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1 N. 04 - anno 2012

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magazine giuridico

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N. 04 - anno 2012

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SOMMARIO

1.COPYRIGHT

Giurisprudenza Patti di non concorrenza o obblighi ancillari alla cessione dei diritti dell’artista? .................................................................................. (pag. 7)

Via libera alla digitalizzazione dei libri da parte di Google ........................................................................................................................ (pag. 8)

Legislazione

Direttiva UE per la digitalizzazione e l’accesso legale on-line alle opere orfane ................................................................................... (pag. 9)

Tribunale delle Imprese, al via dal 20 settembre 2012…………………………………………………………………………………………...(pag. 10)

2.DIRITTO DELLA PRIVACY Legislazione Call Center nel mirino ....................................................................................................................................................................................... (pag. 12)

3.DIRITTO INDUSTRIALE

Giurisprudenza Niente tutela penale per un titolo di privativa non ancora concesso ..................................................................................................... (pag. 14)

La protezione delle opere del design……………………………………………………………………………………………………………….(pag. 14)

4.DIRITTO DELLA RETE

Giurisprudenza Legge sulla stampa e testate on-line ............................................................................................................................................................ (pag. 16)

Legislazione

La “reasonable expection of privacy” di un “tweet” .................................................................................................................................. (pag. 17)

5.INTERNATIONAL

European Case Law Usedsoft GMBH vs Oracle International Corp. .............................................................................................................................................. (pag. 19)

International Case Law Procedural possibilities for rights holders concerning acts of trademark infringement and unfair marketing on the Swedish

market ................................................................................................................................................................................................................. (pag. 20)

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EDITORIALE

UN CODICE DI AUTODISCIPLINA PER LA RETE

Reduce dalla conferenza annuale del network di specialisti in diritto della comunicazione e pubblicità

denominato Adlaw (25 membri in rappresentanza di altrettanti paesi del mondo) vorrei socializzare con i

lettori di R&P Mag alcune delle tematiche emerse dal workshop dedicato al mondo digitale e alle sue

criticità legali. A Madrid, sede della riunione, si sono confrontati avvocati e imprenditori del settore su tre

grandi questioni che costituiscono l’opportunità e, nello stesso tempo, l’incubo per le aziende che si

stanno approcciando alla Rete nell’ottica di sviluppare il commercio elettronico: la regolamentazione

internazionale sulla Privacy, la difesa del copyright, la tutela dei marchi e della reputazione delle imprese

nel rutilante mondo del web.

Il primo dato sul quale tutti i presenti non hanno potuto che convenire è la radicale rivoluzione in atto nel

mondo della Rete e la conseguente, necessaria modifica delle categorie giuridiche tipiche del mondo

dell’off-line. La velocità supersonica del trasferimento dei dati, la sovranazionalità del mondo del

ciberspazio e la, conseguente e palese, impossibilità di individuare una giurisdizione certa per le

controversie che nascono nella Rete impongono a tutti gli operatori, compresi gli avvocati, di cercare di

trovare nuove regole del gioco che in qualche modo possano evitare il Far West e fornire qualche

certezza ai titolari di diritti lesi. Probabilmente, in prospettiva, bisognerà puntare su una

autoregolamentazione dei “buoni, seri e corretti”. Sulla scorta del successo ottenuto in molti paesi (Italia

tra i primi), i “seri e corretti” si diano delle norme comportamentali (ovviamente nell’ambito del perimetro

delle normative esistenti) e una disciplina sull’esecutività delle sentenze garantita sia da giudici esperti e

indipendenti sia da strumenti tecnologici condivisi e adottati da tutti che permettano immediatamente

dopo la decisione assunta di “espellere”, transitoriamente o definitivamente, il gaglioffo dal sistema.

Ho contribuito al dibattito portando la positiva esperienza dell’Autodisciplina italiana che, in oltre quattro

decenni di intensa attività, ha svolto un ruolo decisivo di monitoraggio e repressione degli illeciti nel

mondo della comunicazione d’impresa in Italia, con tempi di esecuzione e tenuta delle sentenze

assolutamente miracolosi in rapporto all’inefficienza dell’azienda giustizia italiana. In un mondo come

quello della comunicazione in cui un messaggio pubblicitario, o una critica diffamante ad una azienda,

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sono visti o letti dopo qualche secondo, da milioni di utenti, l’efficacia di un sistema sanzionatorio si

misura sui suoi tempi di intervento e di oscuramento del responsabile.

Qui sta il punto cruciale che nella Rete trova le sue maggiori difficoltà.

L’autodisciplina dovrebbe essere promossa, accettata e sottoscritta da tutti i principali operatori del

settore con particolare riferimento ai service provider che, in analogia con i media nella autodisciplina

off-line, dovrebbero garantire l’immediato oscuramento dei contenuti ritenuti dalla sentenza in contrasto

con i principi del Codice condiviso a priori.

In attesa che questo progetto, attualmente allo studio a livello internazionale, diventi realtà, come

gestire questo “oggi” incerto e pieno di incognite?

Dal punto di vista dei consulenti giuridici specializzati nella Rete emerge sempre di più in tutto il mondo

l’esigenza/auspicio di una multidisciplinarità di approccio. Soltanto un team composto da un civilista, un

penalista e un esperto di tecnologia, può oggi fornire alle imprese che si affacciano alla Rete un servizio

di monitoraggio, tutela e intervento stragiudiziale o giudiziale in linea con le aspettative legittime della

clientela. Soltanto abdicando ad una presuntuosa visione della nostra professione e dando vita a

squadre di professionisti multidisciplinari e complementari tra di loro come approccio e come intervento,

possiamo pensare di offrire al mercato un reale valore aggiunto che si tramuti in risultati concreti e

tangibili per il mondo degli investitori nella Rete.

Su questo punto ci siamo trovati in compagnia di parecchi colleghi soprattutto provenienti dal mondo

anglosassone. La collaborazione tra un commercial lawyer e un white collar lawyer sta dando risultati

positivi e sta aprendo nuovi scenari nella difesa sia del copyright sia della reputazione e dei marchi degli

investitori nella Rete.

La grave crisi economica che stiamo vivendo in quasi tutto il mondo, sistemica, a nostro avviso, e non

transitoria, potrebbe costituire anche, come alcuni sostengono, un’opportunità che sollecita l’ingegno.

Certo, può essere vero. Personalmente, sono rientrato da Madrid con una inquietudine grande e

avviluppante: tutti i presenti, professionisti affermati, rappresentanti di classi dirigenti nella “stanza dei

bottoni” nei rispettivi paesi d’origine, nei colloqui privati o nelle sedi pubbliche manifestano una grande

incertezza, una inestricabile difficoltà a capire cosa ci sta succedendo intorno. Sono/siamo sbigottiti,

increduli, impreparati a reagire ad un crisi che ci costringerà a breve a cambiare i nostri comportamenti

di consumo. Per questo ci chiudiamo in noi stessi, facendo gli struzzi e mettendo la testa sotto terra. Un

atteggiamento umanamente comprensibile ma prospetticamente sbagliato e non virtuoso: denso di

egoismi e privo di visione, soprattutto a tutela delle nuove generazioni.

Ma questo è un altro discorso che non riguarda R&P Mag ma…il nostro futuro!

Riccardo Rossotto

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UNA GRANDE NOVITÁ

Sempre allo scopo di fornire ai nostri lettori un valido e il più possibile completo strumento di

approfondimento delle tematiche dei settori toccati dal nostro magazine, da questo numero, abbiamo

deciso di ospitare articoli redatti da nostri colleghi ed amici appartenenti a studi stranieri.

La globalizzazione del mondo in cui viviamo crediamo, infatti, imponga un approfondimento non solo

nazionale.

L’entusiasmo con cui, poi, è stata evidentemente vissuta la nostra idea da parte dei redattori

internazionali – che ci ha, purtroppo, imposto una accurata cernita degli articoli ricevuti - ci conforta

nella nostra scelta.

Ci auguriamo che anche i nostri lettori possano condividere il tentativo di allargare i nostri campi

conoscitivi.

Troverete, quindi, una nuova sezione internazionale sulla quale gradiremmo le vostre valutazioni.

Oltre a questa, che rappresenta un’importante novità del nostro periodico, in questo numero, troverete

anche, ospitato, nella sezione del diretto della rete, un interessante articolo del collega penalista ed

amico Giuseppe Vaciago sul tema della privacy di un tweet.

Con riferimento, invece, alle nostre tradizionali sezioni, vi segnaliamo una ricca parte dedicata al

copyright in cui, a fianco ad alcune novità legislative nazionali e comunitarie in tema rispettivamente di

istituzione del Tribunale delle imprese e di disciplina delle c.d. “opere orfane”, pubblichiamo una

recente e in qualche modo sorprendente decisione della Corte di Appello di Milano sulla natura dei

patti che impediscono ad un artista, alla scadenza di un determinato contratto discografico, di

registrare nuovamente gli stessi brani oggetto delle registrazioni del contratto stesso.

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Nella sezione destinata alla Privacy, leggerete di una rilevante novità legislativa in tema di call center.

Per quanto riguarda il diritto industriale, vi segnaliamo due rilevanti decisioni della Suprema Corte in

tema di mancanza di tutela penale per un titolo di privativa non ancora concesso e due sentenze sulla

protezione delle opere di design.

Infine, nella sezione del diritto della rete, vi invitiamo a prestare attenzione ad una sentenza della

Suprema Corte sul tema, sempre più attuale, delle testate on-line.

Lorenzo Attolico

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1.COPYRIGHT

Giurisprudenza italiana

Corte d’Appello di Milano :

PATTI DI NON CONCORRENZA O

OBBLIGHI ANCILLARI ALLA CESSIONE DEI

DIRITTI DELL’ARTISTA?

La Corte di Appello di Milano ha di recente

confermato, con sentenza depositata lo scorso

20 settembre 2012, la decisione di primo grado

emanata dal Tribunale di Milano in data 8

maggio 2008 nella controversia insorta tra la

CDG East West S.r.l. (incorporata

successivamente dalla Warner Music Italia S.r.l.),

l’artista Giuseppe Daniele (in arte “Pino”) e la

Demomusic International s.r.l..

Nel 1994, la Warner aveva stipulato con la

Demomusic due diversi contratti, sottoscritti

anche da Pino Daniele: un contratto

discografico diretto a disciplinare la

registrazione di vecchie e nuove canzoni da

parte di Daniele stesso ed una cessione, della

Demomusic in favore della Warner, di alcune

registrazioni fonografiche riguardanti il repertorio

passato dell’artista (c.d. back catalogue).

Il secondo dei predetti contratti conteneva,

peraltro, una clausola che imponeva all’artista

l’obbligo di non registrare le opere incise nelle

registrazioni oggetto di tale accordo nei 10 anni

successivi alla scadenza dello stesso.

Nel corso dei detti 10 anni, tuttavia, Pino Daniele

realizzava un supporto fonografico, distribuito da

Sony-BMG, contenente alcuni brani tra quelli

oggetto di cessione da parte della Demomusic

in favore della Warner.

L’attrice Warner, pertanto, contestava alle

convenute la violazione del predetto patto ed il

Tribunale, accogliendo la domanda,

condannava le stesse al risarcimento legato all’

inadempimento contrattuale.

Le parti soccombenti in primo grado

proponevano, quindi, appello al fine di ottenere

la riforma di siffatta pronuncia, che veniva

confermata, tuttavia, anche dal Giudice di

secondo grado.

I Giudici d’Appello di Milano, infatti, nel

confermare la sentenza di primo grado, hanno

ritenuto, ancora una volta, infondata l’

eccezione avente ad oggetto la presunta nullità

della clausola sopra descritta, per assenza di

corrispettivo del relativo obbligo e per il

mancato rispetto dei limiti legali previsti in tema

di restrizioni alla concorrenza.

I Giudici del gravame hanno, invero, superato

siffatta eccezione, ritenendo che il divieto in

questione non può essere considerato alla

stregua di patto di non concorrenza, trattandosi,

in sostanza, di obbligo di astensione assunto per

oggetti limitati e per tempi determinati, obbligo

che lascia ampi spazi all’attività professionale

dell’artista e che si presenta, semmai, come

ancillare alla cessione dei diritti del produttore

fonografico e dell’artista interprete-esecutore e

funzionale al loro migliore sfruttamento

economico.

Corte d’Appello Milano.pdf

Commento

La pronuncia in commento esclude, dunque,

che le clausole aventi ad oggetto un obbligo di

astensione, per un determinato periodo di

tempo dalla scadenza di un contratto

discografico, dalla nuova registrazione di opere

già incise in esecuzione del contratto

medesimo, possano considerarsi riconducibili al

patto di non concorrenza di cui agli artt. 2596 e

2125 del codice civile, in quanto dette clausole

contengono, piuttosto, obblighi meramente

ancillari alle cessioni di diritti oggetto

dell’accordo intervenuto tra le parti.

Ebbene, non può negarsi che il principio

affermato dalla Corte di Appello di Milano

produrrà, laddove lo stesso dovesse essere

confermato anche dalla Suprema Corte, non

pochi cambiamenti sul piano della prassi

contrattuale.

Fino ad oggi, invero, le clausole in questione,

contrattualmente previste, come noto, a tutela

del produttore di fonogrammi ai fini di un

migliore sfruttamento economico delle

registrazioni prodotte in esecuzione di

determinati contratti discografici, venivano

predisposte in considerazione dei limiti imposti

dalla legge ai patti di non concorrenza.

In particolare, dal combinato disposto degli artt.

2596 c.c., il quale detta i limiti contrattuali della

concorrenza, e 2125 c.c., che regolamenta,

invece, il patto di non concorrenza nell’ambito

di un rapporto di lavoro, si desume che: (i) il

patto che limita la concorrenza per il tempo

successivo alla cessazione del contratto deve

essere provato per iscritto; (ii) esso è valido se

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circoscritto ad una determinata zona o ad una

determinata attività e se è pattuito un

corrispettivo; (iii) il patto di non concorrenza non

può eccedere la durata di cinque anni e se

detta durata non è determinata o è stabilita per

un periodo superiore a cinque anni, il patto è

valido per la durata di un quinquennio.

Laddove dovesse darsi seguito al principio

affermato dalla sentenza qui esaminata, viene

da sé che la predisposizione di siffatte clausole

contrattuali risulterebbe più agevole e

vantaggiosa per i produttori di fonogrammi. Basti

pensare alla concreta possibilità, per questi, di

obbligare gli artisti ad astenersi da una

qualsivoglia nuova registrazione di opere

musicali già registrate per un periodo di tempo

ben superiore rispetto a quello di cinque anni

e/o senza alcun limite territoriale.

Ora, vero è che la prassi contrattuale in ambito

discografico potrebbe trarre da siffatto

orientamento giurisprudenziale un qualche

vantaggio in termini di maggiore libertà delle

parti nel regolare l’assetto dei reciproci interessi,

ma altrettanto vero è che un patto che si

sostanzia nel divieto di porre in essere una

determinata attività alla scadenza di un

contratto pare davvero non potersi ricondurre

che al patto di non concorrenza ai sensi delle

richiamate norme del codice civile.

Pur rispettando la pronuncia della Corte di

Appello di Milano, pertanto, esprimiamo

qualche riserva sul contenuto della stessa.

(R.A.)

Giurisprudenza internazionale

Tribunale del Distretto di New York: VIA

LIBERA ALLA DIGITALIZZAZIONE DEI LIBRI

DA PARTE DI GOOGLE

Lo scorso 10 ottobre 2012, il Tribunale

newyorkese ha deciso l’aspra controversia

instaurata dall’Author’s Guild, organizzazione no

profit che tutela gli interessi degli autori

statunitensi, al fine di ottenere il blocco della

collaborazione iniziata tra alcuni atenei

americani e Google, in ordine alla massiva

digitalizzazione di opere, nel quadro del

generale progetto di digitalizzazione

denominato “Google Book-Scanning”.

Detta collaborazione, avente ad oggetto uno

scambio di contenuti, avrebbe consentito a

Google di digitalizzare i volumi universitari ed agli

atenei di detenere le copie elettroniche dei libri.

La Author’s Guild ha instaurato detto

procedimento, in particolare, nei confronti della

HathiTrust, organizzazione cui era stato

demandato il compito di archiviare i libri

digitalizzati per conto dell’Università del

Michigan.

L’organizzazione convenuta in giudizio, aveva

digitalizzato ben 10 milioni di opere, di cui il 73%

protette da copyright.

Nonostante il sindacato degli autori abbia

contestato all’HathiTrust di aver posto in essere

un’operazione non autorizzata e rischiosa, atteso

che, una volta entrate nel sistema Google

Books, le opere protette oggetto di

digitalizzazione non sarebbero più state

soggette al controllo dalle università, il Giudice

di New York ha respinto le domande attrici.

Ad avviso del Giudicante, infatti, il progetto di

digitalizzazione non violerebbe affatto le norme

sul copyright e rientrerebbe negli usi legittimi

delle opere e, in particolare, nel c.d. “fair use”.

Detto principio, contemplato dal “Copyright

Act” (legge statunitense sul copyright), rende

disponibili al pubblico le opere protette da

copyright, a condizione che il loro utilizzo serva a

promuovere il progresso della scienza e delle

arti.

Ebbene, il Tribunale newyorkese ha osservato

che l’iniziativa di HathiTrust sarebbe

perfettamente legale, dal momento che

l’organizzazione offre l’accesso ai suoi servizi solo

a determinate condizioni.

La concessione che gli atenei, o con specifico

riferimento al caso di specie, la HathiTrust, fa a

Google Books è infatti vincolata a determinati

requisiti, tra cui, in primis, l’autorizzazione

dell’avente diritto.

Tribunale di NY.pdf

Commento

Sebbene la guerra legale tra Google e gli autori

delle opere protette da copyright sia destinata a

continuare, è evidente come la pronuncia in

esame segni un importante punto a favore del

menzionato generale progetto di digitalizzazione

denominato “Google Book-Scanning”.

Il colosso di Mountain View ha vinto, dunque,

un’altra importante battaglia dopo l’accordo,

siglato dopo sette anni difficilissimi di citazioni in

giudizio e accuse di violazioni di copyright,

raggiunto sulla questione della digitalizzazione

dei libri all’interno del Google Library Project,

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con l’Association of American Publishers

(associazione degli editori americani), in base al

quale gli editori potranno scegliere quali libri

possono essere inclusi nella biblioteca digitale e

quali rimuovere.

Ci pare interessante segnalare, da ultimo, come

la decisione in commento sia stata

notevolmente influenzata dall’Ada (Americans

with Disabilities Act), una legge a tutela dei diritti

civili dei disabili, entrata in vigore nel 1990.

E’ stato, infatti, acclarato che, nel rispetto dei

contenuti di questa norma, la disponibilità delle

opere elettroniche faciliterebbe la consultazione

ai portatori di handicap.

(R.A.)

Legislazione

Pubblicata la direttiva europea per la

digitalizzazione e l’accesso legale

transfrontaliero on line alle opere orfane

da parte di biblioteche, emittenti di

servizio pubblico, musei, archivi ed altre

organizzazioni.

Il 27 ottobre scorso è stata pubblicata sulla

Gazzetta ufficiale dell’Unione europea la

direttiva 2012/28/UE del 25 ottobre 2012, volta a

disciplinare determinati utilizzi di opere cd.

“orfane”, al fine di conseguire gli obiettivi

connessi alla loro missione di interesse pubblico.

Tale direttiva si inserisce, invero, in un contesto

storico in cui si mira a digitalizzare le opere

musicali, letterarie e cinematografiche, in modo

che quest’ultime possano essere accessibili ad

un pubblico più ampio. Per raggiungere tale

scopo, il Parlamento europeo e il Consiglio

dell’Unione europea hanno risolto, introducendo

una normativa ad hoc, l’annoso problema

relativo alle opere cd. “orfane”, ovvero quelle

opere i cui autori non sono identificabili o

rintracciabili, rendendo impossibile l’ottenimento

delle autorizzazioni necessarie ai fini della

relativa messa a disposizione.

Si delineano, qui di seguito, i punti chiave della

nuova normativa:

I. I soggetti a cui la direttiva è indirizzata.

La predetta direttiva disciplina l’utilizzo di opere

“orfane” da parte di:

(i) biblioteche, istituti di istruzione e musei

accessibili al pubblico;

(ii) archivi;

(iii) istituti depositari del patrimonio

cinematografico o sonoro;

(iv) emittenti di servizio pubblico.

II. Le opere oggetto della disciplina introdotta

dalla direttiva

La direttiva in questione si applica a:

(i) libri, riviste, quotidiani, rotocalchi o altre

pubblicazioni conservate nelle collezioni dei

soggetti di cui ai precedenti punti (i), (ii) e (iii) del

precedente paragrafo I;

(ii) opere cinematografiche o audiovisive e

fonogrammi conservate nelle collezioni dei

soggetti di cui ai precedenti punti (i), (ii) e (iii) del

precedente paragrafo I;

(iii) opere cinematografiche o audiovisive e

fonogrammi prodotti da emittenti di servizio

pubblico fino al 31 dicembre 2002, conservate

nei loro archivi;

(iv) opere e fonogrammi appartenenti alle

predette categorie che non siano mai stati

pubblicati né trasmessi, ma che siano stati resi

pubblicamente accessibili dalle organizzazioni di

cui al precedente paragrafo I con il consenso

dei titolari dei diritti, se è ragionevole presumere

che quest’ultimi non si opporrebbero all’utilizzo

delle opere e dei fonogrammi in questione;

(v) opere o altri contenuti protetti che siano

inclusi, incorporati o che formino parte

integrante delle opere e dei fonogrammi di cui

ai precedenti punti del presente paragrafo II.

La direttiva si applica a tutte le opere e

fonogrammi orfani che sono tutelati dalla

legislazione degli Stati membri relativa al diritto

d’autore il o successivamente al 29 ottobre 2014.

La predetta normativa non si applica agli atti

conclusi e ai diritti acquisiti prima del 29 ottobre

2014.

III. Cosa si intende per opere orfane.

L’opera cd. “orfana” è un’opera il cui titolare

dei diritti non è stato identificato, o, se anche

quest’ultimo sia stato individuato, non sia stato

possibile rintracciarlo attraverso una ricerca

diligente e registrata.

Qualora via sia più di un titolare dei diritti su

un’opera o su un fonogramma e non tutti i

titolari siano stati individuati oppure, anche

quando siano stati individuati, non siano stati

rintracciati in seguito a una ricerca diligente,

l’opera o il fonogramma possono essere utilizzati

in conformità della direttiva in questione, a

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condizione che i titolari dei diritti che sono stati

identificati e rintracciati abbiano autorizzato, per

quanto riguarda i diritti da loro detenuti, le

organizzazioni di cui al precedente paragrafo I

ad effettuare gli atti di riproduzione e di messa a

disposizione del pubblico di cui al successivo

paragrafo IV.

Le opere o i fonogrammi considerati orfani in

uno Stato membro sono ritenuti tali in tutti gli altri

Stati membri.

Lo status di opera “orfana” può venir meno in

qualsiasi momento ad opera del titolare dei

diritti. Qualora venga meno tale status, al titolare

dei diritti di una determinata opera o di un altro

contenuto protetto spetta un equo compenso

per l’utilizzo che è stato fatto dalle organizzazioni

di cui al precedente paragrafo I, nella misura

che ciascun Stato membro stabilirà.

IV. Le utilizzazioni consentite

Ai sensi dell’art. 6 della direttiva in questione, i

soggetti di cui al precedente paragrafo I

possono:

(i) mettere a disposizione del pubblico l’opera

“orfana” ai sensi dell’art. 3 della direttiva

2001/29/CE;

(ii) compiere atti di riproduzione dell’opera

“orfana”, ai sensi dell’articolo 2 della direttiva

2001/29/CE, a fini di digitalizzazione, messa a

disposizione, indicizzazione, catalogazione,

conservazione o restauro.

Le organizzazioni di cui al precedente paragrafo

I devono indicare in qualsiasi utilizzo dell’opera

“orfana” il nome degli autori e degli altri titolari

dei diritti individuati.

V. Recepimento

Gli Stati membri devono adottare disposizioni

legislative, regolamentari e amministrative

necessarie per conformarsi alla direttiva in

questione entro il 29 ottobre 2014.

(F.F.)

Direttiva 2012/28/UE.pdf

TRIBUNALE DELLE IMPRESE – AL VIA DAL

20 SETTEMBRE 2012

Il 20 settembre 2012 ha debuttato il Tribunale

delle imprese, introdotto dalla Legge 24 marzo

2012, n. 27.

Con l’istituzione del predetto Tribunale, le sezioni

specializzate in materia di proprietà industriale

sono state ribattezzate “sezioni specializzate in

materia d’impresa” e saranno destinatarie di

procedimenti aventi ad oggetto controversie:

(i) di cui all'articolo 134 del D.lgs. 10 febbraio

2005, n. 30, e successive modificazioni, ovvero

controversie in materia di proprietà industriale;

(ii) in materia di diritto d'autore;

(iii) di cui all'art. 33, comma 2, della L. 10 ottobre

1990, n. 287, ovvero controversie in materia di

intese, abuso di posizione dominante ed

operazioni di concentrazione;

(iv) relative alla violazione della normativa

antitrust dell'Unione europea;

(v) riguardanti le società per azioni, le società in

accomandita per azioni, e le società a

responsabilità limitata, le imprese cooperative e

mutue assicuratrici le società europee di cui al

Regolamento CE n. 2157/2001, le società

cooperative europee di cui al Regolamento

(CE) n. 1435/2003, nonché le stabili

organizzazioni nel territorio dello Stato delle

società costituite all'estero, ovvero le società

che rispetto alle stesse esercitano o sono

sottoposte a direzione e coordinamento.

Per quanto riguarda la competenza territoriale,

le sezioni specializzate in materia di impresa sono

state istituite presso i tribunali e le corti d'appello

aventi sede nel capoluogo di ogni regione, con

eccezione di Lombardia e Sicilia (in cui sono

presenti due sedi) e della Valle D'Aosta (in cui

non sono presenti sedi, poiché la competenza

spetta a Torino).

Di seguito, il nuovo testo del Decreto legislativo

27 giugno 2003, n. 168:

Decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168, testo

coordinato con DL 24.1.2012 n.1 (conv.con

modifiche con L.24.3.2012 n. 27)

Art. 1. Istituzione delle sezioni specializzate in

materia di impresa 1. Sono istituite presso i

tribunali e le corti d'appello di Bari, Bologna,

Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli,

Palermo, Roma, Torino, Trieste e Venezia sezioni

specializzate in materia di impresa senza oneri

aggiuntivi per il bilancio dello Stato né

incrementi di dotazioni organiche(. 1-bis. Sono

altresì istituite sezioni specializzate in materia di

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impresa presso i tribunali e le corti d'appello

aventi sede nel capoluogo di ogni regione, ove

non esistenti nelle città di cui al comma 1. Per il

territorio compreso nella regione Valle

d'Aosta/Vallè d'Aoste sono competenti le sezioni

specializzate presso il tribunale e la corte

d'appello di Torino. È altresì istituita la sezione

specializzata in materia di impresa presso il

tribunale e la corte d'appello di Brescia.

Art. 2. Composizione delle sezioni e degli organi

giudicanti. 1. I giudici che compongono le

sezioni specializzate sono scelti tra i magistrati

dotati di specifiche competenze; 2. Ai giudici

delle sezioni specializzate può essere assegnata,

rispettivamente dal Presidente del tribunale o

della corte d'appello, anche la trattazione di

processi diversi, purché ciò non comporti ritardo

nella trattazione e decisione dei giudizi in

materia di impresa.

Art. 3 Competenza per materia delle sezioni

specializzate. 1. Le sezioni specializzate sono

competenti in materia di: a) controversie di cui

all'articolo 134 del decreto legislativo 10

febbraio 2005, n. 30, e successive modificazioni;

b) controversie in materia di diritto d'autore; c)

controversie di cui all'articolo 33, comma 2, della

legge 10 ottobre 1990, n. 287; d) controversie

relative alla violazione della normativa antitrust

dell'Unione europea. 2. Le sezioni specializzate

sono altresì competenti, relativamente alle

società di cui al libro V, titolo V, capi V, VI e VII, e

titolo VI, del codice civile, alle società di cui al

regolamento (CE) n. 2157/2001 del Consiglio,

dell'8 ottobre 2001, e di cui al regolamento (CE)

n. 1435/2003 del Consiglio, del 22 luglio 2003,

nonché alle stabili organizzazioni nel territorio

dello Stato delle società costituite all'estero,

ovvero alle società che rispetto alle stesse

esercitano o sono sottoposte a direzione e

coordinamento, per le cause e i procedimenti:

a) relativi a rapporti societari ivi compresi quelli

concernenti l'accertamento, la costituzione, la

modificazione o l'estinzione di un rapporto

societario, le azioni di responsabilità da

chiunque promosse contro i componenti degli

organi amministrativi o di controllo, il liquidatore,

il direttore generale ovvero il dirigente preposto

alla redazione dei documenti contabili societari,

nonché contro il soggetto incaricato della

revisione contabile per i danni derivanti da

propri inadempimenti o da fatti illeciti commessi

nei confronti della società che ha conferito

l'incarico e nei confronti dei terzi danneggiati, le

opposizioni di cui agli articoli 2445, terzo comma,

2482, secondo comma, 2447-quater, secondo

comma, 2487-ter, secondo comma, 2503,

secondo comma, 2503-bis, primo comma, e

2506-ter del codice civile; b) relativi al

trasferimento delle partecipazioni sociali o ad

ogni altro negozio avente ad oggetto le

partecipazioni sociali o i diritti inerenti; c) in

materia di patti parasociali, anche diversi da

quelli regolati dall'articolo 2341-bis del codice

civile; d) aventi ad oggetto azioni di

responsabilità promosse dai creditori delle

società controllate contro le società che le

controllano; e) relativi a rapporti di cui all'articolo

2359, primo comma, numero 3), all'articolo 2497-

septies e all'articolo 2545-septies del codice

civile; f) relativi a contratti pubblici di appalto di

lavori, servizi o forniture di rilevanza comunitaria

dei quali sia parte una delle società di cui al

presente comma, ovvero quando una delle

stesse partecipa al consorzio o al

raggruppamento temporaneo cui i contratti

siano stati affidati, ove comunque sussista la

giurisdizione del giudice ordinario. 3. Le sezioni

specializzate sono altresì competenti per le

cause e i procedimenti che presentano ragioni

di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2";

Art. 4 Competenza territoriale delle sezioni 1. Le

controversie di cui all'articolo 3 che, secondo gli

ordinari criteri di ripartizione della competenza

territoriale e nel rispetto delle normative speciali

che le disciplinano, dovrebbero essere trattate

dagli uffici giudiziari compresi nel territorio della

regione sono assegnate alla sezione

specializzata avente sede nel capoluogo di

regione individuato ai sensi dell'articolo 1. Alle

sezioni specializzate istituite presso i tribunali e le

corti d'appello non aventi sede nei capoluoghi

di regione sono assegnate le controversie che

dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari

compresi nei rispettivi distretti di corte d'appello.

Art. 5.Competenze del Presidente della sezione

specializzata. 1. Nelle materie di cui all'articolo 3,

le competenze riservate dalla legge al

Presidente del tribunale e al Presidente della

corte d'appello spettano al Presidente delle

rispettive sezioni specializzate.

Coordinatori:

Avv. Lorenzo Attolico

Avv. Francesca Florio

Page 12: R&P Mag 4

12

2.DIRITTO

DELLA PRIVACY

Legislazione

CALL CENTER NEL MIRINO

Il cosiddetto “Decreto Sviluppo”, convertito in

legge il 7 agosto 2012, con legge n. 134 (“Misure

urgenti per la crescita del paese”), contiene una

importante novità in tema di call center.

Per call center si intende quell'insieme di

dispositivi, sistemi informatici e risorse umane atti

a gestire, in modo ottimizzato, le chiamate

telefoniche da e verso un'azienda. L'attività di

un call center può essere svolta da operatori

specializzati e/o risponditori automatici

interattivi, con lo scopo di offrire informazioni,

attivare servizi, fornire assistenza tecnica, offrire

servizi di prenotazione, consentire acquisti e

organizzare campagne promozionali

(cosiddetto telemarketing).

L’attività di telemarketing è da tempo sotto la

stretta sorveglianza del Garante Privacy, che,

con numerosi provvedimenti succedutisi dal

2008 ad oggi, ha cercato di limitarne in ogni

modo gli abusi. Ricordiamo, a titolo

esemplificativo, i provvedimenti emanati da tale

autorità nel 2008, in cui sono stati vietati i

trattamenti dei dati personali di alcune società

specializzate nella creazione e nella vendita di

banche dati (Ammiro Partners, Consodata e

Telextra), in quanto le informazioni degli utenti

erano state acquisite senza aver reso una

idonea informativa circa le modalità del

trattamento e soprattutto i soggetti cui tali dati

sarebbero stati comunicati, né era stato richiesto

il previo consenso degli interessati; tale divieto è

stato poi esteso a tutte quelle società, operanti

del mercato delle telecomunicazioni, che

avevano acquistato le proprie banche dati dai

soggetti sanzionati.

Ulteriore pratica recentemente sanzionata è

quella relativa alle cosiddette telefonate "mute",

in cui il destinatario, dopo aver sollevato il

ricevitore, non viene messo in comunicazione

con alcun interlocutore.

Il fenomeno in analisi deriva dall’uso da parte di

alcune società dei c.d. “sistemi di instradamento

automatico di telefonate”, che hanno lo scopo

di ottimizzare il servizio di call center, ponendo in

comunicazione gli utenti contattati con gli

operatori telefonici addetti alla promozione dei

propri prodotti e servizi. Questi sistemi, se

impropriamente utilizzati, portano a contattare

un numero di utenti di gran lunga maggiore

rispetto alla effettiva disponibilità del call center,

con la conseguenza che – se manca un

operatore libero - l’utente riceve una

“telefonata muta”, anche ripetutamente nello

stesso giorno.

Con il provvedimento n. 476 del 6 dicembre

2011, il Garante Privacy ha limitato l’uso di tali

sistemi e/o comunque ha previsto una apposita

disciplina, prescrivendo che le società che si

dotano dei sistemi di istradamento automatico

delle telefonate, devono utilizzare accorgimenti

che impediscano la reiterazione di una

telefonata "muta" ed escludano la possibilità di

chiamare quel numero per i trenta giorni

successivi, disponendo anche l’erogazione di

sanzioni amministrative, in caso di mancato

adempimento, da 30.000,00 a 120.000,00 euro.

Il “Decreto Sviluppo”, invece, affronta all’art. 24-

bis il tema della delocalizzazione all’estero dei

call center, una realtà sempre più presente nel

nostro Paese. Ai sensi di tale nuova disposizione

di legge, qualora un’azienda decida di spostare

l’attività di call center fuori dal territorio

nazionale, deve darne comunicazione al

Ministero del Lavoro almeno 120 giorni prima

dell’effettiva delocalizzazione, provvedendo

anche a fornire un elenco dei nominativi dei

lavoratori coinvolti; inoltre, entro lo stesso

termine, deve effettuare una segnalazione al

Garante Privacy, indicando quali misure ha

implementato per il rispetto della legislazione

nazionale, con particolare riferimento al rispetto

dell’iscrizione degli utenti al registro delle

opposizioni, gestito dalla Fondazione Bordoni.

L’art. 24 bis ha carattere retroattivo, in quanto

l’informativa al Ministero del Lavoro e al Garante

Privacy deve essere fornita anche dai soggetti

che, all’entrata in vigore della Legge di

conversione, operano già in Paesi esteri.

Inoltre, quando un cittadino effettua o riceve

una chiamata ad un call center deve sempre

essere informato preliminarmente circa la

collocazione all’estero dell’operatore con cui

sta per parlare, con indicazione del Paese estero

in cui lo stesso si trova, al fine di poter essere

garantito rispetto alla protezione dei suoi dati

personali; deve inoltre essergli lasciata la facoltà

di scegliere se relazionarsi con un operatore

situato in Italia.

Page 13: R&P Mag 4

13

Il mancato rispetto delle nuove indicazioni di

legge comporta la comminazione di una

sanzione amministrativa pecuniaria

particolarmente gravosa, pari ad euro 10.000

per ogni giornata di violazione.

Tale nuova disposizione di legge appare

particolarmente gravosa per le società che si

avvalgono di tale tipo di servizio, perché, oltre

all’obbligo di informativa alle autorità

competenti, impone l’obbligo di garantire la

disponibilità del servizio anche a livello

nazionale, con un conseguente aggravio di

costi. Non si comprende, tuttavia, se l’art. 24-bis

del Decreto Sviluppo riguardi unicamente

l’ipotesi di una società che intenda

delocalizzare la propria attività di call center

all’estero o, anche, il caso dell’appalto di tale

servizio ad un soggetto terzo. E’ evidente, infatti,

che qualora il Decreto Sviluppo riguardasse solo

la prima ipotesi, la portata di tale disposizione

normativa rimarrebbe limitata e non andrebbe a

regolamentare l’intero fenomeno in analisi, di

fatto contenendo le misure disposte dal

legislatore a sostegno della sicurezza nazionale.

(C.A.)

Legge n.134/2012.pdf

Coordinatori:

Avv. Chiara Agostini

Avv. Allegra Bonomo

Page 14: R&P Mag 4

14

3.DIRITTO INDUSTRIALE

Giurisprudenza italiana

Corte di Cassazione Penale:

NIENTE TUTELA PENALE PER UN TITOLO DI

PRIVATIVA NON ANCORA CONCESSO

Con due recenti sentenze, la Corte di

Cassazione penale ha escluso la sussistenza dei

reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p., se il titolo di

privativa imitato non sia ancora stato concesso,

ossia si trovi allo stato di domanda.

Cass. pen. 26 giugno 2012, n.25273.pdf

Cass. pen. 31 ottobre 2012, n.42446.pdf

Commento

Nell’ambito di due procedimenti, il primo per il

reato di cui all’art. 473 c.p. (“Contraffazione,

alterazione o uso di marchi o segni distintivi

ovvero di brevetti, modelli e disegni”) ed il

secondo per quello di cui all’art. 474 c.p.

(“Introduzione nello Stato e commercio di

prodotti con segni mendaci”), la Corte di

Cassazione si è espressa sulla tutelabilità penale

di una domanda di marchio, giungendo a

conclusioni diverse rispetto alle pronunce dei

giudici di appello e ad alcuni propri precedenti.

In particolare, la Suprema Corte, accogliendo

un orientamento di legittimità piuttosto risalente,

ha riconosciuto che per la configurabilità dei

reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p. “è necessario

che il marchio o il segno distintivo, di cui si

assume la falsità, sia stato depositato, registrato

o brevettato nelle forme di legge all’esito della

prevista procedura, sicché la falsificazione

dell’opera dell’ingegno può aversi soltanto se

essa sia stata formalmente riconosciuta come

tale”.

La necessità di tale riconoscimento da parte

dell’ordinamento deriva dal fatto che il bene

giuridico protetto dalle fattispecie delittuose di

interesse è l’interesse generale della fede

pubblica e non quello particolare del soggetto

titolare della domanda non ancora registrata.

Ad ulteriore conferma di tale conclusione, come

riconosciuto in entrambe le sentenze

soprarichiamate, vi sarebbe la novella

legislativa di cui alla l. 23 luglio 2009, n. 99 che

ha modificato gli articoli in questione inserendo,

tra l’altro, all’art. 473 c.p. l’inciso “potendo

conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà

industriale” che riconduce la configurabilità di

tale reato alle sole ipotesi di effettiva

registrazione (o brevettazione) del titolo di

privativa imitato: si può infatti conoscere solo un

titolo già rilasciato, in quanto “la semplice

richiesta dello stesso non dà luogo, di per sé,

alla garanzia dell’esito positivo della procedura

avviata”.

Dopo questa duplice presa di posizione della

Suprema Corte che desta comunque qualche

perplessità, è bene puntualizzare – anche per

“tranquillizzare” i titolari dei marchi – che una

domanda di marchio gode comunque di tutela,

sul piano civilistico, ai sensi del codice della

proprietà industriale; sul piano penalistico,

invece, è unicamente configurabile il reato

contro l’ordine pubblico di cui all’art. 517 c.p.

(“Vendita di prodotti industriali con segni

mendaci”) punito con pene più lievi rispetto alle

fattispecie di cui agli artt. 473 e 474 c.p. e

applicabile a prescindere dalla registrazione

anche ai marchi di fatto.

(A.F.)

Tribunale di Milano, Tribunale di Firenze:

LA PROTEZIONE DELLE OPERE DEL DESIGN:

I) LA TUTELA SECONDO IL DIRITTO

D’AUTORE

II) LA TUTELA DALLA CONCORRENZA

SLEALE: DUE ORIENTAMENTI.

Con due recenti pronunce di merito, il Tribunale

di Milano ed il Tribunale di Firenze si sono espressi

circa la protezione concessa dalla normativa

applicabile alle opere del design.

Tribunale di Milano.pdf

Tribunale di Firenze.pdf

La sentenza milanese in commento consolida e

meglio definisce l’orientamento

giurisprudenziale che attribuisce alle opere del

design protezione anche secondo il diritto

d’autore. Il caso riguarda opere note quali la

Lounge Chair & Ottoman di Charles e Ray Eames

e la Coconut Chair di George Nelson, entrambe

espressione del disegno industriale americano

anni cinquanta.

Page 15: R&P Mag 4

15

La questione è essenzialmente interpretativa

posto che l’articolo 2 n. 10 della legge sul diritto

d’autore consente la tutela delle opere del

design a condizione che queste presentino

“valore artistico” e cioè un elemento ulteriore

rispetto alla creatività normalmente sufficiente a

giustificare la protezione. La giurisprudenza,

come conferma quest’ultima sentenza, ha scelto

di ricavare il necessario valore artistico dal

successo che le opere del design incontrano

anche a distanza di molto tempo dalla loro

immissione in commercio. Al riguardo il Tribunale

di Milano ha precisato che la valutazione del

“valore artistico” deve fondarsi sul

riconoscimento che gli ambienti culturali ed

istituzionali (critici, musei etc..) hanno espresso

circa le qualità estetiche ed artistiche

dell’oggetto di design; in questo modo l’opera

del disegno industriale acquista un valore

autonomo rispetto a quello della sua mera

funzionalità e gradevolezza estetica. Tale

valutazione deve necessariamente avvenire in

riferimento ad un ambito di soggetti più ampio

della ristretta cerchia dei designers o del

consumatore del settore. Nel caso di specie, ad

esempio, il Tribunale milanese ha attribuito

particolare rilevanza al fatto che alcune delle

opere fossero state tra l’altro esposte in

prestigiosi musei internazionali (così nel caso

della Lounge Chair & Ottoman esposta da

decenni nella collezione permanente del

Museum of Arts and Design di New York).

La decisione milanese affronta anche il tema

della tutela concorrenziale delle opere del

design rispetto alle possibili imitazioni. Sotto

questo secondo profilo la decisione del

Tribunale di Milano confligge apertamente con

altra pronuncia, appena successiva, del

Tribunale di Firenze. Per il primo, infatti,le opere

del design acquistano nel tempo un’identità

estetica connotante che non può essere diluita

e confusa attraverso l’immissione nel mercato di

imitazioni; il Tribunale fiorentino, al contrario,

considera sufficiente ad evitare ogni effetto

confusorio l’apposizione del marchio

dell’imitatore sui listini e sulle brochures

illustrative. Neppure, afferma il giudice fiorentino,

si può pretendere, che l’imitatore introduca

varianti estetiche tali da diversificare le

imitazioni dalle opere originali, perché ciò ne

pregiudicherebbe l’armonia delle linee ed il

pregio estetico. Così ragionando, il Tribunale di

Firenze nega la tutela della concorrenza sleale,

concessa dalla pronuncia milanese.

(M.G.)

Coordinatore:

Avv. Gianluca Morretta

Page 16: R&P Mag 4

16

4.DIRITTO DELLA RETE

Giurisprudenza Italiana

Corte di Cassazione Penale:

LEGGE SULLA STAMPA E TESTATE ON LINE

La Corte di Cassazione penale si è

recentemente pronunciata sulla questione

relativa all’applicabilità della legge sulla stampa

(legge n. 47/1946) alle c.d. “testate

telematiche”, ossia i siti internet (blog e giornali

on line) che diffondono notizie sul web.

Tale decisione, che comunque non ha messo la

parola fine a tale problematica, ha stabilito che

l’obbligo di registrazione della testata

telematica presso la cancelleria del Tribunale

sussiste solo nell’ipotesi in cui il titolare voglia

beneficiare delle provvidenze economiche

previste per l’editoria.

Cass. Pen. 10 maggio 2012 n. 23230. pdf

Commento

La Corte di Cassazione ha recentemente

concluso un lungo contenzioso sorto nell’ambito

di un procedimento nei confronti del titolare di

un sito internet che, non avendo registrato

presso la cancellaria del tribunale il proprio

giornale di informazione diffuso sul web, era

stato condannato per il reato di stampa

clandestina di cui all’art. 16 della legge sulla

stampa.

Sia in primo grado sia in appello i giudici di

merito avevano ravvisato la violazione della

normativa sulla stampa sul presupposto che la

stessa troverebbe applicazione nel mondo

dell’on-line e, quindi, anche nei confronti delle

testate telematiche.

I giudici di legittimità, invece, sono giunti ad una

conclusione differente sulla base, tra l’altro, di

due ragioni. La prima deriva dal fatto che una

testata telematica non soddisfa i due requisiti

essenziali affinché si possa parlare di stampa,

ossia: (i) l’attività di riproduzione tipografica e (ii)

la destinazione alla pubblicazione dei risultati di

tale attività. La seconda, invece, si basa su un

dato normativo: tanto la legge 62/2001

(disciplina sull’editoria), quanto il decreto

legislativo 70/2003 (commercio elettronico)

prevedono che la registrazione delle testate

telematiche abbia finalità esclusivamente

amministrative e sia dovuta solo nell’ipotesi in

cui il titolare voglia avvalersi della possibilità di

usufruire delle provvidenze economiche previste

per l’editoria.

Da ciò si ricava che il titolare di un sito internet di

informazione (sia esso un blog o un giornale on

line), che non voglia usufruire dei benefici

riconosciuti dalla legge agli editori, non è tenuto

a registrare la propria testata presso la

cancelleria del Tribunale con la conseguenza

che nei suoi confronti non troverà applicazione

alcuna previsione della legge sulla stampa del

1946.

Come anticipato questa decisione della Corte di

Cassazione, per quanto autorevole, non sembra

aver risolto la problematica in via definitiva. Il

legislatore (successivamente alla sentenza in

commento), infatti, sembra andare in una

direzione diversa che ridimensiona la “libertà”

riconosciuta dalla Suprema Corte.

La nuova legge di riordino dei contributi alle

imprese editrici del 16 luglio 2012, infatti,

prevede che: “Le testate periodiche realizzate

unicamente su supporto informatico e diffuse

unicamente per via telematica ovvero on line, i

cui editori non abbiano fatto domanda di

provvidenze, contributi o agevolazioni pubbliche

e che conseguano ricavi annui da attività

editoriale non superiori a 100.000 Euro, non sono

soggetti agli obblighi stabiliti dall’articolo 5 della

legge 8 febbraio 1948, n. 47 […]”. Secondo il

Parlamento, dunque, l’obbligo di registrazione

sembrerebbe sussistere per tutti le testate on

line i cui editori conseguano ricavi annui

superiori ai 100.000 Euro.

A distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, la

Corte di Cassazione ed il Parlamento hanno

affrontato la medesima problematica,

giungendo a soluzioni, almeno apparentemente,

differenti, salvo non si ritenga che anche il

Parlamento abbia voluto far riferimento a quella

Page 17: R&P Mag 4

17

stessa finalità meramente amministrativa

richiamata dalla Suprema Corte.

Il contrasto tra la recente pronuncia della Corte

di Cassazione e l’ultima novella normativa

confermano, una volta di più che la battaglia a

favore della libertà di informazione sul web,

sostenuta da più parti, sia ancora lunga e

dall’esito incerto.

(A.F.)

Giurisprudenza Internazionale

Criminal Court Of The City Of New York

(People v. Harris): LA “ REASONABLE

EXPECTION OF PRIVACY” DI UN “TWEET”

Il caso

In data 26 gennaio 2012 il Procuratore del

Distretto di New York chiedeva il sequestro dei

dati di un utente di Twitter, Malcom Harris,

accusato di “comportamento atto a turbare

l'ordine pubblico” (New York Penal Law, article

§240.20[5]) per aver preso parte ad una marcia

di protesta del movimento “Occupy Wall Street”

il 1° ottobre 2011. Il provvedimento, in

particolare, era diretto ad ottenere l’indirizzo

mail e i “tweet” postati sull’account

@destructuremal e successivamente cancellati

tra il 15 settembre e il 31 dicembre 2011, al fine

di sconfessare la linea difensiva di Harris che, al

contrario di quanto ritenuto dal Procuratore,

aveva affermato che era stata la Polizia a

condurre e scortare l’accusato sulla carreggiata

del ponte di Brooklyn.

Twitter Inc. si opponeva alla richiesta di

sequestro, ma il 30 giugno 2012, il Tribunale di

New York rigettava l’istanza affermando che:

(i) i “tweet” degli utenti non trovano

protezione all’interno del Quarto

Emendamento della Costituzione degli

Stati Uniti che tutela il cittadino da

perquisizioni, arresti e confische

irragionevoli;

(ii) la richiesta di sequestro in discussione trova

tutela in base alle leggi dello Stato di New

York (art. I, § 12 della Costituzione dello

Stato di New York).

Di conseguenza, il Tribunale ordinava a Twitter

Inc. di dare attuazione alla richiesta di sequestro

del Procuratore. In data 27 agosto 2012 Twitter

Inc. ha presentato appello contro tale

decisione.

Le motivazioni dell’accusa

Il Procuratore di New York, al fine di dare

legittimazione alla propria richiesta di sequestro

dei “tweet” dell’account di Harris, ha anzitutto

sostenuto il carattere pubblico degli stessi,

affermando che l’ISP, in questo caso, è come se

fosse il testimone di un reato: di conseguenza, è

lecito obbligarlo a rendere note le informazioni

in suo possesso. In secondo luogo, ha affermato

che il Quarto Emendamento, applicabile

all’abitazione fisica di un individuo non è invece

applicabile al mondo della rete, dove le

informazioni sono inviate e custodite presso terze

parti, e non in uno spazio fisico o virtuale nella

disponibilità esclusiva dell’utente della rete. In

terzo luogo, la richiesta del Procuratore era

relativa a fatti sufficientemente specifici e non

generica, circostanza che le conferiva

legittimità in base ai principi contenuti nello

Stored Communications Act (18 USC §§2701-

2711).

La difesa di Twitter Inc.

Twitter Inc. ha, invece, sostenuto che:

(i) il singolo utente ha legittimazione ad

impugnare la richiesta del Procuratore

perché è un diritto protetto dal Primo

Emendamento (libertà di espressione) e i

termini e condizioni di utilizzo attribuiscono

all’utente un “interesse proprietario”

riguardo ai propri “tweet”;

(ii) i “tweet” sarebbero anche protetti dal

Quarto Emendamento perché il

Procuratore ammette di non potervi

accedere liberamente, così dimostrando

l’esistenza di una “reasonable expectation

of privacy” (ragionevole aspettativa di

riservatezza) da parte dell’utente;

(iii) sulla base dell’Uniform Act (Uniform Act to

Secure the Attendance of Witnesses from

Without a State in Criminal Proceedings) la

richiesta doveva essere fatta ad un

Tribunale della California, Stato in cui ha

sede Twitter Inc.

Tralasciando le questioni procedurali, è chiaro

che i Giudici della Suprema Corte dello Stato di

New York dovranno fornire una risposta alla

seguente domanda: una ragionevole

aspettativa di riservatezza può essere

riconosciuta riguardo ad un “tweet” rimasto

Page 18: R&P Mag 4

18

online per un certo periodo e poi rimosso

dall’utente?

L’approccio Europeo alla privacy dell’utente in

Rete

Mentre negli Stati Uniti si discute dell’opportunità

di proteggere il “tweet” di un utente attraverso il

Quarto Emendamento, in Europa si valuta

l’ipotesi di modificare l’attuale normativa sulla

privacy. Le recenti proposte della Commissione,

relative al nuovo quadro giuridico europeo in

materia di protezione dei dati personali,

prevedono l’entrata in vigore entro la fine del

2012 di un Regolamento, che andrà a sostituire

la direttiva 95/46/CE, e di una Direttiva che

dovrà disciplinare i trattamenti per finalità di

giustizia e di polizia (attualmente esclusi dal

campo di applicazione della direttiva 95/46/CE).

Qualora entrasse in vigore, il nuovo

Regolamento introdurrebbe il "diritto all’oblio",

ossia il diritto di decidere quali informazioni

possano continuare a circolare (in particolare

nel mondo online) dopo un determinato periodo

di tempo, fatte salve specifiche esigenze (ad

esempio, per rispettare obblighi di legge, per

garantire l’esercizio della libertà di espressione o

per consentire la ricerca storica).

Negli Stati Uniti, quindi, il Primo e Quarto

Emendamento si pongono come baluardo

difficilmente superabile della libertà di

espressione e del diritto alla riservatezza, e

dirigono necessariamente l’oggetto delle

riflessioni giuridiche sul piano dei rapporti tra i

poteri delle istituzioni e le libertà degli individui.

In Europa invece, i problemi legati alla

“reputazione digitale” costringono le Autorità

giudiziarie ad adottare decisioni spesso

contrastanti fra loro, che in assenza di rigide

affermazioni in merito alla libertà di espressione

lasciano gli utenti della Rete, oltre che gli stessi

internet service provider, in balia di affermazioni

di principio spesso insufficienti e/o poco aderenti

alla realtà di un fenomeno – la diffusione

globale delle informazioni – per il quale non sono

ancora state messe nero su bianco le “regole

del gioco”.

Secondo James Q. Whitman, titolare della

cattedra di diritto comparato presso la Yale Law

School, questa differente impostazione giuridica

è frutto della diversa formazione storica, politica

e culturale dei due continenti.

La privacy europea tende a salvaguardare la

riservatezza della persona di fronte al principale

soggetto che la minaccia: il sistema dei media

e, con l’avvento delle nuove tecnologie, quello

derivante dalla società dell’informazione. La

privacy statunitense, invece, si erge a tutore

dell’inviolabilità delle pareti domestiche dalla

possibile intrusione dello Stato.

Se si considera, tuttavia, che i tre principali

internet service provider statunitensi collocati

nell’area della Silicon Valley (Google, Facebook

e Twitter) contano ad oggi circa 2 miliardi e

trecento milioni di utenti nel mondo e buona

parte di essi sono cittadini dell’Unione Europea,

è facile immaginare come queste differenti

impostazioni debbano urgentemente trovare un

punto di equilibrio.

(avv. Giuseppe Vaciago)

Coordinatori:

Avv. Pierluigi De Palma

Avv. Luca Egitto

Page 19: R&P Mag 4

19

5.INTERNATIONAL

European Case Law

European Court of Justice –

USEDSOFT GMBH V ORACLE

INTERNATIONAL CORP. (CASE C‑128/11,

JUDGMENT OF JULY 3, 2012)

“I have a daughter (have while she is mine),”

said Polonius. Apparently, the same may be said

of downloaded software after the recent ruling

by the European Court of Justice in UsedSoft

GmbH v Oracle International Corp. (Case

C‑128/11, judgment of July 3, 2012).

The issue was well-known. When we buy a book,

we may read it, copy it or sell it. But when we

buy and download software, the license

agreement frequently states that we cannot

resell it. Moreover, the software company

typically offers extensive after-sale support,

including major updates. As a result, after paying

for a program we are willing to stick with it: doing

otherwise would be prohibitively expensive,

when comparing the costs of acquiring similar

software with the sunk costs of the software we

already have.

But our books we may always sell. Some books

include certain restrictions, such as “This book is

sold subject to the condition that it shall not, by

way of trade or otherwise, be lent, re-sold, hired

or otherwise circulated without the publisher’s

prior consent in any form of binding or cover

other than that in which it is published and

without a similar condition including this

condition being imposed on the subsequent

purchaser.” Yet, no publisher or bookseller may

prohibit resale of a book. Lawyers call this notion

“exhaustion of copyright.” Once a book,

compact disc or other copy of a work is lawfully

sold to Polonius, Polonius has the book (has while

it is his) and may freely sell it without violating

any copyright, because the copyright was

exhausted when he bought the book.

When we buy and download a program from

the Internet, we do not obtain any physical copy

of the program. Hence, there used to be a

strong view that there is no exhaustion of

copyright when buying programs online

(downloading a file, rather than buying a CD-

ROM or DVD containing the program). The

prevailing view was that a license for a

downloaded program may be non-transferable.

Such provisions were commonly used in licenses

from the owner of the software to the purchaser

when the purchaser ticked “Accept terms and

conditions” and then clicked “Download.”

The ECJ has now wiped out this distinction

between tangible and digital copies of software.

Downloading of a program and conclusion of a

license agreement, the judges held, “form an

indivisible whole.” When the license is for an

unlimited period and for a fee, this whole

amounts to the sale of a copy of the program,

just like the sale of a book. This is because there is

an exchange of a copy in consideration of the

fee. This led to the conclusion that a digital,

intangible copy with a license for an unlimited

period may be resold. The right of resale must

not be excluded in the license agreement, and

any terms to this effect are null and void.

The court went even further. It ruled that

maintenance of software, provided for a license

fee, changes the copy already sold so that all

alterations form a part of the copy. This has two

important consequences. First, an agreement for

maintenance services does not affect the

possibility of reselling the software. Second, any

patches or updates provided under the

maintenance are also exhausted and are

traded with the original copy.

The ECJ ruled therefore that when reselling a

program, the previous owner should make the

original copy unusable (most likely by uninstalling

it altogether). The new acquirer is allowed to

download another copy from the copyright

holder’s website, and use it on the acquirer’s

own computer. It remains to be seen whether

the distributor may prevent exercise of this right.

There are two main restrictions on resale

imposed by the ECJ ruling. First, in the case of a

multiuser license, the licensee is not allowed to

divide the original license and sell the program

for each workstation to separate users. The

licensee may only sell the whole package to

one buyer. Second, the distributor may take

measures to ensure that a given copy is not used

simultaneously by the original buyer and a

subsequent buyer. This may include product keys

or other measures assuring that a copy is used

by only one user at a time.

The UsedSoft judgment is one of a series in which

the ECJ has adapted intellectual property law to

suit the changing reality of contemporary life

online. It promotes the common sense notion of

having something while we have it, instead of

Page 20: R&P Mag 4

20

using something borrowed under a license

agreement. The court noted particularly that

“from an economic point of view, the sale of a

computer program on CD-ROM or DVD and the

sale of a program by downloading from the

internet are similar. The on-line transmission

method is the functional equivalent of the supply

of a material medium.”

It is tempting to say that in this case the outlook

of consumers prevailed over corporate interests.

But in fact the UsedSoft ruling was issued in a

case between two businesses: one producing

software and the other reselling it. Further, the

possibility of reselling programs that are no

longer needed may be a boon to SMEs and also

effectively reduce the commitment cost of

investing in new software.

But some issues are left unresolved. The court

was silent on mp3 files, e-books and all things

digital that are not software. Surely, all these fell

outside the scope of the case, but from a court

so plucky as the ECJ one would nevertheless

expect more general guidance. If one were to

speculate, an educated guess would be that

the court will expand its holding to cover all

computer files.

There remains another problem, however, that is

even harder to solve. The ECJ held that by selling

a copy of software, the user is selling its license.

The notion of exhaustion of copyright seems

irreconcilable with the notion of transferring a

license. These two notions were merged by the

ECJ when it said that because of exhaustion a

license may be transferred. The problem is that a

license is a legal relationship, usually arising out

of a contract, not necessitated by possession of

a copy of the licensed work. In particular, a

license for an unlimited period may be

terminated. This leaves any acquirer of a copy at

the mercy of the copyright holder. It is yet to be

seen whether the law will force copyright holders

to be merciful.

Paweł Chojecki

Paweł Marcisz

Łaszczuk & Partners Law Firm

(Poland)

International Case Law

PROCEDURAL POSSIBILITIES FOR RIGHTS

HOLDERS CONCERNING ACTS OF

TRADEMARK INFRINGEMENT AND UNFAIR

MARKETING ON THE SWEDISH MARKET

The Swedish Market Court: Case C 3/12,

Apoteket AB v. A.N.A. Datoteket Sweden

On October 24, 2012 the Swedish Market Court

issued a judgment in case C 3/12, Apoteket AB

(“Apoteket”) v. A.N.A. Datoteket Sweden

(“Datoteket”). The case concerned the violation

of Swedish Marketing law, i.e. the Swedish

Marketing Act, through the act of passing off on

Apoteket AB’s (the former monopolist on the

Swedish pharmacy market) well known

trademark. The case is a good example of how

the Swedish court system functions when dealing

with unfair marketing practices and trademark

infringement.

Background

Apoteket claimed that the Market Court should

prohibit Datoteket from using its trademark

“Datoteket” combined with its logo under the

penalty of a fine, as it was passing off on

Apoteket AB’s registered trademark “Apoteket”

by using an almost identical logo and name of

its trademark;

(See link;

http://www.marknadsdomstolen.se/Filer/Avgöra

nden/Bilagor/Bilaga2012-11.pdf ).

As Apoteket had attained the monopoly as the

only pharmacy acting on the Swedish market for

over 40 years until recently, it claimed to be the

possessor of a well known trademark with a

great amount of goodwill attached to it,

accompanied with a positive reputation among

consumers.

The decision of the Market Court

The Market Court agreed with the claimant’s

position regarding the status of “Apoteket” as

being a well known trademark. The Market Court

relied in large part on the evidence presented

by Apoteket stating the fact that Apoteket had

been the monopolist for several years on the

Swedish market. Other important parts of the

evidence were executed market analyses

Page 21: R&P Mag 4

21

demonstrating consumer awareness of the

trademark and information about Apoteket’s

market share. The Market Court also came to

the conclusion that the trademark “Datoteket”

combined with its logo reminded a great deal of

the logo and trademark of Apoteket, creating

an association with the claimant constituting

unfair marketing practices in violation of the

Swedish Marketing Act. The assessment of

determining whether or not the actions by

Datoteket were to be defined as unfair

marketing was made with regard to “the

likeliness of affecting the average consumer’s

ability to take a well-founded commercial

decision, that he otherwise would not have

taken”. This so-called transactional test was

implemented into Swedish marketing law as a

result of Directive 2005/29/EC on unfair business-

to-consumer commercial practices. The Market

Court noted that there was a risk that the

economic behavior of the average consumer

would be noticeably affected due to the

similarities between the two trademarks.

The Market Court affirmed what had been

stated in Apoteket’s claim. Datoteket was in fact

riding on goodwill originally established by

Apoteket, it had created a false association that

would mislead consumers. The judgment issued

by the Market Court resulted in a prohibition of

continued usage of Datoteket’s logo under a

penalty of a fine of 1,000,000 SEK.

Significance of the decision from an

international point of view

The above described case, Apoteket v.

Datoteket, is a typical example of passing off,

however it also entails the legal issue of

trademark infringement through dilution. Section

1, paragraph 10 of the Swedish Trademark Act

(a law which is a result of the harmonization of

Directive 2008/95 /EC) provides a

comprehensive protection for trademarks such

as Apoteket that are considered to be well

known on the market. The use of trademarks that

are identical or similar in relation to any goods or

services where the use of that trademark takes

unfair advantage of, or is detrimental to, the

distinctive character or reputation of a well

known trademark is prohibited. It is from the

perspective of the average consumer that the

determination regarding the similarity between

the two trademarks shall be made. The

assessment of determining whether or not a

trademark is well known on the market

(according to the Swedish Trademark Act) is

based upon the estimated trademark

awareness amongst a significant amount of the

targeted consumers for a specific service or

product.

Claims involving trademark infringement are

handled by the Swedish District Courts whilst the

Market Court, which is a so-called specialized

court, handles claims comprising unfair and

misleading marketing practices. Naturally, for this

reason Apoteket did not include trademark

infringement in its claim before the Market Court.

This division of handling of legal claims between

the District Courts and the Marketing Court leads

to separate procedural possibilities for rights

holders. Moreover, legal proceedings before the

Market Court does not exclude the possibility of

initiating legal proceedings before the relevant

District Court as well. An unfavourable judgment

concerning unfair marketing might have a

different outcome in the District Court

concerning trademark infringement and dealing

with the same executed marketing practices

taken by the defendant.

Many times when standing before the option of

choosing between the initiation of an

infringement proceeding or an unfair marketing

proceeding the latter appears more appealing

for claimants concerning the potential outcome

of the sanctions. For example, an issued

injunction according to the Marketing Act may

normally not be appealed. Secondly, unlike the

Trademark Act there is no requirement in the

Marketing Act regarding the intention behind

the executed marketing practices, such as gross

negligence etc. Also, the aimed effect of

enforcing a prohibition may work faster when

referring to the rules of the Marketing Act as the

infringer has to cease with the unfair marketing

practices immediately to avoid having to pay

the conditional fine. Claimants using the

infringement proceeding along with the

Trademark Act will be able to demand

damages, though the actual damage caused

by the infringement is often hard to define.

From an economic point of view for rights

holders, the division of handling of legal claims

between the two above mentioned courts may

certainly appear expensive and unnecessary,

however, it can also constitute a second

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22

chance in an unsuccessful case in either of

those courts.

Susanna Norelid

Elisabeth Hanqvist

Johanna Björklund

Advokatfirman NorelidHolm

(Sweden)

Page 23: R&P Mag 4

23

www.replegal.it

Torino

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Tel +39 011 5584 111

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Tel +39 02880721

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Tel +39 0165 235166

Fax. +39 0165 31719

Busto Arsizio

Via Goito, 14 (21052)

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