rubolino

15
CLAPS NELLA LISTA DEI 400 - UN ANEMONE PER ELISA di Rita Pennarola [ 02/06/2010] In una vicenda costellata di omissioni ed omerta', vissuta all'ombra di potenti prelati ed altolocati massoni, l'appunto sul caso Claps ritrovato nella lista di Diego Anemone apre forse il primo squarcio di verita'. Ecco personaggi e circostanze che collegano i due casi giudiziari, con una zoomata su alcuni particolari inediti nella carriera del rampante imprenditore e dei suoi amici. La domanda di fondo circola fin dalle prime ore. Praticamente da quando, a febbraio di quest'anno, esplode sui giornali l'inchiesta del gip di Firenze Rosario Lupo sui grandi appalti della cricca, la stessa che vede fra gli indagati Guido Bertolaso. E tutti, man mano che escono i particolari, a chiedersi: ma come e' possibile che una sconosciuta impresa di costruzioni con un modesto capitale sociale sia stata destinataria di opere pubbliche per miliardi? Potevano bastare i soli favori al numero uno del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, a Bertolaso e ad un manipolo di grand commis, a giustificare tanta grandeur? Ad aprile, grazie alle deposizioni di un ex autista del gruppo, vengono alla luce le entrature del trentanovenne Diego Anemone, leader dell'impresa, con personaggi che contano oltretevere: non solo il gentiluomo del papa Balducci, ma anche don Evaldo Biasini, economo della Congregazione del Preziosissimo Sangue di Cristo, e soprattutto monsignor Francesco Camaldo, uno degli uomini piu' vicini a papa Benedetto XVI. Ed e' proprio la figura di monsignor Camaldo che ci conduce dentro uno dei misteri piu' inquietanti collegati al caso Anemone. Parliamo del caso Claps. ELISAe#8200;Ee#8200;LEe#8200;TOGHEe#8200;LUCANE Dopo il ritrovamento, nella lista dei 400 clienti sequestrata a Diego Anemone, di ben due appunti con la scritta “Claps Potenza”, le ipotesi sul collegamento fra personaggi della cricca e la scomparsa a settembre 1993 della giovane Elisa Claps (i cui resti sono stati rinvenuti poche settimane fa nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinita' a Potenza), hanno infatti cominciato a rincorrersi. Fino a quando Gildo Claps, fratello della ragazza, riprendendo una dichiarazione di alcuni

description

rubolino

Transcript of rubolino

Page 1: rubolino

CLAPS NELLA LISTA DEI 400 - UN ANEMONE PER ELISA di Rita Pennarola [ 02/06/2010]

In una vicenda costellata di omissioni ed omerta', vissuta all'ombra di potenti prelati ed altolocati massoni, l'appunto sul caso Claps ritrovato nella lista di Diego Anemone apre forse il primo squarcio di verita'. Ecco personaggi e circostanze che collegano i due casi giudiziari, con una zoomata su alcuni particolari inediti nella carriera del rampante imprenditore e dei suoi amici.

La domanda di fondo circola fin dalle prime ore. Praticamente da quando, a febbraio di quest'anno, esplode sui giornali l'inchiesta del gip di Firenze Rosario Lupo sui grandi appalti della cricca, la stessa che vede fra gli indagati Guido Bertolaso. E tutti, man mano che escono i particolari, a chiedersi: ma come e' possibile che una sconosciuta impresa di costruzioni con un modesto capitale sociale sia stata destinataria di opere pubbliche per miliardi? Potevano bastare i soli favori al numero uno del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, a Bertolaso e ad un manipolo di grand commis, a giustificare tanta grandeur?Ad aprile, grazie alle deposizioni di un ex autista del gruppo, vengono alla luce le entrature del trentanovenne Diego Anemone, leader dell'impresa, con personaggi che contano oltretevere: non solo il gentiluomo del papa Balducci, ma anche don Evaldo Biasini, economo della Congregazione del Preziosissimo Sangue di Cristo, e soprattutto monsignor Francesco Camaldo, uno degli uomini piu' vicini a papa Benedetto XVI. Ed e' proprio la figura di monsignor Camaldo che ci conduce dentro uno dei misteri piu' inquietanti collegati al caso Anemone. Parliamo del caso Claps.

ELISAe#8200;Ee#8200;LEe#8200;TOGHEe#8200;LUCANEDopo il ritrovamento, nella lista dei 400 clienti sequestrata a Diego Anemone, di ben due appunti con la scritta “Claps Potenza”, le ipotesi sul collegamento fra personaggi della cricca e la scomparsa a settembre 1993 della giovane Elisa Claps (i cui resti sono stati rinvenuti poche settimane fa nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinita' a Potenza), hanno infatti cominciato a rincorrersi. Fino a quando Gildo Claps, fratello della ragazza, riprendendo una dichiarazione di alcuni investigatori locali, ha escluso che quel riferimento potesse riguardare la sua famiglia, ricordando che il cognome Claps e' assai diffuso in citta' e provincia.Eppure sono numerosi i passaggi e i personaggi dell'inchiesta Anemone che riconducono a Potenza ed in particolare a quello strano intreccio fra Opus Dei e massoneria che affiora pari pari in entrambe le vicende. Cominciamo da Achille Toro, quello stesso procuratore aggiunto della capitale che di fatto contribui' in maniera decisiva a stroncare l'inchiesta di Luigi De Magistris su Why Not e Toghe Lucane sequestrando l'archivio del consulente informatico Gioacchino Genchi. Il nome di Achille Toro, pesantemente coinvolto nelle indagini sul caso Anemone (tanto da aver fatto spostare per competenza la inchiesta a Perugia), torna oggi sul tavolo del pm umbro Sergio Sottani anche per le conversazioni con Oliviero Diliberto, all'epoca dei fatti ministro della giustizia. Tanto Diliberto quanto Toro risultano essere amici personali di un autentico trait d'union fra Opus Dei e massoneria come il piduista Giancarlo Elia Valori. Nella Propaganda 2 di Licio Gelli spiccava anche il nome di Vittorio Emanuele di Savoia, uno fra i personaggi piu' strettamente legati a monsignor Franco Camaldo, a sua volta frequentatore assiduo di Anemone.Ma le indagini di De Magistris, stoppate da Toro, gettavano una luce nuova e del tutto particolare proprio sul caso Elisa Claps. Ecco, in sintesi, il quadro che emergeva e che era stato minuziosamente documentato dai pm salernitani Luigi Apicella (il procuratore capo bruscamente destituito proprio per aver indagato sui magistrati di Potenza e di Catanzaro), Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani (entrambi trasferiti d'ufficio dal Csm per la stessa vicenda). Fra i principali indagati di Toghe Lucane c'erano infatti proprio il pm del caso Claps, Felicia Genovese, ai tempi

Page 2: rubolino

dell'inchiesta De Magistris ancora in servizio a Potenza, e suo marito Michele Cannizzaro, direttore generale all'epoca del locale ospedale San Carlo. I due denunciano a Salerno De Magistris. Ma proprio la ricostruzione resa da Apicella e dai suoi pm suona come un potente j'accuse, anche in merito al caso Claps. Negli atti - che alla luce delle attuali inchieste sembrano assumere sempre nuove conferme - si ricostruisce quanto aveva rivelato nel ‘99 il collaboratore di giustizia Gennaro Cappiello al pubblico ministero della Dda di Potenza Vincenzo Montemurro. Secondo Cappiello a causare la morte della ragazza era stato il giovane Danilo Restivo. E - particolare importante - il fatto sarebbe avvenuto presso la scala mobile della citta', a quell'epoca in fase di costruzione, dove il corpo di Elisa sarebbe stato in un primo momento sepolto. La prima scala mobile di Potenza e' stata inaugurata nel 1994.De Magistris indagando sulle Toghe lucane aveva peraltro accertato la comune appartenenza alla massoneria fra Cannizzaro e il padre di Danilo, Maurizio Restivo. Quest'ultimo, secondo Cappiello, aveva «contattato il Cannizzaro accordandosi per la somma di 100 milioni di lire affinche' intervenisse sulla moglie, dottoressa Genovese, titolare delle indagini riguardanti il caso della scomparsa della Claps». In seguito alle verbalizzazioni di Cappiello, il caso Claps passa alla Procura di Salerno (quella che tuttora ha riaperto l'inchiesta). Ma «l'esame dell'attivita' investigativa svolta e coordinata dalla Procura di Potenza, in persona del pubblico ministero Dr. Genovese - scrivono nel 2007 Apicella, Nuzzi e Verasani - evidenziava che nella immediatezza della notizia della scomparsa, nessuna perquisizione era stata disposta ne' sulla persona del Restivo Danilo, ne' presso la abitazione familiare ovvero altri luoghi nella sua diretta disponibilita'». La Genovese, che da quelle vicende non ha mai subito alcun rinvio a giudizio o condanna, fin dai tempi di Toghe lucane esercitava - come risulta dalle intercettazioni - pressanti richieste sul Csm per ottenere il trasferimento a Roma. Dove da qualche anno e' in servizio come giudice a latere in corte d'appello.Ma intanto oggi, dopo l'arresto avvenuto nelle scorse settimane in Inghilterra di Danilo Restivo, accusato dell'omicidio con modalita' analoghe di altre due donne, la versione dei fatti resa da Cappiello torna al vaglio della procura salernitana guidata da Franco Roberti. E la domanda che circola sulla bocca di tanti e': se appare difficile immaginare che il corpo della ragazza sia rimasto per tanti anni nella chiesa senza che nessuno se ne accorgesse, non e' possibile che vi sia stato trasportato in tempi piu' recenti e che fino ad allora sia rimasto sepolto proprio sotto la costruenda scala mobile? Quale o quali imprese edili hanno lavorato all'epoca - o in tempi piu' vicini a noi - dalle parti di quell'impianto? E il gruppo Anemone - o ditte subappaltatrici ad esso riconducibili - hanno avuto lavori in questi anni a Potenza? Potrebbe essere in questa domanda la chiave del mistero che gira intorno a quell'appunto rinvenuto nella lista dei 400. Anche perche', dopo i primi accertamenti, pare escludersi la pista dell'omonimia invocata dagli investigatori potentini. Troppi i nomi, troppe le coincidenze con un clero, come quello lucano, che vede ai suoi vertici uomini quale monsignor Camaldo, oggi e, in passato, don Donato De Bonis, numero due dello Ior ai tempi del crac Ambrosiano e della scomparsa di Roberto Calvi.VOGLIOe#8200;UNe#8200;LUCANOMa e' anche dalle pagine dell'inchiesta fiorentina sui grandi appalti che spuntano collegamenti - talvolta inediti - tra l'affaire Anemone ed un territorio strategico come la Basilicata. Un autentico crocevia di trame e affari, la terra di Lucania, con un formidabile cemento che si chiama petrolio, l'oro nero estratto dal sottosuolo dell'unica regione d'Italia che ne possieda, insiema alla Sicilia.Che Diego Anemone non fosse rimasto - soprattutto negli ultimi tempi - insensibile al fascino del petrolio lucano lo dimostra il pressing sull'amico Balducci per far entrare nel collegio sindacale dell'Eni, il colosso petrolifero italiano, il commercialista di fiducia del gruppo di Grottaferrata, Stefano Gazzani. Il quale, gasatissimo, commenta al telefono: «Che cazzo me ne frega a me (dei soldi, ndr)? Io voglio dire, tanto il collegio sindacale dell'Eni, vado li' se mi nominano, mi daranno 50mila euro l'anno perche' quello e' il tetto massimo delle parcelle, ma non e' tanto quello, e' quello di mettersi seduto allo stesso tavolo con Scaroni». Magari per Anemone sedere vis a vis con Scaroni poteva avere un altro significato.Di sicuro quando fra 2006 e 2007 esplode l'inchiesta del pm di Potenza (oggi a Napoli) John Woodcock che, partita dal filone Vallettopoli, arriva fino a Vittorio Emanuele di Savoia e suo figlio

Page 3: rubolino

Emanuele Filiberto, il capoluogo lucano diventa agli occhi dell'opinione pubblica internazionale quell'epicentro di interessi miliardari e sotterranei che molti giurano di aver verificato personalmente, e da tempo. A raccontarlo davanti ai pm potentini, in quel periodo, era il multiforme imprenditore Massimo Pizza. Le cui dichiarazioni indussero Woodcock ad ordinare l'acquisizione degli elenchi dei massoni presso tutte le prefetture italiane. Ed e' sempre dalle verbalizzazioni di Pizza che l'indagine conduce a personaggi come «un certo monsignor Franco Camaldo». Lo stesso alto prelato che oggi scopriamo essere in rapporti di frequentazione assidua con Diego Anemone. Fin dal 2006, in realta', seduto dinanzi a Woodcock, Camaldo tira in ballo per la prima volta il nome dell'allora “adamantino” provveditore alle opere pubbliche Angelo Balducci. Col quale c'era gia', a quanto pare, una solida “comunione” d'intenti. Camaldo ammette di aver introdotto in Vaticano, a tale Ugolini, Massimo Pizza ed il suo socio Massimiliano Corradetti, per un affare immobiliare poi andato male, con denaro anticipato e non restituito. «Io mi sentivo per questo - geme Camaldo - in dovere spirituale, morale, etico (...). Siccome Ugolini mi pregava ed era disperato, appunto, e voleva questi 380 mila euro, io mi sono fatto prestare questi 380 mila euro da un altro signore amico suo, tale Balducci, che e' un alto funzionario. (...) In parte me li sono fatti prestare, in parte lui li ha prelevati da un conto corrente sullo Ior del padre».Quello che non sapevamo, tre anni fa, e' che quella “comunione” fra Camaldo e Balducci forse non era solo di tipo affaristico. A collegarli era, quanto meno, la comune inclinazione per i giovani. Meglio se prestanti e possibilmente palestrati. Se su Camaldo si conoscono piu' che altro le frequentazioni alle feste omosex organizzate dallo stilista Gay Mattiolo, maggiori dettagli sono emersi sulle preferenze sessuali di Angelo Balducci. Grazie alla “intercessione” di un religioso nigeriano, a Balducci vengono proposti ragazzi dalle eccezionali prestazioni: «Non ti dico altro e' alto due metri per 97 chili, 33 anni, completamente attivo... ». O anche: «uno un po' piu' alto di me, palestrato, un bel tipo completamente attivo, moro, capelli corti, e' un'ottima soluzione se no non avrei insistito». Alla fine: «Sto in Vaticano - si legge in un sms - ora non posso parlare».

DAIe#8200;SAVOIAe#8200;Ae#8200;SPIAZZIClasse 1952, lucano di Lagonegro, vanitoso quanto basta per aprire nel 2009, prima della nuova bufera mediatica, un sito internet auto-agiografico (francescocamaldo.it) e da gestire ancora oggi una paginata su facebook con tanto di fotografia (dalla quale di recente ha prudentemente cancellato la voce “amici”), Camaldo, “attenzionato” dalla Procura di Potenza, nel 2007 lascia emergere suo malgrado quei collegamenti con i Savoia che porteranno di li' a poco l'erede al trono dietro le sbarre. Nell'ambito delle indagini sul duo Pizza-Corradetti, infatti, viene a galla l'attivita' svolta da Camaldo, Pizza e da Emanuele Filiberto per oscurare un sito internet sgradito ai potenti dell'ordine cavalleresco della real casa, quello dei Santi Maurizio e Lazzaro. Del resto, raccontava su Adista Luca Kocci, «Camaldo e' stato il “regista” della visita dei Savoia in Vaticano, il 23 dicembre 2002», ha organizzato le nozze tra Emanuele Filiberto e Clotilde Courau e battezzato la primogenita dell'augusta coppia. A suggellare cotanta intesa e' l'unica ascendenza dinastica fra l'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e l'altra convention cavalleresca di cui Camaldo e' ai vertici: si tratta dell'Ordine del merito sotto il titolo di San Giuseppe, nella cui “Gran Cancelleria” (con sede a Calenzano, vicino Firenze) siede ancora oggi il presule lucano. Sotto l'egida del «Gran Maestro S. A. I. e R. Arciduca Sigismondo d'Asburgo Lorena Toscana, Gran duca titolare di Toscana, Arciduca di Austria, Principe reale di Ungheria e di Boemia», ecco sfilare una parata di duchi, marchesi, eccellenze venerabili ed eminenze varie. Pochi i semplici “On.”, quale e' ad esempio Riccardo Nencini, ex presidente del consiglio regionale della Toscana. O i “Prof.”, come lo storico Franco Cardini.Un nome spicca fra tutti. Come la Voce aveva scritto fin dal 2007, tra i “commendatori” dell'Ordine di San Giuseppe c'e' tuttora il «Gen. Dott. Amos Spiazzi di Corte Regia». Si tratta del neofascista che fu definito dal giudice Felice Casson «un convinto e irriducibile cospiratore». Arrestato nel 1974 per il golpe della “Rosa dei venti” e condannato a cinque anni, fu assolto in appello. «Analogo esito - scriveva la Voce nel 2007 - aveva subito la condanna all'ergastolo per la strage della questura di Milano. Non appena riabilitato, il camerata Spiazzi, che si proclama “vittima” della malagiustizia

Page 4: rubolino

italiana, nel 2002 ha fondato i “Fasci del lavoro” in provincia di Mantova. E si da' da fare, oltre che nell'Ordine di San Giuseppe, anche nell'altra corazzata dai contorni massonici, le Guardie d'onore di Napoleone: un consesso “nobiliare” che rilascia titoli accademici, baronie e marchesati compresi, a coloro che si iscrivono ai corsi per body guard e mercenari sui luoghi di guerra organizzati fra Genova e Milano».

UNe#8200;RUBOLINOe#8200;PERe#8200;AMICODurante il primo interrogatorio dinanzi a Woodcock il gran cerimoniere del papa, Francesco Camaldo, aveva ammesso di conoscere non solo Massimo Pizza, ma anche Giorgio Rubolino. Personaggio rimasto per molti aspetti misterioso, figlio di un pretore di Torre Annunziata, molto legato ad un ex ministro dc, il lucano Emilio Colombo, Rubolino fu ucciso da un infarto ad agosto 2003. Aveva 42 anni. ll suo nome era balzato alle cronache nell'ambito dell'inchiesta sull'omicidio di Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino ucciso nel settembre 1985. La frequentazione fra Rubolino e Camaldo riaccende gli interrogativi su quelle esequie in pompa magna del giovane, svoltesi nella chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri, unica parrocchia dello Stato Vaticano. Ad officiare il rito funebre - per il quale occorre una autorizzazione speciale - era stato il cappellano delle guardie svizzere Alois Jehle. Episodio rimasto oscuro, cosi' come la sepoltura nella basilica di Sant'Apollinare del boss della banda della Magliana Renatino De Pedis. Quella volta il disco verde arrivo' dal cardinale Ugo Poletti. Del quale, in quel periodo, monsignor Camaldo era segretario particolare. Ma l'amicizia fra Camaldo e Rubolino fa scuotere, forse, anche altri, vecchi fantasmi. Qualcuno torna con la memoria proprio a quella casa d'appuntamenti in via Palizzi, a Napoli, che per lungo tempo rappresento' la pista numero uno per cercare una motivazione vera al brutale assassinio di Giancarlo Siani. Giorgio Rubolino, che pure fu coinvolto fin dal primo momento proprio per le sue frequentazioni in quella casa - dov'erano ospiti abituali numerosi vip della politica e della magistratura partenopea, alcuni dei quali vennero identificati - fu in seguito scagionato da ogni accusa. «Rimase - osserva alla luce dei fatti attuali una fonte investigativa dell'epoca - e rimane ancora oggi il dubbio lasciato aperto dalle indagini: essere scoperti a frequentare una casa a luci rosse, sia pure clandestina, non sembrava un motivo sufficiente per far ammazzare un cronista “ficcanaso”. A meno che non si trattasse, fin da allora, di un appartamento dove, con la “copertura” di allegre signorine, i vip incontravano quei muscolosi ragazzoni, magari travestiti da femminuccia, che incrociamo nelle cronache giudiziarie di oggi. E questo, per la mentalita' degli anni ottanta, poteva essere davvero troppo». Un caso Marrazzo ante litteram? Staremo a vedere.

L'ANEMONEe#8200;Ee#8200;IL TO. RO. Noi, intanto, torniamo ad un altro mistero, il quesito iniziale sulle vere ragioni dell'exploit imprenditoriale degli Anemone. E proviamo a guardare da vicino alcuni aspetti, finora inesplorati, dell'impero di famiglia. L'intreccio di sigle e personaggi e' stato portato per buona parte alla luce dall'inchiesta di Firenze. Eppure una semplice visura camerale sulle cariche aziendali del rampante Diego mostra la sua presenza diretta in due sole societa'. La prima e' ovviamente la cassaforte di famiglia, quella snc “Anemone di Luciano Anemone e C.” che rappresenta il core business originario del gruppo. Ma nulla e' finora emerso sull'altra sigla che lo vede in pista come primattore: si tratta di “TO. RO. Societa' consortile a responsabilita' limitata” con sede a Torino, nel centralissimo corso Matteotti. La sigla - e' bene chiarirlo subito - non compare nelle indagini della procura fiorentina, cosi' come non figurano fra quelle pagine i nomi dei suoi soci o consiglieri. Tutti fuori. Tranne, appunto, il dominus Diego Anemone. Il consorzio torinese viene fondato sotto Natale, il 21 dicembre del 2001, con appena 10 mila euro di capitale sociale. Gli stessi che detiene tuttora. A giugno dell'anno successivo comincia ad operare nel settore di pertinenza: “costruzione di edifici residenziali e non”. Fino a tutto il 2008 dichiara un solo dipendente.

Page 5: rubolino

Ma lo scopo primario del Consorzio nato all'ombra della Mole viene dichiarato fin dal suo oggetto sociale: «l'esecuzione dei lavori di restauro, consolidamento, adeguamento funzionale ed impiantistico degli immobili situati in Roma, via Del Clementino 91A, da destinarsi a nuova sede dell'avvocatura generale dello Stato, che il ministero dei lavori pubblici, provveditorato alle opere pubbliche per il Lazio, ha affidato all'associazione temporanea di imprese formata dalle stesse imprese costituenti la presente societa' consortile». Rappresentate, fin dall'inizio, dall'allora appena trentenne geometra Diego Anemone, in compagnia di manager e tecnici di fiducia del colosso piemontese “Rosso Costruzioni”. Questi ultimi, in prima battuta, sono Andrea Mosca Goretta, 59 anni, milanese, e il torinese Stefano Zerbi, 55 anni, ancora oggi presente nel fitto arcipelago “Rosso” (la “Rubattino ovest” nel capoluogo lombardo, la padovana “Binario spa”, dall'evidente vocazione ferroviaria, fino al “Consorzio RC ‘09” ed alla casamadre “Impresa costruzioni geom. Francesco Rosso e Figli spa” di corso Matteotti. Primo presidente del cda e' Mosca Goretta. Ma i patti sono chiari fin da subito: Non puo' effettuare alcuna operazione bancaria, assunzioni o licenziamenti, senza «la firma congiunta del consigliere geom. Diego Anemone». Una clausola ferrea che ritroveremo nel corso degli anni, fino all'attuale gestione. Stessa musica, percio', nel 2004, quando Mosca lascia il vertice e gli subentra il giovane Francesco Rosso, classe 1974, erede della corazzata edile piemontese. Ci avviciniamo cosi' ai nostri giorni: nel 2008, dopo una parentesi di gestione affidata al romano Fabrizio Perrini, balza al comando il napoletano Claudio Moro. 59 anni, residente nella capitale, Moro e' rappresentante del gruppo Rosso anche nella “Mida Park”, sede ai Parioli, che ha costruito parcheggi pubblici in diverse zone di Roma su licenza rilasciata dall'allora sindaco Walter Veltroni. Da aprile 2009 presidente del Consorzio TO. RO. (sempre con le limitazioni della firma congiunta di Anemone) e' lo stesso Giampaolo Rosso, 70 anni, a capo della holding torinese e presente con quote di maggioranza (51% contro il 49% di Diego Anemone) nel Consorzio.Resta da capire cosa spinga un gruppo, quale quello guidato da Rosso, che dichiara un fatturato di oltre 110 milioni di euro, un utile di 4 milioni e passa (dati 2008) e clienti come Fiat o Pirelli, ad accettare fin dal 2001 il rigido controllo su qualsiasi operazione bancaria nel Consorzio TO. RO. da parte di un partner di minoranza - e all'epoca sconosciuto - come il “geom. Diego Anemone”. Impensabile che si tratti di operazioni “a perdere”, benche' dai conti sulla carta, sempre nel 2008, il Consorzio Rosso-Anemone fatturi circa 1 milione e mezzo di euro e dichiari un lieve deficit (poco piu' di 5.000 euro). Fra le principali commesse della “Rosso Costruzioni” (spesso in partnership con altri soggetti) spiccano il nuovo stadio della Juventus (valore dell'appalto: 70 milioni), il nuovo stabilimento Pirelli a Settimo Torinese, i lavori per le Olimpiadi 2006 a Torino e, dulcis in fundo, la Scuola Carabinieri a Firenze. Proprio lo stesso appalto che aveva fatto accendere i riflettori della magistratura locale: indagando sull'urbanizzazione di quell'area, che e' di proprieta' di Salvatore Ligresti, i pm hanno avviato l'inchiesta che sarebbe poi arrivata a travolgere Anemone, Balducci, Bertolaso e C. Cucu'...

* * *

PUPO, EMANUELE E I PUPARIRestando nell'orbita di monsignor Franco Camaldo e delle sue altolocate amicizie non puo' che ritornare alla ribalta la chiave del connubio inscindibile, sulla scena televisiva italiana, tra il rampolo di casa Savoia, Emanuele Filiberto, ed il cantante Pupo, al secolo Enzo Ghinazzi. Un duo che alla Rai va fortissimo, con il cantante che impazza da “I Raccomandati” a “Ciack si canta” ed il principe a far da valletto, rigorosamente muto ed impacciato. Se e' nota la stretta amicizia fra il potente Camaldo ed i notabili della Real Casa, meno conosciuta e' la vicinanza alla massoneria di Pupo. Portata alla luce in una intervista a tutto campo di Claudio Sabelli Fioretti per il Corriere della Sera Magazine nel 2005, la vicenda era stata rispolverata qualche tempo fa, dopo gli exploit del cantante a Rai 1, dal Riformista. Vicende che oggi trovano una luce nuova. Cia' che il Riformista non ricorda e' che in quell'intervista

Page 6: rubolino

infatti Pupo, originario di Arezzo, non solo ammetteva di essere stato iscritto alla massoneria («poi me ne sono uscito», spiegava, dimenticando che le regole sottoscritte permettono al massimo di entrare “in sonno”), ma rivelava anche di conoscere bene i figli del venerabile, Maurizio e Raffaello Gelli. Ed e' da qui, probabilmente, che s'impone il tandem fra Pupo ed Emanuele Filiberto, figlio di quello stesso piduista Vittorio Emanuele seduto al vertice del medesimo ordine cavalleresco in cui brilla la stella di monsignor Camaldo.

Monsignor mistero. La vera storia delle morti in VaticanoDi Andrea Cinquegrani - "La Voce della Campania" - pubblicato su Nuovi Mondi Media

Vaticano in fibrillazione. Santa Sede sotto i riflettori. Torna alla ribalta la misteriosa - e mai chiarita - morte di papa Luciani dopo appena 33 giorni di pontificato. Ne parla Giovanni Minoli nella nuova serie di Mixer. Riaffiorano dubbi, incongruenze, versioni contrastanti, una verità ufficiale poco, pochissimo credibile. Un'autopsia mai fatta, rapide perizie nel segreto delle stanze vaticane, un cuore normale che improvvisamente cede; l'incredibile storia delle gocce di cardiotonico ingurgitate in eccesso dal papa, l'altra - invece - a base di una digitalina che non lascia traccia. Morto in piedi, oppure a letto? Mentre leggeva sacre scritture o abbozzava il nuovo organigramma dei vertici pontifici? Oppure cominciava a mettere nero su bianco le nuove regole da impartire a uno Ior recalcitrante davanti a ogni ipotesi di trasparenza, col 'nemico' Marcinkus sempre alacremente all'opera? E poi il sogno di una suora, ricordato in uno scritto da monsignor Balthazar: due ombre si introducono furtive nella camera da letto di Luciani e nel suo bicchiere fanno scorrere il liquido di una misteriosa pozione. Dall'Inghilterra, intanto, lo scrittore-giornalista David Yallop - autore per Tullio Pironti di una celebre ricostruzione di quella 'morte' - continua con pervicacia a sostenere la sua tesi: il papa venne 'suicidato'.

Così come venne 'suicidato', sotto il ponte dei frati neri lungo il Tamigi a Londra, il patròn del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi. L'inchiesta è riaperta, la famiglia dopo tanti anni vuole finalmente giustizia."Il rituale dell'esecuzione - scrive l'avvocato investigativo californiano Jonathan Levy nel volume Tutto quello che sai è falso edito in Italia da Nuovi Mondi Media - è tipicamente massonico, con delle grosse pietre nelle tasche". E la matrice? Levy punta dritto in una direzione: quella dei poteri forti della Chiesa, rappresentati secondo lui dall'Opus Dei, che - scrive - "ha desiderato ardentemente la Banca Vaticana e i cui quartieri generali si trovano casualmente a Londra".La spiegazione, ricavata dalle conversazioni con un grosso banchiere internazionale, viene così sintetizzata: "Mi spiegò che la banca di Calvi era sull'orlo del collasso a causa della sparizione di centinaia di milioni di dollari passati attraverso i flussi finanziari dello Ior che erano collegati al riciclaggio di danaro della mafia. Preso dalla disperazione Calvi si trasferì a Londra per ottenere un pacchetto finanziario di salvataggio proveniente da un rappresentante anziano dell'Opus Dei". L'operazione però, secondo la ricostruzione di Levy, non andò in porto e il corpo di Calvi fu trovato 'appeso' sotto il ponte dei Blackfriars.L'altra pista porta direttamente alla mafia, che si sarebbe vendicata dell'affronto subito da Calvi, il quale non avrebbe restituito un'ingente somma di danaro da 'ripulire' (utilizzato invece per riossigenere le casse dell'Ambrosiano). Sul fronte dell'esecuzione, comunque, fa ancora capolino la pista di camorra: "nei giorni in cui Roberto Calvi era a Londra - ricordano a Scotland Yard - vennero segnalate diverse presenze interessanti: quella di Flavio Carboni e di alcuni camorristi, fra cui Vincenzo Casillo". Luogotenente di Raffaele Cutolo, soprannominato 'o nirone, in contatto con i servizi deviati e in particolare col faccendiere Francesco Pazienza, Casillo due anni dopo saltò per aria a Roma in un'auto imbottita di tritolo.

A fine settembre scorso, poi, due botti. A Londra la polizia decide di riaprire le indagini su quella morte, a Roma l'inchiesta portata avanti dai pm Luca Tescaroli (che ha già indagato sulla strage di Capaci) e Maria Monteleone (casi Mitrokin e "spectre" all'italiana) si arricchisce di una verbalizzazione esplosiva: un pentito di mafia, Vincenzo Calcara, per l'omicidio Calvi tira in ballo Giulio Andreotti, elementi deviati dello Stato e dei Servizi, massoneria e ambienti vaticani. E sotto il Cupolone ci porta anche un'altra esistenza - e un'altra fine - avvolta nel mistero: quella di Giorgio Rubolino, morto in piena calura ferragostana, immediata la diagnosi d'infarto che non perdona, niente autopsia, funerali in pompa magna in Vaticano, poi il silenzio. Fino alla decisione dei magistrati romani, dopo neanche un mese, di vederci più chiaro, chiedendo la riesumazione del cadavere per poter effettuare una normale autopsia. Ma chi era Rubolino?

UNA VITA VORTICOSAIl suo nome balza alle cronache nazionali per l'omicidio di Giancarlo Siani, il giornalista ucciso il 23 settembre 1985 (vedi riquadro). Due anni dopo il procuratore generale del tribunale di Napoli, Aldo Vessia, avoca a sé l'inchiesta bollente, fino a quel momento capace solo di racimolare una serie di flop. Vessia vola negli Usa, e interroga Josephine Castelli, un'avvenente bionda al centro di strani giri. Dopo un paio di mesi scattano le manette per il capoclan di Forcella Ciro Giuliano, per un 'gregario', Giuseppe Calcavecchia, e per un insospettabile, il ventiseienne Giorgio Rubolino, intimo di Josephine, una stirpe di

Page 7: rubolino

magistrati nel pedigree (il padre è stato pretore a Torre Annunziata), già inserito negli ambienti che contano (fra le alte prelature soprattutto) e nella Napoli bene. Per lui inizia il calvario, quattordici mesi nel carcere di Carinola, fino a quando una delle tante toghe che si sono alternate al capezzale di un'inchiesta che non riesce a decifrare colpevoli (esecutori e, soprattutto, mandanti), Guglielmo Palmeri - sorrentino d'origine e in ottimi rapporti con la famiglia Rubolino - lo rimette in libertà (due mesi prima erano stati rilasciati anche Giuliano e Calcavecchia). Cade il teorema Vessia, non regge l'ipotesi di un omicidio eseguito dai Giuliano su ordine dei Gionta di Torre Annunziata. E, soprattutto, sparisce la pista di via Palizzi. La pista che portava alla casa d'appuntamenti, frequentata da giovanissime squillo (tra cui Josephine e la sorella Pandora), e da vip della Napoli che conta: in primis, magistrati e politici. Fra le toghe, spicca il nome di Arcibaldo Miller, per anni pm di punta alla procura di Napoli (sua la maxi istruttoria per il dopo terremoto finita in prescrizione per tutti) e oggi 007 di punta del guardasigilli Castelli. Lo stesso Miller - viene precisato in un documento al vetriolo elaborato dalla camera degli avvocati penali di Napoli nel 1998 - ha subìto un procedimento per "trasferimento d'ufficio" a causa di una serie di fatti, fra cui "l'aver frequentato una casa di appuntamenti gestita da pregiudicati affiliati alla camorra negli anni 1984-1985 in via Palizzi". Lo stesso Miller seguirà il caso Siani: collaborerà proprio con Palmeri per cercare di sbrogliare quel pasticciaccio brutto. Sempre più brutto. E, soprattutto, sempre senza colpevoli.

DA ROMA A LONDRA Torniamo a Rubolino. Riacquistata la libertà, non riesce però a ritrovare ancora la serenità. Vessia, infatti, ricorre contro la scarcerazione dei tre. Trascorre un anno e, a dicembre 1989, la Cassazione respinge il ricorso, confermando l'impostazione assolutoria di Palmeri. Il quale, però, non riesce ancora a dare un volto, e tanto meno un nome, ai colpevoli. Né agli esecutori, figurarsi ai mandanti.Ma come era saltato fuori il nome di Rubolino per il caso Siani? Non solo dal filone di via Palazzi, ma anche in seguito alle primissime indagini sulle cooperative di ex detenuti che, proprio a partire dal 1985, a Napoli stavano aggregandosi e iniziando a bussare con forza ai portoni di palazzo San Giacomo. Il Comune - allora retto dal socialista Carlo D'Amato - nell'autunno '85 diede disco verde per l'ingresso fra i ranghi di ben 700 detenuti raggruppati in sei liste ("La carica dei settecento", titolò la Voce in una cover story del dicembre 1985): nei mesi seguenti un putiferio, una fortissima polemica a sinistra, con una Lega delle cooperative alla deriva. "E' in quel contesto che veniva fuori anche il nome di Rubolino - ricordano a palazzo di giustizia - una storia intricata, tra minacce, camorra, affari e promesse. Insomma, una vera giungla". Rubolino, riuscì a cavarsela. "Ma non la smetteva di ficcarsi sempre in storie pericolose, sbagliate, comunque tra soldi, salotti e personaggi poco raccomandabili". Esce con la ossa rotte e il morale a terra, Rubolino, da queste vicende. Si trasferisce a Roma. "Ha cercato di buttarsi tutto alle spalle e ricominciare da capo. Ce l'ha messa tutta. Ha fatto anche un sacco di opere di bene, volontariato, assistenza", racconta un amico. "Non c'è riuscito a rompere col passato - aggiunge un operatore finanziario capitolino - aveva perso il pelo ma non il vizio, continuava a frequentare ambienti dai miliardi facili e spesso inesistenti". Due versioni contrastanti. Un perverso destino, comunque, sembra perseguitarlo. Nel 1999 ri-finisce nelle galere, questa volta londinesi, per una presunta truffa da 100 milioni di sterline ai danni di una vera e propria istituzione britannica, la Cattedrale di San Paolo. Il classico 'pacco' organizzato secondo il miglior copione di Totò formato fontana di Trevi: siamo venuti qui (i Magi sono cinque, due italiani, un finlandese, un canadese e un americano) per donarvi la bellezza di 50 milioni di sterline. Unica piccola, microscopica condizione, quella che voi depositiate per dieci giorni, appena dieci giorni, il doppio, ovvero 100 milioni, su un conto svizzero. Nessuno li toccherà quei soldi, assicurano. La truffa non riesce, i cinque finiscono in gattabuia, lui, Rubolino, viene messo in libertà e prosciolto da ogni accusa. Anche la procura di Napoli, che si era accodata con un suo filone investigativo, lo scagiona. E lui avvia un procedimento per ottenere un indennizzo per quella ingiusta detenzione. "Ne aveva raccolti, comunque, di soldi per le denunce fatte contro alcuni giornalisti che lo avevano accusato per Siani - ricorda un amico - soldi che donò in beneficenza".

STANLEY & PROMAN Un anno fa la svolta sembra dietro l'angolo. Decide di cominciare a far sul serio l'avvocato e, quindi, di iscriversi al consiglio dell'ordine di Roma. Raccoglie la documentazione, presenta la domanda, altra delusione: c'è ancora una pendenza con la giustizia, per via di un procedimento non ancora chiuso, millantato credito. "Non è cosa - raccontano ancora nel suo entourage - non è cosa, ha pensato. Ed è ripiombato nei suoi problemi, nella sua tristezza di prima, quando subiva accuse e attacchi". La voglia di business, comunque, non lo abbandona: per lui è una seconda pelle, una droga, non può farne a meno. Ed eccolo entrare nei santuari della finanza, acquisire partecipazioni azionarie, frequentare il mercato ristretto e la City. Un bel giorno, diventa il padrone di una misteriosa sigla, Proman. A quel punto, le voci cominciano a rimbalzare. Perché lui risulta "intestatario fiduciario". Di chi, di cosa? Ma vediamo cosa è Proman. A quanto pare si tratta di una società a responsabilità limitata. Nel suo portafoglio spicca una partecipazione di lusso, il 25 per cento delle azioni Stayer, una grossa sigla nel settore elettrico, avamposti a Ferrara e Rovigo, interessi in mezzo mondo. Un'altra consistente fetta di Stayer - pari al 29 per cento del pacchetto azionario - fa capo a Efi, ovvero European Financial Investments, a sua volta controllata da un'altra sigla, Danter. Efi, dal canto suo, naviga in acque agitate, trovandosi in amministrazione controllata, per i problemi

Page 8: rubolino

finanziari che stanno passando i fratelli Bergamaschi, suoi soci di riferimento, e un pignoramento azionario effettuato da un creditore, la Euroforex. E' per questo motivo che l'assemblea straordinaria di Stayer convocata lo scorso 27 agosto per deliberare l'aumento di capitale a 10 milioni di euro, è saltata. Ma non solo per questo. Ecco cosa scrive, proprio quel giorno, un dispaccio dell'agenzia Reuter: "Il 26 agosto scorso Stayer ha ricevuto una comunicazione dall'intermediario presso cui sono depositati i titoli che informava del decesso di Rubolino e affermava che i diritti sulla partecipazione spettano ai suoi eredi. Stayer - viene aggiunto nel comunicato - non sa se e come Proman intende resistere contro questa posizione dell'intermediario". Resta il mistero Proman. Nei cervelloni Cerved, collegati con tutte le camere di commercio italiane, non v'è traccia di Proman spa. Né si segnala alcuna Proman nel cui carniere figuri una qualsiasi partecipazione azionaria di Stayer. Un bel rebus. Val la pena, comunque, di scorrere la lista dei soci targati Stayer. A parte due medi azionisti (Gianfranco Fagnani e Roberto Scabbia), fanno capolino quattro sigle. A parte un'italiana (BSPEG SGR spa, una società di gestione del risparmio privato, con 140 mila azioni), le altre tre sono estere. Le quote minori fanno capo a Electra Investiment Trust Plc (26 mila azioni) e a Power Tools International (30 mila azioni). A far la parte del leone c'è Ipef Parters Limited (664 mila azioni), sigla londinese. Osserva un operatore finanziario milanese: "Potrebbe esserci la presenza di Ipef nell'azionariato di Proman. Il mistero comunque è fitto". E resta un mistero, per ora, la destinazione finale delle azioni Proman: rimarranno nelle mani delle due sorelle di Rubolino, o che fine faranno? E cosa c'è dietro il reticolo di sigle, incroci azionari, spesso e volentieri giocati oltremanica? Un gioco forse pericoloso? Il 28 luglio scorso, poi, l'infarto. Una vita stroncata a 42 anni, dopo un'inutile corsa all'Aurelia Hospital, "dove però è giunto privo di vita", commenta in un dettagliato reportage il Mattino. L'autopsia - scrive il solerte cronista, Dario Del Porto - "ha chiarito immediatamente la natura del malore". E a scanso di equivoci aggiunge: "Del caso pertanto non è stata neppure interessata la procura di Roma". E ancora, ad abundantiam: "sulle ultime ore dell'uomo non sembrano esserci misteri. Rubolino è stato colpito da un arresto cardiocircolatorio manifestatosi durante la notte nell'abitazione della capitale dove si era trasferito ormai da anni". Altri commenti nel racconto della cerimonia funebre - che si è svolta nella chiesa di Sant'Anna dei Palafrenieri, l'unica parrocchia dello Stato Vaticano - per la penna di un vaticanista doc, Alceste Santini. "Si può, quindi, dire che Giorgio Rubolino ha avuto il privilegio di avere avuto la celebrazione delle esequie, non solo in una chiesa ambita da molti nei momenti di gioia o di dolore come nel suo caso, ma in un luogo, qual è lo Stato Città del Vaticano, in cui la penitenza si intreccia con il perdono come sofferente superamento dei peccati e degli atti illeciti commessi nella vita". Equilibrismi logici e sintattici a parte, Santini riesce comunque a porsi qualche interrogativo. Per celebrare in Sant'Anna ci vuole la chiave giusta: "occorre una particolare autorizzazione - scrive Santini - ciò rivela che chi ne ha fatto richiesta aveva ed ha entrature nel mondo vaticano. I parenti? Gli amici? Non è dato saperlo". Avvolti nel dubbio amletico, riusciamo però a sapere che fra le personalità presenti alla cerimonia c'erano "i parenti e gli amici di Giorgio, fra cui il senatore a vita Emilio Colombo e altri esponenti della borghesia napoletana". A officiare la messa funebre il cappellano delle guardie svizzere, Alois Jehle.

CASO SIANI A SENSO UNICO Caso Siani. Chiuso per sentenza. La Cassazione ha ormai inchiodato i colpevoli dei clan torresi che - secondo la ricostruzione del pm Armando D'Alterio - decisero ed eseguirono quell'omicidio. Una volta tanto, la parola fine. Tutto chiaro, allora? Molti dubbi restano in piedi. Vediamo quali.Il movente. Debole. Debolissimo. Un articolo scritto mesi prima. "Per punire lo sgarro", hanno spiegato gli inquirenti. "In quell'articolo Siani faceva capire che i Nuvoletta avrebbero tradito i Gionta. Per mettere le cose a posto e recuperare l'onore, la cosa andava lavata col sangue". Credibile? Possibile che una camorra allora più che mai rampante avesse deciso di tirarsi addosso riflettori, inquirenti, forze dell'ordine?Un articolo non (ancora) scritto è molto più pericoloso di uno già scritto. Non ci vuole la maga per intuirlo, solo un minino di fiuto e buon senso. Quello che non sembra aver smarrito Amato Lamberti, presidente della Provincia di Napoli e a quel tempo (siamo nel 1985) responsabile dell'Osservatorio sulla camorra, avamposto, in quegli anni, per scrutare, capire e radiografare i movimenti, le mutazioni e le infiltrazioni della Camorra spa. Lamberti fu l'ultima persona a sentire Giancarlo, avevano appuntamento per la mattina dopo, ma "lontani dal Mattino", come raccomandava Giancarlo. Un appuntamento andato a vuoto, perché la sera prima l'abusivo e ormai prossimo praticante giornalista veniva freddato a bordo della sua Mehari in piazza San Leonardo al Vomero, a un passo da casa. "Non era particolarmente preoccupato - ricorda Lamberti - però doveva dirmi una cosa che gli premeva. Ed era urgente. Stava lavorando ad un'inchiesta per la rivista dell'Osservatorio sugli intrecci politica-affari-camorra nell'area torrese. Uno dei grossi affari, allora, era rappresentato da un'area, il quadrilatero delle carceri. E lui stava mettendo il naso in quei rapporti, sia sui referenti locali, che su quelli più in su, di imprese e camorristi". A corroborare la tesi di Lamberti, un docente universitario, Alfonso Di Maio, padre di uno dei pm più in vista, oggi, alla procura di Salerno. La Voce lo intervistò dieci anni fa. "Avevo incontrato diverse volte Giancarlo in quegli ultimi mesi - affermava Di Maio - stava lavorando, mi raccontava, a una grossa inchiesta sugli appalti nell'area stabiese. In particolare, voleva capire se dietro al paravento di un'impresa ci fosse lo zampino di qualche politico eccellente e operazioni di riciclaggio della camorra". Il nome dell'impresa era Imec (del gruppo Apreda, poi acquirente addirittura della Buontempo Costruzioni Generali), quello del politico Francesco Patriarca, ras gavianeo della zona, ex sottosegretario alla marina mercantile. Di Maio cercò di raccontare quei fatti alla magistratura. Senza riuscirci. "Mi presentai in

Page 9: rubolino

procura. Parlai col dottor Arcibaldo Miller. Mi disse che ne avrebbe riferito al dottor Guglielmo Palmeri che seguiva di persona l'indagine. Sono andato due volte in procura, dietro appuntamento, ma non sono stato mai ricevuto. Allora non mi fu data la possibilità di verbalizzare quel che sapevo sulle ultime settimane di Siani". Parole dure come pietre. Mentre decine e decine di testi hanno fatto passerella davanti alla mezza dozzina e passa di toghe che si sono alternate al capezzale di un processo quasi impossibile. Del resto, é lo stesso fratello del cronista, Paolo, pediatra, a rivelare qualche ombra nell'inchiesta, un 'buco nero' rimane ancora oggi lì a lasciare spazio ai dubbi. "Giancarlo lascia la redazione di Castellammare - ricorda - va in cronaca di Napoli, scrive sempre meno di Torre ma si interessa sempre più della ricostruzione post terremoto e dei rapporti camorra-appalti. Stava preparando un libro e i materiali, dopo la sua morte, sono spariti". Una ricostruzione che lega perfettamente con quelle di Lamberti e Di Maio. Altri, però, ancora oggi in procura storcono il naso. "C'era un'altra pista, battuta soltanto in fase iniziale. E solo parzialmente. E' la pista di via Palizzi, la casa di appuntamenti, i suoi segreti forse inconfessabili. Tanti anni fa ne parlò esplicitamente Corrado Augias nel suo Telefono GialloŠ poi il silenzio più totale".Chissà se il regista Marco Risi, arrivato un paio di volte a settembre a Napoli per completare il copione del film su Giancarlo (ispirato in parte a "L'abusivo", il libro di Antonio Franchini, sceneggiatura dell'esperto di misteri Andrea Purgatori, ex Corsera), riuscirà a vedere oltre i muri di gomma che ancora circondano quella tragica morte. "Emerge - dice Risi alla Voce - un delitto tuttora carico di misteri e interrogativi rimasti senza risposta, nonostante i processi e le sentenze. Questa sarà la chiave del mio film su Giancarlo".

GUARDIE E KILLER Primavera vaticana '98. Tre morti avvolte nel mistero. Sono le nove di sera e una suora - sulla cui identità verrà sempre mantenuto il più stretto riserbo - entra nell'alloggio di servizio del neo comandante delle Guardie Svizzere, Alois Estermann. Davanti ai suoi occhi una scena raccapricciante: tre corpi, in un mare di sangue, massacrati da revolverate. Quello di Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero e del vice caporale Cedric Tornay. Ecco come ricostruisce i primi momenti dopo la scoperta Sandro Provvisionato, scrittore e giornalista, nel suo sito Misteri d'Italia. "Tra i primi ad arrivare sul luogo sono il portavoce del papa, Joaquin Navarro Valls, laico di origine spagnola, membro numerario dell'Opus Dei; monsignor Giovanni Battista Re, sostituto delle segreteria vaticana; e monsignor Pedro Lopez Quintana, assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana. La scena del delitto non viene sigillata, anzi già alla 21 e 30 sono decine le persone che si aggirano tra i cadaveri. Elementi di prova importanti vengono rimossi o spostati. A differenza di altri episodi avvenuti all'interno del perimetro vaticano, come l'attentato al Papa, nessuna richiesta di collaborazione viene inoltrata alle autorità italiane. Delle indagini si occupa il Corpo di Vigilanza Vaticana. Prima ancora dell'arrivo del magistrato, il Giudice Unico Gianluigi Marrone che arriva sul posto un'ora dopo, mani ignote hanno già provveduto a perquisire non solo l'ufficio, ma anche l'appartamento di Estermann e l'alloggio di Tornay. Quando i corpi verranno rimossi, non sarà adottata alcuna precauzione utile alle indagini. Anche l'autopsia sui tre cadaveri si svolgerà all'interno delle mura vaticane".Detto fatto, non passano nemmeno tre ore - siamo a mezzanotte - e l'infaticabile Navarro Valls può sentenziare: "I dati finora emersi permettono di ipotizzare un raptus di follia del vice-caporale Tornay. E' tutto molto chiaro, non c'è spazio per altre ipotesi". Caso dunque chiuso in 180 minuti, per Valls. Uno 007 perfetto, capace anche di estrarre dal magico cilindro la prova delle prove: una lettera, nientemeno che una lettera d'addio, affidata qualche ora prima (le 19 e 30, precisa Navarro) a un commilitone dal folle vice-caporale con una lacrima e queste parole: "Se mi succede qualcosa, consegnala ai miei genitori". Spiega il portavoce-detective nella rapidissima conferenza stampa, che risolve a tempi di Guinness una matassa altrimenti destinata a intrecciarsi negli anni: la missiva - precisa - è stata consegnata al Giudice Marrone, il quale la darà ai parenti di Tornay in arrivo a Roma. "Spetterà ai familiari del vice caporale - aggiunge Valls - decidere se rendere noto il contenuto della lettera oppure no". Commenta Provvisionato: "Nella fretta l'astuto portavoce della Santa Sede non si rende conto di aver commesso un errore macroscopico. Come si può conciliare un raptus di follia con una lettera scritta almeno un'ora e mezza prima dello stesso raptus? Spesso la fretta è cattiva consigliera". Intanto circola già qualche indiscrezione sull'imminente uscita del nuovo libro-choc di Ferdinando Imposimato (autore, con Provvisionato, del volume d'inchiesta sullo scandalo Tav). Al centro, rivelazioni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di una guardia vaticana. Che secondo l'ex magistrato, sarebbe ancora viva.

Fonte: "La Voce della Campania", ottobre 2003