S. Maria in Altissimis, di Carmine Tedeschi

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In ogni gruppo di passeggiatori della domenica che si rispetti, c'è un soggetto che ha studiato, che conosce il territorio, che vuole fare da guida e divulgare il suo sapere. Non manca, il suddetto, nemmeno nell’escursione della Gea di metà luglio. Da un pulpito di sterpaglie e forasacchi, si alza in piedi. Tramanda, racconta, di antiche civiltà. Sono passate lungo il Volturno, fiume che solca le campagne di Monteroduni e le rende ubertose. Gli antichi Romani, che fessi non erano, ne sfruttarono le virtù. Lo inserirono nei loro tragitti. La cosiddetta Tavola Peutingeriana, una importantissima pergamena che riproduce gli itinerari della Roma imperiale, riporta, infatti, la statio o mansio (un luogo di sosta, una specie di stazione di servizio) di “Ad Rotas”, come tappa obbligata per chi, da Roma, accedeva nel Sannio. Detta statio viene localizzata, dai principali studiosi della viabilità romana e sannita, nel territorio comunale di Monteroduni, in corrispondenza della Contrada Camposacco – Paradiso, punto di partenza della passeggiata. La contrada ha avuto intense frequentazioni fin dalle epoche più remote, come testimoniato dagli scavi effettuati dall’Università di Ferrara nel 2008, che hanno consentito di rinvenire due stupendi bifacciali e altri manufatti litici di epoca acheuleana. Inoltre, gli scavi, compiuti tra il 2002 e il 2007, da parte dell’Università La Sapienza di Roma, hanno portato alla luce un’ampia parte di una struttura di grandi dimensioni risalente al XII secolo a.C., con reperti di industria litica e materiali ceramici vari. Infine, sono stati rinvenuti reperti di epoca romana, come epigrafi, resti lapidei di importanti costruzioni, monete. I tanti dettagli e la giustezza delle narrazioni incuriosiscono e intrigano i discepoli. Resterebbero ad ascoltare per ore. Purtroppo, il maestro compie un errore. Riporta un dettaglio: oltre al riferimento della tavola peutingeriana, non esiste alcun’altra evidenza o indizio documentale originario o archeologico che porti, in modo esplicito e chiaro, alla localizzazione della statio di Ad Rotas nella contrada CamposaccoParadiso e, sempre nella stessa località, del presunto villaggio di Rotae, dal quale poi viene fatto derivare, da alcuni studiosi locali, l’attuale nome di Monteroduni. E’ un colpo al cuore, specie per i presenti che, nelle domeniche d’inverno, dismettono la foggia d’aria aperta e si accomodano sugli spalti dello stadio comunale per supportare il Monteroduni calcio, intonando il coro di battaglia “ce l’abbiamo solo noi, Rotae, rotaeeeee rotaeeee, ce l’abbiamo solo Monterotae alè”: Lo scoramento che consegue alla Rota bucata, è sfruttato dai franchi tiratori, da altri due sempiterni figuri delle passeggiate: il fotografo e l’esperto dei tragitti. Il primo inizia a immortalare ogni cosa lo ispiri, dai cappelli a falde larghe delle signore ai calzini da bavarese su pantaloncino sportivo di un uomo di città, da una pietra corrosa di fiume a una staccionata che gli sembrava di architettura notevole; si arresta solo quando il buon Mich lo accusa di essere più rumoroso di un branco di cinghiali. La bussola deambulante, invece, intima di tagliare corto e riprendere la marcia. L’obiettivo è arrivare alla Chiesa di Santa Maria Altissima, tappa principale, entro le ore 12. A mettere fretta non è il caldo afoso di pianura: in un’epoca di inquinamento e sporcizia, di grandi ciminiere che spandono i loro veleni sulle nostre teste, gli infestati d’ozono di città non crederanno mai che ci siano luoghi di terra in cui immergere una bottiglia o un termos e disidratarsi e rinfrescarsi di un’acqua così gelida da far titillare il trigemino e far tremare i denti anche a chi non ha le carie, mentre libellule dalle ali blu saltellano e violicchiano, trote sgusciano in acqua, girini si affacciano alla vita. Si teme soltanto di ritardare troppo il pranzo al sacco. Meno

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In ogni gruppo di passeggiatori della domenica che si rispetti, c'è un soggetto che ha studiato, che conosce il territorio, che vuole fare da guida e divulgare il suo sapere. Non manca, il suddetto, nemmeno nell’escursione della Gea di metà luglio. Da un pulpito di sterpaglie e forasacchi, si alza in piedi. Tramanda, racconta, di antiche civiltà. Sono passate lungo il Volturno, fiume che solca le campagne di Monteroduni e le rende ubertose. Gli antichi Romani, che fessi non erano, ne sfruttarono le virtù. Lo inserirono nei loro tragitti. La cosiddetta Tavola Peutingeriana, una importantissima pergamena che riproduce gli itinerari della Roma imperiale, riporta, infatti, la statio o mansio (un luogo di sosta, una specie di stazione di servizio) di “Ad Rotas”, come tappa obbligata per chi, da Roma, accedeva nel Sannio. Detta statio viene localizzata, dai principali studiosi della viabilità romana e sannita, nel territorio comunale di Monteroduni, in corrispondenza della Contrada Camposacco – Paradiso, punto di partenza della passeggiata. La contrada ha avuto intense frequentazioni fin dalle epoche più remote, come testimoniato dagli scavi effettuati dall’Università di Ferrara nel 2008, che hanno consentito di rinvenire due stupendi bifacciali e altri manufatti litici di epoca acheuleana. Inoltre, gli scavi, compiuti tra il 2002 e il 2007, da parte dell’Università La Sapienza di Roma, hanno portato alla luce un’ampia parte di una struttura di grandi dimensioni risalente al XII secolo a.C., con reperti di industria litica e materiali ceramici vari. Infine, sono stati rinvenuti reperti di epoca romana, come epigrafi, resti lapidei di importanti costruzioni, monete. I tanti dettagli e la giustezza delle narrazioni incuriosiscono e intrigano i discepoli. Resterebbero ad ascoltare per ore. Purtroppo, il maestro compie un errore. Riporta un dettaglio: oltre al riferimento della tavola peutingeriana, non esiste alcun’altra evidenza o indizio documentale originario o archeologico che porti, in modo esplicito e chiaro, alla localizzazione della statio di Ad Rotas nella contrada Camposacco­Paradiso e, sempre nella stessa località, del presunto villaggio di Rotae, dal quale poi viene fatto derivare, da alcuni studiosi locali, l’attuale nome di Monteroduni. E’ un colpo al cuore, specie per i presenti che, nelle domeniche d’inverno, dismettono la foggia d’aria aperta e si accomodano sugli spalti dello stadio comunale per supportare il Monteroduni calcio, intonando il coro di battaglia “ce l’abbiamo solo noi, Rotae, rotaeeeee rotaeeee, ce l’abbiamo solo Monterotae alè”: Lo scoramento che consegue alla Rota bucata, è sfruttato dai franchi tiratori, da altri due sempiterni figuri delle passeggiate: il fotografo e l’esperto dei tragitti. Il primo inizia a immortalare ogni cosa lo ispiri, dai cappelli a falde larghe delle signore ai calzini da bavarese su pantaloncino sportivo di un uomo di città, da una pietra corrosa di fiume a una staccionata che gli sembrava di architettura notevole; si arresta solo quando il buon Mich lo accusa di essere più rumoroso di un branco di cinghiali. La bussola deambulante, invece, intima di tagliare corto e riprendere la marcia. L’obiettivo è arrivare alla Chiesa di Santa Maria Altissima, tappa principale, entro le ore 12. A mettere fretta non è il caldo afoso di pianura: in un’epoca di inquinamento e sporcizia, di grandi ciminiere che spandono i loro veleni sulle nostre teste, gli infestati d’ozono di città non crederanno mai che ci siano luoghi di terra in cui immergere una bottiglia o un termos e disidratarsi e rinfrescarsi di un’acqua così gelida da far titillare il trigemino e far tremare i denti anche a chi non ha le carie, mentre libellule dalle ali blu saltellano e violicchiano, trote sgusciano in acqua, girini si affacciano alla vita. Si teme soltanto di ritardare troppo il pranzo al sacco. Meno

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male che, nei borghi del Sannio, il concetto di “passeggiata di salute” è meno franco di quello che i protocolli medici raccomandano. Qualcosa da sbocconcellare si trova. Sempre. Da uno zainetto, spuntano le scruppelle, pizze fritte della vigilia di Natale, che, in fin dei conti, non è così lontana, se si pensa che il guado di metà anno già è stato varcato e che l’estate, tra meno di un mese, inizierà a intonare il canto del cigno. Le ha fatte la regina del vicolo per la nipotina e per un cucciolo di 35 anni suo vicino di casa. Vengono assalite, tranne che dal fotografo, che preferisce immortalarle. Non bastano a sfamare 40 affamati. Monta la protesta. Solo un buon caffè caldo di termos e dei biscotti artigianali riescono a spegnerla, in prossimità del monumento più intrigante che si adagia sul Volturno. E’ la Chiesa di Santa Maria Altissima o, come si suol dire al paese, SanDa Maria Aeutisema, celebrata il giorno 15 agosto, al mattino, mentre un poveraccio trema come un sismografo perché, nel suo primo sonno dopo una notte all’addiaccio di un bar, la banda del paese, sotto la di lui casa, sbatte tamburi e gonfia grancasse, per accompagnare la Madonna in processione. All’occhio del sempliciotto o dello sprovveduto, la Chiesa, “na specie re monstero”, appare come un ammasso di pietre ben conservato nelle parti verticali, circondato da alti rovi e incastonato tra le sterpaglie; non ha nemmeno più un tetto, una copertura, che era a due falde, crollata per incuria umana, e devi stare attento a non avvicinarti troppo alle pareti, altrimenti, come dice il saggio “te care nu palluotte n’cape” (un masso ti rovina in testa). In realtà, ha una storia molto intrigante. La racconta chi ha studiato. La Chiesa faceva parte di un probabile complesso monasteriale del Benedettini, sorto a cavallo dell’attuale linea di confine tra i territori di Monteroduni e Macchia d’Isernia. La costruzione è altomedioevale, intorno al IX secolo, ed è posta su un’altura blanda. Gode di una visuale amplia, che consente di controllare agevolmente un’ampia sezione della vallata del Volturno. La documentazione inerente alla Chiesa è molto scarna: nel libro delle Decime nel 1309, risulta in capo al Priore il compito di pagare la decima; una lapide contenuta nella Chiesa di San Michele Arcangelo di Monteroduni attesterebbe l’operatività del monastero ancora nell’anno 1651. Dal punto di vista architettonico, presenta una pianta ad aula unica, di circa 12.5 x 6 metri ed è conclusa da un’abside semicircolare alta, all’esterno, circa 3 metri. In prossimità dell’abside stesso, esistono delle nicchie ove, probabilmente, erano riposte alcune immagini sacre e le apparecchiature necessarie per lo svolgimento della liturgia. Alcune tracce di colore su intonaco, provano l’esistenza di affreschi, nell’aula benedettina. Del suo portale, probabilmente realizzato con materiale di spoglio, è rimasta la lunetta, composta da un arco a sesto rialzato, in cui si leggono ancora le tracce di un affresco dedicato probabilmente alla Vergine. Sempre all’esterno della Chiesa, si riconoscono quattro monofore, una per facciata. Quelle definite sui lati maggiori sono poste in prossimità dell’abside; quelle realizzate sui lati corti della cella sono poste una al centro dell’abside e l’altra frontalmente, in posizione rialzata e centrale. La logica di tale disposizione è da ricercarsi nei simbolismi liturgici collegati, nella vecchia liturgia, alla posizione che il sole assume durante il corso della giornata rispetto all’altare principale, contenuto nell’edificio. Del complesso monastico cui la Chiesa faceva parte, rimane una notevole quantità di ruderi, i quali sembrano essere stati definiti in epoca coeva alla costruzione dell’edificio religioso, posto in posizione centrale rispetto agli altri corpi di fabbrica. Dalla disposizione di questi ultimi,

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appare chiaro che il monastero fosse composto da più ambienti, alcuni di dimensione simili a quelle della Chiesa. Pietà, per giove, pietà. Le nozioni iniziano a farsi tecniche e complesse per chi non ha competenze di architettura, ingegneria, storia dell’arte. Chissà se pure le ho riportate bene. I passeggiatori alzano bandiera bianca. Il monastero è certamente interessante e, a chi possiede un minimo di sensibilità e un’oncia di gusto per il bello, fa ragionare sul fatto che, nel minuscolo e ameno territorio in cui viviamo, abbiamo, a un tiro di schioppo, a portata di mano, un patrimonio di tesori d’arte e di storia, che non conosciamo e che farebbe d’uopo che tutti si impegnassero a riscoprire, far riemergere, restaurare, far conoscere, ai residenti e a chi è fuori, ma è pur sempre mezzogiorno ed è ora di ristorarsi. E’ disponibile un po’ di vino e biscotti tipici dei negozietti di paese che hanno l’insegna “alimentari” o “Sali e tabacchi”, ingrigita dal tempo e dalla furia degli elementi, nei quali si accede muovendo una tendina che suona un concerto di campanellini e che vende prodotti che non si ritenevano avessero superato indenni la caduta del muro di Berlino. Non sono soddisfacenti. La tensione sale. Qualcuno programma di assalire gli alberi di frutta ai lati della strada. Non fa in tempo. Una gradita sorpresa è all’orizzonte. All’avanguardia della truppa che solca la terra e incontra solo casupole fatiscenti di legno e cani spelacchiati, tre cesti di vimini che svettano su un tavolo, sembrano un miraggio. Invece no. Sono veri. Contengono “lecine” e pomodori. Sono altresì disponibili dei sensazionali biscotti al vino fatti in casa, caffè e fresche bevande. Il merito è tutto del Signor Michelangelo e della sua moglie, che hanno voluto donare ai compaesani atletici un po’ di quel che coltivano o che riescono a fare con sapienti mani di cuoca per diletto. Con tante prelibatezze in corpo, l’ultimo tratto prima della sosta corre via in un baleno. Ci si ferma in un tratto in cui il fiume scorre impetuoso, vortica e forma piccole cascate, saltella e si fa spumoso, si incrocia con un corso d’acqua amico e solletica i piedi di chi, seduto su pietre aguzze, consuma panini con frittata e prosciutto spessi come un mattone e larghi come un Sorrisi e Canzoni. I più felici sono i bambini. Schiamazzano, corrono, sorridono e, infine, si tuffano nel fiume, incuranti delle raccomandazioni dei genitori, del precetto “non si fa il bagno dopo aver mangiato”, dell’acqua gelida e dei massi che pungono i loro piedi minuscoli. Riemergono solo quando il ragioner Filini del gruppo, altro uomo che non manca mai tra i passeggiatori della domenica, fischia e a colpi di “ya ya venete” convoca per il taglio dell’anguria, trasportata da un trerruote che spunta all’improvviso da una strada stretta come mulattiera, che nessuno capisce come possa essere stata attraversato da mezzo ‘si largo, che viene prontamente immortalato dal fotografo, il quale abbandona senza patemi il suo pasto, pur di riportarsi a casa un’altra traccia interessante del dì. Il rito del melone rosso, che fa da corollario a ogni giornata della GEA, è il passaggio più gradito di tutti. Osserva bene Costy, mentre mangia:<<non c’è nessun ristorante al mondo che tenga, davanti a una fetta di anguria mangiata e a un bicchiere di vino bevuto guardando il fiume>>. Oltre al melone, ci sono anche delle salsicce, ma la paura del botulino, avallata anche da chi le ha messe in un barattolo colmo d’olio e sugna, fa desistere i più leggerini dal mangiarle. Con gli stomaci rimpinzati e col pomeriggio che incede in un cielo gonfio di nuvole moderatamente cariche di pioggia, finalmente si può prendere la via a ritroso. Più ci si avvicina al luogo di partenza, più la civiltà riprende vita. Villette graziose di campagna sostituiscono le masserie, sfreccia qualche motorino e si sente il rimbombo sordo delle autovetture,

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virtuosi dello sport macinano chilometri e disperdono sudore su strade ancora un po’ ammaccate. C’è solo un’ultima attrattiva da visitare, prima del congedo. E’ “ru puzze sfunnate”, il pozzo sfondato, the sfunnated water well. Si trova nascosto dietro dei cespugli. Fino agli anni ‘30, era una delle fonti primarie di approvvigionamento di acqua per i contadini. Poi, un cedimento del terreno, uno “sfunnamento”, aveva ridotto la portata d’acqua e reso il pozzo un’ attrazione per chiunque si trovasse di passaggio sul fiume e un luogo di bivacco per le scampagnate di coloro che oggi sono nostri genitori e nonni. Ciò a causa di piccole sabbie mobili che si sono generate all’ interno e che risucchiano addirittura mezzo bastone da passeggio. L’effetto è stupefacente, sconvolgente, un po’ inquietante, ma decisamente affascinante, tanto che il fotografo, pur a rischio di sfracellarsi la coccia, si posizione in precario equilibrio tra due massi e estrae la fotocamera subacquea, con la quale immortalare e filmare il raro fenomeno. Terminate le riprese, il cammino riprende. Non sono previste altre soste. In realtà, un’altra rientranza del fiume, con dei lunghi tronchi d’albero messi in orizzontale, val bene 5 minuti di pausa. La bandiera a scacchi è in località Camposacco, dopo circa 11 chilometri percorsi. Sono quasi le 17. Appuntamenti alla sera per commenti alla giornata e analisi delle date utili per una nuova passeggiata, sono le ultime attività previste. Saluti, baci e alla prossima. Ma nooooo, ove andate? C’è il fotografo già pronto. Pretende di scattare la diapositiva di gruppo, prima del congedo. Il fotografo, l’unico sempre presente, l’unico che non verrà mai immortalato…