’ultimo Galanti le riforme dovevano investire principalmente il REGNO FORENSE,compiendone una generale revisione,da articolare almeno su due livelli:il primo era quello dei principi fondamentali,inerente al piano costituzionale;l’altro era più strettamente tecnico,rivolto alla riorganizzazione interna delle funzioni giurisdizionali e quindi al superamento dello schema piramidale accentrato. In uno Stato,in cui il diritto pubblico risultava privo di una fisionomia autonoma,poiché costruito e ancora modellato sul diritto civile e sull’INTERPRETATIO fornita dai giuristi,non si poteva pensare che a interventi ampi. Per lungo tempo i giuristi avevano gestito il caos normativo-legislativo,districandosi in un sistema complicato di ecclesiastico e feudale e costruendo un ordine del tutto simile ad una monarchia GIURISPRUDENZIALE. La loro tradizionale funzione istituzionale e civile,paragonata al pensiero critico europeo di quegli anni,appariva inadeguata;era impensabile,secondo Galanti,che una svolta costituzionale innovativa potesse derivare dalla cultura giuridica e in particolare dalla mediazione dei ministri togati che tendevano continuamente a ricongiungere IMPERIUM e IURISDICTIO. Al contrario bisognava agire all’esterno dell’ambiente legale e porsi come obiettivo primario di riforma proprio il foro. Attribuendosi l’arduo compito d’illuminare i programmi di governo della monarchia,Galanti le riconosceva l’autorità di costituire un DIRITTO PUBBLICO per il Regno,quindi di procedere alla ristrutturazione dell’ordinamento politico e di tutta la sua classe dirigente. La VOCAZIONE PUBBLICISTA fu un atteggiamento tipico dell’illuminismo giuridico e Galanti ne fu un convinto e tenace assertore. L’idea originale che lo stato si desse una costituzione ispirata ai principi del diritto naturale,e vi improntasse il suo programma di governo,era confortata dall’esempio di FEDERICO II.

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L’imperatore svevo , infatti ,nella storia politica del SUD, rappresentava ancora un valido modello:egli aveva riordinato l’assetto dei poteri e stabilito una MONARCHIA REGOLARE,dando rilevanza all’interesse comune e allargando la base sociale della partecipazione politica; sottoponendo i cittadini ai magistrati e soprattutto i magistrati alla legge. Quell’organizzazione con un intervento diretto della Corona poteva essere aggiornata e ripristinata,ma a condizione che i delicati compiti prospettati,i doveri pubblici,non finissero per confondersi ancora una volta con le funzioni giurisdizionali. Con un’intuizione moderna,che per molti aspetti si ricongiungeva alla lezione genovesiana,il giurista auspicava che la PUBBLICA UTILITAS,le discipline economiche e sociali,gli interessi generali si emancipassero dalla sfera della IURISDICTIO e della SCIENTIA IURIS,per collocarsi,nel rinnovato sistema di governo,in primo piano,come obiettivo autonomo. 8.Uno ‘Stato di diritto’? Le dritte,che l’esperienza filosofica e politica maturata Oltralpe dettava,circolavano largamente anche nel regno di Napoli e non potevano essere più trascurate. Nell’ottica galantina,l’impegno e la funzione ordinate della Corona diventavano assolutamente peculiari:rivedendo le posizione di governo intraprese,i regnanti dovevano optare per una linea dinamica e razionale,mirante ad una riforma della sfera pubblica. Anche il consenso ne sarebbe uscito rinnovato. Per il giurista sannita questa costituiva l’unica opportunità di salvezza per il SUD. Ma la possibilità di compiere uno sforzo decisivo per cambiare la rotta,alla luce della realtà,rappresentava un’alternativa molto ipotetica:di fatto la monarchia perseguiva altri disegni e quel progetto,cui l’avvocato-geografico si affidò alla fine del secolo XVIII,finì per essere risposto nel cassetto delle mere illusioni. Nell’immaginario galantiano si assegnava ampio spazio allo STATO di DIRITTO,ad uno Stato in cui l’espletamento delle funzioni ordinarie,ben distinte tra loro,era legittimato e temperato dalle leggi costituzionali. La separazione delle funzioni legislative da quelle prettamente giurisdizionali o amministrative implicava la ridefinizione in maniera precisa delle competenze dei vari organi,secondo un apparato normativo che ne fissasse contemporaneamente le aree di competenza ed anche i limiti. L’abbattimento dei meccanismi di potere consolidati,della mentalità FORENSE e di quanto rimaneva del sistema assolutistico-ministeriale,era interfacciale al riassetto del Regno secondo una costituzione politica definita,stabile e conforme al diritto naturale. Il modello da istaurare si riconosceva in quello di una monarchia AMMINISTRATIVA attenta alla legalità e alle garanzie fondamentali. 9.Verso un moderno decentramento La piena attuazione di tale progetto costituzionale implicava anche un intervento mirato di razionalizzazione delle istituzioni amministrative e giudiziarie,che incidesse sulla loro natura e sulla collocazione topica. Questa idea,che GALANTI aveva espresso nella riforma della giustizia, elaborata nel 1792,in vestiva la funzione giurisdizionale nella sua interezza,perché attraverso nuovi criteri di riassetto tendeva a depotenziare le supreme magistrature centrali favorendo lo sviluppo dei tribunali e degli uffici provinciali. Le ispezioni condotte nelle varie regioni del SUD gli avevano fornito un quadro nitido della desolazione e della miseria in cui viveva gran parte delle provincie. Lo stato di arretratezza economica e di degrado sociale si presentava grave e generalizzato, accompagnato a forti egoismi individuali. Emergeva chiaro come prevalessero gli interessi personali sul bene della patria.

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Per la stabilità del trono questa estenuante situazione rappresentava certamente una non trascurabile minaccia,ma poteva ancora essere sanata,stabilendo una nuova configurazione istituzionale,più rispondenti ai bisogni della società. Le province,che dovevano rappresentare l’ HUMUS dell’economia nazionale,la FORZA PRINCIPALE dello Stato,erano avvilite da una capitale MOSTRUOSA e prevaricante. Per risollevarle anche demograficamente,non era più sufficiente disporre interventi a livello periferico e locale,bisognava rifondare tutto il corpo giurisdizionale,tutto il potere giudiziario anche al centro. Proponendo tale schema ordinamentale il riformatore sannita sviluppava più lucidamente l’idea,già lanciata nella DESCRIZIONE DELLE SICILIE,di rendere indipendenti le province dallo spirito amministrativo della capitale. La prospettiva del decentramento investiva il settore giudiziario e amministrativo,abbinandosi alla divisione del Regno in 5 PARTIZIONI GENERALI. Si trattava di una sorta di distretti regionali,composti da più province,per la cui gestione Galanti suggeriva di attingere personale qualificato dalle società patriottiche,entità radicate nelle realtà locali,che stavano spuntando un po’ ovunque e che già coagulavano tanti ingegni BUONI SOGGETTI. Se depotenziare e sovvertire la gemma più preziosa di Napoli,cioè la gerarchia forense e tutto l’ordine giudiziario,costituiva per Galanti il presupposto indispensabile per fondazione di uno stato nuovo,la sua idea nelle sedi ufficiali incontrò più opposizioni che consensi. Quel progetto rifletteva una linea di pensiero fin troppo avanzata,fortemente destabilizzante e per questo venne insabbiato. Tra le perplessità dei 4 segretari di Stato,l’audace piano colpì molto favorevolmente ACTON,che però distratto da altri pensieri non si terminò alla formale esecuzione;i ministri invece non guardavano di buon occhio la riforma del Galanti;soprattutto SIMONETTI che non tollerava che venisse minacciata la gerarchia del FORO. Con la scusa ufficiale della carenza di fondi,la proposta fu sfrondata delle parti più significative e rielaborata:mentre la riorganizzazione istituzionale rimaneva in sospeso,per poi naufragare,nel 1795 il congresso dei 4 segretari di Stato deliberò gli interventi da approvare,propinandoli come gli unici possibili senza far ricorso a nuove spese;il piano s’incentrò soprattutto sulle misure di polizia,che nell’emergenza controrivoluzionaria,apparvero decisamente più utili. Ma ben altri sarebbero stati secondo Galanti i progetti per scongiurare il pericolo di contagi eversivi. Se il suo interventismo innovatore creava perplessità negli apparati non dissimile fu l’atteggiamento dei regnanti,impegnati in una gestione molto personale;in tali condizioni era quasi naturale che il giurista sannita finisse per mettersi tutti contro e per rimanere isolato. Dopo circa 10 anni,Galanti riguardava con tristezza le idee in cui aveva creduto fermamente;renderle pubbliche nel 1806 fu solo un modo per dare libero sfogo alle sue tante delusioni

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LUIGI DE’ MEDICI LE IDEE DI UN GIURISTA DI CULTURA EUROPEA

DALLA FORMAZIONE ALLA PRASSI

1.Le ragioni di un’analisi retrospettiva Nel consegnare i suoi PRIVATI COMMENTARI alla memoria dei posteri,LUIGI DE’MEDICI, principe di OTTAVIANO,dichiarava che il solo pregio dell’opera risiedeva nel tenero amore per il benessere dei suoi concittadini e per l’umanità,che ha sempre nutrito nel suo cuore a costo di pericoli e pregiudizi comuni,e la malignità altrui,gli hanno fatto correre. Era l’anno 1810;le tante incertezze derivanti da una complessa vicenda esistenziale e ministeriale si erano sommate a quelle originate dal recente assetto politico assunto dal SUD d’Italia.Con la conquista napoleonica del territorio napoletano ed il trasferimento della monarchia borbonica in Sicilia,i destini dei due regni si erano separati ed i nuovi equilibri ordinamentali,specialmente nell’isola,apparivano alquanto instabili. Luigi de’Medici,che aveva seguito i BORBONE in Sicilia alla guida delle reali Finanze,dissentiva da molte scelte prese al vertice,perché come macigni si abbattevano su una situazione socio-istituzionale già dissestate e fragile,tra l’altro in un territorio al centro di una delicata contesa internazionale. La strategia politica e militare intrapresa da Ferdinando IV e Maria Carolina non era formato nell’ottica del riformismo e del progresso;la linea del governo borbonico invece limitava il suo operato nell’isola,traducendosi in interventi del tutto improduttivi. Ben diverse erano le posizioni ideologiche propugnate dal principe-giurista e suggerite ai regnanti: per superare tale difficile ed intricato momento storico,il governo monarchico doveva puntare su altri e più solidi punti di forza;riconquistare l’area continentale era un obiettivo assai ambizioso che pretendeva maggiori impegno ed anche sacrifici economici. Per operare efficacemente in siffatta direzione occorreva far leva su una nuova e sicura energia,quella di matrice spirituale ed umana,che sarebbe emersa sollecitando l’impeto nazionale e la fedeltà delle masse. I disegni di Medici erano animati dalla speranza di una sana politica economica gestita nella rinuncia all’oppressione fiscale e con un utilizzo dei cospicui sussidi inviati dall’Inghilterra;in lui era ancora viva la fiducia nella corona e nelle sue capacità di una retta conduzione della RES PUBBLICA che perseguisse il raggiungimento dell’UTILITAS collettiva. Gli aventi rivoluzionari francesi e napoletani avevano dimostrato che la partecipazione sociale non era più un’idea remota,in grado di produrre grandi novità istituzionali e costituzionali;il principe di Ottaviano era convinto che,migliorando le condizioni di vita del paese,gli isolani non avrebbero esitato,all’occorrenza,ad amarsi contro i nemici,offrendo spontaneamente tutto il loro supporto; tuttavia la gestione di Ferdinando e di Maria Carolina fu determinata da un orientamento completamente diverso,privo di un programma lungimirante e di ogni attenzione per l’interesse comune e per la prosperità sociale. Sebbene Luigi de’Medici continuasse ad immaginare i favorevoli effetti di una virata,non gli sfuggiva la consapevolezza di muoversi in controtendenza e di essere isolato. Per lui,che a Napoli aveva assistito da vicino al crollo della monarchia,era facile stabilire una comparazione tra quella vicenda ed i possibili sviluppi della situazione politica siciliana. La percezione del rischio di una caduta in ulteriori irreparabili errori,pertanto,lo induceva a guardare indietro,riesaminando le cause di una disfatta che era stata inevitabile. 2.Un alibi per Acton Da giurista intelligente,Medici poteva formulare un bilancio degli eventi di fine secolo, che si erano conclusi con la rapida e definitiva dissoluzione,nel continente,di un sistema giuridico e

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costituzionale consolidato nella tradizione. Dal dopo Tanucci la monarchia temperata si era affievolita lasciando spazio ad un governo dispotico e personale;il binomio IMPERIUM-JURISDICTIO aveva subito un forte sbilanciamento quando la VOLUTTAS PRINCIPIS aveva preso il sopravvento in ogni campo,a svantaggio delle magistrature e soprattutto della JURIS PRUDENTIA. LUIGI DE’MEDICI iniziò il racconta di tale epoca presentando il personaggio che,stabilitosi a Napoli per oltre un ventennio dalla fine del 1778,aveva influito in maniera determinante sulle vicende politiche e giuridici-istituzionali del REGNO e,non meno,sul corso della sua vita:JOHN ACTON. Fu un giudizio sintetico ed essenziale formulato in poche battute che,oltre ad indicare i tratti peculiari della figura e dell’attività del comandante inglese ,esprimeva una diagnosi politica molto efficace,non infondata. La fine dell’antico regime non valeva ad assolvere l’operato e la fama di un uomo che era stato tra i principali artefici della disfatta del Regno sebbene tutto fosse poi apparso come una naturale proiezione dei tragici avvenimenti francesi. In verità l’appena cinquantenne ministro avrebbe voluto continuare a descrivere l’attività svolta da quel personaggio;ma,in corso d’opera,compresse quel suo ardente perché scoraggiato dal presagio di una nuova estromissione dai posti di comando. Non è arduo constatare che l’ingresso del giovane Medici sulla scena,avvenuta nel 1783 con l’assunzione della carica di giudice della Vicaria civile,era già stato preceduto da alcuni importanti avvenimenti che avevano finito per sconvolgere i consolidati equilibri giuridici e costituzionali a vantaggio di un NASCENTE FEMMINILE IMPERO. Medici delineando la fisionomia dei regnanti disse che il re si dedicavi a trastulli come la caccia e la pesca,invece la regina partecipava attivamente alla politica e di fatto ne teneva le redini. La svolta decisiva si era verificata nel 1776 con la caduta del vecchio ministro toscano TANUCCI e l’assegnazione della Segreteria di Stato ad un personaggio assai modesto e manovrabile,il marchese della SAMBUCA;infatti venne accresciuto smisuratamente il potere della regina e dei suoi favoriti. Con la fine del vecchio ministero togato e del primato della JURISDICTIO divenne netta la distinzione tra corte e governo;si affermò allora una nuova MENTALITA’ DI GOVERNO ,basata sul potere personale ed assoluto di MARIA CAROLINA,che si congiunse di lì a breve con quello di ACTON;lo stesso MEDICI dichiara che l’anno 1780 aveva segnato per il Regno l’inizio di profonde trasformazioni istituzionali. 3.La carriera di Medici nelle Due Sicilie Del nuovo assetto di governo,reso assai complesso anche dai pressanti interessi economici internazionali,LUIGI DE’MEDICI maturò,attraverso la sua lunga attività ministeriale,una visione lucida e realistica;avendo vissuto per molti anni all’interno della magistratura e nella politica centrale napoletana,gli si erano presentate continue occasioni di conoscerne i meccanismi e di verificare le cause di quei fenomeni che avevano condotto sempre più le SICILIE verso il tracollo finanziario ed istituzionale;d’altro canto la sua carriera e la sua personale esperienza erano state segnate dal favore della regina e dalla presenza dominante di ACTON,che ne aveva condizionato in larga misura le tappe e le fasi del successo. Introdotto nell’ambiente di corte da sua sorella MARIA CATERINA,marchesa di san Marco, Medici fu subito apprezzato per le sue doti intellettuali e per i suoi pregi che erano risaltate dal suo bel aspetto fisico. Oltre che per il prestante aspetto fisico,che certamente soddisfaceva l’interesse di MARIA CAROLINA,si distinse anche come accreditato giurista ed autorevole magistrato. La sua ascesa al governo incontrò l’iniziale e pieno consenso del ministro inglese,cosciente dei limiti delle proprie capacità e della effettiva incompetenza negli affari di Stato;concertando con la regina il rinnovamento della classe politica,Acton infatti suggeriva di utilizzare intellettuali di un certo peso e di nobile rango,tra cui(su sua espressa segnalazione)il principe di Ottaviano e GAETANO FILANGIERI.

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Da giudice della VICARIA civile a consigliere del SACRO REGIO CONSIGLIO e della REALE UDIENZA di GUERRA e CASA REALE,nel giro di pochissimi anni Medici compì una rapida scalata ai vertici dell’apparato giurisdizionale centrale;apertasi la strada verso il successo,per ordine di MARIA CAROLINA,nei primi mesi del 1787 ottenne interessanti benefici economici;che poi furono allargati anche alla sorella. Appariva chiaro che la protezione della marchesa di San Marco costituì per il fratello un grande ausilio ed un valido sostegno,rilevatosi efficace non solo nelle relazioni mondane;il giovane Medici si servì delle assidue ed intime frequentazioni della sorella con la regina per arrivare alle più alte vette del potere. In realtà non soltanto la scelta e la cooptazione iniziale,ma anche i successivi avanzamenti di carriera e le sorti degli uomini di governo furono assai spesso determinanti con criteri del tutto singolari e macchinosi,da cui anche Medici non rimase indenne. Laddove re Ferdinando ed Acton individuavano dei possibili e pericolosi rivali nei ‘favoriti’ della regina,subito si mostravano concordi nelle manovre da attuare:concedevano promozioni che tuttavia necessitavano l’allontanamento dalla corte e dalla capitale. Medici non fu risparmiato da tale sistema;poco più che trentenne,nel 1791,con il favore dei sovrani, fu investito dell’influente carica di reggente della Vicaria,assumendo la guida della corte criminale più prestigiosa della capitale e insieme il comando della polizia urbana;onorando l’ufficio conferitogli,appena dopo la nomina,con polso fermo provvide a ripristinare in Città la sicurezza ed il compromesso ordine pubblico;si prodigò anche per l’attuazione di un progetto di riforma che, senza liquidare il vecchio sistema di polizia giurisdizionale,mirava tuttavia ad attribuire una maggiore autonomia finanziaria ed istituzionale al corpo armato da lui diretto. Le sue coraggiose sollecitazioni ideologiche e le tante iniziative di riforma avviate collocarono il principe di Ottaviano al centro di conflitti di potere;intervennero contro di lui esplicite denunce per le invadenti e continue interferenze delle Segreterie di Stato da una parte,per gli arbitrii reiterati e per la palese concorrenza esercitata dall’Udienza generale di Guerra e Casa Reale dall’altra. L’intraprendenza manifestata e la sua tenacia diedero così inizio alle prime ostilità personali e ad una serie di disavventure politiche. 4.Il contrasto con Acton Il potente primo ministro era animato dalla reale preoccupazione di essere oscurato e soprafatto da un uomo capace e troppo vicino alla corte,così alla fine del 1793 l’inglese pensò d’inviare Medici,per alcuni mesi,in missione segreta a GENOVA,al fine di ottenere un ingente prestito;ma durante quella permanenza all’estero,l’agente STEFANO RATI avrebbe dovuto mettersi a disposizione del reggente e,anche,indagare sulla sua attività e sui suoi eventuali contatti con i rivoluzionari francesi. I primi sospetti e le accuse di giacobinismo rivolte al principe di Ottaviano devono leggersi anche alla luce della mutata situazione internazionale Infatti,a seguito degli accordi conclusi con l’Inghilterra alcuni mesi dopo l’esecuzione di Luigi XVI,i rapporti tra le Sicilie e la Francia furono messi in crisi,dando l’avvio a Napoli a numerose inchieste politiche. Fu così che il reggente Medici divenne inquisito come coautore di una congiura,che vedeva coinvolto anche il defunto e temuto principe di CARAMANICO;in conseguenza con l’arresto avvenuto nella notte del 27/02/1795 ed il trasferimento a GAETA uscì di scena per diversi anni. Il contrasto con Acton era in realtà molto più complesso:il principe di Ottaviano apparteneva alla scuola del CARACCIOLO e del CARAMANICO. Questi autorevoli ministri,inviati per motivi analoghi come viceré in Sicilia,furono decisi sostenitori del pensiero progressista e riformatore maturato nel Regno grazie a CELESTINO GALIANI;erano legati all’ambiente che abbracciava l’insegnamento genovesi ano,mostrando notevoli aperture verso il pensiero e le tante sollecitazioni culturali che provenivano d’Oltralpe.

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Quelle idee si riflettevano sulla visione politica sostenuta dal marchese CARACCIOLO, ambasciatore a Parigi per un decennio,con cui il giovane Medici aveva familiarizzato;dalle posizioni del Caracciolo usciva riconfermata,nei tratti generali,la validità del modello che poggiava su un assolutismo temperato,in linea con lo STATO GIURISDIZIONALE,in cui la pluralità dei centri di potere e di diritti era ricomposta ed equilibrata attraverso gli strumenti tecnici e la CIVIL PRUDENZA dei LEGUM DOCTORES. Appariva chiara la disparità di vedute tra i PHILOSOPHES meridionali e i regnanti,infatti si limitarono la forza e l’autorità delle strutture giudiziarie a favore dell’esercito,di cui nello stesso tempo si potenziò l’organizzazione,creando i presupposti per la nascita dello Stato di polizia. Riguardo alle compromissioni con i GIACOMINI di cui Medici fu accusato rimane ancora poco agevole stabilire l’ampiezza del suo coinvolgimento e definirne la reale valenza politica;come giurista d’impronta genovesiana egli non perse mai di vista le finalità generali,ebbe di mira la sintesi sociale e non gli interessi di parte. Secondo la moda parigina Aprì la sua casa a tutti gli “spiriti illuminati”e mentre era reggente della Vicaria,tra la fine del 1792 ed i primi del 1793,acconsentì all’apertura di un’accademia di chimica su richiesta del matematico ANNIBALE GIORDANO senza l’espressa licenza del re. Tuttavia,dopo 3 lustri,Medici curava di prendere le distanze da quel singolare consesso, trattandosi di un CLUB dove si leggevano le gazzette francesi e si propagandavano idee di libertà e uguaglianza abbinate a progetti antimonarchici. 5. L’apprendistato a Torino Gli interessi di Medici si erano già rilevati in età giovanile,quando non ancora diciottenne si era recato a Torino,presso l’Accademia Reale:egli manifestò un deciso rifiuto per la carriera militare e gli esercizi marziali. La sua famiglia versava in ristrettezze economiche,quindi egli era consapevole che per vivere in maniera agiata doveva assicurarsi una professione dignitosa;presto il giovane Medici giunse alla conclusione che gli sarebbe risultato utile ampliare quelle limitate e sommarie conoscenze che aveva acquisito frequentando il collegio gesuitico di NOLA. Valutò anche la necessità di applicarsi nello studio della storia e della geografia,dell’idioma francese e delle opere classiche,greche e latine;ma non tralasciò di dedicarsi alla lettura degli scritti più moderni e in voga,ed in particolare di ROUSSEAU. Inoltre,dopo aver terminato il corso di diritto,frequentò per diversi mesi anche le lezioni di fisica e di matematica tenute presso l’Università della capitale piemontese dal padre GIOVAMBATTISTA BECCARIA,noto sostenitore del moderno indirizzo newtoniano. Oltre al tempo trascorso a Torino,furono proficue per la sua formazione intellettuale ed ideologica la permanenza a Parigi e in altre capitali europee. I diversi sistemi di governo,in cui il principe di Ottaviano si era imbattuto durante l’assenza da Napoli,costituirono un supporto molto valido anche per una conoscenza più profonda dei meccanismi praticati nella gestione del potere. Si realizzava così,secondo l’ideale formativo di PAOLO MATTIA DORIA e poi da GENOVESI,l’ampliarsi della cultura giuridica oltre la mera tecnica professionale ed oltre gli interessi cetuali. Aveva potuto sperimentare,sulla scia di MONTESQUIEU,che le formule del vivere civile non erano affatto omogenee,anzi molto variegate e con un’identità ordinamentale specifica,forgiata sulla base dei caratteri propri dell’organizzazione socio-politica e dell’ambiente,della religione e delle abitudini feudali. Nelle MEMORIE,Medici,dedicava una particolare attenzione a Torino dove si era trattenuto per circa due anni;sebbene fisicamente lo Stato sabaudo risultasse assai vicino alla Francia,agli occhi di Medici appariva molto distante da quel modello,sia per organizzazione politica che per complessità istituzionale. All’esercito era attribuita la peculiare funzione di difendere costantemente i confini,mantenendo stabile l’equilibrio interno e anche il ruolo europeo;in questo sistema Medici aveva appurato l’esistenza di almeno due vizi gravissimi tra loro strettamente collegati:la

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diplomazia e la pace avrebbero posto un ostacolo più saldo delle arti della guerra all’avanzata francese. Invece il rigore del modello sabaudo e il rilevante peso costituzionale della forza militare producevano conseguenze assai varie;se per un verso l’ordine pubblico e la tranquillità sociale,dall’altro l’economia veniva penalizzata. I monarchi puntavano all’efficienza militare trascurando completamente il popolo e di operare sulle loro condizioni di vita;qui è presente l’influsso del pacifismo di ROUSSEAU,che tuttavia riportava Medici su posizioni moralistiche che;dopo FERNDINANDO GALIANI ed ai tempi di FILANGIERI,possono apparire alquanto ritardatarie;ma bisogna tener conto sia dell’influenza esercitata in lui dalla prevalente cultura giuridica,sia dalla umorale opposizioni agli eccessi del militarismo di Acton. Il generale malcontento e la pericolosa inquietudine che si erano creati nella società piemontese,tanto da agevolare la conquista napoleonica,rappresentavano un prezioso monito ed un invito,rivolto ai re in Sicilia,a rivedere il loro attuale indirizzo di governo. Vi era un altro elemento che aveva reso quel sistema soffocante:l’azione e la libertà individuale risultato assolutamente compromesse oltre che prive di espressione;non esisteva alcuna forma di rappresentanza né nazionale,né provinciale. Insomma,i principati italiani non si erano evoluti mediante un’osmosi tra la base ed il vertice del potere,non erano il frutto di un movimento per cui il potere centrale si sentisse al servizio della comunità. Anche in questo caso Medici mostra di aver appreso molto dalla struttura della società francese;l’insofferenza alle divise ed alle pratiche cavalleresche si collegava nello statista napoletano alle istanze ed agli umori sociali;a Torino era tutto in mano al re. Per soppesare gli arbitrii e l’estensione politica dell’assolutismo piemontese tuttavia non si poteva prescindere da un parametro fondamentale e tra i più efficaci:il potere delle magistrature. D’altro canto era proprio sotto il profilo giuspubblicistico,che Torino e Parigi diventavano due realtà incomparabili. Le funzioni di supplenza esercitate dalle grandi corti di giustizia producevano un duplice risultato:riuscivano ad impedire gli abusi e gli eccessi in cui potevano scivolare il potere del monarca tutelando gli interessi generali del paese. Diversamente nel regno sabaudo,secondo quanto Medici aveva potuto rilevare,la mancanza di organi rappresentativi non era compensata dall’autorità dei giudici che godevano di scarsissima autonomia e non riuscivano affatto a contemperare l’autorità regia. Trapelava la chiara convinzione che solo in presenza di una casta forte di giuristi il correttivo della BALANCE dei poteri riuscisse a diventare pienamente operativo. 6. L’esperienza parigina In Francia,benché fosse venuta meno la convocazione degli Stati generali fin dal 1614,i parlamenti avevano sopperito a quell’assenza,ricoprendo a lungo un ruolo di primo piano. Contro una gestione dissennata degli affari di governo ,la mediazione giuridica risultava ancora valida ed in grado di offrire delle garanzie ai fini della tutela del VIVER CIVILE. L’ordinamento francese d’antico regime,per quanto il giovane Medici lo giudicasse già in dissoluzione,aveva comunque destato la sua ammirazione,innanzitutto per l’accertata valenza politico-costituzionale della BILANCIA DEI POTERI ma anche l’emergente efficientismo nel settore econ0omico e commerciale l’aveva colpito molto favorevolmente. Pur accomunata da un’analoga crisi morale ed istituzionale,la situazione delle Sicilie negli anni 90 risultava ancora molto arretrata e non riusciva proprio a reggere il confronto;l’organizzazione dei trasporti anziché fare del regno una “città” ben collegata,aveva penalizzato le zone periferiche ed escluso la possibilità di avviare uno sviluppo economico oltre i confini. Le “arti della pace”,che nella vita privata Medici aveva dimostrato di preferire alle “arti della guerra”,si erano rilevate gli strumenti più idonei a far acquisire alla Francia un alto livello di

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omogeneità e di compattezza interna. In virtù di tali caratteri era diventata una potenza trainante ergendosi con evidenti superiorità sugli stati confinanti che pure si proiettavano sul Mediterraneo. La monarchia francese aveva esteso la lingua,le sue leggi e i suoi usi ad ogni territorio annesso,creando subito un’omogeneità giuridica ed istituzionale e spegnendo ogni rivendicazione autonomistica. L’accorpamento diventava così una perfetta fusione,in cui le strutture giuridiche si legavano all’impianto della nazione. Qui Medici coglie il fattore centrale che distingueva la monarchia,che era apparsa già a MACHIAVELLI ben organizzata,e quindi efficiente ed espansiva,e la modestia dei principati italiani che costituivano versioni rivedute e ben poco corrette delle signorie medievali. 7. Uno sguardo alla Spagna ed all’Italia Già dal XV secolo i re “cattolici” non avevano seguito piani di governo simili a quelli francesi. La mancata imposizione di un sistema amministrativo,istituzionale e giuridico uniforme,aveva ritardato il raggiungimento di una forte coesione centrale varie province iberiche. Per quello che riguarda gli altri domini in Europa,essi lasciarono sussistere nelle varie province assoggettate le antichi leggi,usi e costumi. Il rispetto degli ordinamenti vigenti lasciava sopravvivere le identità nazionali ed istituzionali più diversificate,tanto da alimentare l’odio verso quei stranieri;intanto specialmente nel SUD,si erano radicate forme di gestione del territorio arretrate che,insieme all’ignoranza ed ai pregiudizi,rappresentavano degli enormi ostacoli alla felicità pubblica;quello stato di deperimento generale,per Medici,aveva impedito che la società facesse qualche progresso. La pesante incidenza del sistema feudale e delle immunità ecclesiastiche aveva ridotto i sudditi delle Sicilie in una condizione di SERVITU’,che rimaneva molto gravoso. Medici aveva potuto constatare che il popolo di Venezia non era mai stato né schiavo né libero ma aveva partecipato all’una o all’altra condizione;il sistema oligarchico vigente in quella REPUBBLICA,benché non avesse mai favorito alcuna forma di partecipazione sociale,né garantito un’amministrazione imparziale della giustizia,tuttavia perseguiva una saggia politica istituzionale,volta a procurare la fiducia oltre che l’obbedienza. Il ministro napoletano si soffermava a descrivere altri modelli ordinamentali presenti nel panorama italiano che monarchi memorabili,da PIETRO LEOPOLDO a PIO VI,avevano abilmente risollevato imboccando la strada delle riforme e delle libertà. Il significato di quei riferimenti non può leggersi che come un sincero auspicio indirizzato ai sovrani di Sicilia affinché,tra le mire espansionistiche inglesi e napoleoniche,riuscissero a resistere mantenendo il controllo dell’isola ed una propria stabilità politica. Si doveva mettere mano alle virtù politiche ed optare necessariamente per soluzioni che attivassero forme di crescita economica concrete e prossime al rinnovamento civile;com’è evidente,in Medici l’interesse3 si era spostato dall’analisi delle vecchie strutture normative agli aspetti di partecipazione della comunità alla diretta conduzione della RESPUBLICA. Erano anni difficili e Medici,da giurista e pubblico amministratore,guardava alla storia europea più recente traendone insegnamenti per il futuro. Di quegli stati che aveva fatto sfilare nella sua narrazione,nel nuovo secolo,in realtà rimaneva ben poco,tuttavia l’organizzazione costituzionale di qualcuno poteva rappresentare ancora un esempio valido. Le sue convinzioni personali erano nette ed orientate in una direzione decisamente FRANCOFILA,ma moderata. L’equilibrio tra regime,istituzioni e società,che all’interno di quella grande potenza l’assolutismo temperato dal potere dei parlamenti era riuscito a realizzare,aveva spianato la strada allo sviluppo culturale e produttivo del paese. Una determinata era stata data da TURGOT che,posto alla guida delle finanze francesi dall’estate del 1774,aveva tentato di salvare la monarchia promuovendo le riforme e razionalizzando il prelievi fiscale. Accomunati da una stessa ratio i rimedi proposti da Medici ricalcavano l’impostazione che

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l’alto ministro aveva seguito durante il suo incarico. Vicino alle posizioni dei PHILOSOPHES ed alla idee propugnate dai fisiocratici,lo statista francese aveva cercato di ridurre la spesa pubblica e nello stesso tempo di accrescere le entrate dello Stato sostenendo la libertà del commercio e lo sviluppo dell’industria. 8. Riforme contro rivoluzioni Tra le opere moderne che nella seconda metà del ‘700 avevano trovato maggiore diffusione,il CONTRAT SOCIAL si collocava tra i primi posti;Medici l’aveva letto più volte,affascinato da tante idee innovative,ma presto si era ravveduto valutandone la scarsa e difficile attuabilità. Il progetto politico di ROUSSEAU in Francia aveva avuto più oppositori che seguaci,e a lui,sin dall’età giovanile,era apparso una mera utopia. L’unica parte,concretamente applicabile secondo Medici,era quella della separazione dei poteri. Egli non poteva sottacere il grandissimo merito degli autori dell’ENCYCLOPEDIE:quelle idee erano apprezzate dal principe di Ottaviano nei limiti in cui non oltrepassavano il recinto della moderazione e non rinnegavano il fondamento costituzionale della formula monarchica. Il benessere sociale,l’utilità pubblica,il vivere civile erano gli obiettivi prioritari che lo Stato doveva porsi ed il principe-magistrato l’aveva esternato in varie occasioni,anche direttamente all’onnipotente Acton. Appena dopo lo scoppio della rivoluzione francese Medici era stato inviato in giro per la Calabria al fine verificare il peso politico assunto dalle logge massoniche,la loro popolarità e pericolosità;dalla sua inchiesta risultava che una regione così infelici e depressa,specie dopo il devastante terremoto del 1784,costituiva un terreno fertile per l’espansione delle società dei LIBERI MURATORI. Se ne contavano almeno tre importanti in contatto diretto con la loggia madre di MARSIGLIA;certo non costituivano ancora un’emergenza ma una nuova pratica di governo più attenta alle esigenze della collettività,avrebbe potuto essere un adeguato ed utile rimedio preventivo. Sulle cause e gli esiti della rivoluzione francese,il principe di Ottaviano invece preferiva non sbilanciarsi,omettendo ogni sorta di giudizio personale e diretto;l’unica constatazione che esternava era rivolta ad escludere qualunque forma di dipendenza,se non come pretesto,di tale evento dalla rivoluzione Americana a danno dell’Inghilterra. Anche con riferimento con quanto era accaduto a Napoli L’atteggiamento prudente di Medici scaturiva anche da chiare ragioni di opportunità,se si considera che per motivi politici subì 3 arresti:nel 1795 come repubblicano,poi sotto la Repubblica partenopea e dopo il rotino al potere del re fu arrestato a casa di ZURLO. Tuttavia riguardo al primo di questi episodi una memoria del 1797 dei “patrioti di Napoli” affermava che il ministro in realtà non poteva definirsi né repubblicano né rivoluzionario,ma soltanto dominato da un’insaziabile ambizione,e che egli non aveva cospirato contro la monarchia,ma contro Acton,assecondato in Sicilia dal principe di CARAMANICO. 9. Per una nuova costituzione:da sudditi a cittadini Negli anni della maturità Medici tendeva a bandire le soluzioni eccessive e radicali:la conclusione troppo spinta cui portava il pensiero di MONTESQUIEU di abbattere completamente il sistema feudale gli appariva improponibile,egli pensava,invece,ad una riforma di tale sistema. D’altronde tale soluzione,dettata anche da ragioni di politica contingente,era perfettamente coerente ed allineata alla situazione siciliana,in cui il baronaggio si proponeva sulla scena politica come uno stabile interlocutore della monarchia ed un imbattibile centro di potere. Proseguendo sul tema,valeva anche la pena rievocare gli interventi disposti a Napoli con saggia e ragionevole prudenza da BERNARDO TANUCCI. Godendo della massima fiducia di CARLO di BORBONE,dopo il 1759,con l’assunzione del sovrano al trono di Spagna,egli aveva governato per

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diversi decenni;il maggior vanto di quel ministero erano stati gli interventi effettuati per determinare l’abbassamento,e non la soppressione,del numero di preti e baroni,specialmente se si considerava le modalità di attuazione:il muro dell’IMPASSE era stato varcato senza scontri diretti,puntando su un ménage a quattro in cui la magistratura assumeva il delicato compito di ago della bilancia. Tuttavia entrava in gioco anche una componente nuova,la volontà generale,che assolutamente non poteva essere trascurata. Per sopravvivere la vecchia monarchie borbonica doveva iniziare a misurarsi con un altro interlocutore primario,il popolo,il cui sostegno a Medici appariva imprescindibile. Infatti era ingenuo sperare di rinvenire la soluzione alle tante emergenze,fidando solo sulla solidarietà degli agenti esterni all’ordinamento giuridico-istituzionale. Inoltre gli atteggiamenti di MARIA CAROLINA accrescevano il livello di tensione,mostrandosi del tutto insofferenti all’idea che gli alleati inglesi mirassero ad interferire nella definizione della forma di governo e degli affari di Stato. Che la monarchia stesse vivendo una fase cruciale Medici mostrava di averne la netta percezione;da lì scaturiva anche la convinzione che le attività di resistenza ostinata e passive non fossero più sufficienti allo scopo di conservare la sovranità. Sostanzialmente suggeriva il ministro bisognava ripensare il rapporto STATO-SOCIETA’ ,operando nell’ottica di un rinnovamento costituzionale,perché il legame tra sudditi e sovrano non poteva più fondarsi sul mero principio dinastico. I consigli elargiti dal ministro Medici erano volti a dimostrare la necessità d’intervenire e di procedere alla riforma dell’ordine politico-giuridico concedendo alla Sicilia una nuova costituzione,equilibrata e non lesiva degli interessi della monarchia;una svolta che avrebbe soddisfatto le aspettative dei vari interlocutori(inglesi,baronaggio e popolo) e contribuito a ristabilire un clima di generale e reciproca fiducia perpetuando il dominio borbonico. Il principe di Ottaviano si era espresso più volte sulla convenienza di ispirarsi al modello britannico;l’ammirazione per quel singolare ordinamento giuridici-istituzionale l’aveva colpito già in giovane età,infondendogli il desiderio di visitare l’Inghilterra dopo Parigi. D’altro canto,mentre il sistema assolutistico francese,per quanto bilanciato dalla mediazione dei supremi tribunali,era finito insieme all’ANCIEN REGIME,il modello parlamentare inglese aveva resistito agli scossoni di fine secolo mostrando tutta la sua bontà;e,quando le sollecitazioni di lord BENTICK si fecero pressanti in tale direzione,il giurista napoletano manifestò esplicitamente e liberamente,il suo generale favore per il modello inglese. Le riflessioni di Medici si polarizzavano sull’opportunità di predisporre e promulgare un nuovo diritto pubblico,che tendesse ad adottare la base sociale ed a comprimere molti privilegi baronali. Ridefinendo le funzioni primarie dello Stato e la relativa organizzazione istituzionale le aree di competenza e i limiti di ciascun organismo di potere andavano rivisti e fissati secondo i nuovi principi stabiliti;su questi presupposti i sudditi si sarebbero sentiti protetti,liberi da quello stato di soggiogazione e semischiavitù in cui versavano da diversi secoli,e finalmente con dei diritti civili e garantiti dall’ordinamento. Quindi il concetto di cittadinanza utilizzato dal principe di Ottaviano si riferiva ad uomini non schiavi ma neanche liberi: la condizione di cittadino era considerata in un’eccezione intermedia e moderata,ben più estesa e vantaggiosa rispetto a quella mortificante di sudditi-schiavi,ma più ristretta al confronto di quella troppo democratica,che i principi costituzionali del sistema anglosassone potevano implicare. Pur abbracciando l’idea di revisionare la condizione giuridico-economica dei sudditi,a Medici appariva prematuro disporre una riforma costituzionale che avesse la libertà politica per oggetto. 10. Medici e la vicenda siciliana

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Negli anni compresi tra il 1806 e il 1812 le linee di governo adottate dalla monarchia borbonica,confinata in SICILIA,apparivano sensibilmente modificate:avvertendo la precarietà del suo regime politico,la corona aveva assunto un atteggiamento più accomodante e di maggiore disponibilità verso il baronaggio locale,attestandosi comunque su posizioni molto variabili. Mentre si creavano i presupposti per stabilire nuovi compromessi socio-istituzionali,rimaneva napoletani. Accanto alla particolare congiuntura bellica aleggiava anche il timore di una rivolta giacobina,per cui i sovrani, tentarono di assicurarsi la sopravvivenza politica ripristinando vecchie alleanze con il potere feudale e con gli ecclesiastici,partners di governo che invece i riformisti avevano osteggiato. Tale debolezza della monarchia,manifestata da MARIA CAROLINA già sul finire del secolo XVIII,privava d’efficacia le posizioni di DONATO TOMMASI e MEDICI;intanto la nobiltà siciliana trovava nella crisi politica riformista le basi per realizzare un progetto costituzionale oligarchico,vantaggioso per sé e debilitante per la corona. La presenza dominante della potenza baronale aveva distorto il senso di molti concetti,comportando che per libertà e costituzione s’intendesse il governo feudale e,per pubblica rappresentanza,la rappresentanza dei baroni;contro un sistema di potere,che si dispiegava attraverso abusi e diritti illiberali,il vicerè CARACCIOLO aveva combattuto con incisiva tenacia:tra le tante imprese rimaneva memorabile il tentativo di colpire il diritto d’imprigionamento arbitrario. Intanto le iniziative del baronaggio furono indirettamente favorite anche dall’incrinarsi dei rapporti interni alla coalizione,tra gli inglesi e la regina,su cui gravavano fondati sospetti di un avvicinamento a NAPOLEONE per riottenere il regno di Napoli;con l’avvento di BENTINCK nel 1811,infatti,si delineò chiaramente l’interesse britannico a fidare sull’aristocrazia per assicurare una loro stabile presenza navale nel MEDITERRANEO. Fu nei primi mesi del 1810 che Medici,contrastando l’approvazione del progetto di globale riforma dell’ordinamento tributario,dell’abate PAOLO BALSAMO e sostenuto dal braccio feudale del Parlamento siciliano,rese troppo esplicito il suo orientamento antibaronale;oltre a porre in evidenza le violazioni costituzionali che quel piano comportava,egli indicò le profonde ingiustizie sociali che sarebbero scaturite dall’abolizione degli usi civici e dall’unificazione del regime giuridico dei beni feudali e di quelli allodiali. Senza perdere tempo avanzò una contro proposta nella speranza di ridurre i privilegi dell’aristocrazia e di rompere la compattezza cetuale:ma il suo piano fu bocciato e si tramutò in un boomerang contro le prerogative dello Stato assolutistico e della monarchia,e in primis contro se stesso. Pertanto,mentre per non rompere le trattative in corso con la feudalità la corte manifestava un’interna difformità di vedute,Medici finì per esporsi in prima persona subendo una serie di critiche e di attacchi diretti. Anche se cercava di difendersi e quindi di negarlo,anche con vittimismo,il suo atteggiamento di ostilità nei confronti della feudalità isolana traspariva comunque e finì con metterlo in cattiva luce presso gli inglesi;anche re FERDINANDO lo considerava un oppositore cavilloso e legalista,poco disponibile ad effettuare gli accomodamenti che le situazioni richiedevano. E così si era innescata una spirale perversa,che aveva finito per denigrare la figura di Medici su tutti i fronti e per indurlo a pensare seriamente alle dimissioni. Questi ragionamenti incisero profondamente sui programmi di lord Beintick che,nel dicembre del 1811,sollecitò un tempestivo ricambio dei vertici dell’amministrazione statale;ma già nel 1810,non essendosi sopite le tensioni politiche,il re Ferdinando aveva rimaneggiato il “Consiglio privato” allargandolo con presenze locali;l’apertura di quel distretto consesso ai potenti principi di BUTERA e di CASSERO apportava rilevanti cambiamenti nei posti di comando e negli equilibri interni. Fu il primo segnale che Medici stesse per cadere di nuovo in disgrazia. Sul finire del 1811 Medici dichiarò che avrebbe giovato un suo allontanamento da Palermo; l’assenso del re non tardò ad arrivare e così agli inizi del 1812,il principe di Ottaviano,incaricato di una missione diplomatica,fu tra i primi ministri borbonici ad essere imbarcato con destinazione Londra.

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11. Una convinta “anglomania” Mentre la sovranità monarchica sembrava vacillare sotto i colpi e gli attacchi che riceveva da più parti,la regina individuava gli Inglesi come coloro che volevano la corona del Re. In realtà MARIA CAROLINA viveva uno stato di profonda agitazione e cominciava seriamente a preoccuparsi per la sua incolumità fisica. Approfittando di quel clima di tensione,il principe PARTANNA intanto aveva perfezionato un preciso programma costituzionale che rispecchiava,in larga misura,le posizioni di tutta la nobiltà siciliana. Nel nuovo equilibrio prospettati dalla feudalità isolana il Parlamento veniva ad assumere una posizione di primato,in quanto,oltre a porsi come titolare esclusivo delle competenze in maniera fiscale in virtù dell’antico sistema pattizio,acquisiva il potere legislativo sottraendolo al sovrano. Quella similitudine con il sistema inglese basata sulla separazione dei poteri,se catturava il sicuro potere degli alleati,suscitava perplessità nel giurista napoletano. Dietro l’esaltazione del Parlamento e delle sue funzioni di rappresentanza nazionale no era difficile scorgere il fine più concreto di perpetuare la potenza del baronaggio. Per approdare a quel vantaggioso traguardo,il piano aveva ridotto al minimo le prerogative regie e la partecipazione sociale. Riguardo al riconoscimento poi delle libertà civili e dei diritti attivi e passivi dei cittadini nel piano non vi erano tracce significative. Una pericolosa interazione di interessi diversificati,interni ed esterni al sistema,incombeva sulle sorti della monarchia e del regno,sotto le mentite spoglie di una riforma ispirata al modello britannico. Contro la minaccia di un imminente cambiamento la dichiarata “anglomania” di MEDICI l’aveva indotto a non lasciare niente d’intentato. Prima di abbandonare la Sicilia,sostenuto dall’ammirazione per una civiltà che reputava culturalmente molto avanzata rispetto a quella meridionale,si era annunciato a lord BENTINCK per un confronto finale. Tale colloquio non fu turbato e nel complesso risultò sereno e in molti punti unanime. L’occasione,tuttavia,consentì di mettere in luce le ragioni dell’allontanamento del giurista napoletano che,per quanto consone alle mire della feudalità siciliana,collimava perfettamente con una logica operativa tutta britannica. 12. Un progetto costituzionale per il principe FRANCESCO Anche quando le sue sorti apparivano senza speranza,il principe-giurista non perse occasione di mettere le proprie idee al servizio della corona. Con l’abdicazione di FERDINANDO e l’insediamento del figlio FRANCESCO di BORBONE,in veste di vicario generale del re dal 1812,le pressioni inglesi e baronali s’intensificarono. In un contesto che diventava ogni giorno più stringente occorreva far ricorso alle armi del diritto ed utilizzarle in maniera adeguata,al fine di sconfiggere in un colpo solo tutti gli antagonisti e ripristinare il dominio borbonico sull’intera Italia Meridionale. Fu appena dopo la partenza dalla capitale siciliana,nel febbraio del 1812,che Medici formulò la sua soluzione costituzionale;che il principe ereditario,diversamente dai genitori,non dissentisse dall’idea di percorrere la via del rinnovamento allo statista napoletano era chiaro:approfittando della titubanza in cui vagava il vicario generale e del fatto di non essere già sul continente,Medici puntò su un’altra strategia da avviare prima che la sua missione sull’isola si concludesse del tutto. Perciò si apprestò a redigere,in forma non ufficiale,le linee di massima di un progetto di riforma costituzionale;con un breve scritto da recapitare al principe Francesco,il giurista napoletano cercò di spiegarli l’urgenza si uscire dalle stasi con un suo intervento. I tempi erano maturi per un rinnovamento che agisse in profondità e,su questo punto,il giovane Borbone doveva concentrare tutta la sua attenzione,affinché il sistema di governo non ne fosse investito sfavorevolmente sotto il profilo del regime,ma soltanto per quello che riguardava l’amministrazione.

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Insomma la corona doveva battere sul tempo le spinte eversive e conquistare il consenso degli alleati,uniformandosi alla loro forma di governo;tuttavia il principe ereditario,guardando al modello inglese,doveva realizzarne gli opportuni adattamenti. Se la costituzione inglese rappresentava un valido punto di riferimento per l’evoluzione pubblicista dell’ordinamento siciliano,tuttavia non poteva ipotizzarsi un’estensione tout court di quello schema ad una realtà così arretrata. C’era un punto fondamentale da cui bisognava prendere assolutamente le distanze:quello della distribuzione dei poteri tra sovrano e parlamento. Era noto che in Inghilterra,per mantenere la bilancia della Costituzione,il Re non aveva il totale potere legislativo,ma poteva solo rigettare e non determinare le leggi;in realtà,in siffatto ordinamento si registrava un’armonica sinergia tra le parti,perché poggiava su una base rappresentativa molto larga e ben proporzionata che in Sicilia non esisteva. Il sistema dei contrappesi nel parlamento isolano non funzionava affatto,benché le sezioni fossero tre:le camere del CLERO,del DEMANIO e dei BARONI. Questa ricorrente situazione implicava che si dovesse intervenire più che sulla struttura in sé,proprio contro la consolidata supremazia nobiliare. Il progetto di Medici prevedeva,infatti,di ridimensionare il calibro di tali BRACCI e se necessario,di ridurli a non meno di due,quello del Demanio e l’altro dei Baroni,incorporando in quest’ultimo la componente ecclesiastica legittimata al voto. Realizzata la bipartizione sullo schema inglese delle camere dei LORDS e dei COMUNI,occorreva procedere ancora in una duplice direzione aumentando il numero dei votanti della camera Demaniale e accrescendo il numero dei rappresentanti della città. A Medici appariva primario il risultato di comprimere il potere baronale e d’altra parte era per lui inconcepibile una libera e paritaria partecipazione di tutti i cittadini alla vita pubblica;anche il modello monocamerale elaborato per la Spagna antinapoleonica e formalizzato nella costituzione di CADICE era da respingere. Tuttavia,se nella nuova impalcatura costituzionale bisognava comunque accogliere il principio della separazione dei poteri,rispetto al modello britannico c’era qualche correttivo da apportare. Oltremanica il monarca,in quanto titolare del potere esecutivo,interveniva in parlamento per realizzare un perfetto bilanciamento delle forze. Nel piano prospettato da Medici,al contrario,il governo monarchico sembrava mantenere intatti i suoi poteri,sebbene temperati direttamente dalla partecipazione nazionale;al sovrano era affidata la direzione dell’esecutivo ed un ruolo preminente nel parlamento. In linea con un rigenerato assetto verticistico,al re era riservato anche il pieno diritto di convocare e sciogliere il parlamento;la disparità tra sovrano e parlamento,che si desiderava mantenere nell’esclusivo interesse dinastico,con queste affermazioni si poneva in grande risalto. D’altronde anche il sistema tradizionale di limitazione del potere regio offerto dai CORPI INTERMEDI sembrava tutt’altro che superato. La differenza più rilevante rispetto al passato era la confluenza della pluralità dei contrappesi in un unico CORPO RAPPRESENTANTE,formalmente investito della funzione legislativa,ma di fatto subordinato al potere regio. Vi erano delle ragioni ben precise che consigliavano di adottare una linea ancora moderata e di non acconsentire a più radicali cambiamenti politici:era viva la speranza di recuperare il Regno di Napoli. Riguardo al potere giudiziario,la revisione ordinamentale disegnata da Medici invece si uniformava largamente al sistema britannico,mirando a garantire la piena indipendenza dei giudici dalle altre autorità istituzionali e da eventuali pressioni esterne;lì il sovrano era il solo distributore della Giustizia in tutto il regno,ma non aveva potere di revocare la nomina di un magistrato. Analogamente in Sicilia i membri degli organi giudicanti dovevano essere eletti dal re ma non amovibili:in tal modo le corti di giustizia una volta insediatesi,avrebbero gestito direttamente anche le operazioni di controllo sui propri componenti;fissato questo principio fondamentale,il giurista napoletano auspicava che si procedesse ad uno svecchiamento generale delle leggi civili e criminali. Anche nel congedarsi definitivamente,con toni appassionati Medici esortava Francesco a scegliere l’unica via che gli avrebbe consentito un futuro:quella dell’azione. 13. Memorie ufficiali e memorie riservate

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Che i primi due lustri del secolo XIX per Luigi de’Medici non fossero stati facili emerge anche dalle prime pagine delle MEMORIE redatte nel 1810;se il dualismo con ACTON era ormai superato dall’uscita di scena dell’ex ufficiale di marina,per il principe di Ottaviano,nella nuova realtà politica permanevano. La sua diretta partecipazione all’evolversi di un’epoca densa di avvenimenti destabilizzanti,vissuta all’interno del sistema di governo,l’aveva indotto a redigere una propria versione della recente storia europea,con una trattazione diffusa sullo stato politico della monarchia delle due Sicilie;con quello scritto Medici intendeva rivolgersi ad un pubblico vasto,per far comprendere come l’equilibrio tra monarchia istituzioni e società,fondatosi per secoli e non senza inconvenienti sulla meditazione giuridica delle magistrature,a Napoli fosse stato del tutto scompigliato con l’avvento di ACTON. Che il giurista napoletano non avesse mai optato per la via del silenzio è dimostrato anche dalle MEMORIE RISERVATE che compose,nel 1812,partendo dalla Sicilia. La natura privata e quasi segreta di questo testo non ne riduce lo spessore e l’intensità dei concetti,si giustifica considerando la singolare importanza dell’argomento;mentre richieste esplicite e pressioni indirette insistevano sulla necessità di disporre una riforma costituzionale,LUIGI DE’MEDICI faceva leva su quella complicità quasi familiare,con il principe ereditario,per esaltare i ruolo guida della corona. L’ordinamento giuridico dello Stato poteva essere migliorato senza scossoni,con ricorso a misure graduali che allargassero la capacità di partecipazione sociale e le basi della rappresentanza;nello stesso tempo occorreva calibrare il peso costituzionale delle istituzioni primarie alla luce delle ideologie maturate su tutti i versanti e ispirandosi ai più validi modelli costituzionali europei;intanto la funzione giudiziaria era definitivamente privata della sua antica veste politica. Volendo trarre una conclusione da ciò che Medici osservò e scrisse quale frutto delle sue esperienze di studio e di pratica compiuti al servizio della monarchia borbonica,si può dire che la formazione di una valida sintesi tra società e governo è processo molto lento,che richiede ampia ed attiva partecipazione. Per realizzare questo coefficiente di sviluppo è necessaria,nei meccanismi di gestione della cosa pubblica,una certa chiarezza e trasparenza,oltre al presupposto,da parte dei governi,di manifestare il massimo impegno a favore del benessere collettivo. Molti secoli di primato di poteri arcani e delle PRIVATAE RATIONES,sommandosi all’estraneità dei poteri viceregi e regi rispetto agli interessi sociali,costituivano nel SUD difficoltà che avevano creato FORMAE MENTIS non innovabili in tempi brevi. Luigi de’Medici,mentre nelle MEMORIE sulla sua formazione a Torino,a Parigi ed a Napoli descrisse le sue idee e le diagnosi generali sulla politica e sul pensiero moderno in Europa,nella MEMORIA RISERVATA si dimostrò statista capace di rapportare gli ampi modelli culturali alle specifiche vicende sociali,con intelligente realismo,con moderazione e con raro equilibrio