RUOLO DELL’AGRICOLTURA NELL’ECONOMIA E NELLA … · funzioni all’interno di un’economia...

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Rossella Pampanini Relazione al XLIII Convegno SIDEA, Agricolture e mercati in transizione, Assisi 7/9 Settembre 2006 1 RUOLO DELL’AGRICOLTURA NELL’ECONOMIA E NELLA SOCIETA’ E RAGIONI DELL’INTERVENTO PUBBLICO A SUO FAVORE Premessa. 1. Sviluppo agricolo e modelli di regolazione socio-economica. 2. Il ruolo multifunzionale dell’agricoltura. 2.1. Agricoltura e sicurezza alimentare. 2.2. Agricoltura e territorio. 2.3. Agricoltura e ambiente. 3. L’intervento pubblico in agricoltura. 3.1. Il protezionismo agricolo. 3.2. Ragioni dell’intervento pubblico in agricoltura. 4. Conclusioni. Premessa E’ opinione largamente condivisa che negli anni novanta del secolo appena concluso il processo di globalizzazione 1 , che pure è congenito allo sviluppo capitalistico, abbia subito un’accelerazione senza precedenti per effetto della caduta del muro di Berlino e del comunismo. Parallelamente, un nuovo liberismo basato su una più circoscritta presenza pubblica nelle attività economiche ha cominciato ad avanzare, la competitività globale è divenuta la parola d’ordine, mentre il welfare state è entrato in crisi. Il XX secolo ci lascia tuttavia un’eredità quanto mai contraddittoria. Infatti, se da un lato la democrazia e con essa il capitalismo e l’economia sociale di mercato sono oggi i vincitori nell’arena della storia e non vi sono quasi più né alternative ideologiche né sfide politiche, dall’altro la società democratica sembra essere in uno stato di crisi permanente ed è carica di imperfezioni d’ogni tipo (Levi, 2005). Se l’assenza di alternative alla democrazia e alla cooperazione fra potenze fa dire a Fukuyama che con la caduta del muro di Berlino e del comunismo la “storia è finita” e che si profila all’orizzonte un “nuovo ordine mondiale” fatto di pace, benessere e concertazione fra i popoli (Fukuyama, 1992), ben presto è apparso evidente che in realtà quello che abbiamo di fronte è un “nuovo disordine mondiale” (Padoa Schioppa, 2002). Ed è proprio nel primo anno del XXI secolo che il tragico attacco alle Torri gemelle di New York, l’11 settembre 2001, fa capire al mondo intero che il nuovo secolo sarebbe stato occupato non dalla tranquilla espansione del benessere e della democrazia, bensì dalla lotta per vincere la “nuova malattia che da tempo incubava”, identificabile nel “contrasto tra ciò in cui il mondo è già unito e ciò in cui è ancora diviso”. “Unito” negli scambi economici e finanziari, nell’istantanea trasmissione delle notizie e delle immagini, nella rapidità dei trasporti, nell’organizzazione del crimine. “Diviso” dai divari delle condizioni di vita, dalla ostilità tra le culture e, soprattutto, dall’assenza di strumenti per impedire il degenerare dei conflitti economici, politici e religiosi (Padoa Schioppa, 2002). L’agricoltura è riuscita a sottrarsi, finora, al neoliberismo e alla deregolamentazione in ascesa nei paesi sviluppati. Questo settore continua infatti ad essere destinatario di un sostegno pubblico considerevole anche in quei Paesi, come gli Stati Uniti d’America, dove l’intervento dello Stato nell’economia è molto più ridotto rispetto ad altri, come ad esempio i paesi europei. Neanche i negoziati internazionali per la liberalizzazione degli 1 La globalizzazione è definita dall’OCSE come “un processo attraverso cui mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più dipendenti tra loro, a causa della dinamica di scambio di beni e servizi e attraverso i movimenti di capitale e tecnologia” (Piper, 1996).

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Rossella Pampanini Relazione al XLIII Convegno SIDEA, Agricolture e mercati in transizione, Assisi 7/9 Settembre 2006

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RUOLO DELL’AGRICOLTURA NELL’ECONOMIA E NELLA SOCIETA’ E RAGIONI DELL’INTERVENTO PUBBLICO A SUO FAVORE

Premessa. 1. Sviluppo agricolo e modelli di regolazione socio-economica. 2. Il ruolo multifunzionale dell’agricoltura. 2.1. Agricoltura e sicurezza alimentare. 2.2. Agricoltura e territorio. 2.3. Agricoltura e ambiente. 3. L’intervento pubblico in agricoltura. 3.1. Il protezionismo agricolo. 3.2. Ragioni dell’intervento pubblico in agricoltura. 4. Conclusioni. Premessa E’ opinione largamente condivisa che negli anni novanta del secolo appena concluso il processo di globalizzazione 1, che pure è congenito allo sviluppo capitalistico, abbia subito un’accelerazione senza precedenti per effetto della caduta del muro di Berlino e del comunismo. Parallelamente, un nuovo liberismo basato su una più circoscritta presenza pubblica nelle attività economiche ha cominciato ad avanzare, la competitività globale è divenuta la parola d’ordine, mentre il welfare state è entrato in crisi. Il XX secolo ci lascia tuttavia un’eredità quanto mai contraddittoria. Infatti, se da un lato la democrazia e con essa il capitalismo e l’economia sociale di mercato sono oggi i vincitori nell’arena della storia e non vi sono quasi più né alternative ideologiche né sfide politiche, dall’altro la società democratica sembra essere in uno stato di crisi permanente ed è carica di imperfezioni d’ogni tipo (Levi, 2005). Se l’assenza di alternative alla democrazia e alla cooperazione fra potenze fa dire a Fukuyama che con la caduta del muro di Berlino e del comunismo la “storia è finita” e che si profila all’orizzonte un “nuovo ordine mondiale” fatto di pace, benessere e concertazione fra i popoli (Fukuyama, 1992), ben presto è apparso evidente che in realtà quello che abbiamo di fronte è un “nuovo disordine mondiale” (Padoa Schioppa, 2002). Ed è proprio nel primo anno del XXI secolo che il tragico attacco alle Torri gemelle di New York, l’11 settembre 2001, fa capire al mondo intero che il nuovo secolo sarebbe stato occupato non dalla tranquilla espansione del benessere e della democrazia, bensì dalla lotta per vincere la “nuova malattia che da tempo incubava”, identificabile nel “contrasto tra ciò in cui il mondo è già unito e ciò in cui è ancora diviso”. “Unito” negli scambi economici e finanziari, nell’istantanea trasmissione delle notizie e delle immagini, nella rapidità dei trasporti, nell’organizzazione del crimine. “Diviso” dai divari delle condizioni di vita, dalla ostilità tra le culture e, soprattutto, dall’assenza di strumenti per impedire il degenerare dei conflitti economici, politici e religiosi (Padoa Schioppa, 2002). L’agricoltura è riuscita a sottrarsi, finora, al neoliberismo e alla deregolamentazione in ascesa nei paesi sviluppati. Questo settore continua infatti ad essere destinatario di un sostegno pubblico considerevole anche in quei Paesi, come gli Stati Uniti d’America, dove l’intervento dello Stato nell’economia è molto più ridotto rispetto ad altri, come ad esempio i paesi europei. Neanche i negoziati internazionali per la liberalizzazione degli

1 La globalizzazione è definita dall’OCSE come “un processo attraverso cui mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più dipendenti tra loro, a causa della dinamica di scambio di beni e servizi e attraverso i movimenti di capitale e tecnologia” (Piper, 1996).

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scambi commerciali sono riusciti ad incidere sull’entità complessiva dei sussidi agricoli dei paesi sviluppati, pur essendo state ridotte le forme di sussidio più distorsive degli scambi a vantaggio di quelle su di essi ininfluenti. Ad esempio l’Europa è riuscita a mantenere sostanzialmente inalterata l’entità del budget per l’agricoltura fino al 2013, pur modificandone il significato e gli obiettivi, mentre gli Stati Uniti d’America lo hanno aumentato negli ultimi anni, essendo tornati, con l’approvazione del Farm Security and Rural Investment Act del 2002, ad un forte protezionismo 2. L’analisi appena svolta costituisce un’indispensabile premessa per meglio inquadrare il tema oggetto di trattazione e le prospettive future delle politiche agricole dei paesi sviluppati. In particolare essa solleva una serie di quesiti cui si tenterà di rispondere nel corso della trattazione. Come è possibile spiegare la sostanziale tenuta delle politiche di sostegno all’agricoltura, di fronte al nuovo corso liberista intrapreso dalle politiche economiche dei paesi sviluppati, specie considerando la ridotta importanza, almeno in termini di occupazione e di contributo al PIL, rivestita dall’agricoltura nel sistema economico di questi paesi? Bisogna dedurne che l’agricoltura è un settore “diverso” dagli altri e perciò meritevole di attenzione particolare da parte dei governi di questi paesi? E se sì, quali sono le ragioni di tutto ciò? Nell’attuale situazione di stagnazione economica di molti paesi sviluppati è pensabile che i privilegi riservati finora all’agricoltura possano essere mantenuti? Infine, nell’attuale contesto internazionale, quale direzione dovrebbe essere impressa in futuro alle politiche agricole dei paesi sviluppati? La relazione è suddivisa in tre parti. Nella prima parte, utilizzando un approccio storico, si è cercato di ricostruire le principali tappe dello sviluppo agricolo e dei modelli per la regolazione socio-economica che ne hanno guidato l’evolversi, per mostrare i forti cambiamenti avvenuti negli ultimi cinquanta anni. Come per tutti i settori dell’economia, l’agricoltura è infatti in perenne mutamento, anche se le trasformazioni più intense e radicali si sono prodotte dalla seconda metà del Novecento in avanti. Basti pensare che, fino a cinquant’anni fa, il principio stesso della protezione ambientale come pure quello della sicurezza alimentare o del benessere animale erano sconosciuti alla politica agraria, mentre attualmente sono divenute questioni centrali. Nella seconda parte sono stati analizzati gli aspetti ritenuti oggi maggiormente rilevanti nel caratterizzare il ruolo dell’agricoltura nelle economie mature e nel giustificare ed indirizzare l’intervento pubblico in questo settore. Questi aspetti chiamano in causa questioni quali la sicurezza alimentare e i rapporti dell’agricoltura con l’ambiente e il territorio. Nella terza parte ci si è soffermati sulle ragioni per cui l’agricoltura è stata tradizionalmente considerata nei Paesi sviluppati come un settore strategico ma

2 L’approvazione del farm bill del 2002, che definisce il quadro della politica agricola statunitense fino al 2007, è stata accolta con forte perplessità, sia negli USA che a livello internazionale. Il premio Nobel Joseph Stiglitz lo ha definito come “la peggiore forma di ipocrisia politica”, mentre Malloch Brown, Direttore dell’Agenzia per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) ha accusato la politica statunitense di “soffocare la prosperità delle popolazioni povere in Africa e in altre aree del mondo per meschini interessi egoistici”. (Orden, 2003).

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economicamente debole e perciò meritevole dell’intervento pubblico a sua protezione e sostegno. Infine, in raccordo con il tema affrontato dalla relazione generale e considerando le priorità evidenziate dall’attuale contesto internazionale, si è cercato di rispondere al quesito se e in quale senso l’agricoltura possa costituire ancora un settore rilevante dell’intervento pubblico. L’analisi sarà riferita ai paesi ad economia avanzata i quali, essendo passati da una fase di sviluppo industriale ad una post-industriale, si trovano oggi a fronteggiare nuove priorità che hanno ampliato di contenuti il ruolo dell’agricoltura e le richieste che ad essa rivolge la società. 1. Sviluppo agricolo e modelli di regolazione socio-economica Il motivo per cui è utile adottare un approccio storico, anziché puramente teorico, è l’ovvia constatazione che la struttura di tutte le economie cambia in continuazione, costringendo così a ridefinire costantemente il problema. Il lungo e profondo processo di trasformazione dell’agricoltura è iniziato in Europa nel Settecento ed è stato segnato da fenomeni politici, sociali e culturali decisivi quali il superamento della società feudale, l’illuminismo e l’affermazione del primato della ragione e della visione positivistica dell’innovazione, la prima e la seconda rivoluzione industriale, le innovazioni della chimica, dell’elettricità e del motore a scoppio, il superamento definitivo del maggese e l’avvento della rotazione agraria: tutto ciò ha rivoluzionato il modo di vivere e di produrre e ha dato grande impulso all’economia, consentendo all’uomo di domare la natura e le sue manifestazioni estreme, di eliminare il problema delle carestie e delle malattie e di avviare una crescita demografica impensabile nei secoli precedenti. In questo lungo cammino, l’aumento straordinario della produttività agricola reso possibile dal progresso tecnico ha consentito, pur a fronte di un numero calante di addetti all’agricoltura, di fornire alimenti ad una popolazione urbanizzata in rapido aumento, determinando la progressiva evoluzione da una condizione di penuria alimentare ad una di sazietà. (Malassis e Ghersi, 1995) 3. Ma è soprattutto a partire dal dopoguerra del secondo conflitto mondiale che l’agricoltura subisce una trasformazione radicale, che ne ridefinisce la collocazione e le funzioni all’interno di un’economia industriale e di una società investita dal processo di modernizzazione. Questa profonda trasformazione ha sconvolto antichi assetti sociali e antichi rapporti di produzione e, di conseguenza, i contesti paesistici ed ambientali (Ciuffoletti e Rombai, 2002). Con riferimento particolare alla situazione europea, è utile suddividere questo periodo in due sottoperiodi: dal secondo dopoguerra alla fine degli anni settanta e da questi in

3 Accanto a questa visione positivistica del progresso tecnico e dell’industrializzazione dell’agricoltura, esiste una vasta letteratura che ne critica severamente i presupposti e gli effetti (cfr. Bevilacqua, 2002). Da un punto di vista più generale è il concetto stesso di sviluppo ad essere messo in discussione per gli enormi divari generati nella distribuzione della ricchezza, nel Sud ma anche nel Nord del Mondo, e per lo sfruttamento delle risorse naturali e viventi oltre la loro capacità di rinnovamento (cfr. Latouche, 1995, Rist, 1996, Ziegler, 2006).

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avanti. Il fenomeno che scandisce questa suddivisione è l’emergere dei punti deboli prodotti dalla modernizzazione dell’agricoltura e l’avvio di una fase di ripensamento sul concetto stesso di sviluppo. Nel primo ventennio della ripresa postbellica, il processo di modernizzazione dell’agricoltura fa proprio il modello dominante di organizzazione e regolazione socio-economica di tipo fordista-keynesiano. Si assiste ad un profondo sovvertimento dei modelli di produzione determinato dall’avvento della meccanizzazione, dalla diffusione della chimica, dall’abbandono della rotazione, dalla specializzazione produttiva, dalla semplificazione colturale, dalla concentrazione della produzione nelle aree più fertili, dall’abbandono delle aree marginali. Nello stesso tempo, l’integrazione con mercati sempre più distanti e internazionali rompe il legame città-campagna e la campagna si spopola a vantaggio delle città, fornendo manodopera all’industria e al terziario. E’ un periodo in cui l’offerta condiziona ancora la domanda e in cui all’agricoltura è richiesto di aumentare la produttività e di conseguire maggiori livelli di efficienza. In questa fase di modernizzazione viene portato a compimento anche il processo di industrializzazione della funzione alimentare che comporta la progressiva integrazione dell’agricoltura con le altre componenti del sistema agro-alimentare e l’applicazione dei principi del fordismo alla produzione degli alimenti, con una serie di conseguenze quali il forte miglioramento della qualità, intesa come assenza di difetti e uniformità standardizzata, e l’avvio del consumo di massa. Nello stesso tempo, la crescita del commercio internazionale, unitamente alla segmentazione delle filiere agroalimentari, allontana sempre di più i consumatori da ciò che mangiano, sia geograficamente che psicologicamente. Nei Paesi sviluppati dell’Occidente, la produttività della terra subisce incrementi senza precedenti, registrando in questo periodo una crescita media annua del 5,4%-5,6% a fronte dell’1,1-1,3% del periodo 1850-1950, tant’è che si parla di “rivoluzione verde”. (Battilossi, 2002). I progressi conseguiti dall’agricoltura forniscono così un contributo decisivo allo sviluppo economico moderno, consentendo una crescita demografica elevata (contributo di prodotto) 4, sostenendo la domanda di beni industriali (contributo di mercato) e fornendo all’industria quantità crescenti di materie prime e di forza lavoro (contributo di fattori) (Federico, 1997). In Europa, questa evoluzione è favorita dall’implementazione di una politica agraria comunitaria, fondata sul sostegno dei prezzi e sulla protezione dal mercato internazionale, che mette al riparo gli agricoltori dalle turbolenze del mercato. Sul piano del pensiero economico, si diffondono in questi stessi anni la teoria e le metodologie di indagine di matrice neo-classica, in tutto e per tutto coerenti con l’interpretazione fordista all’epoca dominante (Musotti, 2005). A partire dalla fine degli anni ’70 del Novecento, anche in agricoltura il modello di sviluppo e di regolazione socio-economica di tipo fordista-keynesiano comincia ad entrare in seria difficoltà. Le recessioni attraversate da tutte le economie industrializzate

4 Le stime demografiche ci dicono che negli ultimi 200 anni la popolazione mondiale ha conosciuto una crescita senza precedenti: da 980 milioni nel 1800, ai 2 miliardi nel 1930, ai 3 miliardi nel 1960, ai 4,3 miliardi nel 1980, ai 6 miliardi del 2000 (Golini, 2003).

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nel 1974-75 e nel 1980-82 portano alla luce le crescenti difficoltà incontrate dal sistema di produzione di massa, di fronte a mercati saturi caratterizzati da forti oscillazioni della domanda e da una trasformazione profonda nelle preferenze dei consumatori, sempre più ostili alla standardizzazione e propensi a premiare la tipicità e l’individualità dei beni consumati, ossia una qualità intesa non più solo come assenza di difetti ma anche come presenza di pregi. In questo diverso scenario, un ruolo di forza può essere giocato proprio dalla piccola impresa specializzata nella produzione flessibile su piccola scala e operante in contesti locali caratterizzati da particolari requisiti, quali quelli descritti da Giacomo Becattini per i distretti industriali. In agricoltura cominciano ad emergere in tutta evidenza i punti deboli del modello di sviluppo di tipo fordista-keynesiano: formazione di eccedenze produttive costose in fase di gestione e politicamente dirompenti in fase di smaltimento, crescente inquinamento delle aree agricole più specializzate, dissesto idrogeologico delle aree marginali abbandonate dall’uomo, contrazione della bio-diversità, degrado del paesaggio, impoverimento, sotto i colpi della massificazione commerciale, di tante culture locali del produrre e del consumare, attenzione alla quantità a discapito della qualità, omologazione varietale e dei sapori. Ne deriva la necessità, per il mondo agricolo, di ridefinire il contratto con la società civile. In Europa ciò porta alla riscoperta del territorio e l’agricoltura torna a reimmergersi nella grande varietà dei luoghi, con tutti i loro saperi e le loro tradizioni, da cui le dinamiche del fordismo l’avevano allontanata. Tornano alla ribalta prodotti sempre meno standardizzati e sempre più tipici, ma emergono anche nuovi servizi collegati al territorio che l’agricoltura può offrire, quali la salvaguardia e l’arricchimento delle risorse naturali e biologiche, la riscoperta e la comunicazione di tradizioni eno-gastronomiche, l’ospitalità agrituristica, la fruizione paesaggistica. Parallelamente la domanda comincia a condizionare sempre di più l’offerta e a diventare particolarmente complessa ed esigente. Cominciano infatti a farsi strada nuove richieste dei consumatori, in materia di sicurezza alimentare e di compatibilità ambientale e etica delle pratiche agricole, le quali, evidentemente, si ripercuotono sui processi produttivi e sull’organizzazione aziendale, aumentando i costi di produzione. Per le imprese diventa strategico non solo adattare l’offerta alla domanda, identificando i bisogni sempre più complessi del consumatore, ma soprattutto rafforzare la funzione commerciale, vero e proprio tallone d’Achille per le piccole imprese operanti in agricoltura. Nello stesso tempo, la “rivoluzione verde” inizia a rallentare e la produzione agricola mondiale entra dopo due secoli di crescita ininterrotta in una fase di stasi produttiva, mentre la domanda continua a crescere, sia a causa dell’aumento della popolazione mondiale sia per via dei mutamenti della dieta alimentare soprattutto nei Paesi emergenti. Pertanto, agli inizi del XXI secolo il rapporto tra popolazione e risorse alimentari sembra entrato in una nuova fase critica. Ma lo spettro di un nuovo pessimismo di stampo malthusiano viene subito allontanato dalla nuova risposta risolutiva che la scienza ritiene che possa provenire dall’ingegneria genetica. Nella seconda metà degli anni ’80, in Europa, anche la politica agraria inizia un ripensamento sugli obiettivi e sulle modalità di intervento, i cui elementi cardine sono

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l’esigenza di ridare centralità al mercato e alle richieste della società in materia di qualità, sicurezza alimentare e sostenibilità ambientale, puntando su un’agricoltura multifunzionale, sostenibile e integrata nel territorio. Le tre riforme successive del 1992, del 1999 e del 2003 hanno rimodellato significativamente la politica agraria europea: la prima, con l’introduzione dei pagamenti diretti e il superamento del sostegno dei prezzi; la seconda, con la creazione del secondo pilastro dedicato allo sviluppo rurale; la terza, con il disaccoppiamento, ossia con la rottura del legame tra il sostegno del reddito agricolo e l’obbligo di produzione. Fra gli economisti agrari, il paradigma neoclassico, come schema teorico per lo studio del funzionamento del mercato e del comportamento delle imprese e dei consumatori, comincia ad essere abbandonato. Vengono messi in discussione, in particolare, gli assunti delle condizioni concorrenziali del mercato e della perfetta razionalità del soggetto economico e la possibilità di fare astrazione dalle molteplici variabili sociali, politiche, culturali che condizionano l’operato e le scelte delle imprese e di cui la teoria neoclassica non riesce a tener conto. All’inizio degli anni novanta prende corpo, inoltre, un’ampia linea di ricerca imperniata sul concetto di sviluppo locale, che, dopo aver riguardato l’agricoltura in senso stretto, si è ampliata all’analisi dell’evoluzione dell’intero mondo rurale, tornando sui passi dei padri fondatori dell’economia agraria (Musotti, 2005). Il processo storico tracciato consente di evidenziare due aspetti: da un lato, il cambiamento epocale compiuto dall’agricoltura dei paesi occidentali negli ultimi cinquanta anni, che ha determinato il passaggio da un’economia agricola ancora tradizionale ad una sempre più rivolta al mercato e interdipendente nel mercato globale; dall’altro, l’altrettanto rapida e profonda evoluzione delle richieste che la società civile rivolge a questo settore dell’economia. Ciò, evidentemente, ha influenzato il ruolo che l’agricoltura svolge nel sistema economico, nel senso di renderne prioritari certi aspetti piuttosto che altri. 2. Il ruolo multifunzionale dell’agricoltura La principale funzione che l’agricoltura svolge nel sistema economico è la produzione di alimenti. L’altra funzione fondamentale, la cui importanza è progressivamente cresciuta nell’Occidente avanzato, parallelamente all’emergere degli eccessi prodotti dalla modernizzazione dell’agricoltura, è rappresentata dai servizi per l’ambiente e il territorio. Il carattere strategico della funzione alimentare assolta dall’agricoltura è stato ampiamente sottolineato dalla letteratura economico-agraria, in quanto il cibo soddisfa un bisogno vitale dell’uomo ed è perciò alla base della vita stessa. Georgescu-Roegen esprime l’insostituibilità per l’uomo dell’energia “primitiva” proveniente dal cibo, con queste parole suggestive: “Per gli usi industriali, l’uomo è riuscito ad imbrigliare una fonte di energia dopo l’altra, dal vento all’atomo, ma per quanto riguarda il tipo di energia necessaria per la vita stessa, egli dipende ancora interamente dalle fonti più “primitive”, gli animali e le piante che ha intorno” (Georgescu-Roegen, citato in Di Sandro, 2002).

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L’agricoltura svolge e ha sempre svolto molteplici funzioni, anche se il dibattito intorno alle funzioni diverse rispetto a quella produttiva si è sviluppato solo di recente, sotto la spinta delle trasformazioni economiche e sociali degli ultimi decenni. Per esprimere questo complesso di funzioni è stato coniato, per la prima volta alla conferenza mondiale di Rio de Janeiro del 1992, il termine di “multifunzionalità” dell’agricoltura. Tale concetto fu accettato poi nel 1998 durante la conferenza dei ministri dell’agricoltura dei Paesi OCSE nella seguente formulazione: “oltre alla funzione primaria di fornire cibo e fibre, l’attività agricola incide anche sul profilo territoriale, apporta benefici quali la conservazione del territorio, la gestione sostenibile di risorse naturali rinnovabili e la preservazione della biodiversità, oltre a contribuire alla fruibilità di molte zone rurali” (Brown, 2004). Questa definizione dell’agricoltura multifunzionale contiene il riferimento, da un lato, alla funzione primaria della produzione del cibo, dall’altro, al complesso di relazioni che la legano al territorio e all’ambiente. Benché si possa obbiettare che la multifunzionalità non è una caratteristica peculiare ed esclusiva della sola attività agricola, è incontrovertibile che è proprio in agricoltura che essa assume grande rilevanza a causa della dispersione geografica delle imprese e dell’ampia quota di territorio da esse controllata. La multifunzionalità dell’agricoltura si collega alla capacità di questo settore di produrre nello stesso tempo beni materiali (alimenti, fibre, legname, pellame, materie prime per usi industriali) e immateriali (paesaggio, salvaguardia idrogeologica, manutenzione del territorio, mantenimento della biodiversità), compresi, fra questi ultimi, molti beni non commerciali. Diversi, ma spesso confusi con quello di multifunzionalità (riferito al settore), sono i concetti di pluriattività (riferito alla famiglia) e di multisettorialità (riferito all’impresa) (Musotti et al., 2006). La pluriattività significa svolgimento di lavori extraaziendali da parte dei componenti della famiglia agricola, i quali dedicano all’agricoltura solo una parte del proprio tempo totale di lavoro; la multisettorialità riguarda invece l’affiancamento nell’impresa agricola di attività diverse da quelle riconducibili all’agricoltura in senso stretto, svolte utilizzando come base produttiva l’azienda agricola stessa (come nel caso di attività agrituristiche o didattiche o artigianali) o le sue risorse umane e tecniche (come nel caso di servizi di contoterzismo o di manutenzione del verde). Esiste tuttavia un collegamento fra i tre concetti, nel senso che l’uno può essere funzionale all’altro e viceversa: ad esempio un’olivicoltura molto caratterizzata dal punto di vista paesaggistico è utile per uno sviluppo in senso multisettoriale dell’impresa, ad esempio verso attività agrituristiche, le quali, a loro volta, creano occasioni di diversificazione occupazionale per i nuclei familiari di altre imprese agricole locali. Nell’analizzare il concetto di multifunzionalità dell’agricoltura, l’OCSE ricorre a due approcci. Vi è innanzi tutto un approccio di “tipo positivo”, che è quello utilizzato nella presente relazione, che interpreta la multifunzionalità come caratteristica di un’attività economica. Ciò che rende un’attività economica multifunzionale è la possibilità di produrre output ed effetti multipli e congiunti. Alcuni di essi hanno un valore di mercato

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riconosciuto, altri no. Ma vi è anche un secondo approccio, di “tipo normativo”, che interpreta l’agricoltura come un’attività che deve soddisfare specifiche richieste della società. Ne consegue che la multifunzionalità assume un valore intrinseco e che il suo mantenimento o potenziamento può divenire un obiettivo di politica economica. (Maier e Shobayashi, 2003). Oltre alla produzione di alimenti, le categorie di funzioni riconducibili al concetto di multifunzionalità dell’agricoltura sono: la tutela ambientale espressa in termini di mantenimento della qualità dell’ambiente, di conservazione del paesaggio, di salvaguardia idrogeologica, di conservazione della biodiversità e anche, in generale, di valorizzazione delle risorse naturali locali; la garanzia della qualità e della sicurezza degli alimenti; il mantenimento delle tradizioni e dei tessuti socioculturali rurali (Casini L.). Appare evidente che il concetto di multifunzionalità è un concetto dinamico e influenzato dall’evolversi della società (Idda, 2002). Pertanto, nel tempo, ma anche nello spazio a seconda dello stadio di sviluppo attraversato da un paese, cambiano non certo le funzioni quanto l’ordine di priorità che la società attribuisce alle varie categorie di esse. Il rilievo che all’interno della multifunzionalità riveste la funzione produttiva o piuttosto quella di servizio per il territorio o l’attenzione per le problematiche ambientali è inoltre profondamente influenzato dalla diversa dotazione di risorse naturali e socio-economiche di cui un paese dispone e dalle scelte di politica economica. Tutto ciò è utile per interpretare le profonde differenze che caratterizzano, all’interno delle economie mature, i modelli agricoli americano ed europeo. Nel modello agricolo americano, la funzione preminente dell’agricoltura è quella produttiva, che ben si coniuga con l’abbondanza di risorse naturali particolarmente adatte in questo paese per un’agricoltura specializzata ed intensiva e con l’enorme disponibilità di terre coltivate in rapporto alla popolazione. La vocazione per l’esportazione che ne consegue è sempre stata assecondata e sostenuta dall’intervento pubblico statunitense ed è stata utilizzata, in politica economica, come un vero e proprio strumento di politica estera, di importanza strategica soprattutto nei momenti di tensione internazionale. Al contrario, l’agricoltura europea, disponendo di una minore superficie coltivata in rapporto alla popolazione, dà vita a realtà rurali variegate in cui l’attività agricola è molto interrelata con gli altri usi economici e civili del territorio e più interessata da problematiche ambientali. Queste caratteristiche hanno anche influito sull’emergere di molte culture e tradizioni alimentari fondate sui prodotti locali e tipici. Pertanto, nel modello agricolo europeo le tre funzioni esplicative della multifunzionalità dell’agricoltura – alimentare, territoriale, ambientale – sono fortemente compenetrate fra loro e richiedono un intervento pubblico capace di conciliare la produttività agricola con la tutela delle risorse naturali e delle strutture sociali presenti nel territorio (Vieri et. al, 2006) Pur essendo stata concettualizzata in tempi recenti, la multifunzionalità dell’agricoltura è evidentemente sempre esistita, essendo connaturata al tipo di attività considerata.

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Quello che è veramente cambiato nel tempo sono i caratteri che la società ha ritenuto più importanti nella declinazione di queste funzioni: ad esempio all’interno della funzione alimentare, da un interesse preminente per la quantità si è passati ad un interesse crescente per la qualità e per la sicurezza alimentare; riguardo ai rapporti agricoltura-ambiente, da un’attenzione trascurabile nel primo ventennio post-bellico si è passati ad una loro crescente considerazione, tanto che oggi la stessa politica agraria incorpora l’obiettivo ambientale nell’ecocondizionalità dei sussidi; la stessa riscoperta delle interrelazioni fra agricoltura e territorio è tornata in auge solo a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso. Su questi aspetti ritenuti oggi più rilevanti nel caratterizzare il ruolo dell’agricoltura ci si soffermerà nei paragrafi successivi. 2.1. Agricoltura e sicurezza alimentare Nel nostro come anche in tutti i paesi dell’Occidente avanzato, il tema della sicurezza alimentare, intesa come food safety, è sempre più al centro degli interessi e delle preoccupazioni dei cittadini e dei produttori. La causa di ciò va ricercata nell’accelerazione e nell’ampiezza raggiunte oggi dallo “scarto informativo” tra produttore e consumatore, in parte insito nel conflitto di interessi che si cela nel rapporto produzione-consumo, ma accresciutosi per effetto dell’impiego di tecnologie sempre più complesse e sofisticate, della crescente segmentazione delle filiere agroalimentari e dell’allontanamento spaziale dei luoghi della produzione rispetto a quelli del consumo. L’alimentazione, dunque, non meno e non diversamente da altri aspetti della vita quotidiana, è attraversata da quella crescente incertezza, “figlia della globalizzazione e dello sviluppo tecnologico”, che contraddistingue quella che Beck chiama la “società mondiale del rischio”. Scrive a quest’ultimo proposito Beck: “Nel mondo moderno, il divario tra i rischi quantificabili, in base ai quali pensiamo e operiamo, e il mondo dell’incertezza non quantificabile, che abbiamo creato noi stessi, si amplia sempre più, seguendo il ritmo dello sviluppo tecnologico” (Beck, 2002). “Quella che è stata per millenni la più primordiale e privata delle pratiche, il sostentarsi attraverso il cibo – scrive Bevilacqua – è ormai diventata oggetto di preoccupazione e tutela pubblica, nuovo ambito di normazione, punto di controversia nella regolazione del commercio internazionale”. Ma la sicurezza alimentare di cui si ragiona all’interno dei paesi a sviluppo post-industriale “ha un’origine recente e la sua ragione politica, e prima ancora concettuale, non sorge da questioni di penuria e di scarsità, come avveniva nell’antichità, ma al contrario viene a imporsi in un ambito di abbondanza alimentare, quando non di vera e propria eccedenza” (Bevilacqua, 2004). Diverse sono le ragioni della crescente insicurezza nel campo alimentare. Innanzi tutto, il nesso sempre più evidente fra qualità del cibo e stato di salute medio della popolazione fa dell’alimentazione un elemento fondamentale di prevenzione delle cosiddette malattie del progresso legate, appunto, agli squilibri e agli eccessi alimentari. Crescente attenzione è inoltre dedicata alla composizione nutrizionale degli alimenti, per evitare che alla sovralimentazione si accompagni anche la malnutrizione. Sorgono

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quindi nuovi campi di indagine, tesi ad indagare sulla qualità nutrizionale del cibo, allo scopo di aumentarne le componenti positive (tramite l’introduzione nella dieta di alimenti probiotici, prebiotici, nutraceutici) o verificarne le carenze 5. Una seconda ragione è la correlazione fra la qualità del cibo e la qualità dell’ambiente. I cittadini sono sempre più preoccuppati della possibile contaminazione degli alimenti dovuta alla diffusione nell’ambiente di residui tossici imbucati ormai ovunque, nelle viscere della terra e nei fondali marini, e dei virus sempre più strani e aggressivi (dalla mucca pazza al virus dell’aviaria) che hanno intensificato proprio in questi ultimi anni la loro presenza. Senza parlare delle preoccupazioni riguardanti gli sciami radioattivi derivanti dalle catastrofi nucleari e dalle esplosioni sottomarine (Perna, 1998). Una terza ragione è la correlazione fra la qualità del cibo e dei processi produttivi, con la complicazione che questi ultimi coinvolgono oggi una molteplicità di imprese che partecipano alle varie fasi della produzione dal “campo alla tavola”. Sempre più acquirenti non guardano più soltanto ai prezzi, ma sono sempre più interessati a come il cibo è stato prodotto, nella consapevolezza che il processo produttivo è importante sia ai fini della qualità dell’ambiente sia ai fini della qualità e della sicurezza del cibo sia riguardo all’eticità e correttezza di rapporti con i vari soggetti che direttamente o indirettamente partecipano o sono condizionati dall’operato dell’impresa (stakeholders). Una quarta ragione è rappresentata dalla difficoltà che incontrano i produttori a ottenere giuste remunerazioni per ciò che producono, con il rischio, tutt’altro che improbabile, dello scadimento qualitativo dei prodotti da loro offerti. “Consumare di più e pagare di meno sembra essere lo slogan di quella che è stata chiamata la società low cost, una società nella quale il pendolo del potere va portandosi dai produttori ai consumatori: questo totalitarismo consumistico è incompatibile - osserva Zamagni - con la sicurezza degli alimenti.” (Zamagni, 2006). Ma ci sono altre ragioni che rendono oggi quanto mai centrale il problema della sicurezza alimentare: ci si riferisce alle problematiche ambientali e salutistiche generate dalla diffusione degli OGM, al crescente e sempre più pericoloso accentramento dell’industria sementiera mondiale nelle mani di poche multinazionali e alla conseguente e sempre più forte minaccia per la biodiversità. Le biotecnologie stanno dividendo il mondo scientifico e quello dei cittadini, riguardo alle ripercussioni sulla produzione e sul consumo. Con riferimento alla produzione, mentre la propaganda positivista delle multinazionali promette di aumentare la produttività agricola e di risolvere il problema della fame nel mondo, vi è chi, come Rifkin, sostiene che l’impatto sociale di quest’ultima rivoluzione tecnologica sarà devastante, in quanto taglierà fuori dal mercato i piccoli produttori e provocherà la scomparsa dei prodotti agricoli tradizionali, facendo scivolare la stessa civiltà “in una fase di declino di lungo termine, che potrebbe durare per secoli” (Rifkin, 1995). Inoltre

5 A quest’ultimo proposito destano allarme, per l’indiretta denuncia dell’impoverimento in atto nei suoli agrari e dell’inadeguatezza dei processi produttivi utilizzati, i risultati di una recente ricerca della Food Commission, organismo inglese di controllo della qualità dei cibi, che ha evidenziato il forte impoverimento nutrizionale, rispetto ai livelli del 1940, di frutta, verdura, carne e latticini in sali minerali e microelementi, essenziali per il funzionamento degli enzimi e di molte altre funzioni vitali (Bawtree, 2006).

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anche le promesse dell’aumento delle rese e della riduzione della chimica sembrano sconfessate da diversi risultati sperimentali e di pieno campo (Shiva, 2000). Oltre ai problemi di ordine socio-economico legati alla scomparsa della diversificazione tipica delle aree rurali, il ricorso in agricoltura agli OGM solleva rilevanti problemi anche di ordine salutistico, per i possibili effetti negativi sulla salute umana, e di ordine biologico, per la contaminazione genetica delle produzioni tradizionali. Pochi sono, infatti, gli studi indipendenti sui rischi per la salute umana (Benfatti, 2006), animale e dell’ambiente connessi agli OGM, mentre è certo che la loro diffusione comporterà un’ulteriore e forte riduzione della biodiversità. Ciò per diversi motivi: l’inquinamento genetico delle specie tradizionali ad opera di quelle GM, la comparsa di nuove “supererbacce” più aggressive delle attuali infestanti, il favore di stampo neocolonialista con cui gran parte dei Paesi in via di sviluppo intraprende “politiche per l’esportazione” piuttosto che “politiche alimentari”, la pericolosa e progressiva concentrazione della produzione mondiale di alimenti su poche specie vegetali. In materia di OGM, l’Europa ha scelto un atteggiamento basato sui principi della precauzione, della coesistenza e della massima trasparenza nei confronti del consumatore. Il principio di precauzione, adottato in Europa, e quello della presunta equivalenza, adottato negli USA, sono oggi al centro dell’acceso dibattito sviluppatosi tra scienza e diritto. Secondo alcuni i due principi esprimono un diverso atteggiamento della società europea e nordamericana di fronte al progresso: conservatore, il primo, progressista, il secondo. Il principio di precauzione si basa sull’idea che una mancanza di evidenza possa giustificare una scelta politica. Esso consente all’autorità pubblica di attivare misure provvisorie di gestione del rischio, qualora sulla base delle informazioni disponibili venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permangano situazioni di incertezza sul piano scientifico. In base al principio della presunta equivalenza, i prodotti GM devono essere considerati del tutto equivalenti a quelli convenzionali fino a prova contraria. Pertanto, in mancanza di prove scientifiche contrarie, qualsiasi intervento regolatorio, ad esempio sotto forma di autorizzazioni o di etichettatura, viene visto come un limite alla loro circolazione e una discriminazione tra prodotto convenzionale e GM. La coesistenza intende conciliare la libertà di chi vuol coltivare prodotti GM e di chi invece vuole tutelare dalle contaminazioni del vicino i propri prodotti tradizionali, non senza problemi di concreta applicazione soprattutto in presenza di superfici poco estese come gran parte di quelle europee e di una tipologia aziendale fatta prevalentemente di piccole aziende. Un’altra questione fortemente correlata alla sicurezza alimentare è quella della biodiversità, la quale è stata messa a dura prova dalla rivoluzione verde, prima, e dall’ingegneria genetica, oggi. Infatti, la Conferenza di Leipzig sulle risorse genetiche vegetali, organizzata dalla FAO nel 1996, ha permesso di stabilire che la causa più importante della forte riduzione di diversità delle specie e dei semi autoctoni va ricercata nell’introduzione delle nuove varietà.

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La biodiversità, e con essa i sistemi alimentari tradizionali e quelli tipici, sono in pericolo non solamente a causa delle monocolture, ma anche dei monopoli, i quali stanno distruggendo la ricca varietà di semi che la natura e la cura degli agricoltori hanno creato nel corso di millenni 6. Possiamo concludere che la sicurezza alimentare sta assumendo sempre più i caratteri di un “obiettivo” piuttosto che di un “prerequisito scontato”, come è stata per lungo tempo considerata. Ed è proprio per questo che il consumatore è allarmato e al tempo stesso sempre più consapevole e critico rispetto al problema dell’alimentazione 7. In questo ambito la biosicurezza, o prevenzione dei pericoli biologici causati dall’ingegneria genetica e dai danni all’ambiente, emerge oggi come una delle questioni ambientali e scientifiche più importanti dei nostri tempi. Pertanto, ferma restando l’esigenza di un’estrema precauzione prima dell’immissione di nuovi prodotti GM nella catena alimentare, un ruolo importante spetta alla ricerca scientifica a carattere “indipendente”. Come reagisce il consumatore a questo stato di incertezza ? Una novità che sta emergendo nell’attuale passaggio d’epoca è l’emergere di una nuova figura di consumatore, che Zamagni definisce consumatore-cittadino per distinguerlo dal consumatore-cliente (Zamagni, 2006). Il primo, a differenza del secondo, è sempre più critico e responsabile nelle scelte alimentari, non si limita a consumare ciò che altri hanno deciso di portare sul mercato ma cerca di conoscere ciò che consuma e di interagire con i soggetti dell’offerta per ottenere un particolare tipo di prodotto (es. cibo prodotto in modo convenzionale o biologico o tipico), giungendo anche a “costruire” l’offerta e a realizzare forme di aggregazione della domanda tramite le nuove tecnologie della comunicazione (gruppi di acquisto). Aumenta anche la diffidenza rispetto ad un’“informazione scientifica” sempre più soggetta alle strategie delle multinazionali che producono culture alimentari e mode funzionali alle loro necessità produttive: basti pensare alla propaganda, sostenuta dalla classe medica per tutti gli anni settanta e ottanta, a favore del consumo di oli di semi piuttosto che di olio extra-vergine di oliva.

6 Secondo la scrittrice ed ecologista indiana Vandana Shiva, stiamo assistendo ad un “totalitarismo alimentare” che può essere bloccato solo da una democratizzazione dei sistemi di produzione e di consumo dei beni alimentari. Una delle cause di questo totalitarismo risiede nel sistema perverso dei diritti di proprietà intellettuale, difeso in sede WTO, che considera le piante e i semi come invenzioni delle imprese, operando un vero e proprio “furto” ai danni degli agricoltori e trasformando in delitto il dovere fondamentale dell’agricoltore di mettere da parte i semi e scambiarli con i vicini. E inoltre la legislazione sui semi costringe gli agricoltori ad usare solo varietà “registrate”. Ma le varietà prodotte dagli agricoltori non sono registrate perché i piccoli produttori non possono sostenere le spese di registrazione ed è per questo che poco alla volta finiscono per diventare dipendenti dall’industria sementiera, sempre più concentrata a livello mondiale. Infatti solo dieci multinazionali controllano il 32% del mercato mondiale dei semi e il 100% del mercato dei semi geneticamente modificati e le stesse imprese controllano anche il mercato globale dell’agrochimica e dei pesticidi (Shiva, 2000). 7 A tal proposito, sono emblematici i risultati di due sondaggi realizzati negli USA. Una rilevazione del novembre 1998, curata dall’International Food Safety Council affiliato all’industria agroalimentare statunitense, ha reso noto che l’89% dei consumatori statunitensi pensa che la sicurezza alimentare sia questione nazionale molto importante e più importante della prevenzione del crimine. Un sondaggio pubblicato dal settimanale “Time” del 13 gennaio 1999 ha evidenziato che l’81% dei consumatori americani vorrebbe che i cibi geneticamente modificati venissero dichiarati sull’etichetta e che il 58% non li mangerebbe se ciò avvenisse (Shiva, 2000).

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Un’altra novità, che si collega al crescente stato di incertezza, è che la fiducia è destinata a giocare un ruolo crescente nelle scelte di acquisto del consumatore. Anche se i consumatori-cittadini sono ancora una minoranza rispetto ai consumatori-clienti, il loro numero è comunque in aumento e il principio di responsabilità che li guida può fare molto nell’indirizzare il modo di fare agricoltura. In definitiva questa spinta proveniente dal basso e tesa a soddisfare aspettative diverse del consumatore (dalla sicurezza alimentare alla salvaguardia dell’ambiente e del territorio, dalla ricerca di alimenti locali meno anonimi e meno dispendiosi sotto il profilo energetico a quella di prodotti del commercio equo e solidale) testimonia l’esigenza di una nuova “democrazia alimentare” che significa diritto a scegliere consapevolmente il cibo secondo le proprie aspettative. Queste aspettative, nelle società mature, sono sempre più orientate alla riappropriazione di un rapporto con il cibo e con chi lo produce e, quindi, alla riduzione della distanza fra il produttore e il consumatore. In quest’ultima direzione vanno interpretate le pratiche come la rintracciabilità e la certificazione, ma anche il favore per i prodotti locali. 2.2. Agricoltura e territorio Oltre alla funzione primaria della produzione del cibo, il concetto di multifunzionalità pone l’accento anche sul complesso di relazioni che legano l’agricoltura al territorio. Per inquadrare correttamente tali relazioni è utile partire da alcune definizioni, che tengono conto sia del significato etimologico del termine “territorio” sia di quello scaturito dalle concettualizzazioni teoriche prodotte dagli studi economico-territoriali. L’intento è quello di sottolineare l’inscindibilità fra l’esercizio dell’agricoltura e l’ambiente fisico e socio-economico del territorio circostante e di rimarcare il completo disinteresse della teoria economica prevalente per queste problematiche, almeno fino alla fine degli anni ‘70, quando, accantonata la teoria neoclassica, anche gli studi economico-agrari hanno riscoperto il rapporto dell’agricoltura con il territorio e l’ambiente e, più in generale, l’utilità scientifica di un’analisi teorica di tipo sistemico, attenta alle relazioni reciproche fra tutte le componenti del sistema stesso. Il recupero concettuale della connessione dell’agricoltura con il territorio e l’ambiente pervade oggi diversi concetti, quali quelli di sviluppo sostenibile, del ruolo multifunzionale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale. Venendo agli aspetti definitori, è ormai generalmente condiviso il concetto di “territorio”, coniato dagli studi di geografia umana, inteso come “spazio trasformato e organizzato dalla società storicamente insediatavi”. Il territorio costituisce, quindi, un prodotto storico-sociale di lungo periodo, la cui componente fisica è mediata dai valori, e perciò dalle scelte, della società stessa; al tempo stesso esso rappresenta il luogo dove in ogni momento si esercitano e si proiettano le scelte della società che vi è insediata, con la mediazione delle regole di governo politico che sul territorio si sostanziano. Il concetto di “ambiente” è invece più eclettico. Una sua definizione attenta ai soli aspetti ecologici lo considera come “insieme delle condizioni biotiche e abiotiche che circondano gli esseri viventi rendendo possibile la vita”. Emerge dalle definizioni precedenti una prospettiva analitica molto diversa e centrata, nel caso del territorio, sulle

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relazioni sociali e, nel caso dell’ambiente, sulle relazioni tra gli esseri viventi che popolano il territorio e il substrato fisico che li ospita. Ma i due concetti sono intimamente connessi, come dimostra il fatto che “l’uomo e la sua società hanno fin qui costruito territori a spese dell’ambiente” (Tinacci Massello, 2002). Quando si passa dal concetto di “territorio” a quello più ristretto di “territorio rurale”, sorge il problema di individuare lo spazio rurale distintamente da quello urbano 8. In passato i termini “agricolo” e “rurale” erano sinonimi e l’agricoltura esauriva e si identificava con ogni aspetto della vita rurale. Anche etimologicamente, il sostantivo latino rur-ruris significa campagna, dal che il territorio rurale identifica, almeno in origine, lo spazio destinato ad ospitare l’attività agricola. Tuttavia, a seguito dello sviluppo industriale e della profonda ristrutturazione subita dall’agricoltura, la campagna ha progressivamente perso la sua peculiarità originaria e il termine rurale ha finito per identificarsi con tutto lo spazio che, estesamente e per differenza, non è urbano. Chiarita la stretta connessione fra attività agricola e territorio, il passo successivo è di comprendere quali siano le forme concrete risultanti da queste interazioni in termini di sviluppo economico e soprattutto se, e in che modo, il territorio possa rafforzare la posizione competitiva delle piccole imprese operanti in agricoltura. In questa direzione un modello interpretativo utile per comprendere lo sviluppo territorialmente differenziato è l’idealtipo del distretto industriale, e più in generale del sistema locale di sviluppo, analizzato per primo in Italia da Becattini. L’elemento di novità più visibile della teoria dello sviluppo locale è che la descrizione scientifica del fenomeno dello sviluppo, quindi del cambiamento sociale ed economico, non è più condotta solo lungo la direttrice dei settori produttivi, ma tiene conto significativamente dell’influenza del territorio, muovendo dall’idea che la natura dei luoghi modella forme e contenuti dello sviluppo stesso (Franceschetti, 1994). Il forte radicamento territoriale delle imprese, le strette relazioni fra imprese e famiglie, la concentrazione della produzione in un’area territoriale ristretta con la possibilità di beneficiare delle cosiddette economie da agglomerazione, la specializzazione territoriale, la presenza di risorse naturali, storiche e culturali che possono tradursi in attività economiche redditizie, la flessibilità nel cambiamento dei prodotti e dei processi produttivi, la fitta rete di relazioni sociali, economiche ed istituzionali, l’incontro fruttuoso fra le conoscenze codificate e contestuali e la capacità di riprodurre insieme alle merci i fattori materiali e immateriali necessari per continuare il processo produttivo nel tempo sono tutte chiavi interpretative che aiutano a comprendere e a spiegare perché il distretto industriale, come pure quello agricolo o agroindustriale o rurale, possa rappresentare un modello di successo in alternativa alla grande impresa e come lo stesso possa rendere “grandi” le piccole e medie imprese industriali e le microimprese agrarie. Concordiamo con Jacoponi quando osserva che le imprese agricole “hanno solo due possibilità per rafforzare la propria posizione competitiva: integrarsi in sistemi di

8 Ad esempio Jacoponi definisce il territorio rurale come “un’area a bassa densità demografica, dove si attua un’economia caratterizzata dall’agricoltura insieme ad altre attività (artigianato, piccola-media industria, turismo, ecc.), che si integrano mantenendosi in equilibrio e rispettando in modo accettabile l’ambiente naturale” (Jacoponi, 1998).

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filiera o di distretto. La prima possibilità spiega la vitalità delle imprese agrarie integrate nei mercati a monte e a valle; la seconda quella delle imprese agrarie integrate nelle microfiliere di qualità” (Jacoponi L., 2004). L’alternativa che ha di fronte l’impresa agricola è dunque quella di inserirsi in filiere strutturate di tipo lungo o di rapportarsi direttamente con il consumatore generando forme di mercato corto capaci di valorizzare i prodotti di qualità e tipici del territorio. Nel primo caso è importante che si instauri un collegamento importante e stabile con l’industria di trasformazione, mentre nel secondo caso il collegamento va ricercato con il territorio, dal quale possono provenire anche occasioni di diversificazione settoriale dell’attività aziendale o occasioni di lavoro extraziendale per i componenti della famiglia agricola. A partire dal concetto di sistema locale di sviluppo la letteratura economico-agraria ha derivato innanzi tutto i concetti di sistema di sviluppo agricolo o agroindustriale o rurale, utilizzando la categoria della conoscenza contestuale come criterio per rintracciarne l’esistenza (Cecchi, 2002; Romano, 1999). Un’utile chiave di lettura per la dinamica dello sviluppo territoriale ci è fornita poi dall’analisi di Alessandro Romagnoli, il quale, partendo dalla considerazione che nelle società post-industriali il territorio, ossia lo spazio in cui si localizzano le imprese e le unità di consumo, si è progressivamente emancipato dalla destinazione d’uso primaria e cioè quella agricola, individua nella competizione intersettoriale per l’uso del suolo la chiave esplicativa della caratterizzazione agricola (o rurale) di un sistema di sviluppo. Tale competizione conduce infatti alla costruzione di sistemi locali molto variegati: se le imprese agricole riescono ad aumentare la produttività del suolo e quindi ad accrescere il valore aggiunto per unità di terra, anche attraverso attività agrituristiche o di manutenzione del territorio, il sistema locale rimane ancora agricolo, mentre laddove ciò non avviene, diviene industriale o terziario o periferia residenziale. Se invece non esiste domanda di suolo per usi alternativi né domanda da parte del settore, si ha l'abbandono della terra e la marginalizzazione del territorio (Romagnoli, 1998). Lo sviluppo rurale viene quindi interpretato dallo stesso Autore come “il processo di miglioramento delle condizioni economico-sociali di un sistema locale a rilevante economia agricola (sistema locale rurale), cioè di un territorio con piccoli centri abitati in cui l'agricoltura dà il maggior contributo relativo al reddito della zona, o ne impiega la percentuale più alta di occupati, oppure ne utilizza come input una consistente porzione del suolo usufruibile. In esso l'agricoltura conserva una maggiore efficienza produttiva relativa e le attività produttive ascrivibili agli altri settori sono spesso funzionalmente legate ad essa”. Il carattere rilevante ma non esclusivo dell’economia agricola, contenuto nella definizione precedente, pone in evidenza il carattere intersettoriale e integrato delle attività economiche dei sistemi locali rurali. Si tratta, per la verità, di un aspetto fondamentale: infatti se è vero che l’agricoltura è importante per le aree rurali è anche vero che queste ultime, e quindi la loro vivibilità, sono importanti per l’agricoltura. Le ricerche in geografia economica hanno mostrato l’importanza degli effetti di scala e di sinergia nella localizzazione delle attività economiche. Se la popolazione di una zona rurale scende al di sotto di una soglia, si innesca infatti un circolo vizioso che porta alla scomparsa dei servizi collettivi (posta, scuola, ecc.), delle infrastrutture (mancanza di

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manutenzione, mancanza di introiti fiscali, ecc.), delle attività di produzione e quindi all’ulteriore esodo della popolazione. La politica agricola può, a un costo ragionevole, permettere il mantenimento di una popolazione sufficiente ad evitare questa dinamica negativa (Hervieu et al., 2003). 2.3. Agricoltura e ambiente Nel precedente paragrafo, analizzando il rapporto tra agricoltura e territorio, è stato proposto anche il significato del concetto di ambiente. Mano a mano che la produzione di derrate alimentari ha cessato di essere considerata l’obiettivo esclusivo del settore agricolo, sia il rapporto agricoltura-territorio sia quello agricoltura-ambiente si sono arricchiti di contenuti e di più esaustivi significati. Ciò ha comportato anche una revisione dei paradigmi e dei percorsi metodologici nell’analisi economica del settore agricolo. La più importante conseguenza è l’introduzione anche in agricoltura del concetto di esternalità, che era già stato incorporato nella disciplina economica fin dai primi decenni del secolo. Parallelamente, la consapevolezza dei rischi che un eccessivo uso della chimica ed in generale un eccessiva intensificazione dell’agricoltura comportavano per l’ambiente, ha provocato la presa di coscienza del fatto che esternalità erano anche effetti indesiderati quali l’inquinamento delle acque o del suolo. La conseguenza logica è che l’agricoltura è in grado di generare esternalità ambientali sia positive che negative. Nello specifico, il rapporto fra agricoltura e ambiente si può concretizzare in tre modalità fondamentali:

• l’agricoltura può produrre danni all’ambiente. L’esempio più immediato e sempre al centro del dibattito è quello del rischio di inquinamento delle acque e dei suoli dovuto all’uso dei prodotti chimici; ma oggi sempre maggiore rilevanza assumono altre tematiche, quali la perdita di biodiversità, i consumi idrici, i problemi legati agli allevamenti intensivi;

• l’agricoltura può subire danni sul proprio ambiente. E’ il caso in cui l’agricoltura subisce inquinamenti di varia origine da altri settori produttivi, quindi con un ruolo passivo;

• l’agricoltura può contribuire alla conservazione e al restauro dell’ambiente. Spesso la semplice presenza dell’uomo sul territorio è fattore di tutela ambientale, che si concretizza nella conservazione del paesaggio, della diversità biologica, della stabilità dei suoli.

In ogni attività produttiva, in ogni ambito territoriale, il fatto che prevalga l’una o l’altra di queste tre circostanze è strettamente dipendente dal comportamento dell’uomo. La politica dello sviluppo rurale, con le sue implicazioni di diversificazione produttiva e, soprattutto, con il concetto di multifunzionalità, legittima in pieno l’immagine di un settore capace di fornire prodotti di mercato di diversa natura, ed esternalità, sia positive che negative, capaci di incidere profondamente sull’assetto dei territori interessati. In un simile contesto, l’identificazione e la valutazione delle esternalità ambientali delle attività agricole diventano indispensabili per poter fornire strumenti più adeguati nelle scelte pubbliche (Boggia e Pennacchi, 1999).

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L’Unione Europea, a partire dalla presentazione del primo programma quadro sull’ambiente, nel 1973, ha sempre indicato il rispetto dell’ambiente nelle attività dell’uomo come una strategia irrinunciabile per l’Unione. A Goteborg nel giugno 2001 9 l’UE affermava che “Lo sviluppo sostenibile - soddisfare i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere quelli delle generazioni future - è un obiettivo fondamentale per raggiungere il quale è necessario affrontare le politiche economiche, sociali e ambientali in modo sinergico. La mancata inversione delle tendenze che minacciano la qualità futura della vita provocherà un vertiginoso aumento dei costi per la società o renderà tali tendenze irreversibili.” In particolare, per quanto riguarda le attività agro-zootecniche, nello stesso documento si sostiene la necessità che “la politica agricola comune e il suo sviluppo futuro contribuiscano, tra gli obiettivi, a realizzare uno sviluppo sostenibile ponendo maggiore enfasi sulla promozione di prodotti sani e di qualità elevata, di metodi produttivi sostenibili dal punto di vista ambientale, incluse produzione biologica, materie prime rinnovabili e la tutela della biodiversità.” I motivi alla base di questa strategia sono individuati dalla stessa Unione che, sottolineando il fatto determinante che il proprio territorio è costituito per oltre tre quarti da superfici agricole o boschive, ricorda che “Lo sviluppo tecnologico e le strategie commerciali volte a massimizzare i profitti e a minimizzare i costi hanno determinato una notevole intensificazione dell'agricoltura negli ultimi quarant'anni”10, con la conseguenza di un incremento nell’uso di fertilizzanti e fitofarmaci, che hanno causato problemi di inquinamento dell'acqua, del suolo e dell’aria, innescando a loro volta ripercussioni negative sul paesaggio e sulla biodiversità, e l'abbandono dell'uso del suolo a scopi agricoli, soprattutto per motivi economici. Di fronte a tali evoluzioni, “Le sfide rappresentate dall'agricoltura intensiva e dall'abbandono dell'attività agricola sono all'origine di una riflessione sul rapporto tra agricoltura e ambiente e sulla base su cui dovrà essere costruito un modello europeo di agricoltura sostenibile”. Una convinzione decisa, tanto che nel 6° Programma di azione per l’ambiente l’Unione prevede la necessità inderogabile che “i terreni agricoli siano utilizzati correttamente, affinché i sistemi naturali, i quali ci forniscono aria, cibo ed acqua, continuino a funzionare” 11. L’agricoltura sostenibile si configura quindi come il ponte fra agricoltura e ambiente. Il Congresso degli Stati Uniti d'America ha definito l'agricoltura sostenibile come "un sistema integrato di pratiche di produzione vegetale ed animale, che hanno applicazione in un'area specifica e che nel lungo termine: soddisferà il fabbisogno umano di cibo e di fibre; aumenterà la qualità dell'ambiente e la base di risorse naturali da cui dipende l'economia agricola; farà il più efficiente uso delle risorse naturali e delle risorse aziendali ed integrerà i cicli e la lotta naturali biologici; sosterrà la vitalità economica delle attività delle imprese agricole; aumenterà la qualità della vita degli agricoltori e della società”.

9 Conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo di Göteborg - 15 e 16 giugno 2001. 10 Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni - Orientamenti per un'agricoltura sostenibile - COM/99/0022 def. 11 Commissione Europea - Ambiente 2010: Il Nostro Futuro, La Nostra Scelta - Il 6° programma di azione per l’Ambiente della Comunità europea.

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C’è da più parti la convinzione che molti agricoltori applichino tecniche realmente sostenibili, e così hanno fatto per generazioni, intendendo con questo che in fondo la chiave della sostenibilità in agricoltura sta nel recuperare alcuni modi di coltivare tradizionali, ad un certo punto abbandonati per diverse ragioni (Keeney, 1990). Ciò è per certi aspetti condivisibile, soprattutto con riferimento ai perduti importanti legami tra agricoltura e zootecnia. Ma è necessario aggiungere che la sostenibilità non consiste unicamente in un ritorno alle tecniche di coltivazione del passato. Occorre recuperare alcuni principi base, ma un ruolo importante lo devono giocare anche le nuove tecnologie, dalle attrezzature all’informatica, dalle industrie produttrici di mezzi tecnici alle biotecnologie, ecc. Altri aspetti rilevanti per il raggiungimento di un sistema agricolo sostenibile, al di là dei particolari relativi alla tecnica colturale, sono gli indirizzi di politica agraria, il contributo della ricerca, la adeguata formazione degli operatori. E’ certo che la variabile ambientale è divenuta elemento centrale nelle decisioni che l’Unione Europea ha preso in merito agli ultimi indirizzi di politica agraria. Questo fatto risulta evidente sia con riferimento alla riforma del 2003, che ha introdotto l’ecocondizionalità, sia dai dibattiti intorno alla nuova politica di sviluppo rurale. La scelta strategica dell’Unione Europea di disegnare in modo innovativo gli obiettivi della politica agricola comunitaria, attribuendo alle tematiche ambientali una posizione centrale, sta mettendo in evidenza l’esigenza di rinnovare anche gli strumenti operativi utili a raggiungere una concreta ed efficace condizione di sostenibilità economica ed ambientale delle attività agro-zootecniche che risulti socialmente accettabile. 3. L’intervento pubblico in agricoltura 3.1. Il protezionismo agricolo Nella tradizione del pensiero economico ci sono due nozioni ben distinte del mercato e della sua capacità di autoregolazione. La prima esalta il mercato come istituzione ottimale di coordinamento ed è basata su una visione idealizzata della “mano invisibile del mercato” affiancata ad una visione ottimistica del progresso tecnico; la seconda auspica un mercato regolato, capace di conciliare l’interesse privato con il benessere sociale, ed è basata su una visione positiva del mercato, ma ricca di luci e ombre (Roncaglia, 2005). Sia negli USA che in Europa, la regolamentazione delle attività economiche da parte dello Stato è divenuta particolarmente incisiva solo dopo la Grande Depressione del 1929 e l’avvio del New Deal ispirato alla rivoluzione keynesiana, raggiungendo i livelli attuali soprattutto nel corso degli ultimi 50 anni. I sostenitori di tale politica la proponevano come rete di sicurezza rispetto all’incertezza e come strumento per rendere più equa e socialmente sostenibile l’economia di mercato, limitandone gli squilibri (Stiglitz, 1989). Su queste due idee di capacità di regolazione del mercato, la teoria economica è sempre stata divisa, anche se oggi “riesce difficile prescindere dal ruolo dello Stato nel concepire il sofisticato sistema economico e sociale delle società odierne” (Heertje,

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2006). La storia mostra inoltre che, nel tempo, ad ondate protezionistiche sono seguite ondate liberistiche e viceversa 12. Negli Stati Uniti d’America e in Europa il protezionismo agricolo 13, che riguardò inizialmente l’introduzione di barriere all’importazione, iniziò alla fine dell’Ottocento, a seguito della grande depressione che abbracciò gli ultimi venticinque anni del secolo causando il crollo dei prezzi soprattutto dei prodotti agricoli internazionali, crisi che fu determinata dall’espansione del commercio marittimo per effetto della navigazione transoceanica resa possibile dal perfezionamento del motore a vapore (Battilossi, 2002). Una forte spinta alle politiche protezionistiche si ebbe poi nel periodo fra le due guerre mondiali, anche come reazione alla grande depressione del 1929-1933 e in vista della ripresa delle attività belliche. Al termine della seconda guerra mondiale, gli accordi di Bretton Woods (luglio 1944) riportarono il libero scambio al centro del processo di ricostruzione delle economie capitalistiche, ponendo le premesse per il GATT (General Agreement on Trade and Tariffs) del 1947, ossia per il progressivo smantellamento di tutte le barriere al commercio internazionale. Nonostante questa ispirazione dichiarata alla dottrina del free trade, nel corso del Novecento le eccezioni, costituite dalle politiche protezionistiche, sono state tutt’altro che secondarie: l’esempio emblematico è rappresentato proprio dalle politiche agricole, che hanno assunto contorni fortemente protezionistici in tutti i paesi dell’Occidente avanzato, a fronte di un’impostazione maggiormente liberista delle politiche industriali. Per avere un’idea degli attuali livelli del protezionismo agricolo nei paesi ad economia capitalistica, è possibile far riferimento all’indicatore OCSE denominato Producer Support Estimate (PSE) 14. Nei Paesi OCSE il PSE era pari nel 2004 al 30% (33% per 12 E’ bene ricordare che il welfare state era nato nella seconda metà dell’Ottocento in Europa da una matrice politica di tipo conservatrice, il regime dispotico illuminato della Prussia di Bismark, con l’obiettivo politico di far convivere l’aristocrazia e i ceti meno abbienti e di portare la Germania al livello di sviluppo economico raggiunto dalla Gran Bretagna. Il “modello prussiano”, come fu definito questo primo esempio storico di intervento dello Stato in economia, si concretizzò in leggi che istituirono l’assistenza sanitaria, l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, le pensioni di invalidità e vecchiaia ma soprattutto nel forte sviluppo dell’attività statale nell’area dell’istruzione, della formazione professionale e della ricerca scientifica e tecnologica. Il successo del modello prussiano, storicamente documentato dal rapido progresso dello sviluppo industriale della Germania alla fine dell’Ottocento, influenzò l’adozione di politiche di welfare anche da parte delle altre Nazioni europee (Freeman, 2006). Negli anni ‘80 del Novecento, il rallentamento del tasso di crescita dell’economia, la pressione inflazionistica e l’evidente inefficienza e mancanza di profittabilità di alcune imprese pubbliche hanno nel complesso contribuito ad indirizzare l’opinione pubblica verso il ridimensionamento del ruolo dello Stato. Sulla scia delle politiche messe in atto dalla Thatcher e da Reagan, Inghilterra ed USA hanno avviato una deregolamentazione che ha portato ad una più circoscritta presenza pubblica nelle attività economiche. 13 Con il termine di protezionismo economico s’intende “qualunque forma di intervento pubblico, come i dazi e il contingentamento delle importazioni, le sovvenzioni alle imprese e così via, che ha l’effetto di determinare un sistema di prezzi nel mercato interno diverso da quello che si formerebbe in loro assenza in un regime concorrenziale e il cui obiettivo consisterebbe nel favorire i produttori nazionali rispetto a quelli esteri, migliorando la bilancia commerciale e il livello di occupazione.” (Scognamiglio Pasini, 2005). 14 Il PSE quantifica l’importo monetario annuale di tutti i trasferimenti dai consumatori e contribuenti ai produttori agricoli, misurato al livello aziendale, derivanti dalle misure politiche di sostegno all’agricoltura. Vengono contabilizzati tutti i trasferimenti a titolo di sostegno ai prezzi di mercato, di aiuti accoppiati alla produzione (per unità di prodotto/ad ettaro/a capo), di aiuti derivati da diritti storici, di aiuti che abbattono il costo dei mezzi di produzione, di aiuti condizionati a vincoli sui mezzi di produzione e gli aiuti al reddito. Il

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l’UE a 25): ciò significa che su 100 Euro di ricavi ottenuti dai produttori agricoli, 30 provenivano dalle varie forme di sostegno gravanti sui consumatori e sui contribuenti. Il processo di riduzione del protezionismo ha registrato però un rallentamento negli ultimi anni: infatti per l’intera area OCSE il sostegno complessivo ricevuto dagli agricoltori si è ridotto rispetto al 37% del periodo 1986-88, anche se la sua entità è ferma al 30% dal 2002. In generale le ragioni a favore del protezionismo sono: la difesa dell’occupazione nazionale, l’indipendenza - motivata da ragioni strategiche o commerciali - da fornitori esteri, il contrappeso a politiche protettive più o meno occulte di cui beneficiano i competitor stranieri, la difesa dalle violazioni alla fair competition e dalle politiche predatorie volte a spiazzare la concorrenza con politiche di dumping, la difesa - nella fase di avvio - di un settore esposto alla concorrenza internazionale. In agricoltura, l’intervento pubblico è giustificato inoltre da una serie di fallimenti del mercato tipici di questo settore. D’altro canto sono ben note le critiche al protezionismo, teoricizzate, per primo, dal padre dell’economia politica moderna Adam Smith, il quale così si esprime: “Il consumo è la sola finalità e obiettivo di tutta la produzione, e l’interesse dei produttori dovrebbe essere preso in considerazione solo in quanto necessario per promuovere quello dei consumatori. (….) Ma nel sistema regolamentato l’interesse dei consumatori è quasi costantemente sacrificato a quello dei produttori; sembra che si consideri la produzione e non il consumo il fine ultimo e l’oggetto di tutta l’industria e il commercio. (….) Nei casi di regolamentazione si può dimostrare, io credo, che si tratti sempre di banali imbrogli con i quali gli interessi dello Stato e della Nazione sono sacrificati a favore di qualche gruppo specifico di operatori.” (Smith, 1776). Fra le ragioni logiche per cui i sistemi basati sull’economia di mercato producono risultati di gran lunga migliori di ogni altro sistema, Smith indica in particolare il legame fra specializzazione, produttività del lavoro ed estensione del mercato. Altra dura critica al protezionismo, argomentata con la teoria dei vantaggi economici comparati, è svolta da David Ricardo nella sua opera più famosa del 1817 (Principi di politica economica e di tassazione). Più recentemente scrive Stigliz: “Si possono sostenere i programmi di supporto ai prezzi agricoli sulla base del fatto che aiutano a lenire i fallimenti del mercato, e precisamente l’incapacità degli agricoltori di assicurarsi adeguatamente; ma un’analisi più accurata di questi programmi rivela che non è questo il loro vero obiettivo (anzi, in alcuni casi essi possono finire per aumentare i rischi degli agricoltori), che è invece il trasferire reddito.” (Stiglitz, 1989). Anche in Europa serpeggia in questi ultimi tempi una diffusa ostilità al mantenimento del sostegno pubblico all’agricoltura e si parla di smantellamento della PAC, che pure ha subito un profondo rinnovamento a seguito della riforma del 2003, e di rinazionalizzazione delle politiche agricole. Questa volontà è emersa con tutta evidenza in occasione dell’iter di approvazione delle prospettive finanziarie dell’UE per il periodo 2007-2013 da parte del Consiglio europeo, PSE espresso come % dei ricavi totali realizzati dagli agricoltori (% PSE) mostra il livello di sostegno a prescindere dalla dimensione del settore in un dato paese. Per questa ragione il PSE% è l’indicatore più utilizzato per le comparazioni tra paesi, prodotti e periodi.

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durante il quale uno degli argomenti di scontro si è sviluppato intorno alla proposta del Premier inglese Blair di ridimensionare la PAC a favore di un significativo incremento delle spese per la ricerca, la tecnologia e l’innovazione. La posizione di Blair era in realtà stata anticipata dalle conclusioni del Rapporto Sapir eseguito su incarico della Commissione Europea nel 2003 da un gruppo di esperti per esaminare le conseguenze dei due obiettivi economici strategici che l’UE si era prefissa per il primo decennio del XXI secolo: diventare la più competitiva e dinamica economia fondata sulla conoscenza, con una crescita economica sostenibile e una maggiore coesione sociale (la cosiddetta Agenda di Lisbona); rendere inoltre l’allargamento un successo, innalzando rapidamente il tenore di vita nei nuovi Stati Membri (Sapir et al., 2004). Il Rapporto Sapir porta un duro attacco al cuore della PAC. Esso rileva che, nonostante i notevoli risultati raggiunti dall’Unione sul piano istituzionale (creazione del mercato unico nel 1993, lancio dell’Euro nel 1999, allargamento a 10 nuovi Stati Membri nel 2004), i risultati economici sono stati insoddisfacenti (crescita ridotta, PIL procapite fermo al 70% di quello americano dall’inizio degli anni ’80) e ne individua la causa nell’incapacità dell’economia europea di trasformarsi in un’economia fondata sull’innovazione. Il Rapporto raccomanda di concentrare le spese del bilancio dell’Unione sui settori economici e sociali capaci di contribuire maggiormente alla crescita economica (R&S, innovazione, istruzione e formazione, infrastrutture) e di tornare ad una rinazionalizzazione della politica agricola, il cui mantenimento a livello comunitario non sarebbe più giustificato:

• perché il passaggio dal sostegno dei prezzi a quello dei redditi, unitamente alla maggiore diversità fra le agricolture derivante dall’allargamento, rende meno stringenti le argomentazioni a favore di un mantenimento delle competenze agricole a livello dell’Unione;

• perché la PAC non incentiva l’efficienza e la produzione, ma solo una determinata categoria di cittadini e perciò costituisce una vera e propria “anomalia”, trattandosi di una politica ridistribuiva (Padoa Schioppa, 1987);

• perché la PAC non sembra conforme agli obiettivi di Lisbona, nel senso che il suo contributo alla crescita e alla convergenza a livello dell’Unione resta al di sotto di quello che potrebbe essere ottenuto con altre politiche.

In definitiva notevoli sono le spinte verso una revisione delle politiche agricole dei paesi sviluppati, sia interne che internazionali. Quello che appare ormai tramontato è il vecchio modello di tutela dei redditi agricoli, attraverso il sostegno dei prezzi e la protezione commerciale. Al suo posto sta emergendo un modello più aperto al mercato internazionale e attento al ruolo multifunzionale dell’agricoltura, i cui strumenti restano però ancora in gran parte da definire. 3.2. Ragioni dell’intervento pubblico in agricoltura

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Nella maggior parte delle moderne economie di mercato, l’agricoltura, nonostante la sua importanza declinante nell’economia, è oggetto di intervento pubblico con l’obiettivo di sostenere e stabilizzare i redditi agricoli e la permanenza degli addetti. Questo particolare trattamento di favore è da porre in relazione ad una serie di specificità e positività attribuite al mondo agricolo e che rendono questo settore economicamente debole e al tempo stesso strategico, giustificando l’intervento pubblico a sua protezione e sostegno. (Lizzi, 2000). Le specificità, in particolare, si traducono in fallimenti del mercato che l’intervento pubblico cerca di correggere, mentre le positività costituiscono ragioni aggiuntive a giustificazione dell’intervento stesso. L’ampia letteratura economico-agraria su questo tema consente di individuare le seguenti principali specificità dell’agricoltura:

• lo squilibrio di forza contrattuale degli agricoltori rispetto agli altri operatori del mercato,

• la rigidità della domanda dei beni alimentari rispetto al reddito e ai prezzi, • l’esposizione della produzione agricola a forti fluttuazioni dei prezzi,

inconseguenza del verificarsi di avversità abiotiche e biotiche parzialmente controllabili dall’uomo e della rigidità della domanda rispetto ai prezzi,

• la difficoltà del settore, data la sua struttura concorrenziale, a programmare e controllare l’offerta,

• l’incapacità del settore, data la sua struttura concorrenziale, a trattenere nelle imprese agricole i vantaggi economici determinati dal progresso tecnico.

Lo squilibrio di forza contrattuale dei produttori agricoli nei confronti dei venditori e degli acquirenti si collega all’esistenza di asimmetrie nel numero di attori del processo di scambio (elevato numero di imprese agricole e ridotto numero di imprese acquirenti o venditrici) e, conseguentemente, nel loro potere negoziale. Il problema è acuito dalla deperibilità di molti prodotti agricoli, dalla necessità di rilevanti volumi di stoccaggio e dal fatto che il mercato agricolo si caratterizza come un mercato di prodotti intermedi da sottoporre a trasformazione prima dell’immissione al consumo, cosa che, allontanando i produttori agricoli dai consumatori finali e dai loro gusti e preferenze, ne indebolisce ulteriormente la posizione rispetto agli acquirenti. Tutto ciò porta ad una serie di problemi e disfunzioni, quali: debolezza negoziale e difficoltà delle unità produttive a collegarsi al mercato, esposizione dei produttori agricoli allo sfruttamento oligopsonistico, da parte delle imprese di trasformazione acquirenti, e oligopolistico, da parte delle imprese venditrici di mezzi tecnici. L’intervento pubblico (tramite dazi fissi o mobili, prezzi istituzionali, creazione e stimolo dell’associazionismo per favorire la concentrazione dell’offerta) cerca di correggere questi squilibri con l’intento, inverso rispetto a quello della politica industriale, di creare condizioni tali da allontanare i risultati settoriali da quelli propri di un mercato di tipo concorrenziale. (Saccomandi, 1991a). La rigidità della domanda dei beni alimentari rispetto al reddito spiega la tendenza a decrescere della percentuale di reddito spesa in consumi alimentari. In base alla legge

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della spesa alimentare o legge di Engel, così chiamata dal nome dello statistico tedesco Christian Engel che la formulò nel 1857 studiando il comportamento alimentare delle famiglie di operai, la domanda di beni alimentari tende ad essere statica in termini assoluti e decrescente rispetto al reddito complessivo, a fronte del continuo aumento dell’offerta e della fluttuazione dei prezzi 15. A partire dal 1857, la storia ha confermato la validità di questa legge essendosi assistito ad una progressiva e costante riduzione della quota del reddito destinata alla spesa alimentare. Ad esempio, dal 1970 al 1995 la spesa alimentare media delle famiglie dell’Unione Europea si è ridotta drasticamente passando dal 32% a meno del 16%, mentre agli inizi del Novecento superava largamente il 60%. L’esposizione della produzione agricola a fattori di rischio abiotici (meteorologici e climatici) e biotici (dipendenti dalla natura biologica dell’attività) parzialmente controllabili dall’uomo unitamente alla rigidità della domanda di beni alimentari rispetto ai prezzi sono le ragioni alla base delle forti fluttuazioni dei prezzi e dei redditi cui sono esposti i produttori agricoli, fenomeni destinati ad amplificarsi a causa dei cambiamenti climatici in atto e del conseguente verificarsi di fenomeni estremi. Un’altra peculiarità dell’agricoltura, che incide anch’essa negativamente sui prezzi e sui redditi, è la difficoltà di programmare e controllare l’offerta. A causa della struttura concorrenziale del mercato agricolo alla produzione, lo spostamento dei produttori sulle colture che generano maggiori profitti è favorito dall’assenza di barriere all’entrata (assenza di vincoli amministrativi, ampia possibilità di accesso alla tecnologia) e di barriere all’uscita (bassi costi irrecuperabili). Le misure di controllo dell’offerta (quote, stabilizzatori, aiuti disaccoppiati) hanno tentato di impedire o comunque ridurre l’effetto di questi comportamenti definiti di “hit and run” (Saccomandi, 1991a). Infine un altro peculiare fallimento del mercato che si registra in agricoltura è l’incapacità del settore, data la sua struttura concorrenziale, a trattenere nelle imprese agricole, anche nel breve-medio periodo, i vantaggi economici determinati dal progresso tecnico. Il progresso tecnico, incrementando la produzione e la produttività, determina nel breve-medio periodo la flessione dei prezzi agricoli, rendendo più poveri gli agricoltori e acuendo la crisi strutturale dell’agricoltura (surplus, caduta dei prezzi,

15 Malassis e Ghersi hanno riformulato la legge della spesa alimentare di Engel, in funzione dello stadio alimentare raggiunto da una data società. Soffermandoci su quelle che questi Autori chiamano società di pre-sazietà e di sazietà, la lettura da loro fornitaci è utile perché introduce nella legge di Engel anche l’aspetto della qualità, che la prima non aveva considerato né probabilmente poteva farlo quando fu formulata. La fase di pre-sazietà (o del consumo alimentare di massa), ha riguardato gli Stati Uniti, nel periodo fra le due guerre mondiali, e l’Europa, nel ventennio del boom economico immediatamente successivo alla fine della seconda guerra, mentre la fase di sazietà è in atto nei Paesi che si trovano nella fase di sviluppo post-industriale. Se è vero, come afferma appunto la legge di Engel, che all’aumentare del reddito la spesa alimentare diminuisce in termini percentuali, nelle fase di pre-sazietà essa continua tuttavia ad aumentare in valore assoluto e, in proporzione, più del volume del consumo perché il prezzo medio della caloria cresce per la tendenza a sostituire calorie costose (carne, latte, frutta e verdura) a calorie meno costose (cereali, legumi secchi) e calorie agro-industriali a calorie agricole. Nella fase di sazietà, che può essere considerata di reazione agli eccessi alimentari del modello agroindustriale, si arriva alla saturazione del consumo quantitativo ed energetico medio (il volume del consumo e le calorie non aumentano più o addirittura diminuiscono per il minor dispendio energetico indotto dalla sedentarietà) e alla saturazione della spesa alimentare, sia in senso assoluto che relativo. Quando si raggiunge la stadio di sazietà, le sostituzioni tendono ad avvenire solo fra calorie costose, in quanto la sostituzione rispetto a quelle a buon mercato è terminata. (Malassis e Ghersi, 1995).

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espulsione di forza lavoro). Si assiste in sostanza in agricoltura ad un accorciamento dei tempi di imitazione che in altri settori dell’attività economica sono invece amplificati per la possibilità di proteggere talune innovazioni dall’imitazione, sia tramite il segreto industriale sia tramite la protezione della proprietà intellettuale assicurata dalle leggi sui brevetti. Inoltre, combinando questa peculiarità dell’agricoltura riguardo al progresso tecnico, con lo squilibrio di forza contrattuale nei confronti dell’industria e della distribuzione e con l’impossibilità di programmare e controllare l’offerta, è facile comprendere come mai i vantaggi economici determinati dal progresso tecnico tendano ad essere trasferiti agli acquirenti e, in scarsa misura, ai consumatori finali. L’insieme di queste specificità definisce una “questione agraria” che si estrinseca sotto forma di progressivo declino dell’importanza dell’agricoltura nell’economia e nell’impoverimento ineluttabile degli agricoltori (tendenziale caduta dei prezzi e conseguente inferiorità dei redditi agricoli rispetto a quelli degli altri settori), impostasi all’attenzione di tutti i governi dei paesi industrializzati, come questione congenita al settore e, quindi, come crisi strutturale e non contingente. (Lizzi, 2000) 16. Infatti, nel lungo periodo i produttori agricoli sono esposti ad un’ineluttabile flessione in termini reali dei prezzi e dei redditi, né il progresso tecnico li aiuta a trattenere per sé i vantaggi conseguiti nel brevissimo periodo grazie alle innovazioni introdotte. I prezzi e i redditi sono inoltre esposti a forti oscillazioni da un anno all’altro, data la natura biologica dell’attività agricola e la sua sensibilità all’andamento meteorologico e, da ultimo, alle modificazioni climatiche in atto. Per Saccomandi la questione agraria è stata generata dall’industrializzazione della funzione alimentare, la quale, se ha risolto i problemi sociali delle campagne trasformando i braccianti in salariati, ha fatto crescere il peso e i problemi delle imprese agricole facendoli diventare le questioni centrali per la politica agraria. Scrive infatti: “Il fatto che le imprese agricole siano restate sostanzialmente indipendenti e di piccola o piccolissima dimensione dentro un mondo economico dei settori fornitori dei beni e servizi o utilizzatori della materia prima agricola tendenti alla progressiva concentrazione, ha stretto l’attività agricola in una forbice progressiva di perdita continua della ragione di scambio settoriale ossia del progressivo abbassamento del rapporto tra i prezzi dei beni venduti e quello dei prodotti o beni acquistati.” (Saccomandi, 1991b). Le specificità sopra esaminate causano una serie di conseguenze negative, quali la progressiva perdita di peso economico del settore primario rispetto agli altri settori dell'economia e l’esodo massiccio di forze lavoro, e soprattutto di giovani, dalle campagne. Nell’arco di appena cinquanta anni, l’agricoltura ha cessato così di essere il

16 La tesi dell’inferiorità dei redditi agricoli rispetto a quelli extra-agricoli viene, in realtà, sempre più spesso contestata. La misurazione del livello medio dei redditi agricoli tende infatti ad essere imprecisa. Ad esempio in Italia, le statistiche valutano i ricavi con riferimento ai prezzi all’ingrosso e ad una qualità standard, trascurando la possibile valorizzazione attraverso la vendita diretta o la differenziazione del prodotto in termini qualitativi e trascurano la valutazione delle entrate extraagricole e i divari di sostegno, e quindi di reddito, fra i vari comparti produttivi e fra aree agricole ricche e povere. D’altro canto la forza lavoro effettivamente attiva in agricoltura è altamente incerta per l’esistenza del lavoro nero, mentre il sistema di tassazione su base catastale impedisce altre valutazioni attendibili (Lizzi, 2000).

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settore “primario” dell’economia in termini di PIL e di occupazione e si è trasformato da serbatoio di braccia eccedentarie in un settore in cui il ricambio generazionale è frenato dalla scarsa redditività e in cui è necessario ricorrere a manodopera immigrata per i lavori stagionali. Se l’analisi macroeconomica evidenzia il peso declinante dell’agricoltura nei sistemi economici avanzati all’aumentare dello sviluppo stesso, ne trascura certamente il valore politico e strategico che emerge con forza nei momenti di penuria alimentare e nelle economie di guerra, rivestendo, il cibo, un’importanza vitale per la sopravvivenza umana. Non a caso, l’agricoltura è l’unico settore economico in cui la Comunità Europea ha definito una politica comune, sperimentando quell’approccio “funzionalista” e per “piccoli passi” postulato da Jean Monnet intorno al quale si è consolidata l’unità europea: lo spettro della guerra da poco conclusa ha certamente giocato un ruolo decisivo in questa direzione. Lo stessa svolta protezionistica della nuova politica agraria americana, all’indomani dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle, testimonia l’importanza strategica che nel periodo di tensione seguito agli avvenimenti dell’11 settembre 2001 si è tornati a dare all’agricoltura. Altre positività che fanno dell’agricoltura un settore strategico sono:

• lo stile di vita del sottosistema sociale espresso dal mondo agricolo-rurale e dall’azienda familiare diretto-coltivatrice;

• i nessi sempre più stringenti e scientificamente dimostrati fra cibo e salute e fra produzione agricola e ambiente;

• l’importanza strategica rivestita per alcuni paesi, fra cui gli USA in primo luogo, dalle esportazioni agricole e alimentari 17.

Riguarda alla prima positività, rappresentata dalla caratteristiche del sottosistema sociale espresso dal mondo agricolo-rurale, essa è fondata su uno stile di vita particolare e su unità produttive largamente rappresentate, anche nelle economie maggiormente industrializzate, da aziende familiari diretto-coltivatrici. Lo stile di vita del mondo agricolo-rurale, essendo scandito dalle stagioni, dal clima e dai ritmi vitali e biologici degli animali e delle piante, è fatto di flessibilità e capacità di adattamento ai ritmi naturali e alle condizioni esterne continuamente e imprevedibilmente mutevoli (orari, tecniche e modalità di lavoro non sempre programmabili). Per quanto riguarda invece il tipo di unità socio-economica prevalente, l’azienda familiare diretto-coltivatrice, le sue peculiarità sono: il carattere indipendente e autonomo del lavoro agricolo, la solidarietà intergenerazionale, il forte attaccamento alla terra, che perdura anche nelle aziende part-time; il carattere multifunzionale che è frutto della flessibilità dei componenti di questa unità socio-economica e del loro attaccamento alla terra. La persistenza dell’azienda familiare è interpretata, da alcuni, come conseguenza di interventi pubblici messi in atto

17 L’agricoltura americana ha sempre avuto una vocazione per l’esportazione, alla quale viene destinata circa la terza parte della produzione interna di cereali e oleaginose. In forza della posizione dominante da sempre detenuta sul mercato mondiale di questi prodotti, gli USA sono inoltre in grado di esercitare una notevole influenza sul flusso degli scambi mondiali e sul corso dei prezzi. Benché in calo rispetto ai livelli del decennio precedente, questa posizione dominante perdura ancora, tant’è che nel 2001/02 le quote di mercato degli USA sul prodotto totale scambiato nel mondo erano pari all’82% per il mais, al 53% per la soia e al 29% per il frumento. (Ventura et al., 2003).

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per favorirla, da altri, come elemento di specificità connaturato al tipo di attività svolta, da altri ancora, come segno di arretratezza del settore. (Lizzi, 2000). Da quando l’agricoltura, con lo sviluppo industriale, ha iniziato il suo lento declino rispetto agli altri settori economici, la questione agraria, ossia l’impoverimento ineluttabile degli agricoltori causato dalle caratteristiche strutturali e congenite al settore, ha rappresentato la giustificazione teorica per le politiche agricole di tipo assistenzialistico dei paesi sviluppati. Questo tipo di politiche non sono oggi più sostenibili, né sul piano internazionale né su quello interno. Nell’attuale contesto economico dei paesi sviluppati, infatti, alle prese con un’economia stagnante, con una forte disoccupazione e con una globalizzazione che mette sotto pressione i salari di tutti i settori esposti alla concorrenza internazionale, questo impoverimento riguarda oggi molti altri settori di attività tanto che sta portando alla scomparsa del ceto medio e ad una crescente polarizzazione della società nelle fasce estreme di reddito (Gaggi e Narduzzi, 2006) 18. Pertanto le future politiche agricole dovranno essere meno assistenzialistiche, più proiettate al mercato e più attente a supportare in chiave competitiva la multifunzionalità dell’agricoltura. 4. Conclusioni Come abbiamo osservato all’inizio della relazione, gli eventi degli ultimi anni, a partire dal crollo del muro di Berlino fino al tragico attentato di New York, hanno evidenziato due fenomeni contraddittori: da un lato si è assistito ad un’accelerazione della globalizzazione e del liberismo economico, ma anche dell’incertezza a tutti i livelli e in tutti i campi della vita quotidiana; dall’altro sono venuti in evidenza i sintomi di una “malattia” che nasce dai divari nelle condizioni di vita, dall’ostilità tra le culture e dall’assenza di strumenti per impedire il degenerare dei conflitti, politici, economici e religiosi e che ha accresciuto ulteriormente l’incertezza del mondo attuale. Vivere in una “società mondiale del rischio”, come la definisce Beck, in una società “figlia della globalizzazione e dello sviluppo tecnologico”, significa anche “che le conseguenze e i pericoli globali frutto delle decisioni della nostra civiltà sono in netto contrasto con il linguaggio del controllo istituzionalizzato e con la promessa di controllare la situazione nell’eventualità di catastrofi.” (Beck, 2002). L’altro risvolto della presenza accertata di pericoli è dunque il fallimento delle istituzioni, che da sempre hanno tratto la loro legittimazione dalla promessa di saperli tenere sotto controllo: oggi non possiamo infatti prevedere a cosa andremo incontro noi e le

18 La riduzione della sicurezza sociale e la stagnazione dell’economia spiegano anche la forte eterogeneità imprenditoriale che si osserva oggi nell’agricoltura europea, dove persiste una moltitudine di “aziende non imprese” accanto ad imprese vere e proprie. Il fatto che la crisi economica colpisca anche i redditi non agricoli e riduca la possibilità di impieghi alternativi tende a rallentare la scomparsa delle aziende, perché alcune famiglie sono obbligate a mantenere un’attività agricola (es. pensionati), mentre altre ricercano nell’agricoltura un’integrazione dei loro redditi. Tutto ciò ha ridotto rispetto alle previsioni la professionalizzazione dell’agricoltura, ossia la progressiva e attesa affermazione di aziende agricole professionali, e ha fatto emergere una nuova articolazione tra l’impresa familiare e il lavoro salariato, in grado di garantire maggiore protezione sociale (Allaire e Boyer, 1995).

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generazioni future, in conseguenza dello sfruttamento delle risorse, delle nanotecnologie, delle manipolazioni genetiche. Dopo gli eventi tragici dell’11 settembre l’insicurezza globale si è ulteriormente aggravata e la sicurezza ha assunto un significato diverso nella parte ricca e povera del mondo. Nella parte ricca del mondo, sicurezza significa“viaggiare, aprire lettere, bere acqua di rubinetto, senza temere insidie criminali; significa anche non sentirsi parte di una minoranza (forse un miliardo di persone) circondata da risentimento, invidia, disprezzo di gran parte della famiglia umana”, mentre nella parte povera del mondo significa “riparo dalla violenza fisica e politica, dal tormento della lotta per sopravvivere”. E’ tuttavia chiaro che nel mondo odierno globalizzato “nessuna delle due sicurezze è possibile senza l’altra” (Padoa Schioppa, 2002). Pertanto se l’11 settembre può essere interpretato anche come una reazione alle enormi disparità di ricchezza, i paesi sviluppati devono fare qualcosa di più rispetto a quanto hanno fatto finora. In particolare, è importante che essi smantellino le forme di sussidio più distorsive del commercio mondiale, quali le barriere all’importazione e i sussidi all’esportazione, le quali impediscono lo sviluppo economico dei paesi poveri del mondo che dipende largamente dall’agricoltura 19. Diventa così necessario ripensare la politica e il modo di intendere la sovranità degli Stati, costruendo un ordine politico su scala mondiale, capace di imporre principi e regole di condotta universalmente riconosciuti. La cosa non è semplice, in quanto pone evidenti problemi di rappresentatività e di legittimazione delle istituzioni che dovrebbero provvedervi. Dalla conferenza mondiale di Rio de Janeiro del 1992 a quella di Kyoto del 1997 sono stati firmati importanti trattati e sottoscritti impegni, ma sappiamo quanto sia difficile che diventino realtà. Come è stato osservato uno dei principali problemi connessi al processo di globalizzazione “non è se l’economia mondiale sia governabile in direzione di obiettivi ambiziosi come la giustizia sociale, l’eguaglianza tra i Paesi e un maggiore controllo democratico per gran parte della popolazione mondiale, ma piuttosto, se sia davvero governabile.” (Hirst e Thompson, 1996). Pur tuttavia non sembrano esserci strade alternative ad un ordine mondiale condiviso e costruito sui principi di democrazia, solidarietà e sullo stato di diritto e molto può fare, in tale direzione, la mobilitazione dell’opinione pubblica. E’ indubbio, infatti, che lo Stato Nazionale è divenuto troppo piccolo per affrontare i problemi globali e che un ordine mondiale esige istituzioni internazionali e un metodo di lavoro multilaterale. Una istituzione del genere, di grande importanza per il ruolo svolto anche in campo agricolo, è la WTO, nata come evoluzione del GATT, e attualmente impegnata a tentare di portare a termine il Doha Round che dovrebbe portare ad un’ulteriore liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli. Ma anche gli accordi internazionali in campo ambientale sono, evidentemente, di importanza fondamentale per l’agricoltura.

19 Uno studio della World Bank ha dimostrato, a questo ultimo proposito, che la liberalizzazione del commercio agricolo determinerebbe, da sola, circa i 2/3 della crescita complessiva ottenibile dalla liberalizzazione del traffico di tutte le merci. (Brown, 2004).

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Muovendo da queste considerazioni, quali prospettive si presentano per le agricolture dei paesi sviluppati? Questi paesi si trovano oggi ad un bivio. Da un lato, devono confrontarsi in un mercato sempre più globalizzato fronteggiando nuove richieste della società civile in materia di compatibilità ambientale, sicurezza alimentare, benessere animale, sicurezza sul lavoro. Queste richieste comportano costi aggiuntivi e riducono la redditività delle produzioni. Dall’altro, sono esposti a istanze internazionali di maggiore accesso ai propri mercati e di smantellamento dei sussidi alle esportazioni se non addirittura, come è emerso nel Summit di Cancùn del 2003, di gran parte dei sussidi interni alla produzione, compresi quelli disaccoppiati, considerati distorsivi anch’essi del commercio mondiale, in quanto le attività produttive sostenute cesserebbero in loro assenza. Si ritiene che, ferma restando la scelta liberistica che ne è alla base, la globalizzazione debba contribuire a salvaguardare il modello di vita raggiunto dalle società mature e i suoi aspetti positivi, che sono: la pace, la democrazia, la libertà e il concetto di sviluppo. Per quanto riguarda l’agricoltura, ciò significa soprattutto due cose. La prima è che i Paesi sviluppati devono aprirsi maggiormente al commercio internazionale dei prodotti agricoli. La seconda è che la globalizzazione deve ispirarsi ad un principio di “democrazia alimentare”, non deve cioè stravolgere le scelte alimentari consapevolmente operate dalle diverse società, omologando culture e tradizioni alimentari, e deve rispettare il concetto di multifunzionalità, utile affinché l’agricoltura e il territorio possano valorizzarsi reciprocamente. Sia il primo obiettivo che il secondo sono perseguibili solo attraverso un’applicazione su scala globale del principio di sussidiarietà e una maggiore attenzione della WTO per gli aspetti sociali e ambientali. Ad esempio, per la società europea democrazia alimentare significa rispetto e salvaguardia della tipicità di molte produzioni locali e di un livello alto di sicurezza alimentare (principio di precauzione e massima trasparenza nei confronti del consumatore). In base a tale principio, in sede WTO, occorrerebbe porre mano senza limitazioni alla questione dei prodotti tipici, riconoscendoli come vera e propria “proprietà intellettuale” dei territori, e accettare il principio di precauzione e dell’etichettatura dei prodotti GM, senza considerarli barriere al commercio internazionale. Inoltre, si dovrebbe ritornare a discutere della legislazione sui semi, estendendo anche agli ecotipi e alle varietà tradizionali non registrate il principio di equivalenza riconosciuto ai prodotti GM e liberalizzandone la coltivazione e lo scambio fra gli agricoltori. Ciò avrebbe il vantaggio di salvaguardare la biodiversità in modo più efficace ed efficiente di quanto avvenga attualmente, di recuperare sapori antichi e tradizionali dei luoghi e anche di prospettare, per questa via, possibili innovazioni di prodotto che nascano dalla rivitalizzazione di tradizioni alimentari. Il rispetto del concetto di multifunzionalità significa riconoscere all’agricoltura un ruolo di uguale importanza riguardo alla produzione e al rapporto con il territorio e l’ambiente e accettare che l’intervento pubblico, passando da un’attenzione preminente per il produttore ad un’attenzione preminente per il consumatore-cittadino e per le sue attese, assecondi, a seconda delle circostanze e dei contesti territoriali, agli aspetti di volta in

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volta ritenuti più strategici per lo sviluppo agricolo. Per la WTO ciò significa una maggiore attenzione per gli aspetti sociali ed ecologici. Una multifunzionalità più attenta al territorio e all’ambiente è importante soprattutto per l’agricoltura europea, caratterizzata da un’economia rurale diversificata e capace di “catturare” il valore di alcune amenità che caratterizzano i contesti locali, quali la presenza di risorse naturali, artistiche e culturali di pregio. Meno importante è per l’agricoltura americana, molto più vocata per la funzione produttiva legata alle grandi commodities e per l’esportazione. Per quanto riguarda le politiche agricole, il vecchio modello di tutela dei redditi agricoli, attraverso il sostegno dei prezzi e la protezione commerciale, appare ormai tramontato. Al suo posto, sta emergendo un modello più aperto al mercato e attento al ruolo multifunzionale dell’agricoltura, i cui strumenti restano però ancora in gran parte da definire. Ma la multifunzionalità va sostenuta come una scelta strategica costruttiva e non come un paravento per un perdurante protezionismo. Ciò implica la necessità di identificare con chiarezza le motivazioni dei sussidi e il contributo vario e distintivo che l’agricoltura può offrire alla società. Significa, in altri termini, spendere denaro pubblico in cambio di valore o aiutando le imprese ad orientarsi al mercato o in cambio di impegni ben precisi degli agricoltori 20. In definitiva le future politiche agricole dovranno essere meno assistenzialistiche, più proiettate al mercato e più attente a supportare in chiave competitiva la multifunzionalità dell’agricoltura. Riguardo alle politiche per la competitività, se vi è concordanza di idee sul fatto che lo Stato non debba interferire più nella produzione, che deve essere lasciata all’iniziativa privata, vi è altrettanta condivisione di idee sul fatto che l’economia di mercato richieda oggi una più attenta attività di regolamentazione almeno su quattro grandi settori particolarmente sensibili, ossia:

• la difesa dei produttori dalle conseguenze della fluttuazione dei prezzi e degli eventi estremi della natura;

• la ricerca e l’innovazione, che deve essere ripotenziata anche sul piano locale;

20 Relativamente alle politiche agricole, Brown distingue fra i tre seguenti approcci:

1. un approccio di tipo agrario/protezionista. Questo approccio pone al centro della politica agricola il mantenimento degli agricoltori nella loro terra e sostiene la necessità di politiche di protezione dalla concorrenza dei beni di importazione e di sostegno interno agli agricoltori affinché continuino l’attività agricola, garantendo, grazie solo alla loro presenza, i benefici multifunzionali dell’agricoltura;

2. un approccio ambientale. Questo approccio pone l’ambiente al centro della politica agricola e, al contrario dell’approccio agrario, ritiene che la società debba contrattare con gli agricoltori il modo di fare agricoltura per salvaguardare e valorizzare l’ambiente;

3. un approccio liberista. Questo approccio auspica che la produzione venga guidata dal mercato, riconoscendo la necessità dell’intervento pubblico di sostegno solo per rettificare taluni svantaggi dovuti alle diverse regolamentazioni del mercato e per indirizzare gli agricoltori, in contesti ristretti e ben identificati, ad una gestione del territorio rispettosa dell’ambiente.

Tutti e tre questi approcci, secondo Brown, possono convivere nella politica agraria comunitaria in quanto sono compatibili fra loro, sia pure in contesti diversi. (Brown, 2004)

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• la qualità e la sicurezza degli alimenti (prevenzione dei rischi e definizione di norme di qualità attente alle esigenze del consumatore);

• la politica in materia di concorrenza e la correzione della forte asimmetria nel potere di mercato fra l’industria e la distribuzione alimentare, da una parte, e l’agricoltura, dall’altra.

In quest’ultimo ambito l’intervento pubblico deve agevolare i processi di concentrazione dell’offerta da parte degli agricoltori (per ridurre i costi di transazione, programmare la produzione e definirne le norme di qualità, organizzare i processi di rintracciabilità) e garantire il rispetto dei dispositivi privati di coordinamento a carattere interprofessionale. Tali dispositivi (accordi interprofessionali) esistono, ma restano spesso poco operativi, anche se il bisogno di dialogo fra le varie componenti della filiera non cessa di manifestarsi mano a mano che l’economia di mercato progredisce. Lo Stato può fare molto per agevolare la realizzazione degli accordi interprofessionali, anche se il suo intervento non può divenire continuo scivolando così nell’assistenzialismo. Sul piano del sostegno interno occorrerebbe anche effettuare nuove scelte in materia di welfare. Il nesso sempre più scientificamente dimostrato fra qualità del cibo e stato di salute medio della popolazione non può essere trascurato da un “nuovo welfare”. Se il “vecchio welfare” poteva limitarsi alla ricerca dei modi per alleviare le conseguenze derivanti da una serie di patologie legate ai regimi alimentari, un “nuovo welfare” all’altezza delle aspettative dei cittadini non può non preoccuparsi di intervenire alla fonte con politiche di health promotion che includano la sicurezza alimentare (Zamagni, 2006). BIBLIOGRAFIA AA.VV. (2005): L’agricoltura e le biotecnologie, in Humus, n.17. ALLAIRE G., BOYER R. (a cura di) (1995): La grande trasformation de l’agriculture, Inra-Economica BATTILOSSI S. (2002): Le rivoluzioni industriali, Le Bussole, Carocci Editore, Roma BECATTINI G. (2000): Dal distretto industriale allo sviluppo locale. Svolgimento e difesa di un’idea, Bollati Boringhieri, Torino BECK U. (2002): Das Schweigen der Wörter. Über Terror und Krieg, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main; trad. It. Un mondo a rischio, Giulio Einaudi editore, 2003 BENATTI C. (2006): Ogm e salute: anche l’INRAN riconosce i rischi, in Aam Terra Nuova, maggio BEVILACQUA P. (2002): La Mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea, Donzelli Editore, Roma; recensito da Santucci F.M. in La Questione Agraria, n.4, 2002 BEVILACQUA P. (2004): Sicurezza alimentare paradosso dell’eccedenza, in Agricoltura-Istituzioni-Mercati, n.3 BOGGIA A., PENNACCHI F. (a cura di) (1999): Sviluppo agricolo sostenibile del bacino del Trasimeno, Regione dell’Umbria BROWN N. (2004): Le visioni europee, in De Castro P. (a cura di), Verso una nuova agricoltura europea, Agra Editrice BRUNI L., ZAMAGNI S. (2004): Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna

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