Roy doliner

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Roy Doliner, Il disegno segreto. Il messaggio segreto della Kabbalah nell’arte d’Italia, Milano, Rizzoli, 2012 (€ 22).

Roy Doliner è un ebreo ortodosso che ha deciso di accattivare i goyim con un

sorprendente miscuglio di aneddoti alquanto raffazzonati della storia e, in particolare,

della storia dell’arte italiana, un bric-à-brac di dubbie “chicche” sui “segreti della Torà”,

manifestazioni di amorevole premura per la salute materiale e spirituale della nazione

italiana e appelli alla buona volontà altrui, per quanto riguarda codeste nobili

preoccupazioni. Abbiamo a che fare, insomma, con un incrocio tra una specie di Dan

Brown con la kippah, una versione arcimboldesca dell’eccellente (sia sempre lodato)

Philippe Daverio e, per i tratti di filantropica sagezza da rotocalco, un esimio

ariafrittologo alla Paulo Coelho.

Sento di avervi descritto un ircocervo, una chimera, qualcosa che non esiste in

natura – o qualcosa che “purtroppo” esiste, beffando le aspirazioni degli zoologi ad una

tassonomia rassicurante, come succede con l’ornitorinco... In ogni caso vi ho disegnato

un mostriciattolo raccapricciante, non certo un vago liocorno... E forse, anche per

questo, cominciate già a fare il tifo per il ritrattato e contro di me: esso non può essere

così brutto come lo dipingo, chissà per quali oscuri motivi me la son presa con lui...

Invece, credetemi, non lo conosco, non mi ha fatto nulla, è lui che si presenta proprio

così! Se uno ha una taglia XXXL come Giuliano Ferrara, non può rimproverare il

ritrattista perché non lo dipinse come un fustino.

Confesso che me la son presa un po’, sì, ma non con Doliner: piuttosto con

Sergio Risaliti, il quale, con la sua melliflua recensione al libro su «il Venerdì di

Repubblica» (“Segni di Kabbalah, da Michelangelo alla Fontana di Trevi”, 16 marzo

2012), mi ha indotto a comperare Il disegno segreto. Il Risaliti mi ha infuso un’illusoria

speranza riguardo la serietà della trattazione dell’avvincente tematica proposta da

Doliner, infatti, giacché vi parlava di un autore «attrezzato di un’approfondita

conoscenza delle Sacre Scritture e della Kabbalah», ma che «non per questo si sente in

dovere di saccheggiare la storia dell’arte per fantasticare complotti internazionali»; e

aggiungeva, ancora, che il libro consisteva di «300 pagine d’esemplare chiarezza». La

chiarezza, in effetti, non vi manca affatto; quello che vi manca è una tesi centrale

attendibile e una scrupolosità investigativa che, da quanto mi è stato dato osservare in

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seguito, sono elementi al di là della portata dell’autore oppure che esso preferisce tenere

per sé, invece di adoperarli a nostro comune beneficio.

Non potrei mai prendermela con Doliner anche perché in fin dei conti, dopo una

faticosa quanto testarda lettura del suo libro, cercando, guardingo, di riuscire a separarvi

il grano dalla zizzania, da mero curioso(ne) di cose ebraiche sono riuscito a racimolare,

in esso, un gruzzolo non indifferente di informazioni utili. Me ne servirò addirittura nel

secondo volume sulla Qabbalà che ho in cantiere, con la dovuta venia all’autore che me

ne ha reso edotto – poiché ho la fisima di citare le fonti di ogni informazione attendibile

che riporto, quand’anche l’abbia scovata in documenti che, per altri versi, tanto

attendibili non sono.

Passo, dunque, alla mia personale disamina dei pregi e difetti de Il disegno

segreto, cominciando dagli ultimi – e dando la mia preferenza, pertanto, non al principio

dell’in cauda venenum ma piuttosto a quello del dulcis in fundo.

Titolo – Il disegno segreto – e sottotitolo – Il messaggio della Kabbalah

nell’arte d’Italia – svelano sin dal principio la tesi perseguita dall’autore, e posso

asserire che tra tali intenti programmatici e l’orchestrazione dei contenuti sviluppati nel

libro non ci sono grandi discrepanze o soluzioni di continuità. Il primo grande,

increscioso problema è che la tesi proposta e il titolo che la sintetizza sono strampalati,

del tutto indifendibili. In effetti, non credo che ci sia stato alcun disegno segreto e, men

che meno, che i grandi artisti tirati in ballo da Doliner si siano gioiosamente messi al

servizio della trasmissione camuffata di un messaggio cabalistico. La tesi portante è

dunque, secondo me, un rigoglioso esemplare di ircocervo fantastorico.

La seconda magagna da segnalare riguarda la furbesca ma del tutto immotivata

organizzazione del volume: suddiviso in undici capitoli, ognuno intestato ad una sefirà

– undici, perché Doliner vi include Da‘at –, il rapporto stabilito, in ogni capitolo, tra la

sefirà che dà loro il titolo e gli elementi storico-artistici ivi trattati è altamente

discutibile, a dir poco; anzi, mi pare più giusto dirla arbitraria, forzata e cavillosa.

Può sembrare, ancora una volta, che io stia esagerando. Non mi sforzerò, però,

di sviluppare le considerazioni ermeneutiche su cui poggia questo mio severo giudizio:

credo che basteranno gli esempi che seguono, scelti tra le innumerevoli assurdità che

popolano il volume, per convincere i lettori che non sto dubbie inventando niente.

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Inizio da un particolare che ha a che vedere con le credenze proprie di alcune

correnti dell’ebraismo, dal piglio non propriamente illuministico: la tenacia con cui

l’autore si attiene – religiosamente, è il caso di dire – «alla consuetudine di proteggere il

santo nome divino non scrivendolo mai per esteso o correttamente». E poi esemplifica:

«A volte scrivo una k al posto di una h [è quello che fa riguardo a Elohim, che trasforma

in Elokim], a volte omettendo [sic] una vocale, come faccio con D-o e Sign-re» (nota a

p. 152). Io lo trovo alquanto ridicolo, ma à chacun son goût, e poi ogni credenza sincera

– se non lede i sacrosanti diritti umani – va semplicemente rispettata.

Molto più irritante è il modo in cui tratta i lettori da sprovveduti – anche se è lui,

poi, a farci una trista figura –, quando pasticcia con i termini della lingua che

sicuramente conosce molto meglio di me, cioè l’ebraico. A p. 82, infatti, ci rende edotti

che «nella Bibbia ebraica l’acqua è sovente mayim chaim, <acque vive> o <acque di

vita>» – e fin qui tutto bene, ma poi aggiunge che «per la Gematria [...] l’acqua ( ,

chai) corrisponde al numero 18»... Invece, chai è vita: acqua, è mayim... Ma ci prende

proprio per sciocchi, o è lui che sfarfalla un po’ troppo? Tutt’e due le cose, forse.

Se tratta così manescamente l’ebraico, figuriamoci che cosa non riesce a fare nei

confronti dell’italiano. Piovono parole a sproposito, anche se, in fondo, un proposito ci

sta, dietro: quello di ammiccare al pressapochismo dell’“esoterismo di massa” (è un

ossimoro, ma un senso ce l’ha). La capitale piemontese diventa, così, «la mistica

Torino» (p. 113). Un lungo brano trascritto dalla lettera In exordio nascentis mundi, di

Federico II di Svevia (p. 175), nel quale nulla si trova di propriamente mistico o

esoterico, ci viene scodellato da Doliner proprio perché, secondo lui, vi si trova una

«singolare mescolanza di riferimenti kabbalistici e gnostici». Urca...

Si sa che, ormai, il mistico va bene con tutto, un po’ come il nero nei vestiti

policromi o la rucola nei contorni “alla moda”. Cabalistico, Qabbalà, gnostico, etc.,

insaporiscono le più scialbe pietanze, come la salsa rosa o la Worcestershire sauce. Non

ci stupiamo, dunque, se Doliner si azzarda a presentare Castel del Monte – il quale

d’altronde, a suo avviso, «non si trova in cima a un’altura» (p. 11) – come «uno

stranissimo esercizio di matematica, astronomia e, soprattutto, Kabbalah» (p. 176),

anche se poi, su quest’ultima e in rapporto con il misterioso castello, non spiaccica una

sola parola.

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Non pago di “spararle grosse” senza poi provare a giustificarsi almeno con

qualche esempio concreto, Doliner persevera ancora nel tentativo di farci vedere quello

che non c’è, come un illusionista o un ipnotista da baraccone; ad esempio, provando a

convincerci che la federiciana Aquila, in quanto «nuova Gerusalemme» (p. 186), fu

progettata in modo da riprodurre la planimetria della città santa per antonomasia – ma

le mappe delle due città, riprodotte a p. 187, anche se manipolate ad arte per farle

minimamente combaciare, seguitano testardamente ad assomigliarsi quanto un

lavandino e una macchina da scrivere.

Perché possiate gustare appieno la proficienza storica di Doliner, si noti ancora

che, secondo lui, Federico II, dopo Castel del Monte, ebbe ancora «il tempo e la forza di

fondare una nuova città» (p. 11) – l’Aquila, appunto. Peccato, però, che la città, sebbene

pianificata o fatta pianificare da Federico II, sia stata costruita solo dopo la morte dello

stupor mundi...

Anche i riferimenti di Doliner alle Sacre scritture ebraiche risultano qualche

volta approssimativi o, addirittura, del tutto spropositati. Quando ci illumina sul fatto

che «nelle Scritture ebraiche ci sono tre cose che l’Onnipotente ha creato con la luce

della Chochma: il corpo umano, il tabernacolo e il Sacro Tempio» (p. 270), di quali

Scritture starà mai parlando? Mi sa che lascia il riferimento sul vago perché non si tratta

affatto della Bibbia ma piuttosto di un libro che solo certi ebrei, tra i più oscurantisti,

considerano sacro – cioè lo Zòhar, se non sbaglio. E lui, in quanto fautore del suddetto

consesso, tenta di convincere i goyim di avere a che fare, senz’altro, com parole sante.

È anche impossibile che lui non sappia che cos’è la Torà. Dunque, se ci “rivela”,

a p. 278, che «secondo la Torah il rabbino Eliezer ben Yose andò a vedere», a Roma, la

menorà del Tempio di Gerusalemme e le altre meraviglie custodite nel Tempio della

Pace, è evidente che lui sa benissimo che un tale racconto non si può trovare nel

Pentateuco, o nei Profeti, o negli Scritti che, insieme, costituiscono la Bibbia ebraica. Ci

sta di nuovo confondendo le acque, e apposta, per inculcarci l’idea che il Talmud – dove

verosimilmente si troverà la storiella che ci racconta – fa parte, senz’altro, della Torà.

Anche la coerenza che, almeno in buona parte, ho riconosciuto sin dall’inizio

all’ardito libercolo, benché all’interno della sua complessiva, monumentale bizzarria,

finisce per denunciare delle crepe di questo tenore: vi si attribuiscono all’opera del

Palladio un «messaggio di fusione mistica» (ancora una volta, l’aggettivo che funge

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sistematicamente da toccasana o da abbraccadabra), a p. 145, sebbene nelle pagine

successive, sempre dedicate all’architetto veneto, non si riesca a intravvedere il benché

minimo barlume di codesto mistico afflato. Anche l’autore si arrende, alla fine: «Il

grande Palladio conosceva la Kabbalah? È poco probabile» (p. 148). Bisogna

aggiungere che, a questa schietta dichiarazione di umanissima impotenza, Doliner fa

seguire un «ma» che dovrebbe “sistemare un po’” le cose; ma io – oculatamente, spero

– mi accanisco a risparmiarvi la continuazione.

Queste mie reticenze possono ridestare l’ipotetico iniziale sospetto che io ce

l’abbia su con il Doliner. Cercherò di porvi rimedio con un ulteriore esempio del suo

rigore storico.

Parlando di Corto Maltese, l’autore ci svela, a p. 237, che il nome di questo

famoso personaggio di Hugo Pratt «rinvia all’enigmatica isola che fu una base dei

cavalieri templari». I templari, a Malta? E io che pensavo fossero stati gli ospedalieri...

O sono io che sbaglio, o allora è il Doliner che riesce a far più danni di Dan Brown.

Perché non manchi proprio nulla al gioco di prestigio montato dall’autore, le

pagine finali indugiano pure in un filantropismo-mecenatismo che non può non risultare

gradito a tutti gli amanti del patrimonio artistico italiano. In questo ambito, spiccano i

suoi accorati appelli alla ricostruzione della «mistica [pure lei!] città di Aquila» (p.

301), conditi con l’autopubblicità del suo personale impegno fattivo (vedi la nota a p.

306). Non ci risparmia neppure questa oligofrenica sfilza di consigli perbenistici e

qualunquisti, degni di un Paulo Coelho lanciato a ruota libera in un’affollata conferenza

stampa: «Indipendentemente dal fatto che viviate o no in Italia, potete fare la vostra

parte per evitare che precipitiamo tutti nell’oscurità: lottando contro la corruzione nella

vostra città, aiutando a ripristinare una parte del vostro retaggio storico o culturale;

dando vita a un gruppo di appassionati che leggano vere opere letterarie anziché libri da

ombrellone; iscriversi [sic] ad associazioni di amici dell’arte, della musica o della

danza, o fare qualunque altra cosa che aiuti a sviluppare la nostra gadlut, il nostro più

elevato sé spirituale» (pp. 306-7).

Avrò senz’altro un cuore di pietra e sarò pure antipaticissimamente scettico, ma

non riesco proprio a raccogliere l’invito a «far parte della catena millenaria del

movimento di mistici [uffi…] invisibili e non organizzati [,] intenti (…) a innalzare il

mondo materiale verso lo spirito» (p. 308).

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Tutte queste spataffiate buoniste si inseriscono nel tessuto del libro come i cavoli

a merenda – e, almeno con me, tali furbesche manovre di captatio benevolentiae hanno

un effetto francamente controproducente. Anche se il libro non è un’opera di pura

finzione, gli si addicono a perfezione, credo, le parole disincantate che Elisabetta Rasy

ha recentemente dedicato a un romanzo di Elizabeth Strout (“Deludenti somali del

Maine”, «Il Sole 24 ore – La domenica del Sole», 30/6/13): «Non sempre – anzi, molto

raramente – l’inserzione di un tema del giorno, di un pizzico di politica, di un retrogusto

di urgenze internazionali o di battaglie civili, arricchiscono una storia. A volte sono una

gaffe letteraria (…).»

E con questo chiudo le ostilità: non volendo sfiancarvi con la prosecuzione di

questo già chilometrico elenco di stranezze, lo dò per finito – sottolineando, ancora una

volta, che si tratta soltanto di un florilegio, e molto stringato. Passiamo, dunque, agli

aspetti positivi del bizzarro trattatello.

Devo a Doliner l’acquisizione della conoscenza del rapporto tra la trascrizione

greca del nome di Gesù e il numero otto (per di più, in un certo qual modo

“potenziato”). In effetti, come l’autore rivela a p. 180, la somma dei numeri ugualmente

rappresentati, in greco, dalle lettere ΙΗΣΟΥΣ è 10+8+200+70+400+200, cioè 888. Non

mi dilungo sui valori simbolici dell’otto, perché sono arcinoti a chi si interessa, come

me, di tali argomenti.

Per quanto riguarda propriamente la Cabala ebraica, devo a Doliner certe

informazioni cui non arriverei mai, o solo chi sa quando, senza il suo aiuto:

– Innanzi tutto, il mio primo contatto (p. 72) con questa interpretazione delle

prime parole della Torà: Bere’šìt barà Elohìm et… / potrebbe

(anche) significare In principio Dio creò l’alfabeto ( )!

– Poi, grazie alle indicazioni da lui fornite alle pp. 241-2 e 266, ho finalmente

potuto “toccar con mano” le conferme bibliche della pertinenza della “triade gnomica”

Hokhmà/Binà (/Tevunà)/Da‘at, corroborata da Es 31:2, Es 35:31, Prv 3:19-20, Prv 5:1-2

e Prv 24:3-4.

Mi ha fatto piacere trovare a p. 145, a proposito di Modigliani, un riferimento a

quel fecondo pensatore livornese, Elia Benamozegh, che tanto si è sforzato per fare

uscire l’ebraismo dal suo isolazionismo oltranzista, per spingerlo verso l’acquisizione di

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una decisa impostazione ecumenica – insomma, per farlo diventare una vera e propria

religione universale. Secondo Benamozegh, l’allargamento delle potenzialità salvifiche

dell’ebraismo a tutta l’umanità potrebbe essere raggiunto attraverso l’accettazione

generalizzata dei sette princìpi del noachismo; il quale consiste in una sorta di

pluridistillato dei 613 precetti dell’ebraismo, talmente sintetico, talmente degno del

consenso di ogni persona di buona volontà e di sana ragione che esso può essere

ritenuto, a buon diritto, una concrezione cristallina di veri e propri universali etico-

religiosi.

Mi fa ugualmente piacere che Doliner abbia adottato questa avvincente

prospettiva noachita che, secondo gli ebrei meno particolaristici, basterebbe a mettere i

doni della grazia divina anche alla portata dei gentili che ci si conformino: se il «solido

fondamento» di una sana vita spirituale, «per l’ebreo fedele alla sua tradizione», «è nei

613 precetti reperibili nella Torah», «per i non ebrei è ancora più semplice, non essendo

indispensabile ubbidire nemmeno ai Dieci Comandamenti. Sono sufficienti le sette leggi

universali contenute nella storia (…) di (…) Noè» (p. 307).

Mi risparmio, e vi risparmio, la pedanteria dell’esposizione dei suddetti sette

principi (ma non resisto ad aggiungere che curiosamente, e certamente non per caso,

anche nella Massoneria Nera del Rito Scozzese esiste il grado, ormai desueto, di Gran

Patriarca Noachita); e, da benigno e volenteroso noachita quale ormai mi sento,

definitivamente mi metto a tacere.

Pisa, 15 luglio 2013

Arlindo José Nicau Castanho

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