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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia di Roma. Vol. 1: Dalla preistoriaalla cacciata dei re da RomaAUTORE: Mommsen, TheodorTRADUTTORE: Quattrini, Antonio GaribaldoCURATORE: Quattrini, Antonio GaribaldoNOTE: Con una prefazione di Vittorio Scialoja

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828100232

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "The Abduction of theSabine women" di Nicolas Poussin (1594–1665). - Me-tropolitan Museum of Art. New York, USA. - commons.-wikimedia.org/wiki/File:The_Rape_of_the_Sabi ne_Wo-men.jpg - Pubblico Dominio.

TRATTO DA: 1: \ Dalla preistoria alla cacciata deire da Roma. / Teodoro Mommsen - Roma : Aequa, stampa1938. - XXI, 294 p. ; 19 cm. - Fa parte di Storia diRoma / Teodoro Mommsen ; curata e annotata da Anto-nio G. Quattrini.

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TITOLO: Storia di Roma. Vol. 1: Dalla preistoriaalla cacciata dei re da RomaAUTORE: Mommsen, TheodorTRADUTTORE: Quattrini, Antonio GaribaldoCURATORE: Quattrini, Antonio GaribaldoNOTE: Con una prefazione di Vittorio Scialoja

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828100232

DIRITTI D'AUTORE: no

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COPERTINA: [elaborazione da] "The Abduction of theSabine women" di Nicolas Poussin (1594–1665). - Me-tropolitan Museum of Art. New York, USA. - commons.-wikimedia.org/wiki/File:The_Rape_of_the_Sabi ne_Wo-men.jpg - Pubblico Dominio.

TRATTO DA: 1: \ Dalla preistoria alla cacciata deire da Roma. / Teodoro Mommsen - Roma : Aequa, stampa1938. - XXI, 294 p. ; 19 cm. - Fa parte di Storia diRoma / Teodoro Mommsen ; curata e annotata da Anto-nio G. Quattrini.

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CODICE ISBN: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 28 luglio 20082a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 26 aprile 2013

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

SOGGETTO:HIS002020 STORIA / Antica / Roma

DIGITALIZZAZIONE:Paolo Alberti, [email protected]

REVISIONE:Catia Righi, [email protected] Di Mauro (ePub)Ugo Santamaria

IMPAGINAZIONE:Paolo Alberti, [email protected] (ODT)Catia Righi, [email protected] (ODT)Carlo F. Traverso (ePub)

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected] Santamaria

Informazioni sul "progetto Manuzio"Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associa-zione culturale Liber Liber. Aperto a chiunque vo-glia collaborare, si pone come scopo la pubblicazio-ne e la diffusione gratuita di opere letterarie informato elettronico. Ulteriori informazioni sono di-sponibili sul sito Internet:http://www.liberliber.it/

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Aiuta anche tu il "progetto Manuzio"Se questo "libro elettronico" è stato di tuo gradi-mento, o se condividi le finalità del "progetto Ma-nuzio", invia una donazione a Liber Liber. Il tuosostegno ci aiuterà a far crescere ulteriormente lanostra biblioteca. Qui le istruzioni:http://www.liberliber.it/aiuta/

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Indice generale

RIFARE LA STORIA DI ROMA...................................7TEODORO MOMMSEN...............................................9PREFAZIONE DELL'AUTOREALL'ULTIMA EDIZIONE DA LUI CURATA............27PRIMO LIBRODALLA PREISTORIAALLA CACCIATA DEI RE DA ROMA......................28

PRIMO CAPITOLOINTRODUZIONE....................................................29SECONDO CAPITOLOLE PIÙ ANTICHE IMMIGRAZIONIIN ITALIA................................................................36TERZO CAPITOLOLE COLONIE DEI LATINI.....................................72QUARTO CAPITOLOLE ORIGINI DI ROMA...........................................90QUINTO CAPITOLOLA COSTITUZIONE ORIGINARIA DI ROMA...110SESTO CAPITOLOI NON-CITTADINI E LA RIFORMA DELLA CO-STITUZIONE.........................................................146SETTIMO CAPITOLOL'EGEMONIA DI ROMA NEL LAZIO................171OTTAVO CAPITOLOLE SCHIATTE UMBRO-SABELLICHE.

Indice generale

RIFARE LA STORIA DI ROMA...................................7TEODORO MOMMSEN...............................................9PREFAZIONE DELL'AUTOREALL'ULTIMA EDIZIONE DA LUI CURATA............27PRIMO LIBRODALLA PREISTORIAALLA CACCIATA DEI RE DA ROMA......................28

PRIMO CAPITOLOINTRODUZIONE....................................................29SECONDO CAPITOLOLE PIÙ ANTICHE IMMIGRAZIONIIN ITALIA................................................................36TERZO CAPITOLOLE COLONIE DEI LATINI.....................................72QUARTO CAPITOLOLE ORIGINI DI ROMA...........................................90QUINTO CAPITOLOLA COSTITUZIONE ORIGINARIA DI ROMA...110SESTO CAPITOLOI NON-CITTADINI E LA RIFORMA DELLA CO-STITUZIONE.........................................................146SETTIMO CAPITOLOL'EGEMONIA DI ROMA NEL LAZIO................171OTTAVO CAPITOLOLE SCHIATTE UMBRO-SABELLICHE.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

PRIMORDI DEI SANNITI....................................196NONO CAPITOLOGLI ETRUSCHI.....................................................204DECIMO CAPITOLOGLI ELLENI IN ITALIA – SIGNORIA SUI MARI DEGLI ETRUSCHI E DEI CARTAGINESI.........219UNDECIMO CAPITOLOLEGGI E GIUDIZI.................................................253DODICESIMO CAPITOLORELIGIONE...........................................................277TREDICESIMO CAPITOLOAGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO................................................................................315QUATTORDICESIMO CAPITOLOMISURE E SCRITTURA......................................350QUINDICESIMO CAPITOLOL'ARTE...................................................................376

INDICE.......................................................................411

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

PRIMORDI DEI SANNITI....................................196NONO CAPITOLOGLI ETRUSCHI.....................................................204DECIMO CAPITOLOGLI ELLENI IN ITALIA – SIGNORIA SUI MARI DEGLI ETRUSCHI E DEI CARTAGINESI.........219UNDECIMO CAPITOLOLEGGI E GIUDIZI.................................................253DODICESIMO CAPITOLORELIGIONE...........................................................277TREDICESIMO CAPITOLOAGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO................................................................................315QUATTORDICESIMO CAPITOLOMISURE E SCRITTURA......................................350QUINDICESIMO CAPITOLOL'ARTE...................................................................376

INDICE.......................................................................411

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

TEODORO MOMMSEN

STORIA DI ROMA

CURATA E ANNOTATA DA ANTONIO G. QUATTRINI

PRIMO VOLUME

EDITRICE A EQ U A ROMA

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

TEODORO MOMMSEN

STORIA DI ROMA

CURATA E ANNOTATA DA ANTONIO G. QUATTRINI

PRIMO VOLUME

EDITRICE A EQ U A ROMA

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

RIFARE LA STORIA DI ROMA

Fu questo l'ultimo grido di quel grande italiano che fuEnrico Corradini: «rifare la storia di Roma!».

E leggendo questa «Storia romana» del Mommsen,che fu ed è senza dubbio il più compiuto ed il più ragio-nato studio dalle origini all'impero, meglio appare al let-tore questa necessità. Chè sarebbe stolto negare i pregidi quest'opera monumentale che ne fanno ancor oggil'aureo e insuperato testo per chiunque voglia interpreta-re la potenza e la grandezza di Roma, e che, caso piùunico che raro, mentre si rivolge particolarmente ai dot-ti, non interessa meno chiunque sia fornito soltanto diuna cultura generale; ma è ugualmente innegabile che,soprattutto laddove, come in Livio ch'egli avversa, ilsenso della romanità si sovrappone alla logica dei fatti ela storia diventa poesia, l'anima del Germano prevale esi rivela nel contrasto, che l'alterigia dottorale delMommsen maggiormente accentua, e che invano la po-tenza del suo stile cerca di imporci.

Un esempio tipico ci è offerto dal capitolo ove egliparla della poesia e dell'arte italiana. Il meno che si pos-sa dire per iscusar la sua paradossale incomprensione èche una volta ancora si dimostra che Iddio ha negato alTedesco il senso della bellezza.

Se a questo si aggiunge lo spirito col quale il Momm-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

RIFARE LA STORIA DI ROMA

Fu questo l'ultimo grido di quel grande italiano che fuEnrico Corradini: «rifare la storia di Roma!».

E leggendo questa «Storia romana» del Mommsen,che fu ed è senza dubbio il più compiuto ed il più ragio-nato studio dalle origini all'impero, meglio appare al let-tore questa necessità. Chè sarebbe stolto negare i pregidi quest'opera monumentale che ne fanno ancor oggil'aureo e insuperato testo per chiunque voglia interpreta-re la potenza e la grandezza di Roma, e che, caso piùunico che raro, mentre si rivolge particolarmente ai dot-ti, non interessa meno chiunque sia fornito soltanto diuna cultura generale; ma è ugualmente innegabile che,soprattutto laddove, come in Livio ch'egli avversa, ilsenso della romanità si sovrappone alla logica dei fatti ela storia diventa poesia, l'anima del Germano prevale esi rivela nel contrasto, che l'alterigia dottorale delMommsen maggiormente accentua, e che invano la po-tenza del suo stile cerca di imporci.

Un esempio tipico ci è offerto dal capitolo ove egliparla della poesia e dell'arte italiana. Il meno che si pos-sa dire per iscusar la sua paradossale incomprensione èche una volta ancora si dimostra che Iddio ha negato alTedesco il senso della bellezza.

Se a questo si aggiunge lo spirito col quale il Momm-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

sen giudica la lotta tra Roma e il Sannio, si ha la dimo-strazione chiara dell'impossibilità per uomini di altrarazza di interpretare diversamente che ai riflessi dellapropria anima le vicende storiche di altri popoli, e quin-di la necessità proclamata da Enrico Corradini di rifarecon animo italiano e sentimento romano la storia d'Ita-lia.

Nell'attesa fiduciosa che dal clima spirituale creatodal Fascismo germogli l'artefice che rifoggi il monu-mento che il senno dei padri e la forza delle legioni han-no innalzato per l'eternità, noi dobbiamo riguardare que-sto del Mommsen come il più felice saggio di ricostru-zione della storia romana che si conosca ed anche, te-nendo conto delle segnalate deficienze, la sola operafondamentale, capace di incidere nell'animo del lettoretracce luminose indelebili della potenza e della grandez-za di Roma.

Per cui io ascrivo a sommo onore l'essermi stato con-cesso dall'Aequa, di curare questa edizione, destinataper la modicità del suo prezzo a quella maggiore diffu-sione che dall'alto costo delle precedenti edizioni erastata ad essa negata.

Dovrei ora diffondermi sulla vita di questo gigantedella cultura il cui monumento riposa su un piedistalloformato da oltre mille opere, ma lascio la parola al no-stro sommo romanista, ch'ebbe col Mommsen domesti-chezza di vita e di opere, al compianto Vittorio Scialoja.

ANTONIO G. QUATTRINI

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

sen giudica la lotta tra Roma e il Sannio, si ha la dimo-strazione chiara dell'impossibilità per uomini di altrarazza di interpretare diversamente che ai riflessi dellapropria anima le vicende storiche di altri popoli, e quin-di la necessità proclamata da Enrico Corradini di rifarecon animo italiano e sentimento romano la storia d'Ita-lia.

Nell'attesa fiduciosa che dal clima spirituale creatodal Fascismo germogli l'artefice che rifoggi il monu-mento che il senno dei padri e la forza delle legioni han-no innalzato per l'eternità, noi dobbiamo riguardare que-sto del Mommsen come il più felice saggio di ricostru-zione della storia romana che si conosca ed anche, te-nendo conto delle segnalate deficienze, la sola operafondamentale, capace di incidere nell'animo del lettoretracce luminose indelebili della potenza e della grandez-za di Roma.

Per cui io ascrivo a sommo onore l'essermi stato con-cesso dall'Aequa, di curare questa edizione, destinataper la modicità del suo prezzo a quella maggiore diffu-sione che dall'alto costo delle precedenti edizioni erastata ad essa negata.

Dovrei ora diffondermi sulla vita di questo gigantedella cultura il cui monumento riposa su un piedistalloformato da oltre mille opere, ma lascio la parola al no-stro sommo romanista, ch'ebbe col Mommsen domesti-chezza di vita e di opere, al compianto Vittorio Scialoja.

ANTONIO G. QUATTRINI

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

TEODORO MOMMSEN1

Affidandomi l'incarico di commemorare davanti a VoiTeodoro Mommsen, il nostro presidente pensò che spet-tava ad un cultore del diritto romano di adempiere a undovere così onorevole; nè io mi riconosco altro titoloper parlarvi di lui, se non questo: d'essere uno studiosodi una delle maggiori discipline fra quelle alle quali ilMommsen dedicò tanta parte della sua vita.

La classe di scienze morali, storiche e filologicheebbe in lui – senza fare torto a nessuno dei colleghi –uno dei più illustri suoi membri. Tutti ci onoravamo chefosse dei nostri. Tutti abbiamo davanti agli occhi la suacaratteristica immagine, come la vedemmo le ultimevolte che fu qui, in mezzo a noi; la persona esile, al-quanto ricurva, il volto dalle linee acute, il fuoco ada-mantino degli occhi splendenti sotto la fronte alta espaziosa come la fronte di un duomo, circondata dallabianca chioma fluente.

Morì il 1° di novembre 1903, in età di circa 86 anni;gravissima età per qualunque altro, non per lui, che

1 Commemorazione letta da VITTORIO SCIALOJA nella seduta del22 novembre 1903 della R. Accademia dei Lincei (Rend.dell'acc. dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologi-che, 1903, pag. 447), e pubbl. anche in Bull. dell'Ist. di dir. rom.,1903, pag. 191, e poi negli Studi giuridici di V. SCIALOJA, vol. II,Dir. rom., p. 218 (An. Rom. Editoriale, Roma, 1934).

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

TEODORO MOMMSEN1

Affidandomi l'incarico di commemorare davanti a VoiTeodoro Mommsen, il nostro presidente pensò che spet-tava ad un cultore del diritto romano di adempiere a undovere così onorevole; nè io mi riconosco altro titoloper parlarvi di lui, se non questo: d'essere uno studiosodi una delle maggiori discipline fra quelle alle quali ilMommsen dedicò tanta parte della sua vita.

La classe di scienze morali, storiche e filologicheebbe in lui – senza fare torto a nessuno dei colleghi –uno dei più illustri suoi membri. Tutti ci onoravamo chefosse dei nostri. Tutti abbiamo davanti agli occhi la suacaratteristica immagine, come la vedemmo le ultimevolte che fu qui, in mezzo a noi; la persona esile, al-quanto ricurva, il volto dalle linee acute, il fuoco ada-mantino degli occhi splendenti sotto la fronte alta espaziosa come la fronte di un duomo, circondata dallabianca chioma fluente.

Morì il 1° di novembre 1903, in età di circa 86 anni;gravissima età per qualunque altro, non per lui, che

1 Commemorazione letta da VITTORIO SCIALOJA nella seduta del22 novembre 1903 della R. Accademia dei Lincei (Rend.dell'acc. dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologi-che, 1903, pag. 447), e pubbl. anche in Bull. dell'Ist. di dir. rom.,1903, pag. 191, e poi negli Studi giuridici di V. SCIALOJA, vol. II,Dir. rom., p. 218 (An. Rom. Editoriale, Roma, 1934).

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

conservava ancora tutta la potenza della sua robusta fi-bra di pensatore! Assuefatti a ricevere da lui la parolache risolveva ogni nostra incertezza, di fronte a ogninuovo problema che il progresso dei nostri studi ci veni-va proponendo, la parola che ci rischiarava il camminoin ogni ramo della nostra scienza, non sappiamo quasipersuaderci che tanta forza di pensiero sia estinta, e ilsoccorso di tanto intelletto sia venuto a mancarci persempre!

Davanti a lui non è possibile non sentirci tutti, inqualche modo, più umili: lo stesso senso di sgomentoche prova ogni studioso, considerando la vastità dellecose che ignora, penetra chi consideri la vastità positi-va dell'opera di Teodoro Mommsen, e delle cose cheegli sapeva.

Era nato il 30 novembre del 1817 in Garding, piccoloborgo dello Schleswig di meno di 2000 abitanti, nellamodesta casa parrocchiale del padre, che era pastore diquella chiesa. Tre figli dovevano celebrarne il nome,perchè i due fratelli di Teodoro – Tycho ed AugustoMommsen –splenderebbero certo anche di maggiorfama, se non li oscurasse alquanto la gloria del primo-genito.

Compiuti gli studi in Altona ed in Kiel, Teodoro silaureò in diritto presso l'università di Kiel, presentandoper tesi una dissertazione ad legem de scribis et viatori-bus et de auctoritate (8 novembre 1843). La sua mono-grafia de collegiis et sodaliciis romanorum, creduta nondi rado, a torto, la sua dissertazione di laurea, fu scritta

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conservava ancora tutta la potenza della sua robusta fi-bra di pensatore! Assuefatti a ricevere da lui la parolache risolveva ogni nostra incertezza, di fronte a ogninuovo problema che il progresso dei nostri studi ci veni-va proponendo, la parola che ci rischiarava il camminoin ogni ramo della nostra scienza, non sappiamo quasipersuaderci che tanta forza di pensiero sia estinta, e ilsoccorso di tanto intelletto sia venuto a mancarci persempre!

Davanti a lui non è possibile non sentirci tutti, inqualche modo, più umili: lo stesso senso di sgomentoche prova ogni studioso, considerando la vastità dellecose che ignora, penetra chi consideri la vastità positi-va dell'opera di Teodoro Mommsen, e delle cose cheegli sapeva.

Era nato il 30 novembre del 1817 in Garding, piccoloborgo dello Schleswig di meno di 2000 abitanti, nellamodesta casa parrocchiale del padre, che era pastore diquella chiesa. Tre figli dovevano celebrarne il nome,perchè i due fratelli di Teodoro – Tycho ed AugustoMommsen –splenderebbero certo anche di maggiorfama, se non li oscurasse alquanto la gloria del primo-genito.

Compiuti gli studi in Altona ed in Kiel, Teodoro silaureò in diritto presso l'università di Kiel, presentandoper tesi una dissertazione ad legem de scribis et viatori-bus et de auctoritate (8 novembre 1843). La sua mono-grafia de collegiis et sodaliciis romanorum, creduta nondi rado, a torto, la sua dissertazione di laurea, fu scritta

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da lui quasi nello stesso tempo, e servì a richiamare perla prima volta sul nome di lui giovanissimo l'attenzionedegli studiosi. A breve distanza, nel 1844, veniva allaluce la monografia anche più importante, die römischeTribus.

Ma egli non era allora tutto assorto nello studio sto-rico del diritto, e compose con gli amici anche dei versi(Liederbuch dreier Freunde, 1843): ne ho letti alcunipoco fa e mi sono sembrati veramente non privi di pre-gio. Continuò anche in seguito a coltivare le muse, etradusse in versi tedeschi, fra le altre, alcune poesie delGiacosa (1878) e del Carducci (1879); perfino talunedelle più difficili a rendere in una lingua diversa, comel'ode alla Rima. In queste sue attitudini per la poesiasta forse in parte il segreto del fascino che esercitano lesue maggiori opere, e ne deriva il pregio artistico dellaloro forma. La sua prosa è stimata fra le migliori cheonorino la recente letteratura germanica.

Nel 1845, aiutato in tutti i modi dal Savigny, venne ilMommsen per la prima volta in Italia, e si recò sulmonte Titano a visitare Bartolomeo Borghesi, principeallora degli epigrafisti, per attingerne insegnamenti econsigli circa gli studi che desiderava di intraprendere.Intuì il Borghesi il valore del giovane, lo iniziò a quellediscipline e gli additò le nostre provincie del mezzogior-no, come degnissimo campo delle sue prime ricerche, sìper l'abbondanza dei materiali che avrebbe potuto rica-varne, nessuno avendole, si può dire, fino allora abba-stanza investigate, sì per la difficoltà di scernere le

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da lui quasi nello stesso tempo, e servì a richiamare perla prima volta sul nome di lui giovanissimo l'attenzionedegli studiosi. A breve distanza, nel 1844, veniva allaluce la monografia anche più importante, die römischeTribus.

Ma egli non era allora tutto assorto nello studio sto-rico del diritto, e compose con gli amici anche dei versi(Liederbuch dreier Freunde, 1843): ne ho letti alcunipoco fa e mi sono sembrati veramente non privi di pre-gio. Continuò anche in seguito a coltivare le muse, etradusse in versi tedeschi, fra le altre, alcune poesie delGiacosa (1878) e del Carducci (1879); perfino talunedelle più difficili a rendere in una lingua diversa, comel'ode alla Rima. In queste sue attitudini per la poesiasta forse in parte il segreto del fascino che esercitano lesue maggiori opere, e ne deriva il pregio artistico dellaloro forma. La sua prosa è stimata fra le migliori cheonorino la recente letteratura germanica.

Nel 1845, aiutato in tutti i modi dal Savigny, venne ilMommsen per la prima volta in Italia, e si recò sulmonte Titano a visitare Bartolomeo Borghesi, principeallora degli epigrafisti, per attingerne insegnamenti econsigli circa gli studi che desiderava di intraprendere.Intuì il Borghesi il valore del giovane, lo iniziò a quellediscipline e gli additò le nostre provincie del mezzogior-no, come degnissimo campo delle sue prime ricerche, sìper l'abbondanza dei materiali che avrebbe potuto rica-varne, nessuno avendole, si può dire, fino allora abba-stanza investigate, sì per la difficoltà di scernere le

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

iscrizioni vere dalle false, frequenti colà assai più chealtrove. Per alcuni anni il Mommsen mise in quelle in-dagini tutto l'ardore della sua gioventù: percorse tuttele contrade, frugò tutti i paesi del Napoletano, soste-nendo disagi, affrontando e superando ostacoli e diffi-coltà d'ogni sorta, o derivassero dalla natura dei luo-ghi, o dagli uomini che li abitavano, e dalla ignoranzadei contadini o di coloro che pur contadini non erano.Il frutto di questo lavoro fu quel volume delle Inscriptio-nes regni Neapolitani (1852), che fu superato soltantodal Mommsen medesimo nel Corpus inscriptionum.

In mezzo a quelle ricerche il Mommsen imprese lostudio dei linguaggi meridionali ch'egli trovava negliantichi monumenti e pubblicò nel 1850 un libro rimastoclassico, malgrado i nuovi risultati più recenti, die Un-teritalischen Dialekte. Fu questo appunto uno dei tratticaratteristici di quest'uomo straordinario, di far progre-dire sempre e spesso in modo decisivo anche le partidella scienza da lui transitoriamente toccate.

Pubblicò pure, in quel tempo, altri numerosi articolie memorie, la maggior parte in buon italiano. Il primosuo scritto nella nostra lingua fu quello sopra la posi-zione del Comizio romano, nel Bullettino dell'Istitutoarcheologico.

Dopo la sua partenza dall'Italia, la sua produzionescientifica fu quasi tutta in tedesco e in latino.

Tornato con tanta nuova suppellettile di studi in Ger-mania, ottenne, nel 1848, la cattedra di professorestraordinario di diritto romano nell'università di Lipsia;

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

iscrizioni vere dalle false, frequenti colà assai più chealtrove. Per alcuni anni il Mommsen mise in quelle in-dagini tutto l'ardore della sua gioventù: percorse tuttele contrade, frugò tutti i paesi del Napoletano, soste-nendo disagi, affrontando e superando ostacoli e diffi-coltà d'ogni sorta, o derivassero dalla natura dei luo-ghi, o dagli uomini che li abitavano, e dalla ignoranzadei contadini o di coloro che pur contadini non erano.Il frutto di questo lavoro fu quel volume delle Inscriptio-nes regni Neapolitani (1852), che fu superato soltantodal Mommsen medesimo nel Corpus inscriptionum.

In mezzo a quelle ricerche il Mommsen imprese lostudio dei linguaggi meridionali ch'egli trovava negliantichi monumenti e pubblicò nel 1850 un libro rimastoclassico, malgrado i nuovi risultati più recenti, die Un-teritalischen Dialekte. Fu questo appunto uno dei tratticaratteristici di quest'uomo straordinario, di far progre-dire sempre e spesso in modo decisivo anche le partidella scienza da lui transitoriamente toccate.

Pubblicò pure, in quel tempo, altri numerosi articolie memorie, la maggior parte in buon italiano. Il primosuo scritto nella nostra lingua fu quello sopra la posi-zione del Comizio romano, nel Bullettino dell'Istitutoarcheologico.

Dopo la sua partenza dall'Italia, la sua produzionescientifica fu quasi tutta in tedesco e in latino.

Tornato con tanta nuova suppellettile di studi in Ger-mania, ottenne, nel 1848, la cattedra di professorestraordinario di diritto romano nell'università di Lipsia;

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

ove strinse calda amicizia con due insigni colleghi, Ot-tone Jahn e Maurizio Haupt.

Maturavasi appunto allora in Germania quella rivo-luzione che circa la metà del secolo scorso sommossetutti gli ordinamenti della vecchia Europa. TeodoroMommsen non era uomo da serbarsi estraneo a cosìgrande agitazione di idee; animato da spiriti sincera-mente liberali, a cui rimase poi per tutta la vita fedele,prese anzi parte con ardore a quel movimento con laparola e con gli scritti, come giornalista battaglieronella Gazzetta dello Schleswig-Holstein; si sarebbe sti-mato, ebbe egli stesso a dire in seguito, indegno di vive-re in un tempo in cui si compivano così solenni avveni-menti, se non vi avesse partecipato in qualche modo, ese, tutto intento alle guerre sannitiche, non si fosse ac-corto di quelle che si combattevano intorno a lui! – Neperse la cattedra nel 1850; il governo sassone destituì ilMommsen e i due suoi amici, che al par di lui avevanoper la libertà parteggiato.

Esule, fu accolto nel 1852 dalla università di Zurigo,dove tenne per circa due anni lo stesso insegnamentodel diritto romano. Questa sua dimora a Zurigo gli det-te occasione di esercitare in un nuovo campo le sue ri-cerche epigrafiche; per il primo raccolse in quegli annile antiche iscrizioni elvetiche.

Tornata la calma negli animi, e attenuati alquanto iricordi della passate vicende, il governo prussiano lochiamò nel 1854 a insegnare diritto nell'università diBreslavia, di dove passò nel 1858 a insegnare storia an-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

ove strinse calda amicizia con due insigni colleghi, Ot-tone Jahn e Maurizio Haupt.

Maturavasi appunto allora in Germania quella rivo-luzione che circa la metà del secolo scorso sommossetutti gli ordinamenti della vecchia Europa. TeodoroMommsen non era uomo da serbarsi estraneo a cosìgrande agitazione di idee; animato da spiriti sincera-mente liberali, a cui rimase poi per tutta la vita fedele,prese anzi parte con ardore a quel movimento con laparola e con gli scritti, come giornalista battaglieronella Gazzetta dello Schleswig-Holstein; si sarebbe sti-mato, ebbe egli stesso a dire in seguito, indegno di vive-re in un tempo in cui si compivano così solenni avveni-menti, se non vi avesse partecipato in qualche modo, ese, tutto intento alle guerre sannitiche, non si fosse ac-corto di quelle che si combattevano intorno a lui! – Neperse la cattedra nel 1850; il governo sassone destituì ilMommsen e i due suoi amici, che al par di lui avevanoper la libertà parteggiato.

Esule, fu accolto nel 1852 dalla università di Zurigo,dove tenne per circa due anni lo stesso insegnamentodel diritto romano. Questa sua dimora a Zurigo gli det-te occasione di esercitare in un nuovo campo le sue ri-cerche epigrafiche; per il primo raccolse in quegli annile antiche iscrizioni elvetiche.

Tornata la calma negli animi, e attenuati alquanto iricordi della passate vicende, il governo prussiano lochiamò nel 1854 a insegnare diritto nell'università diBreslavia, di dove passò nel 1858 a insegnare storia an-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

tica presso la facoltà filologica di Berlino. Da Berlinonon si mosse più fina al termine della sua vita, avendoricusato nel 1876 l'offerta di una cattedra fattaglidall'università di Lipsia, quasi per ammenda dell'espul-sione soffertavi. Ed in Berlino egli non solo spiegò lasua attività d'insegnante, ma anche quella di accademi-co, sapendo dare come segretario di quell'Accademiadelle scienze uno straordinario impulso all'opera diessa.

Alla vita pubblica prese poi sempre parte e fu deputa-to alla camera prussiana dal 1873 al 1882, e al Reich-stag dal 1881 al 1884. Tutti ricordano il suo aspro con-flitto col principe di Bismarck. Consapevole della pro-pria grandezza intellettuale e morale – che non nascosemai, a sè, nè agli altri – egli levò nelle più gravi vicen-de internazionali la sua voce solenne di consiglio e diammonimento; tutti noi ricordiamo la sua lettera agliItaliani, scritta nel 1870 per dissuaderci dal portare ilnostro soccorso alla Francia, e per stringercinell'alleanza germanica; e l'altra così recente agli In-glesi per indurli del pari a mantenersi in migliore ar-monia coi tedeschi.

Ma io vi ho parlato finora soltanto di una parte se-condaria dell'operosità di Teodoro Mommsen. L'attivitàscientifica di quest'uomo ebbe veramente qualche cosadi meraviglioso. Celebrandosi nel 1887 il 70° anniver-sario della sua nascita, come i suoi discepoli di ognipaese componevano in suo omaggio una voluminosaraccolta di pregevoli pubblicazioni, uno di essi lo Zan-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

tica presso la facoltà filologica di Berlino. Da Berlinonon si mosse più fina al termine della sua vita, avendoricusato nel 1876 l'offerta di una cattedra fattaglidall'università di Lipsia, quasi per ammenda dell'espul-sione soffertavi. Ed in Berlino egli non solo spiegò lasua attività d'insegnante, ma anche quella di accademi-co, sapendo dare come segretario di quell'Accademiadelle scienze uno straordinario impulso all'opera diessa.

Alla vita pubblica prese poi sempre parte e fu deputa-to alla camera prussiana dal 1873 al 1882, e al Reich-stag dal 1881 al 1884. Tutti ricordano il suo aspro con-flitto col principe di Bismarck. Consapevole della pro-pria grandezza intellettuale e morale – che non nascosemai, a sè, nè agli altri – egli levò nelle più gravi vicen-de internazionali la sua voce solenne di consiglio e diammonimento; tutti noi ricordiamo la sua lettera agliItaliani, scritta nel 1870 per dissuaderci dal portare ilnostro soccorso alla Francia, e per stringercinell'alleanza germanica; e l'altra così recente agli In-glesi per indurli del pari a mantenersi in migliore ar-monia coi tedeschi.

Ma io vi ho parlato finora soltanto di una parte se-condaria dell'operosità di Teodoro Mommsen. L'attivitàscientifica di quest'uomo ebbe veramente qualche cosadi meraviglioso. Celebrandosi nel 1887 il 70° anniver-sario della sua nascita, come i suoi discepoli di ognipaese componevano in suo omaggio una voluminosaraccolta di pregevoli pubblicazioni, uno di essi lo Zan-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

gemeister, bibliotecario a Heidelberg, pensò di compor-re e pubblicare l'elenco bibliografico di tutte le operedel Mommsen; ne venne fuori un volumetto, tutto di solititoli, di ben 920 numeri! Se si tolgono le molteplici ri-stampe e le traduzioni che vi sono comprese – le une ele altre tuttavia rivedute spesso dall'autore – restanocirca 700 lavori. Nei sedici anni di vita che gli rimase-ro, dopo il 1887, l'attività produttiva del Mommsen nonrallentò; crescere più di quello che già era non avrebbepotuto. Possiamo quindi calcolare sicuramente a circaun migliaio, il numero dei lavori usciti dalla sua penna.E in mezzo a tanta quantità e varietà, quale vastità diopere! Ve ne sono di così voluminose e potenti che cia-scuna di esse parrebbe dover esaurire da sola tuttal'attività d'uno scrittore.

Sembrava tutto intento all'insegnamento del diritto, ea lavori epigrafici e numismatici, quando usciron fuoricon incredibile e ispirata celerità in tre anni dal 1854 al1856, i tre volumi della Storia romana, la più universal-mente nota tra le opere da lui composte, ma non quellaa cui il Mommsen teneva di più. È un capolavoro d'arte,forse anche più che di scienza, e come tale l'autore stes-so si compiacque di considerarla, tanto che, mentre tuttii suoi lavori egli soleva rivedere sempre, e qualche vol-ta rinnovò per intero in ogni edizione, secondo i risulta-ti dei suoi nuovi studi, a questa non volle, si può dire,mai rimetter le mani: nelle numerose traduzioni e ri-stampe rimase quale era uscita la prima volta dallaispirazione del suo genio. Sono in questi volumi intere

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

gemeister, bibliotecario a Heidelberg, pensò di compor-re e pubblicare l'elenco bibliografico di tutte le operedel Mommsen; ne venne fuori un volumetto, tutto di solititoli, di ben 920 numeri! Se si tolgono le molteplici ri-stampe e le traduzioni che vi sono comprese – le une ele altre tuttavia rivedute spesso dall'autore – restanocirca 700 lavori. Nei sedici anni di vita che gli rimase-ro, dopo il 1887, l'attività produttiva del Mommsen nonrallentò; crescere più di quello che già era non avrebbepotuto. Possiamo quindi calcolare sicuramente a circaun migliaio, il numero dei lavori usciti dalla sua penna.E in mezzo a tanta quantità e varietà, quale vastità diopere! Ve ne sono di così voluminose e potenti che cia-scuna di esse parrebbe dover esaurire da sola tuttal'attività d'uno scrittore.

Sembrava tutto intento all'insegnamento del diritto, ea lavori epigrafici e numismatici, quando usciron fuoricon incredibile e ispirata celerità in tre anni dal 1854 al1856, i tre volumi della Storia romana, la più universal-mente nota tra le opere da lui composte, ma non quellaa cui il Mommsen teneva di più. È un capolavoro d'arte,forse anche più che di scienza, e come tale l'autore stes-so si compiacque di considerarla, tanto che, mentre tuttii suoi lavori egli soleva rivedere sempre, e qualche vol-ta rinnovò per intero in ogni edizione, secondo i risulta-ti dei suoi nuovi studi, a questa non volle, si può dire,mai rimetter le mani: nelle numerose traduzioni e ri-stampe rimase quale era uscita la prima volta dallaispirazione del suo genio. Sono in questi volumi intere

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

pagine che avrebbero potuto essere scritte in esametri!– Nè volle mai completarla: il quarto volume, cheavrebbe dovuto contenere la storia degli imperatori,non è mai uscito, ed il quinto pubblicato a circa trentaanni di distanza, non si può dire la continuazione diquei tre; è la descrizione precisa, completa, fatta con ri-gore di metodo scientifico, ma fredda e arida, della sto-ria delle provincie dell'impero, fino al tempo di Diocle-ziano; – quei tre primi sono invece la ricostruzione vivaed artistica, fatta sotto la guida di una sapiente fanta-sia, altrettanto che sotto quella di un'indagine erudita,dell'immagine e delle vicende di Roma – specie dellaRoma di Sulla e di Cesare.

In tutta la parte più antica, il Mommsen trovava unavia già battuta da un altro grande che lo aveva prece-duto. Scrutando con nuovo metodo gli antichi avveni-menti di quel popolo, Giorgio Niebuhr aveva posto lenuove basi in tutta la primitiva storia di Roma; dietro lesue tracce si è svolta tutta quanta la critica successivadi quella storia anche dove apparisce come una opposi-zione alle dottrine niebuhriane; la stessa opera delMommsen ne discende in parte, quantunque edificatasopra studi più solidi e maturi. – È nel descrivere la fi-gura e i tempi di Cesare che il Mommsen afferma tuttala potenza della propria individualità di scrittore; quan-do giunge a scolpire l'immagine e a narrare la vita delsuo eroe, l'arte sua grandeggia, fino a toccare i verticipiù eccelsi di una grande poesia. Fu domandato spessose il Mommsen rivelasse alcuna preferenza personale

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

pagine che avrebbero potuto essere scritte in esametri!– Nè volle mai completarla: il quarto volume, cheavrebbe dovuto contenere la storia degli imperatori,non è mai uscito, ed il quinto pubblicato a circa trentaanni di distanza, non si può dire la continuazione diquei tre; è la descrizione precisa, completa, fatta con ri-gore di metodo scientifico, ma fredda e arida, della sto-ria delle provincie dell'impero, fino al tempo di Diocle-ziano; – quei tre primi sono invece la ricostruzione vivaed artistica, fatta sotto la guida di una sapiente fanta-sia, altrettanto che sotto quella di un'indagine erudita,dell'immagine e delle vicende di Roma – specie dellaRoma di Sulla e di Cesare.

In tutta la parte più antica, il Mommsen trovava unavia già battuta da un altro grande che lo aveva prece-duto. Scrutando con nuovo metodo gli antichi avveni-menti di quel popolo, Giorgio Niebuhr aveva posto lenuove basi in tutta la primitiva storia di Roma; dietro lesue tracce si è svolta tutta quanta la critica successivadi quella storia anche dove apparisce come una opposi-zione alle dottrine niebuhriane; la stessa opera delMommsen ne discende in parte, quantunque edificatasopra studi più solidi e maturi. – È nel descrivere la fi-gura e i tempi di Cesare che il Mommsen afferma tuttala potenza della propria individualità di scrittore; quan-do giunge a scolpire l'immagine e a narrare la vita delsuo eroe, l'arte sua grandeggia, fino a toccare i verticipiù eccelsi di una grande poesia. Fu domandato spessose il Mommsen rivelasse alcuna preferenza personale

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

per l'una o l'altra delle fazioni, di cui doveva narrare lecontese; alcuni suoi discepoli sostengono volentieri cheegli seppe mantenersi assolutamente imparziale; a menon sembra. Non era, d'altronde, possibile che un uomodella sua indole, che aveva sostenuto, pochi anni prima,con tanto ardore nella vita le parti della rivoluzione,scrivendo la storia di un'altra rivoluzione, sebbenecompiutasi diciannove secoli prima, non fosse indotto asostener le parti della plebe e di Cesare contro quelledei patrizi.

La Storia romana rimarrà come un capolavoro d'arteperenne. Anche se gli studi e le indagini posteriori con-durranno a correggere l'esposizione dei fatti, a modifi-care qualche giudizio, ad attenuare qualche apprezza-mento degli avvenimenti e degli uomini che vi campeg-giano (il Mommsen stesso li modificò e attenuò in parte,sebbene non diminuisse mai la sua profonda antipatiaper Cicerone), l'opera sarà cercata e letta sempre conla stessa ammirazione che suscitò al suo primo appari-re.

I meriti del Mommsen verso le scienze storiche nonconsistono soltanto nei volumi che ho fin qui ricordato.Chi può solo enumerare l'infinita quantità di punti spe-ciali da lui illustrati in una serie di articoli di periodici,di memorie accademiche, di monografie pubblicate inquesta o in quell'occasione? Alcuni dei principali studifurono da lui riuniti in quei due preziosi volumi delleRömische Forschungen (1864-1879), che bene alla sto-ria si accompagnano. Nelle discipline ausiliarie alla

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

per l'una o l'altra delle fazioni, di cui doveva narrare lecontese; alcuni suoi discepoli sostengono volentieri cheegli seppe mantenersi assolutamente imparziale; a menon sembra. Non era, d'altronde, possibile che un uomodella sua indole, che aveva sostenuto, pochi anni prima,con tanto ardore nella vita le parti della rivoluzione,scrivendo la storia di un'altra rivoluzione, sebbenecompiutasi diciannove secoli prima, non fosse indotto asostener le parti della plebe e di Cesare contro quelledei patrizi.

La Storia romana rimarrà come un capolavoro d'arteperenne. Anche se gli studi e le indagini posteriori con-durranno a correggere l'esposizione dei fatti, a modifi-care qualche giudizio, ad attenuare qualche apprezza-mento degli avvenimenti e degli uomini che vi campeg-giano (il Mommsen stesso li modificò e attenuò in parte,sebbene non diminuisse mai la sua profonda antipatiaper Cicerone), l'opera sarà cercata e letta sempre conla stessa ammirazione che suscitò al suo primo appari-re.

I meriti del Mommsen verso le scienze storiche nonconsistono soltanto nei volumi che ho fin qui ricordato.Chi può solo enumerare l'infinita quantità di punti spe-ciali da lui illustrati in una serie di articoli di periodici,di memorie accademiche, di monografie pubblicate inquesta o in quell'occasione? Alcuni dei principali studifurono da lui riuniti in quei due preziosi volumi delleRömische Forschungen (1864-1879), che bene alla sto-ria si accompagnano. Nelle discipline ausiliarie alla

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

storia egli segnò orme incancellabili; ricorderò la Cro-nologia romana fino ai tempi di Cesare (1858, 2a ed.1859) ed il trattato sopra le monete romane (in una pri-ma forma 1850-51, rinnovato nel 1860), che restanofondamentali in siffatti ordini di studi.

Dell'epigrafia egli fu il sovrano incontrastato. Il Cor-pus inscriptionum latinarum, con l'Ephemeris epigraphi-ca, che ne costituisce il complemento, è il più grandiosomonumento eretto da lui alla storia e al diritto dei Ro-mani.

Si è detto da taluni che il Mommsen fosse stato il pri-mo a creare e proporre una siffatta raccolta; non è egliuomo da aver bisogno che gli si attribuiscano anchemeriti non suoi. La prima idea ne era stata affacciata inFrancia dal Villemain, ministro della pubblica istruzio-ne nel 1843: ma non ebbe seguito. Qualche anno dopo,il Savigny la fece propria e la ripropose in Germania,dichiarando, in seno all'Accademia delle scienze diBerlino, che conveniva affrettarsi ad attuarla, finchè vi-veva Bartolomeo Borghesi, unico a parer suo, che fossein grado di tradurre in pratica un proposito così vasto;soggiungeva bensì esservi per buona sorte in Germaniaun giovane, capace di coadiuvarlo in quest'opera: Teo-doro Mommsen. Quando, non molto dopo, il propositofu attuato, il Borghesi era morto, e l'incarico di dirigereil lavoro fu dall'Accademia affidato, senza altro, alMommsen, il quale ne aveva tracciato il piano. Cosìegli intraprese quest'opera colossale, che doveva assor-bire tanta parte della sua vita! Essa è oggi per merito

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storia egli segnò orme incancellabili; ricorderò la Cro-nologia romana fino ai tempi di Cesare (1858, 2a ed.1859) ed il trattato sopra le monete romane (in una pri-ma forma 1850-51, rinnovato nel 1860), che restanofondamentali in siffatti ordini di studi.

Dell'epigrafia egli fu il sovrano incontrastato. Il Cor-pus inscriptionum latinarum, con l'Ephemeris epigraphi-ca, che ne costituisce il complemento, è il più grandiosomonumento eretto da lui alla storia e al diritto dei Ro-mani.

Si è detto da taluni che il Mommsen fosse stato il pri-mo a creare e proporre una siffatta raccolta; non è egliuomo da aver bisogno che gli si attribuiscano anchemeriti non suoi. La prima idea ne era stata affacciata inFrancia dal Villemain, ministro della pubblica istruzio-ne nel 1843: ma non ebbe seguito. Qualche anno dopo,il Savigny la fece propria e la ripropose in Germania,dichiarando, in seno all'Accademia delle scienze diBerlino, che conveniva affrettarsi ad attuarla, finchè vi-veva Bartolomeo Borghesi, unico a parer suo, che fossein grado di tradurre in pratica un proposito così vasto;soggiungeva bensì esservi per buona sorte in Germaniaun giovane, capace di coadiuvarlo in quest'opera: Teo-doro Mommsen. Quando, non molto dopo, il propositofu attuato, il Borghesi era morto, e l'incarico di dirigereil lavoro fu dall'Accademia affidato, senza altro, alMommsen, il quale ne aveva tracciato il piano. Cosìegli intraprese quest'opera colossale, che doveva assor-bire tanta parte della sua vita! Essa è oggi per merito

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

suo quasi interamente compiuta; lo stesso Mommsennon aveva sperato di condurla fino al punto nel quale lalasciò. Ebbe numerosi e valentissimi collaboratori; maegli fu il supremo ordinatore di tutto l'immenso materia-le, l'anima, si può dire, di tutta la raccolta. Di molteparti fu anche egli stesso il raccoglitore; a questo fineandò di nuovo investigando palmo a palmo tante nostrecittà e campagne; questo fu che lo rese quasi popolarein tanti nostri paesi. Solo che abbia avuto occasione diattendere a siffatto genere di lavori può avere un'ideadelle difficoltà che presentano, della somma di cogni-zioni, di studi, di pazienza che richiedono! il Mommsenfece anche di più; tutto il Corpus è diviso in grandi par-tizioni per materie e per paesi; ora a ciascuna delle pri-me fu anteposto, per lo più dallo stesso Mommsen, unproemio, che non di rado è una dissertazione e un trat-tato completo, come quello, per esempio, sui diplomimilitari; e a ciascuna delle seconde una sommaria, madiligentissima narrazione di quanto si conosce intornoalle vicende dei paesi a cui le inscrizioni si riferiscono;così il Corpus inscriptionum è, al tempo stesso, unacompleta topografia e storia di tutti i luoghi che compo-nevano l'impero. I commenti alle maggiori iscrizionigiuridiche sono spesso importanti capitoli della storiadel diritto romano.

Sotto la gran luce della dottrina del Mommsen e lapunta acuta della sua critica, una epigrafe rivelavacose che nessuno era riuscito a scorgervi; serviva qual-che volta a sciogliere i più ardui e più controversi pro-

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suo quasi interamente compiuta; lo stesso Mommsennon aveva sperato di condurla fino al punto nel quale lalasciò. Ebbe numerosi e valentissimi collaboratori; maegli fu il supremo ordinatore di tutto l'immenso materia-le, l'anima, si può dire, di tutta la raccolta. Di molteparti fu anche egli stesso il raccoglitore; a questo fineandò di nuovo investigando palmo a palmo tante nostrecittà e campagne; questo fu che lo rese quasi popolarein tanti nostri paesi. Solo che abbia avuto occasione diattendere a siffatto genere di lavori può avere un'ideadelle difficoltà che presentano, della somma di cogni-zioni, di studi, di pazienza che richiedono! il Mommsenfece anche di più; tutto il Corpus è diviso in grandi par-tizioni per materie e per paesi; ora a ciascuna delle pri-me fu anteposto, per lo più dallo stesso Mommsen, unproemio, che non di rado è una dissertazione e un trat-tato completo, come quello, per esempio, sui diplomimilitari; e a ciascuna delle seconde una sommaria, madiligentissima narrazione di quanto si conosce intornoalle vicende dei paesi a cui le inscrizioni si riferiscono;così il Corpus inscriptionum è, al tempo stesso, unacompleta topografia e storia di tutti i luoghi che compo-nevano l'impero. I commenti alle maggiori iscrizionigiuridiche sono spesso importanti capitoli della storiadel diritto romano.

Sotto la gran luce della dottrina del Mommsen e lapunta acuta della sua critica, una epigrafe rivelavacose che nessuno era riuscito a scorgervi; serviva qual-che volta a sciogliere i più ardui e più controversi pro-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

blemi; la inscrizione di Scaptoparene (cito apposta unodei più piccoli esempi) poteva, in mano d'altri, essereargomento di un breve articolo esegetico del decretoimperiale; bastarono al Mommsen i due versi del prin-cipio per dimostrarci come questi decreti si pubblicas-sero, e come decidendo un caso singolo, a richiesta diun particolare, potessero divenir norme generali e leggidi tutto l'impero; ciò che fino allora non ci riuscivachiaro. L'ala del suo genio di scienziato e di artista glipermetteva d'innalzarsi così, dalle più tenui impronte,alle più alte sfere della storia e del diritto; si potrebbedire, che quelle impronte fossero, qualche volta, fintroppo lievi per sostenere il tocco potente della suagrande fantasia.

Non esiste epigrafe, che ci serbi traccia di notevolifatti storici o del testo di leggi romane, che egli non ab-bia studiata. Così il suo commento al monumento anci-rano (2a ed., 1883) contiene l'esposizione della storia diAugusto e si potrebbe quasi considerare come prepara-zione al quarto volume della sua storia.

Fermavano a preferenza la sua attenzione le leggiche concernevano gli ordinamenti pubblici dello stato,dei municipi e delle colonie; basterebbe qualcuno diquesti suoi minori scritti, quello per esempio, rimastocelebre, intorno alle tavole di Malaga e di Salpensa(1855-56), perfetto esempio d'una trattazione di tal ge-nere, per la gloria di uno scrittore. Nè vi fu poi monu-mento relativo a questa materia che da lui non abbia ri-cevuto spesso la prima, sempre la più importante illu-

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blemi; la inscrizione di Scaptoparene (cito apposta unodei più piccoli esempi) poteva, in mano d'altri, essereargomento di un breve articolo esegetico del decretoimperiale; bastarono al Mommsen i due versi del prin-cipio per dimostrarci come questi decreti si pubblicas-sero, e come decidendo un caso singolo, a richiesta diun particolare, potessero divenir norme generali e leggidi tutto l'impero; ciò che fino allora non ci riuscivachiaro. L'ala del suo genio di scienziato e di artista glipermetteva d'innalzarsi così, dalle più tenui impronte,alle più alte sfere della storia e del diritto; si potrebbedire, che quelle impronte fossero, qualche volta, fintroppo lievi per sostenere il tocco potente della suagrande fantasia.

Non esiste epigrafe, che ci serbi traccia di notevolifatti storici o del testo di leggi romane, che egli non ab-bia studiata. Così il suo commento al monumento anci-rano (2a ed., 1883) contiene l'esposizione della storia diAugusto e si potrebbe quasi considerare come prepara-zione al quarto volume della sua storia.

Fermavano a preferenza la sua attenzione le leggiche concernevano gli ordinamenti pubblici dello stato,dei municipi e delle colonie; basterebbe qualcuno diquesti suoi minori scritti, quello per esempio, rimastocelebre, intorno alle tavole di Malaga e di Salpensa(1855-56), perfetto esempio d'una trattazione di tal ge-nere, per la gloria di uno scrittore. Nè vi fu poi monu-mento relativo a questa materia che da lui non abbia ri-cevuto spesso la prima, sempre la più importante illu-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

strazione. Il testo delle leggi e degli altri documenti giu-ridici fu da lui di nuovo riveduto nel curare la sesta edi-zione dei Fontes iuris romani antiqui del Bruns.

Alla storia del diritto pubblico appartiene l'opera cheTeodoro Mommsen considerava come il suo capolavoroscientifico: il Römisches Staatsrecht (1a ediz. 1871,1874, 1875, 1887, 1888 – 3a ediz. 1887-1888), insupe-rabile trattato di diritto costituzionale e in parte di di-ritto amministrativo romano. Esso doveva sostituire nelnuovo manuale di antichità romane da lui pubblicatoinsieme col Marquardt la parte, che nel manuale prece-dente del Bekker e del Marquardt era stata svolta nel 2°volume del Bekker; ma e per l'ampiezza del disegno eper la diversità della materia trattata e per la differenzadel metodo seguito fu cosa del tutto nuova. L'opera delBekker resta ancora, nei suoi limiti più ristretti, unbell'esempio di storia del diritto, ma è ben lontana dalpotersi dire una completa trattazione giuridica del si-stema costituzionale. L'opera del Mommsen colmò unalacuna. L'unico difetto – non starò a esporvene i pregiinfiniti – che, a parer mio, si potrebbe forse notare, de-riva da questo suo stesso carattere, forse eccessivamen-te giuridico per l'indole della materia, che mal si prestaa una determinazione rigorosamente logica di principîe di conseguenze. Il diritto pubblico di tutti i paesi e ditutti i tempi suole assumere, nella funzione pratica dellesue norme e dei suoi istituti, atteggiamenti e forme al-quanto diverse da quelle che la regola e la stessa logicagiuridica farebbero supporre. Non abbiamo che da vol-

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strazione. Il testo delle leggi e degli altri documenti giu-ridici fu da lui di nuovo riveduto nel curare la sesta edi-zione dei Fontes iuris romani antiqui del Bruns.

Alla storia del diritto pubblico appartiene l'opera cheTeodoro Mommsen considerava come il suo capolavoroscientifico: il Römisches Staatsrecht (1a ediz. 1871,1874, 1875, 1887, 1888 – 3a ediz. 1887-1888), insupe-rabile trattato di diritto costituzionale e in parte di di-ritto amministrativo romano. Esso doveva sostituire nelnuovo manuale di antichità romane da lui pubblicatoinsieme col Marquardt la parte, che nel manuale prece-dente del Bekker e del Marquardt era stata svolta nel 2°volume del Bekker; ma e per l'ampiezza del disegno eper la diversità della materia trattata e per la differenzadel metodo seguito fu cosa del tutto nuova. L'opera delBekker resta ancora, nei suoi limiti più ristretti, unbell'esempio di storia del diritto, ma è ben lontana dalpotersi dire una completa trattazione giuridica del si-stema costituzionale. L'opera del Mommsen colmò unalacuna. L'unico difetto – non starò a esporvene i pregiinfiniti – che, a parer mio, si potrebbe forse notare, de-riva da questo suo stesso carattere, forse eccessivamen-te giuridico per l'indole della materia, che mal si prestaa una determinazione rigorosamente logica di principîe di conseguenze. Il diritto pubblico di tutti i paesi e ditutti i tempi suole assumere, nella funzione pratica dellesue norme e dei suoi istituti, atteggiamenti e forme al-quanto diverse da quelle che la regola e la stessa logicagiuridica farebbero supporre. Non abbiamo che da vol-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

gere uno sguardo alle presenti condizioni dei nostri or-dini costituzionali, per averne le prove manifeste; lostatuto attribuisce, per non citare che un esempio, pari-tà quasi assoluta di attribuzioni ai due rami del parla-mento, rispetto alla formazione delle leggi e al governodello stato; ora in realtà la camera può molto più delsenato. Da queste deformazioni pratiche e storiche deiprincipî fondamentali d'ogni sistema e delle norme chene derivano lo studioso del diritto pubblico non puòprescindere. Ma a siffatte considerazioni il Mommsenavrebbe potuto rispondere che egli non intese narrarela storia degli svolgimenti pratici del diritto pubblico diRoma; il suo trattato volle essere e fu la completa, per-fetta esposizione di quella costituzione dal mero puntodi vista giuridico. Nè io ignoro che da altri critici assaicompetenti furono fatte, circa l'opera del Mommsen, os-servazioni del tutto opposte alle mie, sicchè si può an-che pensare che tra le due censure il sommo maestroabbia tenuta la retta via. Gli fu rimproverata da altriuna distribuzione difettosa delle materie tra i vari volu-mi; perchè comincia parlando delle magistrature e sol-tanto nel terzo volume tratta dell'ordinamento del popo-lo e del senato, senza dei quali le prime restano menointelligibili, quasi prive della solida loro base. A me nonpare che questo difetto, se tale è, abbia grande impor-tanza; se alcuno desidera conoscere l'ordinamento delpopolo, prima di quello dei magistrati, non ha che dacominciare la lettura del volume terzo e passare poi alprimo. In ogni modo lo stesso Mommsen rettificò l'ordi-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

gere uno sguardo alle presenti condizioni dei nostri or-dini costituzionali, per averne le prove manifeste; lostatuto attribuisce, per non citare che un esempio, pari-tà quasi assoluta di attribuzioni ai due rami del parla-mento, rispetto alla formazione delle leggi e al governodello stato; ora in realtà la camera può molto più delsenato. Da queste deformazioni pratiche e storiche deiprincipî fondamentali d'ogni sistema e delle norme chene derivano lo studioso del diritto pubblico non puòprescindere. Ma a siffatte considerazioni il Mommsenavrebbe potuto rispondere che egli non intese narrarela storia degli svolgimenti pratici del diritto pubblico diRoma; il suo trattato volle essere e fu la completa, per-fetta esposizione di quella costituzione dal mero puntodi vista giuridico. Nè io ignoro che da altri critici assaicompetenti furono fatte, circa l'opera del Mommsen, os-servazioni del tutto opposte alle mie, sicchè si può an-che pensare che tra le due censure il sommo maestroabbia tenuta la retta via. Gli fu rimproverata da altriuna distribuzione difettosa delle materie tra i vari volu-mi; perchè comincia parlando delle magistrature e sol-tanto nel terzo volume tratta dell'ordinamento del popo-lo e del senato, senza dei quali le prime restano menointelligibili, quasi prive della solida loro base. A me nonpare che questo difetto, se tale è, abbia grande impor-tanza; se alcuno desidera conoscere l'ordinamento delpopolo, prima di quello dei magistrati, non ha che dacominciare la lettura del volume terzo e passare poi alprimo. In ogni modo lo stesso Mommsen rettificò l'ordi-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

ne in quel bellissimo sunto dell'opera maggiore, ch'eglipubblicò col titolo Abriss des römischen Staatsrechtsnel 1893.

Restava tutta una parte del diritto romano, attinenteal diritto pubblico non trattata ancora nel modo chemeritava: il diritto penale. Ottantenne, il Mommsen visi accinse e nel 1899, quando la sua maggiore produ-zione scientifica pareva ormai gloriosamente chiusa,uscì fuori il römisches Strafrecht, che costituisce appun-to il compimento dello Staatsrecht; è l'esposizione am-pia, magistrale del diritto e della procedura criminaledi Roma compenetrati a vicenda, come dovevano essereesposti necessariamente, ma come nessuno aveva pen-sato di fare prima di lui.

Sembra di aver detto dell'opera di molti uomini, e re-sta ancora da dire di un intero campo, notevolissimo,dell'operosità di quest'uomo: la sua attività di editore.Tutti sanno quale difficoltà presenti la revisione criticadi un testo incerto o alterato. Il Mommsen volle affron-tare e superare anche questa; agli altri suoi lavori fusolito avvicendare la cura diligente delle nuove edizioniche gli furono affidate di molti libri antichi e di unagran parte delle fonti del diritto romano.

La migliore edizione delle Pandette è certamente lasua, ed egli pose in una stupenda prefazione a questagrande opera il più sicuro fondamento alla critica diquesto massimo testo giuridico. Sul mutilo palinsestodei frammenti vaticani egli tornò più volte dal 1859 al1890; la Collatio mosaicarum et romanarum legum fu

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

ne in quel bellissimo sunto dell'opera maggiore, ch'eglipubblicò col titolo Abriss des römischen Staatsrechtsnel 1893.

Restava tutta una parte del diritto romano, attinenteal diritto pubblico non trattata ancora nel modo chemeritava: il diritto penale. Ottantenne, il Mommsen visi accinse e nel 1899, quando la sua maggiore produ-zione scientifica pareva ormai gloriosamente chiusa,uscì fuori il römisches Strafrecht, che costituisce appun-to il compimento dello Staatsrecht; è l'esposizione am-pia, magistrale del diritto e della procedura criminaledi Roma compenetrati a vicenda, come dovevano essereesposti necessariamente, ma come nessuno aveva pen-sato di fare prima di lui.

Sembra di aver detto dell'opera di molti uomini, e re-sta ancora da dire di un intero campo, notevolissimo,dell'operosità di quest'uomo: la sua attività di editore.Tutti sanno quale difficoltà presenti la revisione criticadi un testo incerto o alterato. Il Mommsen volle affron-tare e superare anche questa; agli altri suoi lavori fusolito avvicendare la cura diligente delle nuove edizioniche gli furono affidate di molti libri antichi e di unagran parte delle fonti del diritto romano.

La migliore edizione delle Pandette è certamente lasua, ed egli pose in una stupenda prefazione a questagrande opera il più sicuro fondamento alla critica diquesto massimo testo giuridico. Sul mutilo palinsestodei frammenti vaticani egli tornò più volte dal 1859 al1890; la Collatio mosaicarum et romanarum legum fu

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

da lui pubblicata nel 1890; le notae di Valerio Probo, itesti minori della giurisprudenza romana scoperti negliultimi tempi ebbero sempre in lui il loro editore e criti-co; e alle edizioni altrui di Gaio, di Ulpiano, dei groma-tici contribuì potentemente. Più di un papiro giuridicofu da lui letto e commentato. E per uscire dal campo deldiritto, chi non ricorda la sua opera indefessa, geniale,acuta nelle edizioni dei cronografi di Solino, di Jorda-nes, di Cassiodoro, del liber pontificalis, i suoi contri-buti a Festo, a Livio, a Plinio il giovine?

Ovunque lo studioso del mondo antico romano volgail suo sguardo, trova sempre il Mommsen storico nel piùlato senso, giurista, scopritore, commentatore, editore,«che sopra gli altri come aquila vola». Alla fantasiaalata si univa in lui la più eroica diligenza, la più minu-ta esattezza nella constatazione dei fatti, o si trattassedella lettura di un'epigrafe o di un manoscritto o dellainterpretazione di un testo; l'artista che ricostruival'antico mondo romano non si serviva che del più solidoe provato materiale.

Come editore il Mommsen si accinse finalmente nellapiù tarda età a un'altra grande impresa, la nuova edi-zione del codice teodosiano. La morte lo colse mentrestava terminando il lavoro, ma già ne esistono, a quan-to mi si afferma, tutte le bozze di stampa, che egliavrebbe forse ritoccate ancora in qualche punto primadi licenziarle. La nuova edizione non tarderà ad ognimodo a esser pubblicata. Chi sappia l'importanza diquel codice per lo studio della storia del diritto romano

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

da lui pubblicata nel 1890; le notae di Valerio Probo, itesti minori della giurisprudenza romana scoperti negliultimi tempi ebbero sempre in lui il loro editore e criti-co; e alle edizioni altrui di Gaio, di Ulpiano, dei groma-tici contribuì potentemente. Più di un papiro giuridicofu da lui letto e commentato. E per uscire dal campo deldiritto, chi non ricorda la sua opera indefessa, geniale,acuta nelle edizioni dei cronografi di Solino, di Jorda-nes, di Cassiodoro, del liber pontificalis, i suoi contri-buti a Festo, a Livio, a Plinio il giovine?

Ovunque lo studioso del mondo antico romano volgail suo sguardo, trova sempre il Mommsen storico nel piùlato senso, giurista, scopritore, commentatore, editore,«che sopra gli altri come aquila vola». Alla fantasiaalata si univa in lui la più eroica diligenza, la più minu-ta esattezza nella constatazione dei fatti, o si trattassedella lettura di un'epigrafe o di un manoscritto o dellainterpretazione di un testo; l'artista che ricostruival'antico mondo romano non si serviva che del più solidoe provato materiale.

Come editore il Mommsen si accinse finalmente nellapiù tarda età a un'altra grande impresa, la nuova edi-zione del codice teodosiano. La morte lo colse mentrestava terminando il lavoro, ma già ne esistono, a quan-to mi si afferma, tutte le bozze di stampa, che egliavrebbe forse ritoccate ancora in qualche punto primadi licenziarle. La nuova edizione non tarderà ad ognimodo a esser pubblicata. Chi sappia l'importanza diquel codice per lo studio della storia del diritto romano

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e soprattutto del diritto pubblico dell'impero, e le gran-di difficoltà che esso per molti rispetti presenta, inten-derà quali nuovi meriti il Mommsen acquistasse ancoradi fronte alla scienza con questa edizione. L'opera diJacopo Gotofredo soltanto nel Mommsen avrebbe potu-to essere superata. Quest'ultimo lavoro della sua vita loricongiunge in qualche modo a quel grande giurecon-sulto, che ben poteva dirsi il massimo dei cultori del di-ritto pubblico romano prima di lui.

Esemplare fu anche la vita privata di TeodoroMommsen. Marito e padre affettuoso, fecondo non solodi volumi, egli ebbe ben sedici figli. Nell'amicizia fu fe-dele e profondo, e con parecchi italiani mantenne inti-me e cordiali relazioni. Ricorderò qui tra i nostri mortiparticolarmente il Borghesi, il de Rossi e il Fiorelli. Deinumerosi suoi discepoli, molti divennero suoi collabo-ratori, e ben si può dire che lo adorassero.

Certo egli non risparmiò rimproveri, e talora anchetroppo aspri e violenti ad avversari e talora anche adamici. Ebbe pochi odi e disprezzi tenaci, molti sdegnipasseggeri; ed io stesso, benchè avessi provata in molteoccasioni la sua benevola cortesia, ebbi a sperimentareuna volta l'amarezza della sua censura. Ma che perciò?Alla colpa forse piccola, che ci meritò il suo rimprove-ro, noi ne aggiungeremmo una maggiore, se ci fermas-simo sopra queste circostanze meschine.

«Aveva fama di essere stato molto passionato e senzadubbio i suoi sentimenti, le sue inclinazioni e le sue av-versioni si esprimevano con una forza, anzi con una vi-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

e soprattutto del diritto pubblico dell'impero, e le gran-di difficoltà che esso per molti rispetti presenta, inten-derà quali nuovi meriti il Mommsen acquistasse ancoradi fronte alla scienza con questa edizione. L'opera diJacopo Gotofredo soltanto nel Mommsen avrebbe potu-to essere superata. Quest'ultimo lavoro della sua vita loricongiunge in qualche modo a quel grande giurecon-sulto, che ben poteva dirsi il massimo dei cultori del di-ritto pubblico romano prima di lui.

Esemplare fu anche la vita privata di TeodoroMommsen. Marito e padre affettuoso, fecondo non solodi volumi, egli ebbe ben sedici figli. Nell'amicizia fu fe-dele e profondo, e con parecchi italiani mantenne inti-me e cordiali relazioni. Ricorderò qui tra i nostri mortiparticolarmente il Borghesi, il de Rossi e il Fiorelli. Deinumerosi suoi discepoli, molti divennero suoi collabo-ratori, e ben si può dire che lo adorassero.

Certo egli non risparmiò rimproveri, e talora anchetroppo aspri e violenti ad avversari e talora anche adamici. Ebbe pochi odi e disprezzi tenaci, molti sdegnipasseggeri; ed io stesso, benchè avessi provata in molteoccasioni la sua benevola cortesia, ebbi a sperimentareuna volta l'amarezza della sua censura. Ma che perciò?Alla colpa forse piccola, che ci meritò il suo rimprove-ro, noi ne aggiungeremmo una maggiore, se ci fermas-simo sopra queste circostanze meschine.

«Aveva fama di essere stato molto passionato e senzadubbio i suoi sentimenti, le sue inclinazioni e le sue av-versioni si esprimevano con una forza, anzi con una vi-

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vacità, che, non mitigata, doveva necessariamente tra-smodare e talvolta anche oltraggiare. E sovente egli of-fese o per impeto di collera o per asprezza di parolenon solo uomini senza pudore, ma anche spiriti nobilied amici». Queste parole furono scritte di Giorgio Nie-buhr dopo la sua morte (Lebensnachrichten, III, 333), epotrebbero benissimo essere state scritte per TeodoroMommsen. I due sommi storici ebbero comuni, insiemecon la grandezza dell'ingegno e con l'oggetto dei lorostudi, anche questi caratteri. Ma chi ricorda oggi, difronte alla venerazione che circonda la memoria delsuo nome, i piccoli difetti del Niebuhr? Così sarà frabreve di quelli del Mommsen. Di fronte a qualche suaparola meno benevola per le cose nostre presenti, o perla gente cui noi apparteniamo, sta l'opera di tutta la suavita: oltre sessant'anni di lavoro assiduo intorno al pae-se nostro ed a ciò che noi abbiamo di più grande, lastoria, la lingua, il diritto dei nostri antenati latini.

Noi ci gloriamo di aver avuto Teodoro Mommsencome maestro e collaboratore di una storia che è no-stra. La pura luce che s'irradia dalla sua nobile figuraillumina il nostro intelletto di studiosi e la nostra co-scienza di uomini.

Egli fu di coloro nei quali più si appalesa la divinitàdella natura umana. Eroi siffatti di rado sono concessiall'ammirazione dei contemporanei e dei posteri; dalungo tempo non era sorto e per lungo tempo forse nonsorgerà chi l'uguagli!

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

vacità, che, non mitigata, doveva necessariamente tra-smodare e talvolta anche oltraggiare. E sovente egli of-fese o per impeto di collera o per asprezza di parolenon solo uomini senza pudore, ma anche spiriti nobilied amici». Queste parole furono scritte di Giorgio Nie-buhr dopo la sua morte (Lebensnachrichten, III, 333), epotrebbero benissimo essere state scritte per TeodoroMommsen. I due sommi storici ebbero comuni, insiemecon la grandezza dell'ingegno e con l'oggetto dei lorostudi, anche questi caratteri. Ma chi ricorda oggi, difronte alla venerazione che circonda la memoria delsuo nome, i piccoli difetti del Niebuhr? Così sarà frabreve di quelli del Mommsen. Di fronte a qualche suaparola meno benevola per le cose nostre presenti, o perla gente cui noi apparteniamo, sta l'opera di tutta la suavita: oltre sessant'anni di lavoro assiduo intorno al pae-se nostro ed a ciò che noi abbiamo di più grande, lastoria, la lingua, il diritto dei nostri antenati latini.

Noi ci gloriamo di aver avuto Teodoro Mommsencome maestro e collaboratore di una storia che è no-stra. La pura luce che s'irradia dalla sua nobile figuraillumina il nostro intelletto di studiosi e la nostra co-scienza di uomini.

Egli fu di coloro nei quali più si appalesa la divinitàdella natura umana. Eroi siffatti di rado sono concessiall'ammirazione dei contemporanei e dei posteri; dalungo tempo non era sorto e per lungo tempo forse nonsorgerà chi l'uguagli!

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VITTORIO SCIALOJA

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VITTORIO SCIALOJA

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

PREFAZIONE DELL'AUTOREALL'ULTIMA EDIZIONE DA LUI CURATA

Questa edizione non si troverà molto diversa dalleprecedenti. Nessun giudice imparziale e competentevorrà che l'autore di un'opera come è questa sia obbli-gato a tener conto di tutti i risultati delle indagini che sivennero compiendo tra l'una e l'altra edizione. Ma,come era logico, si è emendato tutto quello, che daglistudi dell'autore, o dalle ricerche altrui, dopo l'ultimaedizione, fu ritenuto necessario emendare. Una disqui-sizione critica sui fondamenti della cronologia romana,che era stata abbozzata nel capitolo XIV del libro IIIdelle due prime edizioni, fu in seguito pubblicata a par-te in forma più conveniente alla materia e con maggioreestensione («La cronologia romana fino a Cesare»,Berlino, 1850): ed è stata riportata qui in un largo sun-to. In tutto il resto nulla fu mutato.

Berlino, 15 agosto 1887.

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PREFAZIONE DELL'AUTOREALL'ULTIMA EDIZIONE DA LUI CURATA

Questa edizione non si troverà molto diversa dalleprecedenti. Nessun giudice imparziale e competentevorrà che l'autore di un'opera come è questa sia obbli-gato a tener conto di tutti i risultati delle indagini che sivennero compiendo tra l'una e l'altra edizione. Ma,come era logico, si è emendato tutto quello, che daglistudi dell'autore, o dalle ricerche altrui, dopo l'ultimaedizione, fu ritenuto necessario emendare. Una disqui-sizione critica sui fondamenti della cronologia romana,che era stata abbozzata nel capitolo XIV del libro IIIdelle due prime edizioni, fu in seguito pubblicata a par-te in forma più conveniente alla materia e con maggioreestensione («La cronologia romana fino a Cesare»,Berlino, 1850): ed è stata riportata qui in un largo sun-to. In tutto il resto nulla fu mutato.

Berlino, 15 agosto 1887.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

PRIMO LIBRODALLA PREISTORIA

ALLA CACCIATA DEI RE DA ROMA

Le cose più antiche non si possono perla lontananza del tempo chiaramente co-noscere; tuttavia per gli indizi probabilich'io raccolsi meditando l'antichità noncredo che esse nè per guerre nè per altrorispetto siano state ragguardevoli.

TUCIDIDE

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

PRIMO LIBRODALLA PREISTORIA

ALLA CACCIATA DEI RE DA ROMA

Le cose più antiche non si possono perla lontananza del tempo chiaramente co-noscere; tuttavia per gli indizi probabilich'io raccolsi meditando l'antichità noncredo che esse nè per guerre nè per altrorispetto siano state ragguardevoli.

TUCIDIDE

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

PRIMO CAPITOLOINTRODUZIONE

1 Storia antica. Sui lidi di quel mare Mediterraneoche, insinuandosi nella terraferma, forma il più vastogolfo dell'Oceano ed or restringendosi per mezzo di iso-le o promontori, ora estendendosi ampiamente, unisce esepara ad un tempo le tre parti del mondo antico, fin daitempi remoti si stabilirono genti varie le quali, se sottol'aspetto etnografico e linguistico appartengono a stirpidiverse, storicamente formano un unico complesso.

Questo complesso che impropriamente si suole defi-nire la storia del mondo antico, è invece la storia dellaciviltà dei popoli mediterranei, la quale nei suoi quattrograndi stadi di svolgimento ci presenta: sulle spiagge delsud la storia della stirpe copta o egizia; nella costaorientale quella della nazione aramea o siriaca estenden-tesi nell'interno fino all'Eufrate, e sul litorale europeodel Mediterraneo quella dei popoli gemelli, l'Italiano edil Greco.

Veramente, ognuna di queste storie, si riannoda neiprimordi ad altri cicli storici, ma presto ne diverge e per-corre una propria via. Le stesse nazioni estranee ed an-che le affini, che abitano attorno a questo grande anello,i Berberi ed i negri dell'Africa, gli Arabi, i Persiani e gliIndiani dell'Asia, i Celti ed i Tedeschi d'Europa, puravendo avuto contatti e relazioni cogli abitatori del Me-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

PRIMO CAPITOLOINTRODUZIONE

1 Storia antica. Sui lidi di quel mare Mediterraneoche, insinuandosi nella terraferma, forma il più vastogolfo dell'Oceano ed or restringendosi per mezzo di iso-le o promontori, ora estendendosi ampiamente, unisce esepara ad un tempo le tre parti del mondo antico, fin daitempi remoti si stabilirono genti varie le quali, se sottol'aspetto etnografico e linguistico appartengono a stirpidiverse, storicamente formano un unico complesso.

Questo complesso che impropriamente si suole defi-nire la storia del mondo antico, è invece la storia dellaciviltà dei popoli mediterranei, la quale nei suoi quattrograndi stadi di svolgimento ci presenta: sulle spiagge delsud la storia della stirpe copta o egizia; nella costaorientale quella della nazione aramea o siriaca estenden-tesi nell'interno fino all'Eufrate, e sul litorale europeodel Mediterraneo quella dei popoli gemelli, l'Italiano edil Greco.

Veramente, ognuna di queste storie, si riannoda neiprimordi ad altri cicli storici, ma presto ne diverge e per-corre una propria via. Le stesse nazioni estranee ed an-che le affini, che abitano attorno a questo grande anello,i Berberi ed i negri dell'Africa, gli Arabi, i Persiani e gliIndiani dell'Asia, i Celti ed i Tedeschi d'Europa, puravendo avuto contatti e relazioni cogli abitatori del Me-

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diterraneo, non esercitarono su di loro, nè da loro rice-vettero alcun influsso; e ove si potessero tracciare inmodo generale i cicli delle civiltà, quello i cui punti cul-minanti sono indicati coi nomi di Tebe, di Cartagine,d'Atene e di Roma risulterebbe come un sol ciclo.

Queste quattro nazioni, dopo che ciascuna, seguendola via e l'indole propria, ebbe raggiunto un alto grado diciviltà, in vicendevole relazione tra di esse elaboraronoe svilupparono tutti gli elementi della natura umana, fin-chè anche il loro ciclo si chiuse, e nuove genti, che ave-vano fino allora appena lambito, come montanti maree, ilidi del Mediterraneo, traboccando sull'una e sull'altrasponda, e separando storicamente la riva meridionaledalla settentrionale, trasportarono il centro di gravitàdella civiltà dal Mediterraneo all'Atlantico.

Così la storia antica si separa dalla moderna non percaso, e cronologicamente, poichè con la storia, che noichiamiamo moderna, si apre veramente un nuovo ciclodi civiltà, il quale, nei vari stadi del suo sviluppo, ben siricollega alla tramontata o tramontante civiltà dei popolimediterranei, allo stesso modo che la civiltà mediterra-nea si riannoda a quella più antica degli Indo-germanici;ma anche questo ciclo è destinato, come quello che loprecedette, a compiere la sua speciale evoluzione e asperimentare in tutta la loro pienezza la prosperità e lamiseria civile, i tempi della fioritura e della vigorìa equelli dell'esaurimento, il felice affaticarsi nel crear lareligione, lo stato e l'arte; il comodo godimento dei con-quistati beni materiali e spirituali, e un giorno l'esauri-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

diterraneo, non esercitarono su di loro, nè da loro rice-vettero alcun influsso; e ove si potessero tracciare inmodo generale i cicli delle civiltà, quello i cui punti cul-minanti sono indicati coi nomi di Tebe, di Cartagine,d'Atene e di Roma risulterebbe come un sol ciclo.

Queste quattro nazioni, dopo che ciascuna, seguendola via e l'indole propria, ebbe raggiunto un alto grado diciviltà, in vicendevole relazione tra di esse elaboraronoe svilupparono tutti gli elementi della natura umana, fin-chè anche il loro ciclo si chiuse, e nuove genti, che ave-vano fino allora appena lambito, come montanti maree, ilidi del Mediterraneo, traboccando sull'una e sull'altrasponda, e separando storicamente la riva meridionaledalla settentrionale, trasportarono il centro di gravitàdella civiltà dal Mediterraneo all'Atlantico.

Così la storia antica si separa dalla moderna non percaso, e cronologicamente, poichè con la storia, che noichiamiamo moderna, si apre veramente un nuovo ciclodi civiltà, il quale, nei vari stadi del suo sviluppo, ben siricollega alla tramontata o tramontante civiltà dei popolimediterranei, allo stesso modo che la civiltà mediterra-nea si riannoda a quella più antica degli Indo-germanici;ma anche questo ciclo è destinato, come quello che loprecedette, a compiere la sua speciale evoluzione e asperimentare in tutta la loro pienezza la prosperità e lamiseria civile, i tempi della fioritura e della vigorìa equelli dell'esaurimento, il felice affaticarsi nel crear lareligione, lo stato e l'arte; il comodo godimento dei con-quistati beni materiali e spirituali, e un giorno l'esauri-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

mento delle forze creatrici nella soddisfatta sazietà dellamèta raggiunta. Ma anche questa mèta non sarà chetemporanea; il più vasto sistema di civiltà ha segnatinella stessa sua idea i propri limiti e li può raggiungere;non così il genere umano, il quale, quando crede di avertoccata la mèta anelata, vede fatalmente riproporsi in uncampo più vasto e in una sfera più alta l'antico suo com-pito.

2 Italia. Ciò che noi qui ci proponiamo è la narrazio-ne del dramma antico e grandioso vissuto dalla medianadelle tre penisole che, dal continente europeo, si proten-dono nel Mediterraneo.

Questa penisola prende la sua forma dai monti chedalle Alpi occidentali si diramano verso il sud.L'Appennino sulle prime corre nella direzione sud-estfra il più vasto seno occidentale e lo stretto golfo delMediterraneo, e giunge alla maggiore sua altezza negliAbruzzi, dove però attinge appena le regioni delle nevieterne. Dagli Abruzzi la catena continua verso sud, indi-visa prima e di considerevole altezza; poi dopo un av-vallamento, che forma un paese di colline, si biforca indue linee, di cui la più bassa si protende verso sud-est, ela più alta si dirige verso mezzodì, concludendosi en-trambe in due anguste penisole.

Il piano che verso settentrione si allarga fra le Alpi el'Appennino sino agli Abruzzi, non appartiene geografi-camente, e anche storicamente fu solo assai tardi colle-gato alla parte meridionale del paese dei colli, a

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

mento delle forze creatrici nella soddisfatta sazietà dellamèta raggiunta. Ma anche questa mèta non sarà chetemporanea; il più vasto sistema di civiltà ha segnatinella stessa sua idea i propri limiti e li può raggiungere;non così il genere umano, il quale, quando crede di avertoccata la mèta anelata, vede fatalmente riproporsi in uncampo più vasto e in una sfera più alta l'antico suo com-pito.

2 Italia. Ciò che noi qui ci proponiamo è la narrazio-ne del dramma antico e grandioso vissuto dalla medianadelle tre penisole che, dal continente europeo, si proten-dono nel Mediterraneo.

Questa penisola prende la sua forma dai monti chedalle Alpi occidentali si diramano verso il sud.L'Appennino sulle prime corre nella direzione sud-estfra il più vasto seno occidentale e lo stretto golfo delMediterraneo, e giunge alla maggiore sua altezza negliAbruzzi, dove però attinge appena le regioni delle nevieterne. Dagli Abruzzi la catena continua verso sud, indi-visa prima e di considerevole altezza; poi dopo un av-vallamento, che forma un paese di colline, si biforca indue linee, di cui la più bassa si protende verso sud-est, ela più alta si dirige verso mezzodì, concludendosi en-trambe in due anguste penisole.

Il piano che verso settentrione si allarga fra le Alpi el'Appennino sino agli Abruzzi, non appartiene geografi-camente, e anche storicamente fu solo assai tardi colle-gato alla parte meridionale del paese dei colli, a

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

quell'Italia della cui storia ora ci occupiamo; avvertendoche il litorale da Senigallia a Rimini fu unito all'Italiasolo nel settimo secolo di Roma; la valle del Po nel se-colo ottavo, e perciò non le Alpi ma gli Appennini se-gnarono gli antichi confini settentrionali d'Italia.

Questi monti peninsulari non si stagliano mai in aspregiogaie, ma distendendosi in dolci declivi, e interclu-dendo molte valli ed altipiani collegati da facili valichioffrono all'uomo una conveniente abitazione: il che puòdirsi ancor più del paese adiacente e del litorale che cir-conda gli Appennini verso levante, mezzodì e occidente.

Nella riviera orientale, chiusa a settentrionedall'Appennino abruzzese e interrotta solo dalla scosce-sa groppa del Gargano, si distende l'uniforme pianuradella Puglia con lidi poco frastagliati e attraversata dapochi fiumi, ma nella costa meridionale, tra le due peni-sole ove muore l'Appennino, si allarga una valle immen-sa, fertile e ricca d'acque. Finalmente la riviera occiden-tale, vasto territorio attraversato da ragguardevoli fiumi,segnatamente dal Tevere, e foggiato dalle acque e dainumerosi vulcani spenti, in valli, colline, porti ed isole,costituisce con i territori dell'Etruria, del Lazio e dellaCampania il nerbo del paese italico, sino verso il mezzo-dì della Campania, dove a poco a poco la regione preap-penninica scompare e la catena stessa del monte viene aspecchiarsi nel mar Tirreno.

E poi, come il Peloponneso si congiunge con la Gre-cia, così all'Italia porge quasi la mano l'isola di Sicilia,la più bella, la più grande del Mediterraneo; montagnosa

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quell'Italia della cui storia ora ci occupiamo; avvertendoche il litorale da Senigallia a Rimini fu unito all'Italiasolo nel settimo secolo di Roma; la valle del Po nel se-colo ottavo, e perciò non le Alpi ma gli Appennini se-gnarono gli antichi confini settentrionali d'Italia.

Questi monti peninsulari non si stagliano mai in aspregiogaie, ma distendendosi in dolci declivi, e interclu-dendo molte valli ed altipiani collegati da facili valichioffrono all'uomo una conveniente abitazione: il che puòdirsi ancor più del paese adiacente e del litorale che cir-conda gli Appennini verso levante, mezzodì e occidente.

Nella riviera orientale, chiusa a settentrionedall'Appennino abruzzese e interrotta solo dalla scosce-sa groppa del Gargano, si distende l'uniforme pianuradella Puglia con lidi poco frastagliati e attraversata dapochi fiumi, ma nella costa meridionale, tra le due peni-sole ove muore l'Appennino, si allarga una valle immen-sa, fertile e ricca d'acque. Finalmente la riviera occiden-tale, vasto territorio attraversato da ragguardevoli fiumi,segnatamente dal Tevere, e foggiato dalle acque e dainumerosi vulcani spenti, in valli, colline, porti ed isole,costituisce con i territori dell'Etruria, del Lazio e dellaCampania il nerbo del paese italico, sino verso il mezzo-dì della Campania, dove a poco a poco la regione preap-penninica scompare e la catena stessa del monte viene aspecchiarsi nel mar Tirreno.

E poi, come il Peloponneso si congiunge con la Gre-cia, così all'Italia porge quasi la mano l'isola di Sicilia,la più bella, la più grande del Mediterraneo; montagnosa

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e in parte deserta nell'interno, ma fasciata, principal-mente nelle parti orientale e meridionale, da un vasto emagnifico litorale quasi tutto vulcanico. E nel modostesso che i monti della Sicilia sono geograficamenteuna continuazione dell'Appennino, interrotto appenadalla angusta frattura dello stretto, così storicamente laSicilia è senza dubbio fin dagli antichi tempi una parted'Italia, come il Peloponneso della Grecia: teatro sulquale si agitavano le stesse razze, sede comune di unaciviltà egualmente sviluppata.

La penisola italica partecipa colla greca dei beneficid'un clima temperato e dell'aria salubre e vivificantedelle valli e del piano. L'Italia è inferiore alla Grecia pernumero di porti e le manca segnatamente quell'arcipela-go che fece degli Elleni un popolo di navigatori, ma incompenso essa è superiore alla sua vicina per le pianurericche di corsi d'acqua, per le fertili ed erbose chine de'monti tanto acconcie all'agricoltura ed alla pastorizia.Insomma, come la Grecia, l'Italia è un bel paese che sti-mola e ricompensa l'attività dell'uomo e che apre le vietanto alle irrequiete aspirazioni verso lidi ignoti, comealla pacifica solerzia dell'interno. Se però la penisolagreca ha rivolto i suoi occhi verso oriente, l'italica li harivolti verso occidente. Quella secondaria importanzache le spiagge dell'Epiro e dell'Acarnania hanno perl'Ellade, hanno per l'Italia le spiagge della Puglia e dellaMessapia; e se l'Attica e la Macedonia, paesi sui quali sifondò l'evoluzione storica della Grecia, tendono i lorosguardi verso oriente, l'Etruria, il Lazio e la Campania li

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e in parte deserta nell'interno, ma fasciata, principal-mente nelle parti orientale e meridionale, da un vasto emagnifico litorale quasi tutto vulcanico. E nel modostesso che i monti della Sicilia sono geograficamenteuna continuazione dell'Appennino, interrotto appenadalla angusta frattura dello stretto, così storicamente laSicilia è senza dubbio fin dagli antichi tempi una parted'Italia, come il Peloponneso della Grecia: teatro sulquale si agitavano le stesse razze, sede comune di unaciviltà egualmente sviluppata.

La penisola italica partecipa colla greca dei beneficid'un clima temperato e dell'aria salubre e vivificantedelle valli e del piano. L'Italia è inferiore alla Grecia pernumero di porti e le manca segnatamente quell'arcipela-go che fece degli Elleni un popolo di navigatori, ma incompenso essa è superiore alla sua vicina per le pianurericche di corsi d'acqua, per le fertili ed erbose chine de'monti tanto acconcie all'agricoltura ed alla pastorizia.Insomma, come la Grecia, l'Italia è un bel paese che sti-mola e ricompensa l'attività dell'uomo e che apre le vietanto alle irrequiete aspirazioni verso lidi ignoti, comealla pacifica solerzia dell'interno. Se però la penisolagreca ha rivolto i suoi occhi verso oriente, l'italica li harivolti verso occidente. Quella secondaria importanzache le spiagge dell'Epiro e dell'Acarnania hanno perl'Ellade, hanno per l'Italia le spiagge della Puglia e dellaMessapia; e se l'Attica e la Macedonia, paesi sui quali sifondò l'evoluzione storica della Grecia, tendono i lorosguardi verso oriente, l'Etruria, il Lazio e la Campania li

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volgono verso l'occidente. E così le vicine penisole,quasi sorelle, si trovano colle spalle l'una all'altra rivol-te; e, benchè da Otranto si scorgano a occhio nudo imonti Acroceraunici, gli Italici e gli Elleni si sono in-contrati più presto e più da vicino su tutte le altre vie,fuorchè su quella più prossima attraverso il mare Adria-tico. La vocazione storica dei popoli, qui come ovun-que, era presegnata nelle condizioni del suolo, e i duegrandi ceppi, dai quali crebbe la civiltà del vecchiomondo, proiettarono le loro ombre e gettarono le lorosementi l'uno verso oriente, l'altro verso occidente.

3 Storia d'Italia. È la storia d'Italia e non di Romache noi qui narriamo. Se anche fu il comune di Roma,conforme il formale ius pubblico, quello che per primoestese la signoria sull'Italia e poscia sul mondo, ciò nonsi può dire in modo assoluto nel vero senso storico: equella che si suol chiamare la dominazione dell'Italiaper mezzo dei Romani, ci appare piuttosto come l'unio-ne di tutte le stirpi italiche in un solo stato; di cui i Ro-mani formano bensì il ramo più potente, ma non più cheun ramo.

La storia d'Italia si divide in due parti principali: lastoria interna d'Italia sino alla unione di tutte le genti ita-liche sotto la supremazia della stirpe latina; e la storiadel dominio italiano sul mondo.

Noi avremo quindi da narrare lo stabilirsi della razzaitaliana nella penisola, i pericoli affrontati per la sua esi-stenza nazionale e politica, e com'essa sia stata in parte

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volgono verso l'occidente. E così le vicine penisole,quasi sorelle, si trovano colle spalle l'una all'altra rivol-te; e, benchè da Otranto si scorgano a occhio nudo imonti Acroceraunici, gli Italici e gli Elleni si sono in-contrati più presto e più da vicino su tutte le altre vie,fuorchè su quella più prossima attraverso il mare Adria-tico. La vocazione storica dei popoli, qui come ovun-que, era presegnata nelle condizioni del suolo, e i duegrandi ceppi, dai quali crebbe la civiltà del vecchiomondo, proiettarono le loro ombre e gettarono le lorosementi l'uno verso oriente, l'altro verso occidente.

3 Storia d'Italia. È la storia d'Italia e non di Romache noi qui narriamo. Se anche fu il comune di Roma,conforme il formale ius pubblico, quello che per primoestese la signoria sull'Italia e poscia sul mondo, ciò nonsi può dire in modo assoluto nel vero senso storico: equella che si suol chiamare la dominazione dell'Italiaper mezzo dei Romani, ci appare piuttosto come l'unio-ne di tutte le stirpi italiche in un solo stato; di cui i Ro-mani formano bensì il ramo più potente, ma non più cheun ramo.

La storia d'Italia si divide in due parti principali: lastoria interna d'Italia sino alla unione di tutte le genti ita-liche sotto la supremazia della stirpe latina; e la storiadel dominio italiano sul mondo.

Noi avremo quindi da narrare lo stabilirsi della razzaitaliana nella penisola, i pericoli affrontati per la sua esi-stenza nazionale e politica, e com'essa sia stata in parte

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soggiogata da popoli di altra origine e di più antica ci-viltà, i Greci e gli Etruschi; la sollevazione degli Italicicontro gli stranieri, che finiscono sterminati o servi; fi-nalmente le lotte delle due principali stirpi italiane, la la-tina e la sannita per l'egemonia sulla penisola, e la vitto-ria dei Latini sullo scorcio del quarto secolo prima dellanascita di Cristo o del quinto secolo della fondazione diRoma.

La seconda parte tratterà delle guerre puniche e com-prenderà il rapidissimo estendersi del dominio romanofino ed oltre i confini naturali d'Italia.

Il lungo ciclo e la stasi del periodo imperiale, e la ca-duta del possente impero, formeranno l'argomento delterzo e dei seguenti libri.

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soggiogata da popoli di altra origine e di più antica ci-viltà, i Greci e gli Etruschi; la sollevazione degli Italicicontro gli stranieri, che finiscono sterminati o servi; fi-nalmente le lotte delle due principali stirpi italiane, la la-tina e la sannita per l'egemonia sulla penisola, e la vitto-ria dei Latini sullo scorcio del quarto secolo prima dellanascita di Cristo o del quinto secolo della fondazione diRoma.

La seconda parte tratterà delle guerre puniche e com-prenderà il rapidissimo estendersi del dominio romanofino ed oltre i confini naturali d'Italia.

Il lungo ciclo e la stasi del periodo imperiale, e la ca-duta del possente impero, formeranno l'argomento delterzo e dei seguenti libri.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

SECONDO CAPITOLOLE PIÙ ANTICHE IMMIGRAZIONI

IN ITALIA

1 Tribù indigene d'Italia. Sulla prima immigrazio-ne della razza umana in Italia non v'ha alcuna notizia,nemmeno qualche leggenda; anzi ne' tempi antichi cre-devasi comunemente che qui, come dappertutto, le pri-me genti fossero state originate dal suolo medesimo.Noi lasceremo, come giustizia vuole, ai naturalisti ilsentenziare sull'origine delle diverse razze e sui lororapporti genetici coi diversi climi; dal lato storico non èpossibile, nè importa gran fatto, lo stabilire se la più an-tica popolazione d'Italia fosse autoctona o immigrata.Spetta però allo storiografo di dimostrare la successivastratificazione dei popoli in ciascun paese, per seguire,per quanto sia possibile, l'ascesa da una civiltà imperfet-ta ad una più progredita e la soppressione o sostituzionedelle razze meno atte a civiltà, o anche soltanto menosviluppate, da parte di nazioni di civiltà superiore.

Ma l'Italia è stranamente povera di monumentidell'epoca primitiva e mostra, sotto questo aspetto, unnotevole contrasto con altri rami di coltura. Dalle inve-stigazioni fatte, risulta che un popolo, verosimilmente dirazza tschudica, deve aver abitato, o meglio deve essereandato vagando per l'Inghilterra, la Francia, la Germania

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SECONDO CAPITOLOLE PIÙ ANTICHE IMMIGRAZIONI

IN ITALIA

1 Tribù indigene d'Italia. Sulla prima immigrazio-ne della razza umana in Italia non v'ha alcuna notizia,nemmeno qualche leggenda; anzi ne' tempi antichi cre-devasi comunemente che qui, come dappertutto, le pri-me genti fossero state originate dal suolo medesimo.Noi lasceremo, come giustizia vuole, ai naturalisti ilsentenziare sull'origine delle diverse razze e sui lororapporti genetici coi diversi climi; dal lato storico non èpossibile, nè importa gran fatto, lo stabilire se la più an-tica popolazione d'Italia fosse autoctona o immigrata.Spetta però allo storiografo di dimostrare la successivastratificazione dei popoli in ciascun paese, per seguire,per quanto sia possibile, l'ascesa da una civiltà imperfet-ta ad una più progredita e la soppressione o sostituzionedelle razze meno atte a civiltà, o anche soltanto menosviluppate, da parte di nazioni di civiltà superiore.

Ma l'Italia è stranamente povera di monumentidell'epoca primitiva e mostra, sotto questo aspetto, unnotevole contrasto con altri rami di coltura. Dalle inve-stigazioni fatte, risulta che un popolo, verosimilmente dirazza tschudica, deve aver abitato, o meglio deve essereandato vagando per l'Inghilterra, la Francia, la Germania

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settentrionale e la Scandinavia, nutrendosi di caccia e dipesca, fabbricandosi suppellettili di pietra, di terra ed'ossa; portando ornamenti di denti d'animali e d'ambra,ed ignaro dell'agricoltura e dell'uso dei metalli. Nellostesso modo nell'India una popolazione di colorito oscu-ro, meno suscettibile d'incivilimento, precedette la po-polazione indo-germanica. Ma in Italia noi non riscon-triamo nè rovine di una nazione respinta, come a cagiond'esempio nel territorio celto-germanico i Finni e i Lap-poni, e nei monti dell'India le razze nere; nè vi si sonofinora trovate vestigia di un popolo primitivo scompar-so, come sembrano dimostrarlo gli scheletri di particola-re struttura e le tombe della così detta età della pietradella antichità tedesca. Nessun documento ci autorizzòfino ad ora a credere, che l’esistenza della razza umanain Italia sia più antica della coltivazione del suolo e del-la fusione dei metalli; ed anche supponendo che la razzaumana abbia una volta raggiunto entro i confini d'Italiail primo grado di coltura, che noi diremo stato di selvati-chezza, non è men vero che se ne è perduta affatto ognitraccia.

Gli elementi della storia più antica sono gli individui,i popoli, le razze. Fra quelle che più tardi incontriamo inItalia è provata storicamente la immigrazione di alcune,come dell'ellenica, la denazionalizzazione di alcune al-tre, come dei Bruzi e degli abitatori del paese sabino.Escludendo queste due stirpi, rimangono ancora non po-che altre, le cui migrazioni non si potrebbero provarecon documenti storici, ma tutt'al più a priori, e la loro

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settentrionale e la Scandinavia, nutrendosi di caccia e dipesca, fabbricandosi suppellettili di pietra, di terra ed'ossa; portando ornamenti di denti d'animali e d'ambra,ed ignaro dell'agricoltura e dell'uso dei metalli. Nellostesso modo nell'India una popolazione di colorito oscu-ro, meno suscettibile d'incivilimento, precedette la po-polazione indo-germanica. Ma in Italia noi non riscon-triamo nè rovine di una nazione respinta, come a cagiond'esempio nel territorio celto-germanico i Finni e i Lap-poni, e nei monti dell'India le razze nere; nè vi si sonofinora trovate vestigia di un popolo primitivo scompar-so, come sembrano dimostrarlo gli scheletri di particola-re struttura e le tombe della così detta età della pietradella antichità tedesca. Nessun documento ci autorizzòfino ad ora a credere, che l’esistenza della razza umanain Italia sia più antica della coltivazione del suolo e del-la fusione dei metalli; ed anche supponendo che la razzaumana abbia una volta raggiunto entro i confini d'Italiail primo grado di coltura, che noi diremo stato di selvati-chezza, non è men vero che se ne è perduta affatto ognitraccia.

Gli elementi della storia più antica sono gli individui,i popoli, le razze. Fra quelle che più tardi incontriamo inItalia è provata storicamente la immigrazione di alcune,come dell'ellenica, la denazionalizzazione di alcune al-tre, come dei Bruzi e degli abitatori del paese sabino.Escludendo queste due stirpi, rimangono ancora non po-che altre, le cui migrazioni non si potrebbero provarecon documenti storici, ma tutt'al più a priori, e la loro

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nazionalità non ha apparentemente sofferto per pressio-ne esterna alcuna profonda modificazione; sono questele razze delle quali si deve anzitutto con diligente inda-gine stabilire l'individualità nazionale. Se il nostro com-pito si dovesse limitare unicamente a distrigare la farra-gine dei nomi dei popoli e la confusa pretesa delle tradi-zioni storiche, stabilita da poche attendibili notizie, rac-colte da colti viaggiatori, quasi sempre prive di sensoper la tradizione e per la storia, sarebbe impresa presso-chè disperata. Ma per noi esiste ancora una sorgente del-la tradizione, la quale, benchè offra solo frammenti, lidà per lo meno autentici. Intendiamo parlare delle lin-gue indigene delle razze stabilite in Italia da tempo im-memorabile.

Le lingue, che si formarono con lo sviluppo d'un po-polo, furono troppo profondamente plasmate dalla loroorigine, perchè le successive culture potessero comple-tamente annullarle. E se delle lingue italiche una ci ècompiutamente sconosciuta, di molte altre si conserva-rono però sufficienti reliquie, per porgere alla investiga-zione storica argomento per stabilire la diversità o l'affi-nità delle razze e i rapporti fra i linguaggi ed i popoli.

Così l'etimologia c'insegna a distinguere tre primitiveschiatte italiche: la japigica, l'etrusca e quella che piùpropriamente vogliamo chiamare italica; la quale ultimasi divide in due rami principali: l'idioma latino, e l'idio-ma al quale appartengono i dialetti degli Umbri, deiMarsi, dei Volsci e dei Sanniti.

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nazionalità non ha apparentemente sofferto per pressio-ne esterna alcuna profonda modificazione; sono questele razze delle quali si deve anzitutto con diligente inda-gine stabilire l'individualità nazionale. Se il nostro com-pito si dovesse limitare unicamente a distrigare la farra-gine dei nomi dei popoli e la confusa pretesa delle tradi-zioni storiche, stabilita da poche attendibili notizie, rac-colte da colti viaggiatori, quasi sempre prive di sensoper la tradizione e per la storia, sarebbe impresa presso-chè disperata. Ma per noi esiste ancora una sorgente del-la tradizione, la quale, benchè offra solo frammenti, lidà per lo meno autentici. Intendiamo parlare delle lin-gue indigene delle razze stabilite in Italia da tempo im-memorabile.

Le lingue, che si formarono con lo sviluppo d'un po-polo, furono troppo profondamente plasmate dalla loroorigine, perchè le successive culture potessero comple-tamente annullarle. E se delle lingue italiche una ci ècompiutamente sconosciuta, di molte altre si conserva-rono però sufficienti reliquie, per porgere alla investiga-zione storica argomento per stabilire la diversità o l'affi-nità delle razze e i rapporti fra i linguaggi ed i popoli.

Così l'etimologia c'insegna a distinguere tre primitiveschiatte italiche: la japigica, l'etrusca e quella che piùpropriamente vogliamo chiamare italica; la quale ultimasi divide in due rami principali: l'idioma latino, e l'idio-ma al quale appartengono i dialetti degli Umbri, deiMarsi, dei Volsci e dei Sanniti.

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2 Japigi. Ben poco sappiamo della setta japigica.Nell'estrema parte sud-orientale d'Italia, nella penisolamessapica o calabra, furono rinvenute molte iscrizioniin una lingua da gran tempo perduta2: reliquie secondoogni apparenza dell'idioma degli Japigi, che anche latradizione vuole assolutamente distinti dalle genti latinee sannitiche. Notizie degne di fede e numerosi altri indi-zi inducono a credere che la stessa lingua e la stessa raz-za fossero originariamente stabilite anche nella Puglia.Quanto noi ora conosciamo di questo popolo basta bensìa distinguerlo dagli altri italici, ma non già per fissarepositivamente il posto che ad esso e alla sua lingua spet-ta nella storia del genere umano.

Le iscrizioni non furono spiegate, e c'è poca speranzache lo siano in avvenire. Le forme del genitivo aihi eihi, corrispondenti al genitivo del sanscrito asya e algreco οιο, sembrano indicare che questo dialetto appar-tiene agli indo-germanici. Altre tracce, come per esem-pio l'uso delle consonanti aspirate e lo studio d'evitare lelettere finali m e t, mostrano che questo dialetto japigicoè sostanzialmente diverso dall'italico ed ha piuttosto unacerta analogia coi dialetti greci. L'ipotesi di una strettaaffinità tra la nazione japigica e l'ellenica, trova ulteriorecredito nei nomi di divinità greche più volte ricorrentinelle iscrizioni e nella sorprendente facilità con cui gli

2 Alcune iscrizioni sepolcrali varranno a dare un'idea del suo-no di questa lingua, p. e.: «ϑeotoras artaihiaihi bennarrihino», e«dazihonas platorrihi bollihi».

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2 Japigi. Ben poco sappiamo della setta japigica.Nell'estrema parte sud-orientale d'Italia, nella penisolamessapica o calabra, furono rinvenute molte iscrizioniin una lingua da gran tempo perduta2: reliquie secondoogni apparenza dell'idioma degli Japigi, che anche latradizione vuole assolutamente distinti dalle genti latinee sannitiche. Notizie degne di fede e numerosi altri indi-zi inducono a credere che la stessa lingua e la stessa raz-za fossero originariamente stabilite anche nella Puglia.Quanto noi ora conosciamo di questo popolo basta bensìa distinguerlo dagli altri italici, ma non già per fissarepositivamente il posto che ad esso e alla sua lingua spet-ta nella storia del genere umano.

Le iscrizioni non furono spiegate, e c'è poca speranzache lo siano in avvenire. Le forme del genitivo aihi eihi, corrispondenti al genitivo del sanscrito asya e algreco οιο, sembrano indicare che questo dialetto appar-tiene agli indo-germanici. Altre tracce, come per esem-pio l'uso delle consonanti aspirate e lo studio d'evitare lelettere finali m e t, mostrano che questo dialetto japigicoè sostanzialmente diverso dall'italico ed ha piuttosto unacerta analogia coi dialetti greci. L'ipotesi di una strettaaffinità tra la nazione japigica e l'ellenica, trova ulteriorecredito nei nomi di divinità greche più volte ricorrentinelle iscrizioni e nella sorprendente facilità con cui gli

2 Alcune iscrizioni sepolcrali varranno a dare un'idea del suo-no di questa lingua, p. e.: «ϑeotoras artaihiaihi bennarrihino», e«dazihonas platorrihi bollihi».

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Japigi si ellenizzarono, in contrasto con la riluttanza aciò delle altre nazioni italiche.

L'Apulia, che ai tempi di Timeo (400 di Roma) eradetta paese barbaro, divenne nel sesto secolo di Romaun paese assolutamente greco, benchè dalla Grecia nonfossero venuti direttamente coloni; e persino presso lapiù rozza stirpe dei Messapi si mostrano indizi di unanalogo sviluppo.

Le indagini dovranno fermarsi, almeno per ora, sino ache si potrà ottenere un più deciso e più certo risultato, aquesta affinità di razza e di elezione. Ma questo non ba-sta ancora a stabilire che la lingua japigica sia un rozzodialetto ellenico3. La lacuna non è però molto importan-te, giacchè questa schiatta japigica già all'aprirsi dellanostra storia ci si mostra fiacca e cedevole. Il caratteredella nazione japigica, inetto a resistere e facile a fon-dersi con altre nazionalità, avvalora l'ipotesi confortatadalla sua posizione geografica, che questi siano i più an-tichi immigrati, ossia gli autoctoni storici d'Italia, poichènon v'ha dubbio che le più antiche migrazioni di popoliavvenissero per terra, principalmente in Italia, le cui

3 Si vuol trovare un'affinità tra la lingua japigica e quella alba-nese, ma è un'ipotesi fondata sopra pochi punti di somiglianza fi-lologica e non sufficienti ad avvalorare un fatto di tanta importan-za. Se questa affinità di razza venisse confermata e si provassedavvero che gli Albanesi siano un resto di quella nazionalità el-leno-barbarica le cui tracce appaiono in tutta la Grecia, sarebbeprovata anche questa nazionalità come preellenica e pure preitali-ca, ma non ne seguirebbe perciò l'immigrazione degli Japigi inItalia attraverso l'Adriatico.

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Japigi si ellenizzarono, in contrasto con la riluttanza aciò delle altre nazioni italiche.

L'Apulia, che ai tempi di Timeo (400 di Roma) eradetta paese barbaro, divenne nel sesto secolo di Romaun paese assolutamente greco, benchè dalla Grecia nonfossero venuti direttamente coloni; e persino presso lapiù rozza stirpe dei Messapi si mostrano indizi di unanalogo sviluppo.

Le indagini dovranno fermarsi, almeno per ora, sino ache si potrà ottenere un più deciso e più certo risultato, aquesta affinità di razza e di elezione. Ma questo non ba-sta ancora a stabilire che la lingua japigica sia un rozzodialetto ellenico3. La lacuna non è però molto importan-te, giacchè questa schiatta japigica già all'aprirsi dellanostra storia ci si mostra fiacca e cedevole. Il caratteredella nazione japigica, inetto a resistere e facile a fon-dersi con altre nazionalità, avvalora l'ipotesi confortatadalla sua posizione geografica, che questi siano i più an-tichi immigrati, ossia gli autoctoni storici d'Italia, poichènon v'ha dubbio che le più antiche migrazioni di popoliavvenissero per terra, principalmente in Italia, le cui

3 Si vuol trovare un'affinità tra la lingua japigica e quella alba-nese, ma è un'ipotesi fondata sopra pochi punti di somiglianza fi-lologica e non sufficienti ad avvalorare un fatto di tanta importan-za. Se questa affinità di razza venisse confermata e si provassedavvero che gli Albanesi siano un resto di quella nazionalità el-leno-barbarica le cui tracce appaiono in tutta la Grecia, sarebbeprovata anche questa nazionalità come preellenica e pure preitali-ca, ma non ne seguirebbe perciò l'immigrazione degli Japigi inItalia attraverso l'Adriatico.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

spiaggie potevano essere accessibili solo ad esperti na-vigatori; ed infatti ai tempi d'Omero esse erano ancoraignote agli Elleni.

Se poi si ammette che i primi abitatori siano scesilungo l'Appennino, lo storiografo può, sull'esempio delgeologo, che dalla stratificazione delle montagne dedu-ce l'epoca della loro formazione, arrischiare anch'esso lasupposizione, che saranno più antichi quegli abitatorid'Italia i quali furono spinti più giù verso sud; ed è ap-punto all'estremo lembo che troviamo la nazione japigi-ca.

Per quanto arriva la nostra attendibile tradizione, ilcentro della penisola è abitato da due popoli, o piuttostoda due rami dello stesso popolo, la cui posizione nellafamiglia indo-germanica può essere determinata conmolta maggior certezza di quella della nazione japigica.E siccome su questo popolo si fonda l'importanza stori-ca della penisola, possiamo chiamarlo giustamente il po-polo italico. Esso si suddivide nei due rami dei Latini edegli Umbri coi discendenti meridionali di questi, iMarsi ed i Sanniti, non meno che le nazioni derivate daiSanniti in tempi storici.

L'analisi delle lingue appartenenti a queste tre gentiha dimostrato che esse sono un anello della catena lin-guistica indo-germanica e che l'epoca, nella quale esseformarono un'unità, è, in confronto d'altre lingue, assairemota.

Nel sistema vocale s'incontra presso di loro l'f aspira-ta, che hanno comune con gli Etruschi, ma ciò è in netto

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spiaggie potevano essere accessibili solo ad esperti na-vigatori; ed infatti ai tempi d'Omero esse erano ancoraignote agli Elleni.

Se poi si ammette che i primi abitatori siano scesilungo l'Appennino, lo storiografo può, sull'esempio delgeologo, che dalla stratificazione delle montagne dedu-ce l'epoca della loro formazione, arrischiare anch'esso lasupposizione, che saranno più antichi quegli abitatorid'Italia i quali furono spinti più giù verso sud; ed è ap-punto all'estremo lembo che troviamo la nazione japigi-ca.

Per quanto arriva la nostra attendibile tradizione, ilcentro della penisola è abitato da due popoli, o piuttostoda due rami dello stesso popolo, la cui posizione nellafamiglia indo-germanica può essere determinata conmolta maggior certezza di quella della nazione japigica.E siccome su questo popolo si fonda l'importanza stori-ca della penisola, possiamo chiamarlo giustamente il po-polo italico. Esso si suddivide nei due rami dei Latini edegli Umbri coi discendenti meridionali di questi, iMarsi ed i Sanniti, non meno che le nazioni derivate daiSanniti in tempi storici.

L'analisi delle lingue appartenenti a queste tre gentiha dimostrato che esse sono un anello della catena lin-guistica indo-germanica e che l'epoca, nella quale esseformarono un'unità, è, in confronto d'altre lingue, assairemota.

Nel sistema vocale s'incontra presso di loro l'f aspira-ta, che hanno comune con gli Etruschi, ma ciò è in netto

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contrasto con tutte le stirpi elleniche ed elleno-barbari-che e col sanscrito stesso. Le aspirate all'incontro sonooriginariamente straniere agli Italici, mentre esse furonoconservate dai Greci e le più aspre anche dagli Etruschi,e vengono sostituite presso gli Italici da uno dei loroelementi, o colla media, o colla sola aspirazione f o h.Le più tenui lettere aspirate s, w, j, che i Greci evitano ilpiù possibile, sono conservate nelle lingue italiche quasiintatte, anzi in molti casi furono maggiormente svilup-pate.

Gli Italici hanno comune con alcune genti greche econ gli Etruschi, ma in maggior grado delle prime, e inminor grado dei secondi, la tendenza di tirar indietrol'accento e la conseguente obliterazione delle desinenze.La contrazione delle desinenze nel dialetto umbro non ècerto fondata sull'originario spirito della lingua, ma suuna più tardiva influenza tosca, che nella stessa maniera,benchè in minor grado, si rivela anche in Roma. Perciòle lingue italiche d'ordinario troncano nelle desinenze levocali brevi e spesso anche le lunghe; nella lingua latinaper contro e più ancora nella sannitica le consonanti fi-nali furono tenacemente conservate, mentre la favellaumbra tronca anche queste.

Perciò la forma media nelle lingue italiche non ha la-sciato che lievi tracce; ed al suo posto troviamo una for-ma passiva, formata coll'aggiunta di una r. Inoltre lamassima parte dei tempi nei verbi si forma con le com-posizioni delle radici es e fu mentre le più antiche desi-nenze e l'aumento risparmiano ai Greci in gran parte

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contrasto con tutte le stirpi elleniche ed elleno-barbari-che e col sanscrito stesso. Le aspirate all'incontro sonooriginariamente straniere agli Italici, mentre esse furonoconservate dai Greci e le più aspre anche dagli Etruschi,e vengono sostituite presso gli Italici da uno dei loroelementi, o colla media, o colla sola aspirazione f o h.Le più tenui lettere aspirate s, w, j, che i Greci evitano ilpiù possibile, sono conservate nelle lingue italiche quasiintatte, anzi in molti casi furono maggiormente svilup-pate.

Gli Italici hanno comune con alcune genti greche econ gli Etruschi, ma in maggior grado delle prime, e inminor grado dei secondi, la tendenza di tirar indietrol'accento e la conseguente obliterazione delle desinenze.La contrazione delle desinenze nel dialetto umbro non ècerto fondata sull'originario spirito della lingua, ma suuna più tardiva influenza tosca, che nella stessa maniera,benchè in minor grado, si rivela anche in Roma. Perciòle lingue italiche d'ordinario troncano nelle desinenze levocali brevi e spesso anche le lunghe; nella lingua latinaper contro e più ancora nella sannitica le consonanti fi-nali furono tenacemente conservate, mentre la favellaumbra tronca anche queste.

Perciò la forma media nelle lingue italiche non ha la-sciato che lievi tracce; ed al suo posto troviamo una for-ma passiva, formata coll'aggiunta di una r. Inoltre lamassima parte dei tempi nei verbi si forma con le com-posizioni delle radici es e fu mentre le più antiche desi-nenze e l'aumento risparmiano ai Greci in gran parte

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l'uso dei verbi ausiliari. Le lingue italiche come il dialet-to eolico rinunziarono al duale, ma acquistarono in quel-la vece l'ablativo, che andò perduto per i Greci, e in granparte anche il vocativo.

Pare che la ferrea logica degl'Italici abbia trovato dif-ficoltà nel dividere l'idea della personalità nella dualità enella quantità, mentre conservò con grande tenacia i se-gni esprimenti i rapporti del plurale colle declinazioni.Tutt'affatto italico, e straniero persino al sanscrito, èl'uso introdotto più compiutamente che in ogni altra lin-gua, di adoperare i verbi come sostantivi nei gerundi enei supini.

3 Rapporti degli Italici coi Greci. Questi esempi,scelti tra un'abbondante copia di fenomeni analoghi, ba-stano a provare l'individualità del germe delle lingue ita-liche di fronte a qualunque altra lingua indo-germanica,e ne dimostrano linguisticamente e geograficamentel'affinità con le lingue greche; i Greci e gli Italici sonofratelli; i Celti, i Tedeschi, gli Slavi sono loro cugini. Lasostanziale unità di tutti i dialetti e di tutte le razze itali-che e greche deve essersi rivelata presto e chiaramentead entrambe le grandi nazioni, poichè noi troviamo nellalingua romana un'antichissima parola d'origine enigma-tica, cioè Graius o Graicus che indica ogni Elleno, ecosì presso ai Greci l'analoga denominazione 'Оπικός,usata da tutti i popoli latini e sanniti noti ai Greci negliantichi tempi, ma non dagli Japigi e dagli Etruschi.

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l'uso dei verbi ausiliari. Le lingue italiche come il dialet-to eolico rinunziarono al duale, ma acquistarono in quel-la vece l'ablativo, che andò perduto per i Greci, e in granparte anche il vocativo.

Pare che la ferrea logica degl'Italici abbia trovato dif-ficoltà nel dividere l'idea della personalità nella dualità enella quantità, mentre conservò con grande tenacia i se-gni esprimenti i rapporti del plurale colle declinazioni.Tutt'affatto italico, e straniero persino al sanscrito, èl'uso introdotto più compiutamente che in ogni altra lin-gua, di adoperare i verbi come sostantivi nei gerundi enei supini.

3 Rapporti degli Italici coi Greci. Questi esempi,scelti tra un'abbondante copia di fenomeni analoghi, ba-stano a provare l'individualità del germe delle lingue ita-liche di fronte a qualunque altra lingua indo-germanica,e ne dimostrano linguisticamente e geograficamentel'affinità con le lingue greche; i Greci e gli Italici sonofratelli; i Celti, i Tedeschi, gli Slavi sono loro cugini. Lasostanziale unità di tutti i dialetti e di tutte le razze itali-che e greche deve essersi rivelata presto e chiaramentead entrambe le grandi nazioni, poichè noi troviamo nellalingua romana un'antichissima parola d'origine enigma-tica, cioè Graius o Graicus che indica ogni Elleno, ecosì presso ai Greci l'analoga denominazione 'Оπικός,usata da tutti i popoli latini e sanniti noti ai Greci negliantichi tempi, ma non dagli Japigi e dagli Etruschi.

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4 Rapporti dei Latini e degli Umbro-Sanniti.Nella genealogia delle lingue italiche l'idioma latino ap-pare nuovamente in antitesi coi dialetti umbro-sanniti.Veramente di questi non ve ne sono che due abbastanzanoti, l'umbro ed il sannita od osco; e anch'essi in manie-ra incerta e frammentaria; degli altri dialetti gli uni,come il volsco e il marsico, ci sono pervenuti in troppopovere reliquie per poterne penetrare la loro individuali-tà, o anche solo classificarli con sicurezza e precisione;mentre altri ancora, come il sabino, sono scomparsi inte-ramente, meno alcune tracce d'idiotismi conservate nellatino provinciale. Tuttavia la combinazione dei fatti lin-guistici e storici non lascia alcun dubbio che tutti questidialetti appartenessero al ramo umbro-sannitico delgrande ceppo italico, ramo, il quale, benchè più affine allatino che al greco, è però recisamente distinto anche dallatino. Nel pronome e altrove pronunziavano l'Umbra eil Sannita p, laddove il Romano q – così pis per quis; di-vergenza che notasi fra le altre lingue affini, come tra ilceltico che nella Bretagna e nel Galles usa la p, dove ilGaelico e l'Irlandese usano il k. Nelle vocali appaionoassai guasti i dittonghi nel latino e in generale nei dialet-ti nordici, e per contro pare che poco abbiano soffertonei dialetti meridionali italici; ciò che prova che il Ro-mano nelle parole composte ha indebolito la vocale fon-damentale, altrove tanto gelosamente conservata, il chenon succede nel gruppo delle lingue affini. In queste ilgenitivo delle parole che terminano in a, è, come pressoi Greci, in as, e presso i Romani nella lingua perfeziona-

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4 Rapporti dei Latini e degli Umbro-Sanniti.Nella genealogia delle lingue italiche l'idioma latino ap-pare nuovamente in antitesi coi dialetti umbro-sanniti.Veramente di questi non ve ne sono che due abbastanzanoti, l'umbro ed il sannita od osco; e anch'essi in manie-ra incerta e frammentaria; degli altri dialetti gli uni,come il volsco e il marsico, ci sono pervenuti in troppopovere reliquie per poterne penetrare la loro individuali-tà, o anche solo classificarli con sicurezza e precisione;mentre altri ancora, come il sabino, sono scomparsi inte-ramente, meno alcune tracce d'idiotismi conservate nellatino provinciale. Tuttavia la combinazione dei fatti lin-guistici e storici non lascia alcun dubbio che tutti questidialetti appartenessero al ramo umbro-sannitico delgrande ceppo italico, ramo, il quale, benchè più affine allatino che al greco, è però recisamente distinto anche dallatino. Nel pronome e altrove pronunziavano l'Umbra eil Sannita p, laddove il Romano q – così pis per quis; di-vergenza che notasi fra le altre lingue affini, come tra ilceltico che nella Bretagna e nel Galles usa la p, dove ilGaelico e l'Irlandese usano il k. Nelle vocali appaionoassai guasti i dittonghi nel latino e in generale nei dialet-ti nordici, e per contro pare che poco abbiano soffertonei dialetti meridionali italici; ciò che prova che il Ro-mano nelle parole composte ha indebolito la vocale fon-damentale, altrove tanto gelosamente conservata, il chenon succede nel gruppo delle lingue affini. In queste ilgenitivo delle parole che terminano in a, è, come pressoi Greci, in as, e presso i Romani nella lingua perfeziona-

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ta in ae; quello delle parole in us è nel sannitico eis,nell'umbro in es, presso i Romani in ei; il vocativo pres-so questi ultimi scompare sempre più nella esplicazionedella lingua, mentre rimane in pieno uso negli altri dia-letti italici; il dativo plurale in bus fu conservato solonella lingua latina. L'infinito umbro-sannitico in um èstraniero ai Romani, mentre il futuro osco-umbro, for-mato dalla radice es alla maniera greca (hest come λέγ-σω) presso i Romani è quasi o forse interamente scom-parso, e vien supplito dall'ottativo del verbo semplice ocon desinenze analoghe di fuo (ama-bo).

In parecchie di queste divergenze, per esempio nelleforme dei casi, le diversità esistono però solo nelle lin-gue perfezionate, mentre i principii coincidono. Se dun-que la lingua italica ha una propria individualità a latodella greca, in essa l'idioma latino sta all'umbro-sanniti-co a un dipresso come sta l'jonico al dorico, mentre chele differenze dell'osco e dell'umbro, non che de' dialettiaffini, si possono paragonare con quelle del dorismo inSicilia e a Sparta.

Ognuna di queste fasi linguistiche è il risultato d'unavvenimento storico, e se ne può con piena sicurezzaconchiudere che dal comune alvo materno dei popoli edelle lingue si staccò un ramo, che in sè comprese gliantenati dei Greci e degli Italici, che da questo ramo poiderivarono gli Italici, i quali a loro volta si suddiviseroin genti occidentali e orientali; e il gruppo orientale piùtardi si ramificò in Umbri e Oschi. Dove e quando que-ste divisioni avvenissero la sola filologia non può indi-

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ta in ae; quello delle parole in us è nel sannitico eis,nell'umbro in es, presso i Romani in ei; il vocativo pres-so questi ultimi scompare sempre più nella esplicazionedella lingua, mentre rimane in pieno uso negli altri dia-letti italici; il dativo plurale in bus fu conservato solonella lingua latina. L'infinito umbro-sannitico in um èstraniero ai Romani, mentre il futuro osco-umbro, for-mato dalla radice es alla maniera greca (hest come λέγ-σω) presso i Romani è quasi o forse interamente scom-parso, e vien supplito dall'ottativo del verbo semplice ocon desinenze analoghe di fuo (ama-bo).

In parecchie di queste divergenze, per esempio nelleforme dei casi, le diversità esistono però solo nelle lin-gue perfezionate, mentre i principii coincidono. Se dun-que la lingua italica ha una propria individualità a latodella greca, in essa l'idioma latino sta all'umbro-sanniti-co a un dipresso come sta l'jonico al dorico, mentre chele differenze dell'osco e dell'umbro, non che de' dialettiaffini, si possono paragonare con quelle del dorismo inSicilia e a Sparta.

Ognuna di queste fasi linguistiche è il risultato d'unavvenimento storico, e se ne può con piena sicurezzaconchiudere che dal comune alvo materno dei popoli edelle lingue si staccò un ramo, che in sè comprese gliantenati dei Greci e degli Italici, che da questo ramo poiderivarono gli Italici, i quali a loro volta si suddiviseroin genti occidentali e orientali; e il gruppo orientale piùtardi si ramificò in Umbri e Oschi. Dove e quando que-ste divisioni avvenissero la sola filologia non può indi-

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care, e l'audace pensiero osa appena azzardare un'ipotesisu queste rivoluzioni, le più remote delle quali si verifi-carono senza alcun dubbio molto tempo prima di quellaimmigrazione che condusse attraverso l'Appennino i ca-postipiti degli Italici.

Per contro il confronto delle lingue, trattato con preci-sione e con cautela, può dare un'idea approssimativa delgrado di coltura, nel quale si trovava il popolo quando siverificarono queste divisioni e ci può indicare i principiidella storia, che altro non è che lo sviluppo della civiltà,poichè, segnatamente nell'epoca della sua formazione, lalingua è il fedele specchio e l'organo del grado di colturaraggiunta; le grandi rivoluzioni tecniche e morali visono conservate come in un archivio, negli atti del qualel'avvenire non tarderà ad attingere per quei tempi intor-no a cui è oggi muta ogni diretta tradizione.

5 Cultura indo-germanica. Nei tempi, in cui i po-poli indo-germanici ora divisi formavano una schiattaparlante la stessa lingua, essi avevano raggiunto un cer-to grado di coltura e possedevano un tesoro di parole adesso corrispondente, che, quale eredità comune, fu daisingoli popoli conservato quale base della loro indipen-dente costruzione linguistica. In questo tesoro di parolenoi troviamo non solo le più semplici indicazionidell'esistenza, delle attività, dei rapporti come sum, do,pater, cioè l'eco originaria dell'impressione che il mondoesterno fa sull'animo dell'uomo, ma anche un certo nu-mero di parole indicanti lo stato della coltura, non solo

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care, e l'audace pensiero osa appena azzardare un'ipotesisu queste rivoluzioni, le più remote delle quali si verifi-carono senza alcun dubbio molto tempo prima di quellaimmigrazione che condusse attraverso l'Appennino i ca-postipiti degli Italici.

Per contro il confronto delle lingue, trattato con preci-sione e con cautela, può dare un'idea approssimativa delgrado di coltura, nel quale si trovava il popolo quando siverificarono queste divisioni e ci può indicare i principiidella storia, che altro non è che lo sviluppo della civiltà,poichè, segnatamente nell'epoca della sua formazione, lalingua è il fedele specchio e l'organo del grado di colturaraggiunta; le grandi rivoluzioni tecniche e morali visono conservate come in un archivio, negli atti del qualel'avvenire non tarderà ad attingere per quei tempi intor-no a cui è oggi muta ogni diretta tradizione.

5 Cultura indo-germanica. Nei tempi, in cui i po-poli indo-germanici ora divisi formavano una schiattaparlante la stessa lingua, essi avevano raggiunto un cer-to grado di coltura e possedevano un tesoro di parole adesso corrispondente, che, quale eredità comune, fu daisingoli popoli conservato quale base della loro indipen-dente costruzione linguistica. In questo tesoro di parolenoi troviamo non solo le più semplici indicazionidell'esistenza, delle attività, dei rapporti come sum, do,pater, cioè l'eco originaria dell'impressione che il mondoesterno fa sull'animo dell'uomo, ma anche un certo nu-mero di parole indicanti lo stato della coltura, non solo

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nelle loro radici, ma pure nel modo onde sono formate:parole che sono una proprietà comune della schiattaindo-germanica, e la cui rispondenza non può spiegarsinè con uno sviluppo parallelo, nè con una posteriore de-rivazione.

Così noi abbiamo indicazioni per lo sviluppo dellapastorizia di quella lontana epoca nei nomi invariabil-mente fissati per gli animali domestici: sanscrito gâus,latino bos, greco βοῦς; sanscrito avis, latino ovis, grecoὄις; sanscrito açvas, latino equus, greco ϊππος; sanscritohañsas, latino anser, greco χήν; sanscrito âtis, latinoanas, greco νῆσσα; e così pecus, sus, porcus, taurus, ca-nis sono parole sanscrite. Dunque fino da quegli anti-chissimi tempi la razza, sulla quale dall'età d'Omero ainostri giorni si fonda lo sviluppo spirituale del genereumano, aveva superato il più basso grado di coltura so-ciale, l'epoca della caccia e della pesca, ed era già perve-nuta per lo meno ad una relativa stabilità di dimora.

Ci mancano invece tuttora prove sicure, che sino adallora si coltivassero le terre. La lingua testimonierebbepiuttosto per il no che per il sì. Ad eccezione del solonome ζεά, che corrisponde al sanscrito yavas, e che inindiano significa orzo ed in greco spelta, non si riscontranel sanscrito alcuno dei nomi dei cereali latino-greci.

Bisogna nondimeno concedere che questa differenzanella nomenclatura delle piante coltivate, che tanto reci-samente si contrappone all'essenziale concordanza deinomi degli animali domestici, non esclude ancora inmodo assoluto una originaria comunanza dell'agricoltu-

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nelle loro radici, ma pure nel modo onde sono formate:parole che sono una proprietà comune della schiattaindo-germanica, e la cui rispondenza non può spiegarsinè con uno sviluppo parallelo, nè con una posteriore de-rivazione.

Così noi abbiamo indicazioni per lo sviluppo dellapastorizia di quella lontana epoca nei nomi invariabil-mente fissati per gli animali domestici: sanscrito gâus,latino bos, greco βοῦς; sanscrito avis, latino ovis, grecoὄις; sanscrito açvas, latino equus, greco ϊππος; sanscritohañsas, latino anser, greco χήν; sanscrito âtis, latinoanas, greco νῆσσα; e così pecus, sus, porcus, taurus, ca-nis sono parole sanscrite. Dunque fino da quegli anti-chissimi tempi la razza, sulla quale dall'età d'Omero ainostri giorni si fonda lo sviluppo spirituale del genereumano, aveva superato il più basso grado di coltura so-ciale, l'epoca della caccia e della pesca, ed era già perve-nuta per lo meno ad una relativa stabilità di dimora.

Ci mancano invece tuttora prove sicure, che sino adallora si coltivassero le terre. La lingua testimonierebbepiuttosto per il no che per il sì. Ad eccezione del solonome ζεά, che corrisponde al sanscrito yavas, e che inindiano significa orzo ed in greco spelta, non si riscontranel sanscrito alcuno dei nomi dei cereali latino-greci.

Bisogna nondimeno concedere che questa differenzanella nomenclatura delle piante coltivate, che tanto reci-samente si contrappone all'essenziale concordanza deinomi degli animali domestici, non esclude ancora inmodo assoluto una originaria comunanza dell'agricoltu-

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ra. Nelle primitive condizioni delle società il trasporto el'acclimatazione delle piante riesce più difficile chequella degli animali; e la coltivazione del riso degli In-diani, quella del frumento e della spelta dei Greci e deiRomani, quella della segala e dell'avena dei Germani edei Celti potrebbe condurci ad una comune originariaagricoltura. La circostanza che la denominazione di uncereale sia comune ai Greci e agli Indiani, è tutt'al piùuna prova che prima della divisione delle schiatte si rac-coglievano e si mangiavano grani d'orzo e di spelta4,nella Mesopotamia spontaneamente cresciuti, ma nongià che vi si coltivasse il grano.

Benchè da tutto ciò non risulti nulla di positivo, non èperò inutile avvertire che molti vocaboli dei più impor-tanti, riferibili alla coltivazione, si riscontrano nel san-scrito, sebbene tutti con significato più generico: agrassignifica presso gl'indiani territorio fertile in generale,kürnu, il tritume, avitram significa nello stesso temporemo e barca, venas il confortevole in generale e in par-ticolare la bibita eccitante. I vocaboli sono quindi anti-chissimi; ma la speciale loro applicazione alla coltiva-zione delle terre (ager), alla macinazione del grano(granum, in tedesco horn), allo strumento che solca il

4 Al nord-ovest di Anah sulla riva destra dell'Eufrate cresceva-no insieme selvaticamente orzo, frumento e spelta (ALPH. DE

CANDOLLE, Géographie botanique raisonnée, II, p. 934). La stessacosa, cioè che nella Mesopotamia crescono naturalmente l'orzo edil frumento, disse già lo storiografo babilonese Berosos (pressoGIORGIO SYNKELLOS, p. 50, Bonn).

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ra. Nelle primitive condizioni delle società il trasporto el'acclimatazione delle piante riesce più difficile chequella degli animali; e la coltivazione del riso degli In-diani, quella del frumento e della spelta dei Greci e deiRomani, quella della segala e dell'avena dei Germani edei Celti potrebbe condurci ad una comune originariaagricoltura. La circostanza che la denominazione di uncereale sia comune ai Greci e agli Indiani, è tutt'al piùuna prova che prima della divisione delle schiatte si rac-coglievano e si mangiavano grani d'orzo e di spelta4,nella Mesopotamia spontaneamente cresciuti, ma nongià che vi si coltivasse il grano.

Benchè da tutto ciò non risulti nulla di positivo, non èperò inutile avvertire che molti vocaboli dei più impor-tanti, riferibili alla coltivazione, si riscontrano nel san-scrito, sebbene tutti con significato più generico: agrassignifica presso gl'indiani territorio fertile in generale,kürnu, il tritume, avitram significa nello stesso temporemo e barca, venas il confortevole in generale e in par-ticolare la bibita eccitante. I vocaboli sono quindi anti-chissimi; ma la speciale loro applicazione alla coltiva-zione delle terre (ager), alla macinazione del grano(granum, in tedesco horn), allo strumento che solca il

4 Al nord-ovest di Anah sulla riva destra dell'Eufrate cresceva-no insieme selvaticamente orzo, frumento e spelta (ALPH. DE

CANDOLLE, Géographie botanique raisonnée, II, p. 934). La stessacosa, cioè che nella Mesopotamia crescono naturalmente l'orzo edil frumento, disse già lo storiografo babilonese Berosos (pressoGIORGIO SYNKELLOS, p. 50, Bonn).

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terreno, come la nave solca la superficie delle acque(aratrum), al succo della vite (vinum), non era ancorasviluppata quando avvenne la più antica divisione dellerazze, e non deve quindi destare meraviglia se questeapplicazioni riuscirono in parte assai diverse, e così adesempio, tanto il grano destinato alla macinazione,come il mulino, derivano i loro nomi dal sanscrito hur-nu, e in lingua gotica quairnus, e in lituano girnós. Pos-siamo quindi ritenere per verosimile, che il popolo pri-mitivo indo-germanico non conoscesse ancora l'agricol-tura o almeno è certo, che, se ve n'era qualche notizia,essa nelle idee del popolo non passava oltre i primi rudi-menti; perchè se essa fosse stata già allora quello che fupiù tardi presso i Greci e presso i Romani, essa si sareb-be impressa nella lingua più profondamente di quelloche fece. Al contrario per la costruzione delle case edelle capanne degli Indo-germani i vocaboli dam (as) insanscrito, domus in latino, δόµος in greco; in sanscritovêças, in latino vicus, in greco οἶκος; in sanscrito dvaras,in latino fores, in greco ϑύρα; – per la costruzione deibattelli a remi i nomi della barca: sanscrito naus, grecoναῦς, latino navis, – e del remo – sanscrito aritram, gre-co ἐρετµός, latino remus, tri-remis; per l'uso dei carri eper l'addomesticamento degli animali sotto al giogo, insanscrito akshas (asse e carro), latino axis, greco ἄξων,ἄµαξα; in sanscrito jugam, latino jugum, greco ζυγόν. Ecosì in tutte le lingue indo-germaniche anche le domina-zioni delle vesti: sanscrito vastra, latino vestis, grecoἐσϑής.

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terreno, come la nave solca la superficie delle acque(aratrum), al succo della vite (vinum), non era ancorasviluppata quando avvenne la più antica divisione dellerazze, e non deve quindi destare meraviglia se questeapplicazioni riuscirono in parte assai diverse, e così adesempio, tanto il grano destinato alla macinazione,come il mulino, derivano i loro nomi dal sanscrito hur-nu, e in lingua gotica quairnus, e in lituano girnós. Pos-siamo quindi ritenere per verosimile, che il popolo pri-mitivo indo-germanico non conoscesse ancora l'agricol-tura o almeno è certo, che, se ve n'era qualche notizia,essa nelle idee del popolo non passava oltre i primi rudi-menti; perchè se essa fosse stata già allora quello che fupiù tardi presso i Greci e presso i Romani, essa si sareb-be impressa nella lingua più profondamente di quelloche fece. Al contrario per la costruzione delle case edelle capanne degli Indo-germani i vocaboli dam (as) insanscrito, domus in latino, δόµος in greco; in sanscritovêças, in latino vicus, in greco οἶκος; in sanscrito dvaras,in latino fores, in greco ϑύρα; – per la costruzione deibattelli a remi i nomi della barca: sanscrito naus, grecoναῦς, latino navis, – e del remo – sanscrito aritram, gre-co ἐρετµός, latino remus, tri-remis; per l'uso dei carri eper l'addomesticamento degli animali sotto al giogo, insanscrito akshas (asse e carro), latino axis, greco ἄξων,ἄµαξα; in sanscrito jugam, latino jugum, greco ζυγόν. Ecosì in tutte le lingue indo-germaniche anche le domina-zioni delle vesti: sanscrito vastra, latino vestis, grecoἐσϑής.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

Non si può dire lo stesso dell'arte più complicata deltessere5.

La notizia dell'uso del fuoco per la preparazione deicibi e del sale pel loro condimento, è per contro anti-chissima e avito retaggio delle nazioni indo-germaniche,e lo stesso dicasi della cognizione dei più antichi metal-li, di cui l'uomo si servì per istrumenti da lavoro e perornamento. Nel latino si riscontrano sovente i nomi delrame (aes e in tedesco kupfer) e dell'argento (argentume in tedesco silber), forse anche dell'oro; e non è presu-mibile che questi nomi siano comparsi prima che si fos-se imparato a separare i minerali e a servirsi de' metalli.Come la parola asis in sanscrito, in latino ensis indical'antichissimo uso di armi metalliche.

E così risalgono a questi tempi i concetti fondamenta-li, su cui in ultima analisi s'impernia lo sviluppo di tuttigli stati indo-germanici: la relazione del marito e dellamoglie tra loro, l'ordine delle famiglie, il sacerdozio del

5 Se il verbo latino vincio (legare), vimen (vimine) appartienealla medesima radice del tedesco weben (tessere) e vocaboli affi-ni, questo vocabolo quando si separarono i Greci e gli Italici deveancora aver avuto la comune significazione di intrecciare flech-ten, e questa deve essersi mutata in quella del tessere solo più tar-di, verosimilmente in diversi territori l'uno dall'altro indipendenti.Anche la coltivazione del lino, per quanto antica essa sia, non ri-monta sino a quell'epoca, perchè gl'Indiani conoscono bensì illino, ma se ne servono ancora oggi solo per la preparazionedell'olio di lino. Gli Italici conobbero la canapa ancora più tardidel lino, almeno la parola cannabis sembra esser stata tolta in pre-stito più tardi.

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Non si può dire lo stesso dell'arte più complicata deltessere5.

La notizia dell'uso del fuoco per la preparazione deicibi e del sale pel loro condimento, è per contro anti-chissima e avito retaggio delle nazioni indo-germaniche,e lo stesso dicasi della cognizione dei più antichi metal-li, di cui l'uomo si servì per istrumenti da lavoro e perornamento. Nel latino si riscontrano sovente i nomi delrame (aes e in tedesco kupfer) e dell'argento (argentume in tedesco silber), forse anche dell'oro; e non è presu-mibile che questi nomi siano comparsi prima che si fos-se imparato a separare i minerali e a servirsi de' metalli.Come la parola asis in sanscrito, in latino ensis indical'antichissimo uso di armi metalliche.

E così risalgono a questi tempi i concetti fondamenta-li, su cui in ultima analisi s'impernia lo sviluppo di tuttigli stati indo-germanici: la relazione del marito e dellamoglie tra loro, l'ordine delle famiglie, il sacerdozio del

5 Se il verbo latino vincio (legare), vimen (vimine) appartienealla medesima radice del tedesco weben (tessere) e vocaboli affi-ni, questo vocabolo quando si separarono i Greci e gli Italici deveancora aver avuto la comune significazione di intrecciare flech-ten, e questa deve essersi mutata in quella del tessere solo più tar-di, verosimilmente in diversi territori l'uno dall'altro indipendenti.Anche la coltivazione del lino, per quanto antica essa sia, non ri-monta sino a quell'epoca, perchè gl'Indiani conoscono bensì illino, ma se ne servono ancora oggi solo per la preparazionedell'olio di lino. Gli Italici conobbero la canapa ancora più tardidel lino, almeno la parola cannabis sembra esser stata tolta in pre-stito più tardi.

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padre di famiglia, l'assenza di uno speciale stato jerati-co, e in generale di ogni separazione di casta, la schiavi-tù come instituzione legale. Per contro l'ordinamentopositivo della repubblica, la distinzione tra la signoriaregia e la comunale, fra gli ereditari privilegi dalleschiatte dei re e dei nobili, e l'assoluta uguaglianza de'cittadini, tutto ciò appartiene dappertutto ad un'epocaposteriore.

Gli stessi elementi della religione e della scienza ac-cennano a tracce di un'originaria comunione. I numerisono gli stessi fino a cento (sanscrito çatam, ékaçatam,in latino centum, in greco ἑκατόν, in gotico hund); intutte le lingue dicesi della luna che essa serve a misurareil tempo (mensis). Come l'idea stessa della divinità (san-scrito dêvas, latino deus, greco ϑεός), così appartengonoal patrimonio comune di questi popoli parecchie dellepiù antiche immagini religiose e immagini della natura.Il concetto del cielo come padre, della terra come madredegli enti, le solenni escursioni degli dei, che nei propricarri, su vie diligentemente tracciate, si recano dall'unoall'altro luogo, la sopravvivenza dell'anima sotto formadi ombra dopo la morte, sono pensieri fondamentalicontenuti nella mitologia indiana non meno che nellagreca e nella romana. Persino alcune individualità divi-ne del Gange concordano anche nei nomi con quelleadorate sull'Ilisso e sul Tevere – così l'Urano dei Greci èil Varunas, e il Zeus, padre Giove, Diespiter, il Djâuspitâ dei Veda.

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padre di famiglia, l'assenza di uno speciale stato jerati-co, e in generale di ogni separazione di casta, la schiavi-tù come instituzione legale. Per contro l'ordinamentopositivo della repubblica, la distinzione tra la signoriaregia e la comunale, fra gli ereditari privilegi dalleschiatte dei re e dei nobili, e l'assoluta uguaglianza de'cittadini, tutto ciò appartiene dappertutto ad un'epocaposteriore.

Gli stessi elementi della religione e della scienza ac-cennano a tracce di un'originaria comunione. I numerisono gli stessi fino a cento (sanscrito çatam, ékaçatam,in latino centum, in greco ἑκατόν, in gotico hund); intutte le lingue dicesi della luna che essa serve a misurareil tempo (mensis). Come l'idea stessa della divinità (san-scrito dêvas, latino deus, greco ϑεός), così appartengonoal patrimonio comune di questi popoli parecchie dellepiù antiche immagini religiose e immagini della natura.Il concetto del cielo come padre, della terra come madredegli enti, le solenni escursioni degli dei, che nei propricarri, su vie diligentemente tracciate, si recano dall'unoall'altro luogo, la sopravvivenza dell'anima sotto formadi ombra dopo la morte, sono pensieri fondamentalicontenuti nella mitologia indiana non meno che nellagreca e nella romana. Persino alcune individualità divi-ne del Gange concordano anche nei nomi con quelleadorate sull'Ilisso e sul Tevere – così l'Urano dei Greci èil Varunas, e il Zeus, padre Giove, Diespiter, il Djâuspitâ dei Veda.

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Colle più recenti investigazioni su parecchie enigma-tiche forme della mitologia ellenica cadde una luce ina-spettata sulla mitologia indiana. Le vetuste figure dellemisteriose Erinni non sono già d'invenzione greca, maportateci dai più antichi coloni venuti dall'oriente. Il di-vino veltro Saramâ, che custodisce al re del cielo lagreggia dorata delle stelle e dei raggi solari, aduna levacche celesti, le nutrienti nubi, per essere munte, e ac-compagna fedelmente anche i buoni estinti nel mondodei beati, è divenuto per Greci il figlio della Saramâ,Saramêyas o Hermeias e la favola enigmatica ellenicadel ratto dei buoi di Elios, connessa indubbiamente collafavola romana di Caco, si presenta ora come un'ultimaincompresa eco di quella antica e significativa fantasiacosmica.

6 Cultura greco italica. Se il compito di stabilire ilgrado di coltura, che gli Indo-germanici raggiunsero pri-ma della divisione delle razze, appartiene piuttosto allastoria generale del vecchio mondo, è però compito spe-ciale della storia italica lo stabilire per quanto sia possi-bile, in quale situazione si trovasse il ramo greco-italicoallorquando Elleni ed Italici si separarono gli uni daglialtri. Non è questo un lavoro ozioso, perchè se ne stabi-lisce il punto iniziale della civiltà italica e della storianazionale.

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Colle più recenti investigazioni su parecchie enigma-tiche forme della mitologia ellenica cadde una luce ina-spettata sulla mitologia indiana. Le vetuste figure dellemisteriose Erinni non sono già d'invenzione greca, maportateci dai più antichi coloni venuti dall'oriente. Il di-vino veltro Saramâ, che custodisce al re del cielo lagreggia dorata delle stelle e dei raggi solari, aduna levacche celesti, le nutrienti nubi, per essere munte, e ac-compagna fedelmente anche i buoni estinti nel mondodei beati, è divenuto per Greci il figlio della Saramâ,Saramêyas o Hermeias e la favola enigmatica ellenicadel ratto dei buoi di Elios, connessa indubbiamente collafavola romana di Caco, si presenta ora come un'ultimaincompresa eco di quella antica e significativa fantasiacosmica.

6 Cultura greco italica. Se il compito di stabilire ilgrado di coltura, che gli Indo-germanici raggiunsero pri-ma della divisione delle razze, appartiene piuttosto allastoria generale del vecchio mondo, è però compito spe-ciale della storia italica lo stabilire per quanto sia possi-bile, in quale situazione si trovasse il ramo greco-italicoallorquando Elleni ed Italici si separarono gli uni daglialtri. Non è questo un lavoro ozioso, perchè se ne stabi-lisce il punto iniziale della civiltà italica e della storianazionale.

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7 Agricoltura. Tutti gli indizi accennano che, men-tre nella originaria comunione indo-germanica le tribùconducevano verosimilmente una vita pastorale e cono-scevano forse soltanto lo stelo selvatico del grano, nellacomunione della famiglia greco-italica già si conoscevala coltivazione de' cereali e forse anche della vite. Aprovare l'antica unità dei due popoli (greco e italico)non varrebbe però la somiglianza dell'agricoltura, che intesi generale non basta a giustificare siffatta conclusioneetnologica. Si potrà difficilmente porre in dubbio la sto-rica connessione dell'agricoltura indo-germanica conquella delle schiatte cinese, aramea e egizia; nondimenoqueste schiatte sono o straniere agli Indo-germani, o fu-rono da essi distaccate in un tempo, in cui certo non sicoltivava ancora la terra.

Le razze quanto più avanzate in civiltà, tanto più fa-cilmente cambiavano nelle età antiche, come cambianoai tempi nostri, gli strumenti rurali e i metodi di coltura:e se gli annali della Cina fanno risalire i principiidell'agricoltura cinese al regno di un certo dato re ed inun dato anno, in cui s'introdussero cinque specie di gra-no, questa narrazione indica per lo meno in generale lecondizioni della più antica epoca della cultura.

Il trovare comuni presso popoli diversi le praticheagrarie, l'alfabeto, l'uso dei carri da guerra, la porpora ele altre suppellettili ed ornamenti, ci può fare piuttostoargomentare antichi rapporti di commercio, che origina-ria unità di schiatta.

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7 Agricoltura. Tutti gli indizi accennano che, men-tre nella originaria comunione indo-germanica le tribùconducevano verosimilmente una vita pastorale e cono-scevano forse soltanto lo stelo selvatico del grano, nellacomunione della famiglia greco-italica già si conoscevala coltivazione de' cereali e forse anche della vite. Aprovare l'antica unità dei due popoli (greco e italico)non varrebbe però la somiglianza dell'agricoltura, che intesi generale non basta a giustificare siffatta conclusioneetnologica. Si potrà difficilmente porre in dubbio la sto-rica connessione dell'agricoltura indo-germanica conquella delle schiatte cinese, aramea e egizia; nondimenoqueste schiatte sono o straniere agli Indo-germani, o fu-rono da essi distaccate in un tempo, in cui certo non sicoltivava ancora la terra.

Le razze quanto più avanzate in civiltà, tanto più fa-cilmente cambiavano nelle età antiche, come cambianoai tempi nostri, gli strumenti rurali e i metodi di coltura:e se gli annali della Cina fanno risalire i principiidell'agricoltura cinese al regno di un certo dato re ed inun dato anno, in cui s'introdussero cinque specie di gra-no, questa narrazione indica per lo meno in generale lecondizioni della più antica epoca della cultura.

Il trovare comuni presso popoli diversi le praticheagrarie, l'alfabeto, l'uso dei carri da guerra, la porpora ele altre suppellettili ed ornamenti, ci può fare piuttostoargomentare antichi rapporti di commercio, che origina-ria unità di schiatta.

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Ma quanto ai Greci ed agli Italici, date le relazioni re-lativamente abbastanza note di queste due nazioni traloro, è affatto inammissibile l'opinione, che l'agricoltura,le monete ed i caratteri siano stati introdotti in Italia sol-tanto dagli Elleni. Ma d'altra parte la comunanza di tuttii più antichi termini relativi all'agricoltura prova l'intimaconnessione delle due civiltà: ager, ἀγρός; aro, aratrum,ἀρόω, ἄροτρον; ligo, presso λακαίνω; hortus, χόρτος; hor-deum, χριϑή: milium, µελίνη: rapa, ῥαφανίς: malva,µαλάχη: vinum, οἴνος. E così pure la stretta relazione tral'agricoltura greca e la latina si riscontra nella formadell'aratro, che appare ugualmente raffigurato nei monu-menti attici antichi e nei romani; nella scelta dei più an-tichi cereali – miglio, orzo, spelta; nel modo di mieterecolla roncola, nell'uso di far calpestare i covoni dal be-stiame sul battuto dell'aia per trebbiare le spighe; final-mente nel modo di preparare il grano: puls πόλτος, pinsoπτίσσω, mola µύλη, poichè la coltura è di origine più re-cente, e di fatti nel rituale romano si fa sempre menzio-ne della pasta o della farinata e mai del pane.

Che anche la coltura della vite in Italia rimonti oltrela più antica immigrazione greca lo prova la denomina-zione di «paese del vino» (Оἰνωτρία), che sembra risaliresino ai primi Greci che approdarono in Italia. Il passag-gio dalla vita pastorale all'agricola, o per meglio dire lafusione dell'agricoltura colla più antica economia pasto-rizia, deve quindi essersi verificata dopo che gli Indianisi separarono dal grembo materno delle nazioni, ma pri-ma che gli Elleni e gli Italici rinunziassero alla loro anti-

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Ma quanto ai Greci ed agli Italici, date le relazioni re-lativamente abbastanza note di queste due nazioni traloro, è affatto inammissibile l'opinione, che l'agricoltura,le monete ed i caratteri siano stati introdotti in Italia sol-tanto dagli Elleni. Ma d'altra parte la comunanza di tuttii più antichi termini relativi all'agricoltura prova l'intimaconnessione delle due civiltà: ager, ἀγρός; aro, aratrum,ἀρόω, ἄροτρον; ligo, presso λακαίνω; hortus, χόρτος; hor-deum, χριϑή: milium, µελίνη: rapa, ῥαφανίς: malva,µαλάχη: vinum, οἴνος. E così pure la stretta relazione tral'agricoltura greca e la latina si riscontra nella formadell'aratro, che appare ugualmente raffigurato nei monu-menti attici antichi e nei romani; nella scelta dei più an-tichi cereali – miglio, orzo, spelta; nel modo di mieterecolla roncola, nell'uso di far calpestare i covoni dal be-stiame sul battuto dell'aia per trebbiare le spighe; final-mente nel modo di preparare il grano: puls πόλτος, pinsoπτίσσω, mola µύλη, poichè la coltura è di origine più re-cente, e di fatti nel rituale romano si fa sempre menzio-ne della pasta o della farinata e mai del pane.

Che anche la coltura della vite in Italia rimonti oltrela più antica immigrazione greca lo prova la denomina-zione di «paese del vino» (Оἰνωτρία), che sembra risaliresino ai primi Greci che approdarono in Italia. Il passag-gio dalla vita pastorale all'agricola, o per meglio dire lafusione dell'agricoltura colla più antica economia pasto-rizia, deve quindi essersi verificata dopo che gli Indianisi separarono dal grembo materno delle nazioni, ma pri-ma che gli Elleni e gli Italici rinunziassero alla loro anti-

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ca comunione. Del resto pare che, quando cominciò lacoltivazione delle terre, gli Elleni e gli Italici non fosse-ro uniti fra di loro soltanto, ma formassero tutto un po-polo con gli altri membri della grande famiglia, tanto èvero che i più importanti vocaboli di coltura sono estra-nei ai membri asiatici delle famiglie dei popoli indo-ger-manici, ma sono comuni ai Romani ed ai Greci collerazze tedesche, slave, lituane e persino colle celtiche6.

La separazione del comune patrimonio originario daciò che ciascuna nazione si è in seguito acquistata inproprio, è ben lungi dall'essere compiuta e condotta atermine in tutta la varietà delle sue fasi e graduazioni.L'investigazione delle lingue sotto questo rapporto è ap-pena incominciata, ed anche la storiografia trae semprela materia delle sue narrazioni intorno agli antichi tempiassai più volentieri dalla sorda pietra della tradizione in-

6 Così si trova aro, aratrum nell'antico tedesco aran (nel dia-letto eren), erida, slavo orati, oradlo; lituano arti arimnas; celticoar aradar. Così sta accanto a ligo, il tedesco rechen (rastrello),accanto a hortus il tedesco Garten (giardino), accanto a mola iltedesco Mühle (mulino), slavo mlyn, lituano malunas, celtico ma-lin. Di fronte a questi fatti non si potrà credere che vi sia stato untempo, in cui i Greci vivessero di pastorizia in tutti i cantoni elle-nici. Si riterrà solo che non può essere esistita ancora in nessunluogo prima della divisione delle schiatte una vera economia ru-rale, e che i diversi cantoni della Grecia e dell'Italia, secondo lasituazione, combinavano coll'agricoltura la pastorizia, e che alcu-ni cantoni greci vivevano anche esclusivamente dei prodotti delloro gregge. Perciò nell'Ellade come nell'Italia il punto di parten-za e il centro di tutte le proprietà private non è il possedimento dicereali o di terreno, bensì quello del bestiame.

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ca comunione. Del resto pare che, quando cominciò lacoltivazione delle terre, gli Elleni e gli Italici non fosse-ro uniti fra di loro soltanto, ma formassero tutto un po-polo con gli altri membri della grande famiglia, tanto èvero che i più importanti vocaboli di coltura sono estra-nei ai membri asiatici delle famiglie dei popoli indo-ger-manici, ma sono comuni ai Romani ed ai Greci collerazze tedesche, slave, lituane e persino colle celtiche6.

La separazione del comune patrimonio originario daciò che ciascuna nazione si è in seguito acquistata inproprio, è ben lungi dall'essere compiuta e condotta atermine in tutta la varietà delle sue fasi e graduazioni.L'investigazione delle lingue sotto questo rapporto è ap-pena incominciata, ed anche la storiografia trae semprela materia delle sue narrazioni intorno agli antichi tempiassai più volentieri dalla sorda pietra della tradizione in-

6 Così si trova aro, aratrum nell'antico tedesco aran (nel dia-letto eren), erida, slavo orati, oradlo; lituano arti arimnas; celticoar aradar. Così sta accanto a ligo, il tedesco rechen (rastrello),accanto a hortus il tedesco Garten (giardino), accanto a mola iltedesco Mühle (mulino), slavo mlyn, lituano malunas, celtico ma-lin. Di fronte a questi fatti non si potrà credere che vi sia stato untempo, in cui i Greci vivessero di pastorizia in tutti i cantoni elle-nici. Si riterrà solo che non può essere esistita ancora in nessunluogo prima della divisione delle schiatte una vera economia ru-rale, e che i diversi cantoni della Grecia e dell'Italia, secondo lasituazione, combinavano coll'agricoltura la pastorizia, e che alcu-ni cantoni greci vivevano anche esclusivamente dei prodotti delloro gregge. Perciò nell'Ellade come nell'Italia il punto di parten-za e il centro di tutte le proprietà private non è il possedimento dicereali o di terreno, bensì quello del bestiame.

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vece che dalla ricca miniera delle lingue. Per ora con-viene quindi accontentarsi d'indicare la differenza chepassa tra la cultura della famiglia indo-germanica nellasua più antica comunanza e la cultura di quell'epoca incui i Greco-italici convivevano ancora inseparati. Senzaulteriori ricerche filologiche e materiali non si potrannosceverare, se pur mai sarà possibile di giungere a tanto, irisultati della coltura conseguiti in comune dalla fami-glia indo-germanica in Europa, e a cui rimasero estraneigli Indo-germani dell'Asia, dai risultati a cui pervenneroisolati gruppi degli Indo-germani europei, come la fami-glia greco-italica, e la tedescoslava, ciascuna nel suosviluppo particolare.

Non vi ha dubbio però che l'agricoltura non sia dive-nuta per la nazione greco-italica, come divenne per tuttele altre, il germe e il perno della vita sociale e della vitaprivata, e che come tale sia rimasta nella coscienza delpopolo.

La casa e lo stabile focolare, che l'agricoltura si pre-para invece della leggera capanna e dell'instabile fuocodel pastore, sono rappresentati nella sfera spirituale eidealizzati nella dea Vesta ('Εστία), quasi la sola, che nonessendo indo-germanica, è nondimeno originariamentecomune ad ambedue le nazioni.

Una delle più antiche favole italiche attribuisce al reItalo, oppure Vitalo o Vitulo, come devono averlo pro-nunziato gli Italici, il trapasso del popolo dalla vita pa-storale all'agricola e vi connette giudiziosamente l'origi-naria legislazione italica. Questa non è se non un'altra

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vece che dalla ricca miniera delle lingue. Per ora con-viene quindi accontentarsi d'indicare la differenza chepassa tra la cultura della famiglia indo-germanica nellasua più antica comunanza e la cultura di quell'epoca incui i Greco-italici convivevano ancora inseparati. Senzaulteriori ricerche filologiche e materiali non si potrannosceverare, se pur mai sarà possibile di giungere a tanto, irisultati della coltura conseguiti in comune dalla fami-glia indo-germanica in Europa, e a cui rimasero estraneigli Indo-germani dell'Asia, dai risultati a cui pervenneroisolati gruppi degli Indo-germani europei, come la fami-glia greco-italica, e la tedescoslava, ciascuna nel suosviluppo particolare.

Non vi ha dubbio però che l'agricoltura non sia dive-nuta per la nazione greco-italica, come divenne per tuttele altre, il germe e il perno della vita sociale e della vitaprivata, e che come tale sia rimasta nella coscienza delpopolo.

La casa e lo stabile focolare, che l'agricoltura si pre-para invece della leggera capanna e dell'instabile fuocodel pastore, sono rappresentati nella sfera spirituale eidealizzati nella dea Vesta ('Εστία), quasi la sola, che nonessendo indo-germanica, è nondimeno originariamentecomune ad ambedue le nazioni.

Una delle più antiche favole italiche attribuisce al reItalo, oppure Vitalo o Vitulo, come devono averlo pro-nunziato gli Italici, il trapasso del popolo dalla vita pa-storale all'agricola e vi connette giudiziosamente l'origi-naria legislazione italica. Questa non è se non un'altra

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variante dello stesso concetto della favola sannitica, cheindica il toro aratore come il condottiero delle primitivecolonie, e la più antica nomenclatura latina, che chiamail popolo coi nomi di mietitori (Siculi o Sicani) o agri-coltori (Opsci). Si deve attribuire all'elemento antitradi-zionale che si è introdotto nella cosidetta leggenda sulleorigini romane, se vediamo in essa sorgere un popolo dipastori e di cacciatori, che fonda città: la tradizione e lafede, le leggi e i costumi si collegano presso gli Italicicome presso gli Elleni generalmente all'agricoltura7.

Come l'agricoltura così anche il sistema della divisio-ne e della limitazione del suolo è ordinato in egualmodo presso entrambi i popoli, poichè la coltivazionedel terreno non è possibile immaginarla senza una misu-razione, per quanto rozza, di esso.

Il Vorsus osco ed umbro, da cento piedi quadrati, cor-risponde perfettamente al pletro greco. Il principio dellelimitazioni è il medesimo. L'agrimensore si orienta con

7 Non v'è cosa che provi maggiormente questo assunto quantola stretta relazione, con cui la più antica epoca civile collegal'agricoltura col matrimonio e colla fondazione di città. Così inItalia le divinità che hanno la più gran parte nei matrimoni sonoCerere o Tellus, Cerer et Tellus (forse lo stesso nome: PLUTARCO,Romul., 22; SERVIO, all'Aen, 4, 166; ROSSBACH Matrim. rom., p.257-301); in Grecia i Demetri (PLUTARCO, Coniug. praec., Introd.);e così in altre formole greche la stessa procreazione di figli sichiama messe e la più antica forma matrimoniale romana, la con-farreazione, deriva il suo nome e il suo rituale dalla coltivazionedei cereali. È poi notorio l'uso dell'aratro nella fondazione dellacittà di Roma.

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variante dello stesso concetto della favola sannitica, cheindica il toro aratore come il condottiero delle primitivecolonie, e la più antica nomenclatura latina, che chiamail popolo coi nomi di mietitori (Siculi o Sicani) o agri-coltori (Opsci). Si deve attribuire all'elemento antitradi-zionale che si è introdotto nella cosidetta leggenda sulleorigini romane, se vediamo in essa sorgere un popolo dipastori e di cacciatori, che fonda città: la tradizione e lafede, le leggi e i costumi si collegano presso gli Italicicome presso gli Elleni generalmente all'agricoltura7.

Come l'agricoltura così anche il sistema della divisio-ne e della limitazione del suolo è ordinato in egualmodo presso entrambi i popoli, poichè la coltivazionedel terreno non è possibile immaginarla senza una misu-razione, per quanto rozza, di esso.

Il Vorsus osco ed umbro, da cento piedi quadrati, cor-risponde perfettamente al pletro greco. Il principio dellelimitazioni è il medesimo. L'agrimensore si orienta con

7 Non v'è cosa che provi maggiormente questo assunto quantola stretta relazione, con cui la più antica epoca civile collegal'agricoltura col matrimonio e colla fondazione di città. Così inItalia le divinità che hanno la più gran parte nei matrimoni sonoCerere o Tellus, Cerer et Tellus (forse lo stesso nome: PLUTARCO,Romul., 22; SERVIO, all'Aen, 4, 166; ROSSBACH Matrim. rom., p.257-301); in Grecia i Demetri (PLUTARCO, Coniug. praec., Introd.);e così in altre formole greche la stessa procreazione di figli sichiama messe e la più antica forma matrimoniale romana, la con-farreazione, deriva il suo nome e il suo rituale dalla coltivazionedei cereali. È poi notorio l'uso dell'aratro nella fondazione dellacittà di Roma.

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uno dei punti cardinali e tira quindi dapprima due lineedal nord al sud e dall'est all'ovest, nella cui intersecazio-ne (templum, τέµευος da τέµνω) egli si colloca: poi acerte distanze fissa delle linee parallele alle linee princi-pali d'intersecazione, e così ottiene una serie di campirettangolari, i cui angoli sono segnati da pali confinari(termini, nelle iscrizioni siciliane τέρµονες, comunemen-te ὄροι). Questo modo di fissare i confini, che è ancheetrusco, ma che non possiamo credere d'origine etrusca,lo riscontriamo non solo presso i Romani, gli Umbri, iSanniti, ma anche in antichissimi documenti degli Era-cleoti tarantini; ed è tanto poco verosimile che questil'abbiano preso dagli Italici, quanto gli Italici dai Taran-tini; e però devesi ritenere come un antico patrimoniocomune alle due razze. Esclusivamente e caratteristica-mente romano è l'ostinato perfezionamento del principiodella quadratura secondo il quale là, dove un fiume o ilmare facevano confine naturale, non se ne teneva conto,ma lo si includeva col suolo diviso in proprietà entro unpiano quadrato.

E la stretta affinità dei Greci cogli Italici si rivela in-contestabile non solo nell'agricoltura, ma negli altri ramidell'umana operosità. La casa greca, come la descriveOmero, è poco diversa da quella che si è conservata co-stantemente in Italia: la parte principale e in origine an-che l'intero spazio abitabile della casa latina è l'atrio,cioè la stanza oscura coll'altare domestico, il letto matri-moniale, il desco e il focolare; e null'altro è il Megaron

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uno dei punti cardinali e tira quindi dapprima due lineedal nord al sud e dall'est all'ovest, nella cui intersecazio-ne (templum, τέµευος da τέµνω) egli si colloca: poi acerte distanze fissa delle linee parallele alle linee princi-pali d'intersecazione, e così ottiene una serie di campirettangolari, i cui angoli sono segnati da pali confinari(termini, nelle iscrizioni siciliane τέρµονες, comunemen-te ὄροι). Questo modo di fissare i confini, che è ancheetrusco, ma che non possiamo credere d'origine etrusca,lo riscontriamo non solo presso i Romani, gli Umbri, iSanniti, ma anche in antichissimi documenti degli Era-cleoti tarantini; ed è tanto poco verosimile che questil'abbiano preso dagli Italici, quanto gli Italici dai Taran-tini; e però devesi ritenere come un antico patrimoniocomune alle due razze. Esclusivamente e caratteristica-mente romano è l'ostinato perfezionamento del principiodella quadratura secondo il quale là, dove un fiume o ilmare facevano confine naturale, non se ne teneva conto,ma lo si includeva col suolo diviso in proprietà entro unpiano quadrato.

E la stretta affinità dei Greci cogli Italici si rivela in-contestabile non solo nell'agricoltura, ma negli altri ramidell'umana operosità. La casa greca, come la descriveOmero, è poco diversa da quella che si è conservata co-stantemente in Italia: la parte principale e in origine an-che l'intero spazio abitabile della casa latina è l'atrio,cioè la stanza oscura coll'altare domestico, il letto matri-moniale, il desco e il focolare; e null'altro è il Megaron

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d'Omero col suo altare domestico, col suo focolare e colfuligginoso suo soffitto.

Ma non si può dire altrettanto della costruzione nava-le. Il battello a remi è un antico patrimonio comune de-gli Indo-germani; il progresso delle navi a vela non puòcon qualche fondamento attribuirsi ai tempi greco-itali-ci, non riscontrandosi nessun termine tecnico marittimoche non sia comune agli idiomi Indo-germanici e possadirsi speciale ai Greci ed agli Italici.

In contraccambio Aristotele paragona l'antichissimocostume italico delle mense comuni dei contadini, la cuiorigine daterebbe secondo la mitologia dall'introduzionedell'agricoltura, colle Sissizie cretesi: e anche in ciò si ri-scontra il costume dei più antichi romani con quello deiCretesi e Laconi, che prendevano i cibi sedendo e nonsdraiati, come si usò più tardi presso entrambi. E se atutti i popoli è comune l'accensione del fuoco mediantelo sfregamento di due pezzi di legno diversi, non a casotra i Greci e gli Italici soltanto, si riscontra identica ladefinizione del legno sfregatore (τρύπανον, terebra) edella tavoletta accenditrice (στόρευς, tabula, certo datendere τετάµαι).

Così è pure identico il vestito d'entrambi i popoli: latunica corrisponde perfettamente al chiton e la toga altronon è che un più largo himation; e persino nelle armi,così soggette a cambiamenti, si riscontra per lo menocomune il nome delle due armi principali per l'assalto: ilgiavellotto e l'arco che nei Romani si esprimeva chiara-mente nella definizione più antica dei militi – pilumni

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d'Omero col suo altare domestico, col suo focolare e colfuligginoso suo soffitto.

Ma non si può dire altrettanto della costruzione nava-le. Il battello a remi è un antico patrimonio comune de-gli Indo-germani; il progresso delle navi a vela non puòcon qualche fondamento attribuirsi ai tempi greco-itali-ci, non riscontrandosi nessun termine tecnico marittimoche non sia comune agli idiomi Indo-germanici e possadirsi speciale ai Greci ed agli Italici.

In contraccambio Aristotele paragona l'antichissimocostume italico delle mense comuni dei contadini, la cuiorigine daterebbe secondo la mitologia dall'introduzionedell'agricoltura, colle Sissizie cretesi: e anche in ciò si ri-scontra il costume dei più antichi romani con quello deiCretesi e Laconi, che prendevano i cibi sedendo e nonsdraiati, come si usò più tardi presso entrambi. E se atutti i popoli è comune l'accensione del fuoco mediantelo sfregamento di due pezzi di legno diversi, non a casotra i Greci e gli Italici soltanto, si riscontra identica ladefinizione del legno sfregatore (τρύπανον, terebra) edella tavoletta accenditrice (στόρευς, tabula, certo datendere τετάµαι).

Così è pure identico il vestito d'entrambi i popoli: latunica corrisponde perfettamente al chiton e la toga altronon è che un più largo himation; e persino nelle armi,così soggette a cambiamenti, si riscontra per lo menocomune il nome delle due armi principali per l'assalto: ilgiavellotto e l'arco che nei Romani si esprimeva chiara-mente nella definizione più antica dei militi – pilumni

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arquites – nome non certo appropriato al modo di com-battere a corpo a corpo.

Così pure presso i Greci e gli Italici e nella lingua enei costumi, tutto ciò che riguarda le basi materialidell'umana esistenza risale agli stessi elementi; i più an-tichi problemi, che la terra propone agli uomini, eranogià stati risolti in comune dai due popoli, quando essiformavano ancora una stessa nazione.

8 Antitesi interna tra Greci e Italici. Diversa in-vece è la cosa nel campo spirituale. Il grande compitodell'uomo, di vivere in armonia con se stesso, coi suoisimili e coll'universo, dà luogo a tante soluzioni quantesono le provincie nel regno del Padre nostro; è su questocampo e non su quello materiale dove i caratteri degliindividui e dei popoli si differenziano.

Nell'epoca greco-italica, allorchè i popoli si divisero,non devono essere mancati incitamenti a mettere in ri-lievo questo contrasto e la profonda differenza spiritualei cui effetti continuano ancor oggi. La famiglia e lo sta-to, la religione e l'arte si sono svolti in Italia e in Greciain modo così distinto e nazionale, che il comune fonda-mento, sul quale i due popoli si basavano, venne sopraf-fatto, e scomparve nell'un paese e nell'altro quasi intera-mente ai nostri sguardi quell'ordinamento ellenico, chesacrificava il tutto all'individuo, la nazione al comune, ilcomune al cittadino ed il cui ideale d'esistenza era labella e buona vita e troppo spesso i dolci ozi; il cui svi-luppo politico consisteva nello sprofondarsi sempre più

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arquites – nome non certo appropriato al modo di com-battere a corpo a corpo.

Così pure presso i Greci e gli Italici e nella lingua enei costumi, tutto ciò che riguarda le basi materialidell'umana esistenza risale agli stessi elementi; i più an-tichi problemi, che la terra propone agli uomini, eranogià stati risolti in comune dai due popoli, quando essiformavano ancora una stessa nazione.

8 Antitesi interna tra Greci e Italici. Diversa in-vece è la cosa nel campo spirituale. Il grande compitodell'uomo, di vivere in armonia con se stesso, coi suoisimili e coll'universo, dà luogo a tante soluzioni quantesono le provincie nel regno del Padre nostro; è su questocampo e non su quello materiale dove i caratteri degliindividui e dei popoli si differenziano.

Nell'epoca greco-italica, allorchè i popoli si divisero,non devono essere mancati incitamenti a mettere in ri-lievo questo contrasto e la profonda differenza spiritualei cui effetti continuano ancor oggi. La famiglia e lo sta-to, la religione e l'arte si sono svolti in Italia e in Greciain modo così distinto e nazionale, che il comune fonda-mento, sul quale i due popoli si basavano, venne sopraf-fatto, e scomparve nell'un paese e nell'altro quasi intera-mente ai nostri sguardi quell'ordinamento ellenico, chesacrificava il tutto all'individuo, la nazione al comune, ilcomune al cittadino ed il cui ideale d'esistenza era labella e buona vita e troppo spesso i dolci ozi; il cui svi-luppo politico consisteva nello sprofondarsi sempre più

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nel particolarismo e nello spirito locale, e più tardi per-sino nel dissolvimento del potere comunale; la cui intui-zione religiosa assomigliò dapprima gli dei agli uomini,poi li rinnegò; quell'organismo ellenico che poneva ognicura nel dare elasticità alle membra dei giovinetti eserci-tandoli in giuochi a corpo ignudo e nel lasciar liberissi-mo campo al pensiero in tutto il suo splendore e in tuttele sue paurose deviazioni; e, di riscontro, quell'ordina-mento romano, che legava il figlio alla temuta autorità –patria potestà, – i cittadini a quella del magistrato, gliuni e gli altri a quella degli dei; che nulla esigeva e nullarispettava se non l'azione utile; che costringeva ogni cit-tadino a riempire ogni momento della sua breve vita conindefesso lavoro e imponeva già ai fanciulli le pudichevestimenta; l'ordinamento romano, in cui chiunque vo-lesse essere qualche cosa per sè era condannato comecattivo cittadino; e per cui lo stato era tutto e l'ingrandi-mento dello stato l'unico elevato pensiero concessoall'intelligenza. Ora chi potrà sperare di ricondurre colladivinazione queste profonde antitesi all'unità originaria,la quale le abbracciava entrambe, le preparava e le gene-rava? Sarebbe stolta presunzione il voler sollevare que-sto velo; solo dietro pochi indizi si può tentare di abboz-zare i primordi della nazionalità italica e la loro connes-sione con un'epoca più remota, ma non già per prestarparole alle intuizioni del benigno lettore, ma solo perdare ai suoi pensieri una direzione.

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nel particolarismo e nello spirito locale, e più tardi per-sino nel dissolvimento del potere comunale; la cui intui-zione religiosa assomigliò dapprima gli dei agli uomini,poi li rinnegò; quell'organismo ellenico che poneva ognicura nel dare elasticità alle membra dei giovinetti eserci-tandoli in giuochi a corpo ignudo e nel lasciar liberissi-mo campo al pensiero in tutto il suo splendore e in tuttele sue paurose deviazioni; e, di riscontro, quell'ordina-mento romano, che legava il figlio alla temuta autorità –patria potestà, – i cittadini a quella del magistrato, gliuni e gli altri a quella degli dei; che nulla esigeva e nullarispettava se non l'azione utile; che costringeva ogni cit-tadino a riempire ogni momento della sua breve vita conindefesso lavoro e imponeva già ai fanciulli le pudichevestimenta; l'ordinamento romano, in cui chiunque vo-lesse essere qualche cosa per sè era condannato comecattivo cittadino; e per cui lo stato era tutto e l'ingrandi-mento dello stato l'unico elevato pensiero concessoall'intelligenza. Ora chi potrà sperare di ricondurre colladivinazione queste profonde antitesi all'unità originaria,la quale le abbracciava entrambe, le preparava e le gene-rava? Sarebbe stolta presunzione il voler sollevare que-sto velo; solo dietro pochi indizi si può tentare di abboz-zare i primordi della nazionalità italica e la loro connes-sione con un'epoca più remota, ma non già per prestarparole alle intuizioni del benigno lettore, ma solo perdare ai suoi pensieri una direzione.

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9 La famiglia e lo stato. Tutto quello che si puòchiamare l'elemento patriarcale dello stato si appoggiatanto in Grecia quanto in Italia sulle stesse fondamenta.

Prima di ogni altra cosa è necessario parlare dellamorale e rispettabile forma della vita sociale8, che impo-ne all'uomo la monogamia, che punisce severamentel'adulterio della donna, ma nell'alta posizione della ma-dre nella vita domestica riconosce la parità dei due sessie la santità dei connubi. La dura prevalenza della potestàmaritale e più ancora della patria potestà senza alcun ri-guardo personale è affatto estranea ai Greci e tutta pro-pria degli Italici. La subordinazione morale prese formae sostanza d'una legale servitù, soltanto in Italia. Nellostesso modo il principio che metteva il servo fuori leg-ge, principio che sta a base della schiavitù, fu dai Roma-ni mantenuto con un'inesorabile severità e applicato intutte le sue conseguenze; mentre presso i Greci si intro-dussero di buon'ora effettive mitigazioni di diritto, comequella di riconoscere il matrimonio degli schiavi per unfatto legale. Nella famiglia riposa la schiatta, cioè la co-munanza dei discendenti dello stesso progenitore; epresso i Greci come presso gli Italici lo stato esce dallarazza. Ma se nel più rilassato sviluppo politico dellaGrecia il consorzio delle razze si mantenne sotto formadi potenti corporazioni di fronte allo stato anche molto

8 Questa concordanza si manifesta persino nei singoli casi,come nell'indicazione del «legittimo matrimonio concluso peraver figli legittimi» (γάµος ἐπὶ παίδων ἀρότρῳ – matrimonium li-berorum quaerendorum causa).

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9 La famiglia e lo stato. Tutto quello che si puòchiamare l'elemento patriarcale dello stato si appoggiatanto in Grecia quanto in Italia sulle stesse fondamenta.

Prima di ogni altra cosa è necessario parlare dellamorale e rispettabile forma della vita sociale8, che impo-ne all'uomo la monogamia, che punisce severamentel'adulterio della donna, ma nell'alta posizione della ma-dre nella vita domestica riconosce la parità dei due sessie la santità dei connubi. La dura prevalenza della potestàmaritale e più ancora della patria potestà senza alcun ri-guardo personale è affatto estranea ai Greci e tutta pro-pria degli Italici. La subordinazione morale prese formae sostanza d'una legale servitù, soltanto in Italia. Nellostesso modo il principio che metteva il servo fuori leg-ge, principio che sta a base della schiavitù, fu dai Roma-ni mantenuto con un'inesorabile severità e applicato intutte le sue conseguenze; mentre presso i Greci si intro-dussero di buon'ora effettive mitigazioni di diritto, comequella di riconoscere il matrimonio degli schiavi per unfatto legale. Nella famiglia riposa la schiatta, cioè la co-munanza dei discendenti dello stesso progenitore; epresso i Greci come presso gli Italici lo stato esce dallarazza. Ma se nel più rilassato sviluppo politico dellaGrecia il consorzio delle razze si mantenne sotto formadi potenti corporazioni di fronte allo stato anche molto

8 Questa concordanza si manifesta persino nei singoli casi,come nell'indicazione del «legittimo matrimonio concluso peraver figli legittimi» (γάµος ἐπὶ παίδων ἀρότρῳ – matrimonium li-berorum quaerendorum causa).

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innanzi ne' tempi storici, lo stato italico ci appare subitocompiuto in quanto che le schiatte in suo confronto sonoaffatto neutralizzate ed esso rappresenta non già la co-munanza delle schiatte, ma la comunanza dei cittadini.Al contrario nella Grecia l'individuo pervenne nei suoirapporti colla schiatta molto prima e più compiutamenteall'interna libertà ed al proprio svolgimento che non inRoma: la quale differenza si vede con grande chiarezzanello sviluppo affatto diverso dei nomi propri certo ori-ginariamente omogenei nei due popoli. Negli antichinomi greci si incontra frequentissimo il nome dellaschiatta in forma d'aggettivo unito al nome dell'indivi-duo, mentre invece i dotti romani si ricordavano ancorache i loro antichi non usavano originariamente se nonun sol nome proprio, che divenne più tardi il prenome.Ma mentre nella Grecia sparisce presto il nome aggetti-vo della schiatta, esso diventa presso tutti gli Italici, enon solo presso i Romani, nome principale; cosicchè ilvero nome dell'individuo, il prenome, si subordina aquello. E lo scarso numero dei nomi individuali italici eparticolarmente romani, che va sempre più restringen-dosi, e la mancanza di significato di essi, nei confrontidella ricca e poetica pienezza dei nomi propri greci,sembra mostrarci, quasi in uno specchio, come in Italiala nazione mirasse all'eguaglianza e in Grecia al liberosvolgimento della personalità. Una comunanza di vita,in consorzi di famiglie governate da patriarchi, come lasi può immaginare per il periodo greco-italico, non po-teva certo continuare più tardi presso gli Italici e gli El-

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innanzi ne' tempi storici, lo stato italico ci appare subitocompiuto in quanto che le schiatte in suo confronto sonoaffatto neutralizzate ed esso rappresenta non già la co-munanza delle schiatte, ma la comunanza dei cittadini.Al contrario nella Grecia l'individuo pervenne nei suoirapporti colla schiatta molto prima e più compiutamenteall'interna libertà ed al proprio svolgimento che non inRoma: la quale differenza si vede con grande chiarezzanello sviluppo affatto diverso dei nomi propri certo ori-ginariamente omogenei nei due popoli. Negli antichinomi greci si incontra frequentissimo il nome dellaschiatta in forma d'aggettivo unito al nome dell'indivi-duo, mentre invece i dotti romani si ricordavano ancorache i loro antichi non usavano originariamente se nonun sol nome proprio, che divenne più tardi il prenome.Ma mentre nella Grecia sparisce presto il nome aggetti-vo della schiatta, esso diventa presso tutti gli Italici, enon solo presso i Romani, nome principale; cosicchè ilvero nome dell'individuo, il prenome, si subordina aquello. E lo scarso numero dei nomi individuali italici eparticolarmente romani, che va sempre più restringen-dosi, e la mancanza di significato di essi, nei confrontidella ricca e poetica pienezza dei nomi propri greci,sembra mostrarci, quasi in uno specchio, come in Italiala nazione mirasse all'eguaglianza e in Grecia al liberosvolgimento della personalità. Una comunanza di vita,in consorzi di famiglie governate da patriarchi, come lasi può immaginare per il periodo greco-italico, non po-teva certo continuare più tardi presso gli Italici e gli El-

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leni cresciuti a civiltà; ma essa doveva però già contene-re gli elementi del diritto. «Le leggi del Re Italo», cheavevano ancora forza ai tempi di Aristotele, valgono aprovare le essenziali istituzioni comuni alle due nazioni.Esse devono aver contenuto norme di pace e di diritto,quelle relative alla milizia e al diritto di dichiarar laguerra, alla potestà dei padri di famiglia, al consesso de-gli anziani, e alle adunate dei liberi atti alle armi. Il giu-dizio (crimen, κρινείυ), la pena (poena, ποινή), il taglione(talio, ταλάω τλῆναι), sono concetti greco-italici. La se-vera legge sui debiti, secondo la quale il debitore garan-tisce prima di tutto col suo corpo la restituzione del rice-vuto, è comune agli Italici e ad esempio agli Eracleotitarentini. I principî fondamentali della costituzione ro-mana, cioè a dire la potestà regale, il senato e l'assem-blea popolare, autorizzata solo a sanzionare o a rigettarele proposte fatte dal re e dal senato, non si trovano innessun documento più chiaramente espresse che nellarelazione d'Aristotele sull'antica costituzione di Creta. Ead ambedue le nazioni sono pure comuni i principî deiconsorzi di stato e persino delle unioni di varie stirpi in-dipendenti (Simmachia, Synoikismos). Questa comunan-za nelle idee fondamentali della civiltà ellenica e italicamerita tanto maggiore importanza in quanto non siestende anche alle altre razze indo-germaniche; come,ad esempio, l'organizzazione comunale tedesca non de-riva dal regno elettivo, a differenza di quella dei Greci edegli Italici. Ma di quanto si differenziassero le civiltàd'Italia e di Grecia, benchè venute dall'istesso ceppo, e

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leni cresciuti a civiltà; ma essa doveva però già contene-re gli elementi del diritto. «Le leggi del Re Italo», cheavevano ancora forza ai tempi di Aristotele, valgono aprovare le essenziali istituzioni comuni alle due nazioni.Esse devono aver contenuto norme di pace e di diritto,quelle relative alla milizia e al diritto di dichiarar laguerra, alla potestà dei padri di famiglia, al consesso de-gli anziani, e alle adunate dei liberi atti alle armi. Il giu-dizio (crimen, κρινείυ), la pena (poena, ποινή), il taglione(talio, ταλάω τλῆναι), sono concetti greco-italici. La se-vera legge sui debiti, secondo la quale il debitore garan-tisce prima di tutto col suo corpo la restituzione del rice-vuto, è comune agli Italici e ad esempio agli Eracleotitarentini. I principî fondamentali della costituzione ro-mana, cioè a dire la potestà regale, il senato e l'assem-blea popolare, autorizzata solo a sanzionare o a rigettarele proposte fatte dal re e dal senato, non si trovano innessun documento più chiaramente espresse che nellarelazione d'Aristotele sull'antica costituzione di Creta. Ead ambedue le nazioni sono pure comuni i principî deiconsorzi di stato e persino delle unioni di varie stirpi in-dipendenti (Simmachia, Synoikismos). Questa comunan-za nelle idee fondamentali della civiltà ellenica e italicamerita tanto maggiore importanza in quanto non siestende anche alle altre razze indo-germaniche; come,ad esempio, l'organizzazione comunale tedesca non de-riva dal regno elettivo, a differenza di quella dei Greci edegli Italici. Ma di quanto si differenziassero le civiltàd'Italia e di Grecia, benchè venute dall'istesso ceppo, e

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come il successivo svolgimento politico dell'una edell'altra assumesse un carattere proprio e speciale adognuna9, lo dimostrerà l'ulteriore sviluppo di questa nar-razione.

10 La religione. Nè la cosa andò altrimenti per lareligione. Anche in questo campo in Italia comenell'Ellade il fondamento della credenza popolare sibasa su di un comune e primitivo patrimonio di istitu-zioni simboliche e allegoriche della natura; analogia delmondo divino e spirituale che nei successivi stadi delsuo svolgimento doveva poi acquistare tanta importan-za. E così non è solo per caso che i culti dei due popoliconcordano in molte immagini particolari, come nellegià menzionate figure del Zeus-Diovis e dell'Hestia-Vesta, nel concetto dello spazio sacro (τέµενος, tem-plum), in parecchie cerimonie e sagrificii. Ma ciò nonpertanto nell'Ellade come in Italia il culto prese forme

9 Ma non si deve naturalmente dimenticare che situazioniuguali conducono dappertutto ad eguali istituzioni, salva semprela parte che anche in ciò vuole il caso. Nulla di più certo che iplebei romani non sorsero se non nella romana repubblica; e ciònon pertanto troviamo classi analoghe alla plebea di Roma inogni stato, dove accanto a una cittadinanza politica viene a for-marsi un consorzio d'abitanti con diritto di possesso. Non menosorprendente è la concordanza delle trenta fratrie spartane colle30 curie romane; ma appunto di queste si sa con certezza, se inqueste cose si può parlare di certezza, che originariamente inRoma non esistevano se non 10 curie e che il triplicato numero diesse dipende da cause puramente occasionali.

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come il successivo svolgimento politico dell'una edell'altra assumesse un carattere proprio e speciale adognuna9, lo dimostrerà l'ulteriore sviluppo di questa nar-razione.

10 La religione. Nè la cosa andò altrimenti per lareligione. Anche in questo campo in Italia comenell'Ellade il fondamento della credenza popolare sibasa su di un comune e primitivo patrimonio di istitu-zioni simboliche e allegoriche della natura; analogia delmondo divino e spirituale che nei successivi stadi delsuo svolgimento doveva poi acquistare tanta importan-za. E così non è solo per caso che i culti dei due popoliconcordano in molte immagini particolari, come nellegià menzionate figure del Zeus-Diovis e dell'Hestia-Vesta, nel concetto dello spazio sacro (τέµενος, tem-plum), in parecchie cerimonie e sagrificii. Ma ciò nonpertanto nell'Ellade come in Italia il culto prese forme

9 Ma non si deve naturalmente dimenticare che situazioniuguali conducono dappertutto ad eguali istituzioni, salva semprela parte che anche in ciò vuole il caso. Nulla di più certo che iplebei romani non sorsero se non nella romana repubblica; e ciònon pertanto troviamo classi analoghe alla plebea di Roma inogni stato, dove accanto a una cittadinanza politica viene a for-marsi un consorzio d'abitanti con diritto di possesso. Non menosorprendente è la concordanza delle trenta fratrie spartane colle30 curie romane; ma appunto di queste si sa con certezza, se inqueste cose si può parlare di certezza, che originariamente inRoma non esistevano se non 10 curie e che il triplicato numero diesse dipende da cause puramente occasionali.

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così spiccatamente nazionali e proprie, che persino quelpoco che fu conservato dell'antico patrimonio riescequasi irriconoscibile, e anche questo poco non fu intesoo male inteso.

Nè poteva essere diversamente, poichè come perquella legge stessa, per la quale si divisero tra le due na-zioni le grandi antitesi, che nel periodo greco-italicoerano state strettamente congiunte, così si divisero nelcampo religioso l'idea e l'immagine, che fino a queltempo avevano formato un tutto spirituale. Quegli anti-chi pastori greco-italici nel vedere le nubi cacciate qua elà all'orizzonte, potevano spiegare il fenomeno colla ca-gna degli dei che adunasse le spaventate vacche delgregge celeste; ma il greco dimenticò che le vacche era-no propriamente le nubi e, del figlio della cagna deglidei, immaginato per un solo scopo, fece il messaggerodegli dei pronto e idoneo a tutti i servigi. Quando il tuo-no rumoreggiava sui monti, i Greci vedevano Giovebrandire la sua clava sull'Olimpo; quando il cielo dinuovo si rasserenava, essi fissavano i loro sguardi neibrillanti occhi di Atena, figlia di Giove, e le immagini,da essi create, finirono per vivere così potentemente nelloro spirito che ben presto non videro in esse se non es-seri umani radianti dallo splendore della natura, e li mo-dellarono liberamente secondo i precetti della bellezza.

Diversa, ma non più debole, si manifestava l'intimareligiosità della stirpe italiana, la quale teneva fermal'idea e non permetteva che la forma la offuscasse.

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così spiccatamente nazionali e proprie, che persino quelpoco che fu conservato dell'antico patrimonio riescequasi irriconoscibile, e anche questo poco non fu intesoo male inteso.

Nè poteva essere diversamente, poichè come perquella legge stessa, per la quale si divisero tra le due na-zioni le grandi antitesi, che nel periodo greco-italicoerano state strettamente congiunte, così si divisero nelcampo religioso l'idea e l'immagine, che fino a queltempo avevano formato un tutto spirituale. Quegli anti-chi pastori greco-italici nel vedere le nubi cacciate qua elà all'orizzonte, potevano spiegare il fenomeno colla ca-gna degli dei che adunasse le spaventate vacche delgregge celeste; ma il greco dimenticò che le vacche era-no propriamente le nubi e, del figlio della cagna deglidei, immaginato per un solo scopo, fece il messaggerodegli dei pronto e idoneo a tutti i servigi. Quando il tuo-no rumoreggiava sui monti, i Greci vedevano Giovebrandire la sua clava sull'Olimpo; quando il cielo dinuovo si rasserenava, essi fissavano i loro sguardi neibrillanti occhi di Atena, figlia di Giove, e le immagini,da essi create, finirono per vivere così potentemente nelloro spirito che ben presto non videro in esse se non es-seri umani radianti dallo splendore della natura, e li mo-dellarono liberamente secondo i precetti della bellezza.

Diversa, ma non più debole, si manifestava l'intimareligiosità della stirpe italiana, la quale teneva fermal'idea e non permetteva che la forma la offuscasse.

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Il Greco, sacrificando, alza gli occhi al cielo, il Ro-mano si copre il capo perchè la preghiera pel primo ècontemplazione, per il secondo è pensiero. Il Romanoadora nell'intera natura lo spirituale e l'universale; adogni essere, all'uomo come all'albero, allo stato come almagazzino, è concesso uno spirito che con essi nasce econ essi sparisce, la copia dell'oggetto fisico nella sferaspirituale; all'uomo il genio virile, alla donna la femmi-nile Giunone, al confine il Termine, alla serva Silvano,all'anno volgentesi Vertumno e così via via a ciascunacosa secondo la sua natura.

In egual modo viene spiritualizzato nelle azioni cia-scun momento dell'attività; così per esempio nella pre-ghiera dell'agricoltore viene invocato lo spirito dellamesse, dell'arare, del solcare, del seminare, del coprire,dell'erpicare e così via via sino a quello di portare i co-voni nel granaio, d'ammucchiarverli e di ventilare il gra-no. Nello stesso modo viene dotato di vita sacra il matri-monio, la nascita ed ogni altro fisico avvenimento. Equanto più grandi sono i circoli dell'astrazione, a tantomaggior altezza s'innalza il dio, tanto più cresce la vene-razione negli uomini. Così sono Giove e Giunone leastrazioni della virilità e della femminilità, la dea Dia oCerere la forza creatrice, Minerva la forza rammemora-trice, la dea Bona, o dea Cupra dei Sanniti, la buona di-vinità. Mentre ai Greci tutto appariva concreto e corpo-reo, il Romano non poteva servirsi che di formule astrat-te, compiutamente trasparenti; e se il Greco scartò per lamassima parte l'antico tesoro di favole dei tempi primiti-

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Il Greco, sacrificando, alza gli occhi al cielo, il Ro-mano si copre il capo perchè la preghiera pel primo ècontemplazione, per il secondo è pensiero. Il Romanoadora nell'intera natura lo spirituale e l'universale; adogni essere, all'uomo come all'albero, allo stato come almagazzino, è concesso uno spirito che con essi nasce econ essi sparisce, la copia dell'oggetto fisico nella sferaspirituale; all'uomo il genio virile, alla donna la femmi-nile Giunone, al confine il Termine, alla serva Silvano,all'anno volgentesi Vertumno e così via via a ciascunacosa secondo la sua natura.

In egual modo viene spiritualizzato nelle azioni cia-scun momento dell'attività; così per esempio nella pre-ghiera dell'agricoltore viene invocato lo spirito dellamesse, dell'arare, del solcare, del seminare, del coprire,dell'erpicare e così via via sino a quello di portare i co-voni nel granaio, d'ammucchiarverli e di ventilare il gra-no. Nello stesso modo viene dotato di vita sacra il matri-monio, la nascita ed ogni altro fisico avvenimento. Equanto più grandi sono i circoli dell'astrazione, a tantomaggior altezza s'innalza il dio, tanto più cresce la vene-razione negli uomini. Così sono Giove e Giunone leastrazioni della virilità e della femminilità, la dea Dia oCerere la forza creatrice, Minerva la forza rammemora-trice, la dea Bona, o dea Cupra dei Sanniti, la buona di-vinità. Mentre ai Greci tutto appariva concreto e corpo-reo, il Romano non poteva servirsi che di formule astrat-te, compiutamente trasparenti; e se il Greco scartò per lamassima parte l'antico tesoro di favole dei tempi primiti-

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vi perchè l'involucro plastico di esse lasciava ancora ap-parire troppo trasparentemente l'idea, il Romano lo pote-va ancor meno conservare perchè a lui sembrava che isacri pensieri potessero offuscarsi anche col più leggerovelame allegorico. Presso i Romani non si trova nem-meno una traccia dei miti più antichi e più universali,come per esempio della narrazione, nota agli Indiani, aiGreci e persino ai Semiti, del padre comune del presentegenere umano, salvatosi dopo un grande diluvio. I lorodei non potevano congiungersi in matrimonio, nè pro-creare figli come gli ellenici; essi non passeggiavano in-visibili tra i mortali e non abbisognavano del nettare.Che però essi nella loro incorporeità, che sembra trivialesolo alla gretta intelligenza, tenessero potentemente av-vinti gli animi, e forse più potentemente che non lo fa-cessero gli iddii dell'Ellade creati ad immaginedell'uomo, lo proverebbe, quand'anche la storia tacesse,la denominazione romana della fede Religio, cioè lega-me, parola non ellenica nè per suono nè per concetto. Aquel modo che l'India e l'Iran trassero dal fondo comunedello stesso tesoro avito, l'una la pienezza delle formedelle sue sante epopee, l'altro le astrazioni dello Zenda-vesta, così anche nella mitologia greca si svolse la per-sonificazione, nella romana l'idea, nell'una la libertà,nell'altra la necessità.

11 L'arte. E finalmente ciò che si disse dell'aspettopiù serio della vita, vale anche per la imitazione di essanelle celie e nei giuochi, i quali dappertutto, e più parti-

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vi perchè l'involucro plastico di esse lasciava ancora ap-parire troppo trasparentemente l'idea, il Romano lo pote-va ancor meno conservare perchè a lui sembrava che isacri pensieri potessero offuscarsi anche col più leggerovelame allegorico. Presso i Romani non si trova nem-meno una traccia dei miti più antichi e più universali,come per esempio della narrazione, nota agli Indiani, aiGreci e persino ai Semiti, del padre comune del presentegenere umano, salvatosi dopo un grande diluvio. I lorodei non potevano congiungersi in matrimonio, nè pro-creare figli come gli ellenici; essi non passeggiavano in-visibili tra i mortali e non abbisognavano del nettare.Che però essi nella loro incorporeità, che sembra trivialesolo alla gretta intelligenza, tenessero potentemente av-vinti gli animi, e forse più potentemente che non lo fa-cessero gli iddii dell'Ellade creati ad immaginedell'uomo, lo proverebbe, quand'anche la storia tacesse,la denominazione romana della fede Religio, cioè lega-me, parola non ellenica nè per suono nè per concetto. Aquel modo che l'India e l'Iran trassero dal fondo comunedello stesso tesoro avito, l'una la pienezza delle formedelle sue sante epopee, l'altro le astrazioni dello Zenda-vesta, così anche nella mitologia greca si svolse la per-sonificazione, nella romana l'idea, nell'una la libertà,nell'altra la necessità.

11 L'arte. E finalmente ciò che si disse dell'aspettopiù serio della vita, vale anche per la imitazione di essanelle celie e nei giuochi, i quali dappertutto, e più parti-

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colarmente nella più antica età dell'esistenza piena esemplice, non escludono la serietà, ma solo la velano. Ipiù semplici elementi dell'arte sono assolutamente glistessi nel Lazio come nell'Ellade: la decente danza pirri-ca; il salto (triumphus, ϑρίαµβος διϑύραµβος) la masche-rata della gente, satolla (σάτυροι, satura) che avvolta inpelli di pecore e di montone chiude la festa colle sue ce-lie; finalmente lo strumento del flauto, che domina e ac-compagna con adatte melodie la danza solenne e la gio-iosa. Forse in nessun'altra cosa meglio che in questa ap-pare più chiaramente l'affinità degli Elleni e degli Italici;e ciò non di meno lo sviluppo delle due nazioni in nes-sun'altra cosa fu tanto divergente. Nel Lazio la colturadella gioventù rimase imprigionata negli angusti limitidell'educazione domestica. Nella Grecia l'aspirazione aduna coltura molteplice e nel tempo stesso armonica del-lo spirito e del corpo umano creò le scienze della ginna-stica e della pedia (istruzione dei fanciulli), coltivatedalla nazione in generale e dagli individui in particolaree considerate come il lor miglior patrimonio. Tanta è lapovertà delle arti latine, che il Lazio si trova per questorispetto quasi pareggiato ai popoli senza coltura; mentreinvece nell'Ellade con incredibile celerità uscì dalle im-magini religiose il mito e il culto figurativo, e da essiquel miracoloso mondo della poesia e della scultura, dicui in tutta la storia non si trova degno riscontro. NelLazio non dominano nella vita pubblica e privata altrepotenze che la prudenza, la ricchezza e la forza; era ri-serbato agli Elleni il godimento della letificante prepo-

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colarmente nella più antica età dell'esistenza piena esemplice, non escludono la serietà, ma solo la velano. Ipiù semplici elementi dell'arte sono assolutamente glistessi nel Lazio come nell'Ellade: la decente danza pirri-ca; il salto (triumphus, ϑρίαµβος διϑύραµβος) la masche-rata della gente, satolla (σάτυροι, satura) che avvolta inpelli di pecore e di montone chiude la festa colle sue ce-lie; finalmente lo strumento del flauto, che domina e ac-compagna con adatte melodie la danza solenne e la gio-iosa. Forse in nessun'altra cosa meglio che in questa ap-pare più chiaramente l'affinità degli Elleni e degli Italici;e ciò non di meno lo sviluppo delle due nazioni in nes-sun'altra cosa fu tanto divergente. Nel Lazio la colturadella gioventù rimase imprigionata negli angusti limitidell'educazione domestica. Nella Grecia l'aspirazione aduna coltura molteplice e nel tempo stesso armonica del-lo spirito e del corpo umano creò le scienze della ginna-stica e della pedia (istruzione dei fanciulli), coltivatedalla nazione in generale e dagli individui in particolaree considerate come il lor miglior patrimonio. Tanta è lapovertà delle arti latine, che il Lazio si trova per questorispetto quasi pareggiato ai popoli senza coltura; mentreinvece nell'Ellade con incredibile celerità uscì dalle im-magini religiose il mito e il culto figurativo, e da essiquel miracoloso mondo della poesia e della scultura, dicui in tutta la storia non si trova degno riscontro. NelLazio non dominano nella vita pubblica e privata altrepotenze che la prudenza, la ricchezza e la forza; era ri-serbato agli Elleni il godimento della letificante prepo-

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tenza della bellezza, di servire con entusiasmo misto disensualità e d'idealità al bel fanciullo Amore e di ritro-vare nelle canzoni di guerra del divino cantore lo smar-rito coraggio. Così le due nazioni, per le quali l'antichitàha raggiunto il suo apogeo, stanno l'una accanto all'altraad un tempo simili e diverse.

La preminenza degli Elleni sugli Italici, è quella diuna più universale comprensione e di un più chiaro e co-municabile splendore; ma il profondo sentimentodell'universale nel particolare, la devozione e la sponta-neità del sacrifizio individuale, la ferma fede nei propridei, costituiscono il ricco tesoro della nazione italica.

I due popoli si sono sviluppati separatamente, e non-dimeno entrambi in modo compiuto e solo un'angusta epovera mente potrà rimproverare ai Greci di non aversaputo come i Fabj e i Valerj, organizzare il loro comu-ne, o ai Romani di non aver imparato a scolpire comeFidia e a poetare come Aristofane. Quello appunto, cheil popolo greco aveva di meglio e di più particolare, eraciò che gli rendeva impossibile di progredire dalla unitànazionale alla unità politica senza mutare nello stessotempo la repubblica in tirannia, la politeia in despoteia.Il mondo ideale della bellezza per gli Elleni era tutto e liindennizzava sino a un certo punto di quello che nellarealtà loro mancava; dovunque nell'Ellade si manifestauna tendenza all'unità nazionale, essa non si fonda sugliimmediati elementi politici, ma sulla poesia, sull'arte: igiuochi olimpici soltanto, solo i canti d'Omero, solo letragedie d'Euripide tenevano insieme l'Ellade. Invece

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tenza della bellezza, di servire con entusiasmo misto disensualità e d'idealità al bel fanciullo Amore e di ritro-vare nelle canzoni di guerra del divino cantore lo smar-rito coraggio. Così le due nazioni, per le quali l'antichitàha raggiunto il suo apogeo, stanno l'una accanto all'altraad un tempo simili e diverse.

La preminenza degli Elleni sugli Italici, è quella diuna più universale comprensione e di un più chiaro e co-municabile splendore; ma il profondo sentimentodell'universale nel particolare, la devozione e la sponta-neità del sacrifizio individuale, la ferma fede nei propridei, costituiscono il ricco tesoro della nazione italica.

I due popoli si sono sviluppati separatamente, e non-dimeno entrambi in modo compiuto e solo un'angusta epovera mente potrà rimproverare ai Greci di non aversaputo come i Fabj e i Valerj, organizzare il loro comu-ne, o ai Romani di non aver imparato a scolpire comeFidia e a poetare come Aristofane. Quello appunto, cheil popolo greco aveva di meglio e di più particolare, eraciò che gli rendeva impossibile di progredire dalla unitànazionale alla unità politica senza mutare nello stessotempo la repubblica in tirannia, la politeia in despoteia.Il mondo ideale della bellezza per gli Elleni era tutto e liindennizzava sino a un certo punto di quello che nellarealtà loro mancava; dovunque nell'Ellade si manifestauna tendenza all'unità nazionale, essa non si fonda sugliimmediati elementi politici, ma sulla poesia, sull'arte: igiuochi olimpici soltanto, solo i canti d'Omero, solo letragedie d'Euripide tenevano insieme l'Ellade. Invece

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l'Italico rinunciava determinatamente al proprio liberoarbitrio per amore della pubblica libertà, imparando adubbidire al padre per sapere ubbidire allo Stato. Ne do-vesse anche, per simile soggezione, soffrir l'individuo, eintristire il miglior germe umano, l'uomo ne acquistavauna patria e un sentimento patriottico quale il Greco nonha mai conosciuto, e solo fra tutti i popoli civilidell'antichità egli conquistava, con una costituzione ap-poggiata sull'assolutismo, l'unità nazionale, che alla finegli valse il dominio sulla disgregata schiatta ellenica esul mondo intero.

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l'Italico rinunciava determinatamente al proprio liberoarbitrio per amore della pubblica libertà, imparando adubbidire al padre per sapere ubbidire allo Stato. Ne do-vesse anche, per simile soggezione, soffrir l'individuo, eintristire il miglior germe umano, l'uomo ne acquistavauna patria e un sentimento patriottico quale il Greco nonha mai conosciuto, e solo fra tutti i popoli civilidell'antichità egli conquistava, con una costituzione ap-poggiata sull'assolutismo, l'unità nazionale, che alla finegli valse il dominio sulla disgregata schiatta ellenica esul mondo intero.

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TERZO CAPITOLOLE COLONIE DEI LATINI

1 Migrazione indo-germanica. La patria dellaschiatta indo-germanica è la regione occidentaledell'Asia mediana, donde si diffuse da una parte verso ilsud-est nell'India, dall'altra verso il nord-ovest in Euro-pa. Non è possibile determinare con maggiore precisio-ne la sede primitiva del popolo indo-germanico. Adogni modo questa sede deve essere stata in località in-terna e lungi dal mare, giacchè nessuna denominazionemarittima troviamo comune ai due rami asiatico ed eu-ropeo. Parecchie traccie indicano più chiaramente i pae-si dell'Eufrate, così che il primo punto di partenza delledue più importanti schiatte civili, l'indo-germanica el'aramea, coincide materialmente; ciò che confermal'ipotesi di una antichissima comunanza dei due popoli,benchè ci manchi ogni altro indizio di affinità filologi-che e civili. È anche impossibile designare con qualcheparticolarità i luoghi percorsi dalle singole schiatte, e diseguire ciascuna di esse nelle loro ulteriori migrazioni.Pare che il ramo europeo, dopo la separazione dagli In-diani, siasi fermato lungo tempo in Persia e in Armenia,poichè secondo tutti gli indizi, qui fu la culla dell'agri-coltura e della vite. Nella Mesopotamia sono indigenil'orzo, la spelta ed il frumento, e la vite lo è al sud delCaucaso e del mar Caspio; e qui prosperano pure spon-

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TERZO CAPITOLOLE COLONIE DEI LATINI

1 Migrazione indo-germanica. La patria dellaschiatta indo-germanica è la regione occidentaledell'Asia mediana, donde si diffuse da una parte verso ilsud-est nell'India, dall'altra verso il nord-ovest in Euro-pa. Non è possibile determinare con maggiore precisio-ne la sede primitiva del popolo indo-germanico. Adogni modo questa sede deve essere stata in località in-terna e lungi dal mare, giacchè nessuna denominazionemarittima troviamo comune ai due rami asiatico ed eu-ropeo. Parecchie traccie indicano più chiaramente i pae-si dell'Eufrate, così che il primo punto di partenza delledue più importanti schiatte civili, l'indo-germanica el'aramea, coincide materialmente; ciò che confermal'ipotesi di una antichissima comunanza dei due popoli,benchè ci manchi ogni altro indizio di affinità filologi-che e civili. È anche impossibile designare con qualcheparticolarità i luoghi percorsi dalle singole schiatte, e diseguire ciascuna di esse nelle loro ulteriori migrazioni.Pare che il ramo europeo, dopo la separazione dagli In-diani, siasi fermato lungo tempo in Persia e in Armenia,poichè secondo tutti gli indizi, qui fu la culla dell'agri-coltura e della vite. Nella Mesopotamia sono indigenil'orzo, la spelta ed il frumento, e la vite lo è al sud delCaucaso e del mar Caspio; e qui prosperano pure spon-

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tanei il prugno, il noce ed altri alberi fruttiferi facili atrasportarsi. È pure degno di considerazione il fatto cheil nome del mare è comune alla maggior parte delle raz-ze europee, ai Latini, ai Celti, ai Tedeschi e agli Slavi.Queste devono quindi aver toccata la spiaggia del MarNero o forse del Caspio prima della loro divisione.

Quando si potrà decidere, se gli Elleni siano arrivatiin Grecia, o dall'Asia Minore traversando l'Egeo, o ca-lando giù per la valle del Danubio, si potrà forse risolve-re anche il problema del cammino che tennero gli Italiciper giungere alla catena delle Alpi, e del luogo, ove essidimorarono, quando coabitavano soltanto cogli Elleni.

In ogni modo par si possa stabilire con certezza chegli Italici come gli Indiani sono immigrati nella loro pe-nisola dal nord. Non è difficile tener dietro al camminodella razza umbro-sabellica sulla dorsale dell'Appenninonella direzione da settentrione a mezzodì, poichè le ulti-me fasi di questa calata appartengono già ai tempi stori-ci. Più difficile invece è tracciare la via che seguì la mi-grazione latina, essendo verosimile che essa sia venutanella medesima direzione lungo il litorale di ponente,molto prima delle tribù sabelliche. Il torrente invade lealture solo quando il piano è già inondato, ed è perciònaturale che i Sabelli, giunti dopo, trovata la pianura oc-cupata, si accontentassero delle regioni più alpestri, e daqueste poi, appena lo poterono, si spinsero fra i popolilatini.

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tanei il prugno, il noce ed altri alberi fruttiferi facili atrasportarsi. È pure degno di considerazione il fatto cheil nome del mare è comune alla maggior parte delle raz-ze europee, ai Latini, ai Celti, ai Tedeschi e agli Slavi.Queste devono quindi aver toccata la spiaggia del MarNero o forse del Caspio prima della loro divisione.

Quando si potrà decidere, se gli Elleni siano arrivatiin Grecia, o dall'Asia Minore traversando l'Egeo, o ca-lando giù per la valle del Danubio, si potrà forse risolve-re anche il problema del cammino che tennero gli Italiciper giungere alla catena delle Alpi, e del luogo, ove essidimorarono, quando coabitavano soltanto cogli Elleni.

In ogni modo par si possa stabilire con certezza chegli Italici come gli Indiani sono immigrati nella loro pe-nisola dal nord. Non è difficile tener dietro al camminodella razza umbro-sabellica sulla dorsale dell'Appenninonella direzione da settentrione a mezzodì, poichè le ulti-me fasi di questa calata appartengono già ai tempi stori-ci. Più difficile invece è tracciare la via che seguì la mi-grazione latina, essendo verosimile che essa sia venutanella medesima direzione lungo il litorale di ponente,molto prima delle tribù sabelliche. Il torrente invade lealture solo quando il piano è già inondato, ed è perciònaturale che i Sabelli, giunti dopo, trovata la pianura oc-cupata, si accontentassero delle regioni più alpestri, e daqueste poi, appena lo poterono, si spinsero fra i popolilatini.

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2 Estensione dei Latini in Italia. È universalmen-te noto che una popolazione latina dimorava sulla sini-stra del Tevere sino alle montagne dei Volsci; su questemontagne poi – rimaste, a quel che pare, neglette e de-serte nei tempi della prima immigrazione, allorquandopotevansi ancora occupare le pianure del Lazio e dellaCampania – aveva, come è provato dalle inscrizioni vol-sche, preso in seguito dimora una gente più affine ai Sa-belli che ai Latini. La Campania invece prima che vigiungessero i Greci e i Sanniti era abitata verosimilmen-te da Latini, poichè i nomi italici Novla o Nola (cittànuova), Campani, Capua, Volturnus (dal volvere comeJuturna da juvare), Opsci (operai) sono provatamentepiù antichi dell'invasione sannitica e dimostrano chequando i Greci fondarono Cuma, un ramo italico e pro-babilmente latino, gli Ausoni, teneva la Campania. Gliindigeni dei paesi poscia occupati dai Lucani e dai Bru-zi, i veri Itali (abitanti del paese dei buoi), sono essipure considerati dai più autorevoli scrittori, non giàcome un ramo della stirpe japigica, ma come Italici, enon v'ha argomento che ci sconsigli dal considerarlicome una diramazione latina, malgrado che in seguito,prima dell'inizio del grande sviluppo italico, l'invasioneellenica e principalmente quella sannitica, ne abbianointeramente cancellate le tracce della loro nazionalità.Antichissime leggende pongono in relazione con Romaanche la estinta razza de' Siculi; e il più antico storicoitalico, Antioco da Siracusa, racconta esser capitatodall'Italia (cioè dalla penisola Bruzia) presso il re Mor-

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2 Estensione dei Latini in Italia. È universalmen-te noto che una popolazione latina dimorava sulla sini-stra del Tevere sino alle montagne dei Volsci; su questemontagne poi – rimaste, a quel che pare, neglette e de-serte nei tempi della prima immigrazione, allorquandopotevansi ancora occupare le pianure del Lazio e dellaCampania – aveva, come è provato dalle inscrizioni vol-sche, preso in seguito dimora una gente più affine ai Sa-belli che ai Latini. La Campania invece prima che vigiungessero i Greci e i Sanniti era abitata verosimilmen-te da Latini, poichè i nomi italici Novla o Nola (cittànuova), Campani, Capua, Volturnus (dal volvere comeJuturna da juvare), Opsci (operai) sono provatamentepiù antichi dell'invasione sannitica e dimostrano chequando i Greci fondarono Cuma, un ramo italico e pro-babilmente latino, gli Ausoni, teneva la Campania. Gliindigeni dei paesi poscia occupati dai Lucani e dai Bru-zi, i veri Itali (abitanti del paese dei buoi), sono essipure considerati dai più autorevoli scrittori, non giàcome un ramo della stirpe japigica, ma come Italici, enon v'ha argomento che ci sconsigli dal considerarlicome una diramazione latina, malgrado che in seguito,prima dell'inizio del grande sviluppo italico, l'invasioneellenica e principalmente quella sannitica, ne abbianointeramente cancellate le tracce della loro nazionalità.Antichissime leggende pongono in relazione con Romaanche la estinta razza de' Siculi; e il più antico storicoitalico, Antioco da Siracusa, racconta esser capitatodall'Italia (cioè dalla penisola Bruzia) presso il re Mor-

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ges, un fuggiasco per nome Sikelos, proveniente daRoma. Questi racconti sembrano fondati sulla somi-glianza dei Siculi – dei quali al tempo di Tucidide anco-ra si trovavano gli avanzi in Italia – con i Latini.

La sorprendente affinità di alcune parole dialettalidella lingua greco-siciliana colla latina, non si potrebbea dir vero invocare come prova d'una antica identità del-le due lingue, ma piuttosto come una conseguenza dellerelazioni commerciali tra Roma e i Greci della Sicilia.Nondimeno, secondo tutti gli indizi che si possiedono,non solo il paese latino, ma anche la Campania e il pae-se de' Lucani, l'Italia propriamente detta, compresa fra iseni di Taranto e di Laos, e la metà orientale della Sici-lia, furono nei tempi primitivi abitati da diversi ramidella nazione latina.

Varia fu la fortuna di queste genti. Quelle stabilite inSicilia, nella Magna Grecia e nella Campania, vennero acontatto coi Greci in un'epoca nella quale non erano ingrado di opporre resistenza alla prevalente civiltà diquesti ultimi e perciò o furono interamente ellenizzate,come avvenne in Sicilia, o fiaccate in modo che, senzaopporre gran resistenza, soggiacquero poscia alla forzagiovanile delle sopraggiunte razze sabine. Da ciò si de-duce la ragione per la quale nè i Siculi, nè gli Itali, nè iMorgeti e gli Ausoni, giunsero ad avere una parte attivanella storia della penisola. Ben altrimenti andarono lecose nel Lazio, ove non furono stabilite colonie greche,ed ove dopo dure lotte riuscì agli abitanti di resistereagli attacchi dei Sabini e dei settentrionali.

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ges, un fuggiasco per nome Sikelos, proveniente daRoma. Questi racconti sembrano fondati sulla somi-glianza dei Siculi – dei quali al tempo di Tucidide anco-ra si trovavano gli avanzi in Italia – con i Latini.

La sorprendente affinità di alcune parole dialettalidella lingua greco-siciliana colla latina, non si potrebbea dir vero invocare come prova d'una antica identità del-le due lingue, ma piuttosto come una conseguenza dellerelazioni commerciali tra Roma e i Greci della Sicilia.Nondimeno, secondo tutti gli indizi che si possiedono,non solo il paese latino, ma anche la Campania e il pae-se de' Lucani, l'Italia propriamente detta, compresa fra iseni di Taranto e di Laos, e la metà orientale della Sici-lia, furono nei tempi primitivi abitati da diversi ramidella nazione latina.

Varia fu la fortuna di queste genti. Quelle stabilite inSicilia, nella Magna Grecia e nella Campania, vennero acontatto coi Greci in un'epoca nella quale non erano ingrado di opporre resistenza alla prevalente civiltà diquesti ultimi e perciò o furono interamente ellenizzate,come avvenne in Sicilia, o fiaccate in modo che, senzaopporre gran resistenza, soggiacquero poscia alla forzagiovanile delle sopraggiunte razze sabine. Da ciò si de-duce la ragione per la quale nè i Siculi, nè gli Itali, nè iMorgeti e gli Ausoni, giunsero ad avere una parte attivanella storia della penisola. Ben altrimenti andarono lecose nel Lazio, ove non furono stabilite colonie greche,ed ove dopo dure lotte riuscì agli abitanti di resistereagli attacchi dei Sabini e dei settentrionali.

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Gettiamo ora uno sguardo sul paese che era destinatopiù d'ogni altro ad avere una gran parte nella storia delmondo antico.

3 Il Lazio. Sino dai tempi più remoti la pianura delLazio fu teatro dei più grandi sconvolgimenti della natu-ra, e la lenta azione delle acque alluvionali e la violenzadei vulcani elevarono strato su strato quel terreno sulquale doveva decidersi a quale dei popoli dovesse ap-partenere il dominio del mondo. Chiusa verso orientedalle montagne dei Sabini e degli Equi, le quali fannoparte degli Appennini; serrata verso mezzodì dai montidei Volsci, che s'innalzano fino a 1300 metri, e che sonodivisi dalla catena principale dell'Appennino mediantel'altopiano del Sacco (Trerus, tributario del Liri), anticastanza degli Ernici, questa regione verso occidente siprotende fino al promontorio di Terracina su una marinabassa e inospite, verso settentrione va a confondersi conle colline dell'Etruria, e nel mezzo si allarga in una gran-de pianura attraversata dal Tevere, fiume alpestre, chescende dai monti dell'Umbria, e dall'Anio, che ha le suesorgenti nei monti della Sabina. Simili ad isole, sorgonoin mezzo al piano, qua erte roccie calcaree, come quelledel Soratte a nord-est, del promontorio del Circeo a sud-ovest e i più bassi montucoli del Gianicolo pressoRoma; là alture vulcaniche, conche di spenti crateri, al-cune delle quali si cambiarono in laghi e in parte lo sonoancora e di cui il più notevole è quello di Albano che sispecchia fra i monti Volsci ed il Tevere. In questo terri-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

Gettiamo ora uno sguardo sul paese che era destinatopiù d'ogni altro ad avere una gran parte nella storia delmondo antico.

3 Il Lazio. Sino dai tempi più remoti la pianura delLazio fu teatro dei più grandi sconvolgimenti della natu-ra, e la lenta azione delle acque alluvionali e la violenzadei vulcani elevarono strato su strato quel terreno sulquale doveva decidersi a quale dei popoli dovesse ap-partenere il dominio del mondo. Chiusa verso orientedalle montagne dei Sabini e degli Equi, le quali fannoparte degli Appennini; serrata verso mezzodì dai montidei Volsci, che s'innalzano fino a 1300 metri, e che sonodivisi dalla catena principale dell'Appennino mediantel'altopiano del Sacco (Trerus, tributario del Liri), anticastanza degli Ernici, questa regione verso occidente siprotende fino al promontorio di Terracina su una marinabassa e inospite, verso settentrione va a confondersi conle colline dell'Etruria, e nel mezzo si allarga in una gran-de pianura attraversata dal Tevere, fiume alpestre, chescende dai monti dell'Umbria, e dall'Anio, che ha le suesorgenti nei monti della Sabina. Simili ad isole, sorgonoin mezzo al piano, qua erte roccie calcaree, come quelledel Soratte a nord-est, del promontorio del Circeo a sud-ovest e i più bassi montucoli del Gianicolo pressoRoma; là alture vulcaniche, conche di spenti crateri, al-cune delle quali si cambiarono in laghi e in parte lo sonoancora e di cui il più notevole è quello di Albano che sispecchia fra i monti Volsci ed il Tevere. In questo terri-

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torio si stabilì la tribù nota nella storia col nome di Lati-ni, o meglio di antichi Latini (prisci latini), così chiama-ta più tardi per distinguerla dai comuni Latini dimorantioltre i confini sopra indicati.

Ma la zona occupata da questo popolo, il Lazio, non èche una piccola parte della pianura dell'Italia centrale.Tutta la regione a settentrione del Tevere è per i Latiniun territorio straniero, anzi ostile, cogli abitanti del qua-le non riuscivano possibili nè una alleanza perpetua, nèuna durevole pace, tanto è vero che l'armistizio si con-chiudeva a tempo determinato. Antichissima è la delimi-tazione dei confini del Tevere verso settentrione; nè lastoria, nè la leggenda hanno serbato memoria di come equando tale delimitazione sia stata stabilita. Nei tempidai quali ha inizio la nostra storia noi troviamo la pianu-ra bassa e paludosa al sud dei monti albani abitati dallestirpi umbro-sabelliche dei Rutuli e dei Volsci; e già Ar-dea e Velletri (Velitrae) non sono più città originaria-mente latine.

Soltanto la parte media tra il Tevere e le alture appen-niniche, i monti Albani ed il mare, un territorio di circamilleottocentosettanta chilometri quadrati, costituisce ilvero Lazio, la «grande pianura»10 come si abbracciacon lo sguardo dalla cima del monte Cavo. Il paesaggioè piano, ma non basso; ad eccezione delle spiagge delmare, formate dalle alluvioni del Tevere; la pianura è in-terrotta da colline di tufo di mediocre altezza, ma erte e

10 Latium della stessa radice, come πλὰτυς, latus (parte); an-che latus, largo, ne è affine.

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torio si stabilì la tribù nota nella storia col nome di Lati-ni, o meglio di antichi Latini (prisci latini), così chiama-ta più tardi per distinguerla dai comuni Latini dimorantioltre i confini sopra indicati.

Ma la zona occupata da questo popolo, il Lazio, non èche una piccola parte della pianura dell'Italia centrale.Tutta la regione a settentrione del Tevere è per i Latiniun territorio straniero, anzi ostile, cogli abitanti del qua-le non riuscivano possibili nè una alleanza perpetua, nèuna durevole pace, tanto è vero che l'armistizio si con-chiudeva a tempo determinato. Antichissima è la delimi-tazione dei confini del Tevere verso settentrione; nè lastoria, nè la leggenda hanno serbato memoria di come equando tale delimitazione sia stata stabilita. Nei tempidai quali ha inizio la nostra storia noi troviamo la pianu-ra bassa e paludosa al sud dei monti albani abitati dallestirpi umbro-sabelliche dei Rutuli e dei Volsci; e già Ar-dea e Velletri (Velitrae) non sono più città originaria-mente latine.

Soltanto la parte media tra il Tevere e le alture appen-niniche, i monti Albani ed il mare, un territorio di circamilleottocentosettanta chilometri quadrati, costituisce ilvero Lazio, la «grande pianura»10 come si abbracciacon lo sguardo dalla cima del monte Cavo. Il paesaggioè piano, ma non basso; ad eccezione delle spiagge delmare, formate dalle alluvioni del Tevere; la pianura è in-terrotta da colline di tufo di mediocre altezza, ma erte e

10 Latium della stessa radice, come πλὰτυς, latus (parte); an-che latus, largo, ne è affine.

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scoscese da profonde spaccature di terreno e da continueondulazioni del suolo, per cui durante l'inverno si for-mano nelle bassure quelle pozzanghere, le cui esalazio-ni, durante i calori dell'estate, a cagione delle sostanzeorganiche che vi fermentano, producono quella malariache infetta di febbri mortali il paese ai nostri giornicome lo infettava ne' tempi antichi11. È un errore il cre-dere che questi miasmi si manifestassero solo dopo ladecadenza dell'agricoltura provocata dalla negligenzadell'ultimo secolo della repubblica e del governo deipapi; la causa è da cercarsi piuttosto nell'imperfetto de-flusso delle acque, difetto che si lamenta oggi come mi-gliaia di anni fa. È vero, che sino ad un certo punto lamalaria si può allontanare mediante l'intensiva coltiva-zione del suolo, la quale, affrettando l'evaporazione del-le acque, riduce sensibilmente gli acquitrini, ma ancheciò non è ben provato. Resta tuttavia un fatto inesplica-

11 [Se il grande storico fosse vissuto ai tempi nostri, ben di-versamente avrebbe scritto questo capitolo, che tuttavia è bene re-sti inalterato, giovando a dar maggior rilievo al prodigio compiu-to dal Regime Fascista nell'Agro Pontino. S'egli avesse visto inpochi anni, là ove infieriva la malaria che aveva creato il deserto,un deserto di acquitrini putrescenti, sorgere fiorenti e popolosecittà, biondeggiare messi, correre strade magnifiche, fumar cimi-niere, se in luogo del concerto dei batraci avesse inteso risuonarl'aria dei canti della gioia di vivere, la sua anima ancorchè teuto-nica avrebbe cantato un inno al genio e alla grandezza di Coluiche debellò la morte e vinse la natura rigenerando una regioneche aveva fiaccato in tutti i tempi i tentativi dei giganti della stir-pe, da Cesare a Sisto Quinto] (N. d. t.).

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scoscese da profonde spaccature di terreno e da continueondulazioni del suolo, per cui durante l'inverno si for-mano nelle bassure quelle pozzanghere, le cui esalazio-ni, durante i calori dell'estate, a cagione delle sostanzeorganiche che vi fermentano, producono quella malariache infetta di febbri mortali il paese ai nostri giornicome lo infettava ne' tempi antichi11. È un errore il cre-dere che questi miasmi si manifestassero solo dopo ladecadenza dell'agricoltura provocata dalla negligenzadell'ultimo secolo della repubblica e del governo deipapi; la causa è da cercarsi piuttosto nell'imperfetto de-flusso delle acque, difetto che si lamenta oggi come mi-gliaia di anni fa. È vero, che sino ad un certo punto lamalaria si può allontanare mediante l'intensiva coltiva-zione del suolo, la quale, affrettando l'evaporazione del-le acque, riduce sensibilmente gli acquitrini, ma ancheciò non è ben provato. Resta tuttavia un fatto inesplica-

11 [Se il grande storico fosse vissuto ai tempi nostri, ben di-versamente avrebbe scritto questo capitolo, che tuttavia è bene re-sti inalterato, giovando a dar maggior rilievo al prodigio compiu-to dal Regime Fascista nell'Agro Pontino. S'egli avesse visto inpochi anni, là ove infieriva la malaria che aveva creato il deserto,un deserto di acquitrini putrescenti, sorgere fiorenti e popolosecittà, biondeggiare messi, correre strade magnifiche, fumar cimi-niere, se in luogo del concerto dei batraci avesse inteso risuonarl'aria dei canti della gioia di vivere, la sua anima ancorchè teuto-nica avrebbe cantato un inno al genio e alla grandezza di Coluiche debellò la morte e vinse la natura rigenerando una regioneche aveva fiaccato in tutti i tempi i tentativi dei giganti della stir-pe, da Cesare a Sisto Quinto] (N. d. t.).

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bile, per noi, come abbia potuto vivere una densa popo-lazione agricola in paesi che anche presentemente nonlasciano quasi possibilità di vita umana, come accadenella pianura latina e nelle bassure di Sibari e di Meta-ponto. Occorre osservare, che un popolo, quanto è menocivile, tanto ha maggior attitudine a conformarsi a ciòche la natura richiede e meglio si adatta alle sue leggi;ed è inoltre anche dotato fisicamente d'un temperamentopiù adattabile alla natura del suolo. In Sardegna si eser-cita ancora oggi l'agricoltura in mezzo a condizioni na-turali poco dissimili da quelle del Lazio. Anche in Sar-degna domina la malaria; ma il contadino se ne tutelacol vestiario, col vitto e colla scelta delle ore di lavoro.Infatti nulla difende tanto efficacemente contro la mala-ria, quanto le pellicce ed il fuoco12; ciò che ci spiegaperchè il contadino romano vestisse sempre abiti digrossa lana, e non lasciasse mai spegnere il fuoco nelsuo focolare.

In compenso il paese doveva offrire un grande alletta-mento ad un popolo di agricoltori, i quali colla zappa ecolla vanga potevano senza grande fatica coltivare ilsuolo fertile anche senza concime, sebbene non così me-ravigliosamente ferace come in molti altri luoghi d'Ita-lia. Il frumento rende in media il quintuplo13. Non v'è

12 Ignorando doversi attribuire all'anofele la propagazione del-la malaria, l'antico contadino romano, era giunto con l'istinto aproteggersene, accendendo il fuoco durante la notte per tener lon-tana l'insidiosa zanzara.

13 Uno statista francese, DUREAU DE LA MALLE (Ec. pol. des Ro-81

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bile, per noi, come abbia potuto vivere una densa popo-lazione agricola in paesi che anche presentemente nonlasciano quasi possibilità di vita umana, come accadenella pianura latina e nelle bassure di Sibari e di Meta-ponto. Occorre osservare, che un popolo, quanto è menocivile, tanto ha maggior attitudine a conformarsi a ciòche la natura richiede e meglio si adatta alle sue leggi;ed è inoltre anche dotato fisicamente d'un temperamentopiù adattabile alla natura del suolo. In Sardegna si eser-cita ancora oggi l'agricoltura in mezzo a condizioni na-turali poco dissimili da quelle del Lazio. Anche in Sar-degna domina la malaria; ma il contadino se ne tutelacol vestiario, col vitto e colla scelta delle ore di lavoro.Infatti nulla difende tanto efficacemente contro la mala-ria, quanto le pellicce ed il fuoco12; ciò che ci spiegaperchè il contadino romano vestisse sempre abiti digrossa lana, e non lasciasse mai spegnere il fuoco nelsuo focolare.

In compenso il paese doveva offrire un grande alletta-mento ad un popolo di agricoltori, i quali colla zappa ecolla vanga potevano senza grande fatica coltivare ilsuolo fertile anche senza concime, sebbene non così me-ravigliosamente ferace come in molti altri luoghi d'Ita-lia. Il frumento rende in media il quintuplo13. Non v'è

12 Ignorando doversi attribuire all'anofele la propagazione del-la malaria, l'antico contadino romano, era giunto con l'istinto aproteggersene, accendendo il fuoco durante la notte per tener lon-tana l'insidiosa zanzara.

13 Uno statista francese, DUREAU DE LA MALLE (Ec. pol. des Ro-81

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grande abbondanza d'acqua; e perciò i Latini considera-vano sacra ogni fresca sorgente.

4 Colonie latine e villaggi consorziali. Non ab-biamo alcun documento sul modo con cui si stabilironole colonie dei Latini nel paese che poi portò il loronome, e siamo ridotti quasi alle sole induzioni retrospet-tive. Una cosa soltanto si può stabilire o presumere conqualche verosimiglianza.

La marca romana era suddivisa negli antichi tempi inun dato numero di distretti consorziali, che servironopiù tardi a formare le più antiche tribù rustiche (tribusrusticae). Così la tradizione vuole che il quartiere cam-pestre della gente Claudia sorgesse sull'Anio; che essocosì si chiamasse dall'esservisi stabilito il consorzio deimains, 2-226) paragona alla campagna romana la Limagnenell'Alvrenia, vasta pianura ineguale con un suolo composto dilava e di cenere, reliquie di estinti vulcani. La popolazione, chenon è inferiore alle 2500 anime per lega quadrata, è tra le più den-se fra quelle dei paesi puramente agricoli; le proprietà sono diviseall'infinito. Pressochè tutto il lavoro si fa con la vanga, con lamarra e con la zappa, e solo per eccezione vi si usa il piccolo ara-tro tirato da due vacche; nè è raro il caso che, in mancanza d'unadelle vacche, il villano vi attacchi la propria moglie. Le vaccheservono nello stesso tempo a fornire il latte. Si fanno due raccoltiall'anno, grano e cavoli; non si lascia il maggese. L'affitto medioper un arpente di terreno è di 100 franchi all'anno. Se questo pae-se fosse invece diviso tra sei o sette possidenti, se in luogo dellepiccole proprietà subentrassero grandi fattorie, la Limagne sareb-be senza alcun dubbio, nel giro d'un secolo, deserta, abbandonatae povera come fu per tanti anni la campagna romana.

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grande abbondanza d'acqua; e perciò i Latini considera-vano sacra ogni fresca sorgente.

4 Colonie latine e villaggi consorziali. Non ab-biamo alcun documento sul modo con cui si stabilironole colonie dei Latini nel paese che poi portò il loronome, e siamo ridotti quasi alle sole induzioni retrospet-tive. Una cosa soltanto si può stabilire o presumere conqualche verosimiglianza.

La marca romana era suddivisa negli antichi tempi inun dato numero di distretti consorziali, che servironopiù tardi a formare le più antiche tribù rustiche (tribusrusticae). Così la tradizione vuole che il quartiere cam-pestre della gente Claudia sorgesse sull'Anio; che essocosì si chiamasse dall'esservisi stabilito il consorzio deimains, 2-226) paragona alla campagna romana la Limagnenell'Alvrenia, vasta pianura ineguale con un suolo composto dilava e di cenere, reliquie di estinti vulcani. La popolazione, chenon è inferiore alle 2500 anime per lega quadrata, è tra le più den-se fra quelle dei paesi puramente agricoli; le proprietà sono diviseall'infinito. Pressochè tutto il lavoro si fa con la vanga, con lamarra e con la zappa, e solo per eccezione vi si usa il piccolo ara-tro tirato da due vacche; nè è raro il caso che, in mancanza d'unadelle vacche, il villano vi attacchi la propria moglie. Le vaccheservono nello stesso tempo a fornire il latte. Si fanno due raccoltiall'anno, grano e cavoli; non si lascia il maggese. L'affitto medioper un arpente di terreno è di 100 franchi all'anno. Se questo pae-se fosse invece diviso tra sei o sette possidenti, se in luogo dellepiccole proprietà subentrassero grandi fattorie, la Limagne sareb-be senza alcun dubbio, nel giro d'un secolo, deserta, abbandonatae povera come fu per tanti anni la campagna romana.

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Claudi; e questo per sicura analogia può dirsi anche delnome degli altri distretti della più antica ripartizione.Questi nomi sono derivati senza eccezione dai nomi del-le famiglie stabilitevisi e non dai luoghi, come avvennedei distretti aggiunti in seguito; e i consorzi che presta-rono i nomi all'originaria marca romana, quando nonsiano affatto spenti (come i Camilii, i Galerii, i Lemonii,i Pollii, i Pupinii, i Voltinii) sono assolutamente quellidelle più antiche famiglie patrizie romane degli Aemilii,Cornelii, Fabii, Horatii, Menenii, Papirii, Romilii, Ser-gii, Voturii. Importa notare che tra tutte queste famiglienon ve ne è alcuna della quale si possa provare che siavenuta a stabilirsi in Roma dopo la fondazione della cit-tà. Come la marca romana così gli altri distretti italici esenza dubbio anche gli ellenici, saranno stati originaria-mente composti da un numero di consorzi uniti da vin-coli topografici e storici; questa colonia di famiglie è lacasa (οἰκὶα dei Greci), da cui uscirono assai spesso iComi o Demi (villaggi o comuni rurali) come in Romale tribù. Le corrispondenti denominazioni italiche casa(vicus) o distretti (pagus da pangere) provano ugual-mente la comunanza dei consorzi delle famiglie, e,come è naturale, nell'uso comune della lingua pigliaronoil significato di dimora o villaggio. E come alla casa pri-vata va unito un campo, così alla casa consorziale o alvillaggio va unito un terreno il quale, come si dimostre-rà, era coltivato sino a tempi relativamente moderniquasi come un campo domestico, cioè secondo il siste-ma della comunanza.

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Claudi; e questo per sicura analogia può dirsi anche delnome degli altri distretti della più antica ripartizione.Questi nomi sono derivati senza eccezione dai nomi del-le famiglie stabilitevisi e non dai luoghi, come avvennedei distretti aggiunti in seguito; e i consorzi che presta-rono i nomi all'originaria marca romana, quando nonsiano affatto spenti (come i Camilii, i Galerii, i Lemonii,i Pollii, i Pupinii, i Voltinii) sono assolutamente quellidelle più antiche famiglie patrizie romane degli Aemilii,Cornelii, Fabii, Horatii, Menenii, Papirii, Romilii, Ser-gii, Voturii. Importa notare che tra tutte queste famiglienon ve ne è alcuna della quale si possa provare che siavenuta a stabilirsi in Roma dopo la fondazione della cit-tà. Come la marca romana così gli altri distretti italici esenza dubbio anche gli ellenici, saranno stati originaria-mente composti da un numero di consorzi uniti da vin-coli topografici e storici; questa colonia di famiglie è lacasa (οἰκὶα dei Greci), da cui uscirono assai spesso iComi o Demi (villaggi o comuni rurali) come in Romale tribù. Le corrispondenti denominazioni italiche casa(vicus) o distretti (pagus da pangere) provano ugual-mente la comunanza dei consorzi delle famiglie, e,come è naturale, nell'uso comune della lingua pigliaronoil significato di dimora o villaggio. E come alla casa pri-vata va unito un campo, così alla casa consorziale o alvillaggio va unito un terreno il quale, come si dimostre-rà, era coltivato sino a tempi relativamente moderniquasi come un campo domestico, cioè secondo il siste-ma della comunanza.

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Se poi le stesse case gentilizie del Lazio si siano svi-luppate in villaggi consorziali o se i Latini vi siano giun-ti già distinti in consorzi di famiglie, è una questionealla quale non si può rispondere, e nemmeno è possibilestabilire in qual modo si sia potuta formare un'ammini-strazione commista tra genti legate solo da una discen-denza comune.

Nella loro origine, questi consorzi di famiglie nonerano considerati come unità indipendenti, ma comeparti integranti di un comune politico (civitas, populus),che è il risultato e la somma di un dato numero di villag-gi gentilizi di egual stirpe, lingua e costumi, i quali per-ciò sono obbligati ad una scambievole assistenza, pergarantirsi la giustizia, per difendersi, ed anche per offen-dere.

Ad una simile società non poteva mancare un centrolocale, come un consorzio gentilizio, ma poichè i mem-bri di queste società convivevano tutti nei loro villaggi,il centro comune non poteva essere una città, ma soltan-to un sito d'adunanza, che rinchiudeva in sè i tribunali ei pubblici luoghi sacri che d'ordinario non era abitato, oappena era custodito, ma dove tutti i consorziati conve-nivano ad ogni ottavo giorno sia per conversare, sia perdivertirsi, e dove in caso di guerra riparavano col lorobestiame, trovandosi più sicuri contro le incursioni ne-miche, che non negli sparsi casali. Simili asili possonovedersi anche oggi sulle vette di parecchi monti dellaSvizzera orientale. Questi chiusi si chiamavano in Italiaalture (capitolium, la vetta), o riparo (arx da arcere);

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Se poi le stesse case gentilizie del Lazio si siano svi-luppate in villaggi consorziali o se i Latini vi siano giun-ti già distinti in consorzi di famiglie, è una questionealla quale non si può rispondere, e nemmeno è possibilestabilire in qual modo si sia potuta formare un'ammini-strazione commista tra genti legate solo da una discen-denza comune.

Nella loro origine, questi consorzi di famiglie nonerano considerati come unità indipendenti, ma comeparti integranti di un comune politico (civitas, populus),che è il risultato e la somma di un dato numero di villag-gi gentilizi di egual stirpe, lingua e costumi, i quali per-ciò sono obbligati ad una scambievole assistenza, pergarantirsi la giustizia, per difendersi, ed anche per offen-dere.

Ad una simile società non poteva mancare un centrolocale, come un consorzio gentilizio, ma poichè i mem-bri di queste società convivevano tutti nei loro villaggi,il centro comune non poteva essere una città, ma soltan-to un sito d'adunanza, che rinchiudeva in sè i tribunali ei pubblici luoghi sacri che d'ordinario non era abitato, oappena era custodito, ma dove tutti i consorziati conve-nivano ad ogni ottavo giorno sia per conversare, sia perdivertirsi, e dove in caso di guerra riparavano col lorobestiame, trovandosi più sicuri contro le incursioni ne-miche, che non negli sparsi casali. Simili asili possonovedersi anche oggi sulle vette di parecchi monti dellaSvizzera orientale. Questi chiusi si chiamavano in Italiaalture (capitolium, la vetta), o riparo (arx da arcere);

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non erano ancora una città, ma germi di città avvenire,giacchè le prime case si affollano a piè della rocca, e poisi circondano di fortificazioni (oppidum), o di cerchia(urbs, affine a urvus, curvus, orbis). La differenza ester-na tra la rocca e la città è data dal numero delle porte,scarso nell'una, abbondante quanto più si potevanell'altra: una sola nella rocca e almeno tre nell'altra.

Questi stabilimenti sono la base delle costituzioni ita-liche che precedono la nascita delle città, e delle quali sitrovano ancora tracce riconoscibili in quei paesi italiani,che tardi giunsero a concentrarsi in città, e di cui alcunineppure oggi vi sono interamente riusciti, come adesempio nel paese dei Marsi e nelle piccole terre degliAbruzzi. Nel territorio degli Equicoli, i quali fino aitempi dei Cesari non vivevano in città, ma in numerosis-simi borghi aperti, si vedono ancora moltissimi antichispazi circondati da mura, che come città deserte, coiloro templi isolati, destarono lo stupore degli archeologiromani, come destano quello dei moderni, perchè i pri-mi credevano di riconoscervi le abitazioni de' loro abori-geni, e i secondi quelle dei Pelasgi. Ci si avvicinerà cer-to più al vero, se in questi edifici non si vorranno vederemura di città, ma asili comuni dei consorzi campagnoli,come se ne trovavano senza alcun dubbio per tutta Italianei tempi più antichi, sebbene costruiti con minor arte diquesti.

È naturale che quando le tribù, mutate in colonie cit-tadine, cinsero le loro città con mura di pietre, anchequelle comunità, che continuavano ad abitare in borghi

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non erano ancora una città, ma germi di città avvenire,giacchè le prime case si affollano a piè della rocca, e poisi circondano di fortificazioni (oppidum), o di cerchia(urbs, affine a urvus, curvus, orbis). La differenza ester-na tra la rocca e la città è data dal numero delle porte,scarso nell'una, abbondante quanto più si potevanell'altra: una sola nella rocca e almeno tre nell'altra.

Questi stabilimenti sono la base delle costituzioni ita-liche che precedono la nascita delle città, e delle quali sitrovano ancora tracce riconoscibili in quei paesi italiani,che tardi giunsero a concentrarsi in città, e di cui alcunineppure oggi vi sono interamente riusciti, come adesempio nel paese dei Marsi e nelle piccole terre degliAbruzzi. Nel territorio degli Equicoli, i quali fino aitempi dei Cesari non vivevano in città, ma in numerosis-simi borghi aperti, si vedono ancora moltissimi antichispazi circondati da mura, che come città deserte, coiloro templi isolati, destarono lo stupore degli archeologiromani, come destano quello dei moderni, perchè i pri-mi credevano di riconoscervi le abitazioni de' loro abori-geni, e i secondi quelle dei Pelasgi. Ci si avvicinerà cer-to più al vero, se in questi edifici non si vorranno vederemura di città, ma asili comuni dei consorzi campagnoli,come se ne trovavano senza alcun dubbio per tutta Italianei tempi più antichi, sebbene costruiti con minor arte diquesti.

È naturale che quando le tribù, mutate in colonie cit-tadine, cinsero le loro città con mura di pietre, anchequelle comunità, che continuavano ad abitare in borghi

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sparsi nella campagna, sostituissero mura di pietre aiterrapieni e alle palafitte dei loro antichi asili fortificati,e quando poi in processo di tempo, assicurata la tran-quillità interna, questi asili più non furono necessari, ve-nissero abbandonati non tardando a diventare un enigmaper le future generazioni.

5 Luoghi antichissimi. Quei distretti dunque, cheavevano il loro centro in una rocca e che in sè compren-devano un certo numero di consorzi gentilizi, costitui-scono le originarie unità politiche e il punto di partenzadella storia italica. Ma dove e in quale estensione tali di-stretti si formassero nel Lazio non si potrà mai stabilirecon certezza, e storicamente non è cosa che importi sa-pere. L'isolato sistema dei monti Albani, che assicuravaai coloni l'aria più salubre, le più fresche sorgenti e lapiù sicura posizione, questa rocca naturale del Lazio, fusenza dubbio occupata per prima, dai primi arrivati. Quiappunto si trova nell'angusto altipiano, al di sopra di Pa-lazzolo, tra il lago d'Albano (lago di Castello) e il monteCavo, distesa su una lunga linea la città d'Alba, che pas-sava generalmente per la sede originaria della tribù lati-na, e per madre di Roma e di tutti gli antichi comuni la-tini; qui sui pendii troviamo le antichissime località lati-ne, Lanuvio, Ariccia e Tuscolo. Qui si trovano ancoraquelle antiche costruzioni, che sogliono indicare i pri-mordi della civiltà e pare vogliano testimoniare ai poste-ri, che davvero, quando Pallade Atena appare, essa è giàadulta ed armata: così è il taglio della rupe al di sotto

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sparsi nella campagna, sostituissero mura di pietre aiterrapieni e alle palafitte dei loro antichi asili fortificati,e quando poi in processo di tempo, assicurata la tran-quillità interna, questi asili più non furono necessari, ve-nissero abbandonati non tardando a diventare un enigmaper le future generazioni.

5 Luoghi antichissimi. Quei distretti dunque, cheavevano il loro centro in una rocca e che in sè compren-devano un certo numero di consorzi gentilizi, costitui-scono le originarie unità politiche e il punto di partenzadella storia italica. Ma dove e in quale estensione tali di-stretti si formassero nel Lazio non si potrà mai stabilirecon certezza, e storicamente non è cosa che importi sa-pere. L'isolato sistema dei monti Albani, che assicuravaai coloni l'aria più salubre, le più fresche sorgenti e lapiù sicura posizione, questa rocca naturale del Lazio, fusenza dubbio occupata per prima, dai primi arrivati. Quiappunto si trova nell'angusto altipiano, al di sopra di Pa-lazzolo, tra il lago d'Albano (lago di Castello) e il monteCavo, distesa su una lunga linea la città d'Alba, che pas-sava generalmente per la sede originaria della tribù lati-na, e per madre di Roma e di tutti gli antichi comuni la-tini; qui sui pendii troviamo le antichissime località lati-ne, Lanuvio, Ariccia e Tuscolo. Qui si trovano ancoraquelle antiche costruzioni, che sogliono indicare i pri-mordi della civiltà e pare vogliano testimoniare ai poste-ri, che davvero, quando Pallade Atena appare, essa è giàadulta ed armata: così è il taglio della rupe al di sotto

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d'Alba verso Palazzolo, che rende il luogo inaccessibilea settentrione, come per natura lo è dagli altri versantidel monte Cavo verso mezzodì e lascia liberi per le co-municazioni soltanto gli angusti passi di facile difesa aoriente e ad occidente; così è più meravigliosa ancora lagrande galleria dell'altezza d'un uomo, scavata per più diseimila piedi entro il massiccio d'una parete di lava; perla quale galleria si scaricò sino al livello presente il lagoformatosi nell'antico cratere del monte Albano, guada-gnando così sul monte uno spazio ragguardevoleall'agricoltura. Forti naturali della pianura latina sonopure i culmini delle ultime ramificazioni dei monti sabi-ni, dove dalle rocche distrettuali nacquero più tardi leragguardevoli città di Tibur (Tivoli) e di Praeneste (Pa-lestrina). Anche Labico, Gabio e Nomento poste nellapianura tra i monti albani, la Sabina ed il Tevere, comepure Roma sul Tevere, Laurento e Lavinia sul litorale,sono più o meno antichi luoghi centrali della colonizza-zione latina, per tacere di molti altri meno ragguardevolie di cui si è ora quasi perduta ogni traccia. Tutti questidistretti erano nei tempi antichi politicamente sovrani, eognuno di essi era retto dal proprio principe col concor-so del consiglio degli anziani e dell'adunanza degli uo-mini atti alle armi. Ma non pertanto, non solo si manten-ne in tutto il territorio il senso della comunanza di lin-gua e di schiatta, ma questo spirito di solidarietà si ma-nifestò anche in una importante instituzione religiosa epolitica, cioè nella lega perpetua fra tutti i distretti italia-ni.

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d'Alba verso Palazzolo, che rende il luogo inaccessibilea settentrione, come per natura lo è dagli altri versantidel monte Cavo verso mezzodì e lascia liberi per le co-municazioni soltanto gli angusti passi di facile difesa aoriente e ad occidente; così è più meravigliosa ancora lagrande galleria dell'altezza d'un uomo, scavata per più diseimila piedi entro il massiccio d'una parete di lava; perla quale galleria si scaricò sino al livello presente il lagoformatosi nell'antico cratere del monte Albano, guada-gnando così sul monte uno spazio ragguardevoleall'agricoltura. Forti naturali della pianura latina sonopure i culmini delle ultime ramificazioni dei monti sabi-ni, dove dalle rocche distrettuali nacquero più tardi leragguardevoli città di Tibur (Tivoli) e di Praeneste (Pa-lestrina). Anche Labico, Gabio e Nomento poste nellapianura tra i monti albani, la Sabina ed il Tevere, comepure Roma sul Tevere, Laurento e Lavinia sul litorale,sono più o meno antichi luoghi centrali della colonizza-zione latina, per tacere di molti altri meno ragguardevolie di cui si è ora quasi perduta ogni traccia. Tutti questidistretti erano nei tempi antichi politicamente sovrani, eognuno di essi era retto dal proprio principe col concor-so del consiglio degli anziani e dell'adunanza degli uo-mini atti alle armi. Ma non pertanto, non solo si manten-ne in tutto il territorio il senso della comunanza di lin-gua e di schiatta, ma questo spirito di solidarietà si ma-nifestò anche in una importante instituzione religiosa epolitica, cioè nella lega perpetua fra tutti i distretti italia-ni.

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La presidenza ne spettava originariamente, a tenoredel costume universale italico ed ellenico, a quello fra idistretti, nel cui territorio si trovava la città della lega;questo era il distretto d'Alba, il quale, come si disse, ve-niva considerato come il più antico e ragguardevole tra idistretti latini. Originariamente il numero dei comuniconsorziati era di trenta, numero che incontriamo fre-quentemente come somma delle parti di una repubblicasia in Grecia che in Italia. Quali luoghi appartenesseroai trenta antichi comuni latini o colonie albane, che cosìpure si chiamavano relativamente ai diritti metropolitanid'Alba, la tradizione non lo dice e non si saprebbe orastabilirlo. Come in altre federazioni consimili, per esem-pio in quella dei Beoti e degli Ionii le feste panbeozie epanjoniche, così la manifestazione solenne di questalega era nella festa latina (feriae latinae), che si celebra-va tutti gli anni sul monte d'Alba, oggi monte Cavo, inun giorno fissato, col sagrificio di un toro che tutta lastirpe latina offriva al suo dio, Iupiter Latiaris. Ogni co-mune partecipante doveva contribuire con una quantitàfissa di bestiame, latte e cacio per il banchetto che se-guiva il sagrificio, e riceveva in cambio un pezzo di ar-rosto della vittima sagrificata. Questi usi continuaronoper lunghissimo tempo e sono notissimi; ma sui più im-portanti effetti giuridici di questa lega noi non possiamoaddurre che supposizioni.

Da antichissimo tempo nell'occasione della festa reli-giosa sul monte d'Alba si raccoglievano anche in solenniadunanze i rappresentanti di ciascun comune latino, nel

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La presidenza ne spettava originariamente, a tenoredel costume universale italico ed ellenico, a quello fra idistretti, nel cui territorio si trovava la città della lega;questo era il distretto d'Alba, il quale, come si disse, ve-niva considerato come il più antico e ragguardevole tra idistretti latini. Originariamente il numero dei comuniconsorziati era di trenta, numero che incontriamo fre-quentemente come somma delle parti di una repubblicasia in Grecia che in Italia. Quali luoghi appartenesseroai trenta antichi comuni latini o colonie albane, che cosìpure si chiamavano relativamente ai diritti metropolitanid'Alba, la tradizione non lo dice e non si saprebbe orastabilirlo. Come in altre federazioni consimili, per esem-pio in quella dei Beoti e degli Ionii le feste panbeozie epanjoniche, così la manifestazione solenne di questalega era nella festa latina (feriae latinae), che si celebra-va tutti gli anni sul monte d'Alba, oggi monte Cavo, inun giorno fissato, col sagrificio di un toro che tutta lastirpe latina offriva al suo dio, Iupiter Latiaris. Ogni co-mune partecipante doveva contribuire con una quantitàfissa di bestiame, latte e cacio per il banchetto che se-guiva il sagrificio, e riceveva in cambio un pezzo di ar-rosto della vittima sagrificata. Questi usi continuaronoper lunghissimo tempo e sono notissimi; ma sui più im-portanti effetti giuridici di questa lega noi non possiamoaddurre che supposizioni.

Da antichissimo tempo nell'occasione della festa reli-giosa sul monte d'Alba si raccoglievano anche in solenniadunanze i rappresentanti di ciascun comune latino, nel

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luogo sacro latino, vicino alla sorgente della Ferentina(presso Marino). Nè si può immaginare una simile con-federazione senza un certo governo centrale della lega esenza un'amministrazione della giustizia valida per tuttoil paese. Che alla lega spettasse una giurisdizione per lelesioni dei diritti federativi, e che questa giurisdizione siestendesse fino alla pena di morte, è un fatto tramandatodalla tradizione e lo si può credere. E così anche la po-steriore comunione di leggi e di matrimonio dei comunilatini può considerarsi come parte integrale dell'antichis-simo diritto della lega, cosicchè ogni latino poteva pro-creare legittimi figli con qualunque latina, possederefondi in tutto il Lazio ed esercitarvi il commercio. Lalega aveva anche un tribunale federale, per risolvere lecontestazioni dei distretti tra di loro; ma non consta chedalla lega si sia operata alcuna limitazione del potere so-vrano di nessun comune, rispetto alla guerra e alla pace.E così non vi è nessun dubbio che con la costituzionedella lega venne creata la possibilità di una guerra fede-rale difensiva e persino offensiva, nel qual caso, come ènaturale, non poteva farsi a meno di un generale federa-le, d'un duce. Ma non abbiamo alcuna prova per ritenereche in questo caso ogni comune fosse legalmente co-stretto a dare il proprio contributo di uomini, o che,d'altra parte, gli fosse impedito di intraprendere per pro-prio conto la guerra, foss'anche contro un membro dellalega. Al contrario si trovano indizi che durante le festelatine – come in Grecia durante le feste federali elleni-

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luogo sacro latino, vicino alla sorgente della Ferentina(presso Marino). Nè si può immaginare una simile con-federazione senza un certo governo centrale della lega esenza un'amministrazione della giustizia valida per tuttoil paese. Che alla lega spettasse una giurisdizione per lelesioni dei diritti federativi, e che questa giurisdizione siestendesse fino alla pena di morte, è un fatto tramandatodalla tradizione e lo si può credere. E così anche la po-steriore comunione di leggi e di matrimonio dei comunilatini può considerarsi come parte integrale dell'antichis-simo diritto della lega, cosicchè ogni latino poteva pro-creare legittimi figli con qualunque latina, possederefondi in tutto il Lazio ed esercitarvi il commercio. Lalega aveva anche un tribunale federale, per risolvere lecontestazioni dei distretti tra di loro; ma non consta chedalla lega si sia operata alcuna limitazione del potere so-vrano di nessun comune, rispetto alla guerra e alla pace.E così non vi è nessun dubbio che con la costituzionedella lega venne creata la possibilità di una guerra fede-rale difensiva e persino offensiva, nel qual caso, come ènaturale, non poteva farsi a meno di un generale federa-le, d'un duce. Ma non abbiamo alcuna prova per ritenereche in questo caso ogni comune fosse legalmente co-stretto a dare il proprio contributo di uomini, o che,d'altra parte, gli fosse impedito di intraprendere per pro-prio conto la guerra, foss'anche contro un membro dellalega. Al contrario si trovano indizi che durante le festelatine – come in Grecia durante le feste federali elleni-

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che – era considerata sacra in tutto il Lazio14 una treguadi Dio e che verosimilmente in questo periodo anche letribù belligeranti s'accordavano reciprocamente un sal-vacondotto.

Ancor meno chiaramente si può determinare l'esten-sione dei diritti assegnati al distretto dirigente; si puòsoltanto affermare che non v'è alcuna ragione nel vederenel primato d'Alba una vera egemonia politica di quelcomune su tutto il Lazio; e che anzi ogni cosa c'induce acredere più probabile e più verosimile che la sceltad'Alba, come comune convegno dei Latini, non avessemaggior importanza che l'onorifica presidenza elica inGrecia15. L'estensione e la forma di questa lega latina

14 La festa latina è detta senz'altro armistizio (indutiae, tregua.MACROB., Sat., 1, 16; ἐκεχειρίαι, DIONIS., 4, 49), e non era permessodi cominciare una guerra durante la medesima. (MACROB).

15 Facendo diligenti indagini si trova esser infondata l'asser-zione messa spesso innanzi nei tempi passati e presenti, che Albaabbia già dominato sul Lazio nelle forme della simmachia. Ognistoria comincia i suoi processi da uno stato elementare e non dauna finale consolidazione nazionale, ed è ben poco verosimile,che il problema sciolto da Roma dopo combattimenti secolari,cioè l'unificazione dei disgregati elementi nazionali, sia stato giàprecedentemente sciolto anche da Alba. È inoltre notevole cheRoma, come erede d'Alba, non abbia mai fatto valere delle prete-se di dominio propriamente detto contro i comuni latini, ma si siacontentata di una presidenza onorifica, che certamente unita allaforza materiale, offrì più tardi un possente strumento per le prete-se egemoniche di Roma. In una questione come questa non si puòparlare di prove propriamente dette, o meno ancora considerarecome attendibili certe citazioni come quelle di FESTO, v. praetor, e

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che – era considerata sacra in tutto il Lazio14 una treguadi Dio e che verosimilmente in questo periodo anche letribù belligeranti s'accordavano reciprocamente un sal-vacondotto.

Ancor meno chiaramente si può determinare l'esten-sione dei diritti assegnati al distretto dirigente; si puòsoltanto affermare che non v'è alcuna ragione nel vederenel primato d'Alba una vera egemonia politica di quelcomune su tutto il Lazio; e che anzi ogni cosa c'induce acredere più probabile e più verosimile che la sceltad'Alba, come comune convegno dei Latini, non avessemaggior importanza che l'onorifica presidenza elica inGrecia15. L'estensione e la forma di questa lega latina

14 La festa latina è detta senz'altro armistizio (indutiae, tregua.MACROB., Sat., 1, 16; ἐκεχειρίαι, DIONIS., 4, 49), e non era permessodi cominciare una guerra durante la medesima. (MACROB).

15 Facendo diligenti indagini si trova esser infondata l'asser-zione messa spesso innanzi nei tempi passati e presenti, che Albaabbia già dominato sul Lazio nelle forme della simmachia. Ognistoria comincia i suoi processi da uno stato elementare e non dauna finale consolidazione nazionale, ed è ben poco verosimile,che il problema sciolto da Roma dopo combattimenti secolari,cioè l'unificazione dei disgregati elementi nazionali, sia stato giàprecedentemente sciolto anche da Alba. È inoltre notevole cheRoma, come erede d'Alba, non abbia mai fatto valere delle prete-se di dominio propriamente detto contro i comuni latini, ma si siacontentata di una presidenza onorifica, che certamente unita allaforza materiale, offrì più tardi un possente strumento per le prete-se egemoniche di Roma. In una questione come questa non si puòparlare di prove propriamente dette, o meno ancora considerarecome attendibili certe citazioni come quelle di FESTO, v. praetor, e

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erano probabilmente poco solide e quindi variabili; non-dimeno la federazione fin dal principio fu, e rimasesempre, non già un aggregato accidentale di diversi co-muni di genti più o meno straniere le une alle altre, sib-bene la vera e necessaria espressione della razza latina.

Se la lega latina non ha abbracciato in tutti i tempitutti i comuni latini, essa però non ha concesso in alcuntempo l'aggregazione ad altri comuni che non fossero la-tini. Il suo modello in Grecia non è l'amfizionia delfica,sibbene la confederazione beotica o etolica.

Questi contorni generali debbono bastare: qualsiasitentativo di tratteggiare le cose con maggior particolari-tà non potrebbe che deformare il quadro. Le varie e di-verse vicissitudini, che i più antichi atomi politici, i di-stretti, possono aver provato nel Lazio attraendosi o re-spingendosi a vicenda, si sono agitate senza lasciare te-stimonianze attendibili, e conviene limitarsi a porre infermo un fatto certo e indiscutibile, che, cioè, questemonadi politiche, unite in un centro comune, non rinun-ciarono già alla loro indipendenza individua, ma nutriro-no ed accrebbero il sentimento della unione nazionale, ecosì prepararono il progresso e il passaggio da quel par-ticolarismo cantonale, col quale deve cominciare e co-mincia ogni storia di popolo, a quella unità nazionale,colla quale ogni storia di popolo finisce o almeno do-vrebbe finire.

DIONIS., 3, 10, per trasformare Alba in una Atene latina.91

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erano probabilmente poco solide e quindi variabili; non-dimeno la federazione fin dal principio fu, e rimasesempre, non già un aggregato accidentale di diversi co-muni di genti più o meno straniere le une alle altre, sib-bene la vera e necessaria espressione della razza latina.

Se la lega latina non ha abbracciato in tutti i tempitutti i comuni latini, essa però non ha concesso in alcuntempo l'aggregazione ad altri comuni che non fossero la-tini. Il suo modello in Grecia non è l'amfizionia delfica,sibbene la confederazione beotica o etolica.

Questi contorni generali debbono bastare: qualsiasitentativo di tratteggiare le cose con maggior particolari-tà non potrebbe che deformare il quadro. Le varie e di-verse vicissitudini, che i più antichi atomi politici, i di-stretti, possono aver provato nel Lazio attraendosi o re-spingendosi a vicenda, si sono agitate senza lasciare te-stimonianze attendibili, e conviene limitarsi a porre infermo un fatto certo e indiscutibile, che, cioè, questemonadi politiche, unite in un centro comune, non rinun-ciarono già alla loro indipendenza individua, ma nutriro-no ed accrebbero il sentimento della unione nazionale, ecosì prepararono il progresso e il passaggio da quel par-ticolarismo cantonale, col quale deve cominciare e co-mincia ogni storia di popolo, a quella unità nazionale,colla quale ogni storia di popolo finisce o almeno do-vrebbe finire.

DIONIS., 3, 10, per trasformare Alba in una Atene latina.91

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QUARTO CAPITOLOLE ORIGINI DI ROMA

1 I Ramni. Chi risale il corso del Tevere, incontra acirca venticinque chilometri di distanza dalla sua foceun luogo, dove le sponde cominciano ad essere incoro-nate da piccoli colli, più elevati sulla diritta e meno sullasinistra; a questi umili monticoli è congiunto da almenoduemila e cinquecent'anni il grande nome di Roma.

Naturalmente non si può precisare come e quandoquesto nome abbia cominciato ad usarsi; soltanto è cer-to, che nella più antica nomenclatura storica da noi co-nosciuta, i soci del distretto delle colline del Tevere nonson detti Romani, sibbene Ramni (Ramnes), e questacontrazione caratteristica alla più antica fase della lin-gua, non più usata poi dai Latini è la prova evidentedell'antichità di questo nome. Non è possibile stabilirecon certezza l'etimologia della parola Ramni, ma è vero-simile che volesse significare boscaiuoli.

Ma essi non rimasero soli sulle colline sparse intornoalle sponde del Tevere.

2 I Luceri e i Tizi. Nelle tradizioni che si riferisco-no alla più antica cittadinanza romana si è conservato unindizio, dal quale si può dedurre che essa, formatasi conla fusione di tre distretti, forse prima indipendenti, dei

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QUARTO CAPITOLOLE ORIGINI DI ROMA

1 I Ramni. Chi risale il corso del Tevere, incontra acirca venticinque chilometri di distanza dalla sua foceun luogo, dove le sponde cominciano ad essere incoro-nate da piccoli colli, più elevati sulla diritta e meno sullasinistra; a questi umili monticoli è congiunto da almenoduemila e cinquecent'anni il grande nome di Roma.

Naturalmente non si può precisare come e quandoquesto nome abbia cominciato ad usarsi; soltanto è cer-to, che nella più antica nomenclatura storica da noi co-nosciuta, i soci del distretto delle colline del Tevere nonson detti Romani, sibbene Ramni (Ramnes), e questacontrazione caratteristica alla più antica fase della lin-gua, non più usata poi dai Latini è la prova evidentedell'antichità di questo nome. Non è possibile stabilirecon certezza l'etimologia della parola Ramni, ma è vero-simile che volesse significare boscaiuoli.

Ma essi non rimasero soli sulle colline sparse intornoalle sponde del Tevere.

2 I Luceri e i Tizi. Nelle tradizioni che si riferisco-no alla più antica cittadinanza romana si è conservato unindizio, dal quale si può dedurre che essa, formatasi conla fusione di tre distretti, forse prima indipendenti, dei

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Ramni, dei Tizi e dei Luceri, si costituisse poi in repub-blica indivisibile, e che la città di Roma perciò dovessela sua origine ad un sinoichismo come quello da cuinell'Attica è sorta Atene16.

A riprova dell'antichità di questa trinità di comuni stail fatto che i Romani, specialmente in affari politici egiuridici, invece delle parole spartire e parte, dicevanoregolarmente dividere in tre (tribuere) e terzo (tribus);ma questa espressione perdette presto il suo originariosignificato numerico, come il nostro quartiere. Ciascunodei tre comuni, ora distretti, possedeva una terza partedel territorio comunale, ed era rappresentato a condizio-ni di parità nella milizia civica e nel consiglio degli an-ziani; questa ripartizione si riscontra anche nelle cosesacre, tre in tutti i collegi, delle sacre vergini di Vesta,dei sommi sacerdoti di Giove, di Marte e di Quirino, deiSalii, dei fratelli Arvali, dei Luperci, degli Auguri. Dallariunione di queste tre genti, che costituiscono la più an-tica cittadinanza romana si trassero le più infondate ipo-tesi dalle quali derivò la stolta leggenda che la nazioneromana fosse una mescolanza di popoli, e la convinzio-ne che essa rappresenti le tre grandi razze italiche, ve-nendosi così a scambiare il popolo che più d'ogni altroha sviluppato con ingenita schiettezza la sua lingua, lasua politica e la sua religione, in un vituperevole miscu-

16 Non è condizione necessaria del sinoichismo un'effettivaconvivenza locale: ognuno può vivere sul suo particolare territo-rio come prima; ma dopo la fusione v'è un sol governo per tutti(TUCID., 2, 15; ERODOTO, 1, 170).

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Ramni, dei Tizi e dei Luceri, si costituisse poi in repub-blica indivisibile, e che la città di Roma perciò dovessela sua origine ad un sinoichismo come quello da cuinell'Attica è sorta Atene16.

A riprova dell'antichità di questa trinità di comuni stail fatto che i Romani, specialmente in affari politici egiuridici, invece delle parole spartire e parte, dicevanoregolarmente dividere in tre (tribuere) e terzo (tribus);ma questa espressione perdette presto il suo originariosignificato numerico, come il nostro quartiere. Ciascunodei tre comuni, ora distretti, possedeva una terza partedel territorio comunale, ed era rappresentato a condizio-ni di parità nella milizia civica e nel consiglio degli an-ziani; questa ripartizione si riscontra anche nelle cosesacre, tre in tutti i collegi, delle sacre vergini di Vesta,dei sommi sacerdoti di Giove, di Marte e di Quirino, deiSalii, dei fratelli Arvali, dei Luperci, degli Auguri. Dallariunione di queste tre genti, che costituiscono la più an-tica cittadinanza romana si trassero le più infondate ipo-tesi dalle quali derivò la stolta leggenda che la nazioneromana fosse una mescolanza di popoli, e la convinzio-ne che essa rappresenti le tre grandi razze italiche, ve-nendosi così a scambiare il popolo che più d'ogni altroha sviluppato con ingenita schiettezza la sua lingua, lasua politica e la sua religione, in un vituperevole miscu-

16 Non è condizione necessaria del sinoichismo un'effettivaconvivenza locale: ognuno può vivere sul suo particolare territo-rio come prima; ma dopo la fusione v'è un sol governo per tutti(TUCID., 2, 15; ERODOTO, 1, 170).

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glio di fuorusciti etruschi, sabini, greci e persino pela-sgici. Respinte le supposizioni in parte assurde, in parteinfondate, basteranno poche parole a riassumere quelche si può dire attorno all'origine nazionale degli ele-menti che formarono la più antica repubblica romana.

Non può essere messo in dubbio che i Ramni sianouna tribù latina, poichè essi diedero il nome alla nuovarepubblica romana, occuparono il primo posto fra i tredistretti fusi insieme, e determinarono la nazionalità delnuovo comune. Null'altro si può dire dell'origine dei Lu-ceri se non che nulla si oppone a considerarli, come iRamni, di stirpe latina. Il comune dei Tizii, invece, sipuò ritenere concordemente derivato dalla stirpe sabina:opinione senza alcun dubbio fondata sulla tradizioneconservatasi del consorzio Tizio, secondo la quale sisuppone che questo collegio sacerdotale sia stato fonda-to all'epoca dell'ingresso di questa gente nell'unione ro-mana, allo scopo di conservare il suo rito nazionale. E aRoma si trovano effettivamente tracce di siffatto anti-chissimo culto nazionale sabino, particolarmente in ono-re di Maurs o Marte, e di Semo Sanco accanto all'equi-valente latino Dius Fidius.

In quei remotissimi tempi, quando le schiatte latine ela sabellica non erano ancora, sia nella lingua, sia nelleistituzioni, venute a quel deciso antagonismo, che po-scia si determinò fra i Romani e i Sanniti, un comunesabellico entrò in una federazione di paesi latini, comequalche secolo più tardi avvenne col consorzio gentili-zio di Atto Claudio (Appio Claudio) che, ridottosi a

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glio di fuorusciti etruschi, sabini, greci e persino pela-sgici. Respinte le supposizioni in parte assurde, in parteinfondate, basteranno poche parole a riassumere quelche si può dire attorno all'origine nazionale degli ele-menti che formarono la più antica repubblica romana.

Non può essere messo in dubbio che i Ramni sianouna tribù latina, poichè essi diedero il nome alla nuovarepubblica romana, occuparono il primo posto fra i tredistretti fusi insieme, e determinarono la nazionalità delnuovo comune. Null'altro si può dire dell'origine dei Lu-ceri se non che nulla si oppone a considerarli, come iRamni, di stirpe latina. Il comune dei Tizii, invece, sipuò ritenere concordemente derivato dalla stirpe sabina:opinione senza alcun dubbio fondata sulla tradizioneconservatasi del consorzio Tizio, secondo la quale sisuppone che questo collegio sacerdotale sia stato fonda-to all'epoca dell'ingresso di questa gente nell'unione ro-mana, allo scopo di conservare il suo rito nazionale. E aRoma si trovano effettivamente tracce di siffatto anti-chissimo culto nazionale sabino, particolarmente in ono-re di Maurs o Marte, e di Semo Sanco accanto all'equi-valente latino Dius Fidius.

In quei remotissimi tempi, quando le schiatte latine ela sabellica non erano ancora, sia nella lingua, sia nelleistituzioni, venute a quel deciso antagonismo, che po-scia si determinò fra i Romani e i Sanniti, un comunesabellico entrò in una federazione di paesi latini, comequalche secolo più tardi avvenne col consorzio gentili-zio di Atto Claudio (Appio Claudio) che, ridottosi a

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Roma coi suoi clienti, ottenne un territorio coltivabilesulla sponda destra dell'Anio e in breve interamente sifuse con le genti romane. Qui vi fu dunque una mesco-lanza ma non perciò si potrebbero a ragione annoverarei Romani tra i popoli misti, e ad eccezione di alcune sin-golari istituzioni mantenute ne' riti speciali, non si ri-scontrano presso i Romani elementi sabellici e la lingualatina in particolare non offre il menomo argomento asimile ipotesi17.

E sarebbe in verità da meravigliare se l'ammissionetra le genti del Lazio d'un solo comune di nazionalitàstrettamente affine alla latina, avesse contaminato sensi-bilmente la pura origine nazionale dei Romani.

Non deve infine esser dimenticato che nel tempo incui i Tizi furono ammessi presso i Ramni, nella città, lanazionalità latina non risiedeva in Roma, ma nel Lazio.La nuova triplice repubblica romana altro non era, mal-grado la rapida latinizzazione dei Sabelli, che una parte

17 Dopo che fu da tutti abbandonata l'opinione che la lingualatina fosse una lingua composta di elementi greci e non greci, al-cuni investigatori, dotati alcuni di senno (come p. e. loSCHWEGLER, Stor. rom., 1, 184, 193) si sforzarono ciò non per tantodi trovare nella lingua latina un miscuglio di due dialetti italici af-fini. Ma indarno si chiedono prove dei fondamenti linguistici ostorici di una siffatta asserzione. Quando una lingua si collegacome anello intermediario tra due altre lingue, ogni etimologistasa che ciò può avvenire egualmente, ed anzi spesso avviene, inforza d'un proprio sviluppo organico, anzichè in seguito ad un mi-scuglio esteriore.

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Roma coi suoi clienti, ottenne un territorio coltivabilesulla sponda destra dell'Anio e in breve interamente sifuse con le genti romane. Qui vi fu dunque una mesco-lanza ma non perciò si potrebbero a ragione annoverarei Romani tra i popoli misti, e ad eccezione di alcune sin-golari istituzioni mantenute ne' riti speciali, non si ri-scontrano presso i Romani elementi sabellici e la lingualatina in particolare non offre il menomo argomento asimile ipotesi17.

E sarebbe in verità da meravigliare se l'ammissionetra le genti del Lazio d'un solo comune di nazionalitàstrettamente affine alla latina, avesse contaminato sensi-bilmente la pura origine nazionale dei Romani.

Non deve infine esser dimenticato che nel tempo incui i Tizi furono ammessi presso i Ramni, nella città, lanazionalità latina non risiedeva in Roma, ma nel Lazio.La nuova triplice repubblica romana altro non era, mal-grado la rapida latinizzazione dei Sabelli, che una parte

17 Dopo che fu da tutti abbandonata l'opinione che la lingualatina fosse una lingua composta di elementi greci e non greci, al-cuni investigatori, dotati alcuni di senno (come p. e. loSCHWEGLER, Stor. rom., 1, 184, 193) si sforzarono ciò non per tantodi trovare nella lingua latina un miscuglio di due dialetti italici af-fini. Ma indarno si chiedono prove dei fondamenti linguistici ostorici di una siffatta asserzione. Quando una lingua si collegacome anello intermediario tra due altre lingue, ogni etimologistasa che ciò può avvenire egualmente, ed anzi spesso avviene, inforza d'un proprio sviluppo organico, anzichè in seguito ad un mi-scuglio esteriore.

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della nazione latina; occupava cioè nella federazione ilposto tenuto prima dal comune dei Ramni.

3 Roma, emporio del Lazio. Molto tempo primache una colonia cittadina sorgesse sul Tevere, i Ramni, iTizi e i Luceri, prima divisi, poi uniti, devono aver avu-to la loro rocca sui colli tiberini e lavorato le loro terre,dimorando nei circostanti villaggi. La festa del lupo, chela famiglia dei Fabi celebrava sul monte Palatino18, puòessere una tradizione di quei remotissimi tempi; una fe-sta di contadini e di pastori che conserva i semplicischerzi della semplicità patriarcale e che, cosa singolare,si è conservata nella Roma cristiana più lungamente ditutte le altre feste pagane.

Da queste colonie sorse poi in seguito Roma.Non si può quindi parlare di una vera fondazione di

città, come vuole la leggenda: Roma non fu edificata inun giorno. È da considerare più attentamente comeRoma abbia potuto così rapidamente pervenire adun'eminente posizione politica fra i federati latini, men-tre date le condizioni del luogo si sarebbe dovuto aspet-tare il contrario.

Il suolo, sul quale fu fabbricata la città di Roma, èmeno salubre e meno fertile di quello del maggior nu-mero delle antiche città latine. Nelle immediate vicinan-ze di Roma, non prospera nè la vite, nè il fico, e vi difet-

18 Essendo i Quintili, nominati insieme ai Fabi, d'origine alba-na, ragion vuole che essi si siano uniti a' medesimi dopo la distru-zione d'Alba, come molto più tardi i Giuli.

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della nazione latina; occupava cioè nella federazione ilposto tenuto prima dal comune dei Ramni.

3 Roma, emporio del Lazio. Molto tempo primache una colonia cittadina sorgesse sul Tevere, i Ramni, iTizi e i Luceri, prima divisi, poi uniti, devono aver avu-to la loro rocca sui colli tiberini e lavorato le loro terre,dimorando nei circostanti villaggi. La festa del lupo, chela famiglia dei Fabi celebrava sul monte Palatino18, puòessere una tradizione di quei remotissimi tempi; una fe-sta di contadini e di pastori che conserva i semplicischerzi della semplicità patriarcale e che, cosa singolare,si è conservata nella Roma cristiana più lungamente ditutte le altre feste pagane.

Da queste colonie sorse poi in seguito Roma.Non si può quindi parlare di una vera fondazione di

città, come vuole la leggenda: Roma non fu edificata inun giorno. È da considerare più attentamente comeRoma abbia potuto così rapidamente pervenire adun'eminente posizione politica fra i federati latini, men-tre date le condizioni del luogo si sarebbe dovuto aspet-tare il contrario.

Il suolo, sul quale fu fabbricata la città di Roma, èmeno salubre e meno fertile di quello del maggior nu-mero delle antiche città latine. Nelle immediate vicinan-ze di Roma, non prospera nè la vite, nè il fico, e vi difet-

18 Essendo i Quintili, nominati insieme ai Fabi, d'origine alba-na, ragion vuole che essi si siano uniti a' medesimi dopo la distru-zione d'Alba, come molto più tardi i Giuli.

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ta l'acqua sorgiva. Nè l'ottima sorgente delle Camene,fuori della porta Capena, nè il pozzo capitolino compre-so più tardi nel tulliano, sono abbondanti d'acqua. A ciòsi aggiunga il frequente straripare del fiume, che a causadel lento pendio non può sfociare nel mare con la neces-saria celerità le piene alimentate dai torrenti durante lastagione piovosa; a cagion di che le acque, traboccando,impaludano poi nelle valli. Il luogo è tutt'altro che at-traente per l'agricoltore e fin dagli antichi tempi si disseche la prima colonia di contadini, che vi si stabilì, nonpuò aver preso dimora per naturale elezione in un luogocosì malsano e infecondo, e che perciò la necessità oqualche altra particolare ragione deve aver determinatola fondazione di questa città.

Anche la leggenda avverte questa singolarità. La nar-razione che ci rappresenta Roma fondata da fuoruscitid'Alba condotti da Romolo e Remo, figli d'un principealbano, non è altro che un ingenuo espediente dell'anti-chissima semistoria per spiegare la fondazione della cit-tà in un luogo tanto sfavorevole e, nello stesso tempo,per innestarne l'origine alla metropoli universale del La-zio.

La storia deve innanzi tutto sgombrare il terreno dicodeste favole, che vorrebbero apparire storia, e che in-vece non sono altro che poco spiritosi autoschediasmi:dopo di che le sarà forse concesso di fare un altro passo;e considerate le particolari condizioni de' luoghi, potràforse metter fuori una ragionata supposizione, non dicia-mo già sulla fondazione, ma sulle cause del rapido e mi-

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ta l'acqua sorgiva. Nè l'ottima sorgente delle Camene,fuori della porta Capena, nè il pozzo capitolino compre-so più tardi nel tulliano, sono abbondanti d'acqua. A ciòsi aggiunga il frequente straripare del fiume, che a causadel lento pendio non può sfociare nel mare con la neces-saria celerità le piene alimentate dai torrenti durante lastagione piovosa; a cagion di che le acque, traboccando,impaludano poi nelle valli. Il luogo è tutt'altro che at-traente per l'agricoltore e fin dagli antichi tempi si disseche la prima colonia di contadini, che vi si stabilì, nonpuò aver preso dimora per naturale elezione in un luogocosì malsano e infecondo, e che perciò la necessità oqualche altra particolare ragione deve aver determinatola fondazione di questa città.

Anche la leggenda avverte questa singolarità. La nar-razione che ci rappresenta Roma fondata da fuoruscitid'Alba condotti da Romolo e Remo, figli d'un principealbano, non è altro che un ingenuo espediente dell'anti-chissima semistoria per spiegare la fondazione della cit-tà in un luogo tanto sfavorevole e, nello stesso tempo,per innestarne l'origine alla metropoli universale del La-zio.

La storia deve innanzi tutto sgombrare il terreno dicodeste favole, che vorrebbero apparire storia, e che in-vece non sono altro che poco spiritosi autoschediasmi:dopo di che le sarà forse concesso di fare un altro passo;e considerate le particolari condizioni de' luoghi, potràforse metter fuori una ragionata supposizione, non dicia-mo già sulla fondazione, ma sulle cause del rapido e mi-

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rabile incremento di Roma e della sua situazione privile-giata in mezzo alle altre genti latine.

Consideriamo dunque anzitutto attentamente i più an-tichi confini del territorio romano: verso oriente, entro ilraggio d'un miglio dalle mura serviane – ond'è che iconfini del distretto romano devono essere stati prossimialle porte della città – sorgono le città d'Antenne, Fide-ne, Cenina, Collazia e Gabio. Verso mezzogiorno, aduna distanza di 15 miglia, si incontrano i potenti comunidi Tuscolo e di Alba; e sembra che da questo lato il ter-ritorio romano non si sia esteso oltre le fosse Cluilie a 5miglia da Roma. E così nella direzione sud-ovest il con-fine tra Roma e Lavinia non oltrepassava la sesta colon-na miliare.

Mentre il territorio romano è chiuso dalla parte di ter-ra in così angusti limiti, esso si estende invece da anti-chissimo tempo senza ostacoli lungo le due sponde delTevere verso il mare, e tra la città e il litorale nons'incontra nessun luogo importante che si mostri comeantico centro distrettuale e nessuna traccia di limiti con-finari.

La leggenda, che conosce il segreto di tutte le origini,narra come i possedimenti romani sulla sponda destradel Tevere, i sette villaggi (septem pagi) e le ricche sali-ne alle foci di questo fiume, siano state tolte dal re Ro-molo ai Veienti e come il re Anco abbia fortificato ilmonte di Giano (Ianiculum) sulla sponda destra del Te-vere, e fondato sulla sinistra il Pireo romano, la città delporto, posta alla bocca del fiume (Ostia).

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rabile incremento di Roma e della sua situazione privile-giata in mezzo alle altre genti latine.

Consideriamo dunque anzitutto attentamente i più an-tichi confini del territorio romano: verso oriente, entro ilraggio d'un miglio dalle mura serviane – ond'è che iconfini del distretto romano devono essere stati prossimialle porte della città – sorgono le città d'Antenne, Fide-ne, Cenina, Collazia e Gabio. Verso mezzogiorno, aduna distanza di 15 miglia, si incontrano i potenti comunidi Tuscolo e di Alba; e sembra che da questo lato il ter-ritorio romano non si sia esteso oltre le fosse Cluilie a 5miglia da Roma. E così nella direzione sud-ovest il con-fine tra Roma e Lavinia non oltrepassava la sesta colon-na miliare.

Mentre il territorio romano è chiuso dalla parte di ter-ra in così angusti limiti, esso si estende invece da anti-chissimo tempo senza ostacoli lungo le due sponde delTevere verso il mare, e tra la città e il litorale nons'incontra nessun luogo importante che si mostri comeantico centro distrettuale e nessuna traccia di limiti con-finari.

La leggenda, che conosce il segreto di tutte le origini,narra come i possedimenti romani sulla sponda destradel Tevere, i sette villaggi (septem pagi) e le ricche sali-ne alle foci di questo fiume, siano state tolte dal re Ro-molo ai Veienti e come il re Anco abbia fortificato ilmonte di Giano (Ianiculum) sulla sponda destra del Te-vere, e fondato sulla sinistra il Pireo romano, la città delporto, posta alla bocca del fiume (Ostia).

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Che i possedimenti sulla sponda etrusca siano sempreappartenuti piuttosto all'antichissima marca romana loprova bene il boschetto vicino alla quarta colonna milia-re della strada portuense, che vi fu posteriormente aper-ta; questo boschetto consacrato alla dea creatrice (deaDia) era l'antichissimo ritrovo della festa romanadell'agricoltura e della confraternita degli aratori; e in-fatti la gente dei Romilii, la più ragguardevole tra legenti romane, ebbe qui stanza e il Gianicolo era una par-te della città stessa; Ostia una colonia cittadina, ossiasobborgo. Ora tutto questo non può essere semplice ef-fetto del caso.

Il Tevere è la naturale strada commerciale del Lazio;la sua foce, in un litorale privo di porti, è il necessarioancoraggio dei naviganti. Inoltre il Tevere è da antichis-simi tempi la barriera della razza latina contro i vicinidel settentrione. Nessun luogo più di quello dove sorgeRoma era acconcio, sia come emporio del commerciolatino fluviale e marittimo, sia come piazzaforte maritti-ma del Lazio, poichè esso riuniva in sè i vantaggi di unaposizione forte e dell'immediata vicinanza del fiume;esso comandava le due rive fino alla foce, ciò che riu-sciva opportunissimo, tanto al barcaiolo che scendevapel Tevere e per l'Anio, quanto al navigatore, il quale,per la modesta portata delle navi di quei tempi, rifugian-dosi nel fiume, trovava maggior protezione contro la pi-rateria di quanto non ne trovasse sull'aperta spiaggia delmare.

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Che i possedimenti sulla sponda etrusca siano sempreappartenuti piuttosto all'antichissima marca romana loprova bene il boschetto vicino alla quarta colonna milia-re della strada portuense, che vi fu posteriormente aper-ta; questo boschetto consacrato alla dea creatrice (deaDia) era l'antichissimo ritrovo della festa romanadell'agricoltura e della confraternita degli aratori; e in-fatti la gente dei Romilii, la più ragguardevole tra legenti romane, ebbe qui stanza e il Gianicolo era una par-te della città stessa; Ostia una colonia cittadina, ossiasobborgo. Ora tutto questo non può essere semplice ef-fetto del caso.

Il Tevere è la naturale strada commerciale del Lazio;la sua foce, in un litorale privo di porti, è il necessarioancoraggio dei naviganti. Inoltre il Tevere è da antichis-simi tempi la barriera della razza latina contro i vicinidel settentrione. Nessun luogo più di quello dove sorgeRoma era acconcio, sia come emporio del commerciolatino fluviale e marittimo, sia come piazzaforte maritti-ma del Lazio, poichè esso riuniva in sè i vantaggi di unaposizione forte e dell'immediata vicinanza del fiume;esso comandava le due rive fino alla foce, ciò che riu-sciva opportunissimo, tanto al barcaiolo che scendevapel Tevere e per l'Anio, quanto al navigatore, il quale,per la modesta portata delle navi di quei tempi, rifugian-dosi nel fiume, trovava maggior protezione contro la pi-rateria di quanto non ne trovasse sull'aperta spiaggia delmare.

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Che Roma debba, se non la sua origine, almeno la suaimportanza a tali condizioni commerciali e strategiche,lo dimostrano anche altri numerosi indizi di ben mag-gior importanza che non le narrazioni di novellette investe storica. Da queste condizioni topografiche deriva-no le antichissime relazioni con Cere (Caere) la città piùvicina e l'alleata commerciale di Roma, la quale era perl'Etruria ciò che Roma era pel Lazio. Da ciò l'importan-za grandissima che nella repubblica romana si dava alponte sul Tevere, e in generale alla costruzione dei pon-ti; da ciò la galera come stemma della città, da ciò l'anti-chissimo dazio romano del porto, a cui da principio erasoggetto soltanto ciò che entrava in Ostia, o ne uscivaper essere venduto (promercale), e non ciò che servivapel proprio uso del caricatore (usuarium), insomma unavera e propria imposta sul commercio; da ciò infine, perdirlo in anticipazione, l'apparizione in Roma più prestoche altrove, delle monete coniate e dei trattati di com-mercio con paesi oltremarini.

Sotto questo aspetto si può dire, come vorrebbe laleggenda, che la città di Roma fu fondata in un luogoeletto apposta, e non cresciuta a caso, e che essa, tra lecittà latine, è piuttosto la più recente che la più antica.Non può dubitarsi che il suolo del Lazio fosse già inparte coltivato, e che il monte albano e parecchie altrealture della campagna, servissero già da rocche quandosul Tevere sorse l'emporio confinario dei Latini. Chi ar-direbbe ora affermare se la città di Roma sia sorta peruna decisione della lega latina, o se debba la sua esisten-

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Che Roma debba, se non la sua origine, almeno la suaimportanza a tali condizioni commerciali e strategiche,lo dimostrano anche altri numerosi indizi di ben mag-gior importanza che non le narrazioni di novellette investe storica. Da queste condizioni topografiche deriva-no le antichissime relazioni con Cere (Caere) la città piùvicina e l'alleata commerciale di Roma, la quale era perl'Etruria ciò che Roma era pel Lazio. Da ciò l'importan-za grandissima che nella repubblica romana si dava alponte sul Tevere, e in generale alla costruzione dei pon-ti; da ciò la galera come stemma della città, da ciò l'anti-chissimo dazio romano del porto, a cui da principio erasoggetto soltanto ciò che entrava in Ostia, o ne uscivaper essere venduto (promercale), e non ciò che servivapel proprio uso del caricatore (usuarium), insomma unavera e propria imposta sul commercio; da ciò infine, perdirlo in anticipazione, l'apparizione in Roma più prestoche altrove, delle monete coniate e dei trattati di com-mercio con paesi oltremarini.

Sotto questo aspetto si può dire, come vorrebbe laleggenda, che la città di Roma fu fondata in un luogoeletto apposta, e non cresciuta a caso, e che essa, tra lecittà latine, è piuttosto la più recente che la più antica.Non può dubitarsi che il suolo del Lazio fosse già inparte coltivato, e che il monte albano e parecchie altrealture della campagna, servissero già da rocche quandosul Tevere sorse l'emporio confinario dei Latini. Chi ar-direbbe ora affermare se la città di Roma sia sorta peruna decisione della lega latina, o se debba la sua esisten-

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za al colpo d'occhio profetico d'uno sconosciuto fonda-tore, o invece al naturale sviluppo dei commerci? A que-sta considerazione va aggiunta l'altra importantissimadella forma chiusa con cui questa città ci si presentò findagli albori della sua storia. Il costume latino di abitarevillaggi aperti e di raccogliersi nella rocca solo in occa-sione di feste e adunanze, o in caso di necessità, fu, se-condo ogni apparenza, modificato nella marca di Roma,assai prima che in qualunque altro luogo del Lazio. Nongià che il Romano abbia cessato di lavorare egli stesso isuoi poderi, o di considerarli come la sua vera e primaabitazione; ma se non altro la malaria della campagnadoveva far sì che egli prediligesse la dimora sulle piùventilate e salubri colline della città; e insieme ai conta-dini deve da antichissimo tempo aver preso dimora nellacittà una numerosa popolazione non agricola di forestie-ri e di indigeni. Così viene in qualche modo a spiegarsila densa popolazione dell'agro romano, il quale paludo-so in parte e arenoso, non occupava che una superficiedi cinque miglia e mezzo quadrate, e sin dai primordidella più antica costituzione somministrava già unaguardia cittadina di 3300 uomini liberi, e contava perciòalmeno 10.000 abitanti liberi. Ma ciò non basta. Chi co-nosce i Romani e la loro storia, sa che il carattere parti-colare della loro attività pubblica e privata dipende dallaloro vita cittadina e mercantile, e che l'antitesi fra i Ro-mani e gli altri Latini, e specialmente tra i Romani e gliItalici, è innanzi tutto l'antitesi tra il cittadino e il conta-dino. Non già che Roma sia una città mercantile come

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za al colpo d'occhio profetico d'uno sconosciuto fonda-tore, o invece al naturale sviluppo dei commerci? A que-sta considerazione va aggiunta l'altra importantissimadella forma chiusa con cui questa città ci si presentò findagli albori della sua storia. Il costume latino di abitarevillaggi aperti e di raccogliersi nella rocca solo in occa-sione di feste e adunanze, o in caso di necessità, fu, se-condo ogni apparenza, modificato nella marca di Roma,assai prima che in qualunque altro luogo del Lazio. Nongià che il Romano abbia cessato di lavorare egli stesso isuoi poderi, o di considerarli come la sua vera e primaabitazione; ma se non altro la malaria della campagnadoveva far sì che egli prediligesse la dimora sulle piùventilate e salubri colline della città; e insieme ai conta-dini deve da antichissimo tempo aver preso dimora nellacittà una numerosa popolazione non agricola di forestie-ri e di indigeni. Così viene in qualche modo a spiegarsila densa popolazione dell'agro romano, il quale paludo-so in parte e arenoso, non occupava che una superficiedi cinque miglia e mezzo quadrate, e sin dai primordidella più antica costituzione somministrava già unaguardia cittadina di 3300 uomini liberi, e contava perciòalmeno 10.000 abitanti liberi. Ma ciò non basta. Chi co-nosce i Romani e la loro storia, sa che il carattere parti-colare della loro attività pubblica e privata dipende dallaloro vita cittadina e mercantile, e che l'antitesi fra i Ro-mani e gli altri Latini, e specialmente tra i Romani e gliItalici, è innanzi tutto l'antitesi tra il cittadino e il conta-dino. Non già che Roma sia una città mercantile come

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Corinto o Cartagine, poichè il Lazio è un paese essen-zialmente agricolo, e Roma fu e rimane sempre una cittàlatina. Ma ciò che distingue Roma tra il gran numerodelle altre città latine è la sua posizione commerciale e ilsuo spirito cittadino. Se Roma fu l'emporio e il mercatodei paesi latini, è naturale che accanto, anzi al disopradell'economia rurale latina, si venisse svolgendo conforza e celerità una forma di vivere cittadino, e che conquesto si preparassero le fondamenta di una successivaseparazione.

Seguire questo sviluppo mercantile e strategico diRoma è impresa molto più importante e meno disagevo-le che l'inutile compito di sottoporre ad analisi chimicaaltri comuni del mondo antico, poco diversi gli uni daglialtri, e senza alcuna speciale caratteristica. E noi possia-mo in qualche modo seguire quello sviluppo urbano nel-le tradizioni intorno alle successive costruzioni dellemura e dei valli che circondarono Roma, la cui topogra-fia interna deve necessariamente essere venuta a mano amano proporzionandosi allo accrescimento del comune.

4 La città palatina e i sette colli. Il piano topogra-fico delle primitive costruzioni dalle quali nel corso deisecoli è sorta Roma, secondo testimonianze degne difede, comprendeva soltanto il Palatino e più tardi anchela «Roma quadrata», chiamata così dalla irregolare for-ma quadrangolare del colle Palatino. Le porte e le muracontornanti questa primitiva città rimasero visibili finoall'epoca imperiale; l'ubicazione di due porte, la Roma-

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Corinto o Cartagine, poichè il Lazio è un paese essen-zialmente agricolo, e Roma fu e rimane sempre una cittàlatina. Ma ciò che distingue Roma tra il gran numerodelle altre città latine è la sua posizione commerciale e ilsuo spirito cittadino. Se Roma fu l'emporio e il mercatodei paesi latini, è naturale che accanto, anzi al disopradell'economia rurale latina, si venisse svolgendo conforza e celerità una forma di vivere cittadino, e che conquesto si preparassero le fondamenta di una successivaseparazione.

Seguire questo sviluppo mercantile e strategico diRoma è impresa molto più importante e meno disagevo-le che l'inutile compito di sottoporre ad analisi chimicaaltri comuni del mondo antico, poco diversi gli uni daglialtri, e senza alcuna speciale caratteristica. E noi possia-mo in qualche modo seguire quello sviluppo urbano nel-le tradizioni intorno alle successive costruzioni dellemura e dei valli che circondarono Roma, la cui topogra-fia interna deve necessariamente essere venuta a mano amano proporzionandosi allo accrescimento del comune.

4 La città palatina e i sette colli. Il piano topogra-fico delle primitive costruzioni dalle quali nel corso deisecoli è sorta Roma, secondo testimonianze degne difede, comprendeva soltanto il Palatino e più tardi anchela «Roma quadrata», chiamata così dalla irregolare for-ma quadrangolare del colle Palatino. Le porte e le muracontornanti questa primitiva città rimasero visibili finoall'epoca imperiale; l'ubicazione di due porte, la Roma-

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nula presso San Giorgio in Velabro e la Mugonia pressol'arco di Tito, ci è nota ancora e la cerchia di mura pala-tine è descritta da Tacito, come egli stesso la vide, alme-no nei lati rivolti all'Aventino e al Celio. Parecchi indiziprovano che questo fosse il centro e la sede primitivadella colonia cittadina.

Sul Palatino si trovava il sacro simbolo, il cosiddettoMundus, nel quale i primi coloni avevano deposto ab-bondantemente tutto ciò che occorre alla casa ed unazolla della cara terra natia. Qui era l'edificio nel quale siradunavano tutte le curie (curiae veteres), ciascuna alproprio focolare, per il culto divino ed altri scopi. Quiera il santuario (curia saliorum), che era nello stessotempo il luogo dove si conservava il sacro scudo diMarte, il santuario dei lupi (lupercal) e l'abitazione delsacerdote di Giove. Sopra e vicino a questo colle, venneprincipalmente localizzata la leggenda della fondazionedi Roma, e venivano indicati ai credenti la casa di Ro-molo coperta di paglia, la capanna del suo padre adotti-vo Faustolo, il fico ruminale presso il quale era stataspinta la cesta coi gemelli; l'albero di corniolo, ch'erasorto dal legno della lancia che fu il fondatore della cittàaveva lanciata dall'Aventino oltre la valle del circo inquesta cerchia di mura, ed altre simili reliquie.Quest'epoca non conosceva ancora dei veri templi, equindi nemmeno il Palatino ne conserva delle epochepiù antiche. Ma le sedi comunali sono state ben prestotrasportate altrove e perciò dimenticate; solo si può sup-porre che lo spazio aperto, intorno al Mundus, chiamato

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nula presso San Giorgio in Velabro e la Mugonia pressol'arco di Tito, ci è nota ancora e la cerchia di mura pala-tine è descritta da Tacito, come egli stesso la vide, alme-no nei lati rivolti all'Aventino e al Celio. Parecchi indiziprovano che questo fosse il centro e la sede primitivadella colonia cittadina.

Sul Palatino si trovava il sacro simbolo, il cosiddettoMundus, nel quale i primi coloni avevano deposto ab-bondantemente tutto ciò che occorre alla casa ed unazolla della cara terra natia. Qui era l'edificio nel quale siradunavano tutte le curie (curiae veteres), ciascuna alproprio focolare, per il culto divino ed altri scopi. Quiera il santuario (curia saliorum), che era nello stessotempo il luogo dove si conservava il sacro scudo diMarte, il santuario dei lupi (lupercal) e l'abitazione delsacerdote di Giove. Sopra e vicino a questo colle, venneprincipalmente localizzata la leggenda della fondazionedi Roma, e venivano indicati ai credenti la casa di Ro-molo coperta di paglia, la capanna del suo padre adotti-vo Faustolo, il fico ruminale presso il quale era stataspinta la cesta coi gemelli; l'albero di corniolo, ch'erasorto dal legno della lancia che fu il fondatore della cittàaveva lanciata dall'Aventino oltre la valle del circo inquesta cerchia di mura, ed altre simili reliquie.Quest'epoca non conosceva ancora dei veri templi, equindi nemmeno il Palatino ne conserva delle epochepiù antiche. Ma le sedi comunali sono state ben prestotrasportate altrove e perciò dimenticate; solo si può sup-porre che lo spazio aperto, intorno al Mundus, chiamato

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più tardi piazza di Apollo, il più antico luogo per l'adu-nanza dei cittadini e del senato, e la tribuna eretta sopralo stesso Mundus, abbiano potuto essere il più anticocentro del comune romano. Si è invece conservato, nella«Festa dei sette monti» (Septimontium), il ricordo dellastessa colonia che si è formata man mano intorno al Pa-latino. L'uno dopo l'altro i sobborghi sorgevano, protettociascuno da baluardi particolari, ma più deboli, e appog-giati alla primitiva cerchia di mura del Palatino, comenelle maremme le dighe esterne si appoggiano alla prin-cipale.

I sette monti sono: il Palatino stesso, il Germalo, cheè il pendio del Palatino verso la bassura (Velabrum) ilquale si estendeva verso il fiume fra il Palatino e ilCampidoglio; la Velia, dorso di colline che univa il Pa-latino all'Esquilino e che più tardi scomparve quasi inte-ramente sotto gli edifizi dei Cesari; il Fagutale, l'Oppioe il Cispio, che sono i tre culmini dell'Esquilino; e infinela Sucusa o Subura, fortezza posta al di fuori del baluar-do che proteggeva la città nuova sulle Carine, al di sottodi San Pietro in Vincoli, fra l'Esquilino e il Quirinale.

Su queste costruzioni, certamente succedutesi pergradi, si legge chiaramente la più antica storia dellaRoma palatina fino ad un certo punto, specialmente se siricollega ad essa la ripartizione distrettuale di Servio,formata sulla base di questa antichissima divisione.

Il monte Palatino fu e rimase in tutti i tempi la partepiù ragguardevole del comune romano, la più antica e,primitivamente, unica cerchia di mura, ma la colonia

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più tardi piazza di Apollo, il più antico luogo per l'adu-nanza dei cittadini e del senato, e la tribuna eretta sopralo stesso Mundus, abbiano potuto essere il più anticocentro del comune romano. Si è invece conservato, nella«Festa dei sette monti» (Septimontium), il ricordo dellastessa colonia che si è formata man mano intorno al Pa-latino. L'uno dopo l'altro i sobborghi sorgevano, protettociascuno da baluardi particolari, ma più deboli, e appog-giati alla primitiva cerchia di mura del Palatino, comenelle maremme le dighe esterne si appoggiano alla prin-cipale.

I sette monti sono: il Palatino stesso, il Germalo, cheè il pendio del Palatino verso la bassura (Velabrum) ilquale si estendeva verso il fiume fra il Palatino e ilCampidoglio; la Velia, dorso di colline che univa il Pa-latino all'Esquilino e che più tardi scomparve quasi inte-ramente sotto gli edifizi dei Cesari; il Fagutale, l'Oppioe il Cispio, che sono i tre culmini dell'Esquilino; e infinela Sucusa o Subura, fortezza posta al di fuori del baluar-do che proteggeva la città nuova sulle Carine, al di sottodi San Pietro in Vincoli, fra l'Esquilino e il Quirinale.

Su queste costruzioni, certamente succedutesi pergradi, si legge chiaramente la più antica storia dellaRoma palatina fino ad un certo punto, specialmente se siricollega ad essa la ripartizione distrettuale di Servio,formata sulla base di questa antichissima divisione.

Il monte Palatino fu e rimase in tutti i tempi la partepiù ragguardevole del comune romano, la più antica e,primitivamente, unica cerchia di mura, ma la colonia

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cittadina non ha cominciato, in Roma, come nemmenoaltrove, al di dentro della rocca, bensì al di sotto di essa,e le più antiche colonie che noi conosciamo, quelle chepiù tardi costituiscono i vari quartieri della città servia-na, formano tutte un cerchio intorno al Palatino. Così fudella colonia sul pendio del Germalo col «vico Tusco»,il cui nome può ben indicare le attive relazioni commer-ciali fra Ceriti e Romani, e così della colonia sulla Velia,le quali hanno formato nella città serviana un quartieresolo con il colle della rocca. Lo stesso si dica delle partidel secondo quartiere; il sobborgo sul Celio, il qualeprobabilmente ha occupato solo l'estrema punta sopra ilColosseo; il bisogno de le Carine che è l'altura dallaquale l'Esquilino muove verso il Palatino, e finalmentela valle e il suburbio della Subura, da cui tutto il quartie-re prese nome. I due quartieri uniti formano la città pri-mitiva, e il distretto suburbano di essa, che si estendevaal di sotto della rocca, forse dall'arco di Costantino sinoa San Pietro in Vincoli, e al di sopra della valle, pare siastato più ragguardevole e forse più antico che non le co-lonie incorporate secondo l'ordinamento di Servio Tul-lio, nel distretto Palatino, poichè quello precede questonella classificazione dei quartieri. Un curioso episodiodell'antagonismo fra questi due quartieri è stato conser-vato da uno dei più antichi usi sacri di Roma, il sacrifi-cio del cavallo di ottobre che si compiva ogni anno nelcampo Marzio. Fino ad epoche assai posteriori, gli uo-mini della Subura e quelli della Via Sacra scendevano acontesa, durante questa festa, per la testa del cavallo e

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cittadina non ha cominciato, in Roma, come nemmenoaltrove, al di dentro della rocca, bensì al di sotto di essa,e le più antiche colonie che noi conosciamo, quelle chepiù tardi costituiscono i vari quartieri della città servia-na, formano tutte un cerchio intorno al Palatino. Così fudella colonia sul pendio del Germalo col «vico Tusco»,il cui nome può ben indicare le attive relazioni commer-ciali fra Ceriti e Romani, e così della colonia sulla Velia,le quali hanno formato nella città serviana un quartieresolo con il colle della rocca. Lo stesso si dica delle partidel secondo quartiere; il sobborgo sul Celio, il qualeprobabilmente ha occupato solo l'estrema punta sopra ilColosseo; il bisogno de le Carine che è l'altura dallaquale l'Esquilino muove verso il Palatino, e finalmentela valle e il suburbio della Subura, da cui tutto il quartie-re prese nome. I due quartieri uniti formano la città pri-mitiva, e il distretto suburbano di essa, che si estendevaal di sotto della rocca, forse dall'arco di Costantino sinoa San Pietro in Vincoli, e al di sopra della valle, pare siastato più ragguardevole e forse più antico che non le co-lonie incorporate secondo l'ordinamento di Servio Tul-lio, nel distretto Palatino, poichè quello precede questonella classificazione dei quartieri. Un curioso episodiodell'antagonismo fra questi due quartieri è stato conser-vato da uno dei più antichi usi sacri di Roma, il sacrifi-cio del cavallo di ottobre che si compiva ogni anno nelcampo Marzio. Fino ad epoche assai posteriori, gli uo-mini della Subura e quelli della Via Sacra scendevano acontesa, durante questa festa, per la testa del cavallo e

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secondo vincevano gli uni o gli altri, essa veniva inchio-data o sulla torre Mamilia (di posizione ignota) nellaSubura, o sulla Regia sotto il Palatino. Erano le duemetà della città antica che qui lottavano fra di loro in le-gittima gara.

Allora le Esquilie (il qual nome, propriamente usato,esclude le Carine) erano, secondo il significato della pa-rola, le costruzioni esterne (ex-quiliae, come inquilinus,da colere) ossia il suburbio, che nella successiva divisio-ne della città divennero il terzo quartiere, e questo,come pure il Suburano e il Palatino, fu sempre tenuto inminore considerazione. Anche altre vicine alture, comeil Campidoglio e l'Aventino, possono essere state occu-pate dal comune dei sette colli, nonchè il ponte sui pali(pons sublicius), sopra i pilastri naturali dell'isola tiberi-na, che sarà esistito già allora, come lo prova a suffi-cienza il collegio pontificale, e non si sarà lasciata senzadifesa la testa di ponte sulla riva etrusca e la cima delGianicolo. Ma il comune non li aveva ancora racchiusinella sua cerchia di fortificazioni.

La necessità che il ponte potesse da un momentoall'altro, per ragioni strategiche, venire distrutto o arso,fece nascere la massima rituale che i ponti fossero vo-lanti e costruiti esclusivamente di legno. Con ciò si spie-ga come per lungo tempo il comune romano abbia do-minato il passaggio del fiume solo in modo incerto esaltuario. Ma non è possibile stabilire una relazione traqueste colonie gradatamente sorgenti e i tre comuni neiquali Roma si divideva legalmente già da tempo imme-

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secondo vincevano gli uni o gli altri, essa veniva inchio-data o sulla torre Mamilia (di posizione ignota) nellaSubura, o sulla Regia sotto il Palatino. Erano le duemetà della città antica che qui lottavano fra di loro in le-gittima gara.

Allora le Esquilie (il qual nome, propriamente usato,esclude le Carine) erano, secondo il significato della pa-rola, le costruzioni esterne (ex-quiliae, come inquilinus,da colere) ossia il suburbio, che nella successiva divisio-ne della città divennero il terzo quartiere, e questo,come pure il Suburano e il Palatino, fu sempre tenuto inminore considerazione. Anche altre vicine alture, comeil Campidoglio e l'Aventino, possono essere state occu-pate dal comune dei sette colli, nonchè il ponte sui pali(pons sublicius), sopra i pilastri naturali dell'isola tiberi-na, che sarà esistito già allora, come lo prova a suffi-cienza il collegio pontificale, e non si sarà lasciata senzadifesa la testa di ponte sulla riva etrusca e la cima delGianicolo. Ma il comune non li aveva ancora racchiusinella sua cerchia di fortificazioni.

La necessità che il ponte potesse da un momentoall'altro, per ragioni strategiche, venire distrutto o arso,fece nascere la massima rituale che i ponti fossero vo-lanti e costruiti esclusivamente di legno. Con ciò si spie-ga come per lungo tempo il comune romano abbia do-minato il passaggio del fiume solo in modo incerto esaltuario. Ma non è possibile stabilire una relazione traqueste colonie gradatamente sorgenti e i tre comuni neiquali Roma si divideva legalmente già da tempo imme-

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morabile. Poichè i Ramni, i Tizi e i Luceri sembrano es-ser stati originariamente comuni indipendenti, essi de-vono naturalmente aver colonizzato in origine e ciascu-no per proprio conto; ma sui sette colli essi certamentenon hanno abitato in valli separati e ciò che nei tempiantichi o nei moderni è stato inventato attorno aquell'epoca, verrà relegato dall'intelligente investigatoretra le graziose favole di Tarpeia e del combattimento sulPalatino.

È più facile che i due quartieri della più antica città, laSubura e il Palatino, come pure il quartiere suburbano,siano stati divisi ciascuno in tre parti fra Ramni, Tizi eLuceri; come sembra dall'esistenza delle tre paia di cap-pelle Argee.

Forse la città palatina dei sette colli ha avuto una sto-ria, ma a noi non ne è rimasta altra testimonianzaall'infuori della sola notizia della sua esistenza.

Come le foglie morte della foresta preparano la nuovavita, anche quando cadono non vedute da occhio umano,così pure, questa dimenticata città dei sette colli ha pre-parato l'humus alla Roma storica.

5 I Romani sul colle del Quirinale. Ma in queitempi la città palatina non è stata la sola ad esistere trale mura serviane; anzi, di fronte ad essa, e vicinissima,un'altra ne sorgeva sul Quirinale. La «rocca antica»(Capitolium vetus) con un santuario di Giove, Giunonee Minerva e col tempio della dea Fede servata, nellaquale si conservano i trattati tra gli stati, è la precisa co-

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morabile. Poichè i Ramni, i Tizi e i Luceri sembrano es-ser stati originariamente comuni indipendenti, essi de-vono naturalmente aver colonizzato in origine e ciascu-no per proprio conto; ma sui sette colli essi certamentenon hanno abitato in valli separati e ciò che nei tempiantichi o nei moderni è stato inventato attorno aquell'epoca, verrà relegato dall'intelligente investigatoretra le graziose favole di Tarpeia e del combattimento sulPalatino.

È più facile che i due quartieri della più antica città, laSubura e il Palatino, come pure il quartiere suburbano,siano stati divisi ciascuno in tre parti fra Ramni, Tizi eLuceri; come sembra dall'esistenza delle tre paia di cap-pelle Argee.

Forse la città palatina dei sette colli ha avuto una sto-ria, ma a noi non ne è rimasta altra testimonianzaall'infuori della sola notizia della sua esistenza.

Come le foglie morte della foresta preparano la nuovavita, anche quando cadono non vedute da occhio umano,così pure, questa dimenticata città dei sette colli ha pre-parato l'humus alla Roma storica.

5 I Romani sul colle del Quirinale. Ma in queitempi la città palatina non è stata la sola ad esistere trale mura serviane; anzi, di fronte ad essa, e vicinissima,un'altra ne sorgeva sul Quirinale. La «rocca antica»(Capitolium vetus) con un santuario di Giove, Giunonee Minerva e col tempio della dea Fede servata, nellaquale si conservano i trattati tra gli stati, è la precisa co-

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pia del Campidoglio, col suo tempio di Giove, Giunonee Minerva e col tempio della Fede romana destinato adarchivio del diritto pubblico ed è pure una riprova cheanche il Quirinale era il centro di un comune indipen-dente.

Ciò si deduce dal duplice culto di Marte sul Palatino esul Quirinale, poichè Marte è il simbolo dell'uomo diguerra e il più antico e principale dio delle città italiane.A ciò si aggiunga che nel corteo dei sacerdoti, le due an-tiche corporazioni dei Salii e dei Luperci, appaiono piùtardi in Roma doppie: una confraternita dei Salii è esi-stita tanto sul Palatino quanto sul Quirinale, e insieme aiLupi Quintilii del Palatino è esistita pure una federazio-ne lupercale Fabica, che possedeva probabilmente il suosantuario sul Quirinale.

Tutti questi indizi, che han già di per se stessi grandevalore, acquistano maggiore importanza, se si considerache la cerchia conosciuta della città palatina dei settecolli escludeva il Quirinale, e che più tardi, nella Romaserviana, mentre i tre primi distretti corrispondonoall'antica città palatina, dal Quirinale e dal vicino Vimi-nale venne formato il quarto quartiere. Così si spiegaanche per quale scopo fosse edificato il sobborgo dellaSubura al di fuori delle mura cittadine, nella valle fral'Esquilino e il Quirinale; qui le due marche si toccava-no, e i Palatini, dopo aver preso possesso della bassura,dovevano erigere una rocca per difenderla contro quellidel Quirinale. Infine non è cancellato nemmeno il nomecol quale gli uomini del Quirinale si distinguevano dai

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pia del Campidoglio, col suo tempio di Giove, Giunonee Minerva e col tempio della Fede romana destinato adarchivio del diritto pubblico ed è pure una riprova cheanche il Quirinale era il centro di un comune indipen-dente.

Ciò si deduce dal duplice culto di Marte sul Palatino esul Quirinale, poichè Marte è il simbolo dell'uomo diguerra e il più antico e principale dio delle città italiane.A ciò si aggiunga che nel corteo dei sacerdoti, le due an-tiche corporazioni dei Salii e dei Luperci, appaiono piùtardi in Roma doppie: una confraternita dei Salii è esi-stita tanto sul Palatino quanto sul Quirinale, e insieme aiLupi Quintilii del Palatino è esistita pure una federazio-ne lupercale Fabica, che possedeva probabilmente il suosantuario sul Quirinale.

Tutti questi indizi, che han già di per se stessi grandevalore, acquistano maggiore importanza, se si considerache la cerchia conosciuta della città palatina dei settecolli escludeva il Quirinale, e che più tardi, nella Romaserviana, mentre i tre primi distretti corrispondonoall'antica città palatina, dal Quirinale e dal vicino Vimi-nale venne formato il quarto quartiere. Così si spiegaanche per quale scopo fosse edificato il sobborgo dellaSubura al di fuori delle mura cittadine, nella valle fral'Esquilino e il Quirinale; qui le due marche si toccava-no, e i Palatini, dopo aver preso possesso della bassura,dovevano erigere una rocca per difenderla contro quellidel Quirinale. Infine non è cancellato nemmeno il nomecol quale gli uomini del Quirinale si distinguevano dai

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loro vicini, i Palatini. I cittadini della città palatina, de-nominata dei «Sette Colli», si chiamano dei Monti o«Montani»; e la denominazione Monte si dà special-mente al Palatino e alle altre alture annesse, mentre lapunta del Quirinale, non certo più bassa, anzi un po' piùalta di quella del Palatino, e la contigua punta Viminale,nell'uso comune, era indicata soltanto come colle (col-lis); anzi nei documenti sacri non di rado il Quirinaleviene indicato senz'altra aggiunta che con il nome diColle.

E così anche la porta d'accesso a questa altura si chia-ma comunemente la «Porta Collina»; il collegio sacer-dotale di Marte, colà residente, si chiamava dei saliicollini in contrapposto ai salii palatini, ed il quartoquartiere serviano, formato da questo distretto, si deno-minava la tribus collina. Il nome di «Romani», unitocertamente alla regione, l'avran probabilmente acquista-to tanto i Romani del colle quanto quelli dei monti ecosì si saranno forse chiamati Romani collini. È possibi-le che l'antitesi delle due città vicine sia derivata da unadifferenza di razza, ma mancano assolutamente le proveatte a dimostrare di razza straniera un comune fondatosu suolo latino, come mancano pure assolutamente per ilcomune Quirinale.

6 Relazione tra i comuni palatini e romani.Dunque, invece della repubblica romana, esistevano inquel tempo due comuni separati, il monte Palatino e ilcolle Quirinale e senza dubbio ostili l'uno all'altro, osti-

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loro vicini, i Palatini. I cittadini della città palatina, de-nominata dei «Sette Colli», si chiamano dei Monti o«Montani»; e la denominazione Monte si dà special-mente al Palatino e alle altre alture annesse, mentre lapunta del Quirinale, non certo più bassa, anzi un po' piùalta di quella del Palatino, e la contigua punta Viminale,nell'uso comune, era indicata soltanto come colle (col-lis); anzi nei documenti sacri non di rado il Quirinaleviene indicato senz'altra aggiunta che con il nome diColle.

E così anche la porta d'accesso a questa altura si chia-ma comunemente la «Porta Collina»; il collegio sacer-dotale di Marte, colà residente, si chiamava dei saliicollini in contrapposto ai salii palatini, ed il quartoquartiere serviano, formato da questo distretto, si deno-minava la tribus collina. Il nome di «Romani», unitocertamente alla regione, l'avran probabilmente acquista-to tanto i Romani del colle quanto quelli dei monti ecosì si saranno forse chiamati Romani collini. È possibi-le che l'antitesi delle due città vicine sia derivata da unadifferenza di razza, ma mancano assolutamente le proveatte a dimostrare di razza straniera un comune fondatosu suolo latino, come mancano pure assolutamente per ilcomune Quirinale.

6 Relazione tra i comuni palatini e romani.Dunque, invece della repubblica romana, esistevano inquel tempo due comuni separati, il monte Palatino e ilcolle Quirinale e senza dubbio ostili l'uno all'altro, osti-

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lità che pare ancor oggi ravvisarsi nell'antagonismo traMonticiani e Trasteverini.

È certo però che il comune dei sette colli sorpassò inestensione assai presto e di gran lunga quello del Quiri-nale fino ad obbligarlo a modificare la sua ubicazionenel successivo ordinamento serviano.

Ma anche nell'interno delle mura serviane, nella cittàpalatina, non si giunge molto facilmente ad una propriae compiuta fusione dei diversi elementi della colonia. Ègià stato detto come la Subura e il Palatino contendesse-ro annualmente per la testa del cavallo, ma anche i sin-goli monti, anzi le singole curie (non v'era ancora nellacittà un focolare comune ma i diversi focolari curialicoesistevano nella stessa località) si saranno sentiti piut-tosto separati che uniti e l'intera Roma sarà stata un in-sieme di colonie cittadine piuttosto che una città pro-priamente detta.

Secondo parecchi indizi anche le case di antiche e po-tenti famiglie erano costruite quasi a modo di fortezze,ed erano capaci, e quindi bisognose di difesa. Il grandio-so baluardo attribuito al re Servio Tullio, cinse con unpossente giro di mura non solo le due città del Palatino edel Quirinale, ma anche le alture del Campidoglio edell'Aventino, e creò quindi la nuova Roma, la Romadella storia universale. Ma già prima che si desse manoa quest'opera gigantesca, la posizione di Roma nei con-fronti dai popoli vicini era sostanzialmente cambiata.Come l'epoca in cui l'agricoltore conduceva l'aratro suisette colli di Roma, e i luoghi d'asilo, sulle singole cime,

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lità che pare ancor oggi ravvisarsi nell'antagonismo traMonticiani e Trasteverini.

È certo però che il comune dei sette colli sorpassò inestensione assai presto e di gran lunga quello del Quiri-nale fino ad obbligarlo a modificare la sua ubicazionenel successivo ordinamento serviano.

Ma anche nell'interno delle mura serviane, nella cittàpalatina, non si giunge molto facilmente ad una propriae compiuta fusione dei diversi elementi della colonia. Ègià stato detto come la Subura e il Palatino contendesse-ro annualmente per la testa del cavallo, ma anche i sin-goli monti, anzi le singole curie (non v'era ancora nellacittà un focolare comune ma i diversi focolari curialicoesistevano nella stessa località) si saranno sentiti piut-tosto separati che uniti e l'intera Roma sarà stata un in-sieme di colonie cittadine piuttosto che una città pro-priamente detta.

Secondo parecchi indizi anche le case di antiche e po-tenti famiglie erano costruite quasi a modo di fortezze,ed erano capaci, e quindi bisognose di difesa. Il grandio-so baluardo attribuito al re Servio Tullio, cinse con unpossente giro di mura non solo le due città del Palatino edel Quirinale, ma anche le alture del Campidoglio edell'Aventino, e creò quindi la nuova Roma, la Romadella storia universale. Ma già prima che si desse manoa quest'opera gigantesca, la posizione di Roma nei con-fronti dai popoli vicini era sostanzialmente cambiata.Come l'epoca in cui l'agricoltore conduceva l'aratro suisette colli di Roma, e i luoghi d'asilo, sulle singole cime,

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

vuoti in tempi ordinari, offrivano un principio di più si-cura colonizzazione, corrisponde alla più antica epocadella razza priva di commercio e di attività: come piùtardi il fiorire della colonia sul Palatino e sui sette collicoincide con l'occupazione delle foci del Tevere, conl'avviamento dei latini a un commercio più attivo e piùlibero, a costumi, specialmente in Roma, cittadineschi ead una più solida unità politica dei singoli stati dellaconfederazione, così la fondazione di un'unica grandecittà, il recinto murale di Servio, coincide con l'epoca incui Roma si sentì in grado di lottare per la signoria dellaconfederazione latina che riuscì ad ottenere.

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vuoti in tempi ordinari, offrivano un principio di più si-cura colonizzazione, corrisponde alla più antica epocadella razza priva di commercio e di attività: come piùtardi il fiorire della colonia sul Palatino e sui sette collicoincide con l'occupazione delle foci del Tevere, conl'avviamento dei latini a un commercio più attivo e piùlibero, a costumi, specialmente in Roma, cittadineschi ead una più solida unità politica dei singoli stati dellaconfederazione, così la fondazione di un'unica grandecittà, il recinto murale di Servio, coincide con l'epoca incui Roma si sentì in grado di lottare per la signoria dellaconfederazione latina che riuscì ad ottenere.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

QUINTO CAPITOLOLA COSTITUZIONE ORIGINARIA DI

ROMA

1 La casa e la famiglia romana. Il padre, lamadre, i figli, le figlie, la casa, i servi e le suppellettilisono gli elementi naturali, dei quali si compone l'organi-smo di una famiglia ovunque la poligamia non sopprimeil diritto materno della donna. Ma i popoli suscettibili dimaggiore coltura si distinguono in ciò, che concepisco-no queste naturali antitesi più o meno profondamente,quali più complesse sotto l'aspetto morale, quali elabo-rate di preferenza sotto l'aspetto giuridico. Nessun popo-lo è pari al romano nell'esecuzione semplice, ma ineso-rabile, dei rapporti giuridici imposti dalla stessa natura.La famiglia, cioè l’uomo libero, che per la morte del pa-dre è pervenuto al possesso di se stesso, con la donna af-fidategli solennemente in isposa dal sacerdote, perchècon essa egli abbia comune l'acqua ed il fuoco (confar-reatio), coi figli, e coi figli dei figli e le loro legittimedonne, e con le loro figlie nubili e le figlie dei figli, etutti gli averi che ad essi spettano, forma una unità, dallaquale sono invece esclusi i figli delle figlie, poichè essi,se legittimi, appartengono alla famiglia del marito; seprocreati illegittimamente non appartengono a nessunafamiglia. La propria casa con una numerosa figliuolanzaè per il cittadino romano lo scopo e il perno della vita.

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QUINTO CAPITOLOLA COSTITUZIONE ORIGINARIA DI

ROMA

1 La casa e la famiglia romana. Il padre, lamadre, i figli, le figlie, la casa, i servi e le suppellettilisono gli elementi naturali, dei quali si compone l'organi-smo di una famiglia ovunque la poligamia non sopprimeil diritto materno della donna. Ma i popoli suscettibili dimaggiore coltura si distinguono in ciò, che concepisco-no queste naturali antitesi più o meno profondamente,quali più complesse sotto l'aspetto morale, quali elabo-rate di preferenza sotto l'aspetto giuridico. Nessun popo-lo è pari al romano nell'esecuzione semplice, ma ineso-rabile, dei rapporti giuridici imposti dalla stessa natura.La famiglia, cioè l’uomo libero, che per la morte del pa-dre è pervenuto al possesso di se stesso, con la donna af-fidategli solennemente in isposa dal sacerdote, perchècon essa egli abbia comune l'acqua ed il fuoco (confar-reatio), coi figli, e coi figli dei figli e le loro legittimedonne, e con le loro figlie nubili e le figlie dei figli, etutti gli averi che ad essi spettano, forma una unità, dallaquale sono invece esclusi i figli delle figlie, poichè essi,se legittimi, appartengono alla famiglia del marito; seprocreati illegittimamente non appartengono a nessunafamiglia. La propria casa con una numerosa figliuolanzaè per il cittadino romano lo scopo e il perno della vita.

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La morte non è una sventura, perchè essa è necessaria;ma l'estinzione di una famiglia, o della schiatta, è unasciagura anche per la repubblica, la quale ne' primi tem-pi offriva a coloro che non avevano prole un mezzo le-gale per premunirsi contro questa fatalità con l'adozionedi figli altrui.

Fin da principio la famiglia romana recava in sè lecondizioni di un più alto sviluppo nella posizione moral-mente coordinata dei membri che la componevano. Ilmarito soltanto poteva essere il capo della famiglia; ladonna non era posposta all'uomo nell'acquisto di beni edi denaro; la figlia ereditava una parte eguale a quelladel fratello, la madre una parte eguale a quella dei figli;ma nei rapporti civili la donna appartiene sempre allafamiglia e non al comune, ed anche in famiglia è neces-sariamente soggetta, la figlia al padre, la moglie al mari-to19, l'orfana nubile al suo più prossimo parente ma-

19 Ciò non vale soltanto per l'antico connubio religioso (ma-trimonium confarreatione), perchè anche il connubio civile (ma-trimonium consensu) concedeva originariamente al marito il dirit-to di proprietà sulla moglie, motivo per cui a questo consenso co-niugale furono senz'altro applicate le massime fondamentalidell'acquisto di proprietà, le idee giuridiche della formale tradi-zione (coemptio) e della prescrizione (usus). Laddove esisteva ilconsenso coniugale senza che si fosse ancora acquistato il poteremaritale e quindi particolarmente nel tempo decorrente sino alcompimento della prescrizione, la donna non era precisamente –come nel posteriore matrimonio con causae probatio – uxor mapro uxore; e questa massima che cioè la donna non era in poteredel marito, non era moglie ma passava soltanto per tale (uxor tan-

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La morte non è una sventura, perchè essa è necessaria;ma l'estinzione di una famiglia, o della schiatta, è unasciagura anche per la repubblica, la quale ne' primi tem-pi offriva a coloro che non avevano prole un mezzo le-gale per premunirsi contro questa fatalità con l'adozionedi figli altrui.

Fin da principio la famiglia romana recava in sè lecondizioni di un più alto sviluppo nella posizione moral-mente coordinata dei membri che la componevano. Ilmarito soltanto poteva essere il capo della famiglia; ladonna non era posposta all'uomo nell'acquisto di beni edi denaro; la figlia ereditava una parte eguale a quelladel fratello, la madre una parte eguale a quella dei figli;ma nei rapporti civili la donna appartiene sempre allafamiglia e non al comune, ed anche in famiglia è neces-sariamente soggetta, la figlia al padre, la moglie al mari-to19, l'orfana nubile al suo più prossimo parente ma-

19 Ciò non vale soltanto per l'antico connubio religioso (ma-trimonium confarreatione), perchè anche il connubio civile (ma-trimonium consensu) concedeva originariamente al marito il dirit-to di proprietà sulla moglie, motivo per cui a questo consenso co-niugale furono senz'altro applicate le massime fondamentalidell'acquisto di proprietà, le idee giuridiche della formale tradi-zione (coemptio) e della prescrizione (usus). Laddove esisteva ilconsenso coniugale senza che si fosse ancora acquistato il poteremaritale e quindi particolarmente nel tempo decorrente sino alcompimento della prescrizione, la donna non era precisamente –come nel posteriore matrimonio con causae probatio – uxor mapro uxore; e questa massima che cioè la donna non era in poteredel marito, non era moglie ma passava soltanto per tale (uxor tan-

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schio. Il padre, il marito, il tutore e non già il re, sonochiamati a pronunciare sentenza contro la donna in casodi bisogno. Ma nell'interno della casa la moglie non èserva, bensì padrona. Liberata dai lavori di macinazionedel grano e della cucina, cui accudiscono i servi, la ma-dre di famiglia a Roma si dedica essenzialmente edesclusivamente alla sorveglianza delle fantesche ed alfuso, che è per la donna ciò che l'aratro è pel marito20. Ecosì profondamente era sentito dalla nazione romanal'obbligo morale dei genitori verso i figli che era consi-derato come delitto se il padre trascurasse o corrompes-se il proprio figlio o se sciupasse la sua fortuna con dan-no della prole. Ma legalmente la famiglia viene direttaed ordinata dall'onnipotente volontà del padre di fami-

tummodo habetur, CICERO, top., 3. 14) si sostenne sino all'epocadel perfezionamento della giurisprudenza.

20 Il seguente epitaffio, benchè di un'epoca molto più recente,merita d'esser qui citato. È la pietra dell'avello che parla:

Breve è la mia sentenza, fermati o passeggero e leggila.La mia lapide una bella donna copre.Da' parenti Claudia fu nomata;Con tenero amore amò il suo consorte;Due figli gli diede; uno lasciò sulla terra.L'altro coperto fu nel grembo della terra.Di soave linguaggio, di nobil portamento,Governava la casa e filava. – Vattene; ho detto.

E forse più significativa è la menzione del filar lana mista co-gli encomi delle qualità morali, singolarità che non di rado occor-re nelle iscrizioni sepolcrali romane. (ORELLI, 4639: optima etpulcherrima, lanifica pia pudica frugi casta domiseda. ORELLI,4861: modestia probitate pudicitia obsequio lanificio diligentiafide par similesque celereis probeis foemina fuit).

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schio. Il padre, il marito, il tutore e non già il re, sonochiamati a pronunciare sentenza contro la donna in casodi bisogno. Ma nell'interno della casa la moglie non èserva, bensì padrona. Liberata dai lavori di macinazionedel grano e della cucina, cui accudiscono i servi, la ma-dre di famiglia a Roma si dedica essenzialmente edesclusivamente alla sorveglianza delle fantesche ed alfuso, che è per la donna ciò che l'aratro è pel marito20. Ecosì profondamente era sentito dalla nazione romanal'obbligo morale dei genitori verso i figli che era consi-derato come delitto se il padre trascurasse o corrompes-se il proprio figlio o se sciupasse la sua fortuna con dan-no della prole. Ma legalmente la famiglia viene direttaed ordinata dall'onnipotente volontà del padre di fami-

tummodo habetur, CICERO, top., 3. 14) si sostenne sino all'epocadel perfezionamento della giurisprudenza.

20 Il seguente epitaffio, benchè di un'epoca molto più recente,merita d'esser qui citato. È la pietra dell'avello che parla:

Breve è la mia sentenza, fermati o passeggero e leggila.La mia lapide una bella donna copre.Da' parenti Claudia fu nomata;Con tenero amore amò il suo consorte;Due figli gli diede; uno lasciò sulla terra.L'altro coperto fu nel grembo della terra.Di soave linguaggio, di nobil portamento,Governava la casa e filava. – Vattene; ho detto.

E forse più significativa è la menzione del filar lana mista co-gli encomi delle qualità morali, singolarità che non di rado occor-re nelle iscrizioni sepolcrali romane. (ORELLI, 4639: optima etpulcherrima, lanifica pia pudica frugi casta domiseda. ORELLI,4861: modestia probitate pudicitia obsequio lanificio diligentiafide par similesque celereis probeis foemina fuit).

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glia (pater familias). Tutto nell'interno della casa gli èsoggetto, il bue e lo schiavo, non meno che la moglie edi figli. Come la vergine diventa moglie in virtù della li-bera scelta del marito, così il figlio, che essa gli partori-sce, diventa proprietà del marito (suus) solo quand'egliha deliberato di allevarlo e non prima. Codesta massimanon fu già suggerita da indifferenza pei vincoli del san-gue, ma perchè nella coscienza del popolo romano eraimpressa profondamente l'intima persuasione che il fon-damento della famiglia e la procreazione dei figli fosse-ro non tanto un fatto naturale quanto una morale neces-sità e un dovere cittadino. Forse l'unico esempio di unsoccorso accordato in Roma dal comune ai privati è ladisposizione che assegna un sussidio a quel padre cuinascessero tre figliuoli in una volta. Che giudizio poi sifacesse nell'esposizione dei bambini, lo dimostra il di-vieto religioso che condanna l'esposizione di qualsiasibambino maschio e per lo meno della prima femmina adeccezione degli aborti. Ma, per quanto biasimevole edannosa sembrasse l'esposizione, il padre ne aveva il di-ritto, che nessuno poteva contestargli, perchè egli era edoveva rimanere il signore assoluto e illimitato in casasua. Il padre di famiglia non solo teneva i suoi dipen-denti sotto la più severa disciplina, ma aveva anche ildiritto ed il dovere di esercitare su di essi la potestà giu-diziaria e di infliggere loro, a suo criterio, pene corpora-li e di sangue. Il figlio giunto all'età maggiore potevafondare una famiglia separata, poteva ottenere, assegna-togli dal padre, come dicevano i Romani, il suo proprio

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glia (pater familias). Tutto nell'interno della casa gli èsoggetto, il bue e lo schiavo, non meno che la moglie edi figli. Come la vergine diventa moglie in virtù della li-bera scelta del marito, così il figlio, che essa gli partori-sce, diventa proprietà del marito (suus) solo quand'egliha deliberato di allevarlo e non prima. Codesta massimanon fu già suggerita da indifferenza pei vincoli del san-gue, ma perchè nella coscienza del popolo romano eraimpressa profondamente l'intima persuasione che il fon-damento della famiglia e la procreazione dei figli fosse-ro non tanto un fatto naturale quanto una morale neces-sità e un dovere cittadino. Forse l'unico esempio di unsoccorso accordato in Roma dal comune ai privati è ladisposizione che assegna un sussidio a quel padre cuinascessero tre figliuoli in una volta. Che giudizio poi sifacesse nell'esposizione dei bambini, lo dimostra il di-vieto religioso che condanna l'esposizione di qualsiasibambino maschio e per lo meno della prima femmina adeccezione degli aborti. Ma, per quanto biasimevole edannosa sembrasse l'esposizione, il padre ne aveva il di-ritto, che nessuno poteva contestargli, perchè egli era edoveva rimanere il signore assoluto e illimitato in casasua. Il padre di famiglia non solo teneva i suoi dipen-denti sotto la più severa disciplina, ma aveva anche ildiritto ed il dovere di esercitare su di essi la potestà giu-diziaria e di infliggere loro, a suo criterio, pene corpora-li e di sangue. Il figlio giunto all'età maggiore potevafondare una famiglia separata, poteva ottenere, assegna-togli dal padre, come dicevano i Romani, il suo proprio

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bestiame» (peculium); ma in linea di diritto era sempreproprietà del padre qualunque guadagno fatto da' suoinella casa paterna sia col proprio lavoro, sia per dono al-trui, e sino a che viveva il padre i soggetti alla patria po-testà non potevano possedere beni propri, e per conse-guenza non potevano nè alienare, nè lasciare i propribeni in eredità se non dietro autorizzazione ottenuta dalpadre.

Sotto questo rapporto la moglie ed i figli sono nellaidentica condizione dello schiavo, al quale non di radoera concesso di avere una famiglia e, dietro autorizza-zione del padrone, anche di alienare. Il padre potevapersino vendere ad un terzo il proprio figlio, come face-va dello schiavo; se il compratore era uno straniero il fi-glio diveniva suo servo, se egli era romano il figlio pas-sava nelle mani del compratore come servo di fatto enon di diritto, perchè un romano non poteva essere ser-vo d'un altro romano. La potestà patria e maritale nonera sottoposta ad alcuna restrizione. Oltre l'accennata li-mitazione alla esposizione dei fanciulli, la religione pro-nunciava anche l'anatema contro colui che vendesse lapropria moglie o il proprio figlio ammogliato; e gli stes-si usi famigliari stabilirono che il padre, e più ancora ilmarito, nell'esercizio della giurisdizione domestica, nonpronunciassero la sentenza sul figlio e sulla moglie sen-za aver primo consultato i più prossimi parenti tantosuoi che della moglie. Ma in questo ancora non v'erauna giuridica diminuzione di potestà, poichè i parenti,che assistevano al tribunale domestico, non sedevano a

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bestiame» (peculium); ma in linea di diritto era sempreproprietà del padre qualunque guadagno fatto da' suoinella casa paterna sia col proprio lavoro, sia per dono al-trui, e sino a che viveva il padre i soggetti alla patria po-testà non potevano possedere beni propri, e per conse-guenza non potevano nè alienare, nè lasciare i propribeni in eredità se non dietro autorizzazione ottenuta dalpadre.

Sotto questo rapporto la moglie ed i figli sono nellaidentica condizione dello schiavo, al quale non di radoera concesso di avere una famiglia e, dietro autorizza-zione del padrone, anche di alienare. Il padre potevapersino vendere ad un terzo il proprio figlio, come face-va dello schiavo; se il compratore era uno straniero il fi-glio diveniva suo servo, se egli era romano il figlio pas-sava nelle mani del compratore come servo di fatto enon di diritto, perchè un romano non poteva essere ser-vo d'un altro romano. La potestà patria e maritale nonera sottoposta ad alcuna restrizione. Oltre l'accennata li-mitazione alla esposizione dei fanciulli, la religione pro-nunciava anche l'anatema contro colui che vendesse lapropria moglie o il proprio figlio ammogliato; e gli stes-si usi famigliari stabilirono che il padre, e più ancora ilmarito, nell'esercizio della giurisdizione domestica, nonpronunciassero la sentenza sul figlio e sulla moglie sen-za aver primo consultato i più prossimi parenti tantosuoi che della moglie. Ma in questo ancora non v'erauna giuridica diminuzione di potestà, poichè i parenti,che assistevano al tribunale domestico, non sedevano a

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giudicare, ma solo a consigliare il giudice padre di fami-glia. La potestà domestica non soltanto era illimitata enon soggetta ad alcuna responsabilità, ma era invariabileed indistruttibile finchè il padre viveva. Secondo la legi-slazione greca e la tedesca il figlio, divenuto maggioren-ne, e perciò già indipendente di fatto, lo era di diritto, li-bero dalla patria potestà; a Roma la patria potestà noncessava nè in grazia dell'età, nè della demenza, nè per lastessa volontà del padre finchè questi era in vita: essacessava solo nel caso che la figlia, in seguito a legittimomatrimonio, passasse dall'autorità del padre a quella delmarito, dalla famiglia sua e dai suoi penati alla famigliae sotto i penati del marito e divenisse soggetta a questocome fino allora era stata soggetta a suo padre. Il dirittoromano offre più facilità al servo di riscattarsi dal padro-ne che al figlio dal padre. La liberazione dei servi fu in-trodotta presto e si effettuava senza molte difficoltà;quella dei figli è di data molto più recente ed aveva bi-sogno di complicate formalità. E se il padrone vendevail servo e il padre il figlio, ed il compratore rendeva lalibertà ad entrambi, il servo diveniva libero, ma il figlioricadeva sotto la potestà paterna. In forza della inesora-bile logica, colla quale fu concepita dai Romani la pote-stà patria e maritale, essa era stata trasformata in unvero diritto di proprietà. Se non che, malgrado questaquasi parificazione della domestica autorità sulla mogliee sulla prole col diritto di proprietà sullo schiavo e sulbestiame, i membri della famiglia erano però non solo difatto, ma anche di pieno diritto, chiaramente distinti dai

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giudicare, ma solo a consigliare il giudice padre di fami-glia. La potestà domestica non soltanto era illimitata enon soggetta ad alcuna responsabilità, ma era invariabileed indistruttibile finchè il padre viveva. Secondo la legi-slazione greca e la tedesca il figlio, divenuto maggioren-ne, e perciò già indipendente di fatto, lo era di diritto, li-bero dalla patria potestà; a Roma la patria potestà noncessava nè in grazia dell'età, nè della demenza, nè per lastessa volontà del padre finchè questi era in vita: essacessava solo nel caso che la figlia, in seguito a legittimomatrimonio, passasse dall'autorità del padre a quella delmarito, dalla famiglia sua e dai suoi penati alla famigliae sotto i penati del marito e divenisse soggetta a questocome fino allora era stata soggetta a suo padre. Il dirittoromano offre più facilità al servo di riscattarsi dal padro-ne che al figlio dal padre. La liberazione dei servi fu in-trodotta presto e si effettuava senza molte difficoltà;quella dei figli è di data molto più recente ed aveva bi-sogno di complicate formalità. E se il padrone vendevail servo e il padre il figlio, ed il compratore rendeva lalibertà ad entrambi, il servo diveniva libero, ma il figlioricadeva sotto la potestà paterna. In forza della inesora-bile logica, colla quale fu concepita dai Romani la pote-stà patria e maritale, essa era stata trasformata in unvero diritto di proprietà. Se non che, malgrado questaquasi parificazione della domestica autorità sulla mogliee sulla prole col diritto di proprietà sullo schiavo e sulbestiame, i membri della famiglia erano però non solo difatto, ma anche di pieno diritto, chiaramente distinti dai

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beni della famiglia. L'autorità domestica, anche astra-zion fatta ch'essa non aveva vigore se non nell'internodella casa, assumeva poi in definitiva un carattere tran-sitorio, e in certo modo rappresentativo. La moglie e laprole non esistono solo per soddisfazione del padre difamiglia, come la proprietà per il suo proprietario, comenello stato assoluto i sudditi pel re; essi sono bensì og-getti di diritto, ma nello stesso tempo hanno un propriodiritto: non sono cioè cose, ma persone. I loro dirittisono soltanto sospesi, perchè l'unità del governo dellacasa esige un solo rappresentante; ma quando muore ilcapo di casa, i figli subentrano naturalmente come capidi casa, e acquistano allora sulle mogli e sui figli e suibeni i diritti esercitati fino in quel punto dal padre, men-tre invece colla morte del padrone, non si cambia meno-mamente la legale posizione del servo.

2 Famiglia e schiatta. Era però così potente l'unitàdella famiglia presso i Romani che nemmeno la mortedel capo di casa la poteva completamente sciogliere.

I suoi successori, divenuti indipendenti con la mortedel padre di famiglia, si considerano ancora sotto i varirapporti come un'unità, e questo concetto si applicaall'ordine di successione, e particolarmente per regolarela posizione della vedova e delle figlie nubili. Siccomeper gli antichissimi principî dei Romani la donna nonpoteva esercitare la potestà nè su altri nè su se stessa,così la potestà della donna, ossia la tutela, come la vol-lero chiamare per servirsi di una espressione più dolce,

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beni della famiglia. L'autorità domestica, anche astra-zion fatta ch'essa non aveva vigore se non nell'internodella casa, assumeva poi in definitiva un carattere tran-sitorio, e in certo modo rappresentativo. La moglie e laprole non esistono solo per soddisfazione del padre difamiglia, come la proprietà per il suo proprietario, comenello stato assoluto i sudditi pel re; essi sono bensì og-getti di diritto, ma nello stesso tempo hanno un propriodiritto: non sono cioè cose, ma persone. I loro dirittisono soltanto sospesi, perchè l'unità del governo dellacasa esige un solo rappresentante; ma quando muore ilcapo di casa, i figli subentrano naturalmente come capidi casa, e acquistano allora sulle mogli e sui figli e suibeni i diritti esercitati fino in quel punto dal padre, men-tre invece colla morte del padrone, non si cambia meno-mamente la legale posizione del servo.

2 Famiglia e schiatta. Era però così potente l'unitàdella famiglia presso i Romani che nemmeno la mortedel capo di casa la poteva completamente sciogliere.

I suoi successori, divenuti indipendenti con la mortedel padre di famiglia, si considerano ancora sotto i varirapporti come un'unità, e questo concetto si applicaall'ordine di successione, e particolarmente per regolarela posizione della vedova e delle figlie nubili. Siccomeper gli antichissimi principî dei Romani la donna nonpoteva esercitare la potestà nè su altri nè su se stessa,così la potestà della donna, ossia la tutela, come la vol-lero chiamare per servirsi di una espressione più dolce,

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in luogo del defunto si esercitava regolarmente dai piùprossimi parenti maschi, quindi dai figli sulla madre edai fratelli sulle sorelle. In questo modo la famiglia, unavolta fondata, continuava fino all'estinzione dello stipitemaschile; se non che di generazione in generazione il le-game doveva necessariamente allentarsi, e venir menopersino la possibilità di comprovarne l'unità primitiva.Qui, e soltanto qui, sta la differenza tra la famiglia e laschiatta o, per usare i termini romani, tra i rapporti degliagnati e quelli dei gentili. Entrambi i nomi indicano lastirpe mascolina; la famiglia però comprende solo que-gli individui i quali, risalendo di generazione in genera-zione, possono provare il grado della loro discendenzada un comune stipite; la schiatta o gente abbraccia inve-ce anche quelli che possono mostrare la loro discenden-za da un antenato comune, ma non possono indicare imembri intermedi e quindi il grado di consanguineità.

Questo apparisce chiaro nei nomi romani; quando sidice «Marco, figlio di Marco, nipote di Marco, e cosìvia via dei Marchi» si estende la famiglia sin dove si in-dicano gli ascendenti individualmente; là dove poi cessaquesta designazione individuale subentra, come supple-mento, la gente, ossia la derivazione da un antenato co-mune il quale ha trasmesso il nome di figli di Marco atutti i suoi discendenti.

3 Clienti della casa. A queste unità di famiglia e distirpe strettamente congiunte e raccolte sotto la potestàd'un capo vivente, ed originate dal diradarsi delle fami-

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in luogo del defunto si esercitava regolarmente dai piùprossimi parenti maschi, quindi dai figli sulla madre edai fratelli sulle sorelle. In questo modo la famiglia, unavolta fondata, continuava fino all'estinzione dello stipitemaschile; se non che di generazione in generazione il le-game doveva necessariamente allentarsi, e venir menopersino la possibilità di comprovarne l'unità primitiva.Qui, e soltanto qui, sta la differenza tra la famiglia e laschiatta o, per usare i termini romani, tra i rapporti degliagnati e quelli dei gentili. Entrambi i nomi indicano lastirpe mascolina; la famiglia però comprende solo que-gli individui i quali, risalendo di generazione in genera-zione, possono provare il grado della loro discendenzada un comune stipite; la schiatta o gente abbraccia inve-ce anche quelli che possono mostrare la loro discenden-za da un antenato comune, ma non possono indicare imembri intermedi e quindi il grado di consanguineità.

Questo apparisce chiaro nei nomi romani; quando sidice «Marco, figlio di Marco, nipote di Marco, e cosìvia via dei Marchi» si estende la famiglia sin dove si in-dicano gli ascendenti individualmente; là dove poi cessaquesta designazione individuale subentra, come supple-mento, la gente, ossia la derivazione da un antenato co-mune il quale ha trasmesso il nome di figli di Marco atutti i suoi discendenti.

3 Clienti della casa. A queste unità di famiglia e distirpe strettamente congiunte e raccolte sotto la potestàd'un capo vivente, ed originate dal diradarsi delle fami-

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glie, appartenevano gli ospiti, cioè i membri di altre cer-chie consimili, dimoranti transitoriamente nella casa, manon gli schiavi i quali, legalmente, erano consideraticome beni e non come esseri. Questo rapporto non eragiuridico come quello del padre verso il figlio. Il clienterimaneva un uomo libero, ma di una libertà vigilata. Iclienti, in una con i servi, formavano una famiglia liberae indipendente ad un tempo dalla volontà del cittadino,onde egli era detto patrono e la moglie matrona, e cometale il patrono doveva proteggere e rappresentare l'ospiteed era logico che questi l'onorasse e gli obbedisse.

Il padre non può, in forza di legge, intentare una liteal figlio nè il figlio al padre; fra il patrono e il cliente lovieta il costume, che impone il dovere di protezione, alpatrono, e di rispetto, al cliente.

Questa condizione non aveva conseguenze legali su-gli anni; nondimeno in tutti i casi in cui il patrono eraobbligato ad incontrare delle spese d'onore e di necessi-tà, i clienti venivano invitati a concorrervi, ed era egual-mente naturale che, morendo l'ospite o il liberto senzalasciare eredi propri, i suoi averi toccassero al patrono ilquale, dopo i parenti naturali, gli era più prossimo.

4 Il comune romano. Lo stato romano, tanto per isuoi elementi come per la sua forma, è fondato su que-sta famiglia. Il comune del popolo nacque dalla riunionedi quegli antichi consorzi gentilizi dei Romilii, Voltinii,Fabii e così via via, e il territorio romano venne formatodalla riunione dei territori di queste dinastie rurali. Era

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glie, appartenevano gli ospiti, cioè i membri di altre cer-chie consimili, dimoranti transitoriamente nella casa, manon gli schiavi i quali, legalmente, erano consideraticome beni e non come esseri. Questo rapporto non eragiuridico come quello del padre verso il figlio. Il clienterimaneva un uomo libero, ma di una libertà vigilata. Iclienti, in una con i servi, formavano una famiglia liberae indipendente ad un tempo dalla volontà del cittadino,onde egli era detto patrono e la moglie matrona, e cometale il patrono doveva proteggere e rappresentare l'ospiteed era logico che questi l'onorasse e gli obbedisse.

Il padre non può, in forza di legge, intentare una liteal figlio nè il figlio al padre; fra il patrono e il cliente lovieta il costume, che impone il dovere di protezione, alpatrono, e di rispetto, al cliente.

Questa condizione non aveva conseguenze legali su-gli anni; nondimeno in tutti i casi in cui il patrono eraobbligato ad incontrare delle spese d'onore e di necessi-tà, i clienti venivano invitati a concorrervi, ed era egual-mente naturale che, morendo l'ospite o il liberto senzalasciare eredi propri, i suoi averi toccassero al patrono ilquale, dopo i parenti naturali, gli era più prossimo.

4 Il comune romano. Lo stato romano, tanto per isuoi elementi come per la sua forma, è fondato su que-sta famiglia. Il comune del popolo nacque dalla riunionedi quegli antichi consorzi gentilizi dei Romilii, Voltinii,Fabii e così via via, e il territorio romano venne formatodalla riunione dei territori di queste dinastie rurali. Era

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cittadino romano chiunque appartenesse ad una dellegenti consociate. Ogni matrimonio conchiuso entro que-sta cerchia e colle formalità d'uso era considerato comematrimonio legittimo romano, e stabiliva per i figli il di-ritto di cittadinanza: dalla quale erano esclusi i procreatida unioni illegittime ed i bastardi. Per ciò i cittadini ro-mani si chiamavano «figli di padri» (patricii), perchèavevano legittimamente un padre.

Le genti, con tutte le famiglie che esse comprendeva-no, furono incorporate nello stato pur conservando i lororapporti consorziali. Ma questa posizione domestica nonaveva alcun valore di fronte allo stato, cosicchè il figliodi famiglia, in casa, si trovava suddito del padre, ma neidoveri e nei diritti politici egli era uguale al padre. Lacondizione dei protetti si cambiò naturalmente in modoche gli ospiti, i liberti, i clienti di ogni patrono, in graziasua, eran tollerati in tutto il comune: essi furono dappri-ma invitati a porsi sotto la protezione delle famiglie cuiappartenevano, ma accadde pure che i clienti dei mem-bri del comune non potevano venire esclusi dal culto di-vino e dalle feste, sebbene i veri diritti cittadini e le cari-che pubbliche non toccassero loro. Così lo stato, comela casa, si componeva di indigeni e di stranieri, di citta-dini e di domiciliati.

5 Il re. Come gli elementi dello stato sono le stirpi,le quali si basano sulla famiglia, così anche la forma delcomune tanto nel suo complesso, quanto nei suoi parti-colari segue l'esempio della famiglia. Alla famiglia la

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cittadino romano chiunque appartenesse ad una dellegenti consociate. Ogni matrimonio conchiuso entro que-sta cerchia e colle formalità d'uso era considerato comematrimonio legittimo romano, e stabiliva per i figli il di-ritto di cittadinanza: dalla quale erano esclusi i procreatida unioni illegittime ed i bastardi. Per ciò i cittadini ro-mani si chiamavano «figli di padri» (patricii), perchèavevano legittimamente un padre.

Le genti, con tutte le famiglie che esse comprendeva-no, furono incorporate nello stato pur conservando i lororapporti consorziali. Ma questa posizione domestica nonaveva alcun valore di fronte allo stato, cosicchè il figliodi famiglia, in casa, si trovava suddito del padre, ma neidoveri e nei diritti politici egli era uguale al padre. Lacondizione dei protetti si cambiò naturalmente in modoche gli ospiti, i liberti, i clienti di ogni patrono, in graziasua, eran tollerati in tutto il comune: essi furono dappri-ma invitati a porsi sotto la protezione delle famiglie cuiappartenevano, ma accadde pure che i clienti dei mem-bri del comune non potevano venire esclusi dal culto di-vino e dalle feste, sebbene i veri diritti cittadini e le cari-che pubbliche non toccassero loro. Così lo stato, comela casa, si componeva di indigeni e di stranieri, di citta-dini e di domiciliati.

5 Il re. Come gli elementi dello stato sono le stirpi,le quali si basano sulla famiglia, così anche la forma delcomune tanto nel suo complesso, quanto nei suoi parti-colari segue l'esempio della famiglia. Alla famiglia la

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nazione stessa assegna il capo nel padre, col quale essasi forma, e alla morte del quale si scioglie; ma nel co-mune popolare, che deve avere perpetua esistenza, nonvi è un padre dato dalla natura, almeno nella società ro-mana, che si componeva di contadini liberi ed uguali edi cui nessuno vantava nativi privilegi di nobiltà di con-cessione divina.

Perciò la famiglia popolare si nomina un reggitore(rex), che rappresenta il padre di famiglia di tutti; ond'èche nella sua abitazione o vicino ad essa noi troviamoancora l'altare colla fiamma perenne e il ben custoditomagazzino delle provvigioni del comune, la romana Ve-sta e i penati di Roma che rappresentano la visibile unitàdella grande famiglia che abbracciava l'intera Roma. Lemansioni del re cominciano dal momento della elezione;ma il comune gli deve fedeltà ed ubbidienza soltantoquando egli abbia convocato l'assemblea degli uominiliberi, atti alle armi, ed essi gli abbiano prestato formalegiuramento. Allora egli ha nel comune la stessa autoritàche ha il padre di famiglia nella sua casa e, come que-sto, governa per tutta la sua vita. Egli è in relazione co-gli dei del comune, li interroga e li placa (auspicia pu-blica) e nomina i sacerdoti e le sacerdotesse. I trattatiche egli conchiude con gli stranieri, in nome del comu-ne, sono obbigatorii per tutto il popolo, benchè nessunmembro del comune sia vincolato da un trattato con co-loro che non fanno parte della comunità. Il suo comando(imperium) è onnipossente e in pace e in guerra; perciò imessi (lictores, da licere) lo precedono colle scuri e coi

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nazione stessa assegna il capo nel padre, col quale essasi forma, e alla morte del quale si scioglie; ma nel co-mune popolare, che deve avere perpetua esistenza, nonvi è un padre dato dalla natura, almeno nella società ro-mana, che si componeva di contadini liberi ed uguali edi cui nessuno vantava nativi privilegi di nobiltà di con-cessione divina.

Perciò la famiglia popolare si nomina un reggitore(rex), che rappresenta il padre di famiglia di tutti; ond'èche nella sua abitazione o vicino ad essa noi troviamoancora l'altare colla fiamma perenne e il ben custoditomagazzino delle provvigioni del comune, la romana Ve-sta e i penati di Roma che rappresentano la visibile unitàdella grande famiglia che abbracciava l'intera Roma. Lemansioni del re cominciano dal momento della elezione;ma il comune gli deve fedeltà ed ubbidienza soltantoquando egli abbia convocato l'assemblea degli uominiliberi, atti alle armi, ed essi gli abbiano prestato formalegiuramento. Allora egli ha nel comune la stessa autoritàche ha il padre di famiglia nella sua casa e, come que-sto, governa per tutta la sua vita. Egli è in relazione co-gli dei del comune, li interroga e li placa (auspicia pu-blica) e nomina i sacerdoti e le sacerdotesse. I trattatiche egli conchiude con gli stranieri, in nome del comu-ne, sono obbigatorii per tutto il popolo, benchè nessunmembro del comune sia vincolato da un trattato con co-loro che non fanno parte della comunità. Il suo comando(imperium) è onnipossente e in pace e in guerra; perciò imessi (lictores, da licere) lo precedono colle scuri e coi

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fasci ovunque si rechi per l'esercizio delle sue funzioni.Egli solo ha il diritto di parlare in pubblico ai cittadini,ed egli tiene le chiavi del tesoro comune. A lui spetta,come al padre, il diritto di punire e la giurisdizione. Eglidecreta le pene disciplinari, particolarmente i colpi diverga, per mancanze nel servizio militare. Egli siede ingiudizio per tutte le cause private e criminali, e decideinappellabilmente della vita e della morte, come della li-bertà avendo egli la facoltà di condannare il cittadino acadere in condizioni servili presso il concittadino, o diordinarne la vendita come schiavo effettivo, e farloquindi deportare fuori dello stato. Egli ha il diritto, manon l'obbligo, di concedere che il condannato a morte siappelli al popolo per ottenere la grazia. Chiama il popo-lo alle armi, comanda l'esercito, ma in caso di incendiodeve accorrere personalmente sul luogo. Come il capodi famiglia non già è il più potente, ma il solo potentenella famiglia, così il re non è il primo, ma l'unico depo-sitario del potere dello stato. Egli può, per agevolarsil'esercizio del potere, deferire ad altri alcune speciali fa-coltà, come le comunicazioni ai cittadini, il comando inguerra, le decisioni delle cause di minore importanza, lainquisizione sui delitti; egli può, specialmente quandosia obbligato ad allontanarsi dal territorio della città, la-sciarvi un rettore della città (praefectus urbi) col pienopotere d'un luogotenente. Ma qualsiasi altra potestà civi-le si considera come procedente dalla potestà regale, edogni ufficiale esercita le sue funzioni solo in grazia delre e finchè a questi piace. Tutti i funzionari antichi, tan-

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fasci ovunque si rechi per l'esercizio delle sue funzioni.Egli solo ha il diritto di parlare in pubblico ai cittadini,ed egli tiene le chiavi del tesoro comune. A lui spetta,come al padre, il diritto di punire e la giurisdizione. Eglidecreta le pene disciplinari, particolarmente i colpi diverga, per mancanze nel servizio militare. Egli siede ingiudizio per tutte le cause private e criminali, e decideinappellabilmente della vita e della morte, come della li-bertà avendo egli la facoltà di condannare il cittadino acadere in condizioni servili presso il concittadino, o diordinarne la vendita come schiavo effettivo, e farloquindi deportare fuori dello stato. Egli ha il diritto, manon l'obbligo, di concedere che il condannato a morte siappelli al popolo per ottenere la grazia. Chiama il popo-lo alle armi, comanda l'esercito, ma in caso di incendiodeve accorrere personalmente sul luogo. Come il capodi famiglia non già è il più potente, ma il solo potentenella famiglia, così il re non è il primo, ma l'unico depo-sitario del potere dello stato. Egli può, per agevolarsil'esercizio del potere, deferire ad altri alcune speciali fa-coltà, come le comunicazioni ai cittadini, il comando inguerra, le decisioni delle cause di minore importanza, lainquisizione sui delitti; egli può, specialmente quandosia obbligato ad allontanarsi dal territorio della città, la-sciarvi un rettore della città (praefectus urbi) col pienopotere d'un luogotenente. Ma qualsiasi altra potestà civi-le si considera come procedente dalla potestà regale, edogni ufficiale esercita le sue funzioni solo in grazia delre e finchè a questi piace. Tutti i funzionari antichi, tan-

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to il governatore straordinario della città, quanto gli in-quisitori degli assassini (quaestores paricidii) nominati,per quanto pare, secondo una stabile norma, i coman-danti militari (tribuni da tribus, parte) della fanteria (mi-lites) e della cavalleria (celeres) non sono che regi com-missari e non magistrati nel vero senso della parola. Ilregio potere non ha e non può avere alcun limite legaleesterno; come pel capo della famiglia non esiste alcungiudice, così per il capo del comune non vi è un giudicenel comune. La morte sola mette fine al suo potere. Lascelta del nuovo re è fatta dal consiglio degli anziani, alquale passa l'interregno in caso di vacanza. Un consensopuramente formale, nell'elezione del re, appartiene allacittadinanza, subito dopo la nomina. Legalmente, il re-gno riposa sul duraturo collegio dei padri (patres) cheper mezzo del temporaneo portatore dell'autorità21 inse-

21 [Nella prima edizione il MOMMSEN dà un'altra versione dellanomina del successore, della quale qui non è rimasta altra tracciache in questo «portatore dell'autorità» che non trova spiegazionenella nuova procedura descritta dal Mommsen. Per l'intelligenzadel lettore, riportiamo dalla prima edizione il testo esatto: «Seegli (il re morto) non si è scelto un successore, come non solo neha il diritto, ma il dovere, allora si adunano i cittadini senz'essereconvocati e designano un interrè che non può durare in carica piùdi cinque giorni, ma non può farsi prestare omaggio dal popolo. Èquesti che nomina il nuovo re e può, se vuole, prima di nominar-lo, interpellare gli anziani per sapere se è di loro gradimento».

Questa procedura nella quale concordano tutti gli antichi scrit-tori, è stata scartata, come si è detto, dal Mommsen che non ac-cenna in base a quali nuove fonti ha modificato il suo pensiero,mentre nella nuova versione, senza la spiegazione da noi data, ri-

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to il governatore straordinario della città, quanto gli in-quisitori degli assassini (quaestores paricidii) nominati,per quanto pare, secondo una stabile norma, i coman-danti militari (tribuni da tribus, parte) della fanteria (mi-lites) e della cavalleria (celeres) non sono che regi com-missari e non magistrati nel vero senso della parola. Ilregio potere non ha e non può avere alcun limite legaleesterno; come pel capo della famiglia non esiste alcungiudice, così per il capo del comune non vi è un giudicenel comune. La morte sola mette fine al suo potere. Lascelta del nuovo re è fatta dal consiglio degli anziani, alquale passa l'interregno in caso di vacanza. Un consensopuramente formale, nell'elezione del re, appartiene allacittadinanza, subito dopo la nomina. Legalmente, il re-gno riposa sul duraturo collegio dei padri (patres) cheper mezzo del temporaneo portatore dell'autorità21 inse-

21 [Nella prima edizione il MOMMSEN dà un'altra versione dellanomina del successore, della quale qui non è rimasta altra tracciache in questo «portatore dell'autorità» che non trova spiegazionenella nuova procedura descritta dal Mommsen. Per l'intelligenzadel lettore, riportiamo dalla prima edizione il testo esatto: «Seegli (il re morto) non si è scelto un successore, come non solo neha il diritto, ma il dovere, allora si adunano i cittadini senz'essereconvocati e designano un interrè che non può durare in carica piùdi cinque giorni, ma non può farsi prestare omaggio dal popolo. Èquesti che nomina il nuovo re e può, se vuole, prima di nominar-lo, interpellare gli anziani per sapere se è di loro gradimento».

Questa procedura nella quale concordano tutti gli antichi scrit-tori, è stata scartata, come si è detto, dal Mommsen che non ac-cenna in base a quali nuove fonti ha modificato il suo pensiero,mentre nella nuova versione, senza la spiegazione da noi data, ri-

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dia per la durata della vita il nuovo re. Così si tramanda-no gli auspici divini, coi quali fu fondata la famosaRoma, dal primo re senza interruzione ai successori, ecosì si conserva inalterata l'unità dello stato malgrado ilvariare dei depositari del potere. Questa unità del popo-lo romano, che nella sfera religiosa viene raffigurata dalromano Giove, è rappresentata legalmente dal principe,e perciò questi assume l'abbigliamento del dio supremo,il cocchio in una città in cui tutti vanno a piedi, lo scet-tro d'avorio coll'aquila, il rossetto sulle gote, l'aurea co-rona di quercia, comuni egualmente al dio romanoquanto al re dei Romani. Ma si cadrebbe in un grave er-rore se si volesse fare della costituzione romana una teo-crazia. I concetti di dio e di re non si sono mai confusinella mente degli Italiani, come avvenne in Egitto e inOriente. Il re non è il dio del popolo, è piuttosto il pro-prietario dello stato. Di fatti non vi ha cenno di alcunparticolare favore divino accordato ad una o ad altra di-nastia, o di un qualche misterioso prestigio pel quale ilre fosse d'altra natura che il resto degli uomini; la nobilediscendenza, la parentela coi re anteriori sono bensì rac-comandazioni, ma non una condizione, poichè in via didiritto ogni cittadino romano, sano di mente e di corpo,raggiunta l'età voluta, può pervenire al regno22. Il re non

marrebbe inintelligibile per il lettore la frase «temporaneo porta-tore dell'autorità»].

22 DIONISIO, 5, 25, dice che la paralisi escludeva dal grado dellasuprema autorità. Che la cittadinanza romana fosse condizioneper arrivare al consolato e al regno, è cosa tanto chiara che non

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dia per la durata della vita il nuovo re. Così si tramanda-no gli auspici divini, coi quali fu fondata la famosaRoma, dal primo re senza interruzione ai successori, ecosì si conserva inalterata l'unità dello stato malgrado ilvariare dei depositari del potere. Questa unità del popo-lo romano, che nella sfera religiosa viene raffigurata dalromano Giove, è rappresentata legalmente dal principe,e perciò questi assume l'abbigliamento del dio supremo,il cocchio in una città in cui tutti vanno a piedi, lo scet-tro d'avorio coll'aquila, il rossetto sulle gote, l'aurea co-rona di quercia, comuni egualmente al dio romanoquanto al re dei Romani. Ma si cadrebbe in un grave er-rore se si volesse fare della costituzione romana una teo-crazia. I concetti di dio e di re non si sono mai confusinella mente degli Italiani, come avvenne in Egitto e inOriente. Il re non è il dio del popolo, è piuttosto il pro-prietario dello stato. Di fatti non vi ha cenno di alcunparticolare favore divino accordato ad una o ad altra di-nastia, o di un qualche misterioso prestigio pel quale ilre fosse d'altra natura che il resto degli uomini; la nobilediscendenza, la parentela coi re anteriori sono bensì rac-comandazioni, ma non una condizione, poichè in via didiritto ogni cittadino romano, sano di mente e di corpo,raggiunta l'età voluta, può pervenire al regno22. Il re non

marrebbe inintelligibile per il lettore la frase «temporaneo porta-tore dell'autorità»].

22 DIONISIO, 5, 25, dice che la paralisi escludeva dal grado dellasuprema autorità. Che la cittadinanza romana fosse condizioneper arrivare al consolato e al regno, è cosa tanto chiara che non

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è altro che un cittadino comune, elevato dal merito odalla fortuna, e più dalla necessità che vuole ogni cosaretta dal suo padrone, a dominare i suoi simili, contadi-no sui contadini, guerriero sui guerrieri. Nel modo che ilfiglio ubbidisce ciecamente al padre, nè per questo sistima da meno di lui, così il cittadino si sottomette al so-vrano senza crederlo perciò migliore di lui. In questoconcetto sono compresi i limiti, in cui la consuetudine ele idee romane contenevano il regio potere. Il re potevabensì commettere molte ingiustizie anche senza ledere ilpubblico diritto, poteva menomare la parte del bottino acoloro che avevano partecipato ai combattimenti, potevaimporre gravezze eccessive e stremare con angherie ilpatrimonio dei cittadini; ma così facendo egli dimenti-cava che il suo potere non gli veniva da dio, ma col con-sentimento di dio gli veniva dal popolo che egli rappre-sentava: e chi lo proteggeva se questo popolo si dimen-ticava del giuramento che gli aveva prestato?

Il limite giuridico del regio potere si trovava tuttaviain ciò, che il re aveva soltanto la facoltà di eseguire enon di cambiare la legge, e che ogni deviazione dallamedesima doveva essere approvata preventivamente dalpopolo adunato in assemblea e dagli anziani, senza diche rimaneva un atto arbitrario e tirannico, le cui conse-guenze non erano legali. Il regio potere romano è per talmodo, sotto l'aspetto morale e giuridico, profondamentediverso dalla odierna sovranità, e non vi è in generale,

val la spesa di sfoderare argomentazioni nuove per rigettare le fa-vole del cittadino di Cure.

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è altro che un cittadino comune, elevato dal merito odalla fortuna, e più dalla necessità che vuole ogni cosaretta dal suo padrone, a dominare i suoi simili, contadi-no sui contadini, guerriero sui guerrieri. Nel modo che ilfiglio ubbidisce ciecamente al padre, nè per questo sistima da meno di lui, così il cittadino si sottomette al so-vrano senza crederlo perciò migliore di lui. In questoconcetto sono compresi i limiti, in cui la consuetudine ele idee romane contenevano il regio potere. Il re potevabensì commettere molte ingiustizie anche senza ledere ilpubblico diritto, poteva menomare la parte del bottino acoloro che avevano partecipato ai combattimenti, potevaimporre gravezze eccessive e stremare con angherie ilpatrimonio dei cittadini; ma così facendo egli dimenti-cava che il suo potere non gli veniva da dio, ma col con-sentimento di dio gli veniva dal popolo che egli rappre-sentava: e chi lo proteggeva se questo popolo si dimen-ticava del giuramento che gli aveva prestato?

Il limite giuridico del regio potere si trovava tuttaviain ciò, che il re aveva soltanto la facoltà di eseguire enon di cambiare la legge, e che ogni deviazione dallamedesima doveva essere approvata preventivamente dalpopolo adunato in assemblea e dagli anziani, senza diche rimaneva un atto arbitrario e tirannico, le cui conse-guenze non erano legali. Il regio potere romano è per talmodo, sotto l'aspetto morale e giuridico, profondamentediverso dalla odierna sovranità, e non vi è in generale,

val la spesa di sfoderare argomentazioni nuove per rigettare le fa-vole del cittadino di Cure.

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nella vita moderna, alcun corrispondente esempio nèdella famiglia nè dello stato romano.

6 Il senato. Il freno più potente, che l'uso e la praticaopponessero al potere assoluto, è espresso nella massi-ma, che nè al padre di famiglia nè al re era permessosentenziare su casi importanti senza aver udito il consi-glio di altri uomini. Come dunque col consiglio di fami-glia fu temperata la potestà patria e maritale, così ebbela forza per la magistratura di tutte le epoche romane lamassima imperiosa che, in casi importanti, prima diprendere una determinazione, si dovesse sentire l'opi-nione degli amici. L'adunanza di questi amici del re, laquale esercitava un influsso moderatore negli affari piùimportanti dello stato, senza però svigorire giuridica-mente la pienezza della regale autorità, il consesso poli-tico che il re doveva consultare in tutti i casi che nonfossero di stretta pertinenza forense o militare, era ilconsiglio degli anziani, il Senatus. Esso non era soltantoun'adunanza di tali o tal'altri confidenti del re, che aquesti piacesse convocare, sibbene una instituzione poli-tica permanente alla quale, nei tempi più antichi, parepersino attaccata una cotal maniera di rappresentanza.Nel modo come, secondo le nostre indagini, erano costi-tuite le genti romane, esse non potevano certamenteavere un capo visibile; e nessuna delle genti avrebbe po-tuto scegliere un individuo a rappresentare il comunecapo stipite dal quale derivavano, o credevano derivare,tutti i membri d'un medesimo consorzio gentilizio. Ma

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nella vita moderna, alcun corrispondente esempio nèdella famiglia nè dello stato romano.

6 Il senato. Il freno più potente, che l'uso e la praticaopponessero al potere assoluto, è espresso nella massi-ma, che nè al padre di famiglia nè al re era permessosentenziare su casi importanti senza aver udito il consi-glio di altri uomini. Come dunque col consiglio di fami-glia fu temperata la potestà patria e maritale, così ebbela forza per la magistratura di tutte le epoche romane lamassima imperiosa che, in casi importanti, prima diprendere una determinazione, si dovesse sentire l'opi-nione degli amici. L'adunanza di questi amici del re, laquale esercitava un influsso moderatore negli affari piùimportanti dello stato, senza però svigorire giuridica-mente la pienezza della regale autorità, il consesso poli-tico che il re doveva consultare in tutti i casi che nonfossero di stretta pertinenza forense o militare, era ilconsiglio degli anziani, il Senatus. Esso non era soltantoun'adunanza di tali o tal'altri confidenti del re, che aquesti piacesse convocare, sibbene una instituzione poli-tica permanente alla quale, nei tempi più antichi, parepersino attaccata una cotal maniera di rappresentanza.Nel modo come, secondo le nostre indagini, erano costi-tuite le genti romane, esse non potevano certamenteavere un capo visibile; e nessuna delle genti avrebbe po-tuto scegliere un individuo a rappresentare il comunecapo stipite dal quale derivavano, o credevano derivare,tutti i membri d'un medesimo consorzio gentilizio. Ma

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nei tempi in cui, dall'unione di tutti i consorzi, fu costi-tuito pienamente lo stato, si deve ritenere che le coseprocedessero diversamente, e che l'adunanza degli an-ziani di ciascuna gente abbia formato il senato primiti-vo, e perciò pare che anche più tardi ogni senatore siastato in certo qual modo il rappresentante di una delleunità elementari dello stato, cioè di una gente. Questospiegherebbe perchè il senatore, una volta eletto, rima-nesse di fatto, se non di diritto, nel consiglio, per tutta lasua vita. Questo spiegherebbe, anche il motivo per cui sitrova prestabilito il numero dei senatori uguale al nume-ro dei consorzi gentilizi accolti nello stato; cosicchè,ammettendo alla cittadinanza nuovi comuni che, comeRoma, componevansi egualmente di consorzi gentilizi,si veniva per necessità e per ragioni di stato ad aumenta-re il numero dei senatori. Ma questa rappresentanza del-le genti mediante l'ordinamento del senato era piuttostonello spirito dell'istituzione, che nel rigore giuridico: inquanto era sempre lasciata al re la libera scelta dei sena-tori e perfino la facoltà di chiamare in senato uomininon ascritti alla cittadinanza legale; la quale cosa non sipuò affermare che avvenisse sino dai tempi del governoregio, ma diciamo che non vi sarebbero argomenti pernegarne la possibilità. Fintanto che l'individualità genti-lizia rimase ferma nella coscienza del popolo, si man-tenne fermo il principio che alla morte d'un senatore ilre dovesse chiamare a succedergli un altro individuoesperto e anziano dello stesso consorzio gentilizio; macolla crescente fusione e coll'intima unione del comune

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nei tempi in cui, dall'unione di tutti i consorzi, fu costi-tuito pienamente lo stato, si deve ritenere che le coseprocedessero diversamente, e che l'adunanza degli an-ziani di ciascuna gente abbia formato il senato primiti-vo, e perciò pare che anche più tardi ogni senatore siastato in certo qual modo il rappresentante di una delleunità elementari dello stato, cioè di una gente. Questospiegherebbe perchè il senatore, una volta eletto, rima-nesse di fatto, se non di diritto, nel consiglio, per tutta lasua vita. Questo spiegherebbe, anche il motivo per cui sitrova prestabilito il numero dei senatori uguale al nume-ro dei consorzi gentilizi accolti nello stato; cosicchè,ammettendo alla cittadinanza nuovi comuni che, comeRoma, componevansi egualmente di consorzi gentilizi,si veniva per necessità e per ragioni di stato ad aumenta-re il numero dei senatori. Ma questa rappresentanza del-le genti mediante l'ordinamento del senato era piuttostonello spirito dell'istituzione, che nel rigore giuridico: inquanto era sempre lasciata al re la libera scelta dei sena-tori e perfino la facoltà di chiamare in senato uomininon ascritti alla cittadinanza legale; la quale cosa non sipuò affermare che avvenisse sino dai tempi del governoregio, ma diciamo che non vi sarebbero argomenti pernegarne la possibilità. Fintanto che l'individualità genti-lizia rimase ferma nella coscienza del popolo, si man-tenne fermo il principio che alla morte d'un senatore ilre dovesse chiamare a succedergli un altro individuoesperto e anziano dello stesso consorzio gentilizio; macolla crescente fusione e coll'intima unione del comune

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popolare, passò di fatto anche la nomina dei senatori allibero arbitrio dei re, e non ne venne altro inconvenientese non quella che il re poteva lasciare vacanti dei seggisenatorii. Se non che, l'essere la dignità senatoria a vitafondata sugli essenziali elementi dello stato romano, as-sicurava al senato un'importanza ben maggiore di quellache avrebbe potuto avere una semplice adunanza di uo-mini di confidenza del re. Non v'è dubbio che, di fronteal re, le prerogative dei senatori sono limitate a pronun-ciare il loro parere allorchè ne sono richiesti. Il re con-voca il consiglio quando crede ed espone i suoi quesiti;nessun senatore può emettere la sua opinione non richie-sto; e molto meno può il consiglio riunirsi senza convo-cazione. La deliberazione non è imperativa; il re puòfare a meno di seguirla senza che il senato abbia alcunmezzo di dare valore esecutivo alla propria autorità. Il redice ai senatori: «Io vi ho scelto per comandare a voi, enon perchè voi mi guidiate». Ma quando in affari di ri-lievo si ometteva di consultare il senato, quest'omissio-ne era considerata come uno spregevole abuso del som-mo potere. E così il senato avrà avuto la parte suanell'imporre oneri e prestazioni straordinarie, nel dispor-re dei terreni conquistati e, quante volte si rendesse ne-cessario, di consultare la comunità, sia per l'arrogazioneo per l'ammissione alla cittadinanza, sia per la dichiara-zione di una guerra aggressiva. Se il comune di Romaera stato leso da un vicino, e se veniva rifiutato il risar-cimento, il feciale invocava gli dei a testimoni del tortosubìto e terminava colle parole: «Sul modo di ottenere

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popolare, passò di fatto anche la nomina dei senatori allibero arbitrio dei re, e non ne venne altro inconvenientese non quella che il re poteva lasciare vacanti dei seggisenatorii. Se non che, l'essere la dignità senatoria a vitafondata sugli essenziali elementi dello stato romano, as-sicurava al senato un'importanza ben maggiore di quellache avrebbe potuto avere una semplice adunanza di uo-mini di confidenza del re. Non v'è dubbio che, di fronteal re, le prerogative dei senatori sono limitate a pronun-ciare il loro parere allorchè ne sono richiesti. Il re con-voca il consiglio quando crede ed espone i suoi quesiti;nessun senatore può emettere la sua opinione non richie-sto; e molto meno può il consiglio riunirsi senza convo-cazione. La deliberazione non è imperativa; il re puòfare a meno di seguirla senza che il senato abbia alcunmezzo di dare valore esecutivo alla propria autorità. Il redice ai senatori: «Io vi ho scelto per comandare a voi, enon perchè voi mi guidiate». Ma quando in affari di ri-lievo si ometteva di consultare il senato, quest'omissio-ne era considerata come uno spregevole abuso del som-mo potere. E così il senato avrà avuto la parte suanell'imporre oneri e prestazioni straordinarie, nel dispor-re dei terreni conquistati e, quante volte si rendesse ne-cessario, di consultare la comunità, sia per l'arrogazioneo per l'ammissione alla cittadinanza, sia per la dichiara-zione di una guerra aggressiva. Se il comune di Romaera stato leso da un vicino, e se veniva rifiutato il risar-cimento, il feciale invocava gli dei a testimoni del tortosubìto e terminava colle parole: «Sul modo di ottenere

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giustizia udiremo il consiglio degli anziani». Allora ilre, sentito il senato, portava l'affare innanzi al popolo;solo quando il senato e il comune erano d'accordo siconsiderava la guerra come giusta, e con ragione si po-teva attendere che fosse dagli dei benedetta. Per contronon v'è ombra d'indizio da cui possa argomentarsi che ilsenato dovesse essere convocato nè in occasione dellecause importanti, nè per eleggere i condottieri dell'eser-cito. Pare piuttosto che il re, sedendo egli stesso pro tri-bunali, ammettesse a suo fianco dei consiglieri od ancherimettesse alcune cause a luogotenenti perchè ne senten-ziassero, e per tal modo chiamasse bensì dal senato isuoi consulenti e delegati, ma sempre di libera scelta esenza convocare a quest'effetto l'intero corpo, o doman-dare ad esso alcuna potestà; e questo è il motivo per cuinella libera città di Roma non si è mai conosciuta unagiurisdizione senatori.

7 Il comune popolare. In quanto alla divisione del-la cittadinanza, essa era basata sull'antichissimo princi-pio rituale che dieci famiglie formavano una gente(gens), dieci genti o cento casate una curia (curia, certoda curare coerare, κοίρανος23, dieci curie o cento genti, omille casate, la comunità; ogni casa o famiglia fornisceun fante (indi mi-les, da milleva, o che «va in mille»,come equ-es, che «va a cavallo») ogni consorzio gentili-zio un cavaliere e un senatore. Nei comuni consorziati

23 Coerare, antica forma di curare; κοίρανος, principe, padro-ne; κοιρανἐω, amministro, governo, domino.

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giustizia udiremo il consiglio degli anziani». Allora ilre, sentito il senato, portava l'affare innanzi al popolo;solo quando il senato e il comune erano d'accordo siconsiderava la guerra come giusta, e con ragione si po-teva attendere che fosse dagli dei benedetta. Per contronon v'è ombra d'indizio da cui possa argomentarsi che ilsenato dovesse essere convocato nè in occasione dellecause importanti, nè per eleggere i condottieri dell'eser-cito. Pare piuttosto che il re, sedendo egli stesso pro tri-bunali, ammettesse a suo fianco dei consiglieri od ancherimettesse alcune cause a luogotenenti perchè ne senten-ziassero, e per tal modo chiamasse bensì dal senato isuoi consulenti e delegati, ma sempre di libera scelta esenza convocare a quest'effetto l'intero corpo, o doman-dare ad esso alcuna potestà; e questo è il motivo per cuinella libera città di Roma non si è mai conosciuta unagiurisdizione senatori.

7 Il comune popolare. In quanto alla divisione del-la cittadinanza, essa era basata sull'antichissimo princi-pio rituale che dieci famiglie formavano una gente(gens), dieci genti o cento casate una curia (curia, certoda curare coerare, κοίρανος23, dieci curie o cento genti, omille casate, la comunità; ogni casa o famiglia fornisceun fante (indi mi-les, da milleva, o che «va in mille»,come equ-es, che «va a cavallo») ogni consorzio gentili-zio un cavaliere e un senatore. Nei comuni consorziati

23 Coerare, antica forma di curare; κοίρανος, principe, padro-ne; κοιρανἐω, amministro, governo, domino.

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ogni curia si presenta naturalmente come una parte (tri-bus) dell'intero comune (tota in umbro o in osco) e ilnumero fondamentale si moltiplica per il numero delleparti. Questa divisione si riferiva, veramente, prima ditutto allo stato personale della cittadinanza, ma era pureapplicata al territorio, in quanto esso era in generale di-viso. Che non vi fossero soltanto territori di tribù, maanche territori di curie, non si può mettere in dubbio, sefra i pochi nomi romani di curie, che sono pervenuti anostra conoscenza insieme a nomi gentilizi, come adesempio quello di Faucia, troviamo anche dei nomi to-pografici, come Veliensis; ciascuna di esse abbracciava,in quell'antichissimo tempo, un certo numero di territoridelle famiglie, dei quali abbiamo già parlato. Questa co-stituzione ha riscontro, nella sua più semplice forma, coltipo dei comuni cittadini o latini sorti più tardi sottol'influenza romana; essi annoveravano in media centoconsiglieri (centumviri), ognuno dei quali si chiamava«capo di dieci case» (decurio)24. Ma anche nella più an-tica tradizione, che attribuisce alla tripartita Roma trentacurie, trecento genti, trecento cavalieri, trecento senato-ri, tremila case e altrettanti fanti, ricompaiono sempre le

24 In Roma stessa, ove la semplice costituzione delle dieci cu-rie non tardò a scomparire, si trova anche una pratica applicazio-ne della medesima, e abbastanza singolare, appunto in quell'attorituale che noi abbiamo motivo di ritenere per il più antico di tut-ti, cioè nella confarreazione. Pare fuor di dubbio che i suoi diecitestimoni siano nella costituzione decuriale la stessa cosa di ciòche sono i trenta littori della costituzione delle trenta curie.

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ogni curia si presenta naturalmente come una parte (tri-bus) dell'intero comune (tota in umbro o in osco) e ilnumero fondamentale si moltiplica per il numero delleparti. Questa divisione si riferiva, veramente, prima ditutto allo stato personale della cittadinanza, ma era pureapplicata al territorio, in quanto esso era in generale di-viso. Che non vi fossero soltanto territori di tribù, maanche territori di curie, non si può mettere in dubbio, sefra i pochi nomi romani di curie, che sono pervenuti anostra conoscenza insieme a nomi gentilizi, come adesempio quello di Faucia, troviamo anche dei nomi to-pografici, come Veliensis; ciascuna di esse abbracciava,in quell'antichissimo tempo, un certo numero di territoridelle famiglie, dei quali abbiamo già parlato. Questa co-stituzione ha riscontro, nella sua più semplice forma, coltipo dei comuni cittadini o latini sorti più tardi sottol'influenza romana; essi annoveravano in media centoconsiglieri (centumviri), ognuno dei quali si chiamava«capo di dieci case» (decurio)24. Ma anche nella più an-tica tradizione, che attribuisce alla tripartita Roma trentacurie, trecento genti, trecento cavalieri, trecento senato-ri, tremila case e altrettanti fanti, ricompaiono sempre le

24 In Roma stessa, ove la semplice costituzione delle dieci cu-rie non tardò a scomparire, si trova anche una pratica applicazio-ne della medesima, e abbastanza singolare, appunto in quell'attorituale che noi abbiamo motivo di ritenere per il più antico di tut-ti, cioè nella confarreazione. Pare fuor di dubbio che i suoi diecitestimoni siano nella costituzione decuriale la stessa cosa di ciòche sono i trenta littori della costituzione delle trenta curie.

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stesse cifre normali. Nulla è pertanto più certo che que-sto antichissimo prototipo della costituzione non abbiaavuto origine in Roma, ma sia il primitivo diritto comu-ne di tutti i Latini e che risalga, forse, a tempi anteriorialla divisione delle schiatte. La tradizione della costitu-zione romana, che in queste cose è degna di fede, e cheassegna un'origine storica a tutte le altre divisioni dellacittadinanza, fa sorgere solo la costituzione delle curiecolla fondazione della città; e corrisponde pienamente aquesta indicazione il fatto che la costituzione delle curienon s'incontra solo in Roma, ma anche nello schemadell'ordinamento comunale latino, scoperto da poco,come parte essenziale del diritto cittadino latino in gene-rale. L'essenza di questo schema fu e rimase la divisionedelle curie. Le tribù non possono essere state di grandeimportanza, perchè la loro apparizione, in generale, èfortuita come il loro numero; e dove esse esistevano nonavevano certamente altro significato che questo, che inesse si conservava il ricordo di un'epoca, in cui questeparti (tribus) avevano formato un'unità25. La tradizionenon dice che ogni singola tribù abbia avuto un capo se-parato e un'assemblea separata; e la verosimiglianza del-la ragione ci persuade che, nell'interesse dell'unità dellarepubblica non sia stato consentito alle tribù, delle qualiera composta, un forte organismo particolare. Persinonell'esercito la fanteria contava altrettante coppie di con-

25 Il nome stesso lo dice. La parte, come il giurista sa, altronon è che un intero passato o anche futuro, dunque senza alcunarealtà nel presente.

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stesse cifre normali. Nulla è pertanto più certo che que-sto antichissimo prototipo della costituzione non abbiaavuto origine in Roma, ma sia il primitivo diritto comu-ne di tutti i Latini e che risalga, forse, a tempi anteriorialla divisione delle schiatte. La tradizione della costitu-zione romana, che in queste cose è degna di fede, e cheassegna un'origine storica a tutte le altre divisioni dellacittadinanza, fa sorgere solo la costituzione delle curiecolla fondazione della città; e corrisponde pienamente aquesta indicazione il fatto che la costituzione delle curienon s'incontra solo in Roma, ma anche nello schemadell'ordinamento comunale latino, scoperto da poco,come parte essenziale del diritto cittadino latino in gene-rale. L'essenza di questo schema fu e rimase la divisionedelle curie. Le tribù non possono essere state di grandeimportanza, perchè la loro apparizione, in generale, èfortuita come il loro numero; e dove esse esistevano nonavevano certamente altro significato che questo, che inesse si conservava il ricordo di un'epoca, in cui questeparti (tribus) avevano formato un'unità25. La tradizionenon dice che ogni singola tribù abbia avuto un capo se-parato e un'assemblea separata; e la verosimiglianza del-la ragione ci persuade che, nell'interesse dell'unità dellarepubblica non sia stato consentito alle tribù, delle qualiera composta, un forte organismo particolare. Persinonell'esercito la fanteria contava altrettante coppie di con-

25 Il nome stesso lo dice. La parte, come il giurista sa, altronon è che un intero passato o anche futuro, dunque senza alcunarealtà nel presente.

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dottieri quante erano le tribù, senonchè ciascuna di que-ste coppie tribunizie di guerra non comandava il contin-gente di una determinata tribù, ma quello di ogni singolatribù e tutte insieme comandavano l'intero esercito.

Le stirpi sono distribuite fra le singole curie; i loroconfini, come quelli della casa, sono dati dalla natura.La legislazione può intromettersi in queste sfere di rap-porti naturali, dividere in rami i più vasti consorzi genti-lizi, unire invece in un solo nome gentilizio più gentistremate e poco numerose, e con lo stesso artificio ac-crescere o restringere il numero delle casate. Ma sicco-me, ad onta di questa ingerenza legislativa, i Romaniconsiderarono sempre la consanguineità come la ragionedel nesso della gente, e più ancora della famiglia, cosìconvien dire che la legge romana, coi suoi assestamentiartificiali, sia entrata tanto parcamente in questi rapportiche il carattere fondamentale degli stessi, l'affinità, nonne sia stato sostanziamente turbato. Se quindi il numerodelle case e delle genti nel comune latino fu originaria-mente determinato in una misura, ben presto, per la mu-tevolezza delle umane cose, dovette divenire instabile,di modo che quel prototipo rituale di mille casate e dicento genti non può apparirci che come un'ideale rap-presentazione delle prime forme costitutive della città,quali si immaginavano nei primordi dell'età storica26.

26 Nella Schiavonia, dove il governo della casa è tutt'ora pa-triarcale, convive l'intera famiglia composta sovente di 50 e sinodi 100 persone, nella medesima casa, sotto gli ordini del capo difamiglia (Gospodar) eletto a vita da tutta la famiglia. Il capo di

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dottieri quante erano le tribù, senonchè ciascuna di que-ste coppie tribunizie di guerra non comandava il contin-gente di una determinata tribù, ma quello di ogni singolatribù e tutte insieme comandavano l'intero esercito.

Le stirpi sono distribuite fra le singole curie; i loroconfini, come quelli della casa, sono dati dalla natura.La legislazione può intromettersi in queste sfere di rap-porti naturali, dividere in rami i più vasti consorzi genti-lizi, unire invece in un solo nome gentilizio più gentistremate e poco numerose, e con lo stesso artificio ac-crescere o restringere il numero delle casate. Ma sicco-me, ad onta di questa ingerenza legislativa, i Romaniconsiderarono sempre la consanguineità come la ragionedel nesso della gente, e più ancora della famiglia, cosìconvien dire che la legge romana, coi suoi assestamentiartificiali, sia entrata tanto parcamente in questi rapportiche il carattere fondamentale degli stessi, l'affinità, nonne sia stato sostanziamente turbato. Se quindi il numerodelle case e delle genti nel comune latino fu originaria-mente determinato in una misura, ben presto, per la mu-tevolezza delle umane cose, dovette divenire instabile,di modo che quel prototipo rituale di mille casate e dicento genti non può apparirci che come un'ideale rap-presentazione delle prime forme costitutive della città,quali si immaginavano nei primordi dell'età storica26.

26 Nella Schiavonia, dove il governo della casa è tutt'ora pa-triarcale, convive l'intera famiglia composta sovente di 50 e sinodi 100 persone, nella medesima casa, sotto gli ordini del capo difamiglia (Gospodar) eletto a vita da tutta la famiglia. Il capo di

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Non consta da alcuna tradizione, nè pare credibile, cheogni casa fornisse un fante, ed ogni gente un cavaliereed un senatore. Benchè in fatto si raccogliessero millefanti e trecento cavalieri, si deve ritenere che prevales-sero nella ripartizione alcuni adattamenti pratici invalsida antichissimi tempi, e se non si abbandonarono intera-mente quelle cifre rituali, lo si deve attribuire soltantoalla tendenza, profondamente radicata nell'indole latina,di applicare logicamente piuttosto che formalmente glistessi principî alle variate circostanze. Non v'è dunquein questo antichissimo organismo costituzionale altromembro effettivo e funzionante che le curie, distribuitedieci per ogni tribù.

La curia era un'effettiva unità consorziale, i cui mem-bri si riunivano per lo meno nelle solennità comuni,ognuna sotto un proprio curione (curio), ed avevano unproprio sacerdote (flamen curialis). Senza dubbio anchela leva delle milizie e i censi si facevano per curie, comeanche le adunanze e le votazioni. Però quest'ordinamen-to non deve essere stato applicato nelle votazioni, per-chè in questo caso si sarebbero certamente stabilite ledivisioni in numero dispari.

8 Uguaglianza fra i cittadini. Tanto erano dure edisuguali le relazioni tra il cittadino e il non cittadino,

famiglia amministra gli averi della casa che consistono precipua-mente in bestiame; i risparmi sono divisi tra i vari rami di questaassociazione domestica. Il guadagno privato ottenuto dal com-mercio o dall'industria è proprietà separata.

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Non consta da alcuna tradizione, nè pare credibile, cheogni casa fornisse un fante, ed ogni gente un cavaliereed un senatore. Benchè in fatto si raccogliessero millefanti e trecento cavalieri, si deve ritenere che prevales-sero nella ripartizione alcuni adattamenti pratici invalsida antichissimi tempi, e se non si abbandonarono intera-mente quelle cifre rituali, lo si deve attribuire soltantoalla tendenza, profondamente radicata nell'indole latina,di applicare logicamente piuttosto che formalmente glistessi principî alle variate circostanze. Non v'è dunquein questo antichissimo organismo costituzionale altromembro effettivo e funzionante che le curie, distribuitedieci per ogni tribù.

La curia era un'effettiva unità consorziale, i cui mem-bri si riunivano per lo meno nelle solennità comuni,ognuna sotto un proprio curione (curio), ed avevano unproprio sacerdote (flamen curialis). Senza dubbio anchela leva delle milizie e i censi si facevano per curie, comeanche le adunanze e le votazioni. Però quest'ordinamen-to non deve essere stato applicato nelle votazioni, per-chè in questo caso si sarebbero certamente stabilite ledivisioni in numero dispari.

8 Uguaglianza fra i cittadini. Tanto erano dure edisuguali le relazioni tra il cittadino e il non cittadino,

famiglia amministra gli averi della casa che consistono precipua-mente in bestiame; i risparmi sono divisi tra i vari rami di questaassociazione domestica. Il guadagno privato ottenuto dal com-mercio o dall'industria è proprietà separata.

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altrettanto rigorosa era l'uguaglianza innanzi alla leggedei cittadini fra di loro. Non v'è forse alcun popolo cheabbia saputo, come i Romani, più inesorabilmente soste-nere l'una e l'altra delle due tesi. Forse in nessun caso ri-salta con tutta chiarezza la severità dell'antitesi tra i cit-tadini e i non cittadini come nell'antichissima instituzio-ne della cittadinanza onoraria la quale, originariamente,aveva appunto per iscopo di mantenere questa antitesi.

Quando uno straniero per determinazione del comuneveniva aggregato (cooptare) ai cittadini, egli poteva ri-nunciare alla sua precedente cittadinanza, e allora sol-tanto entrava pienamente nella nuova comunità, ma po-teva anche unire alla vecchia la nuova cittadinanza con-cessagli.

Quest'uso era antichissimo e fu sempre mantenutonell'Ellade, dove, anche più tardi, uno stesso individuoera cittadino di parecchi comuni. Ma il sentimento co-munale, assai più sviluppato nel Lazio, non permettevache si potesse appartenere contemporaneamente a duecomuni, e nel caso che il cittadino aggregato non avessel'intenzione di rinunciare alla sua precedente cittadinan-za, la sua nomina di cittadino onorario non conferivaallo straniero altro diritto che quello della paterna prote-zione o patronato. Ma non ostante questa severa limita-zione, nell'interno del comune romano veniva allontana-ta ogni differenza giuridica tra i suoi membri. Già si èdetto che le differenze esistenti nell'interno della casa,che certamente non si potevano sopprimere, erano quasiignorate quando si trattava di rapporti pubblici. Colui

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altrettanto rigorosa era l'uguaglianza innanzi alla leggedei cittadini fra di loro. Non v'è forse alcun popolo cheabbia saputo, come i Romani, più inesorabilmente soste-nere l'una e l'altra delle due tesi. Forse in nessun caso ri-salta con tutta chiarezza la severità dell'antitesi tra i cit-tadini e i non cittadini come nell'antichissima instituzio-ne della cittadinanza onoraria la quale, originariamente,aveva appunto per iscopo di mantenere questa antitesi.

Quando uno straniero per determinazione del comuneveniva aggregato (cooptare) ai cittadini, egli poteva ri-nunciare alla sua precedente cittadinanza, e allora sol-tanto entrava pienamente nella nuova comunità, ma po-teva anche unire alla vecchia la nuova cittadinanza con-cessagli.

Quest'uso era antichissimo e fu sempre mantenutonell'Ellade, dove, anche più tardi, uno stesso individuoera cittadino di parecchi comuni. Ma il sentimento co-munale, assai più sviluppato nel Lazio, non permettevache si potesse appartenere contemporaneamente a duecomuni, e nel caso che il cittadino aggregato non avessel'intenzione di rinunciare alla sua precedente cittadinan-za, la sua nomina di cittadino onorario non conferivaallo straniero altro diritto che quello della paterna prote-zione o patronato. Ma non ostante questa severa limita-zione, nell'interno del comune romano veniva allontana-ta ogni differenza giuridica tra i suoi membri. Già si èdetto che le differenze esistenti nell'interno della casa,che certamente non si potevano sopprimere, erano quasiignorate quando si trattava di rapporti pubblici. Colui

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che, nella qualità di figlio, era soggetto al padre, potevain un dato caso comandargli come signore del comune.

Non esistevano però i privilegi di casta. I Ramni e iTizi, come tribù più antiche del comune, ottennero bensìil primo posto tra le tribù; e così pure i cittadini anziani(maiores gentes), come famiglie appartenenti al comuneromano da tempi immemorabili, si distinguevano daineocittadini (minores gentes), appartenenti cioè a fami-glie la cui ammissione nella cittadinanza risaliva a unavvenimento conosciuto, come le famiglie albane am-messe in Roma per decreto del popolo dopo la cadutad'Alba. Ma codesta differenza era solo nominale e il cit-tadino anziano non aveva, in confronto del neo-cittadi-no, il menomo privilegio. La cavalleria cittadina, che inquel tempo era adoperata a cavallo ed a piedi nei singo-lari combattimenti davanti alle truppe di linea e che eraconsiderata un'arma speciale poichè comprendeva gliuomini più agiati, meglio armati e più agguerriti, era te-nuta, naturalmente, in maggior conto della fanteria; maanche quest'antitesi non andava oltre il fatto peculiare,da cui era nata; e l'ammissione nella cavalleria era con-cessa ad ogni patrizio.

La sola divisione costituzionale della cittadinanza ac-cordava differenze legittime; in tutto il resto l'eguaglian-za legale di tutti i membri del comune veniva osservatapersino nell'aspetto esteriore. Il modo di vestire distin-gueva bensì il capo del comune dai membri dello stesso,il senatore dal cittadino non appartenente al senato,l'uomo adulto iscritto alla milizia dall'adolescente anco-

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che, nella qualità di figlio, era soggetto al padre, potevain un dato caso comandargli come signore del comune.

Non esistevano però i privilegi di casta. I Ramni e iTizi, come tribù più antiche del comune, ottennero bensìil primo posto tra le tribù; e così pure i cittadini anziani(maiores gentes), come famiglie appartenenti al comuneromano da tempi immemorabili, si distinguevano daineocittadini (minores gentes), appartenenti cioè a fami-glie la cui ammissione nella cittadinanza risaliva a unavvenimento conosciuto, come le famiglie albane am-messe in Roma per decreto del popolo dopo la cadutad'Alba. Ma codesta differenza era solo nominale e il cit-tadino anziano non aveva, in confronto del neo-cittadi-no, il menomo privilegio. La cavalleria cittadina, che inquel tempo era adoperata a cavallo ed a piedi nei singo-lari combattimenti davanti alle truppe di linea e che eraconsiderata un'arma speciale poichè comprendeva gliuomini più agiati, meglio armati e più agguerriti, era te-nuta, naturalmente, in maggior conto della fanteria; maanche quest'antitesi non andava oltre il fatto peculiare,da cui era nata; e l'ammissione nella cavalleria era con-cessa ad ogni patrizio.

La sola divisione costituzionale della cittadinanza ac-cordava differenze legittime; in tutto il resto l'eguaglian-za legale di tutti i membri del comune veniva osservatapersino nell'aspetto esteriore. Il modo di vestire distin-gueva bensì il capo del comune dai membri dello stesso,il senatore dal cittadino non appartenente al senato,l'uomo adulto iscritto alla milizia dall'adolescente anco-

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ra inetto alle armi; ma il ricco e il nobile, come il poveroe quello di oscuri natali, non potevano comparire inpubblico che nella stessa semplice toga di lana bianca.

Questa perfetta eguaglianza dei cittadini è senza dub-bio originaria nella costituzione comunale indogermani-ca ma il rigore con cui fu ammessa e praticata in Romaè una delle più notevoli e importanti caratteristiche dellanazione latina; e si può ben dire che in Italia nessunarazza precedentemente stabilitasi nel paese e di minorattitudine civile si incontrò con gli immigrati latini e,quindi, mancò loro la principale occasione che determi-nò la formazione delle caste indiane, delle spartane edelle tessaliche e, in generale, della nobiltà ellenica eforse anche le distinzioni delle classi tra i Tedeschi.

9 Oneri dei cittadini. Ognun sa che l'economiadello stato si appoggia sull'intera cittadinanza. La piùimportante prestazione del cittadino era il servizio mili-tare, poichè i soli cittadini avevano il diritto ed il doveredi portare le armi. I cittadini sono nello stesso tempo iguerrieri (populus, affine con populari, devastare: popa,il ministro che scanna le vittime); e «uomini astati»(Quirites) come li chiama il re quando ad essi parla. Si ègià detto in qual modo l'esercito di attacco, la legione,sia stata formata. Nel tripartito comune romano essaconsisteva in tre centinaia (centuriae) di cavalieri (cele-res) sotto il comando dei tre condottieri dei cavalieri(tribunus celerum), e di tre migliaia di fanti (milites) alcomando di tre capi di divisione della fanteria (tribuni

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ra inetto alle armi; ma il ricco e il nobile, come il poveroe quello di oscuri natali, non potevano comparire inpubblico che nella stessa semplice toga di lana bianca.

Questa perfetta eguaglianza dei cittadini è senza dub-bio originaria nella costituzione comunale indogermani-ca ma il rigore con cui fu ammessa e praticata in Romaè una delle più notevoli e importanti caratteristiche dellanazione latina; e si può ben dire che in Italia nessunarazza precedentemente stabilitasi nel paese e di minorattitudine civile si incontrò con gli immigrati latini e,quindi, mancò loro la principale occasione che determi-nò la formazione delle caste indiane, delle spartane edelle tessaliche e, in generale, della nobiltà ellenica eforse anche le distinzioni delle classi tra i Tedeschi.

9 Oneri dei cittadini. Ognun sa che l'economiadello stato si appoggia sull'intera cittadinanza. La piùimportante prestazione del cittadino era il servizio mili-tare, poichè i soli cittadini avevano il diritto ed il doveredi portare le armi. I cittadini sono nello stesso tempo iguerrieri (populus, affine con populari, devastare: popa,il ministro che scanna le vittime); e «uomini astati»(Quirites) come li chiama il re quando ad essi parla. Si ègià detto in qual modo l'esercito di attacco, la legione,sia stata formata. Nel tripartito comune romano essaconsisteva in tre centinaia (centuriae) di cavalieri (cele-res) sotto il comando dei tre condottieri dei cavalieri(tribunus celerum), e di tre migliaia di fanti (milites) alcomando di tre capi di divisione della fanteria (tribuni

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militum). Quest'ultima era certamente il perno della mi-lizia comunale. Il re stesso ne era regolarmente il gene-rale. Oltre al servizio militare potevano toccare al citta-dino altre prestazioni personali, come la coltivazione deicampi del re o la costruzione degli edifici pubblici, ed ildovere di eseguire gli ordini reali in guerra e in pace.

Non vi erano regolari imposizioni dirette, come nonvi erano spese pubbliche ordinarie dirette. Per sostenereil carico delle spese comunali non erano necessarie im-poste, poichè lo stato non accordava alcun compenso nèpel servizio militare nè per le prestazioni personali inoggetti di pubblico servizio; ma quando si rendeva ne-cessario un compenso, esso veniva fornito o dal consor-zio a cui incombeva il carico dell'opera o dall'individuoche non poteva o non voleva prestar l'opera sua, a coluiche sottentrava in sua vece.

Le vittime necessarie pel servizio divino si procaccia-vano col mezzo delle multe processuali, poichè colui, ilquale soccombeva in un processo regolare, pagava allostato una multa in bestiame (sacramentum) in propor-zione all'oggetto contestato. Non è fatta menzione didoni prestabiliti che i cittadini dovessero al re. Ma pareche i non cittadini domiciliati in Roma (erarii) gli offris-sero un tributo di protezione. Erano poi di ragione del rei dazi dei porti, le rendite dei demani, particolarmente lagabella dei pascoli (scriptura) pel bestiame che andavaa pascolare sui terreni del comune, e la quota di frutti(victigalia) che gli appaltatori dei beni dello stato dove-vano pagare invece di un prezzo d'appalto. A questo si

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militum). Quest'ultima era certamente il perno della mi-lizia comunale. Il re stesso ne era regolarmente il gene-rale. Oltre al servizio militare potevano toccare al citta-dino altre prestazioni personali, come la coltivazione deicampi del re o la costruzione degli edifici pubblici, ed ildovere di eseguire gli ordini reali in guerra e in pace.

Non vi erano regolari imposizioni dirette, come nonvi erano spese pubbliche ordinarie dirette. Per sostenereil carico delle spese comunali non erano necessarie im-poste, poichè lo stato non accordava alcun compenso nèpel servizio militare nè per le prestazioni personali inoggetti di pubblico servizio; ma quando si rendeva ne-cessario un compenso, esso veniva fornito o dal consor-zio a cui incombeva il carico dell'opera o dall'individuoche non poteva o non voleva prestar l'opera sua, a coluiche sottentrava in sua vece.

Le vittime necessarie pel servizio divino si procaccia-vano col mezzo delle multe processuali, poichè colui, ilquale soccombeva in un processo regolare, pagava allostato una multa in bestiame (sacramentum) in propor-zione all'oggetto contestato. Non è fatta menzione didoni prestabiliti che i cittadini dovessero al re. Ma pareche i non cittadini domiciliati in Roma (erarii) gli offris-sero un tributo di protezione. Erano poi di ragione del rei dazi dei porti, le rendite dei demani, particolarmente lagabella dei pascoli (scriptura) pel bestiame che andavaa pascolare sui terreni del comune, e la quota di frutti(victigalia) che gli appaltatori dei beni dello stato dove-vano pagare invece di un prezzo d'appalto. A questo si

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aggiungeva il prodotto delle multe in bestiame, e le con-fische, nonchè il bottino fatto in guerra. In caso di ne-cessità, finalmente, si metteva una imposizione (tribu-tum), che era però considerata come un prestito forzatoe che si restituiva in tempi migliori; nè ci è dato di pre-cisare se il tributo colpisse tutti i domiciliati, fossero ono cittadini, o soltanto cittadini, come pare più verosi-mile.

Il re amministrava le finanze, ma i beni del pubbliconon si confondevano con la sostanza privata del re che,a giudicare dalle notizie sulla vastità dei possessidell'ultima dinastia de' Tarquinii, dev'esser stata sempreragguardevole, e particolarmente i terreni acquistati col-le armi. Non risulta precisamente se, e fino a qual grado,il re fosse vincolato dalle consuetudini nell'amministrarei beni pubblici; ma lo stato delle finanze repubblicane ciprova che i cittadini non devono mai essere stati chia-mati a pagare le imposte; mentre invece deve esservistato l'uso di interrogare il senato prima d'imporre un tri-buto e prima di procedere alla divisione del terreno ara-torio guadagnato in guerra.

10 Diritti dei cittadini. I cittadini romani non era-no solo sottoposti a prestazioni personali ed al serviziomilitare, ma erano anche partecipi al reggimento pubbli-co. Tutti i membri del comune, ad eccezione delle donnee degli adolescenti non ancora atti alle armi, tutti dun-que i Quiriti, si adunavano nell'assemblea, non a loroplacito, ma ogni qualvolta il re li convocava per far loro

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aggiungeva il prodotto delle multe in bestiame, e le con-fische, nonchè il bottino fatto in guerra. In caso di ne-cessità, finalmente, si metteva una imposizione (tribu-tum), che era però considerata come un prestito forzatoe che si restituiva in tempi migliori; nè ci è dato di pre-cisare se il tributo colpisse tutti i domiciliati, fossero ono cittadini, o soltanto cittadini, come pare più verosi-mile.

Il re amministrava le finanze, ma i beni del pubbliconon si confondevano con la sostanza privata del re che,a giudicare dalle notizie sulla vastità dei possessidell'ultima dinastia de' Tarquinii, dev'esser stata sempreragguardevole, e particolarmente i terreni acquistati col-le armi. Non risulta precisamente se, e fino a qual grado,il re fosse vincolato dalle consuetudini nell'amministrarei beni pubblici; ma lo stato delle finanze repubblicane ciprova che i cittadini non devono mai essere stati chia-mati a pagare le imposte; mentre invece deve esservistato l'uso di interrogare il senato prima d'imporre un tri-buto e prima di procedere alla divisione del terreno ara-torio guadagnato in guerra.

10 Diritti dei cittadini. I cittadini romani non era-no solo sottoposti a prestazioni personali ed al serviziomilitare, ma erano anche partecipi al reggimento pubbli-co. Tutti i membri del comune, ad eccezione delle donnee degli adolescenti non ancora atti alle armi, tutti dun-que i Quiriti, si adunavano nell'assemblea, non a loroplacito, ma ogni qualvolta il re li convocava per far loro

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una comunicazione (conventio, contio), o quando li adu-nava formalmente ogni tre settimane (in trinum mundi-num comitia) affine di interpellarli per curie. Ordinaria-mente egli stabiliva le formali assemblee del comunedue volte all'anno, il 24 marzo e il 24 maggio, sempre,però, non per parlare, ma per udire, non per interrogare,ma per rispondere. Nell'assemblea nessuno parlaall'infuori del re o di colui al quale il re concede la fa-coltà di parlare. Il discorso dei cittadini è una semplicerisposta alla richiesta del re, senza discussione, senzamotivazione, senza condizione. Nondimeno, a guardarela sostanza delle cose, il comune romano è come il co-mune dei Tedeschi e, probabilmente, come il più anticodegli indogermani, il vero e ultimo fondamento dell'ideadello stato sovrano; ma questa sovranità sta nell'ordina-rio andamento delle cose, o si manifesta soltanto assog-gettandosi spontaneamente all'ubbidienza verso il capo.A questo fine il re, dopo il suo insediamento, rivolgealle curie adunate la domanda se vogliono essere fedelie soggette, e se, giusta l'uso, vogliono riconoscere conlui i suoi servitori, questori e littori; domanda alla quale,senza dubbio, non era permesso rispondere negativa-mente, nel modo che non si può rifiutare l'omaggio aduna monarchia ereditaria. Era ben conseguente che lacittadinanza, come il sovrano, non partecipasseroall'andamento della cosa pubblica. Finchè la pubblica at-tività non trascende l'esercizio della stabilita costituzio-ne, il potere sovrano e costituzionale non ha alcun moti-vo di intervenire; sono le leggi che governano, non il le-

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una comunicazione (conventio, contio), o quando li adu-nava formalmente ogni tre settimane (in trinum mundi-num comitia) affine di interpellarli per curie. Ordinaria-mente egli stabiliva le formali assemblee del comunedue volte all'anno, il 24 marzo e il 24 maggio, sempre,però, non per parlare, ma per udire, non per interrogare,ma per rispondere. Nell'assemblea nessuno parlaall'infuori del re o di colui al quale il re concede la fa-coltà di parlare. Il discorso dei cittadini è una semplicerisposta alla richiesta del re, senza discussione, senzamotivazione, senza condizione. Nondimeno, a guardarela sostanza delle cose, il comune romano è come il co-mune dei Tedeschi e, probabilmente, come il più anticodegli indogermani, il vero e ultimo fondamento dell'ideadello stato sovrano; ma questa sovranità sta nell'ordina-rio andamento delle cose, o si manifesta soltanto assog-gettandosi spontaneamente all'ubbidienza verso il capo.A questo fine il re, dopo il suo insediamento, rivolgealle curie adunate la domanda se vogliono essere fedelie soggette, e se, giusta l'uso, vogliono riconoscere conlui i suoi servitori, questori e littori; domanda alla quale,senza dubbio, non era permesso rispondere negativa-mente, nel modo che non si può rifiutare l'omaggio aduna monarchia ereditaria. Era ben conseguente che lacittadinanza, come il sovrano, non partecipasseroall'andamento della cosa pubblica. Finchè la pubblica at-tività non trascende l'esercizio della stabilita costituzio-ne, il potere sovrano e costituzionale non ha alcun moti-vo di intervenire; sono le leggi che governano, non il le-

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gislatore. Diverso è il caso quando è necessario un cam-biamento dell'esistente costituzione, o anche soltantouna deviazione dalla medesima in qualche singola appli-cazione; e allora anche nella costituzione romana tutta lacittadinanza, senza eccezione alcuna interviene.

Come il rapporto legale tra il re ed i sudditi è sanzio-nato mediante una domanda e risposta verbale, così inogni atto di sovranità del comune si procede col mezzod'una interpellanza (rogatio), che il re – ma il re soltantoe nessun altro, nemmeno il suo luogotenente – rivolge aicittadini, ed alla quale ha già acconsentito la maggioran-za delle curie; in questo caso l'assentimento poteva sen-za alcun dubbio anche venir rifiutato. Perciò presso iRomani, la legge non è, come ora noi l'intendiamo, unordine trasmesso dal sovrano a tutti i membri della co-munità, ma il patto27 conchiuso mediante proposta e ri-sposta tra i poteri costitutivi dello stato.

Questa maniera d'innovata convenzione si verifica le-galmente in tutti i casi che escono dalle ordinarie conse-guenze del diritto. Secondo l'ordinario processo giuridi-co ciascuno poteva dare, senza riserva di sorta, la suaproprietà a chi voleva, ma in tal caso doveva rinunciare

27 Lex, propriamente discorso (da λεγειν, parlare) indica noto-riamente il patto generale ma col significato accessorio d'un patto,le cui condizioni sono dettate dal proponente e semplicemente ac-cettate o declinate dall'accettante; come avviene per esempio nel-le pubbliche aste. Nella lex publica populi romani il proponente èil re, l'accettante il popolo; la limitata cooperazione del popolo èquindi indicata anche filosoficamente con parole piene di signifi-cato.

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gislatore. Diverso è il caso quando è necessario un cam-biamento dell'esistente costituzione, o anche soltantouna deviazione dalla medesima in qualche singola appli-cazione; e allora anche nella costituzione romana tutta lacittadinanza, senza eccezione alcuna interviene.

Come il rapporto legale tra il re ed i sudditi è sanzio-nato mediante una domanda e risposta verbale, così inogni atto di sovranità del comune si procede col mezzod'una interpellanza (rogatio), che il re – ma il re soltantoe nessun altro, nemmeno il suo luogotenente – rivolge aicittadini, ed alla quale ha già acconsentito la maggioran-za delle curie; in questo caso l'assentimento poteva sen-za alcun dubbio anche venir rifiutato. Perciò presso iRomani, la legge non è, come ora noi l'intendiamo, unordine trasmesso dal sovrano a tutti i membri della co-munità, ma il patto27 conchiuso mediante proposta e ri-sposta tra i poteri costitutivi dello stato.

Questa maniera d'innovata convenzione si verifica le-galmente in tutti i casi che escono dalle ordinarie conse-guenze del diritto. Secondo l'ordinario processo giuridi-co ciascuno poteva dare, senza riserva di sorta, la suaproprietà a chi voleva, ma in tal caso doveva rinunciare

27 Lex, propriamente discorso (da λεγειν, parlare) indica noto-riamente il patto generale ma col significato accessorio d'un patto,le cui condizioni sono dettate dal proponente e semplicemente ac-cettate o declinate dall'accettante; come avviene per esempio nel-le pubbliche aste. Nella lex publica populi romani il proponente èil re, l'accettante il popolo; la limitata cooperazione del popolo èquindi indicata anche filosoficamente con parole piene di signifi-cato.

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contemporaneamente alla proprietà stessa, essendo a ri-gor di legge impossibile di conservare provvisoriamentela proprietà e trasmetterla ad altri soltanto dopo morte, ameno che il comune non glielo concedesse, ciò che erafacoltativo non solo ai cittadini raccolti nelle curie, maanche ai guerrieri sul campo di battaglia.

Questa è l'origine dei testamenti.Sempre secondo l'ordinario processo giuridico,

l'uomo libero non può nè perdere nè donare il bene ina-lienabile della libertà e quindi, colui che non è soggettoa padrone, non può assoggettarsi ad alcuno come figlioadottivo, a meno che il comune non lo conceda: e questaè l'adozione.

Il diritto di cittadinanza non si può acquistare se nonper nascita, e non si può perdere in alcun modo, a menoche il comune non conceda il patriziato o non ne per-metta la rinuncia: e non v'è dubbio, che nè l'una nèl'altra cosa poteva succedere legalmente, prima dei tem-pi dei re, senza una deliberazione delle curie.

La pena capitale colpisce inesorabilmente il condan-nato dopo che il re o il suo vicario hanno pronunciatolegalmente la sentenza; perchè il re può soltanto giudi-care, ma non può dispensare dagli effetti del giudizio, ameno che il cittadino condannato a morte non invochi lagrazia del comune ed il giudice non gli permetta il ricor-so di grazia. Questo è il principio della provocazione, laquale perciò non si accorda al reo convinto, ma nonconfesso, ma solo al confesso, che faccia valere dellecircostanze attenuanti.

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contemporaneamente alla proprietà stessa, essendo a ri-gor di legge impossibile di conservare provvisoriamentela proprietà e trasmetterla ad altri soltanto dopo morte, ameno che il comune non glielo concedesse, ciò che erafacoltativo non solo ai cittadini raccolti nelle curie, maanche ai guerrieri sul campo di battaglia.

Questa è l'origine dei testamenti.Sempre secondo l'ordinario processo giuridico,

l'uomo libero non può nè perdere nè donare il bene ina-lienabile della libertà e quindi, colui che non è soggettoa padrone, non può assoggettarsi ad alcuno come figlioadottivo, a meno che il comune non lo conceda: e questaè l'adozione.

Il diritto di cittadinanza non si può acquistare se nonper nascita, e non si può perdere in alcun modo, a menoche il comune non conceda il patriziato o non ne per-metta la rinuncia: e non v'è dubbio, che nè l'una nèl'altra cosa poteva succedere legalmente, prima dei tem-pi dei re, senza una deliberazione delle curie.

La pena capitale colpisce inesorabilmente il condan-nato dopo che il re o il suo vicario hanno pronunciatolegalmente la sentenza; perchè il re può soltanto giudi-care, ma non può dispensare dagli effetti del giudizio, ameno che il cittadino condannato a morte non invochi lagrazia del comune ed il giudice non gli permetta il ricor-so di grazia. Questo è il principio della provocazione, laquale perciò non si accorda al reo convinto, ma nonconfesso, ma solo al confesso, che faccia valere dellecircostanze attenuanti.

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Nell'ordinario processo giuridico il trattato perpetuoconchiuso con uno stato limitrofo non può essere infran-to, a meno che i cittadini non vi acconsentano. Per que-sto motivo i cittadini devono essere necessariamenteconsultati quando si vuol promuovere una guerra offen-siva; non così quando si tratta di una guerra difensiva, incui l'altra parte contraente abbia infranto il trattato, eneppure per la conclusione della pace.

Tuttavia in questi ultimi casi l'interpellanza si dirige-va all'esercito e non all'assemblea delle curie.

Così finalmente è necessario d'interpellare i cittadiniogni qual volta il re abbia in animo di innovare o dicambiare il vigente diritto pubblico; e perciò la sovrani-tà legislativa sino dai più vetusti tempi ci si manifestacome appartenente al comune e non al re. In questo e inaltri simili casi il re non poteva agire legalmente senza ilconcorso del comune; e colui che fosse stato dichiaratopatrizio unicamente dal re, rimaneva come prima noncittadino, e questo atto nullo poteva solo avere delleconseguenze di fatto. Per quanto l'assemblea comunaleci appaia limitata e vincolata, essa era, però, sino da an-tichissimi tempi, un elemento costitutivo della repubbli-ca romana e la sua attività e il suo diritto non erano,come quelli del senato, dipendenti in ultima istanzadall'arbitrio del re.

11 Originaria costituzione romana. Riassumia-mo ora brevemente i risultati delle nostre indagini.L'essenza e il fondamento della sovranità stava nel co-

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Nell'ordinario processo giuridico il trattato perpetuoconchiuso con uno stato limitrofo non può essere infran-to, a meno che i cittadini non vi acconsentano. Per que-sto motivo i cittadini devono essere necessariamenteconsultati quando si vuol promuovere una guerra offen-siva; non così quando si tratta di una guerra difensiva, incui l'altra parte contraente abbia infranto il trattato, eneppure per la conclusione della pace.

Tuttavia in questi ultimi casi l'interpellanza si dirige-va all'esercito e non all'assemblea delle curie.

Così finalmente è necessario d'interpellare i cittadiniogni qual volta il re abbia in animo di innovare o dicambiare il vigente diritto pubblico; e perciò la sovrani-tà legislativa sino dai più vetusti tempi ci si manifestacome appartenente al comune e non al re. In questo e inaltri simili casi il re non poteva agire legalmente senza ilconcorso del comune; e colui che fosse stato dichiaratopatrizio unicamente dal re, rimaneva come prima noncittadino, e questo atto nullo poteva solo avere delleconseguenze di fatto. Per quanto l'assemblea comunaleci appaia limitata e vincolata, essa era, però, sino da an-tichissimi tempi, un elemento costitutivo della repubbli-ca romana e la sua attività e il suo diritto non erano,come quelli del senato, dipendenti in ultima istanzadall'arbitrio del re.

11 Originaria costituzione romana. Riassumia-mo ora brevemente i risultati delle nostre indagini.L'essenza e il fondamento della sovranità stava nel co-

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mune cittadino romano; ma questa sovranità virtualenon poteva, meno il caso di suprema necessità, operareda sè sola: e non agiva in concorso del re se non nelcaso che si avesse a deviare dall'ordine statuito. Il regiopotere, come dice Sallustio, era nello stesso tempo illi-mitato e vincolato dalle leggi (imperium legitimum); illi-mitato in quantochè i suoi ordini, giusti o ingiusti, dove-vano essere eseguiti immediatamente; vincolato perchèuna misura contraria agli usi tradizionali, e non consen-tita dal vero sovrano, cioè dal popolo, non aveva conse-guenze legali durature.

La più antica costituzione romana era quindi in certoqual modo la monarchia costituzionale de' moderni pre-sa in ordine inverso, e se nel sistema costituzionale mo-derno il re viene considerato come il possessore e il cu-stode del pieno potere dello stato, e però da lui soloemanano, a esempio, gli atti di grazia, mentre ai rappre-sentanti del popolo è riserbato il governo e l'indirizzodello stato, invece il comune popolare romano erapress'a poco ciò che è il Re in Inghilterra; e il diritto digrazia che in Inghilterra è un diritto riserbato alla coro-na, a Roma era un diritto riserbato al comune popolareromano, mentre il governo effettivo della cosa pubblicaerano nelle mani del re. Infine, se dirigiamo le nostre ri-cerche sui rapporti fra lo stato e i suoi membri, troviamoche secondo il concetto romano lo stato era egualmentelontano e dalla teoria accomodante che lo riduce a unasemplice alleanza difensiva, e da quelle idee superlativedei moderni, che gli concedono una sovranità autocrati-

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mune cittadino romano; ma questa sovranità virtualenon poteva, meno il caso di suprema necessità, operareda sè sola: e non agiva in concorso del re se non nelcaso che si avesse a deviare dall'ordine statuito. Il regiopotere, come dice Sallustio, era nello stesso tempo illi-mitato e vincolato dalle leggi (imperium legitimum); illi-mitato in quantochè i suoi ordini, giusti o ingiusti, dove-vano essere eseguiti immediatamente; vincolato perchèuna misura contraria agli usi tradizionali, e non consen-tita dal vero sovrano, cioè dal popolo, non aveva conse-guenze legali durature.

La più antica costituzione romana era quindi in certoqual modo la monarchia costituzionale de' moderni pre-sa in ordine inverso, e se nel sistema costituzionale mo-derno il re viene considerato come il possessore e il cu-stode del pieno potere dello stato, e però da lui soloemanano, a esempio, gli atti di grazia, mentre ai rappre-sentanti del popolo è riserbato il governo e l'indirizzodello stato, invece il comune popolare romano erapress'a poco ciò che è il Re in Inghilterra; e il diritto digrazia che in Inghilterra è un diritto riserbato alla coro-na, a Roma era un diritto riserbato al comune popolareromano, mentre il governo effettivo della cosa pubblicaerano nelle mani del re. Infine, se dirigiamo le nostre ri-cerche sui rapporti fra lo stato e i suoi membri, troviamoche secondo il concetto romano lo stato era egualmentelontano e dalla teoria accomodante che lo riduce a unasemplice alleanza difensiva, e da quelle idee superlativedei moderni, che gli concedono una sovranità autocrati-

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ca. Certo era ancor meno possibile porre limiti materialial potere dello stato, che non al potere del re; ma se ilconcetto del diritto segna nella sua stessa determinazio-ne i limiti all'attuazione legittima del diritto, anche il po-tere dello stato non può dirsi sconfinato. Il comune di-sponeva bensì della persona del cittadino, imponendo ipubblici gravami e castigando le mancanze e i delitti,ma ogni legge speciale, che imponesse oneri o minac-ciasse pene ad un singolo individuo, per azioni non ge-neralmente vietate, era sempre considerata dai Romani,quand'anche fossero osservate le forme costituzionali,come un atto di tirannide. Più limitata assai era la sovra-nità comunale rispetto ai diritti di proprietà, e a ciò che,con questi, era piuttosto in coincidenza che in necessariaconnessione, ai diritti di famiglia. Uno dei principî piùincontestabili e più singolari della primitiva costituzioneromana era quello che autorizzava lo stato a imprigiona-re e condannare nel capo un cittadino, ma non gli conce-deva di togliergli il figlio o le sostanze, e neppure di sot-toporlo a particolari gravezze. Nessuna comunità, dentrola sua sfera giuridica, era più onnipotente della romana;ma nel tempo stesso in nessun'altra comunità l'integrocittadino viveva con più assoluta sicurezza sia accanto a'suoi concittadini, sia di fronte allo stato. Così reggevasiil comune romano, popolo libero e ubbidiente, lontanoda ogni mistica aberrazione ieratica, in assoluta egua-glianza innanzi alla legge e nel diritto privato, conser-vando lo spiccato carattere della propria nazionalità,mentre apriva con magnanima fiducia le porte al com-

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ca. Certo era ancor meno possibile porre limiti materialial potere dello stato, che non al potere del re; ma se ilconcetto del diritto segna nella sua stessa determinazio-ne i limiti all'attuazione legittima del diritto, anche il po-tere dello stato non può dirsi sconfinato. Il comune di-sponeva bensì della persona del cittadino, imponendo ipubblici gravami e castigando le mancanze e i delitti,ma ogni legge speciale, che imponesse oneri o minac-ciasse pene ad un singolo individuo, per azioni non ge-neralmente vietate, era sempre considerata dai Romani,quand'anche fossero osservate le forme costituzionali,come un atto di tirannide. Più limitata assai era la sovra-nità comunale rispetto ai diritti di proprietà, e a ciò che,con questi, era piuttosto in coincidenza che in necessariaconnessione, ai diritti di famiglia. Uno dei principî piùincontestabili e più singolari della primitiva costituzioneromana era quello che autorizzava lo stato a imprigiona-re e condannare nel capo un cittadino, ma non gli conce-deva di togliergli il figlio o le sostanze, e neppure di sot-toporlo a particolari gravezze. Nessuna comunità, dentrola sua sfera giuridica, era più onnipotente della romana;ma nel tempo stesso in nessun'altra comunità l'integrocittadino viveva con più assoluta sicurezza sia accanto a'suoi concittadini, sia di fronte allo stato. Così reggevasiil comune romano, popolo libero e ubbidiente, lontanoda ogni mistica aberrazione ieratica, in assoluta egua-glianza innanzi alla legge e nel diritto privato, conser-vando lo spiccato carattere della propria nazionalità,mentre apriva con magnanima fiducia le porte al com-

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mercio con l'estero, di che in breve daremo le prove.Questa costituzione non fu nè architettata a un tratto, nècopiata, sibbene crebbe nel popolo e col popolo romano.È facile comprendere ch'essa si informò alla più anticacostituzione italica e greco-italica; ma una lunga e mol-teplice serie di esperimenti e svolgimenti politici s'inter-pone senza dubbio tra le istituzioni sociali, quali ci ven-gono descritte ne' poemi omerici e ne' ritratti tacitianidella Germania, e il più antico ordinamento della comu-nità romana. Nelle acclamazioni rituali degli Elleni, nel-la percussione degli scudi delle adunanze tedesche bensi riscontra una manifestazione del diritto sovrano dellasocietà; ma v'è gran differenza fra questi simboli tumul-tuari e la ordinata e stabile competenza ed il regolarepronunciarsi dei convegni curiali del Lazio. E si pongapure, se così piace, che i Romani pigliassero dai fore-stieri i ventiquattro littori, e molteplici usi, come certoimitarono dai Greci (e non già dagli Etruschi) il mantel-lo purpureo ed il bastone eburneo, distintivo della som-ma podestà: rimarrà sempre fermo che a Roma, o alme-no nel Lazio, appartiene in proprio la esplicazione deldiritto pubblico romano. E che ciò sia vero, e che scarsee inconcludenti sieno state in questa materia le imitazio-ni di cose straniere, ce lo prova il fatto, che tutti i con-cetti giuridici sono espressi con parole di conio latino.

Questa è la costituzione, che fissò l'idea fondamentaledello stato romano per tutti i tempi avvenire; perchè,malgrado la mutevolezza e caducità delle forme, finchèvi fu un comune romano, rimase inconcusso il principio,

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mercio con l'estero, di che in breve daremo le prove.Questa costituzione non fu nè architettata a un tratto, nècopiata, sibbene crebbe nel popolo e col popolo romano.È facile comprendere ch'essa si informò alla più anticacostituzione italica e greco-italica; ma una lunga e mol-teplice serie di esperimenti e svolgimenti politici s'inter-pone senza dubbio tra le istituzioni sociali, quali ci ven-gono descritte ne' poemi omerici e ne' ritratti tacitianidella Germania, e il più antico ordinamento della comu-nità romana. Nelle acclamazioni rituali degli Elleni, nel-la percussione degli scudi delle adunanze tedesche bensi riscontra una manifestazione del diritto sovrano dellasocietà; ma v'è gran differenza fra questi simboli tumul-tuari e la ordinata e stabile competenza ed il regolarepronunciarsi dei convegni curiali del Lazio. E si pongapure, se così piace, che i Romani pigliassero dai fore-stieri i ventiquattro littori, e molteplici usi, come certoimitarono dai Greci (e non già dagli Etruschi) il mantel-lo purpureo ed il bastone eburneo, distintivo della som-ma podestà: rimarrà sempre fermo che a Roma, o alme-no nel Lazio, appartiene in proprio la esplicazione deldiritto pubblico romano. E che ciò sia vero, e che scarsee inconcludenti sieno state in questa materia le imitazio-ni di cose straniere, ce lo prova il fatto, che tutti i con-cetti giuridici sono espressi con parole di conio latino.

Questa è la costituzione, che fissò l'idea fondamentaledello stato romano per tutti i tempi avvenire; perchè,malgrado la mutevolezza e caducità delle forme, finchèvi fu un comune romano, rimase inconcusso il principio,

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che non si devono opporre ostacoli all'impero esecutivodel magistrato, che il senato è la suprema autorità dellostato, e che per ogni novazione o deviazione del dirittostatuito occorre la sanzione del sovrano, cioè del comu-ne popolare.

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che non si devono opporre ostacoli all'impero esecutivodel magistrato, che il senato è la suprema autorità dellostato, e che per ogni novazione o deviazione del dirittostatuito occorre la sanzione del sovrano, cioè del comu-ne popolare.

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SESTO CAPITOLOI NON-CITTADINI E LA RIFORMA DELLA

COSTITUZIONE

1 Fusione del comune latino e del Quirinale.La storia italica, come quella di ogni nazione, è un gran-de sinoechismo. Già la Roma più antica della quale si hanotizia è trina e le incorporazioni finiscono solo quandoil romanismo si irrigidisce. Pur tenendo conto diquell'antichissimo processo di fusione dei Ramni, Tizii eLuceri del quale non è conosciuto che il semplice fatto,la più antica incorporazione è quella in cui si fuse la cit-tadinanza del colle nella Roma palatina.

Quando i due comuni stanno per unirsi, la loro costi-tuzione diventa sostanzialmente uguale e il problemaposto da questa fusione si può immaginare così: che sidovesse scegliere fra il mantenimento della doppia isti-tuzione, o sopprimendone una, la relazione di quella chesi conservava verso il comune riunito.

Relativamente ai luoghi sacri ed ai collegi sacerdotali,pare che si attenessero al primo modo, così il comuneromano possedeva da quel momento due congregazionidi Salii e due di Lupi, un doppio Marte e due sacerdotidi Marte e, per distinguerli, si usò chiamare più tardi sa-cerdote di Marte quello del Palatino e di Quirino quellodel Quirinale.

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SESTO CAPITOLOI NON-CITTADINI E LA RIFORMA DELLA

COSTITUZIONE

1 Fusione del comune latino e del Quirinale.La storia italica, come quella di ogni nazione, è un gran-de sinoechismo. Già la Roma più antica della quale si hanotizia è trina e le incorporazioni finiscono solo quandoil romanismo si irrigidisce. Pur tenendo conto diquell'antichissimo processo di fusione dei Ramni, Tizii eLuceri del quale non è conosciuto che il semplice fatto,la più antica incorporazione è quella in cui si fuse la cit-tadinanza del colle nella Roma palatina.

Quando i due comuni stanno per unirsi, la loro costi-tuzione diventa sostanzialmente uguale e il problemaposto da questa fusione si può immaginare così: che sidovesse scegliere fra il mantenimento della doppia isti-tuzione, o sopprimendone una, la relazione di quella chesi conservava verso il comune riunito.

Relativamente ai luoghi sacri ed ai collegi sacerdotali,pare che si attenessero al primo modo, così il comuneromano possedeva da quel momento due congregazionidi Salii e due di Lupi, un doppio Marte e due sacerdotidi Marte e, per distinguerli, si usò chiamare più tardi sa-cerdote di Marte quello del Palatino e di Quirino quellodel Quirinale.

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Per quanto impossibile a provarsi, è verosimile che icollegi sacerdotali di Roma, degli auguri, dei pontefici,delle vestali e dei feciali siano stati composti in partiuguali dai collegi combinati dei due comuni del Palatinoe del Quirinale e che più tardi, alla divisione in tre quar-tieri della città palatina, la Subura, il Palatino ed il sob-borgo, si sia aggiunta la città del colle Quirinale.

Se durante il sinoechismo originario, la città aggiuntafu considerata tale anche dopo l'incorporazione, ed ab-bia quindi continuato a sussistere in certo modo politica-mente, questo fatto non si è più avverato nelle successi-ve incorporazioni.

Anche dopo la riunione, il comune romano rimanevadiviso nelle tre parti precedenti; aveva dieci curie perciascuna, e i Romani del colle, siano stati o no divisi fradi loro, devono aver avuto lo stesso ordinamento. E que-sto è da ritenersi perchè i neo-cittadini non erano com-piutamente fusi con gli antichi e piuttosto da quel mo-mento le due parti appaiono come fossero doppie e i Ti-zii come i Ramni e i Luceri, si suddividono in primi esecondi (priores e posteriores).

Indubbiamente vi è relazione tra questo fatto e la du-plicità dell'ordinamento che si trova sempre nelle istitu-zioni organiche del comune. Così le tre coppie di vestalivengono esplicitamente indicate come le rappresentantidelle tre tribù di primo e secondo ordine. Anche la cop-pia dei Lari, onorati in tutte le vie, si può intendere pro-babilmente in questo modo. Ma è specialmentenell'esercito che tale ordinamento appare evidente.

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Per quanto impossibile a provarsi, è verosimile che icollegi sacerdotali di Roma, degli auguri, dei pontefici,delle vestali e dei feciali siano stati composti in partiuguali dai collegi combinati dei due comuni del Palatinoe del Quirinale e che più tardi, alla divisione in tre quar-tieri della città palatina, la Subura, il Palatino ed il sob-borgo, si sia aggiunta la città del colle Quirinale.

Se durante il sinoechismo originario, la città aggiuntafu considerata tale anche dopo l'incorporazione, ed ab-bia quindi continuato a sussistere in certo modo politica-mente, questo fatto non si è più avverato nelle successi-ve incorporazioni.

Anche dopo la riunione, il comune romano rimanevadiviso nelle tre parti precedenti; aveva dieci curie perciascuna, e i Romani del colle, siano stati o no divisi fradi loro, devono aver avuto lo stesso ordinamento. E que-sto è da ritenersi perchè i neo-cittadini non erano com-piutamente fusi con gli antichi e piuttosto da quel mo-mento le due parti appaiono come fossero doppie e i Ti-zii come i Ramni e i Luceri, si suddividono in primi esecondi (priores e posteriores).

Indubbiamente vi è relazione tra questo fatto e la du-plicità dell'ordinamento che si trova sempre nelle istitu-zioni organiche del comune. Così le tre coppie di vestalivengono esplicitamente indicate come le rappresentantidelle tre tribù di primo e secondo ordine. Anche la cop-pia dei Lari, onorati in tutte le vie, si può intendere pro-babilmente in questo modo. Ma è specialmentenell'esercito che tale ordinamento appare evidente.

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Dopo la fusione ogni metà del comune tripartito armacento cavalieri in modo che la cavalleria passa a seicen-to uomini e il numero dei comandanti probabilmente datre a sei. Nulla è giunto fino a noi circa a un corrispon-dente aumento della fanteria, ma si può dedurlo dall'usodi chiamare sotto le armi le legioni regolarmente a dueper volta, e probabilmente dipende da questo raddoppia-mento della leva il fatto che da tre diventano sei i co-mandanti delle suddivisioni della legione. Non ebbe in-vece luogo un corrispondente aumento nel numero deisenatori poichè il numero originario di trecento è rima-sto uguale fino al settimo secolo; il che non toglie cheun certo numero dei più ragguardevoli cittadini dei co-muni neo-aggiunti possa essere stato accolto nel senato.Lo stesso avvenne per la magistratura; anche dopo lariunione, la città era presieduta da un solo re con immu-tato numero di luogotenenti. Da ciò si può dedurre chele istituzioni sacre della città del colle continuarono asussistere mentre per la milizia, alla raddoppiata popola-zione si richiedeva un raddoppiato numero di uomini;ma in tutto il resto la città del colle dovette subordinarsiall'ordinamento palatino.

Se si è ammesso con ragione che la distinzione tra gliantichi cittadini palatini e i neo-cittadini quirinali, coin-cideva con la distinzione dei primi e secondi Tizii, Ram-ni e Luceri, non vi è dubbio che le stirpi del Quirinaledebbono essere state i posteriores e non i priores. Que-sta differenza consisteva certamente più in un privilegioonorifico che di diritto. Nella votazione del consiglio

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Dopo la fusione ogni metà del comune tripartito armacento cavalieri in modo che la cavalleria passa a seicen-to uomini e il numero dei comandanti probabilmente datre a sei. Nulla è giunto fino a noi circa a un corrispon-dente aumento della fanteria, ma si può dedurlo dall'usodi chiamare sotto le armi le legioni regolarmente a dueper volta, e probabilmente dipende da questo raddoppia-mento della leva il fatto che da tre diventano sei i co-mandanti delle suddivisioni della legione. Non ebbe in-vece luogo un corrispondente aumento nel numero deisenatori poichè il numero originario di trecento è rima-sto uguale fino al settimo secolo; il che non toglie cheun certo numero dei più ragguardevoli cittadini dei co-muni neo-aggiunti possa essere stato accolto nel senato.Lo stesso avvenne per la magistratura; anche dopo lariunione, la città era presieduta da un solo re con immu-tato numero di luogotenenti. Da ciò si può dedurre chele istituzioni sacre della città del colle continuarono asussistere mentre per la milizia, alla raddoppiata popola-zione si richiedeva un raddoppiato numero di uomini;ma in tutto il resto la città del colle dovette subordinarsiall'ordinamento palatino.

Se si è ammesso con ragione che la distinzione tra gliantichi cittadini palatini e i neo-cittadini quirinali, coin-cideva con la distinzione dei primi e secondi Tizii, Ram-ni e Luceri, non vi è dubbio che le stirpi del Quirinaledebbono essere state i posteriores e non i priores. Que-sta differenza consisteva certamente più in un privilegioonorifico che di diritto. Nella votazione del consiglio

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

avevano la precedenza su quelli minori i consiglieri toltidalle stirpi più antiche. Così il quartiere collino ha ungrado inferiore perfino a quello suburbano della città pa-latina; il sacerdote di Marte quirino è inferiore a quellodel Marte palatino e lo stesso dicasi di tutti gli altri col-legi sacerdotali. Eppertanto appare chiaro che il sinoe-chismo mediante il quale il comune palatino accolse insè il Quirinale, indica un grado di mezzo tra quello chepiù anticamente aveva confuso insieme Tizii, Ramni eLuceri e tutti i successivi. Difatti il comune aggiuntonon forma mai, nel nuovo organismo, una tribù a sè, madiventa una parte di ogni tribù preesistente; e se, comesi è verificato anche per Alba, si lasciarono sopravvive-re le sue istituzioni sacre, anzi si elevarono a istituzionidel comune riunito, in seguito anche questo non si è piùverificato.

2 Clienti e ospiti. Sostanzialmente di ugual natura,i due organismi comunali, nella loro incorporazione nonproducevano che un effetto quantitativo. Conseguenzeassai più profonde nell'intima trasformazione del comu-ne si ebbero invece in un secondo processo di incorpo-razione che per la stessa natura dovette procedere assailentamente: quello della cittadinanza con i coabitanti.

Dai tempi più antichi, accanto ai cittadini vivevano iclienti, come si chiamavano perchè legati a particolaricasati di cittadini, ossia «la moltitudine» (plebs da pleo,plenus), come si chiamavano negativamente, quasi a si-

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avevano la precedenza su quelli minori i consiglieri toltidalle stirpi più antiche. Così il quartiere collino ha ungrado inferiore perfino a quello suburbano della città pa-latina; il sacerdote di Marte quirino è inferiore a quellodel Marte palatino e lo stesso dicasi di tutti gli altri col-legi sacerdotali. Eppertanto appare chiaro che il sinoe-chismo mediante il quale il comune palatino accolse insè il Quirinale, indica un grado di mezzo tra quello chepiù anticamente aveva confuso insieme Tizii, Ramni eLuceri e tutti i successivi. Difatti il comune aggiuntonon forma mai, nel nuovo organismo, una tribù a sè, madiventa una parte di ogni tribù preesistente; e se, comesi è verificato anche per Alba, si lasciarono sopravvive-re le sue istituzioni sacre, anzi si elevarono a istituzionidel comune riunito, in seguito anche questo non si è piùverificato.

2 Clienti e ospiti. Sostanzialmente di ugual natura,i due organismi comunali, nella loro incorporazione nonproducevano che un effetto quantitativo. Conseguenzeassai più profonde nell'intima trasformazione del comu-ne si ebbero invece in un secondo processo di incorpo-razione che per la stessa natura dovette procedere assailentamente: quello della cittadinanza con i coabitanti.

Dai tempi più antichi, accanto ai cittadini vivevano iclienti, come si chiamavano perchè legati a particolaricasati di cittadini, ossia «la moltitudine» (plebs da pleo,plenus), come si chiamavano negativamente, quasi a si-

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gnificare che non contavano se non per il numero, es-sendo privi di diritti politici28.

Gli elementi di questo grado di mezzo tra liberi e nonliberi, come già si è detto, esistevano da lungo temponella famiglia romana; ma nel comune, questa classe,per una doppia ragione, doveva crescere di fatto e di di-ritto a una grande importanza. Primo: il comune stessopoteva possedere tanto servi, quanto clienti semiliberi.Specialmente dopo la conquista di una città o lo sciogli-mento del comune di essa, al comune vincitore saràsembrato opportuno di non vendere formalmente comeschiavi la massa dei vinti, ma di lasciare piuttosto unalibertà di fatto se non di diritto. In tal modo questi ag-gregati entravano, come liberti del comune, nella statodi dipendenza di clienti, sia verso le famiglie, sia versoil re.

Secondo: per mezzo del comune o dei cittadini daiquali dipendevano, a questi clienti era data la possibilitàdi essere difesi contro l'abusivo diritto sovrano che con-tinuava a sussistere legalmente.

Già dai tempi più remoti era stata introdotta nel dirit-to romano la massima che regolava giuridicamente lacomplessa posizione dei coabitanti. Con essa si stabilivache: se il signore, in occasione di un pubblico atto lega-le, come testamento, processo, censimento, ecc., avevarinunciato esplicitamente o tacitamente al suo diritto au-

28 Habuit plebem in clientelas principum descriptam. (CICERO,de Rep., 2, 2).

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gnificare che non contavano se non per il numero, es-sendo privi di diritti politici28.

Gli elementi di questo grado di mezzo tra liberi e nonliberi, come già si è detto, esistevano da lungo temponella famiglia romana; ma nel comune, questa classe,per una doppia ragione, doveva crescere di fatto e di di-ritto a una grande importanza. Primo: il comune stessopoteva possedere tanto servi, quanto clienti semiliberi.Specialmente dopo la conquista di una città o lo sciogli-mento del comune di essa, al comune vincitore saràsembrato opportuno di non vendere formalmente comeschiavi la massa dei vinti, ma di lasciare piuttosto unalibertà di fatto se non di diritto. In tal modo questi ag-gregati entravano, come liberti del comune, nella statodi dipendenza di clienti, sia verso le famiglie, sia versoil re.

Secondo: per mezzo del comune o dei cittadini daiquali dipendevano, a questi clienti era data la possibilitàdi essere difesi contro l'abusivo diritto sovrano che con-tinuava a sussistere legalmente.

Già dai tempi più remoti era stata introdotta nel dirit-to romano la massima che regolava giuridicamente lacomplessa posizione dei coabitanti. Con essa si stabilivache: se il signore, in occasione di un pubblico atto lega-le, come testamento, processo, censimento, ecc., avevarinunciato esplicitamente o tacitamente al suo diritto au-

28 Habuit plebem in clientelas principum descriptam. (CICERO,de Rep., 2, 2).

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toritario, nè egli stesso nè i suoi successori potevano piùrevocarlo.

I clienti e i loro discendenti, non possedevano ancoranè diritto di cittadini nè di ospiti, perchè per il primo eranecessaria la formale concessione da parte del comune eil secondo presupponeva che il diritto di cittadinanzadell'ospite fosse esistito in un comune avente relazionecol comune romano. La loro era dunque una libertà pro-tetta legalmente insieme ad una continuata non-libertàgiuridica: perciò per lungo tempo i loro rapporti patri-moniali pare siano stati giuridicamente considerati allastregua di quelli degli schiavi nei rapporti giuridici colpatrono, e questi li avrà dovuti necessariamente rappre-sentare nei processi, mentre poteva, in caso di bisogno,prelevare imposte su di essi e avocarli a sè in caso di re-sponsabilità penali.

Ma a poco a poco i coabitanti si liberarono da questilegami. Essi incominciarono coll'acquistare o vendere inproprio e, senza l'assistenza del patrono, ad invocaregiustizia dinanzi ai tribunali.

L'uguaglianza giuridica dei cittadini nel matrimonio enel diritto ereditario era assai più facilmente concessaagli stranieri piuttosto che a questi non-liberi apparte-nenti a nessun comune, ma non poteva impedire a questidi contrarre matrimoni nella loro stessa classe e di stabi-lire rapporti giuridici relativi all'autorità maritale e pa-terna, all'agnazione, alla stirpe, all'eredità e alla tutela,conforme le leggi del comune. A simili conseguenzeconduceva anche il diritto di ospitalità che accordava

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toritario, nè egli stesso nè i suoi successori potevano piùrevocarlo.

I clienti e i loro discendenti, non possedevano ancoranè diritto di cittadini nè di ospiti, perchè per il primo eranecessaria la formale concessione da parte del comune eil secondo presupponeva che il diritto di cittadinanzadell'ospite fosse esistito in un comune avente relazionecol comune romano. La loro era dunque una libertà pro-tetta legalmente insieme ad una continuata non-libertàgiuridica: perciò per lungo tempo i loro rapporti patri-moniali pare siano stati giuridicamente considerati allastregua di quelli degli schiavi nei rapporti giuridici colpatrono, e questi li avrà dovuti necessariamente rappre-sentare nei processi, mentre poteva, in caso di bisogno,prelevare imposte su di essi e avocarli a sè in caso di re-sponsabilità penali.

Ma a poco a poco i coabitanti si liberarono da questilegami. Essi incominciarono coll'acquistare o vendere inproprio e, senza l'assistenza del patrono, ad invocaregiustizia dinanzi ai tribunali.

L'uguaglianza giuridica dei cittadini nel matrimonio enel diritto ereditario era assai più facilmente concessaagli stranieri piuttosto che a questi non-liberi apparte-nenti a nessun comune, ma non poteva impedire a questidi contrarre matrimoni nella loro stessa classe e di stabi-lire rapporti giuridici relativi all'autorità maritale e pa-terna, all'agnazione, alla stirpe, all'eredità e alla tutela,conforme le leggi del comune. A simili conseguenzeconduceva anche il diritto di ospitalità che accordava

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

allo straniero il diritto di prendere domicilio in Roma edi fondarvi una famiglia e sotto questo aspetto dovevanoesistere in Roma, fin da tempo immemorabile, le massi-me più liberali.

Il diritto romano non riconosce nè qualità di beni ere-ditari, nè immobilità di beni giacenti e lascia che ogniindividuo idoneo a disporre dei suoi averi ne dispongaliberamente e senza restrizione in tempo di sua vita, eaccorda a chiunque fosse stato in generale autorizzato,in grazia del diritto d'ospitalità, ad avere commercio concittadini romani, e perciò anche allo straniero ed alcliente, il diritto illimitato di acquistare beni mobili, e,dall'epoca in cui gli immobili poterono diventare patri-monio privato, di acquistare in Roma anche beni immo-bili.

Roma fu una città commerciale e dovette appunto ilprincipio della sua fortuna al commercio internazionaleed all'aver concesso con sapiente larghezza il dirittod'ospizio ad ogni figlio nato da matrimonio ineguale, adogni liberto ed a qualunque forestiero che vi si recasseper accasarvisi stabilmente e si ponesse sotto l'egida diuna famiglia romana.

3 I domiciliati sotto la protezione dei comuni. Icittadini erano quindi da principio effettivamente i pro-tettori; i clienti erano i protetti: ma come suol avvenirein tutti i comuni che restringono entro una chiusa sfera illoro diritto di cittadinanza, così anche a Roma, venendoinnanzi cogli anni, crebbe sempre più la difficoltà di

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allo straniero il diritto di prendere domicilio in Roma edi fondarvi una famiglia e sotto questo aspetto dovevanoesistere in Roma, fin da tempo immemorabile, le massi-me più liberali.

Il diritto romano non riconosce nè qualità di beni ere-ditari, nè immobilità di beni giacenti e lascia che ogniindividuo idoneo a disporre dei suoi averi ne dispongaliberamente e senza restrizione in tempo di sua vita, eaccorda a chiunque fosse stato in generale autorizzato,in grazia del diritto d'ospitalità, ad avere commercio concittadini romani, e perciò anche allo straniero ed alcliente, il diritto illimitato di acquistare beni mobili, e,dall'epoca in cui gli immobili poterono diventare patri-monio privato, di acquistare in Roma anche beni immo-bili.

Roma fu una città commerciale e dovette appunto ilprincipio della sua fortuna al commercio internazionaleed all'aver concesso con sapiente larghezza il dirittod'ospizio ad ogni figlio nato da matrimonio ineguale, adogni liberto ed a qualunque forestiero che vi si recasseper accasarvisi stabilmente e si ponesse sotto l'egida diuna famiglia romana.

3 I domiciliati sotto la protezione dei comuni. Icittadini erano quindi da principio effettivamente i pro-tettori; i clienti erano i protetti: ma come suol avvenirein tutti i comuni che restringono entro una chiusa sfera illoro diritto di cittadinanza, così anche a Roma, venendoinnanzi cogli anni, crebbe sempre più la difficoltà di

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mantenere in armonia il diritto ideale ed immobile colfatto mutabile e positivo. Il fiorire dei commerci, il dirit-to di domicilio nella città garantito a tutti i Latini dellaconfederazione, il numero dei liberti cresciuto a misurache prosperavano le condizioni materiali, tutte questecircostanze dovevano, anche solo mediante le arti dellapace, aumentare straordinariamente il numero dei domi-ciliati29.

Soggiogati colle armi e incorporati a Roma i comunivicini, vi si aggiunsero nella massima parte i rispettiviabitanti, i quali, quand'erano costretti a trasferirsi aRoma, vi entravano come clienti, e quando rimanevanonella patria loro oramai ridotta a villaggio, scambiavanoin ogni modo il proprio diritto di cittadinanza col dirittodella metecia romana30. Oltre di che la guerra pesavaesclusivamente sui cittadini originari e diradava di con-tinuo le file dei patrizi, mentre invece i semplici domici-

29 [Incassen, dice il testo; cioè in-sedenti; o come traduce ilCapei inquilini l'opposto di Esquilinus, abitanti di fuori. Ma il vo-cabolo tedesco significa abitante stabilito, o avente possesso inluogo; e a ciò meglio ci par rispondere domiciliato, che ricordapossesso della casa; e anche legalmente deve preferirsi quest'ulti-ma parola, essendo il domicilio il luogo della stabile dimora di al-cuno, o la sede principale della sua economia].

30 [Il testo ha Metökenrecht, diritto di metecia, che è parolagreca, equivalente a scasamento. I meteci erano gli stranieri am-messi, contro pagamento d'un tributo, che appunto si chiamavametoecia, a soggiornare in Atene e a stabilirvisi: lo Screvellospiega inquilini. Il Capel traduce residenti].

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mantenere in armonia il diritto ideale ed immobile colfatto mutabile e positivo. Il fiorire dei commerci, il dirit-to di domicilio nella città garantito a tutti i Latini dellaconfederazione, il numero dei liberti cresciuto a misurache prosperavano le condizioni materiali, tutte questecircostanze dovevano, anche solo mediante le arti dellapace, aumentare straordinariamente il numero dei domi-ciliati29.

Soggiogati colle armi e incorporati a Roma i comunivicini, vi si aggiunsero nella massima parte i rispettiviabitanti, i quali, quand'erano costretti a trasferirsi aRoma, vi entravano come clienti, e quando rimanevanonella patria loro oramai ridotta a villaggio, scambiavanoin ogni modo il proprio diritto di cittadinanza col dirittodella metecia romana30. Oltre di che la guerra pesavaesclusivamente sui cittadini originari e diradava di con-tinuo le file dei patrizi, mentre invece i semplici domici-

29 [Incassen, dice il testo; cioè in-sedenti; o come traduce ilCapei inquilini l'opposto di Esquilinus, abitanti di fuori. Ma il vo-cabolo tedesco significa abitante stabilito, o avente possesso inluogo; e a ciò meglio ci par rispondere domiciliato, che ricordapossesso della casa; e anche legalmente deve preferirsi quest'ulti-ma parola, essendo il domicilio il luogo della stabile dimora di al-cuno, o la sede principale della sua economia].

30 [Il testo ha Metökenrecht, diritto di metecia, che è parolagreca, equivalente a scasamento. I meteci erano gli stranieri am-messi, contro pagamento d'un tributo, che appunto si chiamavametoecia, a soggiornare in Atene e a stabilirvisi: lo Screvellospiega inquilini. Il Capel traduce residenti].

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liati partecipavano al successo delle vittorie senza pa-garne il prezzo col loro sangue.

Perdurando un tale stato di cose è da meravigliarsicome il patriziato romano non venisse a mancare moltopiù presto. E se questo consorzio si mantenne ancora permolto tempo numeroso e fiorente, ciò non si deve attri-buire alla pratica di concedere la cittadinanza a ragguar-devoli famiglie straniere, che venissero annoverate fra ipatrizi, o spontaneamente o dopo vinta lo loro città nati-va, poichè in siffatte concessioni, a quanto pare, si pro-cedette sempre con molta strettezza; anzi, nei secolimeno lontani, esse divennero tanto più rare quanto più ildiritto di cittadino romano cresceva d'importanza. Dimaggior peso pare che sia stata l'introduzione del matri-monio civile, pel quale il figlio, generato da genitori pa-trizi conviventi insieme come marito e moglie anchesenza la solennità della confarreazione, acquistava ilpieno diritto di cittadinanza, come quello generato daparenti confarreati; per lo meno è verosimile che il ma-trimonio civile, il quale se non fino dalle origini, eraperò riconosciuto in Roma anche prima delle dodici ta-vole, sia stato introdotto appunto per impedire l'estinzio-ne del patriziato31. E a questo concorrevano anche le mi-

31 Le leggi delle dodici tavoli sull'Usus provano chiaramenteche esse trovarono già introdotto il matrimonio civile. E così,chiara emerge la grande antichità del matrimonio civile, il qualeanch'esso, come il matrimonio religioso, comprendeva necessa-riamente tutti i diritti maritali e sotto un solo rapporto differivadal matrimonio religioso; perchè quest'ultimo bastava per se stes-

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liati partecipavano al successo delle vittorie senza pa-garne il prezzo col loro sangue.

Perdurando un tale stato di cose è da meravigliarsicome il patriziato romano non venisse a mancare moltopiù presto. E se questo consorzio si mantenne ancora permolto tempo numeroso e fiorente, ciò non si deve attri-buire alla pratica di concedere la cittadinanza a ragguar-devoli famiglie straniere, che venissero annoverate fra ipatrizi, o spontaneamente o dopo vinta lo loro città nati-va, poichè in siffatte concessioni, a quanto pare, si pro-cedette sempre con molta strettezza; anzi, nei secolimeno lontani, esse divennero tanto più rare quanto più ildiritto di cittadino romano cresceva d'importanza. Dimaggior peso pare che sia stata l'introduzione del matri-monio civile, pel quale il figlio, generato da genitori pa-trizi conviventi insieme come marito e moglie anchesenza la solennità della confarreazione, acquistava ilpieno diritto di cittadinanza, come quello generato daparenti confarreati; per lo meno è verosimile che il ma-trimonio civile, il quale se non fino dalle origini, eraperò riconosciuto in Roma anche prima delle dodici ta-vole, sia stato introdotto appunto per impedire l'estinzio-ne del patriziato31. E a questo concorrevano anche le mi-

31 Le leggi delle dodici tavoli sull'Usus provano chiaramenteche esse trovarono già introdotto il matrimonio civile. E così,chiara emerge la grande antichità del matrimonio civile, il qualeanch'esso, come il matrimonio religioso, comprendeva necessa-riamente tutti i diritti maritali e sotto un solo rapporto differivadal matrimonio religioso; perchè quest'ultimo bastava per se stes-

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sure tendenti sino da antichissimi tempi alla conserva-zione di una numerosa discendenza nelle singole fami-glie e non ci pare nemmeno inverosimile che pel mede-simo motivo tutti i figli generati da madri patrizie in ma-trimonio disuguale o fuori di matrimonio, entrassero piùtardi nel diritto di cittadinanza.

Ciò non pertanto il numero dei semplici domiciliativeniva necessariamente sempre crescendo senza alcunmotivo di diminuzione, mentre era un gran che, se il nu-mero dei cittadini, anche andando le cose prospere e fa-vorevoli, non diminuiva, e perciò i domiciliati si trova-rono a mano a mano, e quasi senza accorgersene, in unaposizione più indipendente. I non-cittadini non eranopiù soltanto servi liberati o stranieri aventi bisogno dipatrocinio, dopochè in questa classe entrarono le antichecittadinanze dei comuni latini soggiogati in guerra, eparticolarmente i coloni latini che vivevano in Roma,non per favore del re o di qualche altro cittadino, ma inforza del diritto federativo. Liberi di disporre delle lorosostanze, guadagnavano denari, acquistavano beni nellaloro nuova patria, e tramandavano, come i cittadini poli-tici, il loro patrimonio ai figli ed ai nipoti. E anche quel-la primitiva dipendenza dei clienti da una delle famigliepatrizie andava sempre più affievolendosi. E se dappri-

so come forma ineccepibile per stabilire il formale acquisto dellamoglie, mentre per consacrare la validità del matrimonio civiledoveva concorrere una delle generali forme d'acquisto, cioè o laconsegna della moglie da parte di chi aveva diritto d'effettuarla, ola prescrizione.

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sure tendenti sino da antichissimi tempi alla conserva-zione di una numerosa discendenza nelle singole fami-glie e non ci pare nemmeno inverosimile che pel mede-simo motivo tutti i figli generati da madri patrizie in ma-trimonio disuguale o fuori di matrimonio, entrassero piùtardi nel diritto di cittadinanza.

Ciò non pertanto il numero dei semplici domiciliativeniva necessariamente sempre crescendo senza alcunmotivo di diminuzione, mentre era un gran che, se il nu-mero dei cittadini, anche andando le cose prospere e fa-vorevoli, non diminuiva, e perciò i domiciliati si trova-rono a mano a mano, e quasi senza accorgersene, in unaposizione più indipendente. I non-cittadini non eranopiù soltanto servi liberati o stranieri aventi bisogno dipatrocinio, dopochè in questa classe entrarono le antichecittadinanze dei comuni latini soggiogati in guerra, eparticolarmente i coloni latini che vivevano in Roma,non per favore del re o di qualche altro cittadino, ma inforza del diritto federativo. Liberi di disporre delle lorosostanze, guadagnavano denari, acquistavano beni nellaloro nuova patria, e tramandavano, come i cittadini poli-tici, il loro patrimonio ai figli ed ai nipoti. E anche quel-la primitiva dipendenza dei clienti da una delle famigliepatrizie andava sempre più affievolendosi. E se dappri-

so come forma ineccepibile per stabilire il formale acquisto dellamoglie, mentre per consacrare la validità del matrimonio civiledoveva concorrere una delle generali forme d'acquisto, cioè o laconsegna della moglie da parte di chi aveva diritto d'effettuarla, ola prescrizione.

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ma il liberto, o lo straniero emigrato in Roma, si trova-vano isolati nello stato, non era più questa la sorte deiloro figli e meno ancora dei loro nipoti; e così, per bene-ficio del tempo, andava sempre più indebolendosi l'isti-tuzione del patronato. Se nei tempi antichi il cliente, alfine di ottenere protezione, doveva dipendere esclusiva-mente dalla mediazione del patrono, quanto più lo statosi venne consolidando e per conseguenza diminuìl'importanza dei consorzi gentilizi e dei casati, il re, an-che senza la mediazione d'un patrono, doveva accordarea ciascun cliente giustizia e riparazione dei torti.

È inoltre assai probabile che molti non-cittadini, eparticolarmente i membri dei disciolti comuni latini,cercassero di sottrarsi in generale all'onere della cliente-la privata, mettendosi addirittura sotto la clientela del re,e così umiliandosi a quello stesso padrone, a cui, sebbe-ne in modo diverso, servivano anche i cittadini. E sicco-me, in ultima analisi, la signoria dei re sui cittadini di-pendeva dal buon volere di questi ultimi, è naturale cheal re dovesse piacere di formare con i suoi clienti parti-colari un consorzio più strettamente a lui congiunto, de'cui doni e delle cui eredità poteva avvantaggiarsi il suotesoro – a che si aggiungeva il tributo di protezione chegli accolti a domicilio in Roma pagavano al re – sullecui prestazioni personali egli potesse far conto come pa-trono, e ch'egli trovasse sempre pronto a fargli spalla ecorteo. Così a fianco del comune dei cittadini originariveniva crescendo un altro comune romano; e dai clientinacque la plebe (plebs). Questo cambiamento di deno-

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ma il liberto, o lo straniero emigrato in Roma, si trova-vano isolati nello stato, non era più questa la sorte deiloro figli e meno ancora dei loro nipoti; e così, per bene-ficio del tempo, andava sempre più indebolendosi l'isti-tuzione del patronato. Se nei tempi antichi il cliente, alfine di ottenere protezione, doveva dipendere esclusiva-mente dalla mediazione del patrono, quanto più lo statosi venne consolidando e per conseguenza diminuìl'importanza dei consorzi gentilizi e dei casati, il re, an-che senza la mediazione d'un patrono, doveva accordarea ciascun cliente giustizia e riparazione dei torti.

È inoltre assai probabile che molti non-cittadini, eparticolarmente i membri dei disciolti comuni latini,cercassero di sottrarsi in generale all'onere della cliente-la privata, mettendosi addirittura sotto la clientela del re,e così umiliandosi a quello stesso padrone, a cui, sebbe-ne in modo diverso, servivano anche i cittadini. E sicco-me, in ultima analisi, la signoria dei re sui cittadini di-pendeva dal buon volere di questi ultimi, è naturale cheal re dovesse piacere di formare con i suoi clienti parti-colari un consorzio più strettamente a lui congiunto, de'cui doni e delle cui eredità poteva avvantaggiarsi il suotesoro – a che si aggiungeva il tributo di protezione chegli accolti a domicilio in Roma pagavano al re – sullecui prestazioni personali egli potesse far conto come pa-trono, e ch'egli trovasse sempre pronto a fargli spalla ecorteo. Così a fianco del comune dei cittadini originariveniva crescendo un altro comune romano; e dai clientinacque la plebe (plebs). Questo cambiamento di deno-

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minazione è caratteristico: in faccia alla legge non v'èdiversità tra il cliente ed il plebeo; ma fra il cliente ed ilplebeo in via di fatto vi è una differenza notevolissima,perchè la prima denominazione indica la condizione diprotetto e dipendente da un membro dell'antico comune,autorizzato dalla costituzione ad esercitare i patronato, ela seconda denominazione non significa altro che lamancanza dei diritti politici. Venuto meno il sentimentodella privata dipendenza, nacque nei liberi abitanti ilsentimento della politica inferiorità, e soltanto il poterecol quale il re dominava egualmente su tutti impedì checominciasse una lotta tra il comune sovrano e la molti-tudine esclusa da ogni ingerenza politica.

4 Costituzione serviana. Non è verosimile che ilprimo passo verso la fusione32 delle due parti in cui era-no divisi gli abitanti di Roma, si debba a una violentamutazione, che pure il sopra accennato antagonismosembrava pronosticare. L'origine storica della riformadella costituzione, che prese nome dal re Servio Tullio,è incerta e problematica, come tutti gli avvenimenti diun'età che noi non conosciamo per vera tradizione stori-ca, ma solo per induzioni stabilite sullo studio delle isti-tuzioni posteriori. Nondimeno il tenore di questa rifor-

32 [Benchè questa parola non piaccia ai puristi, nondimenonon posso usare la parola «congiunzione» suggerita dal Ranalli;«fusione» indica riduzione di più elementi in un sol corpo, e ri-sponde anche come metafora alla parola usata dal M. Verschmel-zung].

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minazione è caratteristico: in faccia alla legge non v'èdiversità tra il cliente ed il plebeo; ma fra il cliente ed ilplebeo in via di fatto vi è una differenza notevolissima,perchè la prima denominazione indica la condizione diprotetto e dipendente da un membro dell'antico comune,autorizzato dalla costituzione ad esercitare i patronato, ela seconda denominazione non significa altro che lamancanza dei diritti politici. Venuto meno il sentimentodella privata dipendenza, nacque nei liberi abitanti ilsentimento della politica inferiorità, e soltanto il poterecol quale il re dominava egualmente su tutti impedì checominciasse una lotta tra il comune sovrano e la molti-tudine esclusa da ogni ingerenza politica.

4 Costituzione serviana. Non è verosimile che ilprimo passo verso la fusione32 delle due parti in cui era-no divisi gli abitanti di Roma, si debba a una violentamutazione, che pure il sopra accennato antagonismosembrava pronosticare. L'origine storica della riformadella costituzione, che prese nome dal re Servio Tullio,è incerta e problematica, come tutti gli avvenimenti diun'età che noi non conosciamo per vera tradizione stori-ca, ma solo per induzioni stabilite sullo studio delle isti-tuzioni posteriori. Nondimeno il tenore di questa rifor-

32 [Benchè questa parola non piaccia ai puristi, nondimenonon posso usare la parola «congiunzione» suggerita dal Ranalli;«fusione» indica riduzione di più elementi in un sol corpo, e ri-sponde anche come metafora alla parola usata dal M. Verschmel-zung].

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ma prova che non possono averla voluta i plebei, ai qua-li essa impone solo doveri e non dà alcun diritto.

Essa deve piuttosto la sua origine o alla saggezza diuno dei re romani o all'insistenza dei cittadini per otte-nere la liberazione dall'onere esclusivo del servizio mili-tare e per obbligare anche i non cittadini alle fatiche del-la guerra. Giusta la riforma serviana, l'obbligo della mi-lizia e il dovere annessovi di fornire allo stato il tributo(tributum) in caso di bisogno, invece di gravare sui solicittadini, venne imposto a tutti i possessori di beni stabi-li, a tutti i «domiciliati» (adsidui) o possidenti (locuple-tes), fossero essi cittadini o solo abitanti; e soltanto inullatenenti, i «generatori di figli» (proletari, capitecensi) ne erano esonerati e il servizio militare per talmodo da onere personale divenne un onere generale.

Le cose erano regolate in questo modo: ritenevansisoggetti al servizio militare tutti gli abitanti dai diciottoai sessant'anni, compresi i figli di padri stabiliti nel pae-se, senza distinzione di nascita, per modo che era sog-getto al servizio anche il liberto se, per eccezione, fossedivenuto possidente di fondi. Anche i Latini possidenti(agli altri stranieri non era permesso l'acquisto di terrenoromano) erano obbligati al servizio quando avevanopreso stanza su territorio romano, caso frequente, senzadubbio. I soggetti al servizio militare si dividevano, se-condo la vastità dei possedimenti, in cinque «chiamate»(classes), delle quali però non dovevano presentarsi senon i coscritti della prima chiamata, possidenti di unatenuta intera, armati di tutto punto e perciò considerati

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ma prova che non possono averla voluta i plebei, ai qua-li essa impone solo doveri e non dà alcun diritto.

Essa deve piuttosto la sua origine o alla saggezza diuno dei re romani o all'insistenza dei cittadini per otte-nere la liberazione dall'onere esclusivo del servizio mili-tare e per obbligare anche i non cittadini alle fatiche del-la guerra. Giusta la riforma serviana, l'obbligo della mi-lizia e il dovere annessovi di fornire allo stato il tributo(tributum) in caso di bisogno, invece di gravare sui solicittadini, venne imposto a tutti i possessori di beni stabi-li, a tutti i «domiciliati» (adsidui) o possidenti (locuple-tes), fossero essi cittadini o solo abitanti; e soltanto inullatenenti, i «generatori di figli» (proletari, capitecensi) ne erano esonerati e il servizio militare per talmodo da onere personale divenne un onere generale.

Le cose erano regolate in questo modo: ritenevansisoggetti al servizio militare tutti gli abitanti dai diciottoai sessant'anni, compresi i figli di padri stabiliti nel pae-se, senza distinzione di nascita, per modo che era sog-getto al servizio anche il liberto se, per eccezione, fossedivenuto possidente di fondi. Anche i Latini possidenti(agli altri stranieri non era permesso l'acquisto di terrenoromano) erano obbligati al servizio quando avevanopreso stanza su territorio romano, caso frequente, senzadubbio. I soggetti al servizio militare si dividevano, se-condo la vastità dei possedimenti, in cinque «chiamate»(classes), delle quali però non dovevano presentarsi senon i coscritti della prima chiamata, possidenti di unatenuta intera, armati di tutto punto e perciò considerati

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come i più idonei al servizio militare, mentre dalle altrequattro classi dei possidenti minori, che avevano la loroproprietà di tre quarti, di mezza, di un quarto o di un ot-tavo di tenuta, si esigeva l'adempimento dell'obbligo mi-litare, ma non l'armatura completa, e stavano quindi aldisotto delle classi (infra classes). Secondo la ripartizio-ne del suolo, che era in vigore in quei tempi, quasi lametà dei predii rustici consistevano in tenute intere; letenute di tre quarti, le mezze tenute e i quarti di tenutanon rispondevano ciascuna che ad un ottavo abbondan-te. Era quindi stabilito, che per la fanteria, sopra ogni ot-tanta proprietari di un podere intero, se ne prendesseroventi per ognuna delle seguenti tre classi e ventottodell'ultima.

Mentre per questa formazione non si aveva alcun ri-guardo alla differenza politica, per la formazione dellacavalleria, all'incontro, si procedeva in modo che, con-servata l’esistente cavalleria cittadina, le si aggiungesseun numero doppio, composto per la massima parte dinon cittadini, mentre il numero delle divisioni divennetriplicato e le sei divisioni già esistenti con i nomi anti-chi (Tizii, Ramni e Luceri, primi e secundi) rimasero aipatrizi. Il motivo di questa diversità si può forse trovarenella circostanza che le divisioni della fanteria venivanoformate di nuovo ad ogni nuova campagna, ed erano li-cenziate al ritorno in patria, mentre invece nelle divisio-ni di cavalleria si conservavano i cavalli e gli uomini perriguardi militari anche durante la pace, e si tenevano re-golari esercizi che, come feste della cavalleria romana,

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come i più idonei al servizio militare, mentre dalle altrequattro classi dei possidenti minori, che avevano la loroproprietà di tre quarti, di mezza, di un quarto o di un ot-tavo di tenuta, si esigeva l'adempimento dell'obbligo mi-litare, ma non l'armatura completa, e stavano quindi aldisotto delle classi (infra classes). Secondo la ripartizio-ne del suolo, che era in vigore in quei tempi, quasi lametà dei predii rustici consistevano in tenute intere; letenute di tre quarti, le mezze tenute e i quarti di tenutanon rispondevano ciascuna che ad un ottavo abbondan-te. Era quindi stabilito, che per la fanteria, sopra ogni ot-tanta proprietari di un podere intero, se ne prendesseroventi per ognuna delle seguenti tre classi e ventottodell'ultima.

Mentre per questa formazione non si aveva alcun ri-guardo alla differenza politica, per la formazione dellacavalleria, all'incontro, si procedeva in modo che, con-servata l’esistente cavalleria cittadina, le si aggiungesseun numero doppio, composto per la massima parte dinon cittadini, mentre il numero delle divisioni divennetriplicato e le sei divisioni già esistenti con i nomi anti-chi (Tizii, Ramni e Luceri, primi e secundi) rimasero aipatrizi. Il motivo di questa diversità si può forse trovarenella circostanza che le divisioni della fanteria venivanoformate di nuovo ad ogni nuova campagna, ed erano li-cenziate al ritorno in patria, mentre invece nelle divisio-ni di cavalleria si conservavano i cavalli e gli uomini perriguardi militari anche durante la pace, e si tenevano re-golari esercizi che, come feste della cavalleria romana,

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durarono sino ai più tardi tempi33. Così avvenne che laprima terza parte delle centurie di cavalleria rimaseesclusivamente ai cittadini originari anche in questa co-stituzione che per principio non aveva riguardo alla dif-ferenza fra cittadini e domiciliati nella città. Le cagionidi questa anomalia si devono cercare in motivi non giàmilitari ma politici. Si sceglievano per la cavalleria i piùricchi e i più ragguardevoli possidenti fra i cittadini e inon-cittadini. Per fare che la cavalleria fosse accessibilead ogni cittadino, si obbligò ogni donna non maritata egli orfani minorenni che possedevano terreno, a forniree nutrire i cavalli ai singoli cavalieri (ogni cavaliere neaveva due). In generale si calcolava un cavaliere sunove fanti; ma nel servizio effettivo si risparmiavanoperò maggiormente i cavalieri. Quelli che non erano sta-bilmente domiciliati (cioè non atti ad altro che a pro-creare figliuoli), avevano l'obbligo di fornire all'esercitoartigiani e suonatori, ed un numero di supplenti (adcen-si), che marciavano senz'armi (velati) colle schiere, e sulcampo subentravano colle armi degli ammalati o deimorti nelle file per riempirne le lacune.

5 Distretti di leva. Per la leva, la città col suo terri-torio fu divisa in quattro quartieri (tribus), per cui fu ab-bandonata, almeno nel suo significato locale, l'antica di-

33 Pel medesimo motivo quando si accrebbe l'esercito fu rad-doppiata soltanto la cavalleria, di cui, come si direbbe oggi, si al-largarono i quadri, mentre per la fanteria bastò richiamare setto learmi una doppia leva invece di una semplice.

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durarono sino ai più tardi tempi33. Così avvenne che laprima terza parte delle centurie di cavalleria rimaseesclusivamente ai cittadini originari anche in questa co-stituzione che per principio non aveva riguardo alla dif-ferenza fra cittadini e domiciliati nella città. Le cagionidi questa anomalia si devono cercare in motivi non giàmilitari ma politici. Si sceglievano per la cavalleria i piùricchi e i più ragguardevoli possidenti fra i cittadini e inon-cittadini. Per fare che la cavalleria fosse accessibilead ogni cittadino, si obbligò ogni donna non maritata egli orfani minorenni che possedevano terreno, a forniree nutrire i cavalli ai singoli cavalieri (ogni cavaliere neaveva due). In generale si calcolava un cavaliere sunove fanti; ma nel servizio effettivo si risparmiavanoperò maggiormente i cavalieri. Quelli che non erano sta-bilmente domiciliati (cioè non atti ad altro che a pro-creare figliuoli), avevano l'obbligo di fornire all'esercitoartigiani e suonatori, ed un numero di supplenti (adcen-si), che marciavano senz'armi (velati) colle schiere, e sulcampo subentravano colle armi degli ammalati o deimorti nelle file per riempirne le lacune.

5 Distretti di leva. Per la leva, la città col suo terri-torio fu divisa in quattro quartieri (tribus), per cui fu ab-bandonata, almeno nel suo significato locale, l'antica di-

33 Pel medesimo motivo quando si accrebbe l'esercito fu rad-doppiata soltanto la cavalleria, di cui, come si direbbe oggi, si al-largarono i quadri, mentre per la fanteria bastò richiamare setto learmi una doppia leva invece di una semplice.

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visione trina: il monte Palatino, che comprendeva colcolle omonimo la Velia; il monte della Subura, cui ap-parteneva la strada dello stesso nome, le Carine e ilmonte Celio; il monte Esquilino ed il Collino, formatodal Quirinale e dal Viminale, i quali, in confronto deimonti Capitolino e Palatino, chiamavansi colline.L'ordine dei distretti segna l'antica precedenza di gradodei quartieri desunta dalla cronologica formazione dellacittà; il primo distretto comprendeva la città vecchia, ilsecondo la più antica città nuova, il terzo il vecchio sob-borgo murato molto più tardi, il quarto, finalmente, ilquartiere unito alla città col baluardo di Servio Tullio.

Fuori delle mura, ad ogni distretto avrà appartenuto ilterritorio adiacente; così, ad esempio, Ostia appartenevaal Palatino. Che quattro distretti avessero ugual numerodi uomini lo prova il fatto che il contingente era ugualein caso di leva.

Questa partizione che dapprima non si riferiva che alsuolo, e in seguito soltanto, come una conseguenza delladivisione territoriale, si estese ai possidenti, ha un carat-tere tutto esterno, e non le fu mai attribuito un significa-to religioso; perocchè il trovarsi in ogni quartiere dellacittà sei cappelle dei misteriosi Argei, non rende questidistretti più sacri di quello che fossero sacre le vie dellacittà, perchè in ciascuna di esse era innalzato un altare aiLari.

Ciascun distretto di leva doveva somministrare laquarta parte di tutti gli uomini, dividendola fra le singo-le partizioni militari, così che ogni legione ed ogni cen-

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visione trina: il monte Palatino, che comprendeva colcolle omonimo la Velia; il monte della Subura, cui ap-parteneva la strada dello stesso nome, le Carine e ilmonte Celio; il monte Esquilino ed il Collino, formatodal Quirinale e dal Viminale, i quali, in confronto deimonti Capitolino e Palatino, chiamavansi colline.L'ordine dei distretti segna l'antica precedenza di gradodei quartieri desunta dalla cronologica formazione dellacittà; il primo distretto comprendeva la città vecchia, ilsecondo la più antica città nuova, il terzo il vecchio sob-borgo murato molto più tardi, il quarto, finalmente, ilquartiere unito alla città col baluardo di Servio Tullio.

Fuori delle mura, ad ogni distretto avrà appartenuto ilterritorio adiacente; così, ad esempio, Ostia appartenevaal Palatino. Che quattro distretti avessero ugual numerodi uomini lo prova il fatto che il contingente era ugualein caso di leva.

Questa partizione che dapprima non si riferiva che alsuolo, e in seguito soltanto, come una conseguenza delladivisione territoriale, si estese ai possidenti, ha un carat-tere tutto esterno, e non le fu mai attribuito un significa-to religioso; perocchè il trovarsi in ogni quartiere dellacittà sei cappelle dei misteriosi Argei, non rende questidistretti più sacri di quello che fossero sacre le vie dellacittà, perchè in ciascuna di esse era innalzato un altare aiLari.

Ciascun distretto di leva doveva somministrare laquarta parte di tutti gli uomini, dividendola fra le singo-le partizioni militari, così che ogni legione ed ogni cen-

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turia contava un numero eguale di coscritti di ciascundistretto; evidentemente con l'intento di togliere di mez-zo tutte le opposizioni gentilizie e locali confondendolecon un sol bando del comune, e affine di riunire abitantie cittadini in un sol popolo col possente livello dello spi-rito soldatesco che tutto agguaglia.

6 Ordinamento dell'esercito. Gli uomini atti allearmi venivano militarmente divisi in primo e secondobando. Quelli del primo bando, i più giovani, dall'iniziodel diciassettesimo anno sino all'anno quarantesimo se-sto compiuto, erano preferibilmente adoperati pel servi-zio campale, mentre i più vecchi dovevano guardare lemura della città. La legione rimase come era stata sinoallora l'unità militare della fanteria; una falange di tre-mila uomini interamente composta ed armata all'anticamaniera dorica, che sopra sei file presentava un fronte dicinquecento uomini armati di tutto punto, cui si aggiun-gevano altri mille e duecento «non armati» (velites o ve-lati). Gli armati di tutto punto della prima classe, o pro-prietari integri, formavano le prime quattro file di ognifalange; nella quinta e sesta fila erano i meno armati cit-tadini della seconda e terza classe; le ultime due classi siunivano alla falange nelle ultime due file o combatteva-no sui fianchi della medesima come armati alla leggera.Si era provveduto al modo di poter agevolmente riempi-re le eventuali lacune, che sono così pericolose in unafalange. Si componeva quindi ogni legione di quaranta-due centurie o 4200 uomini, de' quali 3000 armati di tut-

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turia contava un numero eguale di coscritti di ciascundistretto; evidentemente con l'intento di togliere di mez-zo tutte le opposizioni gentilizie e locali confondendolecon un sol bando del comune, e affine di riunire abitantie cittadini in un sol popolo col possente livello dello spi-rito soldatesco che tutto agguaglia.

6 Ordinamento dell'esercito. Gli uomini atti allearmi venivano militarmente divisi in primo e secondobando. Quelli del primo bando, i più giovani, dall'iniziodel diciassettesimo anno sino all'anno quarantesimo se-sto compiuto, erano preferibilmente adoperati pel servi-zio campale, mentre i più vecchi dovevano guardare lemura della città. La legione rimase come era stata sinoallora l'unità militare della fanteria; una falange di tre-mila uomini interamente composta ed armata all'anticamaniera dorica, che sopra sei file presentava un fronte dicinquecento uomini armati di tutto punto, cui si aggiun-gevano altri mille e duecento «non armati» (velites o ve-lati). Gli armati di tutto punto della prima classe, o pro-prietari integri, formavano le prime quattro file di ognifalange; nella quinta e sesta fila erano i meno armati cit-tadini della seconda e terza classe; le ultime due classi siunivano alla falange nelle ultime due file o combatteva-no sui fianchi della medesima come armati alla leggera.Si era provveduto al modo di poter agevolmente riempi-re le eventuali lacune, che sono così pericolose in unafalange. Si componeva quindi ogni legione di quaranta-due centurie o 4200 uomini, de' quali 3000 armati di tut-

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to punto, 2000 della prima classe, 500 di ciascuna delledue classi seguenti, e 1200 veliti, de' quali 500 dellaclasse quarta, 700 della quinta. Ogni distretto di levasomministrava ad ogni legione 1050 uomini, ad ognicenturia 25.

In via ordinaria marciavano due legioni; le altre duerimanevano come presidio: per cui lo stato normale del-la fanteria si componeva di quattro legioni pari a 16.800uomini, di 80 centurie della prima classe, di 20 per cia-scuna delle seguenti tre, di 28 dell'ultima, non compresele due centurie di supplenti non che quelle degli operai edei suonatori. S'aggiunga la cavalleria che sommava a1800 cavalli, un terzo della quale era riservato ai mem-bri politici del comune: quando però si usciva in campa-gna si soleva assegnare soltanto tre centurie di cavalli adogni legione.

Lo stato normale dell'esercito romano di prima e se-conda chiamata ammontava quindi pressochè a 20.000uomini, il quale numero avrà senza dubbio corrispostoallo stato effettivo dei Romani atti a portar armi nel tem-po in cui vennero introdotti questi nuovi ordinamentidella milizia. Coll'aumento della popolazione non fucambiato il numero delle centurie, ma si rinforzò ciascu-na suddivisione, assegnandovi altri uomini senza perde-re di vista interamente il numero fondamentale, comepraticavano d'ordinario le corporazioni romane a nume-ro stabilito, le quali eludevano le limitazioni legalicoll'assumere membri soprannumerari.

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to punto, 2000 della prima classe, 500 di ciascuna delledue classi seguenti, e 1200 veliti, de' quali 500 dellaclasse quarta, 700 della quinta. Ogni distretto di levasomministrava ad ogni legione 1050 uomini, ad ognicenturia 25.

In via ordinaria marciavano due legioni; le altre duerimanevano come presidio: per cui lo stato normale del-la fanteria si componeva di quattro legioni pari a 16.800uomini, di 80 centurie della prima classe, di 20 per cia-scuna delle seguenti tre, di 28 dell'ultima, non compresele due centurie di supplenti non che quelle degli operai edei suonatori. S'aggiunga la cavalleria che sommava a1800 cavalli, un terzo della quale era riservato ai mem-bri politici del comune: quando però si usciva in campa-gna si soleva assegnare soltanto tre centurie di cavalli adogni legione.

Lo stato normale dell'esercito romano di prima e se-conda chiamata ammontava quindi pressochè a 20.000uomini, il quale numero avrà senza dubbio corrispostoallo stato effettivo dei Romani atti a portar armi nel tem-po in cui vennero introdotti questi nuovi ordinamentidella milizia. Coll'aumento della popolazione non fucambiato il numero delle centurie, ma si rinforzò ciascu-na suddivisione, assegnandovi altri uomini senza perde-re di vista interamente il numero fondamentale, comepraticavano d'ordinario le corporazioni romane a nume-ro stabilito, le quali eludevano le limitazioni legalicoll'assumere membri soprannumerari.

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7 Censimento. Di pari passo con questo nuovo or-dinamento dell'esercito si procedette per parte dello sta-to ad una più accurata verifica della proprietà fondiaria.Fu allora prescritta, o almeno con maggiore sollecitudi-ne curata, la formazione d'un catasto, nel quale i singolipossidenti di terre dovessero far registrare i loro campicolle rispettive attinenze, i diritti, i servi, le bestie da tiroe da soma.

Qualunque vendita, che non fosse fatta notoriamentedinanzi a testimoni, era dichiarata nulla; e fu prescritta aconvenienti intervalli di tempo la revisione del catasto,che serviva anche di ruolo per la leva militare. A questomodo, dagli ordini di milizia introdotti da Servio Tullio,nacquero l'emancipazione dei clienti e il censo.

8 Conseguenze politiche degli ordini militaridi Servio. L'istituzione serviana è evidentemente nellasua origine di natura militare. In tutto il vasto schema diquesta riforma non s'incontra alcun indizio che dia allecenturie una destinazione la quale non si riferisca al ser-vizio militare; e questa sola circostanza deve bastare achiunque in simili cose è abituato a riflettere, per per-suadere che l'uso e l'applicazione delle centurie nellecombinazioni politiche si deve ad una innovazione po-steriore. La disposizione, che escludeva dalle centuriecolui che aveva passato l'età di sessant'anni, è affatto as-surda e inconcepibile, se originariamente le centurie fos-sero state destinate a rappresentare, in concorso e a lato

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7 Censimento. Di pari passo con questo nuovo or-dinamento dell'esercito si procedette per parte dello sta-to ad una più accurata verifica della proprietà fondiaria.Fu allora prescritta, o almeno con maggiore sollecitudi-ne curata, la formazione d'un catasto, nel quale i singolipossidenti di terre dovessero far registrare i loro campicolle rispettive attinenze, i diritti, i servi, le bestie da tiroe da soma.

Qualunque vendita, che non fosse fatta notoriamentedinanzi a testimoni, era dichiarata nulla; e fu prescritta aconvenienti intervalli di tempo la revisione del catasto,che serviva anche di ruolo per la leva militare. A questomodo, dagli ordini di milizia introdotti da Servio Tullio,nacquero l'emancipazione dei clienti e il censo.

8 Conseguenze politiche degli ordini militaridi Servio. L'istituzione serviana è evidentemente nellasua origine di natura militare. In tutto il vasto schema diquesta riforma non s'incontra alcun indizio che dia allecenturie una destinazione la quale non si riferisca al ser-vizio militare; e questa sola circostanza deve bastare achiunque in simili cose è abituato a riflettere, per per-suadere che l'uso e l'applicazione delle centurie nellecombinazioni politiche si deve ad una innovazione po-steriore. La disposizione, che escludeva dalle centuriecolui che aveva passato l'età di sessant'anni, è affatto as-surda e inconcepibile, se originariamente le centurie fos-sero state destinate a rappresentare, in concorso e a lato

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delle curie, il comune cittadino. Dimostrato però chel'ordinamento delle centurie ebbe il solo scopo di accre-scere l'attitudine della cittadinanza alla guerra, e quan-tunque non vi sia concetto più strano di quello che pre-sentò la riforma di Servio Tullio come l'introduzionedella timocrazia34 in Roma, conviene nondimeno con-fessare che l'onere della milizia esteso a tutti gli abitantiprodusse gravi conseguenze anche rispetto alla loro po-sizione politica.

Chi è obbligato a diventare soldato deve poter diven-tare anche ufficiale, finchè gli ordini della milizia e del-lo stato non sono corrotti: nè può dubitarsi che, dopo lariforma serviana, anche i plebei potessero nell'esercitoromano essere nominati centurioni e tribuni di guerra; eper questa via essi potevano giungere persino al senato,alla qual cosa, giusto quello che sopra dicemmo, anchel'originaria costituzione non poneva alcun giuridico im-pedimento; e con tutto ciò essi, come è ben naturale,non venivano ancora annoverati tra i cittadini35. E ben-chè coll'istituzione delle centurie non si volessero meno-mare i diritti politici degli originari cittadini rappresen-tati nelle curie, non poteva però impedirsi che quei dirit-

34 Τιµοκρατία, da τιµή onore e anche censo, e ἀρχή, principioe anche impero. Lo Screvello spiega: «Dominationis species inqua magistratus ex censu creantur»; il governo fondato sulla ric-chezza, sul censo.

35 Onde gli archeologi de' tempi imperiali poterono asserireche gli Ottaviani di Velletri (Velitrae) furono assunti in senato daTarquinio Prisco e nella cittadinanza soltanto sotto il nome delsuo successore (SVETONIO, Octav., 2).

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delle curie, il comune cittadino. Dimostrato però chel'ordinamento delle centurie ebbe il solo scopo di accre-scere l'attitudine della cittadinanza alla guerra, e quan-tunque non vi sia concetto più strano di quello che pre-sentò la riforma di Servio Tullio come l'introduzionedella timocrazia34 in Roma, conviene nondimeno con-fessare che l'onere della milizia esteso a tutti gli abitantiprodusse gravi conseguenze anche rispetto alla loro po-sizione politica.

Chi è obbligato a diventare soldato deve poter diven-tare anche ufficiale, finchè gli ordini della milizia e del-lo stato non sono corrotti: nè può dubitarsi che, dopo lariforma serviana, anche i plebei potessero nell'esercitoromano essere nominati centurioni e tribuni di guerra; eper questa via essi potevano giungere persino al senato,alla qual cosa, giusto quello che sopra dicemmo, anchel'originaria costituzione non poneva alcun giuridico im-pedimento; e con tutto ciò essi, come è ben naturale,non venivano ancora annoverati tra i cittadini35. E ben-chè coll'istituzione delle centurie non si volessero meno-mare i diritti politici degli originari cittadini rappresen-tati nelle curie, non poteva però impedirsi che quei dirit-

34 Τιµοκρατία, da τιµή onore e anche censo, e ἀρχή, principioe anche impero. Lo Screvello spiega: «Dominationis species inqua magistratus ex censu creantur»; il governo fondato sulla ric-chezza, sul censo.

35 Onde gli archeologi de' tempi imperiali poterono asserireche gli Ottaviani di Velletri (Velitrae) furono assunti in senato daTarquinio Prisco e nella cittadinanza soltanto sotto il nome delsuo successore (SVETONIO, Octav., 2).

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ti esercitati fino allora dai cittadini stessi, non comemembri delle curie ma come raccolti sotto le armi, pas-sassero alle nuove centurie miste di antichi cittadini e disemplici domiciliati. Ond'è che le centurie sono d'ora in-nanzi chiamate a convalidare i testamenti dei soldati pri-ma della battaglia e sono interpellate dal re per il loroassenso prima di cominciare una guerra aggressiva. Percomprendere il nuovo sviluppo è importante notare que-sto inizio di partecipazione delle centurie ai pubblici af-fari; ma non si può negare che le centurie acquistaronoquesti diritti assai più lentamente di quello che sulle pri-me si potesse credere, e che dopo, come prima della ri-forma di Servio, l'assemblea curiale era consideratacome il vero comune cittadino, il cui omaggio assogget-tava al re tutta la popolazione.

Accanto a questi cittadini originari stavano gli stra-nieri domiciliati nel Lazio o «cittadini senza voto» (ci-ves sine suffragio), i quali concorrevano alle pubblichecariche, nel servizio militare e nelle imposte (onde mu-nicipes); in cambio di che essi venivano esonerati dalpagamento del tributo di protezione; il quale da questotempo in avanti non fu più imposto ad alcun'altra classeoltre quella degli abitanti non aggregati ad alcuna tribù enon domiciliati (aerarii).

Se fino allora non vi furono che due classi dei mem-bri componenti il comune, cittadini e clienti, dopo que-sto tempo si formarono tre classi politiche: i cittadini at-tivi, i cittadini passivi, e i cittadini clienti o protetti, ca-

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ti esercitati fino allora dai cittadini stessi, non comemembri delle curie ma come raccolti sotto le armi, pas-sassero alle nuove centurie miste di antichi cittadini e disemplici domiciliati. Ond'è che le centurie sono d'ora in-nanzi chiamate a convalidare i testamenti dei soldati pri-ma della battaglia e sono interpellate dal re per il loroassenso prima di cominciare una guerra aggressiva. Percomprendere il nuovo sviluppo è importante notare que-sto inizio di partecipazione delle centurie ai pubblici af-fari; ma non si può negare che le centurie acquistaronoquesti diritti assai più lentamente di quello che sulle pri-me si potesse credere, e che dopo, come prima della ri-forma di Servio, l'assemblea curiale era consideratacome il vero comune cittadino, il cui omaggio assogget-tava al re tutta la popolazione.

Accanto a questi cittadini originari stavano gli stra-nieri domiciliati nel Lazio o «cittadini senza voto» (ci-ves sine suffragio), i quali concorrevano alle pubblichecariche, nel servizio militare e nelle imposte (onde mu-nicipes); in cambio di che essi venivano esonerati dalpagamento del tributo di protezione; il quale da questotempo in avanti non fu più imposto ad alcun'altra classeoltre quella degli abitanti non aggregati ad alcuna tribù enon domiciliati (aerarii).

Se fino allora non vi furono che due classi dei mem-bri componenti il comune, cittadini e clienti, dopo que-sto tempo si formarono tre classi politiche: i cittadini at-tivi, i cittadini passivi, e i cittadini clienti o protetti, ca-

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tegorie che dominarono per molti secoli il diritto politi-co romano.

9 Epoca e causa della riforma. Quando e in qualmodo avvenisse questo nuovo ordinamento militare delcomune romano appena ci è permesso di congetturarlo.Questo ordinamento presuppone l'esistenza di quattroquartieri cittadini, il che indica che la muraglia di Serviodeve aver preceduto la riforma. Ma anche il territoriodella città doveva aver già notevolmente oltrepassato ilprimitivo suo confine, se Roma era in grado di porre incampo 8000 proprietari di tenute intere, ed altrettantiproprietari frazionari o figli di proprietari, oltre un nu-mero di maggiori possidenti di fondi o loro figli. Noinon conosciamo, a dir vero, l'estensione di un compiutopodere rurale romano, ma non poteva essere minore diventi giornate36: se noi calcoliamo come minimum

36 Già verso gli anni 480 sembravano piccoli i lotti di terrenodi sette giornate (VAL. MASS., 3, 5; COLUM., 1 praef., 14, 1, 3, 11;PLIN., nat. h., 18, 3, 18; quattordici jugeri VICTOR, 33; PLUTARCO,apoph. reg. et imp., p. 235; DÜBNER, secondo cui PLUTARCO, Crass.,2 è da rettificare) Il riscontro delle proporzioni tedesche dà lostesso risultato. L'jugero e il Morgen, entrambi in origine piutto-sto misure di lavoro che di superficie, si possono considerare ori-ginariamente identici. Se un podere tedesco (Hufe) d'ordinario eradi 30, non di rado anche di 20 o di 40 giornate (Morgen), e il ca-scinale (Hofstäte) era sovente, per lo meno presso gli Anglo-Sas-soni, di un decimo del podere tedesco (Hufe), non si andrà lonta-no dal vero se si calcolerà a 20 jugeri (Morgen) la misura d'un po-dere romano in considerazione della diversità del clima e del fon-

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tegorie che dominarono per molti secoli il diritto politi-co romano.

9 Epoca e causa della riforma. Quando e in qualmodo avvenisse questo nuovo ordinamento militare delcomune romano appena ci è permesso di congetturarlo.Questo ordinamento presuppone l'esistenza di quattroquartieri cittadini, il che indica che la muraglia di Serviodeve aver preceduto la riforma. Ma anche il territoriodella città doveva aver già notevolmente oltrepassato ilprimitivo suo confine, se Roma era in grado di porre incampo 8000 proprietari di tenute intere, ed altrettantiproprietari frazionari o figli di proprietari, oltre un nu-mero di maggiori possidenti di fondi o loro figli. Noinon conosciamo, a dir vero, l'estensione di un compiutopodere rurale romano, ma non poteva essere minore diventi giornate36: se noi calcoliamo come minimum

36 Già verso gli anni 480 sembravano piccoli i lotti di terrenodi sette giornate (VAL. MASS., 3, 5; COLUM., 1 praef., 14, 1, 3, 11;PLIN., nat. h., 18, 3, 18; quattordici jugeri VICTOR, 33; PLUTARCO,apoph. reg. et imp., p. 235; DÜBNER, secondo cui PLUTARCO, Crass.,2 è da rettificare) Il riscontro delle proporzioni tedesche dà lostesso risultato. L'jugero e il Morgen, entrambi in origine piutto-sto misure di lavoro che di superficie, si possono considerare ori-ginariamente identici. Se un podere tedesco (Hufe) d'ordinario eradi 30, non di rado anche di 20 o di 40 giornate (Morgen), e il ca-scinale (Hofstäte) era sovente, per lo meno presso gli Anglo-Sas-soni, di un decimo del podere tedesco (Hufe), non si andrà lonta-no dal vero se si calcolerà a 20 jugeri (Morgen) la misura d'un po-dere romano in considerazione della diversità del clima e del fon-

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10.000 poderi interi, questi farebbero presupporre unasuperficie di nove miglia quadrate tedesche di terrenoarativo, per cui se vi si aggiungono i terreni dei pascoli,lo spazio occupato dalle case e le spiaggie sabbiose, ilterritorio, quando avvenne questa riforma, doveva, se-condo un calcolo moderatissimo, avere un'estensione al-meno di venti miglia quadrate e verosimilmente era an-che più vasto. Volendo prestar fede alla tradizione, sidovrebbe persino accettare il numero di 84.000 cittadinicon domicilio e atti alle armi, poichè tanti ne avrebbeenumerati Servio al suo primo censimento.

Uno sguardo sulla carta dice per altro che siffatta ci-fra è favolosa; e non deve esserci pervenuta per vera tra-dizione, ma deve essere stata calcolata per supposizione;giacchè i 16.800 uomini capaci di portar armi dello statonormale della fanteria, secondo un calcolo adeguato di 5persone per famiglia, formano appunto la cifra di 84.000abitanti liberi attivi e passivi. Ma tenendoci anche alleprime più moderate ipotesi, si può calcolare che in unterritorio di circa 16.000 poderi, con una popolazione dicirca 20.000 uomini atti alle armi, e per lo meno di untriplice numero tra donne, fanciulli, vecchi, non domici-liati e servi, non solo era stato acquistato il paese tra ilTevere e l'Anio, ma conquistato anche il territorio d'Albaprima che fosse stabilita la costituzione di Servio: e invero con quest'ultima parte della supposizione vad'accordo anche la leggenda.

do lasciato in eredità (haeredium) di due jugeri. Deploriamo chela tradizione qui ci lasci senza alcun filo per uscire dal labirinto.

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10.000 poderi interi, questi farebbero presupporre unasuperficie di nove miglia quadrate tedesche di terrenoarativo, per cui se vi si aggiungono i terreni dei pascoli,lo spazio occupato dalle case e le spiaggie sabbiose, ilterritorio, quando avvenne questa riforma, doveva, se-condo un calcolo moderatissimo, avere un'estensione al-meno di venti miglia quadrate e verosimilmente era an-che più vasto. Volendo prestar fede alla tradizione, sidovrebbe persino accettare il numero di 84.000 cittadinicon domicilio e atti alle armi, poichè tanti ne avrebbeenumerati Servio al suo primo censimento.

Uno sguardo sulla carta dice per altro che siffatta ci-fra è favolosa; e non deve esserci pervenuta per vera tra-dizione, ma deve essere stata calcolata per supposizione;giacchè i 16.800 uomini capaci di portar armi dello statonormale della fanteria, secondo un calcolo adeguato di 5persone per famiglia, formano appunto la cifra di 84.000abitanti liberi attivi e passivi. Ma tenendoci anche alleprime più moderate ipotesi, si può calcolare che in unterritorio di circa 16.000 poderi, con una popolazione dicirca 20.000 uomini atti alle armi, e per lo meno di untriplice numero tra donne, fanciulli, vecchi, non domici-liati e servi, non solo era stato acquistato il paese tra ilTevere e l'Anio, ma conquistato anche il territorio d'Albaprima che fosse stabilita la costituzione di Servio: e invero con quest'ultima parte della supposizione vad'accordo anche la leggenda.

do lasciato in eredità (haeredium) di due jugeri. Deploriamo chela tradizione qui ci lasci senza alcun filo per uscire dal labirinto.

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Non si saprebbe dire come sia sorta la numerica pro-porzione dei patrizi e dei plebei nell'esercito, nè se nepuò giudicare dalla cavalleria, poichè era indubbiamentestabilito che nelle prime sei centurie non poteva essereammesso alcun plebeo, ma non già che nelle dodici cen-turie successive non dovesse servire alcun patrizio. Ingenerale è però evidente che le istituzioni di Servio nonsono sorte dalla lotta delle classi della popolazione, mache esse portano, come la costituzione di Licurgo, di So-lone e di Zaleuco, l'impronta d'un legislatore che ha ri-formato le precedenti istituzioni; e che essa venne allaluce sotto l'influenza greca. Alcune isolate analogie po-trebbero indurre in errore, come ad esempio la coinci-denza già notata dagli antichi, che anche in Corinto levedove e gli orfani erano tenuti a somministrare i cavalliper i cavalieri; ma l'armatura e lo schieramento dei sol-dati, presi a prestito dal greco sistema degli opliti, nonsono certamente semplici coincidenze, e non è un puroeffetto del caso che la parola più importante in questacostituzione riformata (classis) sia ricavata dal greco. Seconsideriamo che appunto nel secondo secolo della cit-tà, gli stati greci della bassa Italia passarono dalla ele-mentare costituzione di famiglie consociate ad una co-stituzione più artificiale, che stabilì il fondamento dellostato nella classe dei possidenti, riconosceremo facil-mente in questa circostanza la spinta che costrinseRoma alla riforma di Servio, riforma ispirata essenzial-mente dal medesimo concetto fondamentale dal quale

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Non si saprebbe dire come sia sorta la numerica pro-porzione dei patrizi e dei plebei nell'esercito, nè se nepuò giudicare dalla cavalleria, poichè era indubbiamentestabilito che nelle prime sei centurie non poteva essereammesso alcun plebeo, ma non già che nelle dodici cen-turie successive non dovesse servire alcun patrizio. Ingenerale è però evidente che le istituzioni di Servio nonsono sorte dalla lotta delle classi della popolazione, mache esse portano, come la costituzione di Licurgo, di So-lone e di Zaleuco, l'impronta d'un legislatore che ha ri-formato le precedenti istituzioni; e che essa venne allaluce sotto l'influenza greca. Alcune isolate analogie po-trebbero indurre in errore, come ad esempio la coinci-denza già notata dagli antichi, che anche in Corinto levedove e gli orfani erano tenuti a somministrare i cavalliper i cavalieri; ma l'armatura e lo schieramento dei sol-dati, presi a prestito dal greco sistema degli opliti, nonsono certamente semplici coincidenze, e non è un puroeffetto del caso che la parola più importante in questacostituzione riformata (classis) sia ricavata dal greco. Seconsideriamo che appunto nel secondo secolo della cit-tà, gli stati greci della bassa Italia passarono dalla ele-mentare costituzione di famiglie consociate ad una co-stituzione più artificiale, che stabilì il fondamento dellostato nella classe dei possidenti, riconosceremo facil-mente in questa circostanza la spinta che costrinseRoma alla riforma di Servio, riforma ispirata essenzial-mente dal medesimo concetto fondamentale dal quale

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non devia, se non in grazia della forma strettamente mo-narchica dello stato romano37.

37 Anche l'analogia tra la cosiddetta costituzione di Servio edil trattamento dei domiciliati attici merita di essere rilevata. Ate-ne, appunto come Roma, e fatte le debite proporzioni, prima ave-va aperte le sue porte ai domiciliati, e poi li aveva assoggettati aipesi dello stato. Quanto meno si può immaginare in tale paralleli-smo un'immediata connessione di fatto, tanto più chiaramenteverrà dimostrato, come le stesse cause – l'accentramento comuna-le e lo sviluppo cittadino – producano da per tutto e necessaria-mente i medesimi effetti.

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non devia, se non in grazia della forma strettamente mo-narchica dello stato romano37.

37 Anche l'analogia tra la cosiddetta costituzione di Servio edil trattamento dei domiciliati attici merita di essere rilevata. Ate-ne, appunto come Roma, e fatte le debite proporzioni, prima ave-va aperte le sue porte ai domiciliati, e poi li aveva assoggettati aipesi dello stato. Quanto meno si può immaginare in tale paralleli-smo un'immediata connessione di fatto, tanto più chiaramenteverrà dimostrato, come le stesse cause – l'accentramento comuna-le e lo sviluppo cittadino – producano da per tutto e necessaria-mente i medesimi effetti.

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SETTIMO CAPITOLOL'EGEMONIA DI ROMA NEL LAZIO

1 Estensione dei territorio romano. È naturaleche la forte e appassionata schiatta degli Italici, fin daiprimi tempi, nel processo di crescenza, si agitasse in lot-te intestine e con i vicini; e col fiorire ed il raffinarsi delpaese le scorribande si mutassero in guerre, le rapine inconquiste, generando così i primi lineamenti delle po-tenze politiche. Ma nessun Omero italico ci ha traman-dato un quadro di quelle prime baruffe e scorribandenelle quali il carattere dei popoli si manifesta e si forma,come il sentimento dell'uomo nei giuochi della puerizia.

E nemmeno la tradizione storica ci fu larga di notiziedalle quali riconoscere l'esteriore incremento e determi-nare almeno approssimativamente l'importanza rispetti-va dei singoli distretti latini. È già molto se in qualchemodo possiamo farci un'idea della potenza di Roma edella estensione del suo territorio.

Abbiamo già indicati i probabili antichi confini delcomune romano, dopo la riunione delle tribù urbane.Dalla parte del Lazio essi non s'allargavano più d'un mi-glio38 oltre le mura di Roma; ma verso ponente si pro-lungavano fino alla foce del Tevere (Ostia), che era di-

38 [L.A. allude qui e in seguito al miglio tedesco, che corri-sponde a metri 7,406].

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SETTIMO CAPITOLOL'EGEMONIA DI ROMA NEL LAZIO

1 Estensione dei territorio romano. È naturaleche la forte e appassionata schiatta degli Italici, fin daiprimi tempi, nel processo di crescenza, si agitasse in lot-te intestine e con i vicini; e col fiorire ed il raffinarsi delpaese le scorribande si mutassero in guerre, le rapine inconquiste, generando così i primi lineamenti delle po-tenze politiche. Ma nessun Omero italico ci ha traman-dato un quadro di quelle prime baruffe e scorribandenelle quali il carattere dei popoli si manifesta e si forma,come il sentimento dell'uomo nei giuochi della puerizia.

E nemmeno la tradizione storica ci fu larga di notiziedalle quali riconoscere l'esteriore incremento e determi-nare almeno approssimativamente l'importanza rispetti-va dei singoli distretti latini. È già molto se in qualchemodo possiamo farci un'idea della potenza di Roma edella estensione del suo territorio.

Abbiamo già indicati i probabili antichi confini delcomune romano, dopo la riunione delle tribù urbane.Dalla parte del Lazio essi non s'allargavano più d'un mi-glio38 oltre le mura di Roma; ma verso ponente si pro-lungavano fino alla foce del Tevere (Ostia), che era di-

38 [L.A. allude qui e in seguito al miglio tedesco, che corri-sponde a metri 7,406].

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stante più di tre miglia dalla città. Strabone, nella suadescrizione dell'antica Roma, dice che la nuova città erasorta fra popoli più o meno importanti, alcuni dei qualivivevano sparsi nella campagna, in casali, e non eranolegati o soggetti ad alcuna federazione di razza. I più an-tichi acquisti del territorio pare che i Romani li facesse-ro a spese di questi vicini usciti dalla stessa razza manon protetti da alcuna potenza prevalente.

2 Territorio dell'Anio. I comuni latini d'Antemna,Crustumerio, Ficulnea, Medullia, Cenina, Corniculo,Cameria, Collazia posti sul Tevere superiore e tra il Te-vere e l'Anio, per la loro vicinanza erano attratti daRoma come da un centro naturale, e pare che fin daitempi remoti la loro indipendenza abbia dovuto cederealla prevalenza militare dei Romani. In tutto il circonda-rio non troviamo che un solo comune indipendente, No-mento, il quale probabilmente salvò la sua libertà al-leandosi a tempo con i Romani. Lungamente e con alter-ne vicende si combattè tra Latini ed Etruschi, cioè traRomani e Veienti pel possesso di Fidene, testa di pontedegli Etruschi sulla sinistra del Tevere. Intorno a Gabio,che teneva la pianura tra l'Anio ed i monti Albani, la lot-ta durò a lungo e con esito incerto. Le incursioni dei Ga-bini, che non erano lontani da Roma più di due miglia emezzo, nel territorio romano erano così frequenti che finquasi agli ultimi tempi, «mantello gabino» aveva lostesso significato di abito guerresco, e il territorio gabi-no, per antonomasia, era considerato come il prototipo

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stante più di tre miglia dalla città. Strabone, nella suadescrizione dell'antica Roma, dice che la nuova città erasorta fra popoli più o meno importanti, alcuni dei qualivivevano sparsi nella campagna, in casali, e non eranolegati o soggetti ad alcuna federazione di razza. I più an-tichi acquisti del territorio pare che i Romani li facesse-ro a spese di questi vicini usciti dalla stessa razza manon protetti da alcuna potenza prevalente.

2 Territorio dell'Anio. I comuni latini d'Antemna,Crustumerio, Ficulnea, Medullia, Cenina, Corniculo,Cameria, Collazia posti sul Tevere superiore e tra il Te-vere e l'Anio, per la loro vicinanza erano attratti daRoma come da un centro naturale, e pare che fin daitempi remoti la loro indipendenza abbia dovuto cederealla prevalenza militare dei Romani. In tutto il circonda-rio non troviamo che un solo comune indipendente, No-mento, il quale probabilmente salvò la sua libertà al-leandosi a tempo con i Romani. Lungamente e con alter-ne vicende si combattè tra Latini ed Etruschi, cioè traRomani e Veienti pel possesso di Fidene, testa di pontedegli Etruschi sulla sinistra del Tevere. Intorno a Gabio,che teneva la pianura tra l'Anio ed i monti Albani, la lot-ta durò a lungo e con esito incerto. Le incursioni dei Ga-bini, che non erano lontani da Roma più di due miglia emezzo, nel territorio romano erano così frequenti che finquasi agli ultimi tempi, «mantello gabino» aveva lostesso significato di abito guerresco, e il territorio gabi-no, per antonomasia, era considerato come il prototipo

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del paese nemico39. Per mezzo di queste conquiste il ter-ritorio di Roma si allargò fino ad occupare circa 500Km. quadrati. Ma un antichissimo fatto d'armi, benchèsotto forma di leggenda, rimase impresso nella memoriadei posteri assai più vivamente che il ricordo delle pri-me oscure guerre di confine.

Alba, l'antichissima sacra metropoli del Lazio, fuconquistata e distrutta dalle legioni romane. Quale origi-ne avesse il conflitto e come si conchiudesse con la radi-cale distruzione di Alba la tradizione non dice; la lottadei tre gemelli romani con i tre gemelli albani non è al-tro che una personificazione simbolica della lotta di duedistretti potenti e affini, dei quali almeno il romano erauno stato costituito di tre elementi. Noi non sappiamoaltro che il puro fatto del soggiogamento e della distru-zione della città d'Alba per opera di Roma40. E non è da

39 Sono egualmente caratteristiche le formule di maledizioneper Gabio e Fidene (MACROBIO, Saturn., 3, 9); sebbene però perquesta città non si riscontri in nessun documento una vera maledi-zione storica del recinto sacro della città, come effettivamente siverificò per Veio, Cartagine e Fregelle: e però la cosa è poco ve-rosimile. È molto probabile, invece, che i più antichi formularidell'anatema fossero applicati a queste odiate città e che fosserodai posteriori archeologi ritenuti documenti storici.

40 Pare però che non vi sia alcun motivo di dubitare, che la di-struzione d'Alba sia effettivamente dovuta a Roma, malgrado idubbi ultimamente sollevati da uno stimabile autore. È verissimoche la narrazione della caduta d'Alba presenta ne' suoi particolariuna serie d'inverosimiglianze e d'impossibilità, ma tale è appuntola sorte di tutti i fatti storici intessuti in una leggenda. È anchevero che noi non sappiamo rispondere a chi ci domandasse come

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del paese nemico39. Per mezzo di queste conquiste il ter-ritorio di Roma si allargò fino ad occupare circa 500Km. quadrati. Ma un antichissimo fatto d'armi, benchèsotto forma di leggenda, rimase impresso nella memoriadei posteri assai più vivamente che il ricordo delle pri-me oscure guerre di confine.

Alba, l'antichissima sacra metropoli del Lazio, fuconquistata e distrutta dalle legioni romane. Quale origi-ne avesse il conflitto e come si conchiudesse con la radi-cale distruzione di Alba la tradizione non dice; la lottadei tre gemelli romani con i tre gemelli albani non è al-tro che una personificazione simbolica della lotta di duedistretti potenti e affini, dei quali almeno il romano erauno stato costituito di tre elementi. Noi non sappiamoaltro che il puro fatto del soggiogamento e della distru-zione della città d'Alba per opera di Roma40. E non è da

39 Sono egualmente caratteristiche le formule di maledizioneper Gabio e Fidene (MACROBIO, Saturn., 3, 9); sebbene però perquesta città non si riscontri in nessun documento una vera maledi-zione storica del recinto sacro della città, come effettivamente siverificò per Veio, Cartagine e Fregelle: e però la cosa è poco ve-rosimile. È molto probabile, invece, che i più antichi formularidell'anatema fossero applicati a queste odiate città e che fosserodai posteriori archeologi ritenuti documenti storici.

40 Pare però che non vi sia alcun motivo di dubitare, che la di-struzione d'Alba sia effettivamente dovuta a Roma, malgrado idubbi ultimamente sollevati da uno stimabile autore. È verissimoche la narrazione della caduta d'Alba presenta ne' suoi particolariuna serie d'inverosimiglianze e d'impossibilità, ma tale è appuntola sorte di tutti i fatti storici intessuti in una leggenda. È anchevero che noi non sappiamo rispondere a chi ci domandasse come

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considerarsi che come una semplice ipotesi il fatto chenello stesso tempo in cui Roma si estendeva finoall'Anio ed ai monti Albani, anche Praeneste, che piùtardi appare signora di otto vichi, e Tibur e parecchi altricomuni latini estendessero nell'istesso modo il loro terri-torio e gettassero le basi di una potenza, relativamenteconsiderevole.

3 Come si estendevano i territori. Più che le noti-zie di queste oscure guerre ci manca ogni dato precisosul carattere e sulle conseguenze giuridiche di questeantiche conquiste latine. Nel complesso non si può dubi-tare che, seguendo l'antico sistema, ogni paese conqui-stato non venisse incorporato nel territorio romano. Se-nonchè i distretti congiunti per forza d'armi, non conser-varono, come i tre antichissimi, una tal quale individua-lità, ma scomparvero intieramente nell'unità romanasenza lasciare alcuna traccia di sè. Già fin dai primitempi il comune romano non sopportava entro il suo ter-

si comportò il Lazio nella lotta tra Alba e Roma; ma la domandastessa manca di precisione, poichè non è provato che la lega lati-na abbia assolutamente vietato ogni guerra particolare tra due co-muni latini. E ancor meno contraddice la distruzione d'Alba perparte dei Romani l'assunzione di alcune famiglie albane nella cit-tadinanza romana. Chi dice che in Alba non vi sia stato, come inCapua, un partito romano? Sarebbe invece una prova decisiva ilfatto che, sia sotto l'aspetto religioso, sia sotto l'aspetto politico,Roma si vantò di succedere ad Alba, la quale pretesa non potevafondarsi sulle immigrazioni di alcune famiglie albane, ma soltan-to sulla conquista della città.

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considerarsi che come una semplice ipotesi il fatto chenello stesso tempo in cui Roma si estendeva finoall'Anio ed ai monti Albani, anche Praeneste, che piùtardi appare signora di otto vichi, e Tibur e parecchi altricomuni latini estendessero nell'istesso modo il loro terri-torio e gettassero le basi di una potenza, relativamenteconsiderevole.

3 Come si estendevano i territori. Più che le noti-zie di queste oscure guerre ci manca ogni dato precisosul carattere e sulle conseguenze giuridiche di questeantiche conquiste latine. Nel complesso non si può dubi-tare che, seguendo l'antico sistema, ogni paese conqui-stato non venisse incorporato nel territorio romano. Se-nonchè i distretti congiunti per forza d'armi, non conser-varono, come i tre antichissimi, una tal quale individua-lità, ma scomparvero intieramente nell'unità romanasenza lasciare alcuna traccia di sè. Già fin dai primitempi il comune romano non sopportava entro il suo ter-

si comportò il Lazio nella lotta tra Alba e Roma; ma la domandastessa manca di precisione, poichè non è provato che la lega lati-na abbia assolutamente vietato ogni guerra particolare tra due co-muni latini. E ancor meno contraddice la distruzione d'Alba perparte dei Romani l'assunzione di alcune famiglie albane nella cit-tadinanza romana. Chi dice che in Alba non vi sia stato, come inCapua, un partito romano? Sarebbe invece una prova decisiva ilfatto che, sia sotto l'aspetto religioso, sia sotto l'aspetto politico,Roma si vantò di succedere ad Alba, la quale pretesa non potevafondarsi sulle immigrazioni di alcune famiglie albane, ma soltan-to sulla conquista della città.

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ritorio alcun centro politico fuorchè il suo capoluogo, enon tollerava colonie indipendenti, come facevano i Fe-nicii e i Greci, i quali prima fondavano colonie di pro-tetti e associati, che si tramutavano in seguito in rivalidella città madre. Sotto questo riguardo merita conside-razione il comportamento di Roma verso Ostia. Non po-tevano nè volevano i Romani impedire che in quel luo-go opportunissimo sorgesse una città, ma non si conces-se ai coloni alcuna indipendenza politica e quindi nep-pure il diritto di cittadinanza; solo si conservò, a coloroche già lo possedevano, il comune diritto della cittadi-nanza romana41.

Secondo questo spirito di gelosa unificazione fu deci-sa anche la sorte dei distretti più deboli, che per forzad'armi o per sottomissione piegavano verso un distrettopiù forte.

La rocca del comune debellato veniva spianata, il suoterritorio unito al territorio del vincitore, nel cui capo-luogo si assegnava un posto agli Dei ed alle genti deivinti. Certo non si deve credere che tutti gli abitanti delcomune soggiogato venissero materialmente trasferitinella nuova capitale, come si verifica spesso nella for-mazione delle città nell'oriente. I capoluoghi dei distretti

41 Da ciò nacque il fondamento del ius pubblico della coloniamarittima o colonia di cittadini (colonia civium romanorum), cioèd'un comune separato di fatto, ma non indipendente di diritto esenza autonomia, il quale viene assorbito dalla capitale, come ilpeculio del figlio dal patrimonio del padre, e che d'altro lato comepresidio permanente è libero dal servizio nelle legioni.

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ritorio alcun centro politico fuorchè il suo capoluogo, enon tollerava colonie indipendenti, come facevano i Fe-nicii e i Greci, i quali prima fondavano colonie di pro-tetti e associati, che si tramutavano in seguito in rivalidella città madre. Sotto questo riguardo merita conside-razione il comportamento di Roma verso Ostia. Non po-tevano nè volevano i Romani impedire che in quel luo-go opportunissimo sorgesse una città, ma non si conces-se ai coloni alcuna indipendenza politica e quindi nep-pure il diritto di cittadinanza; solo si conservò, a coloroche già lo possedevano, il comune diritto della cittadi-nanza romana41.

Secondo questo spirito di gelosa unificazione fu deci-sa anche la sorte dei distretti più deboli, che per forzad'armi o per sottomissione piegavano verso un distrettopiù forte.

La rocca del comune debellato veniva spianata, il suoterritorio unito al territorio del vincitore, nel cui capo-luogo si assegnava un posto agli Dei ed alle genti deivinti. Certo non si deve credere che tutti gli abitanti delcomune soggiogato venissero materialmente trasferitinella nuova capitale, come si verifica spesso nella for-mazione delle città nell'oriente. I capoluoghi dei distretti

41 Da ciò nacque il fondamento del ius pubblico della coloniamarittima o colonia di cittadini (colonia civium romanorum), cioèd'un comune separato di fatto, ma non indipendente di diritto esenza autonomia, il quale viene assorbito dalla capitale, come ilpeculio del figlio dal patrimonio del padre, e che d'altro lato comepresidio permanente è libero dal servizio nelle legioni.

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latini potevano essere, a quei tempi, poco più che le roc-che e i mercati settimanali dei contadini; e perciò, in ge-nerale, bastava la traslazione nel nuovo capoluogo delmercato e del tribunale. E non sempre se ne trasportava-no i Sacrarii. Ad Alba e a Cenina, ad esempio, anchedopo la distruzione, sembra sia stata lasciata la sede delloro culto. Anche là, dove la forte posizione del luogoespugnato rendeva necessaria la traslazione della cittadi-nanza, per necessità agricola, si sarà concesso agli agri-coltori di abitare su luoghi aperti nel loro territorio. Chepoi non di rado anche i vinti, o tutti o in parte, siano sta-ti costretti a prendere dimora stabile nel nuovo capoluo-go, meglio che tutte le leggende latine lo prova la massi-ma del ius pubblico romano, la quale concedeva il dirit-to di allargare la sacra cinta delle mura della città (il Po-merium) soltanto a chi avesse esteso i confini del territo-rio. Ai vinti, fossero o no trasferiti nella capitale, giustale norme costitutive, era naturalmente imposto l'obbligodella clientela; ma alcuni individui o alcune famiglie eb-bero però anche in dono la cittadinanza, cioè il patrizia-to. E ai tempi dell'impero si riconoscevano ancora legenti albane associate alla cittadinanza romana dopo lacaduta della loro patria, fra cui i Giulii, i Servilii, iQuintilii, i Clelii, i Gegani, i Curiazi, i Metilii; e i lorosantuari domestici, nel territorio albano, come ce lo pro-va quello delle genti Giulie a Boville, salito in tantafama ne' primi tempi dell'impero, conservarono la me-moria della loro origine.

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latini potevano essere, a quei tempi, poco più che le roc-che e i mercati settimanali dei contadini; e perciò, in ge-nerale, bastava la traslazione nel nuovo capoluogo delmercato e del tribunale. E non sempre se ne trasportava-no i Sacrarii. Ad Alba e a Cenina, ad esempio, anchedopo la distruzione, sembra sia stata lasciata la sede delloro culto. Anche là, dove la forte posizione del luogoespugnato rendeva necessaria la traslazione della cittadi-nanza, per necessità agricola, si sarà concesso agli agri-coltori di abitare su luoghi aperti nel loro territorio. Chepoi non di rado anche i vinti, o tutti o in parte, siano sta-ti costretti a prendere dimora stabile nel nuovo capoluo-go, meglio che tutte le leggende latine lo prova la massi-ma del ius pubblico romano, la quale concedeva il dirit-to di allargare la sacra cinta delle mura della città (il Po-merium) soltanto a chi avesse esteso i confini del territo-rio. Ai vinti, fossero o no trasferiti nella capitale, giustale norme costitutive, era naturalmente imposto l'obbligodella clientela; ma alcuni individui o alcune famiglie eb-bero però anche in dono la cittadinanza, cioè il patrizia-to. E ai tempi dell'impero si riconoscevano ancora legenti albane associate alla cittadinanza romana dopo lacaduta della loro patria, fra cui i Giulii, i Servilii, iQuintilii, i Clelii, i Gegani, i Curiazi, i Metilii; e i lorosantuari domestici, nel territorio albano, come ce lo pro-va quello delle genti Giulie a Boville, salito in tantafama ne' primi tempi dell'impero, conservarono la me-moria della loro origine.

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Nondimeno questa centralizzazione di molte, piccolecomunità in una comunità maggiore era tutt'altro cheuna particolare idea romana, giacchè lo sviluppo dellaregione latina, come pure della sabellica, si fonda tuttosu questa antitesi tra l'unificazione nazionale e l'autono-mia comunale, mentre lo stesso si può dire di tutta l'evo-luzione ellenica.

Da una analoga fusione di parecchi distretti in unacittà nacquero Roma nel Lazio e Atene nell'Attica; e lostesso metodo il saggio Talete consigliava alle città ioni-che, minacciate dal prepotere degli stati asiatici, qualeunico mezzo di salvezza per la loro nazionalità.

Roma, meglio di qualunque altro comune italico, sep-pe mantenersi, con senno e fortuna, fedele alla logicadell'unità; e, come appunto Atene dovette la sua prepon-deranza nell'Ellade al suo precoce ordinamento centra-lizzatore, così Roma deve la sua grandezza unicamenteallo stesso principio, ch'ella seppe però praticare con vi-goria e fermezza maggiore.

4 Egemonia di Roma sul Lazio. Se le conquiste diRoma nel Lazio si possono considerare come vereestensioni territoriali e comunali, la conquista di Albaha tuttavia una speciale importanza. Non fu soltanto ilproblematico numero dei suoi abitanti e la probabile ric-chezza della città che portò la tradizione ad esaltare inmodo così particolare la presa d'Alba.

Alba si considerava come la metropoli della confede-razione latina, ed aveva la presidenza dei trenta comuni

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Nondimeno questa centralizzazione di molte, piccolecomunità in una comunità maggiore era tutt'altro cheuna particolare idea romana, giacchè lo sviluppo dellaregione latina, come pure della sabellica, si fonda tuttosu questa antitesi tra l'unificazione nazionale e l'autono-mia comunale, mentre lo stesso si può dire di tutta l'evo-luzione ellenica.

Da una analoga fusione di parecchi distretti in unacittà nacquero Roma nel Lazio e Atene nell'Attica; e lostesso metodo il saggio Talete consigliava alle città ioni-che, minacciate dal prepotere degli stati asiatici, qualeunico mezzo di salvezza per la loro nazionalità.

Roma, meglio di qualunque altro comune italico, sep-pe mantenersi, con senno e fortuna, fedele alla logicadell'unità; e, come appunto Atene dovette la sua prepon-deranza nell'Ellade al suo precoce ordinamento centra-lizzatore, così Roma deve la sua grandezza unicamenteallo stesso principio, ch'ella seppe però praticare con vi-goria e fermezza maggiore.

4 Egemonia di Roma sul Lazio. Se le conquiste diRoma nel Lazio si possono considerare come vereestensioni territoriali e comunali, la conquista di Albaha tuttavia una speciale importanza. Non fu soltanto ilproblematico numero dei suoi abitanti e la probabile ric-chezza della città che portò la tradizione ad esaltare inmodo così particolare la presa d'Alba.

Alba si considerava come la metropoli della confede-razione latina, ed aveva la presidenza dei trenta comuni

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confederati. Naturalmente la distruzione di Alba non di-sciolse la lega, come la distribuzione di Tebe non di-sciolse la lega della Beozia42; anzi, in piena conformitàcol carattere di assoluto diritto privato del codice milita-re latino, Roma pretese la presidenza della lega per esse-re subentrata nei diritti di Alba.

Noi non sapremmo dire quali avvenimenti precedes-sero o seguissero la ricognizione di siffatta pretesa; ma agiudicare dal complesso, pare che l'egemonia romanasul Lazio sia stata riconosciuta in tutto il paese senzatroppi indugi, benchè alcuni comuni, come ad esempio,Labico, e più di tutti Gabio, per qualche tempo se nesiano tenuti staccati.

Già fin da allora Roma poteva tener testa come poten-za marittima a tutto il paese, come città ai comuni rurali,come stato costituito in forte unità alla confederazione:e certo soltanto coll'aiuto dei Romani poterono i Latinidifendere le loro spiagge contro i Cartaginesi, gli Ellenie gli Etruschi, e mantenere, ed estendere i loro confinicontinentali contro gli irrequieti vicini di origine sabelli-ca. Non possiamo ora stabilire se l'accrescimento mate-riale, che a Roma derivò dalla soggezione di Alba, fossedi maggior rilievo di quello che dovette derivarle

42 Sembra persino che con una parte del territorio albano si siaformato il comune di Boville, e che questa sia entrata in luogod'Alba tra le città autonome latine. Il culto dei Giuli e il nome diAlbani Longani Bovillenses (ORELLI-HENZEN, 119, 2252, 6019)mostra la sua origine albana, e la sua autonomia è provata daDIONISIO, 5, 61 e da CICERONE, Pro Plancio, 9, 23.

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confederati. Naturalmente la distruzione di Alba non di-sciolse la lega, come la distribuzione di Tebe non di-sciolse la lega della Beozia42; anzi, in piena conformitàcol carattere di assoluto diritto privato del codice milita-re latino, Roma pretese la presidenza della lega per esse-re subentrata nei diritti di Alba.

Noi non sapremmo dire quali avvenimenti precedes-sero o seguissero la ricognizione di siffatta pretesa; ma agiudicare dal complesso, pare che l'egemonia romanasul Lazio sia stata riconosciuta in tutto il paese senzatroppi indugi, benchè alcuni comuni, come ad esempio,Labico, e più di tutti Gabio, per qualche tempo se nesiano tenuti staccati.

Già fin da allora Roma poteva tener testa come poten-za marittima a tutto il paese, come città ai comuni rurali,come stato costituito in forte unità alla confederazione:e certo soltanto coll'aiuto dei Romani poterono i Latinidifendere le loro spiagge contro i Cartaginesi, gli Ellenie gli Etruschi, e mantenere, ed estendere i loro confinicontinentali contro gli irrequieti vicini di origine sabelli-ca. Non possiamo ora stabilire se l'accrescimento mate-riale, che a Roma derivò dalla soggezione di Alba, fossedi maggior rilievo di quello che dovette derivarle

42 Sembra persino che con una parte del territorio albano si siaformato il comune di Boville, e che questa sia entrata in luogod'Alba tra le città autonome latine. Il culto dei Giuli e il nome diAlbani Longani Bovillenses (ORELLI-HENZEN, 119, 2252, 6019)mostra la sua origine albana, e la sua autonomia è provata daDIONISIO, 5, 61 e da CICERONE, Pro Plancio, 9, 23.

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dall'occupazione di Antemna e di Collazia; è assai vero-simile che Roma non aspettasse la conquista di Alba perdivenire il più potente comune latino, ma che già lo fos-se molto tempo innanzi. Quello però che essa acquistòin questo fatto fu la presidenza nella festa dei Latini econ quella il fondamento e la ragione della futura ege-monia del comune di Roma su tutti i confederati latini.È nostro dovere far conoscere ora, con la maggior preci-sione possibile, le condizioni rispettive di Roma e delLazio.

5 Posizione di Roma rispetto al Lazio. La formadell'egemonia romana sul Lazio era, generalmente par-lando, quella d'una equa federazione tra il comune ro-mano da una parte e la lega latina dall'altra, per cui fufirmata una perpetua pace interna di tutto il paese e unperpetuo patto di comunanza offensiva e difensiva. «Re-gnerà pace tra i Romani e tutti i comuni latini finchè esi-steranno cielo e terra; non combatteranno tra loro, nèchiameranno nemici nel paese, nè permetteranno loro iltransito: tutti correranno in aiuto a qualsiasi membrodella federazione che venga assalito; e si dividerà pro-porzionalmente il bottino fatto nella guerra comune». Laconvenuta parità di trattamento in tutti gli affari, siacommerciali, sia di credito, sia ereditari, strinse semprepiù gli interessi dei comuni già congiunti per eguaglian-za di lingua e di costumi, dimodochè da questa comu-nanza si ottenevano i medesimi vantaggi che nei nostritempi si ottenevano dalle leghe doganali.

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dall'occupazione di Antemna e di Collazia; è assai vero-simile che Roma non aspettasse la conquista di Alba perdivenire il più potente comune latino, ma che già lo fos-se molto tempo innanzi. Quello però che essa acquistòin questo fatto fu la presidenza nella festa dei Latini econ quella il fondamento e la ragione della futura ege-monia del comune di Roma su tutti i confederati latini.È nostro dovere far conoscere ora, con la maggior preci-sione possibile, le condizioni rispettive di Roma e delLazio.

5 Posizione di Roma rispetto al Lazio. La formadell'egemonia romana sul Lazio era, generalmente par-lando, quella d'una equa federazione tra il comune ro-mano da una parte e la lega latina dall'altra, per cui fufirmata una perpetua pace interna di tutto il paese e unperpetuo patto di comunanza offensiva e difensiva. «Re-gnerà pace tra i Romani e tutti i comuni latini finchè esi-steranno cielo e terra; non combatteranno tra loro, nèchiameranno nemici nel paese, nè permetteranno loro iltransito: tutti correranno in aiuto a qualsiasi membrodella federazione che venga assalito; e si dividerà pro-porzionalmente il bottino fatto nella guerra comune». Laconvenuta parità di trattamento in tutti gli affari, siacommerciali, sia di credito, sia ereditari, strinse semprepiù gli interessi dei comuni già congiunti per eguaglian-za di lingua e di costumi, dimodochè da questa comu-nanza si ottenevano i medesimi vantaggi che nei nostritempi si ottenevano dalle leghe doganali.

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Ben è vero che ciascun comune conservava le formespeciali della propria legislazione, perchè fino alla guer-ra sociale il diritto latino non era necessariamente iden-tico a quello romano; e noi troviamo, ad esempio, con-servata nel jus particolare dei Latini la querela per glisponsali abolita a Roma da lungo tempo. Senonchè losviluppo semplice e puramente popolare del diritto lati-no e lo sforzo di conservare possibilmente l'uguaglianzadei principî giuridici, fecero sì che il diritto privato fos-se, nella forma e nella sostanza, essenzialmente lo stessoper tutto il Lazio. Questa uguaglianza di diritto si mani-festa evidente nelle disposizioni riguardanti la perdita ela rivendicazione della libertà dei privati cittadini. Peruna veneranda massima della giurisprudenza latina nes-sun cittadino poteva divenire servo in quella comunitànella quale era stato libero, o perdere, entro i confini diessa, i suoi diritti di cittadino, quindi, se in forza di unapena inflittagli, doveva perdere la sua libertà, o, ciò chevaleva lo stesso, la sua cittadinanza, era costretto aduscire dal comune per entrare in servitù presso gli stra-nieri. E tale principio si estendeva a tutto il territoriodella confederazione; nessun membro d'uno degli staticonfederati poteva vivere come servo entro i confini ditutta la confederazione. Ne abbiamo una prova nellaprescrizione del secondo trattato stipulato tra Roma eCartagine, nel quale è sancito che il confederato romanofatto prigioniero dai Cartaginesi, debba essere messo inlibertà appena giunge in un porto di mare romano.Un'altra prova ce l'offre la legge delle dodici tavole, se-

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Ben è vero che ciascun comune conservava le formespeciali della propria legislazione, perchè fino alla guer-ra sociale il diritto latino non era necessariamente iden-tico a quello romano; e noi troviamo, ad esempio, con-servata nel jus particolare dei Latini la querela per glisponsali abolita a Roma da lungo tempo. Senonchè losviluppo semplice e puramente popolare del diritto lati-no e lo sforzo di conservare possibilmente l'uguaglianzadei principî giuridici, fecero sì che il diritto privato fos-se, nella forma e nella sostanza, essenzialmente lo stessoper tutto il Lazio. Questa uguaglianza di diritto si mani-festa evidente nelle disposizioni riguardanti la perdita ela rivendicazione della libertà dei privati cittadini. Peruna veneranda massima della giurisprudenza latina nes-sun cittadino poteva divenire servo in quella comunitànella quale era stato libero, o perdere, entro i confini diessa, i suoi diritti di cittadino, quindi, se in forza di unapena inflittagli, doveva perdere la sua libertà, o, ciò chevaleva lo stesso, la sua cittadinanza, era costretto aduscire dal comune per entrare in servitù presso gli stra-nieri. E tale principio si estendeva a tutto il territoriodella confederazione; nessun membro d'uno degli staticonfederati poteva vivere come servo entro i confini ditutta la confederazione. Ne abbiamo una prova nellaprescrizione del secondo trattato stipulato tra Roma eCartagine, nel quale è sancito che il confederato romanofatto prigioniero dai Cartaginesi, debba essere messo inlibertà appena giunge in un porto di mare romano.Un'altra prova ce l'offre la legge delle dodici tavole, se-

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condo la quale il debitore insolvibile, quando il credito-re lo voglia vendere, deve essere venduto al di là del Te-vere, vale a dire fuori del territorio della confederazione.Si è già accennato come verosimile, che l'uguaglianzadei confederati davanti alla legge comprendesse anchela comunanza dei matrimoni, e che ogni cittadino d'uncomune latino potesse contrarre matrimonio legittimocon qualsiasi cittadina di qualsiasi comune della lega.Naturalmente ogni Latino poteva esercitare i diritti poli-tici soltanto dove egli aveva la cittadinanza; mentre ilprincipio della uguaglianza del diritto privato concedevaad ogni latino di stabilirsi in qualsiasi luogo latino, o perparlare secondo il linguaggio moderno, parallelo ai dirit-ti politici di ciascun comune esisteva un diritto universa-le federale di domicilio.

Non si stenterà a comprendere come tutto ciò riuscis-se sostanzialmente a particolare vantaggio della capita-le, la quale sola poteva offrire a tutto il Lazio comoditàdi commercio, d'industrie, di piaceri urbani, e come per-ciò il numero degli abitanti dovesse aumentare in Romain modo straordinario dopo che il paese latino cominciòa vivere in perpetua pace con Roma.

Nella costituzione e nell'amministrazione non solo ri-mase indipendente e sovrano ciascun comune in tuttoquello che non riguardava i vincoli federali ma, ciò chepiù conta rilevare, la federazione dei trenta comuni giàlegati con Alba, conservò di fronte a Roma una propriae distinta autonomia confederativa. Quando si osservache Alba aveva nella confederazione latina un primato

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condo la quale il debitore insolvibile, quando il credito-re lo voglia vendere, deve essere venduto al di là del Te-vere, vale a dire fuori del territorio della confederazione.Si è già accennato come verosimile, che l'uguaglianzadei confederati davanti alla legge comprendesse anchela comunanza dei matrimoni, e che ogni cittadino d'uncomune latino potesse contrarre matrimonio legittimocon qualsiasi cittadina di qualsiasi comune della lega.Naturalmente ogni Latino poteva esercitare i diritti poli-tici soltanto dove egli aveva la cittadinanza; mentre ilprincipio della uguaglianza del diritto privato concedevaad ogni latino di stabilirsi in qualsiasi luogo latino, o perparlare secondo il linguaggio moderno, parallelo ai dirit-ti politici di ciascun comune esisteva un diritto universa-le federale di domicilio.

Non si stenterà a comprendere come tutto ciò riuscis-se sostanzialmente a particolare vantaggio della capita-le, la quale sola poteva offrire a tutto il Lazio comoditàdi commercio, d'industrie, di piaceri urbani, e come per-ciò il numero degli abitanti dovesse aumentare in Romain modo straordinario dopo che il paese latino cominciòa vivere in perpetua pace con Roma.

Nella costituzione e nell'amministrazione non solo ri-mase indipendente e sovrano ciascun comune in tuttoquello che non riguardava i vincoli federali ma, ciò chepiù conta rilevare, la federazione dei trenta comuni giàlegati con Alba, conservò di fronte a Roma una propriae distinta autonomia confederativa. Quando si osservache Alba aveva nella confederazione latina un primato

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meno contestabile di quello che ottenne Roma, e che icomuni latini, dopo la caduta di Alba, si costituirono inuna federazione autonoma, non si asserisce una cosa im-possibile, perchè Alba era veramente membro e capodel corpo federativo latino, e invece Roma fin da princi-pio era uno stato separato, il quale entrava in alleanzacoll'intera federazione, anzichè un membro della confe-derazione stessa.

Ma nello stesso modo che gli stati della federazionerenana erano, quanto alla forma, sovrani, dove invecegli stati dell'antico impero germanico avevano un capocomune investito delle estrinseche forme della sovrani-tà, così anche la presidenza d'Alba sarà stata un dirittoonorifico, pari a quello dell'imperatore di Germania, e ilprotettorato di Roma sul Lazio, una supremazia sin dallasua origine incontestabile simile a quella di Napoleonesulla federazione del Reno. Pare di fatti che Alba avessela presidenza della dieta federale, mentre invece Romasoffriva che le adunanze dei federali si tenessero senzadiretta dipendenza da Roma, e sotto la presidenza d'unmagistrato scelto nell'adunanza stessa; e si accontentavadi presiedere al solenne sacrificio della lega in nome diRoma e del Lazio, e di innalzare in Roma un nuovo san-tuario della federazione, il tempio di Diana sull'Aventi-no; di modo che d'allora in poi i sagrifici si facevanoparte sul suolo romano per Roma e per il Lazio, e partesul suolo latino per il Lazio e per Roma. E certo fu perinteresse e volontà della federazione latina che i Roma-ni, nel trattato col Lazio, si obbligarono di non fare alcu-

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meno contestabile di quello che ottenne Roma, e che icomuni latini, dopo la caduta di Alba, si costituirono inuna federazione autonoma, non si asserisce una cosa im-possibile, perchè Alba era veramente membro e capodel corpo federativo latino, e invece Roma fin da princi-pio era uno stato separato, il quale entrava in alleanzacoll'intera federazione, anzichè un membro della confe-derazione stessa.

Ma nello stesso modo che gli stati della federazionerenana erano, quanto alla forma, sovrani, dove invecegli stati dell'antico impero germanico avevano un capocomune investito delle estrinseche forme della sovrani-tà, così anche la presidenza d'Alba sarà stata un dirittoonorifico, pari a quello dell'imperatore di Germania, e ilprotettorato di Roma sul Lazio, una supremazia sin dallasua origine incontestabile simile a quella di Napoleonesulla federazione del Reno. Pare di fatti che Alba avessela presidenza della dieta federale, mentre invece Romasoffriva che le adunanze dei federali si tenessero senzadiretta dipendenza da Roma, e sotto la presidenza d'unmagistrato scelto nell'adunanza stessa; e si accontentavadi presiedere al solenne sacrificio della lega in nome diRoma e del Lazio, e di innalzare in Roma un nuovo san-tuario della federazione, il tempio di Diana sull'Aventi-no; di modo che d'allora in poi i sagrifici si facevanoparte sul suolo romano per Roma e per il Lazio, e partesul suolo latino per il Lazio e per Roma. E certo fu perinteresse e volontà della federazione latina che i Roma-ni, nel trattato col Lazio, si obbligarono di non fare alcu-

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na convenzione separata con nessun comune latino, ciòche prova indubitabilmente quanto timore i federatiavessero dell'egemonia.

La singolare situazione di Roma non già accolta nellafederazione latina, ma collegata con essa, e perciò laformale equiparazione della città romana alla lega lati-na, ci si rivela in modo ancora più chiaro negli affariguerreschi. L'esercito federale componevasi, come loprova in modo incontestabile il sistema della leva adot-tato più tardi, di due eserciti di egual forza, uno romanoe l'altro latino. Il comando supremo doveva alternarsifra Roma e il Lazio; e solo negli anni in cui toccava aRoma di dare il comandante alle truppe federali, i Latinivenivano sino alle porte della città, e sulla soglia accla-mavano loro comandante il designato, dopochè i Roma-ni, deputati a ciò dal consiglio federale latino, si eranoassicurati, coll'assicurazione del volo degli uccelli, chela scelta aveva incontrato la soddisfazione degli dei.Nella stessa maniera si dividevano, dietro valutazionedei romani, in parti uguali tra Roma e il Lazio le terreconquistate e il bottino fatto nelle guerre federali. Manon è accertato che la federazione sia stata rappresentataall'estero soltanto da Roma. Secondo il ius pubblico ro-mano non è in contraddizione col concetto della «paritàfederativa» il diritto di ogni singolo stato di stipulare untrattato separato con uno stato straniero, e il porre esclu-sivamente nelle mani di uno degli stati confederatil'indirizzo della guerra, della pace e delle trattative; mala lega latina non giungeva proprio sino a tal punto in

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na convenzione separata con nessun comune latino, ciòche prova indubitabilmente quanto timore i federatiavessero dell'egemonia.

La singolare situazione di Roma non già accolta nellafederazione latina, ma collegata con essa, e perciò laformale equiparazione della città romana alla lega lati-na, ci si rivela in modo ancora più chiaro negli affariguerreschi. L'esercito federale componevasi, come loprova in modo incontestabile il sistema della leva adot-tato più tardi, di due eserciti di egual forza, uno romanoe l'altro latino. Il comando supremo doveva alternarsifra Roma e il Lazio; e solo negli anni in cui toccava aRoma di dare il comandante alle truppe federali, i Latinivenivano sino alle porte della città, e sulla soglia accla-mavano loro comandante il designato, dopochè i Roma-ni, deputati a ciò dal consiglio federale latino, si eranoassicurati, coll'assicurazione del volo degli uccelli, chela scelta aveva incontrato la soddisfazione degli dei.Nella stessa maniera si dividevano, dietro valutazionedei romani, in parti uguali tra Roma e il Lazio le terreconquistate e il bottino fatto nelle guerre federali. Manon è accertato che la federazione sia stata rappresentataall'estero soltanto da Roma. Secondo il ius pubblico ro-mano non è in contraddizione col concetto della «paritàfederativa» il diritto di ogni singolo stato di stipulare untrattato separato con uno stato straniero, e il porre esclu-sivamente nelle mani di uno degli stati confederatil'indirizzo della guerra, della pace e delle trattative; mala lega latina non giungeva proprio sino a tal punto in

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vantaggio di Roma. Non era contestato nè a Roma, nè alLazio, il diritto di cominciare una guerra aggressiva perproprio conto; ma in questo caso i confederati non eranotenuti a prestare il loro aiuto. Quando però, o per deter-minazione della lega o nel caso di un'aggressione nemi-ca, si iniziava una guerra, la direzione della medesimaera affidata assolutamente al generale federale; e cheRoma in tempi di pace contrattasse per tutto il paese la-tino ne è una prova la convenzione commerciale da essaconchiusa con Cartagine. Se in simili casi fosse necessa-ria una determinazione del consiglio federale latino perrendere il trattato legalmente obbligatorio in tutti i paesidella lega, o se, in grazia della sua egemonia, Roma nel-le relazioni ordinarie rappresentasse la federazione difronte all'estero, non è possibile stabilire. È però fuor didubbio che Roma ha posseduto e conservato un'egemo-nia di fatto, quale appunto anche in questo trattato si at-tribuisce, sugli stati latini.

6 Estensione del territorio romano dopo la ca-duta d'Alba. Non sarebbe ora possibile determinare inqual modo la città di Roma, divenuta dopo la caduta diAlba padrona di un territorio relativamente vasto, e po-tenza dirigente della federazione latina, abbia continuatoad allargare i suoi possessi immediati e mediati. Certonon le dovettero mancare occasioni di guerra con gliEtruschi e principalmente coi Veienti, ai quali disputavail possesso di Fidene: ma, a quanto pare, ai Romani nonriuscì di conservare saldamente quest'avamposto etrusco

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vantaggio di Roma. Non era contestato nè a Roma, nè alLazio, il diritto di cominciare una guerra aggressiva perproprio conto; ma in questo caso i confederati non eranotenuti a prestare il loro aiuto. Quando però, o per deter-minazione della lega o nel caso di un'aggressione nemi-ca, si iniziava una guerra, la direzione della medesimaera affidata assolutamente al generale federale; e cheRoma in tempi di pace contrattasse per tutto il paese la-tino ne è una prova la convenzione commerciale da essaconchiusa con Cartagine. Se in simili casi fosse necessa-ria una determinazione del consiglio federale latino perrendere il trattato legalmente obbligatorio in tutti i paesidella lega, o se, in grazia della sua egemonia, Roma nel-le relazioni ordinarie rappresentasse la federazione difronte all'estero, non è possibile stabilire. È però fuor didubbio che Roma ha posseduto e conservato un'egemo-nia di fatto, quale appunto anche in questo trattato si at-tribuisce, sugli stati latini.

6 Estensione del territorio romano dopo la ca-duta d'Alba. Non sarebbe ora possibile determinare inqual modo la città di Roma, divenuta dopo la caduta diAlba padrona di un territorio relativamente vasto, e po-tenza dirigente della federazione latina, abbia continuatoad allargare i suoi possessi immediati e mediati. Certonon le dovettero mancare occasioni di guerra con gliEtruschi e principalmente coi Veienti, ai quali disputavail possesso di Fidene: ma, a quanto pare, ai Romani nonriuscì di conservare saldamente quest'avamposto etrusco

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

distante da Roma poco più di dieci chilometri, e di sni-darne i Veienti che di là movevano spesso all'attacco delpaese latino. Ma in compenso i Romani si mantennero,senza contrasto, in possesso del Gianicolo e di entrambele rive tiberine fino alla foce. Dalla parte poi de' Sabini edegli Equi, Roma si mostrò sempre molto superiore diforze e d'animo, giovandosi del concorso dei più lontaniErnici, la cui unione con Roma, divenuta in seguito cosìintima, deve esser cominciata almeno all'epoca dei re. ILatini e gli Ernici, collegati insieme, tenevano tra duefuochi e sorvegliavano i loro vicini di levante. Ma conti-nuo teatro di guerra rimase la frontiera di mezzodì, ilpaese dei Rutuli e più ancora quello dei Volsci. Da que-sto lato incominciò ad allargarsi il territorio latino, e quinoi troviamo per la prima volta le comunità fondate daRoma e dal Lazio in un paese conquistato, le così dettecolonie latine, costituite come membri autonomi dellafederazione nazionale: i principî delle quali si fanno ri-salire all'epoca dei re.

Fin dove si estendessero verso la fine di quell'epoca iterritori sui quali Roma, verso il mezzogiorno, esercita-va la supremazia politica, non si può nemmeno con ap-prossimazione stabilire.

Negli annali romani del periodo dei re si parla moltodi ostilità con i vicini comuni latini e volsci, ma appenapoche singole notizie, come ad esempio quella dellapresa di Suessa nel piano Pontino, contengono un fon-damento storico.

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distante da Roma poco più di dieci chilometri, e di sni-darne i Veienti che di là movevano spesso all'attacco delpaese latino. Ma in compenso i Romani si mantennero,senza contrasto, in possesso del Gianicolo e di entrambele rive tiberine fino alla foce. Dalla parte poi de' Sabini edegli Equi, Roma si mostrò sempre molto superiore diforze e d'animo, giovandosi del concorso dei più lontaniErnici, la cui unione con Roma, divenuta in seguito cosìintima, deve esser cominciata almeno all'epoca dei re. ILatini e gli Ernici, collegati insieme, tenevano tra duefuochi e sorvegliavano i loro vicini di levante. Ma conti-nuo teatro di guerra rimase la frontiera di mezzodì, ilpaese dei Rutuli e più ancora quello dei Volsci. Da que-sto lato incominciò ad allargarsi il territorio latino, e quinoi troviamo per la prima volta le comunità fondate daRoma e dal Lazio in un paese conquistato, le così dettecolonie latine, costituite come membri autonomi dellafederazione nazionale: i principî delle quali si fanno ri-salire all'epoca dei re.

Fin dove si estendessero verso la fine di quell'epoca iterritori sui quali Roma, verso il mezzogiorno, esercita-va la supremazia politica, non si può nemmeno con ap-prossimazione stabilire.

Negli annali romani del periodo dei re si parla moltodi ostilità con i vicini comuni latini e volsci, ma appenapoche singole notizie, come ad esempio quella dellapresa di Suessa nel piano Pontino, contengono un fon-damento storico.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

Malgrado ciò non si può mettere in dubbio che il pe-riodo dei re abbia non solo posto le basi politiche diRoma, ma ne abbia anche fondato all'esterno la potenza.La posizione di Roma, piuttosto di fronte alla lega latinache non dentro la lega stessa, è già stabilita decisamenteal principio della repubblica e ci mostra che Roma,all'epoca dei re, doveva aver già compiuto forti manife-stazioni militari all'esterno. Qui, certo, si compironograndi fatti che non lasciarono quasi traccia, e la cuidubbia luce accenna ai tempi dei re di Roma, e princi-palmente all'epoca dei Tarquini; ma non è più che comeil barlume d'un lontano crepuscolo, il quale rischiara lospazio, e nel tempo stesso rende confusi ed incerti i con-torni delle cose.

7 Allargamento della città di Roma. Così, sottol'egemonia romana, la stirpe latina fu unita in un solocorpo ed avviata ad estendere il suo territorio verso le-vante e verso mezzodì; Roma stessa poi, secondata dalfavore della sorte e dal valore dei cittadini, s'era trasfor-mata in un attivo emporio commerciale e da città agri-cola in potente metropoli d'un florido paese. Il riordina-mento e la composizione dell'esercito romano, e la rifor-ma politica contenutavi in germe, la quale ci è nota sottoil nome di costituzione di Servio, si trovano in istrettaconnessione al mutato indirizzo dei destini di Roma. Ilcarattere della città, anche nei suoi rapporti esterni, ebbea foggiarsi in ben altra forma, sia in conseguenza dellericchezze e delle forze crescenti, e dei bisogni e delle

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Malgrado ciò non si può mettere in dubbio che il pe-riodo dei re abbia non solo posto le basi politiche diRoma, ma ne abbia anche fondato all'esterno la potenza.La posizione di Roma, piuttosto di fronte alla lega latinache non dentro la lega stessa, è già stabilita decisamenteal principio della repubblica e ci mostra che Roma,all'epoca dei re, doveva aver già compiuto forti manife-stazioni militari all'esterno. Qui, certo, si compironograndi fatti che non lasciarono quasi traccia, e la cuidubbia luce accenna ai tempi dei re di Roma, e princi-palmente all'epoca dei Tarquini; ma non è più che comeil barlume d'un lontano crepuscolo, il quale rischiara lospazio, e nel tempo stesso rende confusi ed incerti i con-torni delle cose.

7 Allargamento della città di Roma. Così, sottol'egemonia romana, la stirpe latina fu unita in un solocorpo ed avviata ad estendere il suo territorio verso le-vante e verso mezzodì; Roma stessa poi, secondata dalfavore della sorte e dal valore dei cittadini, s'era trasfor-mata in un attivo emporio commerciale e da città agri-cola in potente metropoli d'un florido paese. Il riordina-mento e la composizione dell'esercito romano, e la rifor-ma politica contenutavi in germe, la quale ci è nota sottoil nome di costituzione di Servio, si trovano in istrettaconnessione al mutato indirizzo dei destini di Roma. Ilcarattere della città, anche nei suoi rapporti esterni, ebbea foggiarsi in ben altra forma, sia in conseguenza dellericchezze e delle forze crescenti, e dei bisogni e delle

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conseguenti esigenze, sia perchè s'allargavano la visionee le esperienze politiche.

La fusione del comune Palatino col Quirinale dovevaessere già stata compiuta quando incominciò la cosid-detta riforma di Servio e se fino allora i Romani s'eranoaccontentati di condurre qualche trinceramento ai piedidel Campidoglio e intorno ai colli a mano a mano chequesti venivano coprendosi di edifici, e di fortificarel'isola del Tevere e l'altura sulla sponda opposta, per es-sere a cavallo del fiume e dominarne il corso, divenutacapitale del Lazio, Roma, doveva sentire il bisogno d'unpiù compiuto e stabile sistema difensivo. Si addivennecosì alla costruzione delle mura serviane. Questo nuovoe ininterrotto vallo cittadino incominciava a piedidell'Aventino, presso il fiume, e circondava da tre partiquesta collina, sotto la quale nel 1855 si scoprirono indue luoghi, parte sulla china di ponente verso il Tevere,parte sull'opposta china di levante, colossali reliquie dipossenti fortificazioni, e frammenti di mura dell'altezzadi quelle di Alatri e di Ferentino composti di ciclopicimassi di tufo tagliati a forma di cubi, e sovrapposti e in-castrati gli uni negli altri irregolarmente; risorta testimo-nianza della forza e dell'audacia di un popolo, imperitu-ra come i suoi monumenti, e le cui opere spirituali dure-ranno ancora più eterne di quelli.

Le mura abbracciavano inoltre il monte Celio e tuttolo spazio dell'Esquilino, del Viminale e del Quirinale,ove grandiosi resti di una costruzione in peperino, sco-perti nel 1862, in un possente terrapieno, che anche oggi

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conseguenti esigenze, sia perchè s'allargavano la visionee le esperienze politiche.

La fusione del comune Palatino col Quirinale dovevaessere già stata compiuta quando incominciò la cosid-detta riforma di Servio e se fino allora i Romani s'eranoaccontentati di condurre qualche trinceramento ai piedidel Campidoglio e intorno ai colli a mano a mano chequesti venivano coprendosi di edifici, e di fortificarel'isola del Tevere e l'altura sulla sponda opposta, per es-sere a cavallo del fiume e dominarne il corso, divenutacapitale del Lazio, Roma, doveva sentire il bisogno d'unpiù compiuto e stabile sistema difensivo. Si addivennecosì alla costruzione delle mura serviane. Questo nuovoe ininterrotto vallo cittadino incominciava a piedidell'Aventino, presso il fiume, e circondava da tre partiquesta collina, sotto la quale nel 1855 si scoprirono indue luoghi, parte sulla china di ponente verso il Tevere,parte sull'opposta china di levante, colossali reliquie dipossenti fortificazioni, e frammenti di mura dell'altezzadi quelle di Alatri e di Ferentino composti di ciclopicimassi di tufo tagliati a forma di cubi, e sovrapposti e in-castrati gli uni negli altri irregolarmente; risorta testimo-nianza della forza e dell'audacia di un popolo, imperitu-ra come i suoi monumenti, e le cui opere spirituali dure-ranno ancora più eterne di quelli.

Le mura abbracciavano inoltre il monte Celio e tuttolo spazio dell'Esquilino, del Viminale e del Quirinale,ove grandiosi resti di una costruzione in peperino, sco-perti nel 1862, in un possente terrapieno, che anche oggi

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desta meraviglia, e che suppliva alla mancanza dei mez-zi naturali di difesa, e di là si dirigeva fino al Capitolino,il cui ripido pendio verso il Campo Marzio formava lacontinuazione della cinta della città che, a montedell'isola Tiberina, toccava novamente il fiume.

L'isola Tiberina, unitamente al ponte di legno e alGianicolo era piuttosto un sobborgo fortificato. Inoltre,se fino allora il Palatino era stato la rocca, veniva oraabbandonato alla libera costruzione edilizia e in vecesua si eresse sulla rupe Tarpea, aperta da ogni lato e fa-cile a difendersi per il suo breve perimetro, il nuovo ca-stello, l'arx Capitolium43 col pozzo del castello, con lacisterna (Tullianum) accuratamente cintata, con la came-ra del tesoro (aerarium), con la prigione e col più anticoluogo per l'assemblea della cittadinanza (Arca capitoli-na) sulla quale anche più tardi hanno avuto luogo i rego-lari annunzi delle fasi della luna.

Nessuna abitazione privata fu invece tollerata neitempi antichi sul Campidoglio44. E lo spazio tra le duepunte del colle, il santuario del Dio Cattivo (Ve-Diovis)o, come più tardi nell'epoca ellenizzante fu chiamato,

43 E i due nomi, sebbene divenissero più tardi nomi locali eadoperati, il secondo, Capitolium, per indicare la punta del colleverso il fiume, e Arx per indicare la punta volta al Quirinale, sonoin origine appellativi, e infatti ogni città latina, ha il suo Capito-lium. Il vero nome della collina è Mons Tarpeius.

44 La disposizione, ne quis patricius in arce aut Capitolio ha-bitaret, proibiva bensì la trasformazione del suolo in proprietàprivata, ma non l'edificazione di case abitabili (Cfr. BECKER, Top.386).

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desta meraviglia, e che suppliva alla mancanza dei mez-zi naturali di difesa, e di là si dirigeva fino al Capitolino,il cui ripido pendio verso il Campo Marzio formava lacontinuazione della cinta della città che, a montedell'isola Tiberina, toccava novamente il fiume.

L'isola Tiberina, unitamente al ponte di legno e alGianicolo era piuttosto un sobborgo fortificato. Inoltre,se fino allora il Palatino era stato la rocca, veniva oraabbandonato alla libera costruzione edilizia e in vecesua si eresse sulla rupe Tarpea, aperta da ogni lato e fa-cile a difendersi per il suo breve perimetro, il nuovo ca-stello, l'arx Capitolium43 col pozzo del castello, con lacisterna (Tullianum) accuratamente cintata, con la came-ra del tesoro (aerarium), con la prigione e col più anticoluogo per l'assemblea della cittadinanza (Arca capitoli-na) sulla quale anche più tardi hanno avuto luogo i rego-lari annunzi delle fasi della luna.

Nessuna abitazione privata fu invece tollerata neitempi antichi sul Campidoglio44. E lo spazio tra le duepunte del colle, il santuario del Dio Cattivo (Ve-Diovis)o, come più tardi nell'epoca ellenizzante fu chiamato,

43 E i due nomi, sebbene divenissero più tardi nomi locali eadoperati, il secondo, Capitolium, per indicare la punta del colleverso il fiume, e Arx per indicare la punta volta al Quirinale, sonoin origine appellativi, e infatti ogni città latina, ha il suo Capito-lium. Il vero nome della collina è Mons Tarpeius.

44 La disposizione, ne quis patricius in arce aut Capitolio ha-bitaret, proibiva bensì la trasformazione del suolo in proprietàprivata, ma non l'edificazione di case abitabili (Cfr. BECKER, Top.386).

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l'asilo, era coperto di boschi e destinato probabilmenteai pastori col loro gregge quando l'inondazione del Te-vere o la guerra li scacciava dalla pianura.

Il Campidoglio, secondo il nome e la cosa, era l'Acro-poli di Roma; un castello indipendente e capace di dife-sa anche dopo la caduta della città, e la cui porta proba-bilmente era dalla parte dove più tardi sorse il mercato45.

In modo simile, benchè in minor misura, pare fossefortificato l'Aventino, e sottratto così ad una vera colo-nizzazione. Concorda con questo il fatto che per scopiveramente civici, come ad esempio per la distribuzionedell'acqua portata dagli acquedotti, la popolazione ro-mana si divideva nei veri e propri abitatori della città(montani), e in quella dei distretti compresi nella cerchiagenerale, ma non ancora annoverati nella città propria-mente detta (pagani Aventinenses, Ianiculenses, Colle-gia Capitolinorum e Mercurialium)46.

45 Poichè da qui partiva la strada principale, la Via Sacra suverso la rocca, e nella curva che questa fa a sinistra presso l'arcodi Severo, si può riconoscere ancora distintamente la curva dellaporta. Questa sarà andata distrutta nelle grandi costruzioni che piùtardi ebbero luogo nel clivo. La cosiddetta porta sul più ripidopunto del monte Capitolino, che appare col nome di Ianuale oSaturno, o anche di aperta e che in tempo di guerra doveva restarsempre aperta, non aveva probabilmente che un significato reli-gioso e non è mai stata una vera porta.

46 Vi erano quattro di tali divisioni: 1a I Capitolilini (CICERO,Ad. Q, fr. 2, 5, 2) col proprio magister (HENZEN, 6010, 6011) e gio-chi annuali (LIVIO, 5, 50; cfr. C. I. L., I., n. 805); 2a i Mercuriales(LIVIO, 2, 27; CICERO, loc. cit, PRELLER, Myt., pag. 597) pure con

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l'asilo, era coperto di boschi e destinato probabilmenteai pastori col loro gregge quando l'inondazione del Te-vere o la guerra li scacciava dalla pianura.

Il Campidoglio, secondo il nome e la cosa, era l'Acro-poli di Roma; un castello indipendente e capace di dife-sa anche dopo la caduta della città, e la cui porta proba-bilmente era dalla parte dove più tardi sorse il mercato45.

In modo simile, benchè in minor misura, pare fossefortificato l'Aventino, e sottratto così ad una vera colo-nizzazione. Concorda con questo il fatto che per scopiveramente civici, come ad esempio per la distribuzionedell'acqua portata dagli acquedotti, la popolazione ro-mana si divideva nei veri e propri abitatori della città(montani), e in quella dei distretti compresi nella cerchiagenerale, ma non ancora annoverati nella città propria-mente detta (pagani Aventinenses, Ianiculenses, Colle-gia Capitolinorum e Mercurialium)46.

45 Poichè da qui partiva la strada principale, la Via Sacra suverso la rocca, e nella curva che questa fa a sinistra presso l'arcodi Severo, si può riconoscere ancora distintamente la curva dellaporta. Questa sarà andata distrutta nelle grandi costruzioni che piùtardi ebbero luogo nel clivo. La cosiddetta porta sul più ripidopunto del monte Capitolino, che appare col nome di Ianuale oSaturno, o anche di aperta e che in tempo di guerra doveva restarsempre aperta, non aveva probabilmente che un significato reli-gioso e non è mai stata una vera porta.

46 Vi erano quattro di tali divisioni: 1a I Capitolilini (CICERO,Ad. Q, fr. 2, 5, 2) col proprio magister (HENZEN, 6010, 6011) e gio-chi annuali (LIVIO, 5, 50; cfr. C. I. L., I., n. 805); 2a i Mercuriales(LIVIO, 2, 27; CICERO, loc. cit, PRELLER, Myt., pag. 597) pure con

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Lo spazio recinto dalle nuove mura della città, com-prendeva dunque, oltre alla città già esistente, Palatino eQuirinale, anche le due fortezze federali del Campido-glio, dell'Aventino e del Gianicolo47.

Il Palatino, come vera e più antica città, era chiusodalle altre alture come da una corona di colli, lungo i

magistri (HENZEN, 6010); la divisione della valle del Circo dove sitrovava anche il tempio di Mercurio; 3a i pagani aventinensespure con magistri (HENZEN, 6010); 4a i pagani pagi Ianiculensespure con magistri (C. I. L., I., n. 801 802).

Certo non a caso queste quattro divisioni, le uniche di questaspecie che appaiono in Roma, appartengono appunto alle due col-line escluse dalle quattro tribù locali, ma rinchiuse dal muro ser-viano; al Campidoglio, cioè, e all'Aventino, e al Gianicolo, appar-tenente all'Aventino come fortificazione; ed è pure significativo ilfatto che le parole montani paganive vengono adoperate per indi-care complessivamente i domiciliati cittadini di Roma. Cfr. il bennoto punto, CIC., De domo, 28, 74, specialmente la legge sullecondutture d'acqua cittadina in FESTUS a sifus [mon] tani paganivesi [fis] aquam dividunto.

I montani che sono propriamente gli abitanti dei tre distrettipalatini sembrano qui messi a potiori per tutta l'intera cittadinan-za dei quattro quartieri, i Pagani sono certo le confederazionidel'Aventino e del Gianicolo al di fuori delle tribù e i colleghianaloghi del Campidoglio e della valle del circo.

47 La città dei «sette colli» nel senso proprio e religioso è e ri-mane l'augusta Roma palatina. È vero che anche la Roma servia-na si considera almeno già all'epoca ciceroniana (cfr., p. e.:CICERONE, Ad. Att., 6, 5, 2; PLUTARCO, Rom., 69), come città dei set-te colli, probabilmente perchè la festa del Septimontium, solenne-mente celebrata nell'epoca imperiale, incominciava ad essere con-siderata come festa cittadina; ma difficilmente si venne ad uno

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Lo spazio recinto dalle nuove mura della città, com-prendeva dunque, oltre alla città già esistente, Palatino eQuirinale, anche le due fortezze federali del Campido-glio, dell'Aventino e del Gianicolo47.

Il Palatino, come vera e più antica città, era chiusodalle altre alture come da una corona di colli, lungo i

magistri (HENZEN, 6010); la divisione della valle del Circo dove sitrovava anche il tempio di Mercurio; 3a i pagani aventinensespure con magistri (HENZEN, 6010); 4a i pagani pagi Ianiculensespure con magistri (C. I. L., I., n. 801 802).

Certo non a caso queste quattro divisioni, le uniche di questaspecie che appaiono in Roma, appartengono appunto alle due col-line escluse dalle quattro tribù locali, ma rinchiuse dal muro ser-viano; al Campidoglio, cioè, e all'Aventino, e al Gianicolo, appar-tenente all'Aventino come fortificazione; ed è pure significativo ilfatto che le parole montani paganive vengono adoperate per indi-care complessivamente i domiciliati cittadini di Roma. Cfr. il bennoto punto, CIC., De domo, 28, 74, specialmente la legge sullecondutture d'acqua cittadina in FESTUS a sifus [mon] tani paganivesi [fis] aquam dividunto.

I montani che sono propriamente gli abitanti dei tre distrettipalatini sembrano qui messi a potiori per tutta l'intera cittadinan-za dei quattro quartieri, i Pagani sono certo le confederazionidel'Aventino e del Gianicolo al di fuori delle tribù e i colleghianaloghi del Campidoglio e della valle del circo.

47 La città dei «sette colli» nel senso proprio e religioso è e ri-mane l'augusta Roma palatina. È vero che anche la Roma servia-na si considera almeno già all'epoca ciceroniana (cfr., p. e.:CICERONE, Ad. Att., 6, 5, 2; PLUTARCO, Rom., 69), come città dei set-te colli, probabilmente perchè la festa del Septimontium, solenne-mente celebrata nell'epoca imperiale, incominciava ad essere con-siderata come festa cittadina; ma difficilmente si venne ad uno

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quali era stato condotto il muro di cinta, diviso nel mez-zo dai due castelli.

Ma l'opera non era compiuta fino a che il paese, dife-so con tanta cura dai nemici esterni, non si poteva ga-rantire dai continui straripamenti del fiume, le cui acqueallagavano la valle tra il Campidoglio e la Velia da do-vervisi tragittare quasi sempre in battello, e impaludava-no tanto la valle tra il Campidoglio e la Velia, quantol'altra che si apriva tra il Palatino e l'Aventino. Le ma-gnifiche cloache costruite con pietra da taglio, le qualianche oggidì si ammirano come opera stupenda del tem-po dei re, potrebbero attribuirsi piuttosto all'epoca suc-cessiva, anche perchè vi si vede impiegato il travertino eperchè si narra di molti nuovi edifizi elevatisi sopra diesse all'epoca repubblicana. Ma le fondamenta apparten-gono indubbiamente all'epoca dei re, presumibilmentestabile accordo per determinare quali alture chiuse nelle mura ser-viane si annoverassero tra le sette. Nessun antico scrittore noverai sette monti a noi famigliari, il Palatino, l'Aventino, il Celio,l'Esquilino, il Viminale, il Quirinale e il Capitolino. Essi furonomessi insieme dal racconto tradizionale del graduato ampliarsidella città (JORDAN, Topografia, 2, 206 fog.), ma il Gianicolo ne èstato escluso solo perchè allora i sette monti sarebbero stati otto.La più antica fonte che novera i sette monti di Roma, la descrizio-ne della città nei tempi di Costantino il Grande, chiama monti ilPalatino, l'Aventino, il Celio, l'Esquilino, il Tarpeio, il Vaticano eil Gianicolo; qui mancano dunque il Quirinale e il Viminale esono compresi invece due colli della riva destra del Tevere, fra iquali perfino il Vaticano, giacente al di fuori delle mura serviane.Altre e successive numerazioni danno SERVIUS, (Aen. 6, 783) eLYDUS (de mens., pag. 118 Bekker).

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quali era stato condotto il muro di cinta, diviso nel mez-zo dai due castelli.

Ma l'opera non era compiuta fino a che il paese, dife-so con tanta cura dai nemici esterni, non si poteva ga-rantire dai continui straripamenti del fiume, le cui acqueallagavano la valle tra il Campidoglio e la Velia da do-vervisi tragittare quasi sempre in battello, e impaludava-no tanto la valle tra il Campidoglio e la Velia, quantol'altra che si apriva tra il Palatino e l'Aventino. Le ma-gnifiche cloache costruite con pietra da taglio, le qualianche oggidì si ammirano come opera stupenda del tem-po dei re, potrebbero attribuirsi piuttosto all'epoca suc-cessiva, anche perchè vi si vede impiegato il travertino eperchè si narra di molti nuovi edifizi elevatisi sopra diesse all'epoca repubblicana. Ma le fondamenta apparten-gono indubbiamente all'epoca dei re, presumibilmentestabile accordo per determinare quali alture chiuse nelle mura ser-viane si annoverassero tra le sette. Nessun antico scrittore noverai sette monti a noi famigliari, il Palatino, l'Aventino, il Celio,l'Esquilino, il Viminale, il Quirinale e il Capitolino. Essi furonomessi insieme dal racconto tradizionale del graduato ampliarsidella città (JORDAN, Topografia, 2, 206 fog.), ma il Gianicolo ne èstato escluso solo perchè allora i sette monti sarebbero stati otto.La più antica fonte che novera i sette monti di Roma, la descrizio-ne della città nei tempi di Costantino il Grande, chiama monti ilPalatino, l'Aventino, il Celio, l'Esquilino, il Tarpeio, il Vaticano eil Gianicolo; qui mancano dunque il Quirinale e il Viminale esono compresi invece due colli della riva destra del Tevere, fra iquali perfino il Vaticano, giacente al di fuori delle mura serviane.Altre e successive numerazioni danno SERVIUS, (Aen. 6, 783) eLYDUS (de mens., pag. 118 Bekker).

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però in un tempo successivo alla costruzione delle murae della rocca Capitolina. Per tal modo si riuscì, col pro-sciugamento delle paludi, ad ottenere larghi spazi performare le piazze, di cui abbisognava la nuova capitale.La piazza per le pubbliche adunanze del comune, chefino allora si erano celebrate sulla spianata capitolina,entro la rocca medesima, fu allora tracciata nel piano,che dalla rocca discendeva verso la città (comitium) eche si allargava tra il Palatino e le Carine giù verso laVelia. Da parte della piazza del tribunale, rivolta allarocca e sul muro della rocca che, come un verone,s'innalzava di faccia alla piazza del tribunale, avevanoposto d'onore i membri del senato e gli ospiti della cittàin occasione di feste e di assemblee popolari; nè andòmolto che là vicino si costruì un apposito palazzo sena-torio, il quale ebbe nome di Curia Ostilia. La tribuna deigiudici e la ringhiera, dalla quale si parlava ai cittadini(detta poi rostrum) erano collocate nello stesso foro. Ilprolungamento di questo, verso la Velia, divenne il nuo-vo foro (forum romanum). Sul lato occidentale del me-desimo, sotto al Palatino, sorse la casa del comune, checomprendeva l'abitazione ufficiale del re (regia) e il fo-colare comune della città, la rotonda del tempio di Ve-sta. Non lungi, sul lato meridionale del foro, si elevavaun'altra rotonda, la camera del comune, ossia il tempiode' penati, che esiste ancora come abside della chiesadei Santi Cosma e Damiano. Come simbolo del nuovocarattere che assumeva la città unificata in tutt'altromodo di quello che s'era tenuto sin allora, accrescendo

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però in un tempo successivo alla costruzione delle murae della rocca Capitolina. Per tal modo si riuscì, col pro-sciugamento delle paludi, ad ottenere larghi spazi performare le piazze, di cui abbisognava la nuova capitale.La piazza per le pubbliche adunanze del comune, chefino allora si erano celebrate sulla spianata capitolina,entro la rocca medesima, fu allora tracciata nel piano,che dalla rocca discendeva verso la città (comitium) eche si allargava tra il Palatino e le Carine giù verso laVelia. Da parte della piazza del tribunale, rivolta allarocca e sul muro della rocca che, come un verone,s'innalzava di faccia alla piazza del tribunale, avevanoposto d'onore i membri del senato e gli ospiti della cittàin occasione di feste e di assemblee popolari; nè andòmolto che là vicino si costruì un apposito palazzo sena-torio, il quale ebbe nome di Curia Ostilia. La tribuna deigiudici e la ringhiera, dalla quale si parlava ai cittadini(detta poi rostrum) erano collocate nello stesso foro. Ilprolungamento di questo, verso la Velia, divenne il nuo-vo foro (forum romanum). Sul lato occidentale del me-desimo, sotto al Palatino, sorse la casa del comune, checomprendeva l'abitazione ufficiale del re (regia) e il fo-colare comune della città, la rotonda del tempio di Ve-sta. Non lungi, sul lato meridionale del foro, si elevavaun'altra rotonda, la camera del comune, ossia il tempiode' penati, che esiste ancora come abside della chiesadei Santi Cosma e Damiano. Come simbolo del nuovocarattere che assumeva la città unificata in tutt'altromodo di quello che s'era tenuto sin allora, accrescendo

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gradualmente le abitazioni sui sette colli, si deve notareche nella Roma serviana, accanto e al di sopra delletrenta are curuli assembrate in un solo edificio dallaRoma palatina, si volle innalzare un'unica e massima aracomunale48.

Lungo i due lati del foro si trovavano i macelli ed al-tre botteghe. Nella valle tra l'Aventino e il Palatino erasegnato lo spazio per le corse dei cavalli, detto il circo.A pie' del Palatino, e contiguo al fiume, era il mercatodei buoi, che in breve divenne uno dei più popolosiquartieri della città. Su tutte le sommità sorgevano tem-pli e santuarii, particolarmente sull'Aventino il tempio diDiana, sacro alla federazione, e sul culmine del Capito-lino, visibile da lontano, il tempio del padre Diovis, ilquale aveva concesso tutte queste magnificenze al suopopolo, ed ora trionfava delle soggiogate divinità deivinti, come i Romani prevalevano su tutte le nazioni.

I nomi degli uomini, per ordine dei quali questi gran-diosi edifici civici furono costruiti, sono spariti dallamemoria quasi come quelli dei condottieri delle più an-tiche battaglie e vittorie romane. La leggenda attribuiscecertamente molte di queste opere all'uno o all'altro re, la

48 Tanto la situazione dei due templi, quanto la testimonianzaprecisa di DIONISIO (2, 25) che il tempio di Vesta fosse al di fuoridella Roma quadrata, provano, che questi edifici non si connette-vano colla fondazione della città sul Palatino, ma invece colla se-conda fondazione di Servio; e se per i posteri questa reggia coltempio di Vesta passò per un'istituzione di Numa, l'origine di que-sta opinione è troppo manifesta per darle una grande importanza.

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gradualmente le abitazioni sui sette colli, si deve notareche nella Roma serviana, accanto e al di sopra delletrenta are curuli assembrate in un solo edificio dallaRoma palatina, si volle innalzare un'unica e massima aracomunale48.

Lungo i due lati del foro si trovavano i macelli ed al-tre botteghe. Nella valle tra l'Aventino e il Palatino erasegnato lo spazio per le corse dei cavalli, detto il circo.A pie' del Palatino, e contiguo al fiume, era il mercatodei buoi, che in breve divenne uno dei più popolosiquartieri della città. Su tutte le sommità sorgevano tem-pli e santuarii, particolarmente sull'Aventino il tempio diDiana, sacro alla federazione, e sul culmine del Capito-lino, visibile da lontano, il tempio del padre Diovis, ilquale aveva concesso tutte queste magnificenze al suopopolo, ed ora trionfava delle soggiogate divinità deivinti, come i Romani prevalevano su tutte le nazioni.

I nomi degli uomini, per ordine dei quali questi gran-diosi edifici civici furono costruiti, sono spariti dallamemoria quasi come quelli dei condottieri delle più an-tiche battaglie e vittorie romane. La leggenda attribuiscecertamente molte di queste opere all'uno o all'altro re, la

48 Tanto la situazione dei due templi, quanto la testimonianzaprecisa di DIONISIO (2, 25) che il tempio di Vesta fosse al di fuoridella Roma quadrata, provano, che questi edifici non si connette-vano colla fondazione della città sul Palatino, ma invece colla se-conda fondazione di Servio; e se per i posteri questa reggia coltempio di Vesta passò per un'istituzione di Numa, l'origine di que-sta opinione è troppo manifesta per darle una grande importanza.

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curia a Tullio Ostilio, la fortezza del Gianicolo ed ilponte di legno ad Anco Marzio, la cloaca massima, ilcirco, il tempio di Giove a Tarquinio il vecchio, il tem-pio di Diana e le mura della città a Servio Tullio. Moltedi queste notizie avranno qualche fondamento di vero; enon si può non pensare, che non deve essere accidenta-le, nè relativamente al tempo, nè relativamente al mo-vente, la coincidenza della costruzione delle nuove muracon la riforma degli ordini militari, nella quale si pren-deva particolare cura della difesa delle mura della città.Ma in generale converrà accontentarsi di desumere dallatradizione ciò che per se stesso si manifesta, cioè che laseconda fondazione di Roma è strettamente connessacon lo stabilimento dell'egemonia romana nel Lazio ecol nuovo ordinamento delle milizie cittadine, fatti checertamente nacquero dal medesimo grande concetto, mache non si debbono credere l'opera nè d'un sol uomo, nèd'una sola generazione di uomini. Che in questa riformadella cosa pubblica romana abbia avuto gran parte lospirito ellenico non si può mettere in dubbio; ma in qualmaniera, e in qual misura, sarebbe cosa vana cercare.Abbiamo già detto che la costituzione militare di Serviorisentiva dell'influenza ellenica, e che perfino il nome diclasse era tolto dai Greci; e più innanzi diremo come an-che i giuochi circensi fossero ordinati secondo il modoellenico.

Così pure la nuova reggia col focolare della città nonè che un Pritaneo greco; e il tempio rotondo di Vesta,volto all'oriente, che non fu nemmeno consacrato dagli

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curia a Tullio Ostilio, la fortezza del Gianicolo ed ilponte di legno ad Anco Marzio, la cloaca massima, ilcirco, il tempio di Giove a Tarquinio il vecchio, il tem-pio di Diana e le mura della città a Servio Tullio. Moltedi queste notizie avranno qualche fondamento di vero; enon si può non pensare, che non deve essere accidenta-le, nè relativamente al tempo, nè relativamente al mo-vente, la coincidenza della costruzione delle nuove muracon la riforma degli ordini militari, nella quale si pren-deva particolare cura della difesa delle mura della città.Ma in generale converrà accontentarsi di desumere dallatradizione ciò che per se stesso si manifesta, cioè che laseconda fondazione di Roma è strettamente connessacon lo stabilimento dell'egemonia romana nel Lazio ecol nuovo ordinamento delle milizie cittadine, fatti checertamente nacquero dal medesimo grande concetto, mache non si debbono credere l'opera nè d'un sol uomo, nèd'una sola generazione di uomini. Che in questa riformadella cosa pubblica romana abbia avuto gran parte lospirito ellenico non si può mettere in dubbio; ma in qualmaniera, e in qual misura, sarebbe cosa vana cercare.Abbiamo già detto che la costituzione militare di Serviorisentiva dell'influenza ellenica, e che perfino il nome diclasse era tolto dai Greci; e più innanzi diremo come an-che i giuochi circensi fossero ordinati secondo il modoellenico.

Così pure la nuova reggia col focolare della città nonè che un Pritaneo greco; e il tempio rotondo di Vesta,volto all'oriente, che non fu nemmeno consacrato dagli

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auguri, è costruito in ogni sua parte secondo il rito elle-nico e non italico. Non pare quindi assolutamente incre-dibile ciò che narra la tradizione, che cioè la lega jonicanell'Asia minore abbia servito in certo qual modo di mo-dello alla formazione della lega romano-latina, e cheperciò, nella costruzione del nuovo santuario federalesull'Aventino, fosse stato imitato il tempio di Efeso, det-to Artemision.

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auguri, è costruito in ogni sua parte secondo il rito elle-nico e non italico. Non pare quindi assolutamente incre-dibile ciò che narra la tradizione, che cioè la lega jonicanell'Asia minore abbia servito in certo qual modo di mo-dello alla formazione della lega romano-latina, e cheperciò, nella costruzione del nuovo santuario federalesull'Aventino, fosse stato imitato il tempio di Efeso, det-to Artemision.

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OTTAVO CAPITOLOLE SCHIATTE UMBRO-SABELLICHE.

PRIMORDI DEI SANNITI

1 Migrazione umbro-sabelliche. Sembra che lestirpi umbre abbiano iniziato più tardi delle latine la loromigrazione movendo, come le latine, verso mezzodì,mantenendosi più nel mezzo della penisola e verso il li-torale orientale. È penoso parlare di questo popolo, dicui la memoria ci giunge come il suono delle campanedi una città sprofondata nel mare. Erodoto, fin dai suoitempi, pensava che gli Umbri si estendessero fino alleAlpi, e non è inverisimile che nei tempi più antichi essipossedessero tutta l'Italia settentrionale fino là dove ver-so oriente cominciavano le stirpi illiriche, verso occi-dente i Liguri. Ci rimasero non poche tradizioni intornoalle lotte tra Umbri e Liguri; e si può argomentare soloda alcuni nomi di luoghi, che questi ultimi si stendesse-ro nei tempi preistorici verso mezzodì, come ce ne da-rebbe indizio, per esempio, il nome dell'isola Ilva (Elba)confrontata col ligure Ilvates.

A quest'epoca della prosperità umbra vanno debitoridella loro origine i nomi, evidentemente italici, delle piùantiche colonie della valle del Po, Adria (Hatria, cittànera) e Spina (città delle spine) come pure le reliquie dinomi umbri nell'Etruria meridionale (il fiume umbro

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OTTAVO CAPITOLOLE SCHIATTE UMBRO-SABELLICHE.

PRIMORDI DEI SANNITI

1 Migrazione umbro-sabelliche. Sembra che lestirpi umbre abbiano iniziato più tardi delle latine la loromigrazione movendo, come le latine, verso mezzodì,mantenendosi più nel mezzo della penisola e verso il li-torale orientale. È penoso parlare di questo popolo, dicui la memoria ci giunge come il suono delle campanedi una città sprofondata nel mare. Erodoto, fin dai suoitempi, pensava che gli Umbri si estendessero fino alleAlpi, e non è inverisimile che nei tempi più antichi essipossedessero tutta l'Italia settentrionale fino là dove ver-so oriente cominciavano le stirpi illiriche, verso occi-dente i Liguri. Ci rimasero non poche tradizioni intornoalle lotte tra Umbri e Liguri; e si può argomentare soloda alcuni nomi di luoghi, che questi ultimi si stendesse-ro nei tempi preistorici verso mezzodì, come ce ne da-rebbe indizio, per esempio, il nome dell'isola Ilva (Elba)confrontata col ligure Ilvates.

A quest'epoca della prosperità umbra vanno debitoridella loro origine i nomi, evidentemente italici, delle piùantiche colonie della valle del Po, Adria (Hatria, cittànera) e Spina (città delle spine) come pure le reliquie dinomi umbri nell'Etruria meridionale (il fiume umbro

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Camars, antico nome di Clusium, Castrum amerinum).Tali indizi stabiliscono poi in modo positivo che nellaregione più meridionale dell'Etruria, posta tra la forestaciminica (sotto Viterbo) ed il Tevere, una popolazioneitalica abbia preceduto l'Etrusca.

Secondo Strabone, a Faleria (la città di confine tra ipaesi umbri e i sabini) si parlava una lingua diversadall'etrusca, e il culto locale ricordava il culto sabellico;e a quella stessa epoca pre-etrusca appartengono le anti-chissime relazioni tra Cere e Roma, le quali avevano an-che un carattere sacro. È probabile che gli Etruschi ab-biano tolta agli Umbri la suddetta regione meridionalemolto più tardi che il paese posto al settentrione dellaforesta ciminica e che una popolazione umbra abbiacontinuato a soggiornarvi anche dopo che il paese venneconquistato dagli Etruschi. Ciò basterebbe a spiegare laprontezza con cui, dopo l'occupazione romana, si lati-nizzò l'Etruria meridionale in confronto della settentrio-nale, tenacissima della propria lingua e dei propri costu-mi. Che gli Umbri fossero spodestati dalle regioni set-tentrionali e occidentali e cacciati oltre l'angusto paesealpestre situato tra le braccia dell'Appennino, che poipossedettero, lo indica chiaramente la loro posizionegeografica, così come oggi quella degli abitanti del pae-se dei Grigioni e dei Baschi ci rivela un eguale destinostorico. E la leggenda narra che gli Etruschi tolsero agliUmbri trecento città; e, ciò che più importa, nelle pre-ghiere nazionali degli Igovini umbri, pervenute sino anoi, vediamo maledetti come nemici del paese, insieme

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Camars, antico nome di Clusium, Castrum amerinum).Tali indizi stabiliscono poi in modo positivo che nellaregione più meridionale dell'Etruria, posta tra la forestaciminica (sotto Viterbo) ed il Tevere, una popolazioneitalica abbia preceduto l'Etrusca.

Secondo Strabone, a Faleria (la città di confine tra ipaesi umbri e i sabini) si parlava una lingua diversadall'etrusca, e il culto locale ricordava il culto sabellico;e a quella stessa epoca pre-etrusca appartengono le anti-chissime relazioni tra Cere e Roma, le quali avevano an-che un carattere sacro. È probabile che gli Etruschi ab-biano tolta agli Umbri la suddetta regione meridionalemolto più tardi che il paese posto al settentrione dellaforesta ciminica e che una popolazione umbra abbiacontinuato a soggiornarvi anche dopo che il paese venneconquistato dagli Etruschi. Ciò basterebbe a spiegare laprontezza con cui, dopo l'occupazione romana, si lati-nizzò l'Etruria meridionale in confronto della settentrio-nale, tenacissima della propria lingua e dei propri costu-mi. Che gli Umbri fossero spodestati dalle regioni set-tentrionali e occidentali e cacciati oltre l'angusto paesealpestre situato tra le braccia dell'Appennino, che poipossedettero, lo indica chiaramente la loro posizionegeografica, così come oggi quella degli abitanti del pae-se dei Grigioni e dei Baschi ci rivela un eguale destinostorico. E la leggenda narra che gli Etruschi tolsero agliUmbri trecento città; e, ciò che più importa, nelle pre-ghiere nazionali degli Igovini umbri, pervenute sino anoi, vediamo maledetti come nemici del paese, insieme

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con altre stirpi, principalmente gli Etruschi. Incalzaticosì dalle parti settentrionali, gli Umbri dovettero, forseper necessità, calare verso mezzodì, tenendosi in gene-rale nella regione più aspra e centrale dei monti, perchèil piano era già occupato dalle stirpi latine, ma toccandosenza dubbio e spesso occupando qualche lembo del ter-ritorio dei loro vicini, che erano dello stesso sangue ecoi quali tanto più facilmente si mescolavano, inquanto-chè allora l'antitesi nella lingua e nei costumi fra questidue rami dello stesso stipite non poteva ancora esseretanto profondamente segnata, quanto la troviamo piùtardi. A questo periodo si deve riferire quello che la tra-dizione narra dell'irruzione dei Reatini e dei Sabini nelLazio, e delle loro guerre coi Romani; avvenimenti che,a quanto pare, devono essersi sovente ripetuti lungo tut-ta la costa occidentale.

In generale i Sabini non si allontanavano dai monti –e montuoso era tanto il paese limitrofo al Lazio ch'essioccuparono, e che d'allora in poi fu chiamato col loronome, quanto il paese dei Volsci – probabilmente perchèqui la popolazione latina difettava, oppure era menodensa, mentre dall'altro lato le pianure, meglio popolate,potevano opporre maggior resistenza. Nè per questopossiamo o vogliamo negare interamente che in Romaentrasse qualche consorzio gentilizio dei Sabini, comead esempio quello dei Tizi e più tardi quello dei Claudi.Così si mescolarono variamente, o almeno si accostaro-no, intorno a Roma, le stirpi; il che ci spiega come i Vol-sci ebbero tante e sì intime relazioni coi Latini, e perchè

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con altre stirpi, principalmente gli Etruschi. Incalzaticosì dalle parti settentrionali, gli Umbri dovettero, forseper necessità, calare verso mezzodì, tenendosi in gene-rale nella regione più aspra e centrale dei monti, perchèil piano era già occupato dalle stirpi latine, ma toccandosenza dubbio e spesso occupando qualche lembo del ter-ritorio dei loro vicini, che erano dello stesso sangue ecoi quali tanto più facilmente si mescolavano, inquanto-chè allora l'antitesi nella lingua e nei costumi fra questidue rami dello stesso stipite non poteva ancora esseretanto profondamente segnata, quanto la troviamo piùtardi. A questo periodo si deve riferire quello che la tra-dizione narra dell'irruzione dei Reatini e dei Sabini nelLazio, e delle loro guerre coi Romani; avvenimenti che,a quanto pare, devono essersi sovente ripetuti lungo tut-ta la costa occidentale.

In generale i Sabini non si allontanavano dai monti –e montuoso era tanto il paese limitrofo al Lazio ch'essioccuparono, e che d'allora in poi fu chiamato col loronome, quanto il paese dei Volsci – probabilmente perchèqui la popolazione latina difettava, oppure era menodensa, mentre dall'altro lato le pianure, meglio popolate,potevano opporre maggior resistenza. Nè per questopossiamo o vogliamo negare interamente che in Romaentrasse qualche consorzio gentilizio dei Sabini, comead esempio quello dei Tizi e più tardi quello dei Claudi.Così si mescolarono variamente, o almeno si accostaro-no, intorno a Roma, le stirpi; il che ci spiega come i Vol-sci ebbero tante e sì intime relazioni coi Latini, e perchè

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la regione ch'essi abitavano, potè in seguito così pronta-mente e completamente latinizzarsi.

2 Sanniti. Il ramo principale della stirpe umbra,però, si portò dalla Sabina più verso oriente, e nel nododegli Appennini abruzzesi e nelle colline che a mezzodìsi inseriscono a quell'aspro labirinto alpestre. Anche qui,come nella zona occidentale, essi occuparono le regionimontuose, le cui rade popolazioni cedettero o si sotto-misero agli immigranti, mentre invece nella pianura lito-ranea della Puglia, l'antica popolazione indigena degliJapigi riuscì quasi dappertutto a resistere, benchè fossecontinuamente in guerra, particolarmente verso il setten-trione, per il possesso di Lucera e d'Arpi. È facile com-prendere che non si può determinare con precisione iltempo in cui avvennero queste migrazioni; ma esse siverificarono probabilmente verso l'epoca in cui Romaera governata dai re.

La tradizione narra come i Sabini, incalzati degli Um-bri, votassero una primavera sacra, vale a dire giurasse-ro di mandar fuori, per fondare in paesi stranieri nuovesedi agli dei nazionali, tutti i figli e le figlie che fosseronati nell'anno di guerra, appena essi fossero pervenuti inetà per questo voluta. Uno dei questi sciami votivi fucondotto dal toro di Marte e diede origine ai Sabini oSanniti che prima presero stanza sui monti lungo il fiu-me Sangro, e di là partendo occuparono in seguito il belpiano a levante del monte Matese alla sorgente del Ti-ferno, e nell'antico e nel nuovo territorio, dal toro che li

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la regione ch'essi abitavano, potè in seguito così pronta-mente e completamente latinizzarsi.

2 Sanniti. Il ramo principale della stirpe umbra,però, si portò dalla Sabina più verso oriente, e nel nododegli Appennini abruzzesi e nelle colline che a mezzodìsi inseriscono a quell'aspro labirinto alpestre. Anche qui,come nella zona occidentale, essi occuparono le regionimontuose, le cui rade popolazioni cedettero o si sotto-misero agli immigranti, mentre invece nella pianura lito-ranea della Puglia, l'antica popolazione indigena degliJapigi riuscì quasi dappertutto a resistere, benchè fossecontinuamente in guerra, particolarmente verso il setten-trione, per il possesso di Lucera e d'Arpi. È facile com-prendere che non si può determinare con precisione iltempo in cui avvennero queste migrazioni; ma esse siverificarono probabilmente verso l'epoca in cui Romaera governata dai re.

La tradizione narra come i Sabini, incalzati degli Um-bri, votassero una primavera sacra, vale a dire giurasse-ro di mandar fuori, per fondare in paesi stranieri nuovesedi agli dei nazionali, tutti i figli e le figlie che fosseronati nell'anno di guerra, appena essi fossero pervenuti inetà per questo voluta. Uno dei questi sciami votivi fucondotto dal toro di Marte e diede origine ai Sabini oSanniti che prima presero stanza sui monti lungo il fiu-me Sangro, e di là partendo occuparono in seguito il belpiano a levante del monte Matese alla sorgente del Ti-ferno, e nell'antico e nel nuovo territorio, dal toro che li

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capitanò, chiamarono Boviano i luoghi delle loro adu-nanze e dei loro magistrati, posti nel territorio anticopresso Agnone, nel nuovo presso Boiano. Il pico diMarte guidò il secondo sciame votivo, da cui ebbero ori-gine i Picenti, popolo astato, che occupò il paese cheforma oggi la marca d'Ancona. Una terza colonia, sottol'insegna d'un lupo (hirpus), prese stanza nel paese diBenevento col nome d'Irpini. Nello stesso modo, dallostipite comune si ramificarono le altre piccole popola-zioni, come ad esempio i Pretuziani presso Teramo, iVestini a pie' del Gran Sasso, i Marruccini presso Chieti,i Frentani verso la Puglia, i Peligni sul monte Maiella,finalmente i Marsi intorno al lago Fucino, in contattovoi Volsci e coi Latini.

Come fan fede le tradizioni, presso tutti questi popolisi mantenne vivo il sentimento dell'affinità e della co-mune loro origine dal ceppo sabino. Mentre gli Umbridopo una lotta ineguale soggiacquero al prevalere deivicini, e i rami occidentali dello stesso stipite si fuserocolle popolazioni latine e colle greche, le stirpi sabelli-che prosperavano, chiuse dentro i riposti altipianidell'Appennino, lontano dagli attacchi tanto degli Etru-schi quanto dei Latini e dei Greci. Presso di essi non sisviluppò affatto o appena in minimo grado la forma delvivere cittadino; la loro posizione geografica li esclude-va quasi interamente dal commercio, ed alla loro difesabastavano le gole dei monti e le rocche alpestri; i conta-dini abitavano in borghetti aperti o in casali isolati sparsicome meglio loro piaceva tra i boschi, presso i pascoli o

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capitanò, chiamarono Boviano i luoghi delle loro adu-nanze e dei loro magistrati, posti nel territorio anticopresso Agnone, nel nuovo presso Boiano. Il pico diMarte guidò il secondo sciame votivo, da cui ebbero ori-gine i Picenti, popolo astato, che occupò il paese cheforma oggi la marca d'Ancona. Una terza colonia, sottol'insegna d'un lupo (hirpus), prese stanza nel paese diBenevento col nome d'Irpini. Nello stesso modo, dallostipite comune si ramificarono le altre piccole popola-zioni, come ad esempio i Pretuziani presso Teramo, iVestini a pie' del Gran Sasso, i Marruccini presso Chieti,i Frentani verso la Puglia, i Peligni sul monte Maiella,finalmente i Marsi intorno al lago Fucino, in contattovoi Volsci e coi Latini.

Come fan fede le tradizioni, presso tutti questi popolisi mantenne vivo il sentimento dell'affinità e della co-mune loro origine dal ceppo sabino. Mentre gli Umbridopo una lotta ineguale soggiacquero al prevalere deivicini, e i rami occidentali dello stesso stipite si fuserocolle popolazioni latine e colle greche, le stirpi sabelli-che prosperavano, chiuse dentro i riposti altipianidell'Appennino, lontano dagli attacchi tanto degli Etru-schi quanto dei Latini e dei Greci. Presso di essi non sisviluppò affatto o appena in minimo grado la forma delvivere cittadino; la loro posizione geografica li esclude-va quasi interamente dal commercio, ed alla loro difesabastavano le gole dei monti e le rocche alpestri; i conta-dini abitavano in borghetti aperti o in casali isolati sparsicome meglio loro piaceva tra i boschi, presso i pascoli o

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lungo il corso d'un torrentello. La costituzione di questesocietà naturali rimase come era stata fin dalle origini; e,come presso gli Arcadi nell'Ellade, tra queste agresti tri-bù non si fece alcun passo verso un'incorporazione ecentrificazione dei comuni; ed è molto se si formaronodelle confederazioni più o meno blande. Nè si deve di-menticare che gli aspri risalti delle valli appenninichedevono aver favorito una quasi assoluta separazione deisingoli cantoni, tanto fra di loro, quanto rispetto ai paesistranieri; circostanza che ci spiega perchè questi cantonisiano rimasti, malgrado la comune origine degli abitanti,legati fra loro con deboli e incerti vincoli politici; e chesieno poi vissuti, nonostante la straordinaria energia edattività di questi popoli alpestri, in un completo isola-mento rispetto al resto d'Italia, prendendo l'ultima e lameno onorata parte nel processo storico della penisola.Quel ramo sabellico invece, che sotto il nome di Sannitiera disceso verso mezzodì e sulla costa orientale d'Italia,toccò indubitatamente un alto grado di sviluppo politico,e fece degno riscontro ai Latini stabiliti lungo la costaoccidentale. Da tempi antichi, e forse dalla prima immi-grazione, una vigorosa costituzione politica strinse in unsol popolo le genti sannitiche e le temprò a quella con-cordia che loro poi rese possibile di gareggiare, più tar-di, a forze eguali con Roma, per il primato italico.Quando e come si strinsero questi legami, noi non sap-piamo, come pure ignoriamo l'ordinamento della federa-zione sannitica; ma è dimostrato che nel Sannio nonprevalse alcun comune, e nessun gran centro di popola-

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lungo il corso d'un torrentello. La costituzione di questesocietà naturali rimase come era stata fin dalle origini; e,come presso gli Arcadi nell'Ellade, tra queste agresti tri-bù non si fece alcun passo verso un'incorporazione ecentrificazione dei comuni; ed è molto se si formaronodelle confederazioni più o meno blande. Nè si deve di-menticare che gli aspri risalti delle valli appenninichedevono aver favorito una quasi assoluta separazione deisingoli cantoni, tanto fra di loro, quanto rispetto ai paesistranieri; circostanza che ci spiega perchè questi cantonisiano rimasti, malgrado la comune origine degli abitanti,legati fra loro con deboli e incerti vincoli politici; e chesieno poi vissuti, nonostante la straordinaria energia edattività di questi popoli alpestri, in un completo isola-mento rispetto al resto d'Italia, prendendo l'ultima e lameno onorata parte nel processo storico della penisola.Quel ramo sabellico invece, che sotto il nome di Sannitiera disceso verso mezzodì e sulla costa orientale d'Italia,toccò indubitatamente un alto grado di sviluppo politico,e fece degno riscontro ai Latini stabiliti lungo la costaoccidentale. Da tempi antichi, e forse dalla prima immi-grazione, una vigorosa costituzione politica strinse in unsol popolo le genti sannitiche e le temprò a quella con-cordia che loro poi rese possibile di gareggiare, più tar-di, a forze eguali con Roma, per il primato italico.Quando e come si strinsero questi legami, noi non sap-piamo, come pure ignoriamo l'ordinamento della federa-zione sannitica; ma è dimostrato che nel Sannio nonprevalse alcun comune, e nessun gran centro di popola-

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zione e d'idee riassunse in sè la stirpe dei Sanniti, comeRoma la stirpe latina; e che invece la forza del paese ri-siedeva in ogni singolo comune agreste, e l'indirizzo fe-derativo nell'adunanza dei commissari di ciascuno stato,i quali in caso di bisogno eleggevano il generale federa-le. Da ciò derivò che la politica di questa confederazio-ne non fu mai aggressiva, ma si limitò all'immediata di-fesa dei confini; perchè solo in una monarchia le forzesono così accentrate, le passioni politiche così durevolie potenti, che l'allargamento del territorio può continuar-si e portarsi ad effetto secondo un disegno prestabilito.Tutta la storia di questi due popoli egemonici della stir-pe italiana è contenuta in germe nel loro sistema, diame-tralmente opposto, di ordinare le colonie. Le terre, che iRomani guadagnarono, erano conquistate allo stato; ipaesi che i Sanniti occupavano, diventavano proprietà diquello sciame di volontari che li aveva conquistati; iquali, abbandonati dallo stato alla loro buona o cattivafortuna, predavano e guerreggiavano per loro proprioconto.

Ma le invasioni sannitiche sulle spiagge del Tirreno edell'Jonico appartengono a un'epoca posteriore; al tem-po della signorìa dei re romani tutto ci induce a credereche questo popolo pigliasse stabile sede nelle regioni,ove lo troviamo più tardi. E come d'un avvenimento cheha tutto il carattere dei Sanniti verso mezzodì, faremomenzione della sorpresa di Cuma tentata dai Tirreni delmare superiore, dagli Umbri e dai Dauni nell'anno 230della città di Roma. Se si dovesse prestar fede a narra-

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zione e d'idee riassunse in sè la stirpe dei Sanniti, comeRoma la stirpe latina; e che invece la forza del paese ri-siedeva in ogni singolo comune agreste, e l'indirizzo fe-derativo nell'adunanza dei commissari di ciascuno stato,i quali in caso di bisogno eleggevano il generale federa-le. Da ciò derivò che la politica di questa confederazio-ne non fu mai aggressiva, ma si limitò all'immediata di-fesa dei confini; perchè solo in una monarchia le forzesono così accentrate, le passioni politiche così durevolie potenti, che l'allargamento del territorio può continuar-si e portarsi ad effetto secondo un disegno prestabilito.Tutta la storia di questi due popoli egemonici della stir-pe italiana è contenuta in germe nel loro sistema, diame-tralmente opposto, di ordinare le colonie. Le terre, che iRomani guadagnarono, erano conquistate allo stato; ipaesi che i Sanniti occupavano, diventavano proprietà diquello sciame di volontari che li aveva conquistati; iquali, abbandonati dallo stato alla loro buona o cattivafortuna, predavano e guerreggiavano per loro proprioconto.

Ma le invasioni sannitiche sulle spiagge del Tirreno edell'Jonico appartengono a un'epoca posteriore; al tem-po della signorìa dei re romani tutto ci induce a credereche questo popolo pigliasse stabile sede nelle regioni,ove lo troviamo più tardi. E come d'un avvenimento cheha tutto il carattere dei Sanniti verso mezzodì, faremomenzione della sorpresa di Cuma tentata dai Tirreni delmare superiore, dagli Umbri e dai Dauni nell'anno 230della città di Roma. Se si dovesse prestar fede a narra-

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zioni certo molte esagerate dalla fantasia, si sarebberouniti in un solo esercito tanto gli aggressori, come i lorosoggetti, come suole accadere in simili guerre; gli Etru-schi si sarebbero visti a fianco i loro nemici Umbri econ questi gli Japigi, che pure dalle colonie umbro-sabelliche erano stati cacciati fino verso l'ultimo lembomeridionale d'Italia. Ma l'impresa andò fallita, e questavolta ancora riuscì alla superiorità dalla strategia elleni-ca e al valore del tiranno Aristodemo di respingerel'assalto dei barbari dalla bella città marittima.

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zioni certo molte esagerate dalla fantasia, si sarebberouniti in un solo esercito tanto gli aggressori, come i lorosoggetti, come suole accadere in simili guerre; gli Etru-schi si sarebbero visti a fianco i loro nemici Umbri econ questi gli Japigi, che pure dalle colonie umbro-sabelliche erano stati cacciati fino verso l'ultimo lembomeridionale d'Italia. Ma l'impresa andò fallita, e questavolta ancora riuscì alla superiorità dalla strategia elleni-ca e al valore del tiranno Aristodemo di respingerel'assalto dei barbari dalla bella città marittima.

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NONO CAPITOLOGLI ETRUSCHI

1 Nazionalità etrusca. Un vivo contrasto con gliItalici, Latini e Sabellici, come pure i Greci, offrono gliEtruschi, o, come essi stessi si denominarono, i Rase-ni49. Queste due diverse stirpi si distinguevano persinonell'aspetto fisico: invece delle snelle proporzioni deiGreci e degli Italici, le statue degli Etruschi ci presenta-no figure tozze, tarchiate, con teste grosse e braccia for-ti. Tutto quello che noi conosciamo degli usi e costumidi questa nazione ci prova pure una profonda differenzaoriginaria con le schiatte greco-italiche; e ce ne dà argo-mento chiarissimo la religione, che presso i Toschi haun carattere tetro e fantastico, e si compiace di misterio-si cicli numerici, di idee e di riti dissoluti e crudeli assailontani tanto dal limpido razionalismo dei Romani,quanto dall'umana e gaia idolatria dei Greci.

Ciò che noi accenniamo è confermato dal più impor-tante documento della nazionalità, la lingua, le cui reli-quie, per quanto ci sieno rimaste in gran numero e perquanti mezzi di riscontro si abbiano per decifrarle, sonotuttavia così isolate che finora non si è riusciti a stabilirenemmeno con certezza il posto che la lingua etruscadeve occupare nella classificazione dei linguaggi, e mol-

49 Ras-ennae, colla desinenza gentilizia, cui si accenna in se-guito.

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NONO CAPITOLOGLI ETRUSCHI

1 Nazionalità etrusca. Un vivo contrasto con gliItalici, Latini e Sabellici, come pure i Greci, offrono gliEtruschi, o, come essi stessi si denominarono, i Rase-ni49. Queste due diverse stirpi si distinguevano persinonell'aspetto fisico: invece delle snelle proporzioni deiGreci e degli Italici, le statue degli Etruschi ci presenta-no figure tozze, tarchiate, con teste grosse e braccia for-ti. Tutto quello che noi conosciamo degli usi e costumidi questa nazione ci prova pure una profonda differenzaoriginaria con le schiatte greco-italiche; e ce ne dà argo-mento chiarissimo la religione, che presso i Toschi haun carattere tetro e fantastico, e si compiace di misterio-si cicli numerici, di idee e di riti dissoluti e crudeli assailontani tanto dal limpido razionalismo dei Romani,quanto dall'umana e gaia idolatria dei Greci.

Ciò che noi accenniamo è confermato dal più impor-tante documento della nazionalità, la lingua, le cui reli-quie, per quanto ci sieno rimaste in gran numero e perquanti mezzi di riscontro si abbiano per decifrarle, sonotuttavia così isolate che finora non si è riusciti a stabilirenemmeno con certezza il posto che la lingua etruscadeve occupare nella classificazione dei linguaggi, e mol-

49 Ras-ennae, colla desinenza gentilizia, cui si accenna in se-guito.

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to meno poi a spiegarne qualche frammento. Noi possia-mo però distinguere chiaramente due periodi di questalingua arcana. Nel più antico si riscontra una vocalizza-zione sostenuta compiutamente, ed è evitato quasi senzaeccezione l'incontro di due consonanti50. Con la soppres-sione delle desinenze vocali e consonanti e coll'indebo-limento o coll'esclusione delle vocali fu trasformato apoco a poco questo dolce e sonoro idioma in una linguainsoffribilmente dura e rude51; così, ad esempio, si disseramϑa in luogo di ramuϑaf, Tarchnas in luogo di Tar-quinius, Menrva in luogo di Minerva, Menle, Pultuke,Elchsentre in luogo di Menelaos, Polydeukes, Alexan-dros. Quanto chiusa e aspra fosse la pronuncia lo provaindubbiamente la circostanza come presso gli Etruschigià da remotissimi tempi si confusero la o e la u, la b ela p, la c e la g, la d e la t. Nello stesso tempo l'accentocadeva sulla prima sillaba come nella lingua latina e neipiù rozzi dialetti greci. Furono egualmente trattate leconsonanti aspirate: mentre gli Italici, ad eccezione del-la b aspirata o della f, le soppressero, e i Greci per con-tro, ad eccezione di questo suono, conservarono le altreϑ, φ e χ, gli Etruschi soppressero interamente il morbi-

50 Questa osservazione, per accennare un caso, si riferisce alleiscrizioni di Cere sui vasi di terra cotta come: miniceϑumami-naϑumaramlisiaeϑipurenaieϑeeraisieepananineϑunastavhelefu o:mi ramuϑas Kaiufinaia.

51 Un'idea dell'acustica di questa lingua può trovarsi nel prin-cipio della grande iscrizione di Perugia: eulat tanna larezul ame-va r lautn vel mase stlaafunas slelee caru.

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to meno poi a spiegarne qualche frammento. Noi possia-mo però distinguere chiaramente due periodi di questalingua arcana. Nel più antico si riscontra una vocalizza-zione sostenuta compiutamente, ed è evitato quasi senzaeccezione l'incontro di due consonanti50. Con la soppres-sione delle desinenze vocali e consonanti e coll'indebo-limento o coll'esclusione delle vocali fu trasformato apoco a poco questo dolce e sonoro idioma in una linguainsoffribilmente dura e rude51; così, ad esempio, si disseramϑa in luogo di ramuϑaf, Tarchnas in luogo di Tar-quinius, Menrva in luogo di Minerva, Menle, Pultuke,Elchsentre in luogo di Menelaos, Polydeukes, Alexan-dros. Quanto chiusa e aspra fosse la pronuncia lo provaindubbiamente la circostanza come presso gli Etruschigià da remotissimi tempi si confusero la o e la u, la b ela p, la c e la g, la d e la t. Nello stesso tempo l'accentocadeva sulla prima sillaba come nella lingua latina e neipiù rozzi dialetti greci. Furono egualmente trattate leconsonanti aspirate: mentre gli Italici, ad eccezione del-la b aspirata o della f, le soppressero, e i Greci per con-tro, ad eccezione di questo suono, conservarono le altreϑ, φ e χ, gli Etruschi soppressero interamente il morbi-

50 Questa osservazione, per accennare un caso, si riferisce alleiscrizioni di Cere sui vasi di terra cotta come: miniceϑumami-naϑumaramlisiaeϑipurenaieϑeeraisieepananineϑunastavhelefu o:mi ramuϑas Kaiufinaia.

51 Un'idea dell'acustica di questa lingua può trovarsi nel prin-cipio della grande iscrizione di Perugia: eulat tanna larezul ame-va r lautn vel mase stlaafunas slelee caru.

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dissimo e gratissimo suono del φ, meno in alcune paroleprese a prestito dagli stranieri, e si servirono invece esu-berantemente degli altri tre anche dove non ce n'era bi-sogno, come ad esempio da Thetis fecero Thethis, daTelephus Thelaphe, da Odisseus Utuze e Uthuze.

La maggior parte delle poche desinenze o parole, dicui si è potuto trovare il significato, si allontana da tuttele analogie greco-latine: così la desinenza al per desi-gnare l'origine, e più spesso l'origine matronimica, comead esempio Canial in una iscrizione bilingue di Chiusiche si tradusse Cainia natus; la desinenza sa ne' nomi didonna per indicare la famiglia nella quale sono entratemaritandosi, in modo che fu detta Lecnesa la moglied'un Licinio. Così cela o clau col caso clensi figlio; sefiglia; ril anno; il dio Hermes Turms; Aphrodite Turan;Hephaestos Sethlans; Bakchos Fufluns.

Accanto a queste forme e a questi suoni eterogenei sitrovano certamente isolate analogie tra la lingua etruscae le lingue italiche; i nomi propri sono in sostanza for-mati secondo lo schema universale italico. La desinenzagentilizia, enas o ena52 tanto frequente, si riscontra an-che nei nomi italici di famiglia e particolarmente neinomi sabellici colle frequenti desinenze in enus, come i

52 Così Maecenas, Porsena, Vivenna, Caecina, Spurinna. Lavocale della penultima sillaba originariamente è lunga, ma diven-ta sovente breve in grazia della ritrazione dell'accento sulla primasillaba e qualche volta persino si sopprime: così troviamo pressoPorsena anche Porsena, presso Caecina, Ceicne.

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dissimo e gratissimo suono del φ, meno in alcune paroleprese a prestito dagli stranieri, e si servirono invece esu-berantemente degli altri tre anche dove non ce n'era bi-sogno, come ad esempio da Thetis fecero Thethis, daTelephus Thelaphe, da Odisseus Utuze e Uthuze.

La maggior parte delle poche desinenze o parole, dicui si è potuto trovare il significato, si allontana da tuttele analogie greco-latine: così la desinenza al per desi-gnare l'origine, e più spesso l'origine matronimica, comead esempio Canial in una iscrizione bilingue di Chiusiche si tradusse Cainia natus; la desinenza sa ne' nomi didonna per indicare la famiglia nella quale sono entratemaritandosi, in modo che fu detta Lecnesa la moglied'un Licinio. Così cela o clau col caso clensi figlio; sefiglia; ril anno; il dio Hermes Turms; Aphrodite Turan;Hephaestos Sethlans; Bakchos Fufluns.

Accanto a queste forme e a questi suoni eterogenei sitrovano certamente isolate analogie tra la lingua etruscae le lingue italiche; i nomi propri sono in sostanza for-mati secondo lo schema universale italico. La desinenzagentilizia, enas o ena52 tanto frequente, si riscontra an-che nei nomi italici di famiglia e particolarmente neinomi sabellici colle frequenti desinenze in enus, come i

52 Così Maecenas, Porsena, Vivenna, Caecina, Spurinna. Lavocale della penultima sillaba originariamente è lunga, ma diven-ta sovente breve in grazia della ritrazione dell'accento sulla primasillaba e qualche volta persino si sopprime: così troviamo pressoPorsena anche Porsena, presso Caecina, Ceicne.

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nomi etruschi Vivenna e Spurinna corrispondono esatta-mente ai romani Vibius o Vibienus e Spurius.

Parecchi nomi di divinità, che figurano sui monumen-ti etruschi o che sono menzionati dagli scrittori comeetruschi, per la loro origine e in parte anche per la desi-nenza, hanno una cert'aria tanto latina, che quando essifossero veramente d'origine etrusca converrebbe di ne-cessità concludere che le due lingue abbiano avuto unastretta affinità: così Usil (sole e aurora affine con au-sum, aurum, aurora, sol), Minerva (menervare), Lasa(lascivus), Neptunus, Voltumna.

Non essendo però inverosimile che la lingua etruscaabbia tolto questi nomi dalla latina, non si può ragione-volmente mettere in dubbio il risultato, a cui conduconotutti gli altri indizi, cioè che la lingua tosca è tanto lonta-na da tutti gli idiomi greco-italici quanto appunto nesono lontani gli idiomi dei Celti e degli Slavi. Così tro-viamo che anche dagli antichi Romani si solea dire: «lalingua tosca e la gallica» essere lingue di barbari, «l'oscae la volsca» idiomi agresti.

Se però si può provare che gli Etruschi differisconodallo stipite linguistico greco-italico, non si ebbe finorala fortuna di poterli connettere ad altro stipite conosciu-to. Si son fin qui tentati, ora con metodi scientifici, oracolle sottigliezze della tortura, ma sempre senza frutto,tutti i più noti tipi etnografici per vedere se fosse possi-bile scoprirvi alcuna affinità cogli Etruschi. La linguabasca, colla quale in grazia delle condizioni geografichepoteva sembrare che l'Etruria avesse qualche rapporto,

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nomi etruschi Vivenna e Spurinna corrispondono esatta-mente ai romani Vibius o Vibienus e Spurius.

Parecchi nomi di divinità, che figurano sui monumen-ti etruschi o che sono menzionati dagli scrittori comeetruschi, per la loro origine e in parte anche per la desi-nenza, hanno una cert'aria tanto latina, che quando essifossero veramente d'origine etrusca converrebbe di ne-cessità concludere che le due lingue abbiano avuto unastretta affinità: così Usil (sole e aurora affine con au-sum, aurum, aurora, sol), Minerva (menervare), Lasa(lascivus), Neptunus, Voltumna.

Non essendo però inverosimile che la lingua etruscaabbia tolto questi nomi dalla latina, non si può ragione-volmente mettere in dubbio il risultato, a cui conduconotutti gli altri indizi, cioè che la lingua tosca è tanto lonta-na da tutti gli idiomi greco-italici quanto appunto nesono lontani gli idiomi dei Celti e degli Slavi. Così tro-viamo che anche dagli antichi Romani si solea dire: «lalingua tosca e la gallica» essere lingue di barbari, «l'oscae la volsca» idiomi agresti.

Se però si può provare che gli Etruschi differisconodallo stipite linguistico greco-italico, non si ebbe finorala fortuna di poterli connettere ad altro stipite conosciu-to. Si son fin qui tentati, ora con metodi scientifici, oracolle sottigliezze della tortura, ma sempre senza frutto,tutti i più noti tipi etnografici per vedere se fosse possi-bile scoprirvi alcuna affinità cogli Etruschi. La linguabasca, colla quale in grazia delle condizioni geografichepoteva sembrare che l'Etruria avesse qualche rapporto,

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non presentò alcun concludente indizio di analogia; e lostesso deve dirsi delle poche reliquie della lingua ligureche ci sono pervenute nei nomi di paesi e di persone. Nèl'ignota nazione, la quale nelle isole del mar Tirreno eprincipalmente in Sardegna eresse a migliaia quelleenigmatiche torri sepolcrali dette Nuraghi, può esserestata l'etrusca, poichè sul territorio etrusco, non esisteneppur uno di quei caratteristici edifizi. Tutto quel chesi ottenne si limitò a qualche traccia, la quale ci pare ba-stevole per autorizzarci ad annoverare gli Etruschi tra ipopoli indo-germanici. Così particolarmente il mi, che siriscontra in principio di molte antiche iscrizioni, è certoἐµι, εἰµι e trova esattamente di nuovo la forma del geniti-vo di radicali consonanti venerus rafuvus nel latino anti-co, corrispondente all'antica desinenza sanscrita as. Ineguale connessione si trova il nome dell'etrusco ZeusTina o Tinia col sanscrito dina, che risponde a giorno,come Ζαν coll'equivalente diwan. Ma anche dopo questascoperta d'una parentela generica il popolo etrusco nonrimane meno isolato. E già Dionisio disse, che «gliEtruschi non rassomigliano a nessun altro popolo nè perla lingua nè per costumi»; e noi non abbiamo argomentiper contraddirlo.

2 La patria degli Etruschi. Non si saprebbe preci-sare donde gli Etruschi mossero per venire in Italia; equantunque questo problema sia di poco rilievo, poichèla immigrazione di questo popolo in ogni caso deve es-sere avvenuta durante la sua infanzia, essendo evidente

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non presentò alcun concludente indizio di analogia; e lostesso deve dirsi delle poche reliquie della lingua ligureche ci sono pervenute nei nomi di paesi e di persone. Nèl'ignota nazione, la quale nelle isole del mar Tirreno eprincipalmente in Sardegna eresse a migliaia quelleenigmatiche torri sepolcrali dette Nuraghi, può esserestata l'etrusca, poichè sul territorio etrusco, non esisteneppur uno di quei caratteristici edifizi. Tutto quel chesi ottenne si limitò a qualche traccia, la quale ci pare ba-stevole per autorizzarci ad annoverare gli Etruschi tra ipopoli indo-germanici. Così particolarmente il mi, che siriscontra in principio di molte antiche iscrizioni, è certoἐµι, εἰµι e trova esattamente di nuovo la forma del geniti-vo di radicali consonanti venerus rafuvus nel latino anti-co, corrispondente all'antica desinenza sanscrita as. Ineguale connessione si trova il nome dell'etrusco ZeusTina o Tinia col sanscrito dina, che risponde a giorno,come Ζαν coll'equivalente diwan. Ma anche dopo questascoperta d'una parentela generica il popolo etrusco nonrimane meno isolato. E già Dionisio disse, che «gliEtruschi non rassomigliano a nessun altro popolo nè perla lingua nè per costumi»; e noi non abbiamo argomentiper contraddirlo.

2 La patria degli Etruschi. Non si saprebbe preci-sare donde gli Etruschi mossero per venire in Italia; equantunque questo problema sia di poco rilievo, poichèla immigrazione di questo popolo in ogni caso deve es-sere avvenuta durante la sua infanzia, essendo evidente

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che il suo sviluppo storico incominciò e si concluse inItalia; tuttavia non vi è quistione che sia stata agitata conmaggior ardore di questa, secondo quel principio degliarcheologi d'indagare preferibilmente quelle cose chenon si possono sapere e che non merita il conto di affan-narsi a cercare, per dirla coll'imperatore Tiberio, chi fos-se la madre di Hekabe.

Siccome tutte le più antiche e le più ragguardevolicittà etrusche sorgevano nell'interno del paese, e non sene incontra presso il mare nessuna considerevole, eccet-tuata Populonia, che però non faceva parte delle antichedodici città, e siccome nei tempi storici troviamo gliEtruschi muovere da settentrione verso mezzodì, ci èforza argomentare che essi siano venuti verso la peniso-la per terra; tanto più che il basso grado di cultura, in cuili troviamo da principio, risponderebbe male all'idead'una colonia venuta per mare. Vero è che fin dagli anti-chissimi tempi i popoli avevano imparato ad attraversa-re uno stretto di mare come attraversavano un fiume; mauno sbarco sulla costa occidentale d'Italia era cosa diben altra difficoltà. Perciò conviene cercare l'antica pa-tria degli Etruschi nella parte nordica o occidentaled'Italia. Non è del tutto inverosimile che gli Etruschi ab-biano valicate le Alpi Retiche per penetrare in Italia,poichè i coloni più antichi del paese dei Grigioni e delTirolo, i Reti, parlarono la lingua etrusca sino ai tempistorici ed il loro stesso nome si accorda con quello deiRaseni; vero è che i Reti possono anche essere reliquiedelle colonie etrusche sul Po, ma potrebbero del pari es-

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che il suo sviluppo storico incominciò e si concluse inItalia; tuttavia non vi è quistione che sia stata agitata conmaggior ardore di questa, secondo quel principio degliarcheologi d'indagare preferibilmente quelle cose chenon si possono sapere e che non merita il conto di affan-narsi a cercare, per dirla coll'imperatore Tiberio, chi fos-se la madre di Hekabe.

Siccome tutte le più antiche e le più ragguardevolicittà etrusche sorgevano nell'interno del paese, e non sene incontra presso il mare nessuna considerevole, eccet-tuata Populonia, che però non faceva parte delle antichedodici città, e siccome nei tempi storici troviamo gliEtruschi muovere da settentrione verso mezzodì, ci èforza argomentare che essi siano venuti verso la peniso-la per terra; tanto più che il basso grado di cultura, in cuili troviamo da principio, risponderebbe male all'idead'una colonia venuta per mare. Vero è che fin dagli anti-chissimi tempi i popoli avevano imparato ad attraversa-re uno stretto di mare come attraversavano un fiume; mauno sbarco sulla costa occidentale d'Italia era cosa diben altra difficoltà. Perciò conviene cercare l'antica pa-tria degli Etruschi nella parte nordica o occidentaled'Italia. Non è del tutto inverosimile che gli Etruschi ab-biano valicate le Alpi Retiche per penetrare in Italia,poichè i coloni più antichi del paese dei Grigioni e delTirolo, i Reti, parlarono la lingua etrusca sino ai tempistorici ed il loro stesso nome si accorda con quello deiRaseni; vero è che i Reti possono anche essere reliquiedelle colonie etrusche sul Po, ma potrebbero del pari es-

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sere una parte del popolo rimasto nelle sue antiche sedioriginarie. Senonchè a questa semplice e naturale sup-posizione contraddice un antico racconto, secondo ilquale gli Etruschi sarebbero Lidii venuti dall'Asia.

È questa una narrazione antichissima raccolta già daErodoto e riprodotta in seguito con moltissime variazio-ni ed aggiunte, benchè alcuni intelligenti investigatori,come ad esempio Dionisio, la contrastassero vivamente,provando che nella religione, nelle leggi, nei costumi enella lingua non appare la minima analogia tra i Lidii egli Etruschi. È possibile che una minuscola torma di pi-rati dell'Asia minore sia capitata per mare ai lididell'Etruria e che questa tradizione si connetta colle loroavventure, ma è più verosimile che la narrazione si fon-di su un mero equivoco.

Gli Etruschi italici o i Tursenni (Turs-ennae) – poichèquesta forma pare che serva di base al greco τυρσ-ηνοί,τυρρηνοί, all'umbro Turs-ci, al romano Tusci. Etrusci –s'incentrano nel nome col popolo lidio dei τυρρηβοί oben anche τυρρηνοί, cosiddetto dalla città Τύρρα; e questaevidentemente accidentale somiglianza di nome pareche sia proprio stata la sola base di quella ipotesi, chenon acquistò nessun maggior valore coll'invecchiare, edi tutta la soprappostavi torre babelica di storiche fanta-sticherie. Mettendo insieme colla pirateria lidia l'anticocommercio marittimo etrusco, e confondendo – comepel primo fece Tucidide – a torto o a ragione, i piratiTorrebi col popolo avventuriero dei Pelasgi, che andavacorseggiando su tutti i mari, successe nella tradizione

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sere una parte del popolo rimasto nelle sue antiche sedioriginarie. Senonchè a questa semplice e naturale sup-posizione contraddice un antico racconto, secondo ilquale gli Etruschi sarebbero Lidii venuti dall'Asia.

È questa una narrazione antichissima raccolta già daErodoto e riprodotta in seguito con moltissime variazio-ni ed aggiunte, benchè alcuni intelligenti investigatori,come ad esempio Dionisio, la contrastassero vivamente,provando che nella religione, nelle leggi, nei costumi enella lingua non appare la minima analogia tra i Lidii egli Etruschi. È possibile che una minuscola torma di pi-rati dell'Asia minore sia capitata per mare ai lididell'Etruria e che questa tradizione si connetta colle loroavventure, ma è più verosimile che la narrazione si fon-di su un mero equivoco.

Gli Etruschi italici o i Tursenni (Turs-ennae) – poichèquesta forma pare che serva di base al greco τυρσ-ηνοί,τυρρηνοί, all'umbro Turs-ci, al romano Tusci. Etrusci –s'incentrano nel nome col popolo lidio dei τυρρηβοί oben anche τυρρηνοί, cosiddetto dalla città Τύρρα; e questaevidentemente accidentale somiglianza di nome pareche sia proprio stata la sola base di quella ipotesi, chenon acquistò nessun maggior valore coll'invecchiare, edi tutta la soprappostavi torre babelica di storiche fanta-sticherie. Mettendo insieme colla pirateria lidia l'anticocommercio marittimo etrusco, e confondendo – comepel primo fece Tucidide – a torto o a ragione, i piratiTorrebi col popolo avventuriero dei Pelasgi, che andavacorseggiando su tutti i mari, successe nella tradizione

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storica una delle più intricate confusioni. I Tirreni sonochiamati ora Torrebi di Lidia – così nelle più antichefonti, come negli inni omerici – la gente pelasgica fudetta dei Tirreni-Pelasgi o anche solo Tirreni e infineEtruschi italici senza che questi si siano mai trovati lun-gamente in contatto coi Pelasgi o coi Tirreni, o abbianoavuta la medesima origine.

3 Dimora degli Etruschi in Italia. È quindinell'interesse della storia, per chiarire queste confusionistoriche, l'indagare quali fossero le più antiche residenzedegli Etruschi e come essi s'inoltrassero poi nel paese.Abbondano le prove che prima della grande invasioneceltica i Raseni abitavano la regione settentrionale delPo (Padus) confinando all'est coll'Adige, dove comin-ciavano i Veneti di stirpe illirica (albanese?), all'occi-dente coi Liguri; e conferma questa supposizione princi-palmente la circostanza dell'aspro dialetto etrusco, par-lato ancora ai tempi di Tito Livio dagli abitanti delleAlpi Retiche, e nella città di Mantova rimasta etruscasino ne' più tardi tempi. A mezzodì del Po e sino alle suefoci si mescolavano Etruschi e Umbri, quelli come lostipite dominante, questi come lo stipite più antico cheaveva fondato le due città commerciali di Hatria e Spi-na; mentre invece Felsina (Bologna) e Ravenna pare chesiano di origine etrusca. Passò lungo tempo prima che iCelti varcassero il Po, il che spiega come gli Etruschi egli Umbri gettassero sulla riva destra radici molto più

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storica una delle più intricate confusioni. I Tirreni sonochiamati ora Torrebi di Lidia – così nelle più antichefonti, come negli inni omerici – la gente pelasgica fudetta dei Tirreni-Pelasgi o anche solo Tirreni e infineEtruschi italici senza che questi si siano mai trovati lun-gamente in contatto coi Pelasgi o coi Tirreni, o abbianoavuta la medesima origine.

3 Dimora degli Etruschi in Italia. È quindinell'interesse della storia, per chiarire queste confusionistoriche, l'indagare quali fossero le più antiche residenzedegli Etruschi e come essi s'inoltrassero poi nel paese.Abbondano le prove che prima della grande invasioneceltica i Raseni abitavano la regione settentrionale delPo (Padus) confinando all'est coll'Adige, dove comin-ciavano i Veneti di stirpe illirica (albanese?), all'occi-dente coi Liguri; e conferma questa supposizione princi-palmente la circostanza dell'aspro dialetto etrusco, par-lato ancora ai tempi di Tito Livio dagli abitanti delleAlpi Retiche, e nella città di Mantova rimasta etruscasino ne' più tardi tempi. A mezzodì del Po e sino alle suefoci si mescolavano Etruschi e Umbri, quelli come lostipite dominante, questi come lo stipite più antico cheaveva fondato le due città commerciali di Hatria e Spi-na; mentre invece Felsina (Bologna) e Ravenna pare chesiano di origine etrusca. Passò lungo tempo prima che iCelti varcassero il Po, il che spiega come gli Etruschi egli Umbri gettassero sulla riva destra radici molto più

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

profonde di quello che non facessero sulla sinistra daloro più presto abbandonata.

Ad ogni modo le regioni a settentrione dell'Appenni-no passarono con troppa rapidità da una all'altra schiattaperchè vi si fosse potuta radicare durevolmente una ci-viltà caratteristica.

Maggiore importanza per la storia ebbe la grande co-lonia degli Etruschi nel paese che porta ancora oggi illoro nome. Anche se qui presero eventualmente stanzane' primi tempi gli Umbri e i Liguri, le loro tracce furo-no interamente cancellate dall'occupazione e dalla civil-tà etrusca.

In questo territorio, che dalla parte del mare si esten-de da Pisa a Tarquinia e verso oriente è tutto chiuso dal-la gran cerchia degli Appennini, ha trovato la sua stabiledimora la gente etrusca, e vi si mantenne con grandissi-ma tenacia sino ai tempi degli imperatori. Il confine delvero territorio etrusco verso il settentrione era il fiumeArno; il territorio, che si estendeva sulla destradell'Arno verso settentrione fino alla foce della Magra eall'Appennino, era un paese di frontiera disputato perpe-tuamente tra i Liguri e gli Etruschi, ove perciò non pote-vano prosperare colonie di qualche entità. La selva ci-minica, catena di monticoli a sud di Viterbo, formavaprobabilmente dapprima il confine meridionaledell'Etruria che in seguito si estese fino al Tevere. Si ègià accennato più sopra che il paese posto tra i montiCimini ed il Tevere, colle città di Sutri, Nepete, Falerii,Veio, Cere, non venne occupato dagli Etruschi se non

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profonde di quello che non facessero sulla sinistra daloro più presto abbandonata.

Ad ogni modo le regioni a settentrione dell'Appenni-no passarono con troppa rapidità da una all'altra schiattaperchè vi si fosse potuta radicare durevolmente una ci-viltà caratteristica.

Maggiore importanza per la storia ebbe la grande co-lonia degli Etruschi nel paese che porta ancora oggi illoro nome. Anche se qui presero eventualmente stanzane' primi tempi gli Umbri e i Liguri, le loro tracce furo-no interamente cancellate dall'occupazione e dalla civil-tà etrusca.

In questo territorio, che dalla parte del mare si esten-de da Pisa a Tarquinia e verso oriente è tutto chiuso dal-la gran cerchia degli Appennini, ha trovato la sua stabiledimora la gente etrusca, e vi si mantenne con grandissi-ma tenacia sino ai tempi degli imperatori. Il confine delvero territorio etrusco verso il settentrione era il fiumeArno; il territorio, che si estendeva sulla destradell'Arno verso settentrione fino alla foce della Magra eall'Appennino, era un paese di frontiera disputato perpe-tuamente tra i Liguri e gli Etruschi, ove perciò non pote-vano prosperare colonie di qualche entità. La selva ci-minica, catena di monticoli a sud di Viterbo, formavaprobabilmente dapprima il confine meridionaledell'Etruria che in seguito si estese fino al Tevere. Si ègià accennato più sopra che il paese posto tra i montiCimini ed il Tevere, colle città di Sutri, Nepete, Falerii,Veio, Cere, non venne occupato dagli Etruschi se non

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molto tempo dopo che essi già s'erano stabiliti nei di-stretti del nord, e probabilmente soltanto nel secondo se-colo di Roma, e che l'originaria popolazione italica vi simantenne, particolarmente in Falerii, benchè in condi-zione di dipendenza.

Dopo che il Tevere formò la frontiera dell'Etruria ver-so l'Umbria e il Lazio, alle agitazioni di una perpetuaguerra di razze diverse, viventi sullo stesso suolo, dovet-tero sottentrare quelle pacifiche relazioni di vicinato,possibili tra due paesi limitrofi, e pare che da quel tem-po non si sia più verificato alcun importante spostamen-to di confini, specialmente verso il Lazio. Per quanto iRomani riguardassero decisamente gli Etruschi comestranieri e come compatrioti i Latini, pare nondimenoch'essi temessero molto meno i popoli della riva dirittadel Tevere che non i loro affini di stirpe, come ad esem-pio i Gabini e quelli d'Alba. Ciò parrà naturale quandosi pensi che da settentrione i Romani erano difesi nonsolo dal confine naturale di un grosso fiume, ma anchedalla circostanza, importante per lo sviluppo commer-ciale e politico della loro città, che nessuna delle grandicittà etrusche si trovava nelle immediate vicinanze delfiume, come Roma sulla riva latina. I più vicini al Teve-re erano i Veienti; e con essi infatti Roma ed il Lazio sitrovavano più spesso in seri conflitti, principalmente pelpossesso di Fidene, la quale posta sulla riva sinistra delTevere, serviva ai Veienti quasi di testa di ponte, comesulla destra il Gianicolo ai Romani, e trovavasi ora nellamani dei Latini, ora in quelle degli Etruschi. Molto più

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molto tempo dopo che essi già s'erano stabiliti nei di-stretti del nord, e probabilmente soltanto nel secondo se-colo di Roma, e che l'originaria popolazione italica vi simantenne, particolarmente in Falerii, benchè in condi-zione di dipendenza.

Dopo che il Tevere formò la frontiera dell'Etruria ver-so l'Umbria e il Lazio, alle agitazioni di una perpetuaguerra di razze diverse, viventi sullo stesso suolo, dovet-tero sottentrare quelle pacifiche relazioni di vicinato,possibili tra due paesi limitrofi, e pare che da quel tem-po non si sia più verificato alcun importante spostamen-to di confini, specialmente verso il Lazio. Per quanto iRomani riguardassero decisamente gli Etruschi comestranieri e come compatrioti i Latini, pare nondimenoch'essi temessero molto meno i popoli della riva dirittadel Tevere che non i loro affini di stirpe, come ad esem-pio i Gabini e quelli d'Alba. Ciò parrà naturale quandosi pensi che da settentrione i Romani erano difesi nonsolo dal confine naturale di un grosso fiume, ma anchedalla circostanza, importante per lo sviluppo commer-ciale e politico della loro città, che nessuna delle grandicittà etrusche si trovava nelle immediate vicinanze delfiume, come Roma sulla riva latina. I più vicini al Teve-re erano i Veienti; e con essi infatti Roma ed il Lazio sitrovavano più spesso in seri conflitti, principalmente pelpossesso di Fidene, la quale posta sulla riva sinistra delTevere, serviva ai Veienti quasi di testa di ponte, comesulla destra il Gianicolo ai Romani, e trovavasi ora nellamani dei Latini, ora in quelle degli Etruschi. Molto più

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pacifiche e amichevoli di quelle che allora si potesserosperare tra vicini, erano invece le relazioni di Roma conCere, posta a qualche maggiore distanza. Correvanobensì delle vaghe tradizioni, risalenti ai più antichi tem-pi, le quali narravano di combattimenti tra Cere e il La-zio, di grandi vittorie riportate sui Latini da Mesenzio redi Cere, il quale avrebbe loro imposto un tributo in vino;ma una più chiara e concludente tradizione, in luogo didisfide e di guerre, ci assicura degli intimi rapporti paci-fici tra i due antichissimi centri delle relazioni commer-ciali e marittime nell'Etruria e nel Lazio.

Manca assolutamente ogni indizio che gli Etruschi sisieno inoltrati per la via di terra al di là del Tevere. Ve-diamo bensì annoverati gli Etruschi in prima linea nelgrande esercito barbarico che Aristodemo distrusse sottole mura di Cuma nel 230 della città; ma pur prestandofede a questa notizia anche nei suoi particolari, la cosanon si riduce ad altro che ad una grande spedizione dipirati, alla quale avrebbero preso parte gli Etruschi. È diben altra importanza l'indagare, se si abbia qualche noti-zia di colonie etrusche fondate nell'interno del paese e amezzogiorno del Tevere, e se v'abbia alcuna memoriad'una seria aggressione contro i Latini per parte degliEtruschi. Stando a ciò che vediamo, i Romani rimaserotranquilli possessori del Gianicolo e delle due rive deiTevere fino alla sua foce. Quanto alla migrazione diconsorzi etruschi in Roma, vi è un racconto tratto da an-nali toscani, dal quale si apprende che una banda etru-sca, condotta fuori di Volsinio da un Celio Vivenna e

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pacifiche e amichevoli di quelle che allora si potesserosperare tra vicini, erano invece le relazioni di Roma conCere, posta a qualche maggiore distanza. Correvanobensì delle vaghe tradizioni, risalenti ai più antichi tem-pi, le quali narravano di combattimenti tra Cere e il La-zio, di grandi vittorie riportate sui Latini da Mesenzio redi Cere, il quale avrebbe loro imposto un tributo in vino;ma una più chiara e concludente tradizione, in luogo didisfide e di guerre, ci assicura degli intimi rapporti paci-fici tra i due antichissimi centri delle relazioni commer-ciali e marittime nell'Etruria e nel Lazio.

Manca assolutamente ogni indizio che gli Etruschi sisieno inoltrati per la via di terra al di là del Tevere. Ve-diamo bensì annoverati gli Etruschi in prima linea nelgrande esercito barbarico che Aristodemo distrusse sottole mura di Cuma nel 230 della città; ma pur prestandofede a questa notizia anche nei suoi particolari, la cosanon si riduce ad altro che ad una grande spedizione dipirati, alla quale avrebbero preso parte gli Etruschi. È diben altra importanza l'indagare, se si abbia qualche noti-zia di colonie etrusche fondate nell'interno del paese e amezzogiorno del Tevere, e se v'abbia alcuna memoriad'una seria aggressione contro i Latini per parte degliEtruschi. Stando a ciò che vediamo, i Romani rimaserotranquilli possessori del Gianicolo e delle due rive deiTevere fino alla sua foce. Quanto alla migrazione diconsorzi etruschi in Roma, vi è un racconto tratto da an-nali toscani, dal quale si apprende che una banda etru-sca, condotta fuori di Volsinio da un Celio Vivenna e

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dopo la morte di lui capitanata dal suo fedele compagnoMastarna, e da questi condotta a Roma, si sia stabilitasul monte Celio.

Questa notizia possiamo ritenerla positiva, benchèl'aggiunta che Mastarna sia poi diventato re di Romasotto il nome di Servio Tullio, debba ritenersi una inve-rosimile supposizione di quegli archeologi, che si tortu-ravano il cervello per trovare il parallelismo delle leg-gende.

Una siffatta colonia è provata anche dalla denomina-zione «quartiere dei Tuschi» a' piedi del Palatino, quar-tiere che, trovandosi fuori delle mura antiche, dimostrala posizione dipendente dei coloni.

Non vi è nemmeno da dubitare che l'ultima dinastiache regnò sui Romani, la dinastia dei Tarquini, fosse ori-ginaria dell'Etruria, o che venisse da Tarqueno (Tarqui-nii), come vuol la leggenda, o da Cere, dove recente-mente è stato scoperto il sepolcro di famiglia dei Tarch-nas. E anche non è latino, ma comune tra gli Etruschi ilnome femminile di Tanaquil o Tanchvil, di cui la leg-genda fa menzione. Ma la narrazione che Tarquinio fos-se figlio di un greco emigrato da Corinto a Tarqueno equindi venuto a Roma come meteco non è nè storia, nèleggenda, e la catena storica degli avvenimenti ci si mo-stra qui non solo confusa, ma completamente spezzata.Se da questa tradizione si può desumere qualche cosa dipiù del nudo fatto, e per se stesso di poco conto, chel'ultima dinastia, la quale tenne lo scettro reale in Roma,fu di origine etrusca, non può essere se non ciò, che la

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dopo la morte di lui capitanata dal suo fedele compagnoMastarna, e da questi condotta a Roma, si sia stabilitasul monte Celio.

Questa notizia possiamo ritenerla positiva, benchèl'aggiunta che Mastarna sia poi diventato re di Romasotto il nome di Servio Tullio, debba ritenersi una inve-rosimile supposizione di quegli archeologi, che si tortu-ravano il cervello per trovare il parallelismo delle leg-gende.

Una siffatta colonia è provata anche dalla denomina-zione «quartiere dei Tuschi» a' piedi del Palatino, quar-tiere che, trovandosi fuori delle mura antiche, dimostrala posizione dipendente dei coloni.

Non vi è nemmeno da dubitare che l'ultima dinastiache regnò sui Romani, la dinastia dei Tarquini, fosse ori-ginaria dell'Etruria, o che venisse da Tarqueno (Tarqui-nii), come vuol la leggenda, o da Cere, dove recente-mente è stato scoperto il sepolcro di famiglia dei Tarch-nas. E anche non è latino, ma comune tra gli Etruschi ilnome femminile di Tanaquil o Tanchvil, di cui la leg-genda fa menzione. Ma la narrazione che Tarquinio fos-se figlio di un greco emigrato da Corinto a Tarqueno equindi venuto a Roma come meteco non è nè storia, nèleggenda, e la catena storica degli avvenimenti ci si mo-stra qui non solo confusa, ma completamente spezzata.Se da questa tradizione si può desumere qualche cosa dipiù del nudo fatto, e per se stesso di poco conto, chel'ultima dinastia, la quale tenne lo scettro reale in Roma,fu di origine etrusca, non può essere se non ciò, che la

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signorìa di un uomo di origine etrusca sopra Roma nonpuò venire considerata nè come una signorìa degli Etru-schi o di un comune etrusco su Roma, nè viceversacome una signorìa di Roma sull'Etruria meridionale. In-fatti non vi sono argomenti nè per l'una, nè per l'altrasupposizione; la storia dei Tarquini deve ricercarsi nelLazio e non nell'Etruria; e per quanto ci consta, durantetutta l'epoca dei re, l'Etruria non ha esercitato su Romanè nella lingua nè nei costumi alcuna importante in-fluenza e non ha neppure turbato il simmetrico sviluppodello stato romano o della lega latina. Le cause di questarelativa inazione dell'Etruria verso il vicino paese latino,sono verosimilmente da cercarsi in parte nelle lotte chegli Etruschi dovettero sostenere sul Po contro i Celti,che, a quanto pare, non riuscirono a spingersi oltre ilgran fiume se non dopo la cacciata dei re da Roma; inparte nell'indirizzo della nazione etrusca verso la navi-gazione e il dominio del mare e delle coste, col qualefatto ad esempio, sono strettamente connesse le coloniedella Campania, di cui è cenno nel seguente capitolo.

4 Costituzione etrusca. La costituzione etrusca sifonda, come la greca e la latina, sul comune, dal quale sisviluppa la città. Essendosi però questa nazione data dibuon'ora alla navigazione, al commercio ed all'industria,ciò deve, a quanto pare, aver dato vita al vero organismocomunale poichè Cere, nelle memorie greche, è nomina-ta prima di ogni altra città italiana. Per contrapposto noitroviamo gli Etruschi in generale meno bellicosi dei Ro-mani e dei Sabelli, e qui troviamo assai presto indizi del

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signorìa di un uomo di origine etrusca sopra Roma nonpuò venire considerata nè come una signorìa degli Etru-schi o di un comune etrusco su Roma, nè viceversacome una signorìa di Roma sull'Etruria meridionale. In-fatti non vi sono argomenti nè per l'una, nè per l'altrasupposizione; la storia dei Tarquini deve ricercarsi nelLazio e non nell'Etruria; e per quanto ci consta, durantetutta l'epoca dei re, l'Etruria non ha esercitato su Romanè nella lingua nè nei costumi alcuna importante in-fluenza e non ha neppure turbato il simmetrico sviluppodello stato romano o della lega latina. Le cause di questarelativa inazione dell'Etruria verso il vicino paese latino,sono verosimilmente da cercarsi in parte nelle lotte chegli Etruschi dovettero sostenere sul Po contro i Celti,che, a quanto pare, non riuscirono a spingersi oltre ilgran fiume se non dopo la cacciata dei re da Roma; inparte nell'indirizzo della nazione etrusca verso la navi-gazione e il dominio del mare e delle coste, col qualefatto ad esempio, sono strettamente connesse le coloniedella Campania, di cui è cenno nel seguente capitolo.

4 Costituzione etrusca. La costituzione etrusca sifonda, come la greca e la latina, sul comune, dal quale sisviluppa la città. Essendosi però questa nazione data dibuon'ora alla navigazione, al commercio ed all'industria,ciò deve, a quanto pare, aver dato vita al vero organismocomunale poichè Cere, nelle memorie greche, è nomina-ta prima di ogni altra città italiana. Per contrapposto noitroviamo gli Etruschi in generale meno bellicosi dei Ro-mani e dei Sabelli, e qui troviamo assai presto indizi del

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costume non italico di guerreggiare con gente mercena-ria.

La più antica costituzione del comune etrusco deve,nei principî generali, aver avuto una somiglianza con laromana.

I re, o lucumoni, reggevano lo stato insigniti d'egualidistintivi e perciò aventi podestà eguale a quella dei redi Roma; gli ottimati e il popolo minuto si guardavanocon reciproca asprezza; l'analogia del sistema dei nomiprova la somiglianza dell'ordinamento delle genti, salvoche presso gli Etruschi la linea materna trova moltomaggiore considerazione che nel diritto romano. Pareche la costituzione federativa fosse molto fiacca. Essanon comprendeva l'intera razione, perchè gli Etruschisettentrionali e quelli della Campania erano riuniti in le-ghe speciali e separate, appunto come i confinidell'Etruria propriamente detta; ognuna di queste federa-zioni si componeva di dodici comuni, che riconosceva-no bensì una metropoli, specialmente per il culto divino,ed un capo della lega, o piuttosto un sommo sacerdote,ma che in sostanza, a quanto pare, avevano i medesimidiritti, ed in parte erano così potenti da impedire che visi potesse stabilire una egemonia o consolidare un pote-re centrale.

Nell'Etruria propriamente detta la metropoli era Volsi-nii; delle altre dodici città di questa lega noi non cono-sciamo per tradizione degna di fede che Vetulonia, Vul-ci, Perusia e Tarquinii. Ma è tanto raro vedere gli Etru-schi agire effettivamente in comune, come è raro il con-

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costume non italico di guerreggiare con gente mercena-ria.

La più antica costituzione del comune etrusco deve,nei principî generali, aver avuto una somiglianza con laromana.

I re, o lucumoni, reggevano lo stato insigniti d'egualidistintivi e perciò aventi podestà eguale a quella dei redi Roma; gli ottimati e il popolo minuto si guardavanocon reciproca asprezza; l'analogia del sistema dei nomiprova la somiglianza dell'ordinamento delle genti, salvoche presso gli Etruschi la linea materna trova moltomaggiore considerazione che nel diritto romano. Pareche la costituzione federativa fosse molto fiacca. Essanon comprendeva l'intera razione, perchè gli Etruschisettentrionali e quelli della Campania erano riuniti in le-ghe speciali e separate, appunto come i confinidell'Etruria propriamente detta; ognuna di queste federa-zioni si componeva di dodici comuni, che riconosceva-no bensì una metropoli, specialmente per il culto divino,ed un capo della lega, o piuttosto un sommo sacerdote,ma che in sostanza, a quanto pare, avevano i medesimidiritti, ed in parte erano così potenti da impedire che visi potesse stabilire una egemonia o consolidare un pote-re centrale.

Nell'Etruria propriamente detta la metropoli era Volsi-nii; delle altre dodici città di questa lega noi non cono-sciamo per tradizione degna di fede che Vetulonia, Vul-ci, Perusia e Tarquinii. Ma è tanto raro vedere gli Etru-schi agire effettivamente in comune, come è raro il con-

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trario nella lega latina. Di regola un solo comune è quel-lo che fa le guerre, ed esso poi si sforza di tirare dallasua quelli che può dei suoi vicini; e se per eccezioneviene decretata una guerra federale, trovasi assai spessoche alcune città se ne stanno in disparte; pare dunqueche alle confederazioni etrusche, ancor più che ad altresimiglianti leghe italiche, sia mancata fino dal principiouna ferma ed imperiosa direzione.

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trario nella lega latina. Di regola un solo comune è quel-lo che fa le guerre, ed esso poi si sforza di tirare dallasua quelli che può dei suoi vicini; e se per eccezioneviene decretata una guerra federale, trovasi assai spessoche alcune città se ne stanno in disparte; pare dunqueche alle confederazioni etrusche, ancor più che ad altresimiglianti leghe italiche, sia mancata fino dal principiouna ferma ed imperiosa direzione.

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DECIMO CAPITOLOGLI ELLENI IN ITALIA – SIGNORIA SUIMARI DEGLI ETRUSCHI E DEI CARTA-

GINESI

1 L'Italia e i paesi stranieri. Nella storia dei popolidell'antichità non si fa giorno ad un tratto, e anche inessa la luce viene dall'oriente. Così mentre tutta la peni-sola italica è ancora avvolta in una densa oscurità, i pae-si intorno al bacino orientale del Mediterraneo appaionogià illuminati da una meridiana civiltà; e anche agli Ita-lici, come a tutti gli altri popoli e forse più che agli altri,toccò in sorte di trovare, fin dai primi passi ch'essi mos-sero sulla via del progresso, la guida anzi la signorìad'un popolo fratello, della loro stessa stirpe. Ma le con-dizioni geografiche escludono che tale popolo venisseper via di terra, e non v'è alcun indizio che ci permettadi supporre che una strada continentale servisse alle pri-me comunicazioni tra la Grecia e l'Italia.

È vero che fin da antichissimi tempi due strade com-merciali conducevano in Italia da oltr'Alpe. La più anti-ca, che si chiamava «la strada dell'ambra gialla» menavadai lidi del Baltico fino alle foci del Po, per cui la grecaleggenda poneva nel delta eridaneo il paese dell'ambra.Da questa via si dipartiva l'altra, che attraverso l'Appen-nino calava sopra Pisa. È chiaro che da codeste plaghe

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DECIMO CAPITOLOGLI ELLENI IN ITALIA – SIGNORIA SUIMARI DEGLI ETRUSCHI E DEI CARTA-

GINESI

1 L'Italia e i paesi stranieri. Nella storia dei popolidell'antichità non si fa giorno ad un tratto, e anche inessa la luce viene dall'oriente. Così mentre tutta la peni-sola italica è ancora avvolta in una densa oscurità, i pae-si intorno al bacino orientale del Mediterraneo appaionogià illuminati da una meridiana civiltà; e anche agli Ita-lici, come a tutti gli altri popoli e forse più che agli altri,toccò in sorte di trovare, fin dai primi passi ch'essi mos-sero sulla via del progresso, la guida anzi la signorìad'un popolo fratello, della loro stessa stirpe. Ma le con-dizioni geografiche escludono che tale popolo venisseper via di terra, e non v'è alcun indizio che ci permettadi supporre che una strada continentale servisse alle pri-me comunicazioni tra la Grecia e l'Italia.

È vero che fin da antichissimi tempi due strade com-merciali conducevano in Italia da oltr'Alpe. La più anti-ca, che si chiamava «la strada dell'ambra gialla» menavadai lidi del Baltico fino alle foci del Po, per cui la grecaleggenda poneva nel delta eridaneo il paese dell'ambra.Da questa via si dipartiva l'altra, che attraverso l'Appen-nino calava sopra Pisa. È chiaro che da codeste plaghe

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non poteva venire agli italici alcun lume di civiltà. Tuttigli innesti di coltura straniera che nei primi tempis'introdussero in Italia vennero dalle nazioni levantineche si erano date alla navigazione. In verità il più anticopopolo civile che s'affacciasse al mare Mediterraneo,l'egizio, alieno dalle cose marittime, non ebbe sull'Italiaalcuna diretta influenza; ma lo stesso non può dirsi deiFenici.

2 I Fenici in Italia. Dall'angusta costiera distesasull'estremo lido orientale del Mediterraneo ove aveva-no dimora, i Fenici ebbero il coraggio, primi fra tutte legenti che la storia ricordi, di tentare questo mare e di as-soggettarlo inoltrandovisi colle loro case natanti, in unprimo tempo per la pesca e in cerca di spiagge conchi-glifere, poi per ragioni di commercio e di scambi marit-timi: nè tardò molto che solcarono tutto il Mediterraneofino ai suoi estremi confini occidentali.

Su quasi tutti i lidi di questo mare si trovano stazionifenicie, stabilitevisi molto tempo innanzi delle elleni-che; anzi nella stessa Ellade, a Creta ed a Cipro, come inEgitto, nella Libia e nella Spagna, e infine nel seno occi-dentale del mare italiano.

Tucidide narra come, prima che i Greci andassero inSicilia, o per lo meno prima che vi si stabilissero nume-rosi, i Fenici avessero fondato le loro fattorie su tutti ipromontori di quell'isola e su tutte le isolette che la cir-condano, nè già con un intento di conquista e di primatopolitico, ma per agevolare ed assicurare il loro commer-

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non poteva venire agli italici alcun lume di civiltà. Tuttigli innesti di coltura straniera che nei primi tempis'introdussero in Italia vennero dalle nazioni levantineche si erano date alla navigazione. In verità il più anticopopolo civile che s'affacciasse al mare Mediterraneo,l'egizio, alieno dalle cose marittime, non ebbe sull'Italiaalcuna diretta influenza; ma lo stesso non può dirsi deiFenici.

2 I Fenici in Italia. Dall'angusta costiera distesasull'estremo lido orientale del Mediterraneo ove aveva-no dimora, i Fenici ebbero il coraggio, primi fra tutte legenti che la storia ricordi, di tentare questo mare e di as-soggettarlo inoltrandovisi colle loro case natanti, in unprimo tempo per la pesca e in cerca di spiagge conchi-glifere, poi per ragioni di commercio e di scambi marit-timi: nè tardò molto che solcarono tutto il Mediterraneofino ai suoi estremi confini occidentali.

Su quasi tutti i lidi di questo mare si trovano stazionifenicie, stabilitevisi molto tempo innanzi delle elleni-che; anzi nella stessa Ellade, a Creta ed a Cipro, come inEgitto, nella Libia e nella Spagna, e infine nel seno occi-dentale del mare italiano.

Tucidide narra come, prima che i Greci andassero inSicilia, o per lo meno prima che vi si stabilissero nume-rosi, i Fenici avessero fondato le loro fattorie su tutti ipromontori di quell'isola e su tutte le isolette che la cir-condano, nè già con un intento di conquista e di primatopolitico, ma per agevolare ed assicurare il loro commer-

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cio con gli indigeni. Ben diversa è la cosa sul continenteitalico. Fin ad ora non si è potuto, con qualche certezza,scoprire in tutta la penisola che una sola colonia fenicia;fu questa una fattoria punica verso Cere, della cui esi-stenza ci conservò memoria sia il nome del piccolo sitosulla spiaggia di Cere detto Punicum, sia Agylla, il se-condo nome di Cere nome che non deriva dai Pelasgi,come si favoleggiò, ma che è di pretta origine fenicia, esignifica «città rotonda» perchè appunto con questa for-ma si presentava Cere a chi la vedeva dal lido.

Che questa fattoria e le altre di simil fatta, che per av-ventura possono essere esistite sui lidi d'Italia, non sianostate nè ragguardevoli nè di lunga durata, lo prova laloro scomparsa senza quasi lasciar traccia. E neppure viè motivo per crederle più antiche delle colonie ellenichefondate sui medesimi lidi.

Un indizio, non inconcludente, che per lo meno il La-zio ha imparato a conoscere gli abitanti di Sidone e diTiro soltanto per mezzo degli Elleni, è la denominazionelatina di Poeni, tolta ai Greci. Anzi, tutti i più antichi ac-cenni, che tra gli Italici si riferiscono alla civiltà orienta-le, metton capo indubbiamente alla Grecia; e l'esistenzadella stessa fattoria fenicia presso Cere si può spiegareplausibilmente colle notorie posteriori relazioni del co-mune commerciale di Cere con Cartagine, senza risalireall'epoca pre-ellenica.

E quando si consideri, che la più antica navigazionefu e rimase di necessità il cabotaggio, si vedrà che nes-sun paese sul mar Mediterraneo era, per questo modo di

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cio con gli indigeni. Ben diversa è la cosa sul continenteitalico. Fin ad ora non si è potuto, con qualche certezza,scoprire in tutta la penisola che una sola colonia fenicia;fu questa una fattoria punica verso Cere, della cui esi-stenza ci conservò memoria sia il nome del piccolo sitosulla spiaggia di Cere detto Punicum, sia Agylla, il se-condo nome di Cere nome che non deriva dai Pelasgi,come si favoleggiò, ma che è di pretta origine fenicia, esignifica «città rotonda» perchè appunto con questa for-ma si presentava Cere a chi la vedeva dal lido.

Che questa fattoria e le altre di simil fatta, che per av-ventura possono essere esistite sui lidi d'Italia, non sianostate nè ragguardevoli nè di lunga durata, lo prova laloro scomparsa senza quasi lasciar traccia. E neppure viè motivo per crederle più antiche delle colonie ellenichefondate sui medesimi lidi.

Un indizio, non inconcludente, che per lo meno il La-zio ha imparato a conoscere gli abitanti di Sidone e diTiro soltanto per mezzo degli Elleni, è la denominazionelatina di Poeni, tolta ai Greci. Anzi, tutti i più antichi ac-cenni, che tra gli Italici si riferiscono alla civiltà orienta-le, metton capo indubbiamente alla Grecia; e l'esistenzadella stessa fattoria fenicia presso Cere si può spiegareplausibilmente colle notorie posteriori relazioni del co-mune commerciale di Cere con Cartagine, senza risalireall'epoca pre-ellenica.

E quando si consideri, che la più antica navigazionefu e rimase di necessità il cabotaggio, si vedrà che nes-sun paese sul mar Mediterraneo era, per questo modo di

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navigar costa costa, effettivamente più distante dalla Fe-nicia che il continente italico. I Fenici non vi potevanogiungere se non costeggiando la costa occidentale dellaGrecia, o partendo dalla Sicilia, ed è molto verosimileche l'arte nautica dei Greci fiorisse abbastanza in tempoper prevenire i Fenici nella navigazione del mare Adria-tico e del Tirreno. Non abbiamo dunque argomento al-cuno che c'induca a credere avere i Fenici esercitato inorigine un'immediata influenza sugli Italici; parleremopiù tardi delle condizioni della dominazione punica nelmar Mediterraneo occidentale e delle conseguenti rela-zioni cogli Italici abitatori delle coste del Tirreno.

3 I Greci in Italia. I navigatori greci, secondo le ap-parenze, furono dunque i primi fra tutti gli abitanti delbacino orientale del Mediterraneo a visitare le costedell'Italia.

A chi volesse sapere donde questi navigatori grecimovessero primamente e quando, noi diremo che non èpossibile rispondere con qualche certezza se non allaprima domanda.

Il commercio marittimo degli Elleni fiorì, sulle prime,nei lidi eoli e joni dell'Asia minore, e di là poi, i Greci,si aprirono la via alle regioni dell'Eusino ed alle spiaggeitaliche.

Il nome di mar Jonio, rimasto alle acque che si sten-dono tra l'Epiro e la Sicilia, e quello di «Golfo Jonio»,col quale i Greci chiamavano già il mare Adriatico, sonola prova evidente dell'antica scoperta delle spiagge me-

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navigar costa costa, effettivamente più distante dalla Fe-nicia che il continente italico. I Fenici non vi potevanogiungere se non costeggiando la costa occidentale dellaGrecia, o partendo dalla Sicilia, ed è molto verosimileche l'arte nautica dei Greci fiorisse abbastanza in tempoper prevenire i Fenici nella navigazione del mare Adria-tico e del Tirreno. Non abbiamo dunque argomento al-cuno che c'induca a credere avere i Fenici esercitato inorigine un'immediata influenza sugli Italici; parleremopiù tardi delle condizioni della dominazione punica nelmar Mediterraneo occidentale e delle conseguenti rela-zioni cogli Italici abitatori delle coste del Tirreno.

3 I Greci in Italia. I navigatori greci, secondo le ap-parenze, furono dunque i primi fra tutti gli abitanti delbacino orientale del Mediterraneo a visitare le costedell'Italia.

A chi volesse sapere donde questi navigatori grecimovessero primamente e quando, noi diremo che non èpossibile rispondere con qualche certezza se non allaprima domanda.

Il commercio marittimo degli Elleni fiorì, sulle prime,nei lidi eoli e joni dell'Asia minore, e di là poi, i Greci,si aprirono la via alle regioni dell'Eusino ed alle spiaggeitaliche.

Il nome di mar Jonio, rimasto alle acque che si sten-dono tra l'Epiro e la Sicilia, e quello di «Golfo Jonio»,col quale i Greci chiamavano già il mare Adriatico, sonola prova evidente dell'antica scoperta delle spiagge me-

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ridionali ed orientali d'Italia per opera di navigatori Jo-nii. Cuma, la più antica colonia greca che sia sorta inItalia, fu creata, come ce ne avverte anche il nome e latradizione, dall'omonima città che sorgeva sulla rivadell'Asia minore. Una tradizione ellenica degna di fededice che furono i Fenici asiatici quelli che per primi,dopo gli Elleni, solcarono le acque più lontane del mard'occidente. E più chiaramente ancora che non l'omoni-mia e la tradizione, l'origine greco-asiatica è attestatadal sistema dei pesi e delle monete nelle più antiche cit-tà dell'Italia meridionale, sistema che non ha riscontrocon quello in uso nell'Attica e nel Peloponneso prima diSolone, ma col sistema persiano. A Cuma, come neglistati achei, l'unità monetaria è il doppio darico d'oro53,nelle colonie calcidiche il darico d'argento. Segnata lavia, presto altri greci seguirono quelli dell'Asia minore,

53 Il darico moneta aurea persiana, così chiamata da DarioIstaspe che l'aveva fatta coniare, venne primamente in uso pressoi Greci d'Asia; valeva tre tetrastri, e i tetrastri si ragguagliavano adue cistateri, ossia oncie d'argento: onde il darico semplice erauguale a 6 oncie d'argento, e il doppio darico era uguale a un litrod'argento che si pareggiava ad un'oncia d'oro (Tavola comp. dellemonete, dei pesi e delle misure delle principali popolazionidell'antichità di ADRIANO BALBI). Nell'Attica più tardi venne in usoil darico aureo, che valeva 20 dramme attiche, corrispondente afranchi 18,63, giusta il vecchio ragguaglio (BALBI, op. cit.) e afranchi 17 circa, calcolando la dramma dopo la svalutazione delvalore intrinseco. Il Mommsen scrive Golddareikos conservandola forma greca Δαρεικός. Il darico di argento pesava 236 grani, eperò a ragione d'intrinseco avrebbe dovuto valere tre dramme dibuon peso e quasi due terzi di dramma.

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ridionali ed orientali d'Italia per opera di navigatori Jo-nii. Cuma, la più antica colonia greca che sia sorta inItalia, fu creata, come ce ne avverte anche il nome e latradizione, dall'omonima città che sorgeva sulla rivadell'Asia minore. Una tradizione ellenica degna di fededice che furono i Fenici asiatici quelli che per primi,dopo gli Elleni, solcarono le acque più lontane del mard'occidente. E più chiaramente ancora che non l'omoni-mia e la tradizione, l'origine greco-asiatica è attestatadal sistema dei pesi e delle monete nelle più antiche cit-tà dell'Italia meridionale, sistema che non ha riscontrocon quello in uso nell'Attica e nel Peloponneso prima diSolone, ma col sistema persiano. A Cuma, come neglistati achei, l'unità monetaria è il doppio darico d'oro53,nelle colonie calcidiche il darico d'argento. Segnata lavia, presto altri greci seguirono quelli dell'Asia minore,

53 Il darico moneta aurea persiana, così chiamata da DarioIstaspe che l'aveva fatta coniare, venne primamente in uso pressoi Greci d'Asia; valeva tre tetrastri, e i tetrastri si ragguagliavano adue cistateri, ossia oncie d'argento: onde il darico semplice erauguale a 6 oncie d'argento, e il doppio darico era uguale a un litrod'argento che si pareggiava ad un'oncia d'oro (Tavola comp. dellemonete, dei pesi e delle misure delle principali popolazionidell'antichità di ADRIANO BALBI). Nell'Attica più tardi venne in usoil darico aureo, che valeva 20 dramme attiche, corrispondente afranchi 18,63, giusta il vecchio ragguaglio (BALBI, op. cit.) e afranchi 17 circa, calcolando la dramma dopo la svalutazione delvalore intrinseco. Il Mommsen scrive Golddareikos conservandola forma greca Δαρεικός. Il darico di argento pesava 236 grani, eperò a ragione d'intrinseco avrebbe dovuto valere tre dramme dibuon peso e quasi due terzi di dramma.

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come Jonii da Nasso e da Calcide nell'isola Eubea,Achei, Locri, Rodioti, Corinti, Megaresi, Messeni, Spar-tani.

Precisamente come dopo la scoperta dell'America lenazioni civili dell'Europa accorrevano a gara verso ilnuovo mondo e vi si installavano; e precisamente comei nuovi coloni, passato l'Atlantico, e trovatisi in mezzo agente barbara, riconoscevano più chiaramente, che nonavessero mai fatto nel vecchio mondo, la comunanzadella civiltà europea, così anche in quei tempi la naviga-zione verso l'Esperia e la colonizzazione nel paesedell'occidente, non dovette credersi proprietà di una solacittà o di una sola tribù greca, sibbene proprietà comunedella nazione ellenica. E come nei tempi moderni allaformazione dell'America settentrionale concorsero colo-nie inglesi e francesi, olandesi e tedesche, così allora inSicilia e nella Magna Grecia si veniva compiendo unafusione di diverse schiatte elleniche, di cui ora sarebbeimpossibile discernere le proporzioni. Ad eccezione dialcune colonie, più o meno isolate, come sarebbero adesempio quella dei Locresi colle loro città colonialiHipponion e Medma, e quella dei Focesi, Hyele (Velia,Elea)54, in generale, si distinguon negli stabilimenti elle-ni in Italia tre gruppi principali: il gruppo conosciuto

54 Per rispetto conserviamo nei nomi antichi l'ortografiadell'autore, almeno per la prima volta che tali nomi ricorrono.Hipponion, Ipponio, Ippona, poi Monteleone e oggi Vibo Valen-tia, in Calabria; Medma, anch'essa in Calabria sul Mesima; Hyeleo Hyala, ora Castellammare della Velia nel Principato Citeriore.

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come Jonii da Nasso e da Calcide nell'isola Eubea,Achei, Locri, Rodioti, Corinti, Megaresi, Messeni, Spar-tani.

Precisamente come dopo la scoperta dell'America lenazioni civili dell'Europa accorrevano a gara verso ilnuovo mondo e vi si installavano; e precisamente comei nuovi coloni, passato l'Atlantico, e trovatisi in mezzo agente barbara, riconoscevano più chiaramente, che nonavessero mai fatto nel vecchio mondo, la comunanzadella civiltà europea, così anche in quei tempi la naviga-zione verso l'Esperia e la colonizzazione nel paesedell'occidente, non dovette credersi proprietà di una solacittà o di una sola tribù greca, sibbene proprietà comunedella nazione ellenica. E come nei tempi moderni allaformazione dell'America settentrionale concorsero colo-nie inglesi e francesi, olandesi e tedesche, così allora inSicilia e nella Magna Grecia si veniva compiendo unafusione di diverse schiatte elleniche, di cui ora sarebbeimpossibile discernere le proporzioni. Ad eccezione dialcune colonie, più o meno isolate, come sarebbero adesempio quella dei Locresi colle loro città colonialiHipponion e Medma, e quella dei Focesi, Hyele (Velia,Elea)54, in generale, si distinguon negli stabilimenti elle-ni in Italia tre gruppi principali: il gruppo conosciuto

54 Per rispetto conserviamo nei nomi antichi l'ortografiadell'autore, almeno per la prima volta che tali nomi ricorrono.Hipponion, Ipponio, Ippona, poi Monteleone e oggi Vibo Valen-tia, in Calabria; Medma, anch'essa in Calabria sul Mesima; Hyeleo Hyala, ora Castellammare della Velia nel Principato Citeriore.

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sotto il nome di città calcidiche, originariamente joni-che, alle quali in Italia appartengono Cuma, colle altrecolonie greche situate ai piedi del Vesuvio, e Reggio, inSicilia Zancle (più tardi Messana), Nasso, Catania,Leontini, Imera; il gruppo acheo con Sibari ed il mag-gior numero della città della Magna Grecia, e il gruppodorico, cui appartenevano Siracusa, Gela, Akragas55, ein generale il maggior numero delle colonie siciliane, edin Italia la sola Taras (Tarentum) con Eraclea sua colo-nia.

Nel complesso prevalevano nelle colonie italianel'antico strato ionico e le schiatte stabilite nel Pelopon-neso prima che vi calassero i Dori. Tra le genti dorichevi presero parte principalmente le miste, come Corinto eMegara; i paesi dorici schietti vennero dopo gli altri e insecondo ordine, cosa ben naturale, giacchè gli Joni era-no un popolo datosi fin dai primi tempi alla navigazioneed al commercio, mentre invece le tribù doriche calatepiù tardi al litorale dalle loro sedi alpestri e dalle terreinterne, erano nuove alle arti nautiche e mercantili.

Certo i diversi gruppi di immigrati si differenzianospecialmente nel conio della moneta. I coloni focei co-niano secondo la maniera babilonica, comune in Asia.Le città calcidiche seguono, nei tempi antichi, il conioegìneo, cioè quello preponderante originariamente intutta la Grecia europea, ed anzi con quella modificazio-ne che di esso troviamo nell'Eubea. I comuni achei co-niano al modo di Corinto, e i Dori su quello che Solone

55 Akragas; il più antico nome di Agrigento.227

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sotto il nome di città calcidiche, originariamente joni-che, alle quali in Italia appartengono Cuma, colle altrecolonie greche situate ai piedi del Vesuvio, e Reggio, inSicilia Zancle (più tardi Messana), Nasso, Catania,Leontini, Imera; il gruppo acheo con Sibari ed il mag-gior numero della città della Magna Grecia, e il gruppodorico, cui appartenevano Siracusa, Gela, Akragas55, ein generale il maggior numero delle colonie siciliane, edin Italia la sola Taras (Tarentum) con Eraclea sua colo-nia.

Nel complesso prevalevano nelle colonie italianel'antico strato ionico e le schiatte stabilite nel Pelopon-neso prima che vi calassero i Dori. Tra le genti dorichevi presero parte principalmente le miste, come Corinto eMegara; i paesi dorici schietti vennero dopo gli altri e insecondo ordine, cosa ben naturale, giacchè gli Joni era-no un popolo datosi fin dai primi tempi alla navigazioneed al commercio, mentre invece le tribù doriche calatepiù tardi al litorale dalle loro sedi alpestri e dalle terreinterne, erano nuove alle arti nautiche e mercantili.

Certo i diversi gruppi di immigrati si differenzianospecialmente nel conio della moneta. I coloni focei co-niano secondo la maniera babilonica, comune in Asia.Le città calcidiche seguono, nei tempi antichi, il conioegìneo, cioè quello preponderante originariamente intutta la Grecia europea, ed anzi con quella modificazio-ne che di esso troviamo nell'Eubea. I comuni achei co-niano al modo di Corinto, e i Dori su quello che Solone

55 Akragas; il più antico nome di Agrigento.227

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nel 160 di Roma aveva introdotto in Attica, e solamenteTaras ed Eraclea battono moneta conforme ai loro vici-ni, gli Achei, invece che nel modo dei Dorici e Siculi.

4 Epoca dell'immigrazione greca. Quando si sia-no tentati i primi viaggi, e fondate le prime colonie, ri-marrà sempre un mistero avvolto di tenebre. Nondimenoanche in questa oscurità qualche barlume, a saperlo co-gliere, traspare. Nel più antico documento greco, il qua-le appartiene agli Ioni dell'Asia minore, come ad essispetta il più antico commercio coll'occidente, nei cantid'Omero, l'orizzonte geografico non si allarga molto aldi là del bacino orientale del Mediterraneo. Navigatorisviati dalle procelle nel mare di ponente avranno portatonell'Asia minore, loro patria, la notizia dell'esistenza diun continente occidentale, dei suoi vortici e dei suoi vul-cani; ma al tempo dei canti di Omero mancava anche trai Greci, che pure furono i primi a porsi in relazionicoll'occidente, mancava diciamo, ogni dato positivo sul-la Sicilia e sull'Italia; e i poeti e i rapsodi dell'oriente po-tevano a loro agio riempire, con le immagini create dallaloro fantasia, gli spazi vuoti dell'occidente, come in altritempi gli occidentali fecero col favoloso oriente. I con-torni d'Italia e della Sicilia già ci appaiono più distintinei poemi d'Esiodo: in essi già è fatto cenno di nomi in-digeni, di popoli, di montagne e di città dell'uno edell'altro paese; ma l'Italia è per essi ancora null'altroche un gruppo d'isole. Invece in tutta la letteratura dopoEsiodo si rileva che almeno nelle linee generali, tanto

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nel 160 di Roma aveva introdotto in Attica, e solamenteTaras ed Eraclea battono moneta conforme ai loro vici-ni, gli Achei, invece che nel modo dei Dorici e Siculi.

4 Epoca dell'immigrazione greca. Quando si sia-no tentati i primi viaggi, e fondate le prime colonie, ri-marrà sempre un mistero avvolto di tenebre. Nondimenoanche in questa oscurità qualche barlume, a saperlo co-gliere, traspare. Nel più antico documento greco, il qua-le appartiene agli Ioni dell'Asia minore, come ad essispetta il più antico commercio coll'occidente, nei cantid'Omero, l'orizzonte geografico non si allarga molto aldi là del bacino orientale del Mediterraneo. Navigatorisviati dalle procelle nel mare di ponente avranno portatonell'Asia minore, loro patria, la notizia dell'esistenza diun continente occidentale, dei suoi vortici e dei suoi vul-cani; ma al tempo dei canti di Omero mancava anche trai Greci, che pure furono i primi a porsi in relazionicoll'occidente, mancava diciamo, ogni dato positivo sul-la Sicilia e sull'Italia; e i poeti e i rapsodi dell'oriente po-tevano a loro agio riempire, con le immagini create dallaloro fantasia, gli spazi vuoti dell'occidente, come in altritempi gli occidentali fecero col favoloso oriente. I con-torni d'Italia e della Sicilia già ci appaiono più distintinei poemi d'Esiodo: in essi già è fatto cenno di nomi in-digeni, di popoli, di montagne e di città dell'uno edell'altro paese; ma l'Italia è per essi ancora null'altroche un gruppo d'isole. Invece in tutta la letteratura dopoEsiodo si rileva che almeno nelle linee generali, tanto

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della Sicilia, quanto del lido d'Italia gli Elleni avevanoconoscenza. E così si può fissare con qualche buon fon-damento l'epoca delle piccole colonie greche in Italia.Cuma, fin dai tempi di Tucidide, veniva chiaramente ri-conosciuta come la più antica e ragguardevole coloniaellenica nell'occidente, e certo Tucidide non errava. Èben vero che al navigatore greco s'offrivano molti altriluoghi di approdo più vicini, ma nessuno presentavamaggior sicurezza contro l'ira del mare e contro i barba-ri quanto l'isola di Ischia, sulla quale in origine vennefondata la città.

Che questa considerazione guidasse prima d'ogni al-tra i coloni, lo prova ancora il luogo scelto poi sul conti-nente, scosceso, ma forte e sicuro, per fabbricarvi la cit-tà, che ancora oggi porta il venerando nome dell'anatoli-ca città madre. In nessun luogo d'Italia sono però im-presse nei nomi de' luoghi tanto profondamente e dure-volmente le credenze e le fantasie dell'Asia minore,quanto nel paese di Cuma, ove i primi navigatori levan-tini, pieni la mente dei racconti meravigliosi che si face-vano sull'Esperia, mossero i primi passi nella regionedelle favole, e lasciarono le tracce di quel mondo fanta-stico in cui si credevano giunti, nelle rupi delle Sirene, enel lago d'Aorno (ora d'Averno) adducente nei regni sot-terranei. Posto che i Greci vennero per la prima volta incontatto coi popoli italici a Cuma, si spiega come permolti secoli poi essi chiamassero Opici tutti gli Italicidal nome della tribù italica più vicina alla loro colonia.Vi è inoltre una tradizione degna di fede, la quale narra

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della Sicilia, quanto del lido d'Italia gli Elleni avevanoconoscenza. E così si può fissare con qualche buon fon-damento l'epoca delle piccole colonie greche in Italia.Cuma, fin dai tempi di Tucidide, veniva chiaramente ri-conosciuta come la più antica e ragguardevole coloniaellenica nell'occidente, e certo Tucidide non errava. Èben vero che al navigatore greco s'offrivano molti altriluoghi di approdo più vicini, ma nessuno presentavamaggior sicurezza contro l'ira del mare e contro i barba-ri quanto l'isola di Ischia, sulla quale in origine vennefondata la città.

Che questa considerazione guidasse prima d'ogni al-tra i coloni, lo prova ancora il luogo scelto poi sul conti-nente, scosceso, ma forte e sicuro, per fabbricarvi la cit-tà, che ancora oggi porta il venerando nome dell'anatoli-ca città madre. In nessun luogo d'Italia sono però im-presse nei nomi de' luoghi tanto profondamente e dure-volmente le credenze e le fantasie dell'Asia minore,quanto nel paese di Cuma, ove i primi navigatori levan-tini, pieni la mente dei racconti meravigliosi che si face-vano sull'Esperia, mossero i primi passi nella regionedelle favole, e lasciarono le tracce di quel mondo fanta-stico in cui si credevano giunti, nelle rupi delle Sirene, enel lago d'Aorno (ora d'Averno) adducente nei regni sot-terranei. Posto che i Greci vennero per la prima volta incontatto coi popoli italici a Cuma, si spiega come permolti secoli poi essi chiamassero Opici tutti gli Italicidal nome della tribù italica più vicina alla loro colonia.Vi è inoltre una tradizione degna di fede, la quale narra

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che tra il primo stabilirsi de' Greci a Cuma e il principiodi quella grande corrente di migrazioni, che popolò dicolonie greche l'Italia meridionale e la Sicilia, si frappo-se un lungo spazio di tempo, e che quando cominciò lamigrazione ellenica gli Joni di Calcide e di Nasso si mo-vessero prima d'ogni altro popolo, e che Nasso in Sici-lia56 sia stata la più antica di tutte le città greche fondatein Italia e in Sicilia per fatto di vera colonizzazione, allaquale poi solo più tardi tennero dietro gli stabilimentiachei e dorici. Ma ci pare impossibile poter indicare, an-che solo con qualche approssimazione, le date preciseper tutta questa serie di fatti. Le date più antiche ed ipunti di partenza cronologica della storia italiana si pos-sono fissare all'anno 33 di Roma = 721 a. C., in cui fufondata la città antica di Sibari, e all'anno 46 = 708, incui fu fondata la città di Taranto. Queste date si devonoconsiderare come storiche ed approssimativamente esat-te57. Quanto sia anteriore a quest'epoca la fondazione

56 Fondata presso la foce del fiume Tauromenio ai piedi dellapendice settentrionale dell'Etna, sei miglia a sud della città diTauromenium (Taormina).

57 [Attendevamo questa prima precisazione di date relativa-mente alla fondazione di Roma per fare un rilievo che sarebbestato a suo luogo nel capitolo che si riferisce alla formazione delcomune di Roma. La sicurezza con la quale si muove l'autore an-che nelle ipotesi più avventate, se è indizio di una profonda pa-dronanza della materia, non sempre però riesce a persuaderci.Così il capitolo sulla formazione del comune di Roma, anche seapparentemente par che segua una ferrea logica, ha il suo lato de-bole nell'imprecisazione dell'origine. Il Mommsen che ora si ser-

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che tra il primo stabilirsi de' Greci a Cuma e il principiodi quella grande corrente di migrazioni, che popolò dicolonie greche l'Italia meridionale e la Sicilia, si frappo-se un lungo spazio di tempo, e che quando cominciò lamigrazione ellenica gli Joni di Calcide e di Nasso si mo-vessero prima d'ogni altro popolo, e che Nasso in Sici-lia56 sia stata la più antica di tutte le città greche fondatein Italia e in Sicilia per fatto di vera colonizzazione, allaquale poi solo più tardi tennero dietro gli stabilimentiachei e dorici. Ma ci pare impossibile poter indicare, an-che solo con qualche approssimazione, le date preciseper tutta questa serie di fatti. Le date più antiche ed ipunti di partenza cronologica della storia italiana si pos-sono fissare all'anno 33 di Roma = 721 a. C., in cui fufondata la città antica di Sibari, e all'anno 46 = 708, incui fu fondata la città di Taranto. Queste date si devonoconsiderare come storiche ed approssimativamente esat-te57. Quanto sia anteriore a quest'epoca la fondazione

56 Fondata presso la foce del fiume Tauromenio ai piedi dellapendice settentrionale dell'Etna, sei miglia a sud della città diTauromenium (Taormina).

57 [Attendevamo questa prima precisazione di date relativa-mente alla fondazione di Roma per fare un rilievo che sarebbestato a suo luogo nel capitolo che si riferisce alla formazione delcomune di Roma. La sicurezza con la quale si muove l'autore an-che nelle ipotesi più avventate, se è indizio di una profonda pa-dronanza della materia, non sempre però riesce a persuaderci.Così il capitolo sulla formazione del comune di Roma, anche seapparentemente par che segua una ferrea logica, ha il suo lato de-bole nell'imprecisazione dell'origine. Il Mommsen che ora si ser-

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delle prime colonie joniche, è tanto incerto quanto l'epo-ca della apparizione dei poemi d'Esiodo o di quelli diOmero. Se Erodoto ha indovinato nello stabilire l'etàd'Omero (850 a. C.), è chiaro che l'Italia, un secolo pri-ma della fondazione di Roma era tuttavia ignota ai Gre-ci; ma quell'indicazione di Erodoto, come tutte le altrenotizie intorno ad Omero, non sono che supposizioni: echi tenga conto della storia degli alfabeti italici, e delfatto singolare che gli Italici conoscevano i «Greci» pri-ma che il nuovo nome d'«Elleni», si sostituisse a quellooriginario di Grai o Graeci58, non esiterà ad ammettere

ve della enumerazione tradizionale degli anni della fondazione diRoma, non ha mai accennato a questo fatto, comune a tutti glistorici e agli annalisti dell'antichità fino allo stesso Livio. Ora èlecito domandarsi: se gli storici più vicini all'avvenimento fissanocon precisione concorde la data della nascita della città, questonon può non trovare nella tradizione un memorabile riferimento epresuppone senza dubbi una cerimonia originaria, dalla quale ladata ebbe principio. Su questo il Mommsen non si sofferma affat-to, ciò che a parer nostro, costituisce il punto debole della sua tesisull'origine di Roma].

58 Il nome di Greci, come quello d'Elleni, si riferisce alla resi-denza primitiva della civiltà greca, cioè al paese interno dell'Epiroe di Dodona. Già nelle Eoee d'Esiodo apparisce questo vocabolocome nome comune a tutta la nazione, ma con manifesta inten-zione rimosso e sottoposto all'ellenico, il quale non si trova anco-ra in Omero bensì dopo Esiodo, già sì rinvenne in Archiloco ver-so l’anno di Roma 50 e che potrebbe esser venuto in uso moltoprima (DUNCKER, Storia dell'antichità, 3, 18, 556). Dunque gli Ita-lici, prima di quest'epoca, conoscevano già abbastanza i Greci daindicare non solo una singola tribù, ma la nazione intera con un

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delle prime colonie joniche, è tanto incerto quanto l'epo-ca della apparizione dei poemi d'Esiodo o di quelli diOmero. Se Erodoto ha indovinato nello stabilire l'etàd'Omero (850 a. C.), è chiaro che l'Italia, un secolo pri-ma della fondazione di Roma era tuttavia ignota ai Gre-ci; ma quell'indicazione di Erodoto, come tutte le altrenotizie intorno ad Omero, non sono che supposizioni: echi tenga conto della storia degli alfabeti italici, e delfatto singolare che gli Italici conoscevano i «Greci» pri-ma che il nuovo nome d'«Elleni», si sostituisse a quellooriginario di Grai o Graeci58, non esiterà ad ammettere

ve della enumerazione tradizionale degli anni della fondazione diRoma, non ha mai accennato a questo fatto, comune a tutti glistorici e agli annalisti dell'antichità fino allo stesso Livio. Ora èlecito domandarsi: se gli storici più vicini all'avvenimento fissanocon precisione concorde la data della nascita della città, questonon può non trovare nella tradizione un memorabile riferimento epresuppone senza dubbi una cerimonia originaria, dalla quale ladata ebbe principio. Su questo il Mommsen non si sofferma affat-to, ciò che a parer nostro, costituisce il punto debole della sua tesisull'origine di Roma].

58 Il nome di Greci, come quello d'Elleni, si riferisce alla resi-denza primitiva della civiltà greca, cioè al paese interno dell'Epiroe di Dodona. Già nelle Eoee d'Esiodo apparisce questo vocabolocome nome comune a tutta la nazione, ma con manifesta inten-zione rimosso e sottoposto all'ellenico, il quale non si trova anco-ra in Omero bensì dopo Esiodo, già sì rinvenne in Archiloco ver-so l’anno di Roma 50 e che potrebbe esser venuto in uso moltoprima (DUNCKER, Storia dell'antichità, 3, 18, 556). Dunque gli Ita-lici, prima di quest'epoca, conoscevano già abbastanza i Greci daindicare non solo una singola tribù, ma la nazione intera con un

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

cha assai più antiche furono le prime relazioni tra Italicie Greci.

5 Caratteri dell'immigrazione greca. La storiadei Greci italici e siciliani non fa, veramente, parte dellastoria italica; i coloni greci dell'occidente si tennerosempre nella più stretta relazione con la loro patria eprendevano parte alle feste nazionali ed alle prerogativedegli Elleni. È però importante anche per l'Italia di farconoscere la diversità del carattere delle colonie grechein quel paese e di segnalare almeno certi tratti che stabi-liscono essenzialmente il vario influsso della colonizza-zione greca sull'Italia.

Fra tutte le colonie greche la più vigorosa e la più fol-ta era quella da cui uscì la lega delle città achee; ne fa-cevano parte Siri, Pandosia, Metabus o Metaponto, Si-bari colle sue città coloniche Posidonia e Laos, Crotone,Caulonia, Temesa, Terina e Pyxus. Questi coloni appar-tenevano in generale ad una tribù greca, la quale si at-tenne perseverante al proprio dialetto nazionale, diversoma affine al dorico, e per lungo tempo all'antica ortogra-

nome collettivo. Come si voglia combinare con ciò il supposto,che l'Italia fosse interamente ignota ai Greci dell'Asia minore unsecolo prima della fondazione ai Roma, è difficile a comprender-si. Parleremo dell'alfabeto: la storia di esso fornisce i medesimirisultati. Sarà forse tacciato di temerità chi respingesse per similiconsiderazioni la narrazione d'Erodoto relativa all'età d'Omero:ma non è forse audacia maggiore in questioni di tal natura seguirela tradizione?

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cha assai più antiche furono le prime relazioni tra Italicie Greci.

5 Caratteri dell'immigrazione greca. La storiadei Greci italici e siciliani non fa, veramente, parte dellastoria italica; i coloni greci dell'occidente si tennerosempre nella più stretta relazione con la loro patria eprendevano parte alle feste nazionali ed alle prerogativedegli Elleni. È però importante anche per l'Italia di farconoscere la diversità del carattere delle colonie grechein quel paese e di segnalare almeno certi tratti che stabi-liscono essenzialmente il vario influsso della colonizza-zione greca sull'Italia.

Fra tutte le colonie greche la più vigorosa e la più fol-ta era quella da cui uscì la lega delle città achee; ne fa-cevano parte Siri, Pandosia, Metabus o Metaponto, Si-bari colle sue città coloniche Posidonia e Laos, Crotone,Caulonia, Temesa, Terina e Pyxus. Questi coloni appar-tenevano in generale ad una tribù greca, la quale si at-tenne perseverante al proprio dialetto nazionale, diversoma affine al dorico, e per lungo tempo all'antica ortogra-

nome collettivo. Come si voglia combinare con ciò il supposto,che l'Italia fosse interamente ignota ai Greci dell'Asia minore unsecolo prima della fondazione ai Roma, è difficile a comprender-si. Parleremo dell'alfabeto: la storia di esso fornisce i medesimirisultati. Sarà forse tacciato di temerità chi respingesse per similiconsiderazioni la narrazione d'Erodoto relativa all'età d'Omero:ma non è forse audacia maggiore in questioni di tal natura seguirela tradizione?

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fia nazionale ellenica, mentre difendevano di fronte aibarbari ed agli altri Greci la propria nazionalità per mez-zo di una rigida costituzione federativa.

Anche a questi italici Achei si può applicare quantoPolibio dice della symmachia59 achea nel Peloponneso:«Essi non solo vivono in comunione federale ed amica,ma osservano le medesime leggi, usano pesi, misure emonete eguali, hanno gli stessi capi, gli stessi consiglierie gli stessi giudici».

Questa lega delle città achee era un vero sistema dicolonizzazione. Le città non avevano porti di mare – lasola Crotone poteva vantare una passabile rada – nessu-na aveva un proprio commercio; il sibarita si gloriavad'incanutire fra i ponti della sua città in mezzo alle lagu-ne lasciando che per lui esercitassero il commercio i Mi-lesi e gli Etruschi. In compenso però i Greci in questeregioni signoreggiavano dall'uno all'altro mare il belpaese che «produce vino e nutre buoi in abbondanza»(Οἰνωτρία Ἰταλία) ossia la «Magna Grecia». La popola-zione agricola indigena era obbligata, o per vincolo diclientela o di schiavitù, a lavorare per essi o a pagareloro il tributo. Sibari, allora la più grande tra le città ita-liche, imperava su quattro tribù barbare e su venticinquevillaggi, e potè fondare sull'opposto mare Laos e Posi-donia; le valli del Crati e del Bradano, straordinariamen-te fertili, procuravano ai signori della città una ricchissi-

59 Questa parola, che già ricorse nel testo, e che conservammotale e quale, è strettamente greca Σνµµαχία, lega d'armi, guerrafatta insieme.

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fia nazionale ellenica, mentre difendevano di fronte aibarbari ed agli altri Greci la propria nazionalità per mez-zo di una rigida costituzione federativa.

Anche a questi italici Achei si può applicare quantoPolibio dice della symmachia59 achea nel Peloponneso:«Essi non solo vivono in comunione federale ed amica,ma osservano le medesime leggi, usano pesi, misure emonete eguali, hanno gli stessi capi, gli stessi consiglierie gli stessi giudici».

Questa lega delle città achee era un vero sistema dicolonizzazione. Le città non avevano porti di mare – lasola Crotone poteva vantare una passabile rada – nessu-na aveva un proprio commercio; il sibarita si gloriavad'incanutire fra i ponti della sua città in mezzo alle lagu-ne lasciando che per lui esercitassero il commercio i Mi-lesi e gli Etruschi. In compenso però i Greci in questeregioni signoreggiavano dall'uno all'altro mare il belpaese che «produce vino e nutre buoi in abbondanza»(Οἰνωτρία Ἰταλία) ossia la «Magna Grecia». La popola-zione agricola indigena era obbligata, o per vincolo diclientela o di schiavitù, a lavorare per essi o a pagareloro il tributo. Sibari, allora la più grande tra le città ita-liche, imperava su quattro tribù barbare e su venticinquevillaggi, e potè fondare sull'opposto mare Laos e Posi-donia; le valli del Crati e del Bradano, straordinariamen-te fertili, procuravano ai signori della città una ricchissi-

59 Questa parola, che già ricorse nel testo, e che conservammotale e quale, è strettamente greca Σνµµαχία, lega d'armi, guerrafatta insieme.

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ma rendita e pare che da qui cominciasse una regolareesportazione di cereali. Dell'alta prosperità, a cui per-vennero in brevissimo tempo questi stati, testimoniano icapolavori d'arte che da questi italici Achei giunserofino a noi, e cioè le loro monete di bella fattura, che rap-presentano i monumenti più antichi dell'arte e dellascienza italica, la cui coniatura deve essere incominciatanell'anno 174 della città (= 580). Queste monete prova-no come gli Achei d'occidente non solo coltivasserol'arte figurativa, che in quel tempo appunto era venuta ingrande splendore nella loro madre patria, ma che eranonella parte tecnica ad essa superiori, poichè invece dellegrosse monete d'argento, coniate spesso da un lato soloe senza inscrizione, come si usava in quei tempi nellaGrecia propriamente detta e presso i Dori italici, gliAchei italici, con grande e singolare destrezza, serven-dosi di due uguali punzoni, parte in rilievo e parte inca-vati, battevano grandi e sottili monete d'argento semprecon leggenda; e questo stesso modo di coniare, che pre-servava le monete dalla falsificazione, che poteva facil-mente farsi con finissime lamine d'argento sovrappostea metalli vili, prova il buon ordine e la coltura dello sta-to. Ma pure questo rapido progresso non produsse alcunfrutto. Nella facile esistenza, non cimentata nè esercitatada resistenze degli indigeni, da faticosi lavori del corpo,questi Greci perdettero presto, coll'elasticità fisica, an-che la morale. Nessun nome brillante nell'arte e nellaletteratura greca onora gli Achei italici, mentre la Siciliane conta parecchi e in Italia la calcidica Reggio canta

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ma rendita e pare che da qui cominciasse una regolareesportazione di cereali. Dell'alta prosperità, a cui per-vennero in brevissimo tempo questi stati, testimoniano icapolavori d'arte che da questi italici Achei giunserofino a noi, e cioè le loro monete di bella fattura, che rap-presentano i monumenti più antichi dell'arte e dellascienza italica, la cui coniatura deve essere incominciatanell'anno 174 della città (= 580). Queste monete prova-no come gli Achei d'occidente non solo coltivasserol'arte figurativa, che in quel tempo appunto era venuta ingrande splendore nella loro madre patria, ma che eranonella parte tecnica ad essa superiori, poichè invece dellegrosse monete d'argento, coniate spesso da un lato soloe senza inscrizione, come si usava in quei tempi nellaGrecia propriamente detta e presso i Dori italici, gliAchei italici, con grande e singolare destrezza, serven-dosi di due uguali punzoni, parte in rilievo e parte inca-vati, battevano grandi e sottili monete d'argento semprecon leggenda; e questo stesso modo di coniare, che pre-servava le monete dalla falsificazione, che poteva facil-mente farsi con finissime lamine d'argento sovrappostea metalli vili, prova il buon ordine e la coltura dello sta-to. Ma pure questo rapido progresso non produsse alcunfrutto. Nella facile esistenza, non cimentata nè esercitatada resistenze degli indigeni, da faticosi lavori del corpo,questi Greci perdettero presto, coll'elasticità fisica, an-che la morale. Nessun nome brillante nell'arte e nellaletteratura greca onora gli Achei italici, mentre la Siciliane conta parecchi e in Italia la calcidica Reggio canta

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Ibico, e la dorica Taranto Archita. Questo popolo, sulcui focolare lo spiedo non riposava mai, non riuscì a di-stinguersi in altro che nel pugilato. La severa aristocra-zia, che era stata sollecita ad afferrare il timone dellacosa pubblica nei singoli comuni, e che in caso di biso-gno trovava valido appoggio nel potere federale, veglia-va attentamente affinchè non sorgesse alcun tiranno. Unsolo pericolo poteva temersi, quello cioè di passare daun governo d'ottimati ad una signoria oligarchica, prin-cipalmente se le famiglie privilegiate nelle diverse re-pubbliche si fossero unite prestandosi reciprocamenteaiuto. Simili tendenze oligarchiche informavano la legasolidale degli «Amici» fregiata dal nome di Pitagora;essa ingiungeva di venerare la classe dominatrice comedivina, di trattare come bestie quelli della classe servile,e suscitò con siffatta teoria e siffatta pratica una terribileopposizione, la quale finì coll'esterminio degli amici»pitagorici e colla rinnovazione degli antichi ordini fede-rativi.

Ma lotte furibonde di partito, inconvenienti sociali diogni sorta, pratica applicazione di un'impraticabile filo-sofia politica, in una parola tutti i mali d'una civiltà di-sordinata, non cessavano d'infuriare nelle repubblicheachee finchè il loro potere politico non si spezzò. Non èda meravigliarsi se gli Achei, che per primi si stabiliro-no in Italia, abbiano avuto minor influenza delle altrecolonie greche sull'incivilimento italico. Queste repub-bliche d'agricoltori potevano estendere i loro influssifuori de' loro confini assai meno di quel che potessero

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Ibico, e la dorica Taranto Archita. Questo popolo, sulcui focolare lo spiedo non riposava mai, non riuscì a di-stinguersi in altro che nel pugilato. La severa aristocra-zia, che era stata sollecita ad afferrare il timone dellacosa pubblica nei singoli comuni, e che in caso di biso-gno trovava valido appoggio nel potere federale, veglia-va attentamente affinchè non sorgesse alcun tiranno. Unsolo pericolo poteva temersi, quello cioè di passare daun governo d'ottimati ad una signoria oligarchica, prin-cipalmente se le famiglie privilegiate nelle diverse re-pubbliche si fossero unite prestandosi reciprocamenteaiuto. Simili tendenze oligarchiche informavano la legasolidale degli «Amici» fregiata dal nome di Pitagora;essa ingiungeva di venerare la classe dominatrice comedivina, di trattare come bestie quelli della classe servile,e suscitò con siffatta teoria e siffatta pratica una terribileopposizione, la quale finì coll'esterminio degli amici»pitagorici e colla rinnovazione degli antichi ordini fede-rativi.

Ma lotte furibonde di partito, inconvenienti sociali diogni sorta, pratica applicazione di un'impraticabile filo-sofia politica, in una parola tutti i mali d'una civiltà di-sordinata, non cessavano d'infuriare nelle repubblicheachee finchè il loro potere politico non si spezzò. Non èda meravigliarsi se gli Achei, che per primi si stabiliro-no in Italia, abbiano avuto minor influenza delle altrecolonie greche sull'incivilimento italico. Queste repub-bliche d'agricoltori potevano estendere i loro influssifuori de' loro confini assai meno di quel che potessero

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gli stati commerciali; essi soggiogarono entro il loro ter-ritorio gli indigeni, e distrussero i germi di uno svilupponazionale, senza però schiudere agli Italici una nuovavia col mezzo d'una compiuta ellenizzazione, Cosìscomparve più celermente, e lasciando meno traccie emeno gloria che in qualunque altro distretto, da Sibari,da Metaponto, da Crotone e da Posidonia, quello spiritogreco che, sfidando tutte le vicissitudini, aveva saputoconservarsi pieno di vigore, e così i popoli misti bilin-gui, che poi si composero cogli avanzi degli Italici indi-geni e degli Achei nonchè dei più recenti immigrati dischiatta sabellica, non pervennero ad una vera e propriaciviltà. Ma questa catastrofe appartiene, in quantoall'epoca, al successivo periodo.

6 Città jonico-doriche. Di genere diverso o di di-verso effetto sull'Italia furono le colonie degli altri Gre-ci. Anch'essi non disdegnavano l'agricoltura e l'acquistodi territorio. Gli Elleni, almeno dopo che furono perve-nuti alla coscienza delle loro forze, non erano un popoloche potesse contentarsi come i Fenici di qualche fattoriafortificata sul litorale de' barbari. Ma è pur vero che tut-te queste città furono da principio fondate collo scopoprincipale del commercio e però, in decisa antitesi colleachee, furono tutte edificate sui migliori porti e presso imigliori approdi. L'origine, la cagione e l'epoca di siffat-te fondazioni furono diverse e molteplici; vi era però fraloro, almeno per contrapporsi alla lega delle città achee,una certa comunanza, come ad esempio nell'uso, in tutte

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gli stati commerciali; essi soggiogarono entro il loro ter-ritorio gli indigeni, e distrussero i germi di uno svilupponazionale, senza però schiudere agli Italici una nuovavia col mezzo d'una compiuta ellenizzazione, Cosìscomparve più celermente, e lasciando meno traccie emeno gloria che in qualunque altro distretto, da Sibari,da Metaponto, da Crotone e da Posidonia, quello spiritogreco che, sfidando tutte le vicissitudini, aveva saputoconservarsi pieno di vigore, e così i popoli misti bilin-gui, che poi si composero cogli avanzi degli Italici indi-geni e degli Achei nonchè dei più recenti immigrati dischiatta sabellica, non pervennero ad una vera e propriaciviltà. Ma questa catastrofe appartiene, in quantoall'epoca, al successivo periodo.

6 Città jonico-doriche. Di genere diverso o di di-verso effetto sull'Italia furono le colonie degli altri Gre-ci. Anch'essi non disdegnavano l'agricoltura e l'acquistodi territorio. Gli Elleni, almeno dopo che furono perve-nuti alla coscienza delle loro forze, non erano un popoloche potesse contentarsi come i Fenici di qualche fattoriafortificata sul litorale de' barbari. Ma è pur vero che tut-te queste città furono da principio fondate collo scopoprincipale del commercio e però, in decisa antitesi colleachee, furono tutte edificate sui migliori porti e presso imigliori approdi. L'origine, la cagione e l'epoca di siffat-te fondazioni furono diverse e molteplici; vi era però fraloro, almeno per contrapporsi alla lega delle città achee,una certa comunanza, come ad esempio nell'uso, in tutte

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queste città, del medesimo nuovo alfabeto greco60 e per-sino nel dorismo della lingua, il quale penetrò per tempoanche in quelle città, le quali, come fra l'altre Cuma61,parlavano originariamente il dolce dialetto jonico. Ri-spetto all'incivilimento d'Italia, queste colonie ebbero ungrado d'importanza assai diverso; basterà qui far cenno aquelle che possentemente concorsero a dar nuovo indi-rizzo ai destini delle tribù italiche, come Taranto la dori-ca e Cuma l'jonica.

I Tarentini tennero, fra tutte le colonie elleniche inItalia, la parte più notevole. L'ottimo porto, l'unico intutta la spiaggia meridionale che s'apra sicuro e agevolea' naviganti, rese la loro città l'emporio naturale delcommercio dell'Italia meridionale e persino d'una partedi quello adriatico. L'abbondante pescosità del vasto suogolfo, la produzione e la manifattura della bellissimasua lana di pecora, nonchè la sua tintura col succo delmurice porporino di Taranto, che potrebbe gareggiarecon quella di Tiro (industrie introdottevi da Mileto), oc-cupavano migliaia di braccia e aggiungevano il com-mercio d'esportazione al traffico interno; le monete ta-rentine, coniate persino in oro, di cui non si ebbe tantacopia in nessun'altra parte dell'Italia greca, sono ancora

60 S'intende parlare di quello che rimpiazzò le antiche formeorientali dell'iota, del gamma e del lamda, coi segni facili a con-fondersi.

61 Così ad esempio si legge su un vaso di terra di Cuma:Ταταίες ἐµι λέρυϑος. Φὸς δ'ἄν µε κλέϕσει δυϕλὸς ἔσται.

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queste città, del medesimo nuovo alfabeto greco60 e per-sino nel dorismo della lingua, il quale penetrò per tempoanche in quelle città, le quali, come fra l'altre Cuma61,parlavano originariamente il dolce dialetto jonico. Ri-spetto all'incivilimento d'Italia, queste colonie ebbero ungrado d'importanza assai diverso; basterà qui far cenno aquelle che possentemente concorsero a dar nuovo indi-rizzo ai destini delle tribù italiche, come Taranto la dori-ca e Cuma l'jonica.

I Tarentini tennero, fra tutte le colonie elleniche inItalia, la parte più notevole. L'ottimo porto, l'unico intutta la spiaggia meridionale che s'apra sicuro e agevolea' naviganti, rese la loro città l'emporio naturale delcommercio dell'Italia meridionale e persino d'una partedi quello adriatico. L'abbondante pescosità del vasto suogolfo, la produzione e la manifattura della bellissimasua lana di pecora, nonchè la sua tintura col succo delmurice porporino di Taranto, che potrebbe gareggiarecon quella di Tiro (industrie introdottevi da Mileto), oc-cupavano migliaia di braccia e aggiungevano il com-mercio d'esportazione al traffico interno; le monete ta-rentine, coniate persino in oro, di cui non si ebbe tantacopia in nessun'altra parte dell'Italia greca, sono ancora

60 S'intende parlare di quello che rimpiazzò le antiche formeorientali dell'iota, del gamma e del lamda, coi segni facili a con-fondersi.

61 Così ad esempio si legge su un vaso di terra di Cuma:Ταταίες ἐµι λέρυϑος. Φὸς δ'ἄν µε κλέϕσει δυϕλὸς ἔσται.

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oggi testimonianza viva del commercio esteso ed ani-mato dei Tarentini.

Taranto deve aver stabilite le estese sue relazionicommerciali fin dall'epoca in cui gareggiava con Sibariper la supremazia sulle città greche dell'Italia meridio-nale; ma i Tarentini, a quanto pare, non hanno mai cer-cato con durevole successo un'essenziale estensione delloro territorio al modo delle città achee.

Ora, se la più orientale delle colonie greche in Italiasorse con rapidità e con splendore, le più settentrionalicrescevano a piedi del Vesuvio a più modesta prosperità.Quei di Cuma, abbandonando l'ubertosa isola Enaria(Ischia), passarono sul continente e si edificarono unaseconda città su una collina vicino al mare, e fondaronopoi la città portuale di Dicearchia (più tardi Puteoli), esuccessivamente la città nuova, Neapolis.

Essi vivevano, come in generale le città calcidiche inItalia e in Sicilia, secondo le leggi dettate (verso l'anno100 = 650) da Caronda di Catania, con una costituzionedemocratica, temperata però dall'elevato censo, che affi-dava il potere nelle mani di un consiglio di mille mem-bri scelti fra i più ricchi – costituzione sperimentata, chevalse a preservare queste città dalla tirannide del popo-lo.

Poco sappiamo di questi Greci campani. O per forza oper volontà propria essi si restrinsero ancor più dei Ta-rentini entro i termini di un angusto territorio e non pro-vocando gli indigeni con modi da conquistatori e op-pressori, ma trattando e trafficando con essi pacifica-

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oggi testimonianza viva del commercio esteso ed ani-mato dei Tarentini.

Taranto deve aver stabilite le estese sue relazionicommerciali fin dall'epoca in cui gareggiava con Sibariper la supremazia sulle città greche dell'Italia meridio-nale; ma i Tarentini, a quanto pare, non hanno mai cer-cato con durevole successo un'essenziale estensione delloro territorio al modo delle città achee.

Ora, se la più orientale delle colonie greche in Italiasorse con rapidità e con splendore, le più settentrionalicrescevano a piedi del Vesuvio a più modesta prosperità.Quei di Cuma, abbandonando l'ubertosa isola Enaria(Ischia), passarono sul continente e si edificarono unaseconda città su una collina vicino al mare, e fondaronopoi la città portuale di Dicearchia (più tardi Puteoli), esuccessivamente la città nuova, Neapolis.

Essi vivevano, come in generale le città calcidiche inItalia e in Sicilia, secondo le leggi dettate (verso l'anno100 = 650) da Caronda di Catania, con una costituzionedemocratica, temperata però dall'elevato censo, che affi-dava il potere nelle mani di un consiglio di mille mem-bri scelti fra i più ricchi – costituzione sperimentata, chevalse a preservare queste città dalla tirannide del popo-lo.

Poco sappiamo di questi Greci campani. O per forza oper volontà propria essi si restrinsero ancor più dei Ta-rentini entro i termini di un angusto territorio e non pro-vocando gli indigeni con modi da conquistatori e op-pressori, ma trattando e trafficando con essi pacifica-

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mente, si assicurarono una prospera esistenza e preseronello stesso tempo il primo posto fra i missionari dellaciviltà greca in Italia.

7 Relazione del paese adriatico coi Greci. Se delledue coste dello stretto di Messina, tutta la costa meridio-nale ed occidentale sino al Vesuvio, e la costa siculaorientale erano in potere dei Greci, essenzialmente di-verse erano le condizioni dei lidi occidentali a nord delVesuvio e di tutto il litorale orientale d'Italia. In nessunpunto del litorale italico dell'Adriatico abbiamo trovatotraccia di colonie greche; per cui ci si spiega molto ra-gionevolmente lo scarso numero di colonie grechesull'opposta riva illirica e sulle tante isole che le servonoquasi d'antemurale.

Furono bensì fondate, ne' tempi in cui Roma si regge-va ancora a monarchia, due ragguardevoli città commer-ciali sulla parte di questa costa più prossima alla Grecia.Epidamnos (poscia Dyrrachion, Durazzo, nell'anno 127= 587) e Apollonia (presso Aulona, verso il 167 = 627),ma procedendo più su verso settentrione, non vi è alcu-na antica colonia greca, eccettuatane forse l'insignifican-te colonia di Corzola, verso il (174 = 580). Non si sa an-cor bene perchè la colonizzazione greca si manifesticosì meschina appunto da questo lato, ove la natura stes-sa sembrava guidare gli Elleni e dove da tempi antichis-simi era organizzata di fatto una carovana mercantileche partiva da Corinto e più ancora dalla colonia stabili-ta a Corcira (Corfù) non molto tempo dopo la fondazio-

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mente, si assicurarono una prospera esistenza e preseronello stesso tempo il primo posto fra i missionari dellaciviltà greca in Italia.

7 Relazione del paese adriatico coi Greci. Se delledue coste dello stretto di Messina, tutta la costa meridio-nale ed occidentale sino al Vesuvio, e la costa siculaorientale erano in potere dei Greci, essenzialmente di-verse erano le condizioni dei lidi occidentali a nord delVesuvio e di tutto il litorale orientale d'Italia. In nessunpunto del litorale italico dell'Adriatico abbiamo trovatotraccia di colonie greche; per cui ci si spiega molto ra-gionevolmente lo scarso numero di colonie grechesull'opposta riva illirica e sulle tante isole che le servonoquasi d'antemurale.

Furono bensì fondate, ne' tempi in cui Roma si regge-va ancora a monarchia, due ragguardevoli città commer-ciali sulla parte di questa costa più prossima alla Grecia.Epidamnos (poscia Dyrrachion, Durazzo, nell'anno 127= 587) e Apollonia (presso Aulona, verso il 167 = 627),ma procedendo più su verso settentrione, non vi è alcu-na antica colonia greca, eccettuatane forse l'insignifican-te colonia di Corzola, verso il (174 = 580). Non si sa an-cor bene perchè la colonizzazione greca si manifesticosì meschina appunto da questo lato, ove la natura stes-sa sembrava guidare gli Elleni e dove da tempi antichis-simi era organizzata di fatto una carovana mercantileche partiva da Corinto e più ancora dalla colonia stabili-ta a Corcira (Corfù) non molto tempo dopo la fondazio-

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ne di Roma (verso il 44 = 710), le cui stazioni interme-die erano le città di Spina e Adria alla foce del Po. Letempeste del mare Adriatico, la inospitalità delle costeliburniche, la rozzezza degli indigeni non bastano aspiegare questo fatto. Ma fu per l'Italia cosa di gran con-seguenza che gli elementi di civiltà venutile dall'orientenon vi penetrassero primamente per la costiera orientale,ma invece giungessero a lei dai paesi occidentali. Persi-no nel traffico concorreva con Corinto e con Corcira, lapiù orientale città commerciale della Magna Grecia, Ta-ranto la dorica, che, col possesso d'Hydrus (Otranto), si-gnoreggiava dalla parte italica l'ingresso nel mareAdriatico. Siccome oltre i porti alla foce del Po, non esi-stevano in quel tempo, su tutta la spiaggia adriatica, rag-guardevoli empori – giacchè Ancona fiorì lungo tempopiù tardi, e più tardi ancora Brindisi (Brundusium) – èchiaro che i navigatori d'Epidamnos e d'Apollonia dove-vano sbarcare sovente in Taranto le loro merci. I Taren-tini erano in istrette relazioni coll'Apulia anche per lavia di terra. A questa cagione si deve connettere ogni in-dizio di coltura greca nel sud-est d'Italia. Ma ad essa siriferiscono soltanto i primi rudimenti; l'ellenismo dellaPuglia ebbe incremento e forma solo in un'epoca poste-riore.

8 Relazioni degli Italici occidentali coi Greci.Non si potrebbe del resto dubitare che la costa occiden-tale d'Italia sia stata negli antichi tempi frequentata dagliElleni anche a settentrione del Vesuvio, e che siano esi-

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ne di Roma (verso il 44 = 710), le cui stazioni interme-die erano le città di Spina e Adria alla foce del Po. Letempeste del mare Adriatico, la inospitalità delle costeliburniche, la rozzezza degli indigeni non bastano aspiegare questo fatto. Ma fu per l'Italia cosa di gran con-seguenza che gli elementi di civiltà venutile dall'orientenon vi penetrassero primamente per la costiera orientale,ma invece giungessero a lei dai paesi occidentali. Persi-no nel traffico concorreva con Corinto e con Corcira, lapiù orientale città commerciale della Magna Grecia, Ta-ranto la dorica, che, col possesso d'Hydrus (Otranto), si-gnoreggiava dalla parte italica l'ingresso nel mareAdriatico. Siccome oltre i porti alla foce del Po, non esi-stevano in quel tempo, su tutta la spiaggia adriatica, rag-guardevoli empori – giacchè Ancona fiorì lungo tempopiù tardi, e più tardi ancora Brindisi (Brundusium) – èchiaro che i navigatori d'Epidamnos e d'Apollonia dove-vano sbarcare sovente in Taranto le loro merci. I Taren-tini erano in istrette relazioni coll'Apulia anche per lavia di terra. A questa cagione si deve connettere ogni in-dizio di coltura greca nel sud-est d'Italia. Ma ad essa siriferiscono soltanto i primi rudimenti; l'ellenismo dellaPuglia ebbe incremento e forma solo in un'epoca poste-riore.

8 Relazioni degli Italici occidentali coi Greci.Non si potrebbe del resto dubitare che la costa occiden-tale d'Italia sia stata negli antichi tempi frequentata dagliElleni anche a settentrione del Vesuvio, e che siano esi-

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stite delle fattorie elleniche nelle isole e nei promontori.La più antica prova di simili relazioni nautiche la trovia-mo nei particolari della leggenda d'Odisseo in quellaparte che riguarda le coste del mar Tirreno62. Se si cre-dette di riconoscere le isole d'Eolo nelle Lipari, l'isola diCalipso nel promontorio Lacinio, nel Miseno l'isola del-le Sirene, nel Circeo l'isola di Circe, se si ravvisò nelloscosceso territorio di Terracina l'assurgente tomba di El-penore, se si pensò di trovare presso Gaeta e Formia ilregno dei Lestrigoni, se si credette che i due figli diUlisse e di Circe, Agrio, che vuol dir selvaggio, e Lati-no, dominassero sui Tirreni «nel più interno angolo del-le sacre isole» o se altri venuto più tardi immaginò cheLatino fosse figlio di Ulisse e di Circe, Ausonio figlio diUlisse e di Calipso, codeste sono antiche fantasie di na-vigatori jonii, che sul mar Tirreno pensavano alla lorocara patria63. Quella medesima fresca vivezza di senti-mento che brilla nel grande poema jonico intorno ai

62 I più antichi scritti greci che contengono questa tirrena leg-genda d'Ulisse, sono la Teogonia di Esiodo ne' suoi ultimi versi,poi gli scrittori dei tempi che precedettero di poco AlessandroEforo, dal quale è sorto il cosidetto Scimno e il cosidetto Scilace.Ma la prima di queste sorgenti appartiene ad un'epoca in cui iGreci credevano l'Italia ancora un gruppo d'isole, ed è quindi cer-tamente antichissima; epperò l'apparizione di queste favole si puòfar con certezza risalire ai tempi dei re romani.

63 [Uno studioso romano, il dott. Leonardi, al lume degli ulti-mi ritrovamenti archeologici e con una ricca documentazione, inuna serie di articoli ha dimostrato che l'esistenza di Circe nel Cir-ceo non è tutta leggenda.]

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stite delle fattorie elleniche nelle isole e nei promontori.La più antica prova di simili relazioni nautiche la trovia-mo nei particolari della leggenda d'Odisseo in quellaparte che riguarda le coste del mar Tirreno62. Se si cre-dette di riconoscere le isole d'Eolo nelle Lipari, l'isola diCalipso nel promontorio Lacinio, nel Miseno l'isola del-le Sirene, nel Circeo l'isola di Circe, se si ravvisò nelloscosceso territorio di Terracina l'assurgente tomba di El-penore, se si pensò di trovare presso Gaeta e Formia ilregno dei Lestrigoni, se si credette che i due figli diUlisse e di Circe, Agrio, che vuol dir selvaggio, e Lati-no, dominassero sui Tirreni «nel più interno angolo del-le sacre isole» o se altri venuto più tardi immaginò cheLatino fosse figlio di Ulisse e di Circe, Ausonio figlio diUlisse e di Calipso, codeste sono antiche fantasie di na-vigatori jonii, che sul mar Tirreno pensavano alla lorocara patria63. Quella medesima fresca vivezza di senti-mento che brilla nel grande poema jonico intorno ai

62 I più antichi scritti greci che contengono questa tirrena leg-genda d'Ulisse, sono la Teogonia di Esiodo ne' suoi ultimi versi,poi gli scrittori dei tempi che precedettero di poco AlessandroEforo, dal quale è sorto il cosidetto Scimno e il cosidetto Scilace.Ma la prima di queste sorgenti appartiene ad un'epoca in cui iGreci credevano l'Italia ancora un gruppo d'isole, ed è quindi cer-tamente antichissima; epperò l'apparizione di queste favole si puòfar con certezza risalire ai tempi dei re romani.

63 [Uno studioso romano, il dott. Leonardi, al lume degli ulti-mi ritrovamenti archeologici e con una ricca documentazione, inuna serie di articoli ha dimostrato che l'esistenza di Circe nel Cir-ceo non è tutta leggenda.]

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viaggi d'Ulisse, si rivela di nuovo nella immaginosa lo-calizzazione della medesima leggenda poetica sul lidodi Cuma, e in tutta la regione marittima praticata da na-vicellai cumani. Altri indizi di queste antichissime corseci offrono i nomi greci delle isole, come Aethalia (Iva,Elba), la quale con Aenaria (Ischia) appartiene ai luoghiche furono i primi occupati dai Greci, e forse anche ilporto di Telamone nell'Etruria; inoltre sulla spiaggia diCere i due luoghi Pyrgi (presso S. Severa) e Alsion(presso Palo), ove non solo i nomi provano incontesta-bilmente l'origine greca, ma lo prova anche l'architetturanazionale delle mura di Pyrgi sì essenzialmente diversadalla ceritica ed in generale dall'etrusca. L'isola d'Elba(Aethalia) detta «l'isola del fuoco» colle sue ricche mi-niere di rame e particolarmente di ferro, deve aver avutola pare principale in questo commercio, e la coloniastraniera deve avere stabilito nella stessa il punto centra-le del suo traffico cogli indigeni, tanto più che la fusionedei metalli non poteva farsi su quella piccola isola, po-vera di foreste, senza commercio colla terra ferma.

I Greci avevano forse conoscenza anche della minierad'argento di Populonia, posta sul promontorio che fron-teggia l'isola d'Elba. Se gli stranieri, seguendo gli usi diquei tempi, associavano ai traffici marittimi la pirateria,e quando l'occasione si presentava il saccheggio e la ri-duzione in schiavitù degli indigeni, questi alla loro voltausavano del diritto di rappresaglia; e che Latini e i Tirre-ni l'abbiano fatto con maggiore energia e con migliorfortuna che non i loro vicini dell'Italia meridionale, ne

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viaggi d'Ulisse, si rivela di nuovo nella immaginosa lo-calizzazione della medesima leggenda poetica sul lidodi Cuma, e in tutta la regione marittima praticata da na-vicellai cumani. Altri indizi di queste antichissime corseci offrono i nomi greci delle isole, come Aethalia (Iva,Elba), la quale con Aenaria (Ischia) appartiene ai luoghiche furono i primi occupati dai Greci, e forse anche ilporto di Telamone nell'Etruria; inoltre sulla spiaggia diCere i due luoghi Pyrgi (presso S. Severa) e Alsion(presso Palo), ove non solo i nomi provano incontesta-bilmente l'origine greca, ma lo prova anche l'architetturanazionale delle mura di Pyrgi sì essenzialmente diversadalla ceritica ed in generale dall'etrusca. L'isola d'Elba(Aethalia) detta «l'isola del fuoco» colle sue ricche mi-niere di rame e particolarmente di ferro, deve aver avutola pare principale in questo commercio, e la coloniastraniera deve avere stabilito nella stessa il punto centra-le del suo traffico cogli indigeni, tanto più che la fusionedei metalli non poteva farsi su quella piccola isola, po-vera di foreste, senza commercio colla terra ferma.

I Greci avevano forse conoscenza anche della minierad'argento di Populonia, posta sul promontorio che fron-teggia l'isola d'Elba. Se gli stranieri, seguendo gli usi diquei tempi, associavano ai traffici marittimi la pirateria,e quando l'occasione si presentava il saccheggio e la ri-duzione in schiavitù degli indigeni, questi alla loro voltausavano del diritto di rappresaglia; e che Latini e i Tirre-ni l'abbiano fatto con maggiore energia e con migliorfortuna che non i loro vicini dell'Italia meridionale, ne

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abbiamo la prova non solo nelle stesse leggende joni-che, ma innanzi tutto nel successo che ebbero. In questipaesi riuscì agli Italici di difendersi dagli stranieri e nonsolo rimanere in possesso delle proprie città commercia-li e dei propri porti, ma anche di rimaner padroni delloro mare.

Quella stessa invasione ellenica che oppresse ed elle-nizzò le tribù dell'Italia meridionale, ha avviato i popolidell'Italia centrale alle arti del navigare e del fondare cit-tà; e i Greci furono in ciò, loro malgrado, maestri di co-loro dei quali avrebbero voluto essere padroni. Gli Itali-ci devono allora aver cambiato la zattera e il canottocolla galera a remi dei Fenici e dei Greci. Qui soltantos'incontrano grandi città commerciali, e prima di tutteCere nell'Etruria meridionale, e Roma sulle rive del Te-vere, le quali per il loro nome italico e per la loro posi-zione a qualche distanza dal mare, come Spina e Adriaalla foce del Po, città commerciali d'egual natura, e più amezzodì Arimino, non mostrano alcun carattere greco,ma sono fondazioni italiche.

Come facilmente si può immaginare, noi non siamoin grado di esporre il processo storico di questa antichis-sima reazione della nazionalità italica contro l'invasionestraniera; ma nondimeno si può stabilire un fatto, che fupoi della massima importanza pel successivo sviluppod'Italia, ed è che questa reazione prese nel Lazio enell'Etruria meridionale una via diversa di quella che se-guirono i paesi etruschi propriamente detti e gli adiacen-ti.

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abbiamo la prova non solo nelle stesse leggende joni-che, ma innanzi tutto nel successo che ebbero. In questipaesi riuscì agli Italici di difendersi dagli stranieri e nonsolo rimanere in possesso delle proprie città commercia-li e dei propri porti, ma anche di rimaner padroni delloro mare.

Quella stessa invasione ellenica che oppresse ed elle-nizzò le tribù dell'Italia meridionale, ha avviato i popolidell'Italia centrale alle arti del navigare e del fondare cit-tà; e i Greci furono in ciò, loro malgrado, maestri di co-loro dei quali avrebbero voluto essere padroni. Gli Itali-ci devono allora aver cambiato la zattera e il canottocolla galera a remi dei Fenici e dei Greci. Qui soltantos'incontrano grandi città commerciali, e prima di tutteCere nell'Etruria meridionale, e Roma sulle rive del Te-vere, le quali per il loro nome italico e per la loro posi-zione a qualche distanza dal mare, come Spina e Adriaalla foce del Po, città commerciali d'egual natura, e più amezzodì Arimino, non mostrano alcun carattere greco,ma sono fondazioni italiche.

Come facilmente si può immaginare, noi non siamoin grado di esporre il processo storico di questa antichis-sima reazione della nazionalità italica contro l'invasionestraniera; ma nondimeno si può stabilire un fatto, che fupoi della massima importanza pel successivo sviluppod'Italia, ed è che questa reazione prese nel Lazio enell'Etruria meridionale una via diversa di quella che se-guirono i paesi etruschi propriamente detti e gli adiacen-ti.

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9 Elleni e Latini. Già le leggende greche contrap-pongono in modo significativo il Latino al «selvaggioTirreno» e le pacifiche spiagge della foce del Tevere allido inospitale dei Volsci. Ma non si vuol già dire conciò che la colonizzazione greca fosse stata tollerata inalcuni paesi dell'Italia centrale e in altri fosse stata re-spinta. A settentrione del Vesuvio non troviamo alcunluogo, almeno ne' tempi storici, in cui sorgesse una co-lonia greca autonoma; e se Pirgo (Pyrgi) lo fu una volta,essa deve però esser ricaduta sotto il dominio degli Itali-ci, cioè di Cere, prima del tempo in cui comincia la no-stra storica tradizione. Ed è notevole che tanto sulla co-sta dell'Etruria meridionale e del Lazio, quanto su quellaorientale, il pacifico traffico coi mercanti stranieri eraprospero e protetto, ciò che non accadeva sull'altro lito-rale italico. Va soprattutto considerato quale posto in ciòoccupasse Cere. «I Ceriti» dice Strabone «erano tenutiin gran conto dagli Elleni per il loro valore e per la lorogiustizia, e perchè, quantunque potenti, si astenevanodal predare». E qui non si deve intendere che i merca-tanti di Cere si astenessero dal corseggiare, cosa abitua-le a tutti i popoli marittimi, ma che Cere era una speciedi porto franco pei Fenici, quanto pei Greci.

Noi abbiamo già fatto menzione della stazione feniciapoi detta Punicum, e delle altre due elleniche Pirgo e Al-sio; questi erano i porti che i Ceriti si astenevano dalmettere a sacco, e questa fu senza dubbio la cagione, percui Cere, con una cattiva rada e nessuna miniera ne' suoidintorni, venne in breve tempo a grande prosperità e ac-

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9 Elleni e Latini. Già le leggende greche contrap-pongono in modo significativo il Latino al «selvaggioTirreno» e le pacifiche spiagge della foce del Tevere allido inospitale dei Volsci. Ma non si vuol già dire conciò che la colonizzazione greca fosse stata tollerata inalcuni paesi dell'Italia centrale e in altri fosse stata re-spinta. A settentrione del Vesuvio non troviamo alcunluogo, almeno ne' tempi storici, in cui sorgesse una co-lonia greca autonoma; e se Pirgo (Pyrgi) lo fu una volta,essa deve però esser ricaduta sotto il dominio degli Itali-ci, cioè di Cere, prima del tempo in cui comincia la no-stra storica tradizione. Ed è notevole che tanto sulla co-sta dell'Etruria meridionale e del Lazio, quanto su quellaorientale, il pacifico traffico coi mercanti stranieri eraprospero e protetto, ciò che non accadeva sull'altro lito-rale italico. Va soprattutto considerato quale posto in ciòoccupasse Cere. «I Ceriti» dice Strabone «erano tenutiin gran conto dagli Elleni per il loro valore e per la lorogiustizia, e perchè, quantunque potenti, si astenevanodal predare». E qui non si deve intendere che i merca-tanti di Cere si astenessero dal corseggiare, cosa abitua-le a tutti i popoli marittimi, ma che Cere era una speciedi porto franco pei Fenici, quanto pei Greci.

Noi abbiamo già fatto menzione della stazione feniciapoi detta Punicum, e delle altre due elleniche Pirgo e Al-sio; questi erano i porti che i Ceriti si astenevano dalmettere a sacco, e questa fu senza dubbio la cagione, percui Cere, con una cattiva rada e nessuna miniera ne' suoidintorni, venne in breve tempo a grande prosperità e ac-

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quistò nel più antico commercio greco importanza mag-giore di quella delle città italiche poste alle foci del Te-vere e del Po, e destinate dalla stessa natura ad esseregrandi empori.

Codeste città sono anche quelle che risultano in anti-chissime relazioni religiose con la Grecia. Il primo fratutti i barbari a far doni a Giove olimpico fu il re etruscoArimno, forse uno dei sovrani di Arimino. Spina e Cereavevano nel tempio d'Apollo delfico i loro propri tesori,come altri comuni che si trovavano in regolari rapporticol santuario; e tanto l'oracolo di Delfo quanto quello diCuma s'inseriscono nella più antica tradizione ceritica eromana. Queste città, in cui gli Italici vivevano tranquil-lamente e trafficavano pacificamente coi commerciantistranieri, divennero prima di tutto ricche e potenti, ecome furono gli scali per le merci elleniche, così furonole prime stazioni della civiltà ellenica.

10 Elleni e Etruschi. Potenza marittima degliEtruschi. Diverse furono invece le condizioni dei «sel-vaggi Tirreni». Quelle stesse cause che avevano condot-to i paesi latini e quelli situati sulla riva destra del Teve-re e presso la foce del Po (paesi soggetti alla supremaziaetrusca, forse, più che veramente etruschi) a respingeregli avventurieri e a tener testa almeno nelle loro acquealla marineria straniera, diedero origine nell'Etruria pro-priamente detta alla pirateria, e al tentativo di predomi-nio marittimo, sia che a ciò fossero indotti gli Etruschidal loro carattere avido e violento sia per altri motivi.

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quistò nel più antico commercio greco importanza mag-giore di quella delle città italiche poste alle foci del Te-vere e del Po, e destinate dalla stessa natura ad esseregrandi empori.

Codeste città sono anche quelle che risultano in anti-chissime relazioni religiose con la Grecia. Il primo fratutti i barbari a far doni a Giove olimpico fu il re etruscoArimno, forse uno dei sovrani di Arimino. Spina e Cereavevano nel tempio d'Apollo delfico i loro propri tesori,come altri comuni che si trovavano in regolari rapporticol santuario; e tanto l'oracolo di Delfo quanto quello diCuma s'inseriscono nella più antica tradizione ceritica eromana. Queste città, in cui gli Italici vivevano tranquil-lamente e trafficavano pacificamente coi commerciantistranieri, divennero prima di tutto ricche e potenti, ecome furono gli scali per le merci elleniche, così furonole prime stazioni della civiltà ellenica.

10 Elleni e Etruschi. Potenza marittima degliEtruschi. Diverse furono invece le condizioni dei «sel-vaggi Tirreni». Quelle stesse cause che avevano condot-to i paesi latini e quelli situati sulla riva destra del Teve-re e presso la foce del Po (paesi soggetti alla supremaziaetrusca, forse, più che veramente etruschi) a respingeregli avventurieri e a tener testa almeno nelle loro acquealla marineria straniera, diedero origine nell'Etruria pro-priamente detta alla pirateria, e al tentativo di predomi-nio marittimo, sia che a ciò fossero indotti gli Etruschidal loro carattere avido e violento sia per altri motivi.

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Epperò non si accontentarono essi di cacciare i Grecidall'isola d'Elba (Aethalia) e da Populonia, ma pare chenon tollerassero sulle loro spiagge neppure i mercantiprivati e che in breve volgere di tempo i loro pirati cor-seggiassero il mare a grande distanza, facendo che ilnome dei Tirreni divenisse il terrore dei Greci; nè fusenza motivo che i Greci riconobbero per invenzioneetrusca l'uncino d'arrembaggio, e chiamarono mareEtrusco tutto il mare ad occidente della penisola italica.

Con quanta rapidità e con quanta furia que' corsariselvaggi si andassero estendendo particolarmente nelmar Tirreno, lo prova il loro stabilimento sulla spiaggialatina e campana. Si mantennero, a dir vero, i Latini nelLazio propriamente detto, ed i Greci alle falde del Vesu-vio, ma tra loro e accanto a loro imperavano gli Etruschiin Anzio e in Sorrento. I Volsci entrarono sotto la clien-tela degli Etruschi, e questi traevano dalle loro foreste lechiglie per le galere; e se la pirateria di quelli d'Anzionon ebbe fine che quando i Romani occuparono quelporto, si capisce benissimo, perchè i navigatori grecichiamassero il lido dei Volsci meridionali il lido dei Le-strigoni.

L'alto promontorio di Sorrento, con la scoscesa einapprodabile Capri, la quale pare proprio una rocca dipirati sorgente tra i seni di Napoli e di Salerno come ve-detta del mar Tirreno, era già prima venuto in potere de-gli Etruschi, che si pretende abbiano persino fondatonella Campania una propria lega di dodici città; e sicco-me anche ai tempi compiutamente storici nell'interno

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Epperò non si accontentarono essi di cacciare i Grecidall'isola d'Elba (Aethalia) e da Populonia, ma pare chenon tollerassero sulle loro spiagge neppure i mercantiprivati e che in breve volgere di tempo i loro pirati cor-seggiassero il mare a grande distanza, facendo che ilnome dei Tirreni divenisse il terrore dei Greci; nè fusenza motivo che i Greci riconobbero per invenzioneetrusca l'uncino d'arrembaggio, e chiamarono mareEtrusco tutto il mare ad occidente della penisola italica.

Con quanta rapidità e con quanta furia que' corsariselvaggi si andassero estendendo particolarmente nelmar Tirreno, lo prova il loro stabilimento sulla spiaggialatina e campana. Si mantennero, a dir vero, i Latini nelLazio propriamente detto, ed i Greci alle falde del Vesu-vio, ma tra loro e accanto a loro imperavano gli Etruschiin Anzio e in Sorrento. I Volsci entrarono sotto la clien-tela degli Etruschi, e questi traevano dalle loro foreste lechiglie per le galere; e se la pirateria di quelli d'Anzionon ebbe fine che quando i Romani occuparono quelporto, si capisce benissimo, perchè i navigatori grecichiamassero il lido dei Volsci meridionali il lido dei Le-strigoni.

L'alto promontorio di Sorrento, con la scoscesa einapprodabile Capri, la quale pare proprio una rocca dipirati sorgente tra i seni di Napoli e di Salerno come ve-detta del mar Tirreno, era già prima venuto in potere de-gli Etruschi, che si pretende abbiano persino fondatonella Campania una propria lega di dodici città; e sicco-me anche ai tempi compiutamente storici nell'interno

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del paese trovavansi città che parlavano la lingua etru-sca, così è verosimile che anch'esse siano state fondatedagli Etruschi nel tempo della loro signoria sulle acquecampane e della loro gara coi Cumani stanziati intornoal Vesuvio. Non si limitarono però, gli Etruschi a preda-re e saccheggiare. Sono prove del loro pacifico commer-cio con qualche popolo greco principalmente le moneted'argento che la città di Populonia, cominciandodell'anno 200 di Roma (= 554) fece coniare su modelligreci e sulla misura greca; ma nel tempo stesso ci è indi-zio dell'ostile posizione degli Etruschi rispetto ai Greciitalici il fatto che queste monete imitano non le drammedella Magna Grecia ma le attiche allora in corsonell'Attica e in Sicilia64. E veramente gli Etruschi si tro-vavano, per commerciare, in più favorevole situazione,e di gran lunga più opportuna, che gli abitanti del Lazio.A cavallo dei due mari, essi possedevano il gran portoitalico sul mare occidentale, sull'orientale la foce del Poe la Venezia di quel tempo, e dominavano la via di terrache dalle più antiche età conduceva da Pisa, sul Tirreno,a Spina sull'Adriatico, e nell'Italia meridionale tenevanogli ubertosi piani di Capua e di Nola. In loro mano eranole principali materie dell'esportazione italica, il ferrodell'Elba, il rame di Volterra e della Campania, l'argentodi Populonia e persino l'ambra che ad essi giungeva dal

64 Didramme, doppie dramme, che giusta il Balbi avevano inantico il valore di una lira e 85 cent.; ma che più tardi discesero ti1,6. Le dramme degli Jonii asiatici erano minori, non raggua-gliandosi che a L. 1,03.

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del paese trovavansi città che parlavano la lingua etru-sca, così è verosimile che anch'esse siano state fondatedagli Etruschi nel tempo della loro signoria sulle acquecampane e della loro gara coi Cumani stanziati intornoal Vesuvio. Non si limitarono però, gli Etruschi a preda-re e saccheggiare. Sono prove del loro pacifico commer-cio con qualche popolo greco principalmente le moneted'argento che la città di Populonia, cominciandodell'anno 200 di Roma (= 554) fece coniare su modelligreci e sulla misura greca; ma nel tempo stesso ci è indi-zio dell'ostile posizione degli Etruschi rispetto ai Greciitalici il fatto che queste monete imitano non le drammedella Magna Grecia ma le attiche allora in corsonell'Attica e in Sicilia64. E veramente gli Etruschi si tro-vavano, per commerciare, in più favorevole situazione,e di gran lunga più opportuna, che gli abitanti del Lazio.A cavallo dei due mari, essi possedevano il gran portoitalico sul mare occidentale, sull'orientale la foce del Poe la Venezia di quel tempo, e dominavano la via di terrache dalle più antiche età conduceva da Pisa, sul Tirreno,a Spina sull'Adriatico, e nell'Italia meridionale tenevanogli ubertosi piani di Capua e di Nola. In loro mano eranole principali materie dell'esportazione italica, il ferrodell'Elba, il rame di Volterra e della Campania, l'argentodi Populonia e persino l'ambra che ad essi giungeva dal

64 Didramme, doppie dramme, che giusta il Balbi avevano inantico il valore di una lira e 85 cent.; ma che più tardi discesero ti1,6. Le dramme degli Jonii asiatici erano minori, non raggua-gliandosi che a L. 1,03.

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Baltico. Sotto la protezione della loro pirateria, che di-ventava quasi un rozzo atto di navigazione, il loro com-mercio doveva necessariamente fiorire; nè deve recarmeraviglia se a Sibari il mercante etrusco facesse con-correnza al milesio, nè se da quella combinazione di pi-rateria e di commercio all'ingrosso nascesse al lussosmisurato e insensato in cui la forza dell'Etruria andòprematuramente logorandosi.

11 Rivalità tra Fenici ed Elleni. Se dunque gli Etru-schi e, quantunque in minor grado i Latini resistevano inItalia agli Elleni e in parte si mostravano loro ostili, que-sto contrasto dovette in certo modo connettersi conquella rivalità che dominava allora il commercio e la na-vigazione in tutto il mare Mediterraneo: la rivalità cioètra i Fenici e gli Elleni. Non è qui il luogo per narraredettagliatamente come durante l'epoca dei re romaniqueste due grandi nazioni contendessero tra loro il pri-mato sulle spiagge mediterranee e greche e della stessaAsia minore, a Creta e a Cipro, sui lidi africani, spa-gnuoli e celtici. Questa lotta non fu combattuta imme-diatamente sul suolo italico, ma le conseguenze furonoperò sentite profondamente e lungamente anche in Ita-lia. La vivace energia e le più universali doti dei giovanirivali dei Fenici prevalsero da principio su tutti i punti;gli Elleni non solo distrussero le fattorie fenicie sorte inEuropa e in Asia, ma discacciarono i Fenici da Creta eda Cipro, si stabilirono in Egitto e a Cirene, s'imposses-sarono dell'Italia inferiore e della maggior parte orienta-

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Baltico. Sotto la protezione della loro pirateria, che di-ventava quasi un rozzo atto di navigazione, il loro com-mercio doveva necessariamente fiorire; nè deve recarmeraviglia se a Sibari il mercante etrusco facesse con-correnza al milesio, nè se da quella combinazione di pi-rateria e di commercio all'ingrosso nascesse al lussosmisurato e insensato in cui la forza dell'Etruria andòprematuramente logorandosi.

11 Rivalità tra Fenici ed Elleni. Se dunque gli Etru-schi e, quantunque in minor grado i Latini resistevano inItalia agli Elleni e in parte si mostravano loro ostili, que-sto contrasto dovette in certo modo connettersi conquella rivalità che dominava allora il commercio e la na-vigazione in tutto il mare Mediterraneo: la rivalità cioètra i Fenici e gli Elleni. Non è qui il luogo per narraredettagliatamente come durante l'epoca dei re romaniqueste due grandi nazioni contendessero tra loro il pri-mato sulle spiagge mediterranee e greche e della stessaAsia minore, a Creta e a Cipro, sui lidi africani, spa-gnuoli e celtici. Questa lotta non fu combattuta imme-diatamente sul suolo italico, ma le conseguenze furonoperò sentite profondamente e lungamente anche in Ita-lia. La vivace energia e le più universali doti dei giovanirivali dei Fenici prevalsero da principio su tutti i punti;gli Elleni non solo distrussero le fattorie fenicie sorte inEuropa e in Asia, ma discacciarono i Fenici da Creta eda Cipro, si stabilirono in Egitto e a Cirene, s'imposses-sarono dell'Italia inferiore e della maggior parte orienta-

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le dell'isola di Sicilia. Ovunque le piccole stazioni com-merciali dei Fenici soggiacevano alla colonizzazione piùenergica dei Greci. Era già stata fondata anche nella Si-cilia occidentale Selinunte (126 = 628) e Akragas (174= 450) e gli audaci Focesi dell'Asia minore già avevanoveleggiato ne' più riposti seni del mare occidentale, edi-ficata Massalia sul lido celtico (verso l'anno 150 = 160)ed esplorate le coste della Spagna. Ma verso la metà delsecolo secondo si arresta improvvisamente il progressodella colonizzazione ellenica, e non v'è dubbio che lacausa di questo arresto fu l'entrata in azione della piùpotente delle colonie fenicie sorta sulla riva libica, Car-tagine, nel momento preciso in cui tutta la schiatta feni-cia era minacciata nella propria esistenza. E se, dopoaver aperto le vie al commercio marittimo, i Fenici si vi-dero spodestati dell'assoluta signoria sul Mediterraneo esulle vie di comunicazione tra il bacino orientale el'occidentale di quel mare, e privati del controllo di tuttoil commercio fra l'oriente e l'occidente, essi poterono al-meno salvare ancora il loro dominio sui mari che stannofra la Sicilia, la Sardegna e la Spagna; e a questo intentoCartagine impiegò tutta la tenacia e la sagace energiapropria della schiatta aramea. Da questo momento i Fe-nici, nel fondar colonie e nell'amministrare le guerre, se-guirono un nuovo e diverso sistema. I più antichi stabili-menti dei Fenici, come ad esempio la colonia siciliana,di cui parla Tucidide, non erano che semplici fattoriemercantili; Cartagine invece prese possesso di vasti epopolosi paesi, ed eresse grandi fortezze. Se fino allora

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le dell'isola di Sicilia. Ovunque le piccole stazioni com-merciali dei Fenici soggiacevano alla colonizzazione piùenergica dei Greci. Era già stata fondata anche nella Si-cilia occidentale Selinunte (126 = 628) e Akragas (174= 450) e gli audaci Focesi dell'Asia minore già avevanoveleggiato ne' più riposti seni del mare occidentale, edi-ficata Massalia sul lido celtico (verso l'anno 150 = 160)ed esplorate le coste della Spagna. Ma verso la metà delsecolo secondo si arresta improvvisamente il progressodella colonizzazione ellenica, e non v'è dubbio che lacausa di questo arresto fu l'entrata in azione della piùpotente delle colonie fenicie sorta sulla riva libica, Car-tagine, nel momento preciso in cui tutta la schiatta feni-cia era minacciata nella propria esistenza. E se, dopoaver aperto le vie al commercio marittimo, i Fenici si vi-dero spodestati dell'assoluta signoria sul Mediterraneo esulle vie di comunicazione tra il bacino orientale el'occidentale di quel mare, e privati del controllo di tuttoil commercio fra l'oriente e l'occidente, essi poterono al-meno salvare ancora il loro dominio sui mari che stannofra la Sicilia, la Sardegna e la Spagna; e a questo intentoCartagine impiegò tutta la tenacia e la sagace energiapropria della schiatta aramea. Da questo momento i Fe-nici, nel fondar colonie e nell'amministrare le guerre, se-guirono un nuovo e diverso sistema. I più antichi stabili-menti dei Fenici, come ad esempio la colonia siciliana,di cui parla Tucidide, non erano che semplici fattoriemercantili; Cartagine invece prese possesso di vasti epopolosi paesi, ed eresse grandi fortezze. Se fino allora

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le colonie fenicie si erano trovate divise e disgregate difronte ai Greci, la potente città libica concentrò intornoa sè tutte le forze dei popoli a lei affini per origine, conun vigore di cui non troviamo alcun riscontro nella sto-ria greca.

12 Fenici e Italici contro gli Ellenici. Ma quantoalle conseguenze che dovevano scaturirne, il momentoforse più importante di questo sforzo dei Fenici contro iGreci è quello in cui i Cartaginesi, sentendosi più debolidegli avversari s'associarono, nella difesa, ai popoli in-digeni della Sicilia e dell'Italia. Quanto i Gnidii e i Ro-dioti l'anno 175 = 579 tentarono di stabilirsi presso Lili-beo, proprio nel bel mezzo delle colonie puniche in Sici-lia, furono gli isolani a scacciarli, gli Elimi di Segestecongiunti coi Fenici. Quando l'anno 217 = 537 i Focesisi stabilirono in Alalia (Aleria) sul lido di Corsica difronte a Cere, furono combattuti dalle flotte unite degliEtruschi e de' Cartaginesi, che con centoventi vele ven-nero a snidare i Greci; e benchè la flotta dei Focesi riu-scisse, se crediamo agli scrittori greci, vittoriosa nellabattaglia navale – una delle più antiche che la storia ri-cordi – convien dire, chi guarda agli effetti, che i Focesin'ebbero il capo rotto, poichè si ritrassero dalla Corsicae vennero a stabilirsi nella costa, meno lontana ed espo-sta, della Lucania in Hyele (Velia).

Un trattato concluso fra l'Etruria e Cartagine non solostatuiva le norme per l'introduzione delle merci e per laprocedura commerciale, ma accennava anche ad una

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le colonie fenicie si erano trovate divise e disgregate difronte ai Greci, la potente città libica concentrò intornoa sè tutte le forze dei popoli a lei affini per origine, conun vigore di cui non troviamo alcun riscontro nella sto-ria greca.

12 Fenici e Italici contro gli Ellenici. Ma quantoalle conseguenze che dovevano scaturirne, il momentoforse più importante di questo sforzo dei Fenici contro iGreci è quello in cui i Cartaginesi, sentendosi più debolidegli avversari s'associarono, nella difesa, ai popoli in-digeni della Sicilia e dell'Italia. Quanto i Gnidii e i Ro-dioti l'anno 175 = 579 tentarono di stabilirsi presso Lili-beo, proprio nel bel mezzo delle colonie puniche in Sici-lia, furono gli isolani a scacciarli, gli Elimi di Segestecongiunti coi Fenici. Quando l'anno 217 = 537 i Focesisi stabilirono in Alalia (Aleria) sul lido di Corsica difronte a Cere, furono combattuti dalle flotte unite degliEtruschi e de' Cartaginesi, che con centoventi vele ven-nero a snidare i Greci; e benchè la flotta dei Focesi riu-scisse, se crediamo agli scrittori greci, vittoriosa nellabattaglia navale – una delle più antiche che la storia ri-cordi – convien dire, chi guarda agli effetti, che i Focesin'ebbero il capo rotto, poichè si ritrassero dalla Corsicae vennero a stabilirsi nella costa, meno lontana ed espo-sta, della Lucania in Hyele (Velia).

Un trattato concluso fra l'Etruria e Cartagine non solostatuiva le norme per l'introduzione delle merci e per laprocedura commerciale, ma accennava anche ad una

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lega bellica (συµµαχία) della cui efficacia abbiamo unaprova innegabile appunto nella battaglia d'Alalia. Un in-dizio poi della speciale situazione in cui vennero a tro-varsi quelli di Cere tra i Greci e i Cartaginesi è il fattoch'essi lapidarono nel loro mercato i prigionieri focesi epoi, per espiare il misfatto, inviarono ambasciatori adApollo delfico.

Il Lazio non entrò direttamente in questa federazioned'armi: anzi, in antichissimi tempi, vediamo legatid'amicizia i Romani coi Focesi di Velia e di Massalia, e,quel che è anche più notevole, gli Ardeatini uniti agliElleni di Zacinto avrebbero fondato in Ispagna una colo-nia che più tardi fu la città di Sagunto. Ma d'altra partele intime relazioni di amicizia e di vicinato tra Roma eCere, come pure le traccie di antichi rapporti fra i Latinie i Cartaginesi, ci provano che il Lazio non si unì con iFenici contro gli Elleni, ma conservò tutt'al più una ri-gorosa neutralità. Intanto le forze collegate delle gentiitaliche e puniche si mantennero prevalenti in tutta lametà occidentale del Mediterraneo. Il lato della Siciliache guarda a nord ovest, coi ragguardevoli porti di So-loecis e di Panormos65 sul lido settentrionale e con Mo-tye posta sulla punta che guarda l'Africa, rimase sogget-ta al dominio diretto o mediato de' Cartaginesi. Intornoai tempi di Ciro e di Creso, quando Biante cercava di

65 Soloecis, Solus o Soloentum, antica città, che sorgeva a 8miglia circa da Panormos (Palermo) sul Zafferana; oggi si chiamaSolunto e non è più che un villaggio. Motye o Motya sorgeva difronte all'isola Egusa.

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lega bellica (συµµαχία) della cui efficacia abbiamo unaprova innegabile appunto nella battaglia d'Alalia. Un in-dizio poi della speciale situazione in cui vennero a tro-varsi quelli di Cere tra i Greci e i Cartaginesi è il fattoch'essi lapidarono nel loro mercato i prigionieri focesi epoi, per espiare il misfatto, inviarono ambasciatori adApollo delfico.

Il Lazio non entrò direttamente in questa federazioned'armi: anzi, in antichissimi tempi, vediamo legatid'amicizia i Romani coi Focesi di Velia e di Massalia, e,quel che è anche più notevole, gli Ardeatini uniti agliElleni di Zacinto avrebbero fondato in Ispagna una colo-nia che più tardi fu la città di Sagunto. Ma d'altra partele intime relazioni di amicizia e di vicinato tra Roma eCere, come pure le traccie di antichi rapporti fra i Latinie i Cartaginesi, ci provano che il Lazio non si unì con iFenici contro gli Elleni, ma conservò tutt'al più una ri-gorosa neutralità. Intanto le forze collegate delle gentiitaliche e puniche si mantennero prevalenti in tutta lametà occidentale del Mediterraneo. Il lato della Siciliache guarda a nord ovest, coi ragguardevoli porti di So-loecis e di Panormos65 sul lido settentrionale e con Mo-tye posta sulla punta che guarda l'Africa, rimase sogget-ta al dominio diretto o mediato de' Cartaginesi. Intornoai tempi di Ciro e di Creso, quando Biante cercava di

65 Soloecis, Solus o Soloentum, antica città, che sorgeva a 8miglia circa da Panormos (Palermo) sul Zafferana; oggi si chiamaSolunto e non è più che un villaggio. Motye o Motya sorgeva difronte all'isola Egusa.

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persuadere gli Jonii ad emigrare in massa e a stabilirsi inSardegna (verso il 200 = 557) Malco, capitano cartagi-nese, li prevenne, soggiogando con la forza delle armiuna gran parte di quell'isola importante, che mezzo se-colo dopo, salvo le montagne interne, era interamentesoggetta alla repubblica cartaginese. La Corsica invece,colle città di Alalia e di Nicea, venne in signoria degliEtruschi, e gli indigeni pagarono ad essi il censo dellapovera isola: pece, cera e miele.

Nel mare Adriatico finalmente, e nelle acque occiden-tali della Sicilia e della Sardegna signoreggiavano gli al-leati Etruschi e Cartaginesi. I Greci non desistetteroperò dalla lotta. Quei Rodioti e Gnidii, che erano statidiscacciati da Lilibeo, presero stabile dimora nelle isoletra la Sicilia e l'Italia e vi fondarono la città di Liparia(175 = 579). Massalia prosperava malgrado il suo isola-mento ed ebbe in breve il monopolio del commercio daNizza sino ai Pirenei. E a piedi dei Pirenei fu fondata dagente di Liparia la città coloniale di Rhodae (ora Rosas);e pare che anche in Sagunto si siano stabiliti dei Zacintiie che persino a Tingis (Tangeri) nella Mauritania abbia-no signoreggiato dei dinasti greci. Ma all'avanzata degliElleni era stato ormai posto un argine; dopo la fondazio-ne di Akragas essi non riuscirono più ad ottenere impor-tanti acquisti territoriali nè nell'Adriatico, nè nel mareoccidentale, e vietate furono per essi le acque della Spa-gna, non meno che l'oceano Atlantico. Ogni anno com-battevano i Liparioti coi «pirati» etruschi, i Cartaginesicon quei di Massalia e coi Cirenei, e soprattutto coi Si-

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persuadere gli Jonii ad emigrare in massa e a stabilirsi inSardegna (verso il 200 = 557) Malco, capitano cartagi-nese, li prevenne, soggiogando con la forza delle armiuna gran parte di quell'isola importante, che mezzo se-colo dopo, salvo le montagne interne, era interamentesoggetta alla repubblica cartaginese. La Corsica invece,colle città di Alalia e di Nicea, venne in signoria degliEtruschi, e gli indigeni pagarono ad essi il censo dellapovera isola: pece, cera e miele.

Nel mare Adriatico finalmente, e nelle acque occiden-tali della Sicilia e della Sardegna signoreggiavano gli al-leati Etruschi e Cartaginesi. I Greci non desistetteroperò dalla lotta. Quei Rodioti e Gnidii, che erano statidiscacciati da Lilibeo, presero stabile dimora nelle isoletra la Sicilia e l'Italia e vi fondarono la città di Liparia(175 = 579). Massalia prosperava malgrado il suo isola-mento ed ebbe in breve il monopolio del commercio daNizza sino ai Pirenei. E a piedi dei Pirenei fu fondata dagente di Liparia la città coloniale di Rhodae (ora Rosas);e pare che anche in Sagunto si siano stabiliti dei Zacintiie che persino a Tingis (Tangeri) nella Mauritania abbia-no signoreggiato dei dinasti greci. Ma all'avanzata degliElleni era stato ormai posto un argine; dopo la fondazio-ne di Akragas essi non riuscirono più ad ottenere impor-tanti acquisti territoriali nè nell'Adriatico, nè nel mareoccidentale, e vietate furono per essi le acque della Spa-gna, non meno che l'oceano Atlantico. Ogni anno com-battevano i Liparioti coi «pirati» etruschi, i Cartaginesicon quei di Massalia e coi Cirenei, e soprattutto coi Si-

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culi greci; ma nè dall'una nè dall'altra parte si ottennerodecisivi vantaggi e il risultato della lotta secolare fu, incomplesso, lo stabilirsi di due grandi potenze marittime,che si contrappesavano l'una coll'altra.

Così l'Italia, almeno indirettamente, dovette ai Fenicise i paesi centrali e settentrionali della penisola non fu-rono ridotti in soggezione di colonie greche, e se anzi inessi, e più specialmente nell'Etruria, si formò una poten-za marittima nazionale.

Ma non mancano indizi che già i Fenici fossero dive-nuti gelosi dei loro confederati. I Latini dovettero obbli-garsi verso i Cartaginesi a non navigare nelle acqueall'oriente del capo Bon sulla costa della Libia; e sicco-me si deve supporre che le città della Magna Greciaavranno ancor molto meno tollerato che le loro costefossero visitate da bastimenti latini, così i Latini devonoessere stati esclusi interamente dal bacino orientale delMediterraneo; ciò che viene confermato anche dal silen-zio mantenuto su loro dai più antichi scrittori greci. Lanavigazione sulla costa spagnuola non fu facilitata neltrattato tra Roma e Cartagine come quella sulla costadell'Africa, della Sicilia e della Sardegna, ed il raccontodel navigatore fenicio, rimunerato pubblicamente peraver deviato sur un banco di sabbia col sacrificio dellapropria nave un naviglio romano che lo seguivanell'oceano Atlantico, basta, anche senza discuterne laveridità, a provare il geloso monopolio di Cartagine inquelle acque. Agli Etruschi, fattisi più potenti e alleatipiù stretti, non si poteva proibire, come era naturale, la

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culi greci; ma nè dall'una nè dall'altra parte si ottennerodecisivi vantaggi e il risultato della lotta secolare fu, incomplesso, lo stabilirsi di due grandi potenze marittime,che si contrappesavano l'una coll'altra.

Così l'Italia, almeno indirettamente, dovette ai Fenicise i paesi centrali e settentrionali della penisola non fu-rono ridotti in soggezione di colonie greche, e se anzi inessi, e più specialmente nell'Etruria, si formò una poten-za marittima nazionale.

Ma non mancano indizi che già i Fenici fossero dive-nuti gelosi dei loro confederati. I Latini dovettero obbli-garsi verso i Cartaginesi a non navigare nelle acqueall'oriente del capo Bon sulla costa della Libia; e sicco-me si deve supporre che le città della Magna Greciaavranno ancor molto meno tollerato che le loro costefossero visitate da bastimenti latini, così i Latini devonoessere stati esclusi interamente dal bacino orientale delMediterraneo; ciò che viene confermato anche dal silen-zio mantenuto su loro dai più antichi scrittori greci. Lanavigazione sulla costa spagnuola non fu facilitata neltrattato tra Roma e Cartagine come quella sulla costadell'Africa, della Sicilia e della Sardegna, ed il raccontodel navigatore fenicio, rimunerato pubblicamente peraver deviato sur un banco di sabbia col sacrificio dellapropria nave un naviglio romano che lo seguivanell'oceano Atlantico, basta, anche senza discuterne laveridità, a provare il geloso monopolio di Cartagine inquelle acque. Agli Etruschi, fattisi più potenti e alleatipiù stretti, non si poteva proibire, come era naturale, la

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libera navigazione verso oriente e verso occidente; ma ilracconto, vero o falso che fosse, il quale narra come iCartaginesi impedissero agli Etruschi di condurre unacolonia alle isole Canarie ci prova nuovamente, che an-che tra i due maggiori e più fidi alleati, il contrasto deglistessi interessi creava le stesse rivalità.

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libera navigazione verso oriente e verso occidente; ma ilracconto, vero o falso che fosse, il quale narra come iCartaginesi impedissero agli Etruschi di condurre unacolonia alle isole Canarie ci prova nuovamente, che an-che tra i due maggiori e più fidi alleati, il contrasto deglistessi interessi creava le stesse rivalità.

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UNDECIMO CAPITOLOLEGGI E GIUDIZI

1 Carattere moderno della civiltà italica. La storianon basta da sola a porre in chiara luce la vita di un po-polo nelle sue infinite varietà; essa deve accontentarsi dinarrarne lo svolgimento complessivo. Gli atti e le crea-zioni, il pensiero, le immaginazioni ed i sentimenti diciascun individuo, anche se dominati dallo spirito popo-lare, non fanno parte della storia.

Nondimeno il tentativo di provarci a rappresentarequeste circostanze, o almeno a delinearne i tratti più es-senziali, principalmente per quel che riguarda l'antichis-sima epoca di cui parliamo, la quale non lasciò quasi al-cuna traccia nella storia, ci par necessario, perchè solocon questo mezzo si può in qualche modo illuminare ilprofondo abisso che divide il nostro modo di pensare edi sentire da quello degli antichi popoli civili.

La tradizione, che di queste età remote ci pervenne,con i suoi confusi nomi di popoli e colle torbide sue leg-gende, rassomiglia alle foglie secche che noi stentiamoa credere che una volta siano state verdi. Invece di rime-stare questo ingrato vecchiume e di andar frugando trale macerie delle famiglie dei Coni66 o degli Enotri, dei

66 Choner, dice il testo – «Coni, Caoni», della stirpe medesi-ma degli Enotri. Vedi MICALI, L'Italia avanti il dom. dei Rom.,cap. XXVII, e NIEBUHR, Gesch, lib. 1.

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UNDECIMO CAPITOLOLEGGI E GIUDIZI

1 Carattere moderno della civiltà italica. La storianon basta da sola a porre in chiara luce la vita di un po-polo nelle sue infinite varietà; essa deve accontentarsi dinarrarne lo svolgimento complessivo. Gli atti e le crea-zioni, il pensiero, le immaginazioni ed i sentimenti diciascun individuo, anche se dominati dallo spirito popo-lare, non fanno parte della storia.

Nondimeno il tentativo di provarci a rappresentarequeste circostanze, o almeno a delinearne i tratti più es-senziali, principalmente per quel che riguarda l'antichis-sima epoca di cui parliamo, la quale non lasciò quasi al-cuna traccia nella storia, ci par necessario, perchè solocon questo mezzo si può in qualche modo illuminare ilprofondo abisso che divide il nostro modo di pensare edi sentire da quello degli antichi popoli civili.

La tradizione, che di queste età remote ci pervenne,con i suoi confusi nomi di popoli e colle torbide sue leg-gende, rassomiglia alle foglie secche che noi stentiamoa credere che una volta siano state verdi. Invece di rime-stare questo ingrato vecchiume e di andar frugando trale macerie delle famiglie dei Coni66 o degli Enotri, dei

66 Choner, dice il testo – «Coni, Caoni», della stirpe medesi-ma degli Enotri. Vedi MICALI, L'Italia avanti il dom. dei Rom.,cap. XXVII, e NIEBUHR, Gesch, lib. 1.

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Siculi e dei Pelasgi, sarà miglior partito indagare comela vita reale del popolo dell'Italia antica si sia venutaformando negli ordini giudiziari; come la vita ideale sisia riverberata nella religione, come si trattassero lepubbliche cariche, donde siano venuti a questi popoli lascrittura e gli altri elementi di coltura.

Per quanto le notizie che abbiamo di queste materiesiano scarsissime rispetto ai Romani, e anche più scarserispetto ai Sabelli e agli Etruschi, nondimeno questa è lasola via, anche se manchevole e imperfetta, per dare ailettori, invece di aridi nomi, una intuizione o almeno unpresentimento della realtà.

Il risultato principale di un tale studio, per dirlo anti-cipatamente, si può riassumere nella tesi che, in propor-zione, presso gli Italici, e particolarmente presso i Ro-mani, le originarie condizioni si sono conservate assaimeno che presso qualsiasi altro ramo della razza indo-germanica. La freccia e l'arco, i carri da guerra, l'incapa-cità della donna al diritto di proprietà, la vendita dellamoglie, la primitiva forma delle sepolture, la vendettadel sangue, la costituzione gentilizia in lotta col poteredel comune, il vivente simbolismo della natura – tuttiquesti concetti e moltissimi altri affini, devono certa-mente essere presupposti come base anche della civiltàitalica; ma quando incontriamo nella storia questa civil-tà, le primitive condizioni della convivenza erano giàscomparse senza lasciar traccia, e solo il paragone delletribù affini ci dà notizia dell'antica loro esistenza. Quin-di la storia italica incomincia in un'epoca di civiltà di

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Siculi e dei Pelasgi, sarà miglior partito indagare comela vita reale del popolo dell'Italia antica si sia venutaformando negli ordini giudiziari; come la vita ideale sisia riverberata nella religione, come si trattassero lepubbliche cariche, donde siano venuti a questi popoli lascrittura e gli altri elementi di coltura.

Per quanto le notizie che abbiamo di queste materiesiano scarsissime rispetto ai Romani, e anche più scarserispetto ai Sabelli e agli Etruschi, nondimeno questa è lasola via, anche se manchevole e imperfetta, per dare ailettori, invece di aridi nomi, una intuizione o almeno unpresentimento della realtà.

Il risultato principale di un tale studio, per dirlo anti-cipatamente, si può riassumere nella tesi che, in propor-zione, presso gli Italici, e particolarmente presso i Ro-mani, le originarie condizioni si sono conservate assaimeno che presso qualsiasi altro ramo della razza indo-germanica. La freccia e l'arco, i carri da guerra, l'incapa-cità della donna al diritto di proprietà, la vendita dellamoglie, la primitiva forma delle sepolture, la vendettadel sangue, la costituzione gentilizia in lotta col poteredel comune, il vivente simbolismo della natura – tuttiquesti concetti e moltissimi altri affini, devono certa-mente essere presupposti come base anche della civiltàitalica; ma quando incontriamo nella storia questa civil-tà, le primitive condizioni della convivenza erano giàscomparse senza lasciar traccia, e solo il paragone delletribù affini ci dà notizia dell'antica loro esistenza. Quin-di la storia italica incomincia in un'epoca di civiltà di

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gran lunga posteriore a quella greca e tedesca67, e reca,fino dall'origine, l'impronta di un carattere relativamentemoderno.

2 Giurisdizione. Le leggi regolatrici dei rapportigiuridici presso la maggior parte delle schiatte italiche sisono perdute senza lasciar traccia alcuna; e solo del di-ritto comune dei Latini ci è pervenuta qualche notizianella tradizione romana.

Tutta la giurisdizione si trova raccolta nel comune,vale a dire nel re, il quale tiene giudizio o «comando»(ius) nei giorni di parlamento (dies fasti) nel tribunale(tribunal) del foro, sedendo sulla sedia curule (sella cu-rulis)68, al suo lato stanno i littori (lictores), innanzi a luil'accusato o le parti (rei). Prima di tutto è però il padro-ne che pronunzia il giudizio sui servi, il padre, il marito,o il più prossimo parente mascolino sulle donne; ma iservi e le donne non erano in origine considerati comemembri del comune. La podestà del padre di famigliapoteva far concorrenza alla giurisdizione regia anche ri-

67 [Quale? Esiste una storia tedesca anteriore alla storia itali-ca?].

68 Questa sedia-vettura (sedile curule – nessun'altra traduzionedi questa parola è possibile, cfr. anche SERVIO, Ad Aen.) – è spie-gabile il più semplicemente possibile, solo a questo modo che ilre soltanto fosse autorizzato ad essere trasportato in carrozza perla città, e questo diritto rimase quindi all'ufficiale superiore in so-lenni circostanze, così che, primitivamente, finchè nessun elevatotribunale esisteva, il re dettava le sue sentenze nel comizio, odove gli piaceva, parlando dal seggio sul veicolo.

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gran lunga posteriore a quella greca e tedesca67, e reca,fino dall'origine, l'impronta di un carattere relativamentemoderno.

2 Giurisdizione. Le leggi regolatrici dei rapportigiuridici presso la maggior parte delle schiatte italiche sisono perdute senza lasciar traccia alcuna; e solo del di-ritto comune dei Latini ci è pervenuta qualche notizianella tradizione romana.

Tutta la giurisdizione si trova raccolta nel comune,vale a dire nel re, il quale tiene giudizio o «comando»(ius) nei giorni di parlamento (dies fasti) nel tribunale(tribunal) del foro, sedendo sulla sedia curule (sella cu-rulis)68, al suo lato stanno i littori (lictores), innanzi a luil'accusato o le parti (rei). Prima di tutto è però il padro-ne che pronunzia il giudizio sui servi, il padre, il marito,o il più prossimo parente mascolino sulle donne; ma iservi e le donne non erano in origine considerati comemembri del comune. La podestà del padre di famigliapoteva far concorrenza alla giurisdizione regia anche ri-

67 [Quale? Esiste una storia tedesca anteriore alla storia itali-ca?].

68 Questa sedia-vettura (sedile curule – nessun'altra traduzionedi questa parola è possibile, cfr. anche SERVIO, Ad Aen.) – è spie-gabile il più semplicemente possibile, solo a questo modo che ilre soltanto fosse autorizzato ad essere trasportato in carrozza perla città, e questo diritto rimase quindi all'ufficiale superiore in so-lenni circostanze, così che, primitivamente, finchè nessun elevatotribunale esisteva, il re dettava le sue sentenze nel comizio, odove gli piaceva, parlando dal seggio sul veicolo.

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spetto ai figli ed ai nipoti soggetti ai giudizi domestici;questa non era una vera giurisdizione, ma si consideravacome una emanazione del diritto di proprietà spettanteal padre sui figli. Non troviamo in nessun luogo tracciadi una speciale giurisdizione delle famiglie, o di unaqualunque giurisdizione signorile non derivata dalla re-gia. Per ciò che riguarda la giustizia fatta per giure pri-vato, e particolarmente la vendetta del sangue, si riscon-tra forse ancora, come un'eco tradizionale di più anticheleggi, il principio che l'uccisione d'un assassino o di co-lui che protegge illegalmente un assassino, quandoquest'uccisione sia stata perpetrata dai più prossimi pa-renti dell'assassinato, è giustificata; ma appunto le stessetradizioni che ci riferiscono questa massima, ne recanola riprovazione69 e pare quindi che la prima vendetta del

69 La narrazione della morte del re Tazio trasmessaci da Plu-tarco (Rom., 23, 24); che alcuni parenti di Tazio avessero uccisodegli ambasciatori laurentini; che Tazio avesse ricusato di renderragione ai parenti dell'ucciso, i quali avevan mosso querela; chepoi Tazio fosse da questi assassinato; che Romolo mandasse as-solti gli assassini di Tazio per la ragione che la morte era stataespiata con la morte; che poi, per sentenza divina pronunciatanello stesso tempo sopra ambedue le città, gli uni e gli altri assas-sini in Roma e in Laurento fossero tratti a ricever la giusta pena –questa narrazione, diciamo, ha tutto l'aspetto d'una leggenda, incui viene istoriata la soppressione della vendetta del sangue, nelmodo stesso che l'introduzione della «provocazione» o ricorso digrazia è il perno della leggenda degli Orazi. I testi di questa nar-razione, che altrove si riscontrano, deviano certamente molto daquesto, ma sembrano anche confusi o posteriormente rimaneggia-ti.

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spetto ai figli ed ai nipoti soggetti ai giudizi domestici;questa non era una vera giurisdizione, ma si consideravacome una emanazione del diritto di proprietà spettanteal padre sui figli. Non troviamo in nessun luogo tracciadi una speciale giurisdizione delle famiglie, o di unaqualunque giurisdizione signorile non derivata dalla re-gia. Per ciò che riguarda la giustizia fatta per giure pri-vato, e particolarmente la vendetta del sangue, si riscon-tra forse ancora, come un'eco tradizionale di più anticheleggi, il principio che l'uccisione d'un assassino o di co-lui che protegge illegalmente un assassino, quandoquest'uccisione sia stata perpetrata dai più prossimi pa-renti dell'assassinato, è giustificata; ma appunto le stessetradizioni che ci riferiscono questa massima, ne recanola riprovazione69 e pare quindi che la prima vendetta del

69 La narrazione della morte del re Tazio trasmessaci da Plu-tarco (Rom., 23, 24); che alcuni parenti di Tazio avessero uccisodegli ambasciatori laurentini; che Tazio avesse ricusato di renderragione ai parenti dell'ucciso, i quali avevan mosso querela; chepoi Tazio fosse da questi assassinato; che Romolo mandasse as-solti gli assassini di Tazio per la ragione che la morte era stataespiata con la morte; che poi, per sentenza divina pronunciatanello stesso tempo sopra ambedue le città, gli uni e gli altri assas-sini in Roma e in Laurento fossero tratti a ricever la giusta pena –questa narrazione, diciamo, ha tutto l'aspetto d'una leggenda, incui viene istoriata la soppressione della vendetta del sangue, nelmodo stesso che l'introduzione della «provocazione» o ricorso digrazia è il perno della leggenda degli Orazi. I testi di questa nar-razione, che altrove si riscontrano, deviano certamente molto daquesto, ma sembrano anche confusi o posteriormente rimaneggia-ti.

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sangue sia stata soppressa in Roma assai presto in virtùdell'energia dell'autorità comunale.

L'azione giudiziaria dà luogo ad azione pubblica oprocesso privato, secondo che sia il re a promuovere ilgiudizio o questo sia a domanda di chi si ritenga offeso.

3 Delitti. Si pon mano ai processi per conto dellostato solo quando è messa in pericolo la pubblica sicu-rezza, e perciò, innanzi tutto, nel caso di tradimento del-la patria o di intelligenza coi nemici della patria (prodi-tio), e di rivolta armata contro l'autorità (perduellio). Maanche lo scellerato assassino (parricida), il sodomita, lostupratore e violatore dell'onore delle vergini o delledonne, l'incendiario, il falso testimonio, colui che gettail mal occhio sulle messi, o che di notte tempo, senzaavervi diritto, miete le biade sul campo posto sotto lacustodia degli dei e del popolo, anche tutti questi delin-quenti violano la pubblica pace e sono perciò considera-ti come rei d'alto tradimento.

Il re apre il processo, ne regola l'andamento e pronun-cia la sentenza dopo aver conferito coi consiglieri chia-mati a prendervi parte. Ma egli può, dopo aver ordinatoil processo, demandarne la continuazione e la decisionea' suoi luogotenenti, che d'ordinario sono scelti fra imembri del consiglio. Luogotenenti straordinari di que-sta specie sono i commissari per sentenziare intorno aicasi di sedizione (duoviri perduellionis). Luogotenentipermanenti pare che fossero anche gli inquisitori per gliomicidi (quastores parricidii), cui prima di tutto incom-

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sangue sia stata soppressa in Roma assai presto in virtùdell'energia dell'autorità comunale.

L'azione giudiziaria dà luogo ad azione pubblica oprocesso privato, secondo che sia il re a promuovere ilgiudizio o questo sia a domanda di chi si ritenga offeso.

3 Delitti. Si pon mano ai processi per conto dellostato solo quando è messa in pericolo la pubblica sicu-rezza, e perciò, innanzi tutto, nel caso di tradimento del-la patria o di intelligenza coi nemici della patria (prodi-tio), e di rivolta armata contro l'autorità (perduellio). Maanche lo scellerato assassino (parricida), il sodomita, lostupratore e violatore dell'onore delle vergini o delledonne, l'incendiario, il falso testimonio, colui che gettail mal occhio sulle messi, o che di notte tempo, senzaavervi diritto, miete le biade sul campo posto sotto lacustodia degli dei e del popolo, anche tutti questi delin-quenti violano la pubblica pace e sono perciò considera-ti come rei d'alto tradimento.

Il re apre il processo, ne regola l'andamento e pronun-cia la sentenza dopo aver conferito coi consiglieri chia-mati a prendervi parte. Ma egli può, dopo aver ordinatoil processo, demandarne la continuazione e la decisionea' suoi luogotenenti, che d'ordinario sono scelti fra imembri del consiglio. Luogotenenti straordinari di que-sta specie sono i commissari per sentenziare intorno aicasi di sedizione (duoviri perduellionis). Luogotenentipermanenti pare che fossero anche gli inquisitori per gliomicidi (quastores parricidii), cui prima di tutto incom-

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beva l'obbligo di rintracciare e di arrestare gli assassini,ed ai quali era commessa una specie di sorveglianzapreventiva. Ed in quel tempo saranno esistiti anche i tremagistrati della notte (tres viri nocturni o capitales), iquali erano incaricati della notturna vigilanza per gli in-cendi e per la sicurezza, e dell'ispezione dei supplizi, percui fu loro concessa fin da principio una tale giurisdizio-ne sommaria.

Secondo le norme giuridiche, durante l'istruttoria sicarcerava il reo; ciò non pertanto l'imputato poteva esse-re messo in libertà sotto malleveria. Soltanto contro glischiavi si ricorreva alla tortura onde ottenerne per forzala confessione. Chi sia convinto di aver turbata la pub-blica pace, sconta sempre colla vita il suo delitto; lepene di morte sono varie: il falso testimonio è precipita-to dalla rocca; il ladro delle messi, appiccato; l'incendia-rio, abbruciato. Il re non può far grazia, ma lo può soloil comune; però il re può accordare o rifiutare al condan-nato il ricorso di grazia (provocatio).

La pratica del diritto ammette inoltre che il delin-quente condannato possa trovar grazia per interventodegli dei; colui che s'inginocchia dinanzi al sacerdote diGiove non può, quel giorno, essere battuto colle verghe;e se entra coi ceppi nella casa di lui dev'esserne sciolto;e il delinquente, che sulla via del patibolo s'incontra acaso in una delle sante vergini di Vesta, ha salva la vita.

Spetta al re, d'infliggere, a suo giudizio, delle multe afavore dello stato per disordini e trasgressioni di polizia;esse consistono in un certo numero (da cui la parola

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beva l'obbligo di rintracciare e di arrestare gli assassini,ed ai quali era commessa una specie di sorveglianzapreventiva. Ed in quel tempo saranno esistiti anche i tremagistrati della notte (tres viri nocturni o capitales), iquali erano incaricati della notturna vigilanza per gli in-cendi e per la sicurezza, e dell'ispezione dei supplizi, percui fu loro concessa fin da principio una tale giurisdizio-ne sommaria.

Secondo le norme giuridiche, durante l'istruttoria sicarcerava il reo; ciò non pertanto l'imputato poteva esse-re messo in libertà sotto malleveria. Soltanto contro glischiavi si ricorreva alla tortura onde ottenerne per forzala confessione. Chi sia convinto di aver turbata la pub-blica pace, sconta sempre colla vita il suo delitto; lepene di morte sono varie: il falso testimonio è precipita-to dalla rocca; il ladro delle messi, appiccato; l'incendia-rio, abbruciato. Il re non può far grazia, ma lo può soloil comune; però il re può accordare o rifiutare al condan-nato il ricorso di grazia (provocatio).

La pratica del diritto ammette inoltre che il delin-quente condannato possa trovar grazia per interventodegli dei; colui che s'inginocchia dinanzi al sacerdote diGiove non può, quel giorno, essere battuto colle verghe;e se entra coi ceppi nella casa di lui dev'esserne sciolto;e il delinquente, che sulla via del patibolo s'incontra acaso in una delle sante vergini di Vesta, ha salva la vita.

Spetta al re, d'infliggere, a suo giudizio, delle multe afavore dello stato per disordini e trasgressioni di polizia;esse consistono in un certo numero (da cui la parola

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multa) di buoi o di pecore. Era in sua facoltà di condan-nare anche alle vergate.

4 Diritto privato. In tutti gli altri casi, nei quali fos-se leso solo l'individuo e non fosse turbata la pubblicapace, lo stato procede soltanto a richiesta dell'offeso, ilquale sottomette la sua decisione (lex) al re (indi legeagere e i «giorni di parlare»). Il re invita ora l'avversarioa comparire o, in caso di bisogno, lo costringe con laviolenza a presentarsi innanzi a lui. Quando le due partisono comparse e l'accusatore ha esposto le sue preteseche l'accusato rifiuta di soddisfare, allora il re può esa-minare la questione personalmente o farla decidere insuo nome da un luogotenente.

La forma ordinaria dell'espiazione per un'offesa diquesta specie era l'aggiustamento tra l'offensore e l'offe-so; lo stato interveniva soltanto in via suppletoria se illadro non soddisfacesse il derubato, il danneggiatore ildanneggiato con un sufficiente indennizzo (poena), sead alcuno fosse negato il suo avere, o non fosse soddi-sfatta la sua giusta richiesta.

Come e in quali casi il furto fosse espiabile, e checosa il derubato fosse autorizzato a pretendere dal ladro,non si può con precisione stabilire. Dal ladro preso sulfatto però il danneggiato esigeva di più che da quello ilquale veniva scoperto dopo il fatto, essendo da scontarsianche l'esacerbazione più forte contro quello che controquesto. Se il furto non ammetteva risarcimento, o se illadro non era in grado di pagare la multa chiesta dal

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multa) di buoi o di pecore. Era in sua facoltà di condan-nare anche alle vergate.

4 Diritto privato. In tutti gli altri casi, nei quali fos-se leso solo l'individuo e non fosse turbata la pubblicapace, lo stato procede soltanto a richiesta dell'offeso, ilquale sottomette la sua decisione (lex) al re (indi legeagere e i «giorni di parlare»). Il re invita ora l'avversarioa comparire o, in caso di bisogno, lo costringe con laviolenza a presentarsi innanzi a lui. Quando le due partisono comparse e l'accusatore ha esposto le sue preteseche l'accusato rifiuta di soddisfare, allora il re può esa-minare la questione personalmente o farla decidere insuo nome da un luogotenente.

La forma ordinaria dell'espiazione per un'offesa diquesta specie era l'aggiustamento tra l'offensore e l'offe-so; lo stato interveniva soltanto in via suppletoria se illadro non soddisfacesse il derubato, il danneggiatore ildanneggiato con un sufficiente indennizzo (poena), sead alcuno fosse negato il suo avere, o non fosse soddi-sfatta la sua giusta richiesta.

Come e in quali casi il furto fosse espiabile, e checosa il derubato fosse autorizzato a pretendere dal ladro,non si può con precisione stabilire. Dal ladro preso sulfatto però il danneggiato esigeva di più che da quello ilquale veniva scoperto dopo il fatto, essendo da scontarsianche l'esacerbazione più forte contro quello che controquesto. Se il furto non ammetteva risarcimento, o se illadro non era in grado di pagare la multa chiesta dal

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danneggiato e approvata dal giudice, allora questi aggiu-dicava il ladro come schiavo al derubato.

Nel danno (iniuria) recato al corpo e alle cose il dan-neggiato, ne' casi di lieve momento, doveva acconten-tarsi del risarcimento; ma se si trattava della perdita d'unmembro, il mutilato poteva esigere occhio per occhio,dente per dente.

La proprietà privata è sempre fondata direttamente oindirettamente sull'assegnazione fatta dallo stato di sin-gole cose a singoli cittadini, e principalmente se trattasidi proprietà fondiaria, la quale deriva dalla attribuzionedi determinate porzioni delle terre comunali ai singolicittadini, per cui soltanto il cittadino e chi dal comuneera in questo caso pareggiato al cittadino, è capace dipossedere. Anzi, siccome la terra aratoria presso i Ro-mani continuò ad essere per lungo tempo coltivata incomune, e fu divisa soltanto in un'epoca proporzional-mente più recente, così la nozione della proprietà priva-ta non si formò sui beni immobili ma sullo «stato deglischiavi e del bestiame» (familia pecuniaque).

Ogni proprietà passa libera da mano in mano: il dirit-to romano non fa un'essenziale differenza tra beni mobi-li e beni immobili, e non riconosce nei figli o in altri pa-renti alcun diritto assoluto sui beni paterni e di famiglia.Ma il padre non può di suo arbitrio privare i figli delloro diritto ereditario, poichè egli non può sciogliersidalla patria potestà, nè fare un testamento in questo sen-so, senza l'assenso di tutto il comune, il quale poteva ri-fiutarlo, ed in simili casi vi si è spesse volte, rifiutato.

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danneggiato e approvata dal giudice, allora questi aggiu-dicava il ladro come schiavo al derubato.

Nel danno (iniuria) recato al corpo e alle cose il dan-neggiato, ne' casi di lieve momento, doveva acconten-tarsi del risarcimento; ma se si trattava della perdita d'unmembro, il mutilato poteva esigere occhio per occhio,dente per dente.

La proprietà privata è sempre fondata direttamente oindirettamente sull'assegnazione fatta dallo stato di sin-gole cose a singoli cittadini, e principalmente se trattasidi proprietà fondiaria, la quale deriva dalla attribuzionedi determinate porzioni delle terre comunali ai singolicittadini, per cui soltanto il cittadino e chi dal comuneera in questo caso pareggiato al cittadino, è capace dipossedere. Anzi, siccome la terra aratoria presso i Ro-mani continuò ad essere per lungo tempo coltivata incomune, e fu divisa soltanto in un'epoca proporzional-mente più recente, così la nozione della proprietà priva-ta non si formò sui beni immobili ma sullo «stato deglischiavi e del bestiame» (familia pecuniaque).

Ogni proprietà passa libera da mano in mano: il dirit-to romano non fa un'essenziale differenza tra beni mobi-li e beni immobili, e non riconosce nei figli o in altri pa-renti alcun diritto assoluto sui beni paterni e di famiglia.Ma il padre non può di suo arbitrio privare i figli delloro diritto ereditario, poichè egli non può sciogliersidalla patria potestà, nè fare un testamento in questo sen-so, senza l'assenso di tutto il comune, il quale poteva ri-fiutarlo, ed in simili casi vi si è spesse volte, rifiutato.

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Il padre poteva però durante la sua vita prendere dellemisure dannose pei figli, poichè la legge era parca nellelimitazioni personali del proprietario, e concedeva in ge-nerale ad ogni uomo adulto la facoltà di disporre libera-mente dei suoi beni. La legge, per la quale colui chevendeva il patrimonio avito privandone i propri figli erad'autorità considerato come un pazzo e posto sotto tute-la, deve risalire all'epoca in cui l'agro fu per la primavolta ripartito e quindi la conservazione del patrimonioprivato aveva una maggior importanza per la repubblica.In questo modo le due tesi opposte dell'illimitata facoltàaccordata al proprietario di disporre liberamente deisuoi beni e della conservazione dei beni di famiglia, fu-rono, per quanto è possibile, riunite nel diritto romano.

Ad eccezione delle immunità, indispensabili partico-larmente per l'economia rurale, non si concedeva alcunarestrizione del diritto reale di proprietà. Legalmente im-possibili erano anche l'enfiteusi e la rendita fondiariareale. Invece della pignorazione, che non trova luogonel diritto, serviva il trasferimento immediato della pro-prietà della cosa data in pegno al creditore, come se eglifosse stato un vero compratore. Il creditore però impe-gnava la sua fede (fiducia) di non vendere l'oggetto sinoalla scadenza, e di restituirlo al debitore dopo che questiavesse eseguito il rimborso della somma prestatagli70.

70 Il testo in luogo di pignorazione ha Verpfändung da Pfandpegno. Pare però che l'autore voglia parlare specialmente delleipoteche, poichè tratta della ratio praedatoria, e delle disposizio-ni riguardanti le proprietà immobili. Nondimento procurammo di

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Il padre poteva però durante la sua vita prendere dellemisure dannose pei figli, poichè la legge era parca nellelimitazioni personali del proprietario, e concedeva in ge-nerale ad ogni uomo adulto la facoltà di disporre libera-mente dei suoi beni. La legge, per la quale colui chevendeva il patrimonio avito privandone i propri figli erad'autorità considerato come un pazzo e posto sotto tute-la, deve risalire all'epoca in cui l'agro fu per la primavolta ripartito e quindi la conservazione del patrimonioprivato aveva una maggior importanza per la repubblica.In questo modo le due tesi opposte dell'illimitata facoltàaccordata al proprietario di disporre liberamente deisuoi beni e della conservazione dei beni di famiglia, fu-rono, per quanto è possibile, riunite nel diritto romano.

Ad eccezione delle immunità, indispensabili partico-larmente per l'economia rurale, non si concedeva alcunarestrizione del diritto reale di proprietà. Legalmente im-possibili erano anche l'enfiteusi e la rendita fondiariareale. Invece della pignorazione, che non trova luogonel diritto, serviva il trasferimento immediato della pro-prietà della cosa data in pegno al creditore, come se eglifosse stato un vero compratore. Il creditore però impe-gnava la sua fede (fiducia) di non vendere l'oggetto sinoalla scadenza, e di restituirlo al debitore dopo che questiavesse eseguito il rimborso della somma prestatagli70.

70 Il testo in luogo di pignorazione ha Verpfändung da Pfandpegno. Pare però che l'autore voglia parlare specialmente delleipoteche, poichè tratta della ratio praedatoria, e delle disposizio-ni riguardanti le proprietà immobili. Nondimento procurammo di

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5 Contratti. I contratti conchiusi dallo stato con uncittadino per una qualsiasi somministrazione, e partico-larmente l'obbligo dei garanti (praevides, praedes) chevi subentrano, sono validi senza ricorrere ad altra for-malità. I contratti tra privati invece, non danno in massi-ma alcun diritto di ricorrere all'assistenza della giustiziapubblica; la sola parola, tenuta, come si suole tra com-mercianti, in gran conto, e, occorrendo, il giuramento,fors'ancora il timore degli dei vindici dello spergiuro,proteggono il creditore. Legalmente contenziose eranosoltanto le promesse di matrimonio, per cui il padre eraobbligato a pagare una multa e dare un risarcimento sesi rifiutava di consegnare la promessa sposa, quindi ilcontratto di compra-vendita (mancipatio), e il prestito(nexum). Il contratto di compra-vendita era consideratoconchiuso legalmente quando il venditore consegnavanelle mani del compratore la cosa comperata (mancipa-re) e nello stesso tempo il compratore pagava al vendi-tore, in presenza di testimoni, il prezzo pattuito, ciò cheavveniva col pesare la stabilita quantità di rame su unabilancia tenuta in bilico71 da un uomo imparziale, e ciò

studiare che le parole potessero anche nella traduzione applicarsiegualmente al pegno e all'ipoteca, poichè l'uno e l'altra avevano insostanza gli stessi caratteri, come c'insegna F. WALTER, Storia deldiritto rom., cap. XV del lib. III, pag. 388.

71 La mancipazione, almeno sotto la forma con cui noi la co-nosciamo, è senza dubbio più recente della riforma di Servio,come lo provano i cinque testes classici e la scelta degli oggettimancipabili, diretta a stabilire la proprietà dei contadini, e come

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5 Contratti. I contratti conchiusi dallo stato con uncittadino per una qualsiasi somministrazione, e partico-larmente l'obbligo dei garanti (praevides, praedes) chevi subentrano, sono validi senza ricorrere ad altra for-malità. I contratti tra privati invece, non danno in massi-ma alcun diritto di ricorrere all'assistenza della giustiziapubblica; la sola parola, tenuta, come si suole tra com-mercianti, in gran conto, e, occorrendo, il giuramento,fors'ancora il timore degli dei vindici dello spergiuro,proteggono il creditore. Legalmente contenziose eranosoltanto le promesse di matrimonio, per cui il padre eraobbligato a pagare una multa e dare un risarcimento sesi rifiutava di consegnare la promessa sposa, quindi ilcontratto di compra-vendita (mancipatio), e il prestito(nexum). Il contratto di compra-vendita era consideratoconchiuso legalmente quando il venditore consegnavanelle mani del compratore la cosa comperata (mancipa-re) e nello stesso tempo il compratore pagava al vendi-tore, in presenza di testimoni, il prezzo pattuito, ciò cheavveniva col pesare la stabilita quantità di rame su unabilancia tenuta in bilico71 da un uomo imparziale, e ciò

studiare che le parole potessero anche nella traduzione applicarsiegualmente al pegno e all'ipoteca, poichè l'uno e l'altra avevano insostanza gli stessi caratteri, come c'insegna F. WALTER, Storia deldiritto rom., cap. XV del lib. III, pag. 388.

71 La mancipazione, almeno sotto la forma con cui noi la co-nosciamo, è senza dubbio più recente della riforma di Servio,come lo provano i cinque testes classici e la scelta degli oggettimancipabili, diretta a stabilire la proprietà dei contadini, e come

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dopo che invece delle pecore e de' buoi, il rame era di-venuto l'ordinaria misura del valore. Infine il venditoredoveva garentire di essere il legittimo proprietario dellacosa venduta, e oltre a ciò tanto il venditore quanto ilcompratore dovevano adempiere qualunque patto pecu-liare avessero stipulato; in caso contrario il venditorepagava una multa al compratore come se la cosa fossestata da lui rubata. Ma il contratto può dar luogo a pro-cesso innanzi ai tribunali solo quando è perfezionatocolla forma della consegna e del pagamento dalle parti;la compera a credito non dà e non toglie la proprietà enon dà diritto a querela. Nello stesso modo si pattuisceil prestito; il creditore pesa in presenza di testimoni aldebitore la convenuta quantità di rame coll'obbligo (ne-xum) della restituzione. Il debitore oltre la restituzione

la deve aver ammessa la stessa tradizione, poichè essa indica Ser-vio qual inventore della bilancia. Quanto all'essenza deve però lamancipazione essere di gran lunga più antica, poichè essa in ori-gine si applica soltanto a quegli oggetti che si acquistano col toc-co della mano, e deve quindi appartenere nella sua forma primiti-va all'epoca in cui i beni privati consistevano essenzialmente inischiavi e in bestiame (familia pecuniaque). Il numero dei testi-moni e l'enumerazione degli oggetti da manciparsi saranno statiper conseguenza rinnovati colla riforma della costituzione; ma lamancipazione stessa, e quindi anche l'uso della bilancia e delrame, sono di più antica data. La mancipazione è senza dubbio,nella sua origine, una forma generale di compera e fu usata in tut-te le cose, anche dopo la sua riforma; solo per un posteriore ma-linteso si cambiò la prescrizione, che per certi oggetti si dovessepraticare la mancipazione, con la disposizione eccezionale, percui solo quegli oggetti potessero essere mancipati.

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dopo che invece delle pecore e de' buoi, il rame era di-venuto l'ordinaria misura del valore. Infine il venditoredoveva garentire di essere il legittimo proprietario dellacosa venduta, e oltre a ciò tanto il venditore quanto ilcompratore dovevano adempiere qualunque patto pecu-liare avessero stipulato; in caso contrario il venditorepagava una multa al compratore come se la cosa fossestata da lui rubata. Ma il contratto può dar luogo a pro-cesso innanzi ai tribunali solo quando è perfezionatocolla forma della consegna e del pagamento dalle parti;la compera a credito non dà e non toglie la proprietà enon dà diritto a querela. Nello stesso modo si pattuisceil prestito; il creditore pesa in presenza di testimoni aldebitore la convenuta quantità di rame coll'obbligo (ne-xum) della restituzione. Il debitore oltre la restituzione

la deve aver ammessa la stessa tradizione, poichè essa indica Ser-vio qual inventore della bilancia. Quanto all'essenza deve però lamancipazione essere di gran lunga più antica, poichè essa in ori-gine si applica soltanto a quegli oggetti che si acquistano col toc-co della mano, e deve quindi appartenere nella sua forma primiti-va all'epoca in cui i beni privati consistevano essenzialmente inischiavi e in bestiame (familia pecuniaque). Il numero dei testi-moni e l'enumerazione degli oggetti da manciparsi saranno statiper conseguenza rinnovati colla riforma della costituzione; ma lamancipazione stessa, e quindi anche l'uso della bilancia e delrame, sono di più antica data. La mancipazione è senza dubbio,nella sua origine, una forma generale di compera e fu usata in tut-te le cose, anche dopo la sua riforma; solo per un posteriore ma-linteso si cambiò la prescrizione, che per certi oggetti si dovessepraticare la mancipazione, con la disposizione eccezionale, percui solo quegli oggetti potessero essere mancipati.

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del capitale deve pagare anche l'interesse, che nelle con-dizioni ordinarie ammontava al dieci per cento72.

Con la stessa formalità si faceva a suo tempo anche larestituzione del prestito. Se un debitore non adempiva isuoi obblighi presso lo stato esso era senz'altro vendutocon tutto ciò che possedeva; a far constare il debito ba-stava che lo chiedesse lo stato.

6 Processo privato. Se un cittadino privato portavainvece querela davanti al re per la violenza usatagli nel-la proprietà (vindiciae) o se non gli veniva restituito ilprestito, si trattava prima di tutto di accertare se fosseronecessarie le prove per stabilire il fatto, oppure se il fat-to fosse già per se stesso incontestabile: il che non siammetteva mai per sola presunzione nei processi di pro-prietà, mentre invece nei processi riguardanti un presti-to, l'accertamento del fatto era facile ad ottenersi colmezzo dei testimoni conforme le norme giuridiche.

Si stabiliva la consistenza del fatto per mezzo di unascommessa, in cui ogni parte faceva un deposito (sacra-mentum) per il caso di soccombenza.

In affari che importassero il valore di oltre dieci buoiil deposito era di cinque buoi, in affari di minore impor-tanza era di cinque pecore.

Il giudice decideva poi chi dei due avesse guadagnatala scommessa, ed il deposito delle parti soccombenti era

72 Cioè per l'anno di dieci mesi la dodicesima parte del capita-le (uncia), quindi l'otto e mezzo per cento; e per l'anno di dodicimesi il dieci per cento.

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del capitale deve pagare anche l'interesse, che nelle con-dizioni ordinarie ammontava al dieci per cento72.

Con la stessa formalità si faceva a suo tempo anche larestituzione del prestito. Se un debitore non adempiva isuoi obblighi presso lo stato esso era senz'altro vendutocon tutto ciò che possedeva; a far constare il debito ba-stava che lo chiedesse lo stato.

6 Processo privato. Se un cittadino privato portavainvece querela davanti al re per la violenza usatagli nel-la proprietà (vindiciae) o se non gli veniva restituito ilprestito, si trattava prima di tutto di accertare se fosseronecessarie le prove per stabilire il fatto, oppure se il fat-to fosse già per se stesso incontestabile: il che non siammetteva mai per sola presunzione nei processi di pro-prietà, mentre invece nei processi riguardanti un presti-to, l'accertamento del fatto era facile ad ottenersi colmezzo dei testimoni conforme le norme giuridiche.

Si stabiliva la consistenza del fatto per mezzo di unascommessa, in cui ogni parte faceva un deposito (sacra-mentum) per il caso di soccombenza.

In affari che importassero il valore di oltre dieci buoiil deposito era di cinque buoi, in affari di minore impor-tanza era di cinque pecore.

Il giudice decideva poi chi dei due avesse guadagnatala scommessa, ed il deposito delle parti soccombenti era

72 Cioè per l'anno di dieci mesi la dodicesima parte del capita-le (uncia), quindi l'otto e mezzo per cento; e per l'anno di dodicimesi il dieci per cento.

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devoluto ai sacerdoti e serviva pei pubblici sacrifici. Co-lui che aveva avuto torto ed aveva lasciato trascorreretrenta giorni senza soddisfare l'avversario, e colui chefin dal principio era obbligato al pagamento, quindi disolito il debitore, se non aveva testimoni della fatta re-stituzione, soggiaceva al mandato d'arresto mediantepresura (manus iniectio); e il creditore lo acciuffavaovunque lo trovasse e lo trascinava dinanzi al tribunaleunicamente per obbligarlo a soddisfare il debito ricono-sciuto. L'arrestato non poteva difendersi da sè; un terzopoteva bensì venire in sua difesa e dichiarare questo attodi violenza come illegale (vindex) e allora la proceduraveniva sospesa; ma questa interferenza rendeva perso-nalmente responsabile chi s'era intromesso, per cui siesigeva che, per individui domiciliati, soltanto altri do-miciliati potessero introdursi come vindici. Se non se-guiva il pagamento e non si presentava alcun garante, ilre aggiudicava il debitore al creditore in modo che que-sti lo poteva condurre seco e tenerlo come uno schiavo.Se dopo ciò erano passati altri sessanta giorni, e il debi-tore entro questo spazio di tempo era stato esposto almercato tre volte e offerto all'incanto per vedere se qual-cuno se ne muovesse a pietà, senza che simile tentativoavesse avuto alcun successo, allora i creditori avevano ildiritto di uccidere il debitore e di dividere tra loro il suocorpo, o anche di venderlo come schiavo fuori del paeseinsieme con i suoi figli e con i suoi averi, od anche di te-nerlo presso di loro come schiavo, giacchè in conformi-

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devoluto ai sacerdoti e serviva pei pubblici sacrifici. Co-lui che aveva avuto torto ed aveva lasciato trascorreretrenta giorni senza soddisfare l'avversario, e colui chefin dal principio era obbligato al pagamento, quindi disolito il debitore, se non aveva testimoni della fatta re-stituzione, soggiaceva al mandato d'arresto mediantepresura (manus iniectio); e il creditore lo acciuffavaovunque lo trovasse e lo trascinava dinanzi al tribunaleunicamente per obbligarlo a soddisfare il debito ricono-sciuto. L'arrestato non poteva difendersi da sè; un terzopoteva bensì venire in sua difesa e dichiarare questo attodi violenza come illegale (vindex) e allora la proceduraveniva sospesa; ma questa interferenza rendeva perso-nalmente responsabile chi s'era intromesso, per cui siesigeva che, per individui domiciliati, soltanto altri do-miciliati potessero introdursi come vindici. Se non se-guiva il pagamento e non si presentava alcun garante, ilre aggiudicava il debitore al creditore in modo che que-sti lo poteva condurre seco e tenerlo come uno schiavo.Se dopo ciò erano passati altri sessanta giorni, e il debi-tore entro questo spazio di tempo era stato esposto almercato tre volte e offerto all'incanto per vedere se qual-cuno se ne muovesse a pietà, senza che simile tentativoavesse avuto alcun successo, allora i creditori avevano ildiritto di uccidere il debitore e di dividere tra loro il suocorpo, o anche di venderlo come schiavo fuori del paeseinsieme con i suoi figli e con i suoi averi, od anche di te-nerlo presso di loro come schiavo, giacchè in conformi-

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tà del diritto romano egli non poteva divenire veroschiavo finchè si trovava nel territorio del comune.

Così la proprietà e gli averi del cittadino romano era-no difesi contro i ladri e i danneggiatori, contro gli in-giusti detentori e i debitori insolvibili, con inesorabileseverità, pari a quella con la quale era perseguitato ilpossessore illegale e il debitore insolvente.

7 Tutela. Diritto ereditario. Con le stesse normeerano garantiti gli averi delle persone inabili a portararmi e quindi incapaci della difesa dei propri beni e cioèdei minori e dei mentecatti, e soprattutto il patrimoniodelle donne, alla custodia del quale si designavano i piùprossimi eredi. Dopo la morte del proprietario i benitoccavano agli eredi naturali; e tutti coloro che avevanoegual diritto, comprese le donne, se li dividevano in par-ti eguali, e la vedova concorreva con i figli per una delleparti dell'eredità. L'assemblea popolare soltanto potevadispensare dalla legale successione, sentito però il pare-re dei sacerdoti rispetto agli obblighi sacri di cui fossegravata la sostanza; ma simili dispense pare che fosserofino dal principio assai frequenti, e quando mancavano,si poteva in qualche modo supplirvi trasmettendo, inforza dell'assoluto diritto che ciaschedun individuo ave-va di disporre dei suoi beni durante la sua vita, tutto ilpatrimonio ad un amico, il quale dopo la morte del di-sponente lo dividesse secondo la volontà del defunto.

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tà del diritto romano egli non poteva divenire veroschiavo finchè si trovava nel territorio del comune.

Così la proprietà e gli averi del cittadino romano era-no difesi contro i ladri e i danneggiatori, contro gli in-giusti detentori e i debitori insolvibili, con inesorabileseverità, pari a quella con la quale era perseguitato ilpossessore illegale e il debitore insolvente.

7 Tutela. Diritto ereditario. Con le stesse normeerano garantiti gli averi delle persone inabili a portararmi e quindi incapaci della difesa dei propri beni e cioèdei minori e dei mentecatti, e soprattutto il patrimoniodelle donne, alla custodia del quale si designavano i piùprossimi eredi. Dopo la morte del proprietario i benitoccavano agli eredi naturali; e tutti coloro che avevanoegual diritto, comprese le donne, se li dividevano in par-ti eguali, e la vedova concorreva con i figli per una delleparti dell'eredità. L'assemblea popolare soltanto potevadispensare dalla legale successione, sentito però il pare-re dei sacerdoti rispetto agli obblighi sacri di cui fossegravata la sostanza; ma simili dispense pare che fosserofino dal principio assai frequenti, e quando mancavano,si poteva in qualche modo supplirvi trasmettendo, inforza dell'assoluto diritto che ciaschedun individuo ave-va di disporre dei suoi beni durante la sua vita, tutto ilpatrimonio ad un amico, il quale dopo la morte del di-sponente lo dividesse secondo la volontà del defunto.

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8 Emancipazione. Nel più antico diritto la mano-missione non era conosciuta. Il proprietario poteva bensìastenersi dall'esercitare il suo diritto di proprietà, manon poteva far cittadino e nemmeno cliente il suo schia-vo, poichè il vincolo della clientela contemplava la pos-sibilità della reciproca disobbligazione tra patrono ecliente, ma nessuna possibilità tra il padrone e lo schia-vo. La manomissione può quindi essere stata da princi-pio soltanto un fatto e non un diritto, nè deve aver maiprivato il padrone della facoltà di trattare di nuovo a suopiacere il liberto come schiavo. Se ne faceva peròun'eccezione nei casi in cui il padrone avesse dichiaratonon solo allo schiavo, ma anche pubblicamente, di la-sciarlo in possesso della libertà.

Non esisteva un'apposita forma legale per simile ob-bligazione del padrone e questa è la miglior prova cheda principio non può esser esistita la manomissione; masi usavano i vari mezzi che il diritto offriva: il testamen-to, il processo, il censimento.

Se il padrone nell'atto della sua ultima volontà avevaconcesso l'emancipazione al suo schiavo davantiall'assemblea popolare, o se aveva concesso allo schiavodi chiedergli la libertà innanzi al tribunale, o farsi inscri-vere nella lista dei censiti, allora l'emancipato non eraconsiderato ancora come cittadino, ma già come liberoin faccia al suo primo padrone ed ai suoi eredi, e compa-riva di conseguenza da principio come cliente, posciacome plebeo. Maggiori difficoltà dell'emancipazione delservo incontrava quella del figlio, poichè se la condizio-

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8 Emancipazione. Nel più antico diritto la mano-missione non era conosciuta. Il proprietario poteva bensìastenersi dall'esercitare il suo diritto di proprietà, manon poteva far cittadino e nemmeno cliente il suo schia-vo, poichè il vincolo della clientela contemplava la pos-sibilità della reciproca disobbligazione tra patrono ecliente, ma nessuna possibilità tra il padrone e lo schia-vo. La manomissione può quindi essere stata da princi-pio soltanto un fatto e non un diritto, nè deve aver maiprivato il padrone della facoltà di trattare di nuovo a suopiacere il liberto come schiavo. Se ne faceva peròun'eccezione nei casi in cui il padrone avesse dichiaratonon solo allo schiavo, ma anche pubblicamente, di la-sciarlo in possesso della libertà.

Non esisteva un'apposita forma legale per simile ob-bligazione del padrone e questa è la miglior prova cheda principio non può esser esistita la manomissione; masi usavano i vari mezzi che il diritto offriva: il testamen-to, il processo, il censimento.

Se il padrone nell'atto della sua ultima volontà avevaconcesso l'emancipazione al suo schiavo davantiall'assemblea popolare, o se aveva concesso allo schiavodi chiedergli la libertà innanzi al tribunale, o farsi inscri-vere nella lista dei censiti, allora l'emancipato non eraconsiderato ancora come cittadino, ma già come liberoin faccia al suo primo padrone ed ai suoi eredi, e compa-riva di conseguenza da principio come cliente, posciacome plebeo. Maggiori difficoltà dell'emancipazione delservo incontrava quella del figlio, poichè se la condizio-

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ne del padrone rispetto al servo è accidentale e puòquindi sciogliersi a volontà, il padre non può mai cessa-re d'esser padre. Perciò, più tardi, il figlio per sottrarsi alnaturale vincolo della paterna autorità doveva entrar pri-ma in servitù presso altri, per essere poscia da questi li-berato; ma nel periodo di tempo di cui ora parliamo nonvi può essere stata ancora un'emancipazione.

9 Clienti e stranieri. Questo diritto reggeva inRoma cittadini e clienti, fra i quali, da quanto ci consta,esisteva, sino dai primi tempi, la più completa ugua-glianza nel diritto privato. Lo straniero invece, che nonfosse legato ad alcun patrono romano, e che perciò nonpartecipasse alla protezione accordata ai clienti, nonaveva nessun diritto, nè i suoi beni erano garantiti. Tuttociò che il cittadino romano gli toglieva, era consideratodi buon acquisto, come si raccoglie sulla sabbia del lidouna conchiglia non appartenente ad alcuno. Solo il cam-po posto oltre i confini romani, può ben essere acquista-to dal cittadino romano in via di fatto, ma non può esse-re considerato come sua proprietà giuridica, poichè ilsolo comune ha diritto di allargare i confini del proprioterritorio. Diversamente avviene in guerra: ciò che ilsoldato acquista combattendo sotto le insegne, sia cosamobile od immobile, non lo procaccia a sè, ma allo sta-to. Deroghe a queste regole generali per assicurare aimembri di comunità straniere certi diritti in Roma sifanno per mezzo di trattati pubblici. Importante, sottoquesto aspetto, è la lega perpetua tra Roma e il Lazio,

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ne del padrone rispetto al servo è accidentale e puòquindi sciogliersi a volontà, il padre non può mai cessa-re d'esser padre. Perciò, più tardi, il figlio per sottrarsi alnaturale vincolo della paterna autorità doveva entrar pri-ma in servitù presso altri, per essere poscia da questi li-berato; ma nel periodo di tempo di cui ora parliamo nonvi può essere stata ancora un'emancipazione.

9 Clienti e stranieri. Questo diritto reggeva inRoma cittadini e clienti, fra i quali, da quanto ci consta,esisteva, sino dai primi tempi, la più completa ugua-glianza nel diritto privato. Lo straniero invece, che nonfosse legato ad alcun patrono romano, e che perciò nonpartecipasse alla protezione accordata ai clienti, nonaveva nessun diritto, nè i suoi beni erano garantiti. Tuttociò che il cittadino romano gli toglieva, era consideratodi buon acquisto, come si raccoglie sulla sabbia del lidouna conchiglia non appartenente ad alcuno. Solo il cam-po posto oltre i confini romani, può ben essere acquista-to dal cittadino romano in via di fatto, ma non può esse-re considerato come sua proprietà giuridica, poichè ilsolo comune ha diritto di allargare i confini del proprioterritorio. Diversamente avviene in guerra: ciò che ilsoldato acquista combattendo sotto le insegne, sia cosamobile od immobile, non lo procaccia a sè, ma allo sta-to. Deroghe a queste regole generali per assicurare aimembri di comunità straniere certi diritti in Roma sifanno per mezzo di trattati pubblici. Importante, sottoquesto aspetto, è la lega perpetua tra Roma e il Lazio,

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con la quale si statuì che avessero forza di legge tutti itrattati conchiusi tra Romani e Latini, e nello stesso tem-po pei Latini fu ordinata una più spiccia procedura civi-le innanzi ai giurati «rivendicatori» (reciperatores)73, iquali, contro la romana consuetudine di affidare la deci-sione ad un giudice unico, deliberavano sempre colle-gialmente e sedevano in numero dispari, e però possonoconsiderarsi come un tribunale di commercio compostodi giudici delle due nazioni con un presidente. Essi ren-dono le sentenze sul luogo del conchiuso contratto, e de-vono aver terminato il processo al più tardi in dieci gior-ni.

Le forme osservate dai Romani e dai Latini nelle lororelazioni erano naturalmente quelle stesse forme genera-li che reggevano i rapporti tra i patrizi e i plebei, poichèl'emancipazione ed il nexus, in origine, non erano attiformali, ma espressioni significative dei concetti giuri-dici, i quali perciò dovevano aver corso ovunque siestendeva la lingua latina. In diverso modo e sotto altreforme erano regolati i rapporti cogli stati esteri propria-mente detti. Trattati di questa natura devono essere esi-stiti coi Ceriti e con altri popoli amici, ed essere stati labase del diritto internazionale (ius gentium), che a Romaandava a poco a poco svolgendosi accanto al diritto ci-vile. Una traccia di questa genesi del diritto si riscontranel mutuum, mutamento (da mutare come dividuus), for-

73 WALTER, op. cit., lib. IV, 2, 60: recuperatores. In latino dice-vasi recipero e recupero. Il testo tedesco traduce Wiederschaffer,ri-creatori, ovvero «quelli che fanno riavere».

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con la quale si statuì che avessero forza di legge tutti itrattati conchiusi tra Romani e Latini, e nello stesso tem-po pei Latini fu ordinata una più spiccia procedura civi-le innanzi ai giurati «rivendicatori» (reciperatores)73, iquali, contro la romana consuetudine di affidare la deci-sione ad un giudice unico, deliberavano sempre colle-gialmente e sedevano in numero dispari, e però possonoconsiderarsi come un tribunale di commercio compostodi giudici delle due nazioni con un presidente. Essi ren-dono le sentenze sul luogo del conchiuso contratto, e de-vono aver terminato il processo al più tardi in dieci gior-ni.

Le forme osservate dai Romani e dai Latini nelle lororelazioni erano naturalmente quelle stesse forme genera-li che reggevano i rapporti tra i patrizi e i plebei, poichèl'emancipazione ed il nexus, in origine, non erano attiformali, ma espressioni significative dei concetti giuri-dici, i quali perciò dovevano aver corso ovunque siestendeva la lingua latina. In diverso modo e sotto altreforme erano regolati i rapporti cogli stati esteri propria-mente detti. Trattati di questa natura devono essere esi-stiti coi Ceriti e con altri popoli amici, ed essere stati labase del diritto internazionale (ius gentium), che a Romaandava a poco a poco svolgendosi accanto al diritto ci-vile. Una traccia di questa genesi del diritto si riscontranel mutuum, mutamento (da mutare come dividuus), for-

73 WALTER, op. cit., lib. IV, 2, 60: recuperatores. In latino dice-vasi recipero e recupero. Il testo tedesco traduce Wiederschaffer,ri-creatori, ovvero «quelli che fanno riavere».

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ma d'imprestito, che non si fonda, come il nexum, suuna dichiarazione obbligatoria, fatta dal debitore for-malmente in presenza dei testimoni, ma sul semplicepassaggio del denaro da una all'altra mano, e che perciòè evidentemente derivata dal commercio con genti stra-niere, come il nexum dal commercio nel proprio paese.È quindi notevole che la parola µοῖτον riapparisca nelgreco siciliano, e con essa si connetta l'adozione dellaparola latina carcer nel dialetto siciliano κάρκαρον.

Poichè è linguisticamente provato che queste due pa-role sono d'origine latina, il loro uso nel dialetto localesiciliano fornisce una ponderosa prova delle frequentirelazioni dei navigatori latini con quell'isola, in conse-guenza delle quali essi ebbero occasione di prendere inprestito denari, e di assoggettarsi alla cattura per debiti,come si praticava in tutti gli antichi diritti in caso dimancata restituzione. Viceversa il nome del carcere diSiracusa «cave di pietra» o λατοµίαι, fu in antichi tempiriportato al carcere di stato di Roma, ampliato in lautu-miae.

10 Caratteri del diritto romano. Considerandotutte queste istituzioni la cui compilazione deve risalirea circa mezzo secolo prima della cacciata dei re, e la cuiesistenza può lasciar dei dubbi in qualche particolare,ma non già nel suo insieme, vi riconosciamo le leggid'una avanzatissima, liberale e logica città agricola ecommerciale. Qui è già interamente scomparso il lin-guaggio convenzionale, metaforico, che si incontra nel

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ma d'imprestito, che non si fonda, come il nexum, suuna dichiarazione obbligatoria, fatta dal debitore for-malmente in presenza dei testimoni, ma sul semplicepassaggio del denaro da una all'altra mano, e che perciòè evidentemente derivata dal commercio con genti stra-niere, come il nexum dal commercio nel proprio paese.È quindi notevole che la parola µοῖτον riapparisca nelgreco siciliano, e con essa si connetta l'adozione dellaparola latina carcer nel dialetto siciliano κάρκαρον.

Poichè è linguisticamente provato che queste due pa-role sono d'origine latina, il loro uso nel dialetto localesiciliano fornisce una ponderosa prova delle frequentirelazioni dei navigatori latini con quell'isola, in conse-guenza delle quali essi ebbero occasione di prendere inprestito denari, e di assoggettarsi alla cattura per debiti,come si praticava in tutti gli antichi diritti in caso dimancata restituzione. Viceversa il nome del carcere diSiracusa «cave di pietra» o λατοµίαι, fu in antichi tempiriportato al carcere di stato di Roma, ampliato in lautu-miae.

10 Caratteri del diritto romano. Considerandotutte queste istituzioni la cui compilazione deve risalirea circa mezzo secolo prima della cacciata dei re, e la cuiesistenza può lasciar dei dubbi in qualche particolare,ma non già nel suo insieme, vi riconosciamo le leggid'una avanzatissima, liberale e logica città agricola ecommerciale. Qui è già interamente scomparso il lin-guaggio convenzionale, metaforico, che si incontra nel

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diritto germanico. Non vi può esser dubbio che il simbo-lismo giuridico sia esistito una volta presso gli Italici;abbiamo di ciò memorabili prove, come ad esempio laforma delle visite domiciliari, in cui il cercatore, secon-do gli usi romani, come pure tedeschi, doveva compari-re senza sopravveste e colla sola tunica, e sopra ogni al-tro la antichissima formula latina della dichiarazione diguerra, in cui si scorgono due simboli usati anche pressoi Celti e i Tedeschi: «l'erba pura» (herba pura e, in fran-co, chrene chruda), come simbolo del patrio suolo, el'abbruciacchiata verga cruenta come segnale del princi-pio della guerra. Ma il diritto romano, come noi lo cono-sciamo, salve poche eccezioni, in cui il rispetto dei ritireligiosi proteggeva antichissimi costumi – come la di-chiarazione di guerra che facevasi per mezzo del colle-gio dei feciali, e il rito della confarreazione per il matri-monio – respinge assolutamente, e, per principio, il sim-bolo, e vuole in tutti i casi, nè più nè meno, la piena egenuina espressione della volontà.

La consegna della cosa, l'invito per la testimonianza,il contratto di matrimonio, si eseguiscono secondol'intenzione delle parti intelligibilmente espressa. So-pravviveva, bensì, l'usanza di consegnare materialmentela cosa acquistata nelle mani del nuovo proprietario; ditirar per l'orecchio il testimone; di coprire il capo allasposa e di condurla in solenne processione alla casa delmarito; ma tutti questi antichissimi usi, già secondo ilpiù antico diritto romano, non avevano più alcun valorelegale.

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diritto germanico. Non vi può esser dubbio che il simbo-lismo giuridico sia esistito una volta presso gli Italici;abbiamo di ciò memorabili prove, come ad esempio laforma delle visite domiciliari, in cui il cercatore, secon-do gli usi romani, come pure tedeschi, doveva compari-re senza sopravveste e colla sola tunica, e sopra ogni al-tro la antichissima formula latina della dichiarazione diguerra, in cui si scorgono due simboli usati anche pressoi Celti e i Tedeschi: «l'erba pura» (herba pura e, in fran-co, chrene chruda), come simbolo del patrio suolo, el'abbruciacchiata verga cruenta come segnale del princi-pio della guerra. Ma il diritto romano, come noi lo cono-sciamo, salve poche eccezioni, in cui il rispetto dei ritireligiosi proteggeva antichissimi costumi – come la di-chiarazione di guerra che facevasi per mezzo del colle-gio dei feciali, e il rito della confarreazione per il matri-monio – respinge assolutamente, e, per principio, il sim-bolo, e vuole in tutti i casi, nè più nè meno, la piena egenuina espressione della volontà.

La consegna della cosa, l'invito per la testimonianza,il contratto di matrimonio, si eseguiscono secondol'intenzione delle parti intelligibilmente espressa. So-pravviveva, bensì, l'usanza di consegnare materialmentela cosa acquistata nelle mani del nuovo proprietario; ditirar per l'orecchio il testimone; di coprire il capo allasposa e di condurla in solenne processione alla casa delmarito; ma tutti questi antichissimi usi, già secondo ilpiù antico diritto romano, non avevano più alcun valorelegale.

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Per una tendenza analoga a quella che bandì dalla re-ligione ogni allegoria, e quindi ogni personificazione,anche il diritto si spogliò di ogni simbolo. E nel dirittoromano noi troviamo interamente scomparso quell'anti-chissimo stato di cose rivelatoci dalle istituzioni elleni-che e germaniche, quando il potere dello stato trovavasiancora in lotta coi capi dei piccoli consorzi di schiatte edi territori che erano venuti a metter capo nel comune;non troviamo alleanza offensiva e difensiva entro lo sta-to per supplire alla mancanza della forza pubblica; nonesiste traccia della vendetta del sangue, o della limita-zione del patrimonio fatta per disposizione dell'indivi-duo.

Certo, somiglianti condizioni di convivenza devonoessersi riscontrate una volta anche tra i popoli italici, ese ne vuole trovare un ricordo in alcune speciali istitu-zioni del diritto sacro, come ad esempio nel capro espia-torio, che l'involontario uccisore era tenuto dare ai piùprossimi parenti dell'ucciso; ma anche in quella più anti-ca età di Roma, che noi possiamo riscontrare nella sto-ria, questa fase della vita sociale era già da lungo temposuperata. Nel comune romano la famiglia non è certa-mente assorbita; ma l'onnipotenza ideale e reale dellostato in tutto il territorio della repubblica è così poco li-mitata dalla famiglia, come dalla libertà che lo statostesso accorda e garantisce a ciascun cittadino. Il supre-mo fondamento del diritto è sempre lo stato: la libertànon è che un'altra espressione del diritto civile nel piùlato senso; tutta la proprietà si appoggia sulla formale e

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Per una tendenza analoga a quella che bandì dalla re-ligione ogni allegoria, e quindi ogni personificazione,anche il diritto si spogliò di ogni simbolo. E nel dirittoromano noi troviamo interamente scomparso quell'anti-chissimo stato di cose rivelatoci dalle istituzioni elleni-che e germaniche, quando il potere dello stato trovavasiancora in lotta coi capi dei piccoli consorzi di schiatte edi territori che erano venuti a metter capo nel comune;non troviamo alleanza offensiva e difensiva entro lo sta-to per supplire alla mancanza della forza pubblica; nonesiste traccia della vendetta del sangue, o della limita-zione del patrimonio fatta per disposizione dell'indivi-duo.

Certo, somiglianti condizioni di convivenza devonoessersi riscontrate una volta anche tra i popoli italici, ese ne vuole trovare un ricordo in alcune speciali istitu-zioni del diritto sacro, come ad esempio nel capro espia-torio, che l'involontario uccisore era tenuto dare ai piùprossimi parenti dell'ucciso; ma anche in quella più anti-ca età di Roma, che noi possiamo riscontrare nella sto-ria, questa fase della vita sociale era già da lungo temposuperata. Nel comune romano la famiglia non è certa-mente assorbita; ma l'onnipotenza ideale e reale dellostato in tutto il territorio della repubblica è così poco li-mitata dalla famiglia, come dalla libertà che lo statostesso accorda e garantisce a ciascun cittadino. Il supre-mo fondamento del diritto è sempre lo stato: la libertànon è che un'altra espressione del diritto civile nel piùlato senso; tutta la proprietà si appoggia sulla formale e

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tacita trasmissione che il comune fa ai privati; il contrat-to è valido se il comune lo attesta per mezzo dei suoirappresentanti, il testamento solo nel caso che il comunelo approvi. La sfera dello stato è divisa rigorosamente econ chiarezza da quella dei privati, come sono guardatisotto diverso aspetto i delitti di stato, di cui è immediatal'inquisizione per opera dello stato stesso e che importa-no pene capitali, e i delitti contro il cittadino o l'ospite, iquali prima possono venire scontati in via d'accomoda-mento o con multa, o colla soddisfazione della partelesa, e non sono mai puniti colla morte, ma tutt'al piùcolla perdita della libertà. La massima larghezza per fa-vorire l'incremento dei commerci si accoppia al più ri-goroso sistema esecutivo, appunto come vediamo ogginegli stati commerciali combinata l'universale facoltà diemettere cambiali alla massima severità di proceduracambiaria.

Il cittadino e il cliente si trovano perfettamente egualil'uno di fronte all'altro; trattati pubblici accordanoun'ampia uguaglianza di diritto anche all'ospite; le don-ne, in quanto al diritto, sono pareggiate agli uomini,benchè nel fatto esse siano sottomesse a molte limitazio-ni, mentre l'adolescente, appena sia giunto ad una piùferma gioventù, ottiene il più largo diritto di disporre deisuoi beni; e in generale chiunque sia atto a disporre vie-ne riconosciuto padrone nella sfera della sua privataproprietà, come lo stato lo è nel pubblico territorio. Ca-ratteristico in sommo grado era il sistema del credito:non esisteva un credito fondiario, ma al debito ipoteca-

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tacita trasmissione che il comune fa ai privati; il contrat-to è valido se il comune lo attesta per mezzo dei suoirappresentanti, il testamento solo nel caso che il comunelo approvi. La sfera dello stato è divisa rigorosamente econ chiarezza da quella dei privati, come sono guardatisotto diverso aspetto i delitti di stato, di cui è immediatal'inquisizione per opera dello stato stesso e che importa-no pene capitali, e i delitti contro il cittadino o l'ospite, iquali prima possono venire scontati in via d'accomoda-mento o con multa, o colla soddisfazione della partelesa, e non sono mai puniti colla morte, ma tutt'al piùcolla perdita della libertà. La massima larghezza per fa-vorire l'incremento dei commerci si accoppia al più ri-goroso sistema esecutivo, appunto come vediamo ogginegli stati commerciali combinata l'universale facoltà diemettere cambiali alla massima severità di proceduracambiaria.

Il cittadino e il cliente si trovano perfettamente egualil'uno di fronte all'altro; trattati pubblici accordanoun'ampia uguaglianza di diritto anche all'ospite; le don-ne, in quanto al diritto, sono pareggiate agli uomini,benchè nel fatto esse siano sottomesse a molte limitazio-ni, mentre l'adolescente, appena sia giunto ad una piùferma gioventù, ottiene il più largo diritto di disporre deisuoi beni; e in generale chiunque sia atto a disporre vie-ne riconosciuto padrone nella sfera della sua privataproprietà, come lo stato lo è nel pubblico territorio. Ca-ratteristico in sommo grado era il sistema del credito:non esisteva un credito fondiario, ma al debito ipoteca-

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rio subentrava tosto il passaggio del fondo dal debitoreal creditore, che è l'atto con cui oggi si conclude la pro-cedura ipotecaria; in pari tempo il credito personale ègarantito nel modo più esteso, e quasi esagerato, essen-do il creditore autorizzato di trattare il debitore insolvi-bile come un ladro, accordandogli, con tutta serietà legi-slativa, quanto Shylok aveva stabilito per il suo nemicomortale, fissando, più sottilmente di quanto non abbiafatto l'ebreo, il punto del taglio74.

Non poteva la legge esprimere più chiaramentel'intenzione di stabilire le possidenze rurali indipendentie non indebitate e il credito mercantile, e nello stessotempo di sopprimere colla più inesorabile severità ogniproprietà fittizia e di punire ogni mancanza di parola. Ses'aggiunge il diritto accordato già a tutti i Latini di stabi-lirsi nel paese e la validità del matrimonio civile, si rico-noscerà che questo stato, il quale esigeva supremi sagri-fici da' suoi cittadini ed esaltava l'idea della sudditanzadel singolo alla collettività più che non vi riuscisse maialcun altro stato nè prima nè poi, lo faceva e lo potevafare solo perchè esso aveva a sua volta tolto ogni limita-zione al commercio e aveva liberato nei rapporti privatila proprietà da ogni vincolo, mentre ne aveva segnato

74 Si corregge così, sulla scorta dell’originale tedesco, la fraseevidentemente errata contenuta nell’edizione di riferimento («ac-cordandogli, con tutta serietà legislativa, quanto Shylok esigevasupremi sagrifici da' suoi cittadini ed esaltava l'idea più sottilmen-te di quanto non abbia fatto l'ebreo, il punto del taglio») [nota perl’edizione elettronica Manuzio].

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rio subentrava tosto il passaggio del fondo dal debitoreal creditore, che è l'atto con cui oggi si conclude la pro-cedura ipotecaria; in pari tempo il credito personale ègarantito nel modo più esteso, e quasi esagerato, essen-do il creditore autorizzato di trattare il debitore insolvi-bile come un ladro, accordandogli, con tutta serietà legi-slativa, quanto Shylok aveva stabilito per il suo nemicomortale, fissando, più sottilmente di quanto non abbiafatto l'ebreo, il punto del taglio74.

Non poteva la legge esprimere più chiaramentel'intenzione di stabilire le possidenze rurali indipendentie non indebitate e il credito mercantile, e nello stessotempo di sopprimere colla più inesorabile severità ogniproprietà fittizia e di punire ogni mancanza di parola. Ses'aggiunge il diritto accordato già a tutti i Latini di stabi-lirsi nel paese e la validità del matrimonio civile, si rico-noscerà che questo stato, il quale esigeva supremi sagri-fici da' suoi cittadini ed esaltava l'idea della sudditanzadel singolo alla collettività più che non vi riuscisse maialcun altro stato nè prima nè poi, lo faceva e lo potevafare solo perchè esso aveva a sua volta tolto ogni limita-zione al commercio e aveva liberato nei rapporti privatila proprietà da ogni vincolo, mentre ne aveva segnato

74 Si corregge così, sulla scorta dell’originale tedesco, la fraseevidentemente errata contenuta nell’edizione di riferimento («ac-cordandogli, con tutta serietà legislativa, quanto Shylok esigevasupremi sagrifici da' suoi cittadini ed esaltava l'idea più sottilmen-te di quanto non abbia fatto l'ebreo, il punto del taglio») [nota perl’edizione elettronica Manuzio].

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chiaramente i confini. Favorevole o severo, il diritto sipresenta sempre assoluto. Come lo straniero che non hapatrono rassomiglia alla selvaggina da caccia, l'ospiteinvece è uguale al cittadino; il contratto ordinariamentenon dà luogo ad azione giudiziaria, ma quando il dirittodel creditore era riconosciuto esso diventa così efficace,che il disgraziato non trova nessuna speranza d'umanoed equo temperamento. Pare che la giurisprudenza ro-mana si compiaccia e trionfi nell'aguzzare le più aspreangolosità, e tirare da ogni principio le estreme conse-guenze, presentando violentemente, anche ai più lentiintelletti, il lato inesorabile del senso giuridico. La for-ma poetica, la penetrazione affettuosa, che informanopiacevolmente gli ordini giudiziarii dei Germani, sonoignote ai Romani; nel loro diritto tutto è chiaro e conci-so, non vi è alcun simbolo, e nessuna istituzione è ditroppo. Non è crudele; ma tutto ciò che è necessario siesegue senza esitazione e senza temperamenti, anche lasentenza di morte. Che il libero cittadino non possa es-sere torturato è un principio antichissimo del diritto ro-mano, per conseguire il quale altri popoli furono costret-ti a combattere migliaia d'anni. Ma lo stesso diritto ro-mano colla sua inesorabile severità – che non si devecredere affatto mitigata da una pratica umana, poichè èun diritto di popolo – sostituì alle pene corporali una mi-naccia terribile, più terribile che non fossero i Piombi ele celle di tortura, le prigioni dei debitori insolventi, chein ogni casa signorile questi disgraziati vedevano in lun-ga fila allineate come sepolcri pronti ad ingoiarli vivi.

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chiaramente i confini. Favorevole o severo, il diritto sipresenta sempre assoluto. Come lo straniero che non hapatrono rassomiglia alla selvaggina da caccia, l'ospiteinvece è uguale al cittadino; il contratto ordinariamentenon dà luogo ad azione giudiziaria, ma quando il dirittodel creditore era riconosciuto esso diventa così efficace,che il disgraziato non trova nessuna speranza d'umanoed equo temperamento. Pare che la giurisprudenza ro-mana si compiaccia e trionfi nell'aguzzare le più aspreangolosità, e tirare da ogni principio le estreme conse-guenze, presentando violentemente, anche ai più lentiintelletti, il lato inesorabile del senso giuridico. La for-ma poetica, la penetrazione affettuosa, che informanopiacevolmente gli ordini giudiziarii dei Germani, sonoignote ai Romani; nel loro diritto tutto è chiaro e conci-so, non vi è alcun simbolo, e nessuna istituzione è ditroppo. Non è crudele; ma tutto ciò che è necessario siesegue senza esitazione e senza temperamenti, anche lasentenza di morte. Che il libero cittadino non possa es-sere torturato è un principio antichissimo del diritto ro-mano, per conseguire il quale altri popoli furono costret-ti a combattere migliaia d'anni. Ma lo stesso diritto ro-mano colla sua inesorabile severità – che non si devecredere affatto mitigata da una pratica umana, poichè èun diritto di popolo – sostituì alle pene corporali una mi-naccia terribile, più terribile che non fossero i Piombi ele celle di tortura, le prigioni dei debitori insolventi, chein ogni casa signorile questi disgraziati vedevano in lun-ga fila allineate come sepolcri pronti ad ingoiarli vivi.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

Ma con ciò appunto si spiega la grandezza di Roma: ilpopolo stesso si è imposto e ha sopportato un diritto incui dominavano, e oggi ancora dominano, nè falsati nèmitigati, gli eterni principî della libertà, della proprietà edella legalità.

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Ma con ciò appunto si spiega la grandezza di Roma: ilpopolo stesso si è imposto e ha sopportato un diritto incui dominavano, e oggi ancora dominano, nè falsati nèmitigati, gli eterni principî della libertà, della proprietà edella legalità.

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DODICESIMO CAPITOLORELIGIONE

1 Religione romana. Il mondo divino dei Romaninacque, come già dicemmo, dal riflesso di Roma, nellapiù alta e ideale sfera d'intuizione nella quale si rispec-chiavano le piccole e le grandi cose con esattezza scru-polosa. Lo stato, la famiglia, ogni fenomeno della natu-ra, ogni atto dell'interna attività spirituale, ogni indivi-duo, ogni luogo, ogni oggetto, e persino ogni azione ri-conosciuta e sancita dalla legge, riapparivano quasi inluminoso riverbero nella teogonia romana; e come la na-tura delle cose terrene fluttua in un eterno andirivieni,così è mutabile e girevole anche il mondo degli dei. Ilgenio tutelare che presiede a una data azione, non durapiù che l'azione stessa; lo spirito tutelare dell'uomo, ap-pare e si dilegua colla nascita e colla morte dell'indivi-duo; e a queste entità divine è data un'eterna durata soloperchè le azioni e gli esseri umani si riproducono inces-santemente, e con essi anche le loro immagini superne.Come i numi romani avevano in tutela il comune roma-no, così ogni altro stato straniero era sotto la tutela delleproprie divinità; e per quanto fosse duro il cittadino ro-mano verso il non cittadino, e la divinità romana versola divinità straniera, concedendo la cittadinanza allostraniero, la si concedeva anche ai suoi dei, semprechèlo decretasse il comune. Così, quando i cittadini d'un co-

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DODICESIMO CAPITOLORELIGIONE

1 Religione romana. Il mondo divino dei Romaninacque, come già dicemmo, dal riflesso di Roma, nellapiù alta e ideale sfera d'intuizione nella quale si rispec-chiavano le piccole e le grandi cose con esattezza scru-polosa. Lo stato, la famiglia, ogni fenomeno della natu-ra, ogni atto dell'interna attività spirituale, ogni indivi-duo, ogni luogo, ogni oggetto, e persino ogni azione ri-conosciuta e sancita dalla legge, riapparivano quasi inluminoso riverbero nella teogonia romana; e come la na-tura delle cose terrene fluttua in un eterno andirivieni,così è mutabile e girevole anche il mondo degli dei. Ilgenio tutelare che presiede a una data azione, non durapiù che l'azione stessa; lo spirito tutelare dell'uomo, ap-pare e si dilegua colla nascita e colla morte dell'indivi-duo; e a queste entità divine è data un'eterna durata soloperchè le azioni e gli esseri umani si riproducono inces-santemente, e con essi anche le loro immagini superne.Come i numi romani avevano in tutela il comune roma-no, così ogni altro stato straniero era sotto la tutela delleproprie divinità; e per quanto fosse duro il cittadino ro-mano verso il non cittadino, e la divinità romana versola divinità straniera, concedendo la cittadinanza allostraniero, la si concedeva anche ai suoi dei, semprechèlo decretasse il comune. Così, quando i cittadini d'un co-

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mune conquistato si trasferivano a Roma, s'invitavanoanche i numi di quel luogo a pigliar sede nella città; daciò nacque la distinzione tra gli dei indigeni (indigetes),e gli dei «introdotti di novello» (novensides), come tra icittadini si distinguevano quelli appartenenti alle vec-chie e quelli appartenenti alle giovani famiglie.

Noi impariamo a conoscere il mondo degli dei roma-ni, quale si venne formando a Roma anteriormente adogni contatto con i Greci, dall'elenco delle ferie (feriaepublicae) conservato nel calendario di Roma che rap-presenta il più antico documento pervenuto fino a noi.Le divinità prevalenti sono Giove e Marte, insieme aQuirino, ombra di Marte. Tutti i giorni di plenilunio(idus) sono sacri a Giove, come pure tutte le feste dellavendemmia ed altri giorni che più tardi elencheremo, eal suo antagonista, al Giove cattivo (Vediovis), è consa-crato il 21 maggio (agonalia). Invece a Marte apparten-gono il capodanno (primo marzo) e in generale la gran-de festa guerriera che ricorre in questo mese col nomedello stesso dio e che iniziandosi con le corse equestri(equirria) il 27 febbraio, culminava nello stesso marzonei giorni della fucinatura dello scudo (equirria o Ma-muralia, 14 marzo), della danza delle armi nel tribunale(quinquatrus, 19 marzo), e della consacrazione delletrombe (tubilustrium, 23 marzo). Siccome con questafesta si iniziava ogni guerra, al ritorno della spedizione,in autunno, aveva luogo un'altra festa in onore di Marte,la consacrazione delle armi (armilustrium, 19 ottobre).

A Quirino era consacrato il 17 febbraio (Quirinalia).280

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mune conquistato si trasferivano a Roma, s'invitavanoanche i numi di quel luogo a pigliar sede nella città; daciò nacque la distinzione tra gli dei indigeni (indigetes),e gli dei «introdotti di novello» (novensides), come tra icittadini si distinguevano quelli appartenenti alle vec-chie e quelli appartenenti alle giovani famiglie.

Noi impariamo a conoscere il mondo degli dei roma-ni, quale si venne formando a Roma anteriormente adogni contatto con i Greci, dall'elenco delle ferie (feriaepublicae) conservato nel calendario di Roma che rap-presenta il più antico documento pervenuto fino a noi.Le divinità prevalenti sono Giove e Marte, insieme aQuirino, ombra di Marte. Tutti i giorni di plenilunio(idus) sono sacri a Giove, come pure tutte le feste dellavendemmia ed altri giorni che più tardi elencheremo, eal suo antagonista, al Giove cattivo (Vediovis), è consa-crato il 21 maggio (agonalia). Invece a Marte apparten-gono il capodanno (primo marzo) e in generale la gran-de festa guerriera che ricorre in questo mese col nomedello stesso dio e che iniziandosi con le corse equestri(equirria) il 27 febbraio, culminava nello stesso marzonei giorni della fucinatura dello scudo (equirria o Ma-muralia, 14 marzo), della danza delle armi nel tribunale(quinquatrus, 19 marzo), e della consacrazione delletrombe (tubilustrium, 23 marzo). Siccome con questafesta si iniziava ogni guerra, al ritorno della spedizione,in autunno, aveva luogo un'altra festa in onore di Marte,la consacrazione delle armi (armilustrium, 19 ottobre).

A Quirino era consacrato il 17 febbraio (Quirinalia).280

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Nelle altre feste, occupano il primo posto quelle rela-tive all'agricoltura e alla viticoltura, mentre le feste pa-storali non hanno che una secondaria importanza. Alleprime erano offerte vittime il giorno 15 a Tellus, dio del-la terra nutriente (Fordicidia: vittima una vacca gravi-da), e il 19 di marzo a Cerere, cioè alla dea delle cosegermoglianti (Cerialia); e il 21 a Pales (Parilia) dea del-le greggi fecondate; il 23 a Giove, protettore delle viti edelle botti che si inauguravano in quel giorno (Vinalia),il 25 al nemico delle messi, alla ruggine (Robigus; Robi-galia). Così pure dopo compiuto il lavoro e dopo il rac-colto felicemente portato al granaio, si celebrava in ono-re del dio e della dea del raccolto della messe, Conso(da condere) e Ops, una doppia festa; la prima immedia-tamente dopo la mietitura (21 agosto, Consualia; 25agosto Opiconsiva), e poi alla metà dell'inverno, quandola ricchezza dei granai appare manifesta (15 dicembre,Consualia; 19 dicembre, Opalia), fra questi due ultimigiorni festivi, l'immaginoso senso degli antichi ordinò lafesta della seminagione (Saturnalia da Saeturnus, 17 di-cembre); nello stesso modo la festa del mosto e della sa-lute (Meditrinalia, 11 ottobre) viene chiamata così per-chè al mosto si attribuiva un potere salutare e veniva of-ferta a Giove come dio del vino, dopo ultimata la ven-demmia, mentre non è chiara l'origine primitiva dellaterza festa del vino (Vinalia, 19 agosto).

A tali feste si debbono aggiungere quella del lupo(Lupercalia, febbraio) alla fine dell'anno; quella dei pa-stori in onore di Fauno, il dio buono, e quella della pie-

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Nelle altre feste, occupano il primo posto quelle rela-tive all'agricoltura e alla viticoltura, mentre le feste pa-storali non hanno che una secondaria importanza. Alleprime erano offerte vittime il giorno 15 a Tellus, dio del-la terra nutriente (Fordicidia: vittima una vacca gravi-da), e il 19 di marzo a Cerere, cioè alla dea delle cosegermoglianti (Cerialia); e il 21 a Pales (Parilia) dea del-le greggi fecondate; il 23 a Giove, protettore delle viti edelle botti che si inauguravano in quel giorno (Vinalia),il 25 al nemico delle messi, alla ruggine (Robigus; Robi-galia). Così pure dopo compiuto il lavoro e dopo il rac-colto felicemente portato al granaio, si celebrava in ono-re del dio e della dea del raccolto della messe, Conso(da condere) e Ops, una doppia festa; la prima immedia-tamente dopo la mietitura (21 agosto, Consualia; 25agosto Opiconsiva), e poi alla metà dell'inverno, quandola ricchezza dei granai appare manifesta (15 dicembre,Consualia; 19 dicembre, Opalia), fra questi due ultimigiorni festivi, l'immaginoso senso degli antichi ordinò lafesta della seminagione (Saturnalia da Saeturnus, 17 di-cembre); nello stesso modo la festa del mosto e della sa-lute (Meditrinalia, 11 ottobre) viene chiamata così per-chè al mosto si attribuiva un potere salutare e veniva of-ferta a Giove come dio del vino, dopo ultimata la ven-demmia, mentre non è chiara l'origine primitiva dellaterza festa del vino (Vinalia, 19 agosto).

A tali feste si debbono aggiungere quella del lupo(Lupercalia, febbraio) alla fine dell'anno; quella dei pa-stori in onore di Fauno, il dio buono, e quella della pie-

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tra terminale (Terminalia, 23 febbraio) che era degliagricoltori; quindi la diuturna festa estiva del boschetto(Lucaria, 19 e 21 luglio), che sembra dedicata agli deidel bosco (Silvani); quella delle fonti (Fontinalia, 13 ot-tobre) e la festa del giorno più breve che riconduce ilnuovo sole (Angerolalia, Divalia, 21 dicembre).

Di particolare interesse erano, e non poteva essere di-versamente nella città che fu porto del Lazio, le festenautiche consacrate alle divinità del mare (Neptunalia,23 luglio), del porto (Portunalia, 17 agosto), e del Teve-re (Volturnalia, 27 agosto), mentre la manifattura e l'artesono rappresentati in questa sfera di dei, solo con Vulca-no, dio del fuoco e della fucina, al quale, oltre al giornoche ha preso nome da lui (Volcanalia, 23 agosto), eraconsacrata anche la seconda festa delle trombe (Tubilu-strium, 23 maggio), e quasi certamente anche la festa diCarmenta (Carmentalia, 11 e 15 gennaio) la quale senzadubbio fu onorata dapprima come dea degli incantesimie della canzone, e poi come protettrice delle nascite.

Alla famiglia e alla casa erano consacrate: la festadella dea della casa e degli spiriti della dispensa e cioèVesta ed i Penati (Vestalia, 9 giugno); quella della deadelle nascite (Metralia, 11 giugno)75; la festa della bene-

75 Sembra che questa sia l'origine della «madre mattutina»(Mater matuta) in cui si deve ricordare che come lo indicano iprenomi di Lucia e specie di Manio, l'ora del mattino è bene au-gurante per la nascita. Più tardi la Mater matuta divenne dea delmare e del porto, certo sotto l'influenza del mito di Leucotea, magià il fatto che la dea era venerata specialmente dalle donne, si

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tra terminale (Terminalia, 23 febbraio) che era degliagricoltori; quindi la diuturna festa estiva del boschetto(Lucaria, 19 e 21 luglio), che sembra dedicata agli deidel bosco (Silvani); quella delle fonti (Fontinalia, 13 ot-tobre) e la festa del giorno più breve che riconduce ilnuovo sole (Angerolalia, Divalia, 21 dicembre).

Di particolare interesse erano, e non poteva essere di-versamente nella città che fu porto del Lazio, le festenautiche consacrate alle divinità del mare (Neptunalia,23 luglio), del porto (Portunalia, 17 agosto), e del Teve-re (Volturnalia, 27 agosto), mentre la manifattura e l'artesono rappresentati in questa sfera di dei, solo con Vulca-no, dio del fuoco e della fucina, al quale, oltre al giornoche ha preso nome da lui (Volcanalia, 23 agosto), eraconsacrata anche la seconda festa delle trombe (Tubilu-strium, 23 maggio), e quasi certamente anche la festa diCarmenta (Carmentalia, 11 e 15 gennaio) la quale senzadubbio fu onorata dapprima come dea degli incantesimie della canzone, e poi come protettrice delle nascite.

Alla famiglia e alla casa erano consacrate: la festadella dea della casa e degli spiriti della dispensa e cioèVesta ed i Penati (Vestalia, 9 giugno); quella della deadelle nascite (Metralia, 11 giugno)75; la festa della bene-

75 Sembra che questa sia l'origine della «madre mattutina»(Mater matuta) in cui si deve ricordare che come lo indicano iprenomi di Lucia e specie di Manio, l'ora del mattino è bene au-gurante per la nascita. Più tardi la Mater matuta divenne dea delmare e del porto, certo sotto l'influenza del mito di Leucotea, magià il fatto che la dea era venerata specialmente dalle donne, si

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dizione dei fanciulli, dedicati a Libero e a Libera (Libe-ralia, 17 marzo); la festa degli spiriti defunti (Feralia,21 febbraio) e la festa degli spettri che durava tre giorni(Lemuria, 9, 11, 13 maggio); mentre i rapporti cittadinierano regolati dai due giorni festivi non chiari per noi,della fuga del re (Regifugium, 24 febbraio) e della fugadel popolo (Poplifugia, 5 luglio), dei quali l'ultimo eraalmeno consacrato a Giove, e la festa dei Sette monti(Agonia o Septimontium, 11 dicembre).

Alcune altre feste, come quelle consacrate a Furrina,25 luglio, a Giove e ad Acca-Larentia, consacrate aiLari italici, che sono forse una festa dei Lari (23 dicem-bre) sono sconosciute quanto al loro significato.

Questa tabella che è completa per le feste pubblicheimmobili, ci permette di penetrare con lo sguardo inun'epoca che sarebbe per noi altrimenti sconosciuta.Questo calendario festivo è posteriore certamente allaunione dei due comuni romani perchè oltre al dio Martevi troviamo anche il dio Quirino, che era il Marte delcomune del colle; ma non esisteva ancora il tempio ca-pitolino, perchè non vi è fatta menzione nè di Giunonenè di Minerva; nè il santuario di Diana era ancora erettosull'Aventino; nè si era preso dai Greci alcun concetto diciviltà.

Il centro del culto divino, in quell'epoca, quando larazza abbandonata a se stessa abitava la penisola e quin-di non solo romano, ma italico, era, secondo ogni indi-

oppone al concetto originario di dea del porto.283

Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

dizione dei fanciulli, dedicati a Libero e a Libera (Libe-ralia, 17 marzo); la festa degli spiriti defunti (Feralia,21 febbraio) e la festa degli spettri che durava tre giorni(Lemuria, 9, 11, 13 maggio); mentre i rapporti cittadinierano regolati dai due giorni festivi non chiari per noi,della fuga del re (Regifugium, 24 febbraio) e della fugadel popolo (Poplifugia, 5 luglio), dei quali l'ultimo eraalmeno consacrato a Giove, e la festa dei Sette monti(Agonia o Septimontium, 11 dicembre).

Alcune altre feste, come quelle consacrate a Furrina,25 luglio, a Giove e ad Acca-Larentia, consacrate aiLari italici, che sono forse una festa dei Lari (23 dicem-bre) sono sconosciute quanto al loro significato.

Questa tabella che è completa per le feste pubblicheimmobili, ci permette di penetrare con lo sguardo inun'epoca che sarebbe per noi altrimenti sconosciuta.Questo calendario festivo è posteriore certamente allaunione dei due comuni romani perchè oltre al dio Martevi troviamo anche il dio Quirino, che era il Marte delcomune del colle; ma non esisteva ancora il tempio ca-pitolino, perchè non vi è fatta menzione nè di Giunonenè di Minerva; nè il santuario di Diana era ancora erettosull'Aventino; nè si era preso dai Greci alcun concetto diciviltà.

Il centro del culto divino, in quell'epoca, quando larazza abbandonata a se stessa abitava la penisola e quin-di non solo romano, ma italico, era, secondo ogni indi-

oppone al concetto originario di dea del porto.283

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zio, il dio Maurs o Mars, Marte76, il dio che uccide, con-cepito specialmente come il protettore divino della citta-dinanza, vincitore del nemico; il dio che brandisce lalancia e protegge le greggi. Naturalmente ogni comunepossedeva il proprio Marte e lo considerava come il piùforte e il più divino fra tutti, cosicchè ogni colonia emi-grante per fondare una nuova città, partiva sotto la pro-tezione del proprio Marte.

Nel calendario romano privo di dei, come forse anchein quello latino e sabino il primo mese è santificato. Frai nomi romani che però non ricordano deità, appaionoMarco, Mamerco, Mamurio, come quelli già in uso inantichissimi tempi. La tradizione italica più antica si ri-collega a Marte ed al suo sacro uccello; anche il lupo,che è sacro a Marte, è il segno della cittadinanza roma-na, e tutto ciò che la fantasia romana ha potuto creare infatto di leggende ataviche, si riferisce al dio Marte ed alsuo duplicato Quirino.

Nell'elenco delle feste, padre Diovis, riflesso più ge-nuino e più borghese del comune romano, occupa unposto maggiore di Marte, come il sacerdote di Gioveprecede i due del dio della guerra; ma questi occupa tut-tavia un posto eminente, ed è anzi assai credibile che al-lorquando quest'ordine di feste fu stabilito, Giove stesse

76 Da Maurs, che è la più antica forma tradizionale, si svilup-pano con vario trattamento dell'u Mars, Mavors, mors: il passag-gio in ö (simile a Paula, Pola e altre), apparisce anche nella dop-pia forma Mar-Mor (cfr. Ma-murius) presso a Mar-Mar e Ma-Mers.

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zio, il dio Maurs o Mars, Marte76, il dio che uccide, con-cepito specialmente come il protettore divino della citta-dinanza, vincitore del nemico; il dio che brandisce lalancia e protegge le greggi. Naturalmente ogni comunepossedeva il proprio Marte e lo considerava come il piùforte e il più divino fra tutti, cosicchè ogni colonia emi-grante per fondare una nuova città, partiva sotto la pro-tezione del proprio Marte.

Nel calendario romano privo di dei, come forse anchein quello latino e sabino il primo mese è santificato. Frai nomi romani che però non ricordano deità, appaionoMarco, Mamerco, Mamurio, come quelli già in uso inantichissimi tempi. La tradizione italica più antica si ri-collega a Marte ed al suo sacro uccello; anche il lupo,che è sacro a Marte, è il segno della cittadinanza roma-na, e tutto ciò che la fantasia romana ha potuto creare infatto di leggende ataviche, si riferisce al dio Marte ed alsuo duplicato Quirino.

Nell'elenco delle feste, padre Diovis, riflesso più ge-nuino e più borghese del comune romano, occupa unposto maggiore di Marte, come il sacerdote di Gioveprecede i due del dio della guerra; ma questi occupa tut-tavia un posto eminente, ed è anzi assai credibile che al-lorquando quest'ordine di feste fu stabilito, Giove stesse

76 Da Maurs, che è la più antica forma tradizionale, si svilup-pano con vario trattamento dell'u Mars, Mavors, mors: il passag-gio in ö (simile a Paula, Pola e altre), apparisce anche nella dop-pia forma Mar-Mor (cfr. Ma-murius) presso a Mar-Mar e Ma-Mers.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

presso Marte, come Ahuramazda presso Mithra, e che ilvero centro del culto degli dei, nel bellicoso comune ro-mano, fosse anche allora il guerriero dio della morte,mentre il padre Giove era onorato come dio del vino cherallegra i cuori, e non già Dioniso, solo più tardi intro-dotto dai Greci.

2 Natura delle divinità romane. Non entra nel di-segno di questa storia lo studio particolare delle divinitàromane; ma è di grande importanza anche per la storia ilfar conoscere il loro singolare carattere intimo e neltempo stesso accessibile e volgare.

La sostanza della mitologia romana, come dell'elleni-ca, è l'astrazione e la personificazione; anche il numedegli Elleni è il riflesso d'un fenomeno della natura, o laconcretazione d'un'idea; e anche al Romano come alGreco ogni nume apparisce sotto forma di persona, e nefa prova il concetto che ogni deità è maschio o femmi-na, e l'invocazione al nume ignoto «Sei tu dio o dea,maschio od anche femmina?». Quindi la profonda con-vinzione che si debba gelosamente serbare segreto ilnome del vero genio tutelare del comune, affinchè nonlo apprenda il nemico, e chiamando il dio col suo nome,non l'adeschi al di là dei confini. Un resto di questo po-tente concetto è particolarmente unito alla più antica epiù nazionale delle divinità, cioè a Marte. Se poi si con-sidera che l'astrazione, fondamento di ogni religione,cerca sempre d'innalzarsi a più elevata sfera, e di pene-trare sempre più profondamente nell'intima natura delle

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presso Marte, come Ahuramazda presso Mithra, e che ilvero centro del culto degli dei, nel bellicoso comune ro-mano, fosse anche allora il guerriero dio della morte,mentre il padre Giove era onorato come dio del vino cherallegra i cuori, e non già Dioniso, solo più tardi intro-dotto dai Greci.

2 Natura delle divinità romane. Non entra nel di-segno di questa storia lo studio particolare delle divinitàromane; ma è di grande importanza anche per la storia ilfar conoscere il loro singolare carattere intimo e neltempo stesso accessibile e volgare.

La sostanza della mitologia romana, come dell'elleni-ca, è l'astrazione e la personificazione; anche il numedegli Elleni è il riflesso d'un fenomeno della natura, o laconcretazione d'un'idea; e anche al Romano come alGreco ogni nume apparisce sotto forma di persona, e nefa prova il concetto che ogni deità è maschio o femmi-na, e l'invocazione al nume ignoto «Sei tu dio o dea,maschio od anche femmina?». Quindi la profonda con-vinzione che si debba gelosamente serbare segreto ilnome del vero genio tutelare del comune, affinchè nonlo apprenda il nemico, e chiamando il dio col suo nome,non l'adeschi al di là dei confini. Un resto di questo po-tente concetto è particolarmente unito alla più antica epiù nazionale delle divinità, cioè a Marte. Se poi si con-sidera che l'astrazione, fondamento di ogni religione,cerca sempre d'innalzarsi a più elevata sfera, e di pene-trare sempre più profondamente nell'intima natura delle

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cose, si deve riconoscere che le immagini della fede ro-mana fluttuano in una plaga incredibilmente vicina allaterra, e in una specie di crepuscolo dell'intuizione edell'idea. Se per il Greco ogni fenomeno espressivo siallarga rapidamente e si vivifica in un gruppo d'immagi-ni, e quindi in un ciclo di leggende e di idee, per il Ro-mano invece si arresta al concetto fondamentale nellasua originaria e limitata immutabilità. La religione ro-mana non ha nelle sue scarse e aride creazioni, nulla cheanche lontanamente possa contrapporsi al culto apolli-neo, trasfigurazione d'ogni bellezza corporea e morale,nè alla divina ebrezza dionisiaca, nè ai profondi ed arca-ni riti etonici77, nè al simbolismo dei misteri. Essa habensì anche l'idea d'un «dio cattivo (Ve-diovis), della di-vinità della malaria, della febbre, del morbi e forse an-che del furto (laverna), e la coscienza di apparizioni difantasmi (lemures), ma tutto ciò non è atto a produrrequel sacro orrore del terribile e dell'ignoto, a cui tendel'anima umana, nè a spingere il pensiero verso l'incom-prensibile, o personificarlo col male, che si trova nella

77 «Riti etnici» o delle divinità terrestri, sotterranee ed inferne;e forse anche i culti sanguinosi e mortiferi, che s'incontrano nellereligioni orientali, e di cui tratta ampiamente l'opera d'EWERBECH:Qu'est-ce que la Bible? Paris, 1831. E in questo caso potrebbe ve-nire da Κτόνος, strage. Ma come il Mommsen scrive chthonische,così convien derivarlo χϑων (terra, onde χϑόυιοι ϑεοί, dei inferi,dei quali parla WEBER (Lehrbuch der Weltgesis) al par. 11 «die ch-thonischen Götter»; ed erano Cerere, che chiamavano anche Cto-nia, Pluto, Proserpina, Ades, Ermete, Mercurio, come guidatoridei morti, e i Cabiri di Samotracia.

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cose, si deve riconoscere che le immagini della fede ro-mana fluttuano in una plaga incredibilmente vicina allaterra, e in una specie di crepuscolo dell'intuizione edell'idea. Se per il Greco ogni fenomeno espressivo siallarga rapidamente e si vivifica in un gruppo d'immagi-ni, e quindi in un ciclo di leggende e di idee, per il Ro-mano invece si arresta al concetto fondamentale nellasua originaria e limitata immutabilità. La religione ro-mana non ha nelle sue scarse e aride creazioni, nulla cheanche lontanamente possa contrapporsi al culto apolli-neo, trasfigurazione d'ogni bellezza corporea e morale,nè alla divina ebrezza dionisiaca, nè ai profondi ed arca-ni riti etonici77, nè al simbolismo dei misteri. Essa habensì anche l'idea d'un «dio cattivo (Ve-diovis), della di-vinità della malaria, della febbre, del morbi e forse an-che del furto (laverna), e la coscienza di apparizioni difantasmi (lemures), ma tutto ciò non è atto a produrrequel sacro orrore del terribile e dell'ignoto, a cui tendel'anima umana, nè a spingere il pensiero verso l'incom-prensibile, o personificarlo col male, che si trova nella

77 «Riti etnici» o delle divinità terrestri, sotterranee ed inferne;e forse anche i culti sanguinosi e mortiferi, che s'incontrano nellereligioni orientali, e di cui tratta ampiamente l'opera d'EWERBECH:Qu'est-ce que la Bible? Paris, 1831. E in questo caso potrebbe ve-nire da Κτόνος, strage. Ma come il Mommsen scrive chthonische,così convien derivarlo χϑων (terra, onde χϑόυιοι ϑεοί, dei inferi,dei quali parla WEBER (Lehrbuch der Weltgesis) al par. 11 «die ch-thonischen Götter»; ed erano Cerere, che chiamavano anche Cto-nia, Pluto, Proserpina, Ades, Ermete, Mercurio, come guidatoridei morti, e i Cabiri di Samotracia.

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natura e nell'uomo, e che è pure un aspetto che non devemancare alla religione, se in essa ha interamente daestrinsecarsi e da manifestarsi tutto l'uomo.

Nella religione romana non vi è nessun segreto eccet-tuato il nome degli dei della città, dei Penati; e anche lanatura di queste divinità era del resto palese a tutti. Lateologia nazionale romana faceva ogni sforzo per inten-dere e ridurre a facile comprensione tutti i fenomeni e iloro caratteri; ordinarli secondo una propria terminolo-gia, e classificarli schematicamente secondo la divisionedi persone e di cose che era a base del diritto privato, af-finchè ciascuno potesse da sè invocare con esattezza glidei secondo la classe o la serie a cui appartengono, o in-dicarne (indigitare) la giusta invocazione alla moltitudi-ne. Da questi concetti derivati dalla più ingenua sempli-cità, che sta tra il venerando e il ridicolo, nacque, in so-stanza, la teologia romana. Alle più antiche e più santedivinità di Roma appartengono le astrazioni rappresen-tative della semente (saeturnus), del lavoro dei campi(ops), del suolo (tellus), del confine (terminus).

La figura divina più speciale e propria dei Romani,anzi l'unica forse per cui fu inventata una statua nazio-nale italica, è il bifronte Giano; e nondimeno altro nonv'è in quest'immagine che l'idea indicante la scrupolosareligiosità dei Romani, che prima di metter mano a qual-siasi azione dovevano, innanzi ad ogni altro dio, invoca-re «lo spirito dell'apertura» e nel tempo stesso il profon-do sentimento, che prima di tutto era necessario proce-dere per ordine e per serie nell'idealismo divino dei Ro-

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natura e nell'uomo, e che è pure un aspetto che non devemancare alla religione, se in essa ha interamente daestrinsecarsi e da manifestarsi tutto l'uomo.

Nella religione romana non vi è nessun segreto eccet-tuato il nome degli dei della città, dei Penati; e anche lanatura di queste divinità era del resto palese a tutti. Lateologia nazionale romana faceva ogni sforzo per inten-dere e ridurre a facile comprensione tutti i fenomeni e iloro caratteri; ordinarli secondo una propria terminolo-gia, e classificarli schematicamente secondo la divisionedi persone e di cose che era a base del diritto privato, af-finchè ciascuno potesse da sè invocare con esattezza glidei secondo la classe o la serie a cui appartengono, o in-dicarne (indigitare) la giusta invocazione alla moltitudi-ne. Da questi concetti derivati dalla più ingenua sempli-cità, che sta tra il venerando e il ridicolo, nacque, in so-stanza, la teologia romana. Alle più antiche e più santedivinità di Roma appartengono le astrazioni rappresen-tative della semente (saeturnus), del lavoro dei campi(ops), del suolo (tellus), del confine (terminus).

La figura divina più speciale e propria dei Romani,anzi l'unica forse per cui fu inventata una statua nazio-nale italica, è il bifronte Giano; e nondimeno altro nonv'è in quest'immagine che l'idea indicante la scrupolosareligiosità dei Romani, che prima di metter mano a qual-siasi azione dovevano, innanzi ad ogni altro dio, invoca-re «lo spirito dell'apertura» e nel tempo stesso il profon-do sentimento, che prima di tutto era necessario proce-dere per ordine e per serie nell'idealismo divino dei Ro-

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mani, mentre invece gli dei degli Elleni, strettamentepersonali, esistevano necessariamente ciascuno per sèmedesimo78.

Forse il più intimo e il più devoto culto della religioneromana è quello che si consacrava ai geni protettori chevigilavano sulla casa, sul focolare e sulla camera, cioènel culto pubblico quello di Vesta e dei Penati, nel cultodelle case gentilizie, quello degli dei dei boschi e deicampi, dei silvani, e più ancora quello delle divinità do-mestiche, dei Lasi o Lari, a cui regolarmente veniva of-ferta una porzione del cibo, e davanti ai quali, fino aitempi di Catone il maggiore, il padre di famiglia, appe-na rimesso il piede in casa, prima di ogni altra cosa sole-va compiere le sue devozioni. Ma questi numi domesticie campestri prendevano nella gerarchia degli dei l'ulti-

78 La circostanza che il portone, la porta e il mattino (Janusmatutinus) sono sacri a Giano, che questo nume è sempre invoca-to prima di ogni altro dio, e che persino nella serie delle monete èannoverato prima di Giove e degli altri dei, fa sì che esso si debbaritenere evidentemente designato come l'astrazione dell'apertura edel cominciamento. Ed anche la sua testa doppia che guarda dadue parti, è immagine della porta che s'apre da due lati. Di questafigura leggermente simbolica non se ne può fare un dio del sole odell'anno, poichè il mese da lui nominato, in origine era l'undeci-mo dell'anno, e non il primo; sembra anzi che questo mese porti ilsuo nome, perchè in quel periodo dell'anno si riapre la casa chefino a mezz'inverno era tenuta chiusa, appunto come il mese se-guente ha il nome del ripulimento della casa dall'imbratto inver-nale (Februarius). Che poi anche l'apertura dell'anno sia stata at-tratta nella sfera simbolica di Giano dopochè il mese che da lui hail nome fu posto alla testa dell'anno, la cosa è naturale e piana.

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mani, mentre invece gli dei degli Elleni, strettamentepersonali, esistevano necessariamente ciascuno per sèmedesimo78.

Forse il più intimo e il più devoto culto della religioneromana è quello che si consacrava ai geni protettori chevigilavano sulla casa, sul focolare e sulla camera, cioènel culto pubblico quello di Vesta e dei Penati, nel cultodelle case gentilizie, quello degli dei dei boschi e deicampi, dei silvani, e più ancora quello delle divinità do-mestiche, dei Lasi o Lari, a cui regolarmente veniva of-ferta una porzione del cibo, e davanti ai quali, fino aitempi di Catone il maggiore, il padre di famiglia, appe-na rimesso il piede in casa, prima di ogni altra cosa sole-va compiere le sue devozioni. Ma questi numi domesticie campestri prendevano nella gerarchia degli dei l'ulti-

78 La circostanza che il portone, la porta e il mattino (Janusmatutinus) sono sacri a Giano, che questo nume è sempre invoca-to prima di ogni altro dio, e che persino nella serie delle monete èannoverato prima di Giove e degli altri dei, fa sì che esso si debbaritenere evidentemente designato come l'astrazione dell'apertura edel cominciamento. Ed anche la sua testa doppia che guarda dadue parti, è immagine della porta che s'apre da due lati. Di questafigura leggermente simbolica non se ne può fare un dio del sole odell'anno, poichè il mese da lui nominato, in origine era l'undeci-mo dell'anno, e non il primo; sembra anzi che questo mese porti ilsuo nome, perchè in quel periodo dell'anno si riapre la casa chefino a mezz'inverno era tenuta chiusa, appunto come il mese se-guente ha il nome del ripulimento della casa dall'imbratto inver-nale (Februarius). Che poi anche l'apertura dell'anno sia stata at-tratta nella sfera simbolica di Giano dopochè il mese che da lui hail nome fu posto alla testa dell'anno, la cosa è naturale e piana.

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mo posto anzichè il primo. Non era la più vasta e piùgenerale astrazione, sibbene la più semplice e la più in-dividuale quella in cui lo spirito di devozione trovava ilsuo più vivo nutrimento.

Con questo basso concetto degli elementi ideali pro-cedeva la tendenza pratica e quella utilitaria della reli-gione romana, come si rileva dal calendario delle festegià accennate.

Il Romano altro non chiede ai suoi dei che l'aumentodel suo patrimonio e l'abbondanza del raccolto e la pro-sperità nella pastorizia, nella navigazione e nel commer-cio; è perciò che presso i Romani sono onorati il diodella fede serbata (deus fidius), la dea della sorte e dellafortuna (fors, fortuna), il dio del commercio (Mercurio),tutte divinità sorte dai bisogni elementari dell'uomo.

La rigorosa parsimonia e la speculazione commercia-le erano troppo profondamente radicate nello spirito ro-mano, perchè la loro divina rappresentazione non doves-se riflettersi nelle sfere più intime della religiosità.

3 Spiriti. Poco possiamo dire del mondo degli spiri-ti. Le anime separate dai loro corpi mortali, i «buoni»(manes) continuavano a vivere come ombre, legate alluogo ove giaceva la loro salma (dii inferi) e ricevevanodai superstiti bevande e cibo. Ma esse abitavano neglispazi della profondità, e nessun ponte metteva dal mon-do sotterraneo agli uomini abitanti della terra, nè aglidei superiori. Interamente sconosciuto è ai Romani ilculto degli eroi greci; e quanto sia di fresca data e male

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mo posto anzichè il primo. Non era la più vasta e piùgenerale astrazione, sibbene la più semplice e la più in-dividuale quella in cui lo spirito di devozione trovava ilsuo più vivo nutrimento.

Con questo basso concetto degli elementi ideali pro-cedeva la tendenza pratica e quella utilitaria della reli-gione romana, come si rileva dal calendario delle festegià accennate.

Il Romano altro non chiede ai suoi dei che l'aumentodel suo patrimonio e l'abbondanza del raccolto e la pro-sperità nella pastorizia, nella navigazione e nel commer-cio; è perciò che presso i Romani sono onorati il diodella fede serbata (deus fidius), la dea della sorte e dellafortuna (fors, fortuna), il dio del commercio (Mercurio),tutte divinità sorte dai bisogni elementari dell'uomo.

La rigorosa parsimonia e la speculazione commercia-le erano troppo profondamente radicate nello spirito ro-mano, perchè la loro divina rappresentazione non doves-se riflettersi nelle sfere più intime della religiosità.

3 Spiriti. Poco possiamo dire del mondo degli spiri-ti. Le anime separate dai loro corpi mortali, i «buoni»(manes) continuavano a vivere come ombre, legate alluogo ove giaceva la loro salma (dii inferi) e ricevevanodai superstiti bevande e cibo. Ma esse abitavano neglispazi della profondità, e nessun ponte metteva dal mon-do sotterraneo agli uomini abitanti della terra, nè aglidei superiori. Interamente sconosciuto è ai Romani ilculto degli eroi greci; e quanto sia di fresca data e male

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immaginata la leggenda intorno alla fondazione diRoma, lo prova abbastanza la trasformazione non roma-na del re Romolo nel dio Quirino. Numa, il più antico everabile nome della leggenda romana, non fu mai adora-to in Roma come dio, come lo fu Teseo in Atene.

4 Sacerdoti. I più antichi collegi sacerdotali si riferi-scono a Marte, specialmente il sacerdote del dio del co-mune, nominato a vita «l'accenditore di Marte» (FlamenMartialis) – nome derivato dalla sua carica di bruciarel'offerta nei sacrifici – e i dodici saltatori (Salii), i giova-ni che in marzo eseguivano la danza delle armi in onoredi Marte e cantavano. La fusione del comune Collinocol Palatino, portò come conseguenza un secondo sacer-dote di Marte, come abbiamo detto altrove, il quale pre-se il nome di Flamen Quirinalis, e di un secondo gruppodi danzatori, i Salii Collini.

A questi culti se ne aggiungevano anche degli altri inparte di origine più antica di Roma, e per i quali, o eranostabiliti sacerdoti speciali (ve ne erano per esempio, diVulcano, del dio del porto e del fiume) o il loro servizioera affidato a singole confraternite o singole stirpi. Unadi esse era probabilmente quella dei dodici fratres arva-les (fratelli oratori) i quali nel mese di maggio dovevanoinvocare la dea creatrice per propiziarla alle sementi,benchè sia molto dubbio che a quell'epoca questa divini-tà godesse già la stessa considerazione della quale fruìpoi nell'epoca imperiale. Un'altra era la confraternita Ti-zia, cui era affidato il culto speciale dei Sabini Romani,

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immaginata la leggenda intorno alla fondazione diRoma, lo prova abbastanza la trasformazione non roma-na del re Romolo nel dio Quirino. Numa, il più antico everabile nome della leggenda romana, non fu mai adora-to in Roma come dio, come lo fu Teseo in Atene.

4 Sacerdoti. I più antichi collegi sacerdotali si riferi-scono a Marte, specialmente il sacerdote del dio del co-mune, nominato a vita «l'accenditore di Marte» (FlamenMartialis) – nome derivato dalla sua carica di bruciarel'offerta nei sacrifici – e i dodici saltatori (Salii), i giova-ni che in marzo eseguivano la danza delle armi in onoredi Marte e cantavano. La fusione del comune Collinocol Palatino, portò come conseguenza un secondo sacer-dote di Marte, come abbiamo detto altrove, il quale pre-se il nome di Flamen Quirinalis, e di un secondo gruppodi danzatori, i Salii Collini.

A questi culti se ne aggiungevano anche degli altri inparte di origine più antica di Roma, e per i quali, o eranostabiliti sacerdoti speciali (ve ne erano per esempio, diVulcano, del dio del porto e del fiume) o il loro servizioera affidato a singole confraternite o singole stirpi. Unadi esse era probabilmente quella dei dodici fratres arva-les (fratelli oratori) i quali nel mese di maggio dovevanoinvocare la dea creatrice per propiziarla alle sementi,benchè sia molto dubbio che a quell'epoca questa divini-tà godesse già la stessa considerazione della quale fruìpoi nell'epoca imperiale. Un'altra era la confraternita Ti-zia, cui era affidato il culto speciale dei Sabini Romani,

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come pure i trenta flamini curiali corrispondenti ad al-trettante curie.

L'accennata festa del lupo (Lupercalia) veniva cele-brata nel mese di febbraio per la protezione delle greggi,ed era consacrata al dio favorevole (Faunus). Assomi-gliava ad un vero carnevale pastorale, durante il quale «ilupi» (Luperci) saltavano nudi, solo cinti di una pelle dicapra, e muniti di corregge colpivano chiunque incon-travano.

Si può ritenere che il comune fosse rappresentato an-che in questi culti gentilizi.

A questi antichi culti di Roma se ne aggiunsero apoco a poco dei nuovi. Il più antico è quello che si rife-risce alla città nuova e quasi nuovamente fondata in se-guito alle mura serviane. Fra questi emerge l'alto e mi-glior Giove col suo tempio sulla rocca del colle. Egli è ilgenio del popolo romano ed il primo di tutta la comples-sa mitologia romana e il suo flamine Dialis, forma, in-sieme ai due sacerdoti di Marte, la sacra trinità pontifi-cale. Nello stesso tempo incomincerà il culto del nuovoe proprio focolare dello stato, quello della dea Vesta equello dei Penati. Sei caste vergini, come figlie della fa-miglia comune del popolo romano, provvedevano al ser-vizio di Vesta, e dovevano conservare sempre acceso ilfuoco del comune focolare, ad esempio e monito dei cit-tadini. Questo culto divino, nello stesso tempo domesti-co e pubblico, era considerato dai Romani come il piùsacro e fu quello che di fronte all'avanzare del Cristiane-simo scomparve per ultimo.

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come pure i trenta flamini curiali corrispondenti ad al-trettante curie.

L'accennata festa del lupo (Lupercalia) veniva cele-brata nel mese di febbraio per la protezione delle greggi,ed era consacrata al dio favorevole (Faunus). Assomi-gliava ad un vero carnevale pastorale, durante il quale «ilupi» (Luperci) saltavano nudi, solo cinti di una pelle dicapra, e muniti di corregge colpivano chiunque incon-travano.

Si può ritenere che il comune fosse rappresentato an-che in questi culti gentilizi.

A questi antichi culti di Roma se ne aggiunsero apoco a poco dei nuovi. Il più antico è quello che si rife-risce alla città nuova e quasi nuovamente fondata in se-guito alle mura serviane. Fra questi emerge l'alto e mi-glior Giove col suo tempio sulla rocca del colle. Egli è ilgenio del popolo romano ed il primo di tutta la comples-sa mitologia romana e il suo flamine Dialis, forma, in-sieme ai due sacerdoti di Marte, la sacra trinità pontifi-cale. Nello stesso tempo incomincerà il culto del nuovoe proprio focolare dello stato, quello della dea Vesta equello dei Penati. Sei caste vergini, come figlie della fa-miglia comune del popolo romano, provvedevano al ser-vizio di Vesta, e dovevano conservare sempre acceso ilfuoco del comune focolare, ad esempio e monito dei cit-tadini. Questo culto divino, nello stesso tempo domesti-co e pubblico, era considerato dai Romani come il piùsacro e fu quello che di fronte all'avanzare del Cristiane-simo scomparve per ultimo.

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A Diana, quale rappresentante della federazione lati-na, fu assegnato l'Aventino, ma appunto per questo nonsi stabilì per lei uno speciale sacerdozio romano e apoco a poco il comune si abituò a venerare numerosi al-tri aspetti della divinità, in modo deciso, per mezzo dipubbliche solennità, oppure di sacerdoti particolarmentedestinati al loro culto e ad alcuni di questi, come adesempio a Flora, dea dei fiori, e a Pomona, dea dellefrutta, era destinato un solo flamine, così che il numerodi questi ascese fino a quindici. Fra tutti però si distin-guevano i tre più antichi grandi flamini (flamines maio-res) i quali, fin dall'epoca più remota, si dovevano sce-gliere soltanto fra i più antichi cittadini, come le anticheconfraternite dei Salii palatini e quirinali mantenevanosempre la preminenza nella gerarchia dei collegi sacer-dotali.

In questo modo i servizi permanenti e necessari pergli dei furono dallo stato, una volta per sempre, affidatia determinate corporazioni o a stabili ministri, e per co-prire le ingenti spese dei sacrifici, probabilmente saran-no stati assegnati ai singoli templi, in parte certi terrenie in parte le multe.

Non è da porsi in dubbio che il culto pubblico deglialtri comuni latini, e probabilmente dei sabellici, fossein origine della stessa natura; almeno è provato che i fla-mini, le vestali, i salii e i luperci erano istituzioni latinee non speciali ai Romani e almeno i tre primi colleginon pare siano stati nei comuni affini modellati su quelliromani. Finalmente, come il comune nella sfera degli

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A Diana, quale rappresentante della federazione lati-na, fu assegnato l'Aventino, ma appunto per questo nonsi stabilì per lei uno speciale sacerdozio romano e apoco a poco il comune si abituò a venerare numerosi al-tri aspetti della divinità, in modo deciso, per mezzo dipubbliche solennità, oppure di sacerdoti particolarmentedestinati al loro culto e ad alcuni di questi, come adesempio a Flora, dea dei fiori, e a Pomona, dea dellefrutta, era destinato un solo flamine, così che il numerodi questi ascese fino a quindici. Fra tutti però si distin-guevano i tre più antichi grandi flamini (flamines maio-res) i quali, fin dall'epoca più remota, si dovevano sce-gliere soltanto fra i più antichi cittadini, come le anticheconfraternite dei Salii palatini e quirinali mantenevanosempre la preminenza nella gerarchia dei collegi sacer-dotali.

In questo modo i servizi permanenti e necessari pergli dei furono dallo stato, una volta per sempre, affidatia determinate corporazioni o a stabili ministri, e per co-prire le ingenti spese dei sacrifici, probabilmente saran-no stati assegnati ai singoli templi, in parte certi terrenie in parte le multe.

Non è da porsi in dubbio che il culto pubblico deglialtri comuni latini, e probabilmente dei sabellici, fossein origine della stessa natura; almeno è provato che i fla-mini, le vestali, i salii e i luperci erano istituzioni latinee non speciali ai Romani e almeno i tre primi colleginon pare siano stati nei comuni affini modellati su quelliromani. Finalmente, come il comune nella sfera degli

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dei pubblici, anche il singolo cittadino, entro l'indivi-duale propria sfera degli dei domestici, può dare egualidisposizioni e non solo far dei sacrifizi, ma dedicare aipropri numi santuari e sacerdoti.

5 I Salii. Sebbene a Roma non mancassero nè il sa-cerdozio, nè i sacerdoti, colui che aveva da innalzareuna preghiera a qualche divinità non si rivolgeva al sa-cerdote, ma direttamente al nume. Ogni supplicante echiedente parla senza mediatori alla divinità; se non che,come è naturale, il comune prega per mezzo del re, lacuria per mezzo del curione, e la cavalleria per mezzodel condottiero dei cavalieri; ma nessuna interposizionesacerdotale poteva adombrare o ottenebrare l'originariae semplice posizione religiosa.

Non è certamente facile venire a contatto con la divi-nità. Gli dei hanno la loro propria maniera di parlare, in-telligibile soltanto all'uomo pratico; ma colui che beneintende il linguaggio divino, non solo sa interpretarlo,ma anche provocarlo, dirigerlo, e in caso di bisogno, lot-tando d'astuzia, trarne il domandato responso. E perciò ènaturale che l'adoratore del nume invocato faccia capoagli uomini esperti in queste pratiche, e ai consulti conloro. Da ciò nacquero le compagnie religiose, istituzionein tutto propria delle genti italiche, e che ha esercitatoun'influenza ben più grande sullo svolgimento politicodella nazione di quel che non lo abbiano esercitato i sin-goli sacerdoti e i ceti sacerdotali. Le compagnie dei sa-pienti in materia religiosa furono spesso scambiate, e a

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dei pubblici, anche il singolo cittadino, entro l'indivi-duale propria sfera degli dei domestici, può dare egualidisposizioni e non solo far dei sacrifizi, ma dedicare aipropri numi santuari e sacerdoti.

5 I Salii. Sebbene a Roma non mancassero nè il sa-cerdozio, nè i sacerdoti, colui che aveva da innalzareuna preghiera a qualche divinità non si rivolgeva al sa-cerdote, ma direttamente al nume. Ogni supplicante echiedente parla senza mediatori alla divinità; se non che,come è naturale, il comune prega per mezzo del re, lacuria per mezzo del curione, e la cavalleria per mezzodel condottiero dei cavalieri; ma nessuna interposizionesacerdotale poteva adombrare o ottenebrare l'originariae semplice posizione religiosa.

Non è certamente facile venire a contatto con la divi-nità. Gli dei hanno la loro propria maniera di parlare, in-telligibile soltanto all'uomo pratico; ma colui che beneintende il linguaggio divino, non solo sa interpretarlo,ma anche provocarlo, dirigerlo, e in caso di bisogno, lot-tando d'astuzia, trarne il domandato responso. E perciò ènaturale che l'adoratore del nume invocato faccia capoagli uomini esperti in queste pratiche, e ai consulti conloro. Da ciò nacquero le compagnie religiose, istituzionein tutto propria delle genti italiche, e che ha esercitatoun'influenza ben più grande sullo svolgimento politicodella nazione di quel che non lo abbiano esercitato i sin-goli sacerdoti e i ceti sacerdotali. Le compagnie dei sa-pienti in materia religiosa furono spesso scambiate, e a

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torto, coi corpi sacerdotali. A questi è commesso il cultod'una determinata divinità: alle compagnie invece, di cuiparliamo, è affidata la conservazione delle tradizioni perquelle più generali ritualità religiose, per l'esatta esecu-zione delle quali si richiedevano certe determinate co-gnizioni, e nella cui tradizione e conservazione era inte-ressato lo stato. Questi consorzi, che si formano di socicittadini, divennero perciò i depositari dello scibile dellearti e delle scienze.

Nella costituzione romana, anzi in generale nelle co-stituzioni latine, non troviamo originariamente che duecollegi simili: quello degli auguri e quello de' pontefi-ci79.

79 Consta ciò più chiaramente dalla circostanza che nei comu-ni ordinati secondo il tipo latino dappertutto si rinvengono augurie pontefici (p. e. CIC., De lege agr. 2, 35, 96 e molte inscrizioni),non così gli altri collegi. Gli auguri e i pontefici adunque appar-tengono allo stesso ciclo della costituzione delle dieci curie, anti-co e caratteristico organamento delle genti latine; i duoviri, gliaraldi (feciales) e gli altri collegi invece, come le trenta curie, e leCenturie, e le tribù di Servio sono proprie di Roma, e per ciò nonli troviamo fuor di Roma. Solo si vuol credere, che il nome delsecondo collegio dei pontefici siasi sostituito presso i Latini ainomi più antichi e più indeterminati in virtù della successiva in-fluenza romana; a meno che originariamente esso significasse,ciò che ne' rapporti filologici è molto probabile, non già costrutto-ri di ponti, ma di strade, dando alla parola pons un valore più ge-nerico e primitivo. Incerte sono le notizie sul numero originario,particolarmente degli auguri. Che il loro numero dovesse esseredispari lo contraddice CICERONE, De lege agr., 2, 35, 96; ed ancheLIVIO, 10, 6, non dice già questo, ma soltanto che il numero degli

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torto, coi corpi sacerdotali. A questi è commesso il cultod'una determinata divinità: alle compagnie invece, di cuiparliamo, è affidata la conservazione delle tradizioni perquelle più generali ritualità religiose, per l'esatta esecu-zione delle quali si richiedevano certe determinate co-gnizioni, e nella cui tradizione e conservazione era inte-ressato lo stato. Questi consorzi, che si formano di socicittadini, divennero perciò i depositari dello scibile dellearti e delle scienze.

Nella costituzione romana, anzi in generale nelle co-stituzioni latine, non troviamo originariamente che duecollegi simili: quello degli auguri e quello de' pontefi-ci79.

79 Consta ciò più chiaramente dalla circostanza che nei comu-ni ordinati secondo il tipo latino dappertutto si rinvengono augurie pontefici (p. e. CIC., De lege agr. 2, 35, 96 e molte inscrizioni),non così gli altri collegi. Gli auguri e i pontefici adunque appar-tengono allo stesso ciclo della costituzione delle dieci curie, anti-co e caratteristico organamento delle genti latine; i duoviri, gliaraldi (feciales) e gli altri collegi invece, come le trenta curie, e leCenturie, e le tribù di Servio sono proprie di Roma, e per ciò nonli troviamo fuor di Roma. Solo si vuol credere, che il nome delsecondo collegio dei pontefici siasi sostituito presso i Latini ainomi più antichi e più indeterminati in virtù della successiva in-fluenza romana; a meno che originariamente esso significasse,ciò che ne' rapporti filologici è molto probabile, non già costrutto-ri di ponti, ma di strade, dando alla parola pons un valore più ge-nerico e primitivo. Incerte sono le notizie sul numero originario,particolarmente degli auguri. Che il loro numero dovesse esseredispari lo contraddice CICERONE, De lege agr., 2, 35, 96; ed ancheLIVIO, 10, 6, non dice già questo, ma soltanto che il numero degli

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6 Auguri. I sei auguri sapevano interpretare il lin-guaggio degli dei dal volo degli uccelli; la quale arted'interpretare fu esercitata assai seriamente e ridottaquasi ad un sistema scientifico.

7 Pontefici. I sei «costruttori di ponti» (pontifices)derivavano il loro nome dall'ufficio loro non meno sacroche politicamente importante di dirigere la costruzione ela rottura del ponte sul Tevere. Erano essi gli ingegneriromani che possedevano il segreto delle misure e dellecifre, per cui fu loro commesso di tenere il calendariodello stato, di annunziare al popolo le fasi della lunanonchè i giorni festivi, e di curare affinchè ogni atto re-ligioso o giuridico seguisse nel giorno debito. Quindi,ad essi si rivolgeva, quando era necessario, la domandapreliminare nei casi di matrimonio, testamento o arroga-zione, per esser certi che non peccasse in qualche modocontro il diritto divino, e da essi emanavano le generaliesoteriche prescrizioni sacre, che sono note sotto ilnome di leggi regie. Così essi acquistarono, probabil-mente dopo la cacciata dei re, e tra essi acquistò alla suavolta il loro «anziano» (pontifex maximus) la generalesoprintendenza del culto divino romano e su ciò che colmedesimo si connetteva – e che cosa mai non vi si con-auguri doveva essere divisibile per tre e quindi doveva risalire adun numero cardinale dispari. Secondo Livio, in altro luogo, il loronumero, sino alla legge ogulnia, era di sei; e questo è appunto ciòche dice anche CICERONE, De rep., 2, 9, 14, il quale vuole che Ro-molo abbia instituiti quattro auguri e Numa due.

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6 Auguri. I sei auguri sapevano interpretare il lin-guaggio degli dei dal volo degli uccelli; la quale arted'interpretare fu esercitata assai seriamente e ridottaquasi ad un sistema scientifico.

7 Pontefici. I sei «costruttori di ponti» (pontifices)derivavano il loro nome dall'ufficio loro non meno sacroche politicamente importante di dirigere la costruzione ela rottura del ponte sul Tevere. Erano essi gli ingegneriromani che possedevano il segreto delle misure e dellecifre, per cui fu loro commesso di tenere il calendariodello stato, di annunziare al popolo le fasi della lunanonchè i giorni festivi, e di curare affinchè ogni atto re-ligioso o giuridico seguisse nel giorno debito. Quindi,ad essi si rivolgeva, quando era necessario, la domandapreliminare nei casi di matrimonio, testamento o arroga-zione, per esser certi che non peccasse in qualche modocontro il diritto divino, e da essi emanavano le generaliesoteriche prescrizioni sacre, che sono note sotto ilnome di leggi regie. Così essi acquistarono, probabil-mente dopo la cacciata dei re, e tra essi acquistò alla suavolta il loro «anziano» (pontifex maximus) la generalesoprintendenza del culto divino romano e su ciò che colmedesimo si connetteva – e che cosa mai non vi si con-auguri doveva essere divisibile per tre e quindi doveva risalire adun numero cardinale dispari. Secondo Livio, in altro luogo, il loronumero, sino alla legge ogulnia, era di sei; e questo è appunto ciòche dice anche CICERONE, De rep., 2, 9, 14, il quale vuole che Ro-molo abbia instituiti quattro auguri e Numa due.

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netteva? Essi stessi indicavano come «sommario delloro sapere» la conoscenza delle cose divine ed umane.E da questo collegio uscivano effettivamente i principîdella giurisprudenza spirituale e temporale non menoche quelli della compilazione delle memorie storiche. Ecome qualsiasi storia si connette al calendario e agli an-nali, così pure doveva connettersi anche la conoscenzadei processi e della procedura poichè, secondo l'istitu-zione dei tribunali romani, in essi non potevano sorgerele tradizioni; e quindi la tradizione giuridica dovette es-sere assunta nel collegio dei pontefici, il quale era ilsolo competente per decidere dei giorni forensi e dellequestioni religiose di diritto. Alle attribuzioni di questoconsorzio appartiene persino una tal quale autorità dipolizia80 e l'esercizio del diritto del padre di famiglia delcomune romano sopra le Vestali, sue figlie.

8 Feciali. In certo qual modo appartiene a queste dueantichissime e ragguardevoli confraternite di sapienti re-

80 [«Polizeiliche Gewalt», dice il testo. Gli scrittori pedantivorrebbero dire invece di polizia, «buon governo». Ma noi nonvolemmo essere più scrupolosi dei Tedeschi. Quale fosse questaautorità di polizia non rilevammo; e importava, dacchè nel resto ilMommsen insistè mostrando come il sacerdozio in Roma nonavesse giurisdizione di sorta: benchè G. Scevola pontefice massi-mo dica presso Varrone, che il nome di pontefice veniva da «pos-se et facere». Il Panvino (Civit. Rom. de Pontificibus) dice in chemaniera essi esercitassero l'autorità giurisdizionale – quod siquem animadvertant praescripta sua contemnere eum mulectantpro delicti magnitudine].

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netteva? Essi stessi indicavano come «sommario delloro sapere» la conoscenza delle cose divine ed umane.E da questo collegio uscivano effettivamente i principîdella giurisprudenza spirituale e temporale non menoche quelli della compilazione delle memorie storiche. Ecome qualsiasi storia si connette al calendario e agli an-nali, così pure doveva connettersi anche la conoscenzadei processi e della procedura poichè, secondo l'istitu-zione dei tribunali romani, in essi non potevano sorgerele tradizioni; e quindi la tradizione giuridica dovette es-sere assunta nel collegio dei pontefici, il quale era ilsolo competente per decidere dei giorni forensi e dellequestioni religiose di diritto. Alle attribuzioni di questoconsorzio appartiene persino una tal quale autorità dipolizia80 e l'esercizio del diritto del padre di famiglia delcomune romano sopra le Vestali, sue figlie.

8 Feciali. In certo qual modo appartiene a queste dueantichissime e ragguardevoli confraternite di sapienti re-

80 [«Polizeiliche Gewalt», dice il testo. Gli scrittori pedantivorrebbero dire invece di polizia, «buon governo». Ma noi nonvolemmo essere più scrupolosi dei Tedeschi. Quale fosse questaautorità di polizia non rilevammo; e importava, dacchè nel resto ilMommsen insistè mostrando come il sacerdozio in Roma nonavesse giurisdizione di sorta: benchè G. Scevola pontefice massi-mo dica presso Varrone, che il nome di pontefice veniva da «pos-se et facere». Il Panvino (Civit. Rom. de Pontificibus) dice in chemaniera essi esercitassero l'autorità giurisdizionale – quod siquem animadvertant praescripta sua contemnere eum mulectantpro delicti magnitudine].

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ligiosi anche il collegio dei venti araldi di stato (fetiales,d'incerta etimologia) destinato a conservare, quale archi-vio vivente, col mezzo della tradizione, il ricordo deitrattati con i comuni vicini, a decidere delle supposte le-sioni, e, nel caso di bisogno, a cercar la via degli accordio a fare la dichiarazione di guerra. Erano essi pel dirittodelle genti assolutamente ciò che erano i pontefici peldiritto divino, e avevano quindi anche, come questi, lafacoltà non già di eseguire la giustizia, ma di indicarla.

Ma per quanto questi consorzi fossero tenuti in granconto e per quanto essi avessero vaste e importanti fa-coltà, non si dimenticava giammai, e meno ancora ri-spetto al collegio più ragguardevole e più altolocato, cheessi non avevano da comandare, sibbene da esprimere illoro parere pratico; che non dovevano invocare diretta-mente la risposta degli dei, ma dovevano soltanto inter-pretare all'interrogante la risposta ricevuta. E così ancheil sommo sacerdote non solo era di rango inferiore al re,ma neppure osava consigliar questo senza esserne ri-chiesto. Al re tocca di fissare se e quando s'abbiano adosservare gli uccelli; l'osservatore degli uccelli è solopresente e interpreta per lui, se è necessario, la favelladei messaggeri del cielo. Nè l'araldo, nè il ponteficepossono immischiarsi nelle ragioni dello stato e nel di-ritto nazionale, a meno che gli intervenienti non ne li ri-chiedano; e malgrado tutta la pietà, si tenne ferma conuna inesorabile severità la massima che il sacerdote ab-bia a rimanere nello stato in una compiuta impotenza, eche, escluso da qualsiasi maniera di comando, abbia,

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ligiosi anche il collegio dei venti araldi di stato (fetiales,d'incerta etimologia) destinato a conservare, quale archi-vio vivente, col mezzo della tradizione, il ricordo deitrattati con i comuni vicini, a decidere delle supposte le-sioni, e, nel caso di bisogno, a cercar la via degli accordio a fare la dichiarazione di guerra. Erano essi pel dirittodelle genti assolutamente ciò che erano i pontefici peldiritto divino, e avevano quindi anche, come questi, lafacoltà non già di eseguire la giustizia, ma di indicarla.

Ma per quanto questi consorzi fossero tenuti in granconto e per quanto essi avessero vaste e importanti fa-coltà, non si dimenticava giammai, e meno ancora ri-spetto al collegio più ragguardevole e più altolocato, cheessi non avevano da comandare, sibbene da esprimere illoro parere pratico; che non dovevano invocare diretta-mente la risposta degli dei, ma dovevano soltanto inter-pretare all'interrogante la risposta ricevuta. E così ancheil sommo sacerdote non solo era di rango inferiore al re,ma neppure osava consigliar questo senza esserne ri-chiesto. Al re tocca di fissare se e quando s'abbiano adosservare gli uccelli; l'osservatore degli uccelli è solopresente e interpreta per lui, se è necessario, la favelladei messaggeri del cielo. Nè l'araldo, nè il ponteficepossono immischiarsi nelle ragioni dello stato e nel di-ritto nazionale, a meno che gli intervenienti non ne li ri-chiedano; e malgrado tutta la pietà, si tenne ferma conuna inesorabile severità la massima che il sacerdote ab-bia a rimanere nello stato in una compiuta impotenza, eche, escluso da qualsiasi maniera di comando, abbia,

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come qualunque altro cittadino, da prestare obbedienzaanche all'infimo degli officiali pubblici.

9 Caratteri del culto. Il culto religioso dei Latini sifonda, in sostanza, sull'adattamento dell'uomo alle coseterrene, e in modo affatto secondario sul timore delleselvagge forze della natura; ond'è che questo culto con-siste di preferenza in manifestazioni di gioia, cantare,suonare, ballare, giuocare, e più di tutto banchettare.Come presso quasi tutte le popolazioni agricole, ched'ordinario si cibano di sostanze vegetali, anche in Italiail macellare animali fu nel tempo stesso una festa dome-stica e una solennità religiosa. Il porco è il sacrificio piùgrato agli dei solo perchè è la solita dape dei giorni so-lenni. Ma l'indole contegnosa dei Romani aborre daogni scialacquamento e da ogni eccesso di tripudio. Laparsimonia che si osserva anche rispetto agli dei è unadelle note più caratteristiche dell'antico culto latino; epersino i liberi voli della fantasia sono frenati con unaferrea rigidità dalla disciplina morale, alla quale il popo-lo costringe se stesso.

Certo la tendenza dell'uomo di riferire alla divinità lecolpe ed i castighi terreni e di considerare le prime comeun delitto verso la divinità, e i secondi come la conse-guente espiazione, esiste anche nell'intima natura dellareligione latina. L'esecuzione del reo condannato a mor-te è pure un sacrificio espiatorio offerto ai numi, comelo è l'uccisione in giusta guerra del nemico. Il ladro not-turno dei cereali espia sulla forca il suo delitto verso Ce-

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come qualunque altro cittadino, da prestare obbedienzaanche all'infimo degli officiali pubblici.

9 Caratteri del culto. Il culto religioso dei Latini sifonda, in sostanza, sull'adattamento dell'uomo alle coseterrene, e in modo affatto secondario sul timore delleselvagge forze della natura; ond'è che questo culto con-siste di preferenza in manifestazioni di gioia, cantare,suonare, ballare, giuocare, e più di tutto banchettare.Come presso quasi tutte le popolazioni agricole, ched'ordinario si cibano di sostanze vegetali, anche in Italiail macellare animali fu nel tempo stesso una festa dome-stica e una solennità religiosa. Il porco è il sacrificio piùgrato agli dei solo perchè è la solita dape dei giorni so-lenni. Ma l'indole contegnosa dei Romani aborre daogni scialacquamento e da ogni eccesso di tripudio. Laparsimonia che si osserva anche rispetto agli dei è unadelle note più caratteristiche dell'antico culto latino; epersino i liberi voli della fantasia sono frenati con unaferrea rigidità dalla disciplina morale, alla quale il popo-lo costringe se stesso.

Certo la tendenza dell'uomo di riferire alla divinità lecolpe ed i castighi terreni e di considerare le prime comeun delitto verso la divinità, e i secondi come la conse-guente espiazione, esiste anche nell'intima natura dellareligione latina. L'esecuzione del reo condannato a mor-te è pure un sacrificio espiatorio offerto ai numi, comelo è l'uccisione in giusta guerra del nemico. Il ladro not-turno dei cereali espia sulla forca il suo delitto verso Ce-

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rere, come il nemico malvagio espia con la morte sulcampo di battaglia il suo delitto verso i buoni spiriti del-la madre terra. Anche il profondo e terribile pensierodella sostituzione deriva da ciò: se i numi sono adirativerso il comune, senza che si possa stabilire il colpevo-le, solo colui che si sacrificherà spontaneamente potràplacarli e allora soltanto le voragini si chiuderanno, lebattaglie semi perdute si cambieranno in vittorie, quan-do un bravo cittadino si precipiterà, come vittima espia-toria, nella voragine o fra i nemici (devovere se).

Sullo stesso concetto è fondata la primavera sacra,per cui si offre agli dei ciò che una data epoca produce,siano uomini, siano animali. Se vogliamo definirli sacri-fici umani, questo appartiene indubbiamente alla reli-gione latina, ma si deve subito aggiungere che fin dovearriva il nostro sguardo, questi sacrifici si limitano aicolpevoli condannati dal tribunale civile o al generosoche offre volontariamente la sua vita. Sacrifici umani dialtra natura si oppongono ai concetti fondamentalidell'azione espiatoria e dovunque appaiono, non sonoche la conseguenza della barbarie o della degenerazione,nè mai essi trovano adito presso i Romani. Appena forseuna volta, in tempi di estremo bisogno, la superstizionee la disperazione trovarono, in via eccezionale, la sal-vezza nell'orrore.

A raffrontarli cogli altri popoli, pochi e lievi indizi sitrovano presso i Romani di credenze negli spiriti, dipaura delle forze magiche e dei misteri. Anche gli ora-coli e le profezie non hanno potuto mai metter radice in

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rere, come il nemico malvagio espia con la morte sulcampo di battaglia il suo delitto verso i buoni spiriti del-la madre terra. Anche il profondo e terribile pensierodella sostituzione deriva da ciò: se i numi sono adirativerso il comune, senza che si possa stabilire il colpevo-le, solo colui che si sacrificherà spontaneamente potràplacarli e allora soltanto le voragini si chiuderanno, lebattaglie semi perdute si cambieranno in vittorie, quan-do un bravo cittadino si precipiterà, come vittima espia-toria, nella voragine o fra i nemici (devovere se).

Sullo stesso concetto è fondata la primavera sacra,per cui si offre agli dei ciò che una data epoca produce,siano uomini, siano animali. Se vogliamo definirli sacri-fici umani, questo appartiene indubbiamente alla reli-gione latina, ma si deve subito aggiungere che fin dovearriva il nostro sguardo, questi sacrifici si limitano aicolpevoli condannati dal tribunale civile o al generosoche offre volontariamente la sua vita. Sacrifici umani dialtra natura si oppongono ai concetti fondamentalidell'azione espiatoria e dovunque appaiono, non sonoche la conseguenza della barbarie o della degenerazione,nè mai essi trovano adito presso i Romani. Appena forseuna volta, in tempi di estremo bisogno, la superstizionee la disperazione trovarono, in via eccezionale, la sal-vezza nell'orrore.

A raffrontarli cogli altri popoli, pochi e lievi indizi sitrovano presso i Romani di credenze negli spiriti, dipaura delle forze magiche e dei misteri. Anche gli ora-coli e le profezie non hanno potuto mai metter radice in

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Italia come in Grecia, nè mai hanno potuto acquistareuna seria influenza nella vita pubblica e privata. Ma per-ciò appunto la religione latina è caduta in un'incredibilepovertà ed aridità e si è prestissimo cristallizzata in ceri-monie rituali minuziose ed insulse. La divinità dell'Itali-co, come già si disse, è prima di tutto uno strumento perraggiungere vantaggi e fini terreni. Questo sviamentodelle intuizioni religiose, e questa direzione dello spiritoitalico verso il comprensibile ed il reale, non è menochiaramente manifesto anche oggi nel culto dei santi deimoderni Italiani. I numi stanno rispetto agli uominicome il creditore rispetto al debitore; ogni dio ha un di-ritto riconosciuto a certe funzioni, a certe prestazioni, edessendo il loro numero poco minore dei vari momentied atti della vita terrena, ed essendo ciascun dio gelosovendicatore d'ogni trascuranza e d'ogni irregolarità ri-tuale, e cadendo la vendetta sua sugli atti e sulle fasidella vita ai quali egli presiede, riusciva cosa oltremodopenosa e difficile il rendersi esatto conto dei propri ob-blighi religiosi. Di qui l'importanza grandissima cheavevano i sacerdoti ed i pontefici, consci di tutti i dirittidivini e del rituale necessario. Poichè l'uomo dabbeneadempie alle prescrizioni del sacro rituale colla stessascrupolosità mercantile con cui attende ai suoi doveritemporali, se il dio largheggia con lui, anch'egli va oltreil debito. Così si fanno coi numi anche delle vere con-trattazioni, e il voto non è, di nome e di fatto, che uncontratto in piena regola tra dio e l'uomo, col quale que-sti assicura una determinata ricompensa per un determi-

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Italia come in Grecia, nè mai hanno potuto acquistareuna seria influenza nella vita pubblica e privata. Ma per-ciò appunto la religione latina è caduta in un'incredibilepovertà ed aridità e si è prestissimo cristallizzata in ceri-monie rituali minuziose ed insulse. La divinità dell'Itali-co, come già si disse, è prima di tutto uno strumento perraggiungere vantaggi e fini terreni. Questo sviamentodelle intuizioni religiose, e questa direzione dello spiritoitalico verso il comprensibile ed il reale, non è menochiaramente manifesto anche oggi nel culto dei santi deimoderni Italiani. I numi stanno rispetto agli uominicome il creditore rispetto al debitore; ogni dio ha un di-ritto riconosciuto a certe funzioni, a certe prestazioni, edessendo il loro numero poco minore dei vari momentied atti della vita terrena, ed essendo ciascun dio gelosovendicatore d'ogni trascuranza e d'ogni irregolarità ri-tuale, e cadendo la vendetta sua sugli atti e sulle fasidella vita ai quali egli presiede, riusciva cosa oltremodopenosa e difficile il rendersi esatto conto dei propri ob-blighi religiosi. Di qui l'importanza grandissima cheavevano i sacerdoti ed i pontefici, consci di tutti i dirittidivini e del rituale necessario. Poichè l'uomo dabbeneadempie alle prescrizioni del sacro rituale colla stessascrupolosità mercantile con cui attende ai suoi doveritemporali, se il dio largheggia con lui, anch'egli va oltreil debito. Così si fanno coi numi anche delle vere con-trattazioni, e il voto non è, di nome e di fatto, che uncontratto in piena regola tra dio e l'uomo, col quale que-sti assicura una determinata ricompensa per un determi-

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nato servizio; anzi la norma del diritto romano, che nes-sun contratto possa essere concluso col mezzo d'un pro-curatore, non è l'ultimo motivo per cui nel Lazio eraesclusa ogni mediazione di sacerdoti negli affari religio-si degli uomini. Come il mercante romano, senza pernulla perdere nella sua fama di probità, può a rigor dilegge e di costume stare strettamente alla lettera delcontratto, così, come insegnano i teologi romani, si puòanche nel contratto cogli dei dar l'immagine per la cosa.Al re del cielo si offrono capi di cipolle e di papaveriperchè scateni i suoi fulmini su di essi invece di rivol-gerli sui capi umani, e per pagare ogni anno il debito delsacrificio voluto dal padre Tevere si gettano nelle acquetrenta fantocci intrecciati di giunchi81. Le idee della be-nignità e della placabilità divina si trovano quasi indi-stinguibilmente misti colla pia scaltrezza, che si sforzadi abbindolare e di appagare il formidabile signore colmezzo d'una soddisfazione apparente.

Così il romano timore di dio pesa bensì con grandeforza sugli animi della moltitudine, ma non è già quelsacro terrore, che riempie lo spirito davanti alla naturache abbraccia ogni cosa, od alla potente divinità che

81 Soltanto una mente irriflessiva poteva trovare in questo ritoun avanzo di sacrifici di vittime umane.

[Questa nota dell'autore si riferisce all'opinione che anticamen-te in Italia s'immolassero vittime umane (a Saturno: v. OVID.,Fast., v. 627), e che Ercole pel primo abolisse i sacrifici umani,sostituendo alle vittime veri simulacri d'uomini intessuti di giun-chi, simili ai trenta fantocci degli «Argei» che ogni anno si getta-vano nel Tevere (v. FESTUS, Argeos)].

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nato servizio; anzi la norma del diritto romano, che nes-sun contratto possa essere concluso col mezzo d'un pro-curatore, non è l'ultimo motivo per cui nel Lazio eraesclusa ogni mediazione di sacerdoti negli affari religio-si degli uomini. Come il mercante romano, senza pernulla perdere nella sua fama di probità, può a rigor dilegge e di costume stare strettamente alla lettera delcontratto, così, come insegnano i teologi romani, si puòanche nel contratto cogli dei dar l'immagine per la cosa.Al re del cielo si offrono capi di cipolle e di papaveriperchè scateni i suoi fulmini su di essi invece di rivol-gerli sui capi umani, e per pagare ogni anno il debito delsacrificio voluto dal padre Tevere si gettano nelle acquetrenta fantocci intrecciati di giunchi81. Le idee della be-nignità e della placabilità divina si trovano quasi indi-stinguibilmente misti colla pia scaltrezza, che si sforzadi abbindolare e di appagare il formidabile signore colmezzo d'una soddisfazione apparente.

Così il romano timore di dio pesa bensì con grandeforza sugli animi della moltitudine, ma non è già quelsacro terrore, che riempie lo spirito davanti alla naturache abbraccia ogni cosa, od alla potente divinità che

81 Soltanto una mente irriflessiva poteva trovare in questo ritoun avanzo di sacrifici di vittime umane.

[Questa nota dell'autore si riferisce all'opinione che anticamen-te in Italia s'immolassero vittime umane (a Saturno: v. OVID.,Fast., v. 627), e che Ercole pel primo abolisse i sacrifici umani,sostituendo alle vittime veri simulacri d'uomini intessuti di giun-chi, simili ai trenta fantocci degli «Argei» che ogni anno si getta-vano nel Tevere (v. FESTUS, Argeos)].

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ogni cosa governa; non è quel profondo sgomento cheispirano le intuizioni panteistiche o monoteistiche, mauna paura di genere affatto mondano e appena si distin-gue il turbamento, col quale il debitore romano si ap-prossima al suo giusto ma rigoroso e potentissimo credi-tore.

È chiaro che una tale religione doveva esser più attaad opprimere che a maturare i concetti artistici e specu-lativi. Mentre il greco rivestiva di carne umana e di san-gue i limpidi pensieri dei tempi primitivi, le sue imma-gini divine non avvivarono solo gli elementi dell'artestatutaria e poetica, ma conseguirono anche l'universali-tà e l'elasticità, che è la più profonda proprietà della na-tura umana; e appunto perciò s'innalzarono alla vera so-stanzialità di tutte le religioni del mondo. Così che lasemplice contemplazione della natura ha potuto giunge-re sino alle intuizioni cosmogoniche, la schietta ideamorale alle più generali intuizioni dell'umanità, e perlungo tempo la religione greca valse ad abbracciare coisuoi splendidi miti tutte le idee fisiche e metafisiche,anzi tutto lo svolgimento ideale della nazione, e ad allar-gare sempre più lo spazio intellettivo col moltiplicarsidei miti e delle materie fantastiche, prima che la stessaforza dell'immaginazione e l'intensità della speculazionefacessero scoppiare il vaso che le aveva lungamentecontenute. Ma la forma delle idee divine del Lazio rima-se affatto trasparente e inconsistente, cosicchè nè l'arti-sta, nè il poeta trovarono materia da esercitarvisi; perciòil culto romano rimase sempre indifferente, anzi avverso

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ogni cosa governa; non è quel profondo sgomento cheispirano le intuizioni panteistiche o monoteistiche, mauna paura di genere affatto mondano e appena si distin-gue il turbamento, col quale il debitore romano si ap-prossima al suo giusto ma rigoroso e potentissimo credi-tore.

È chiaro che una tale religione doveva esser più attaad opprimere che a maturare i concetti artistici e specu-lativi. Mentre il greco rivestiva di carne umana e di san-gue i limpidi pensieri dei tempi primitivi, le sue imma-gini divine non avvivarono solo gli elementi dell'artestatutaria e poetica, ma conseguirono anche l'universali-tà e l'elasticità, che è la più profonda proprietà della na-tura umana; e appunto perciò s'innalzarono alla vera so-stanzialità di tutte le religioni del mondo. Così che lasemplice contemplazione della natura ha potuto giunge-re sino alle intuizioni cosmogoniche, la schietta ideamorale alle più generali intuizioni dell'umanità, e perlungo tempo la religione greca valse ad abbracciare coisuoi splendidi miti tutte le idee fisiche e metafisiche,anzi tutto lo svolgimento ideale della nazione, e ad allar-gare sempre più lo spazio intellettivo col moltiplicarsidei miti e delle materie fantastiche, prima che la stessaforza dell'immaginazione e l'intensità della speculazionefacessero scoppiare il vaso che le aveva lungamentecontenute. Ma la forma delle idee divine del Lazio rima-se affatto trasparente e inconsistente, cosicchè nè l'arti-sta, nè il poeta trovarono materia da esercitarvisi; perciòil culto romano rimase sempre indifferente, anzi avverso

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alle arti belle. E siccome il dio non era nulla per sè, enon doveva essere che l'orma spirituale d'un'apparizioneterrestre, così era naturale ch'egli trovasse appunto nelsuo tipo terrestre la sua dimora (templum) e la sua rap-presentazione. Le pareti e gli idoli fatti dalla manodell'uomo sembravano solo turbare ed annebbiare le im-magini spirituali. Perciò l'originario culto dei Romaniera senza figure divine e senza templi; e sebbene anchenel Lazio, probabilmente ad imitazione dei Greci giàben presto si adorasse il dio in effigie e gli fosse innal-zata una cappella (aedicula), questa rappresentazione fi-gurata era considerata come contraria alle leggi diNuma, e in generale, come impura e straniera82. Ad ec-cezione forse del bicipite Giano, la religione romananon ha alcuna propria immagine di dio, e ai suoi tempiVarrone beffeggiava la plebaglia che voleva aver fantoc-ci e immaginette. Il difetto di ogni forza generatrice nel-la religione romana è anche l'ultima causa, per cui lapoesia romana, e più ancora le speculazioni romane fu-

82 [Lo mostra la stessa lingua latina in cui templum, delubrum,fanum, sacellum, lucus, indicano piuttosto luoghi sacrati che edi-fizi sacri, o, come si disse più tardi, aedes sacrae, e le aediculaericordate dall'autore. Sull'origine del nome templum, veggasiSERV., ad 1 Gen., 96, e VARR., VI, 2; oltre quello che dice ilMommsen, il quale invece di ricavare questo vocabolo da tuendolo deriva dal greco. Per delubrum, che suonerebbe fonte sacra, sivegga SERVIO (IV, 56). Che sacrum non indichi se non luogo con-sacrato si ha da LIVIO (X, 37); sacellum, secondo Festo, è un luo-go scoperto, sine tecto consacrato agli dei; pei Luci o boschi sacrinon è necessario citare alcuna autorità].

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alle arti belle. E siccome il dio non era nulla per sè, enon doveva essere che l'orma spirituale d'un'apparizioneterrestre, così era naturale ch'egli trovasse appunto nelsuo tipo terrestre la sua dimora (templum) e la sua rap-presentazione. Le pareti e gli idoli fatti dalla manodell'uomo sembravano solo turbare ed annebbiare le im-magini spirituali. Perciò l'originario culto dei Romaniera senza figure divine e senza templi; e sebbene anchenel Lazio, probabilmente ad imitazione dei Greci giàben presto si adorasse il dio in effigie e gli fosse innal-zata una cappella (aedicula), questa rappresentazione fi-gurata era considerata come contraria alle leggi diNuma, e in generale, come impura e straniera82. Ad ec-cezione forse del bicipite Giano, la religione romananon ha alcuna propria immagine di dio, e ai suoi tempiVarrone beffeggiava la plebaglia che voleva aver fantoc-ci e immaginette. Il difetto di ogni forza generatrice nel-la religione romana è anche l'ultima causa, per cui lapoesia romana, e più ancora le speculazioni romane fu-

82 [Lo mostra la stessa lingua latina in cui templum, delubrum,fanum, sacellum, lucus, indicano piuttosto luoghi sacrati che edi-fizi sacri, o, come si disse più tardi, aedes sacrae, e le aediculaericordate dall'autore. Sull'origine del nome templum, veggasiSERV., ad 1 Gen., 96, e VARR., VI, 2; oltre quello che dice ilMommsen, il quale invece di ricavare questo vocabolo da tuendolo deriva dal greco. Per delubrum, che suonerebbe fonte sacra, sivegga SERVIO (IV, 56). Che sacrum non indichi se non luogo con-sacrato si ha da LIVIO (X, 37); sacellum, secondo Festo, è un luo-go scoperto, sine tecto consacrato agli dei; pei Luci o boschi sacrinon è necessario citare alcuna autorità].

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rono e rimasero sì compiutamente nulle. Ma anche sulterreno pratico si manifesta la medesima indifferenza.L'unico vantaggio pratico, derivato al comune romanodalla sua religione, fu una legge morale formulata e ap-plicata dai sacerdoti e particolarmente dai pontefici, laquale rafforzava l'ordinamento giudiziario, e, in queltempo ancora tanto lontano della compiuta tutela politi-ca del cittadino privato, faceva in qualche modo l'officiodelle leggi preventive e di vigilanza; ed oltre a ciò trae-va innanzi al tribunale degli dei e rafforzava con penereligiose gli obblighi morali, che non potevano esseresanciti o che erano solo incompiutamente sanciti dallalegge dello stato. Alle disposizioni della prima specie,oltre la religiosa esortazione di santificare la festa e dicoltivare le terre e la vita conforme le tradizionidell'arte, che impareremo a conoscere più tardi, appar-tiene, per citarne qualche esempio, il culto del focolareo dei Lari congiunto con norme di polizia igienica, e,prima d'ogni altro, l'uso di bruciare i cadaveri, introdottoprestissimo presso i Romani e molto prima presso i Gre-ci; il quale uso fa supporre un razionale concetto dellavita e della morte, che non si trova nei tempi primitivi eche è nuovo persino ai nostri. Non si deve però credereche sia stata cosa di poco rilievo per la religione nazio-nale dei Latini il poter compiere questa ed altre consimi-li innovazioni. Ma un effetto d'importanza anche mag-giore ottenne il culto latino rispetto ai costumi.Sull'usurpatore del limite confinario, che avesse violatola sacra linea terminale facendovi passar sopra l'aratro,

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rono e rimasero sì compiutamente nulle. Ma anche sulterreno pratico si manifesta la medesima indifferenza.L'unico vantaggio pratico, derivato al comune romanodalla sua religione, fu una legge morale formulata e ap-plicata dai sacerdoti e particolarmente dai pontefici, laquale rafforzava l'ordinamento giudiziario, e, in queltempo ancora tanto lontano della compiuta tutela politi-ca del cittadino privato, faceva in qualche modo l'officiodelle leggi preventive e di vigilanza; ed oltre a ciò trae-va innanzi al tribunale degli dei e rafforzava con penereligiose gli obblighi morali, che non potevano esseresanciti o che erano solo incompiutamente sanciti dallalegge dello stato. Alle disposizioni della prima specie,oltre la religiosa esortazione di santificare la festa e dicoltivare le terre e la vita conforme le tradizionidell'arte, che impareremo a conoscere più tardi, appar-tiene, per citarne qualche esempio, il culto del focolareo dei Lari congiunto con norme di polizia igienica, e,prima d'ogni altro, l'uso di bruciare i cadaveri, introdottoprestissimo presso i Romani e molto prima presso i Gre-ci; il quale uso fa supporre un razionale concetto dellavita e della morte, che non si trova nei tempi primitivi eche è nuovo persino ai nostri. Non si deve però credereche sia stata cosa di poco rilievo per la religione nazio-nale dei Latini il poter compiere questa ed altre consimi-li innovazioni. Ma un effetto d'importanza anche mag-giore ottenne il culto latino rispetto ai costumi.Sull'usurpatore del limite confinario, che avesse violatola sacra linea terminale facendovi passar sopra l'aratro,

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sul ladro notturno delle biade ancora in erba, sull'insi-diatore della vita del re o dell'onore di una donna, pesa-va, oltre la pena civile, anche la maledizione del nume,a cui si era recata particolare offesa. Se il marito vende-va la moglie, se il padre vendeva il figlio ammogliato,se il figlio o la nuora battevano il padre o il suocero, seil patrono rompeva la fede verso l'ospite o il cliente, su-bito la maledizione divina si posava sul capo del delin-quente, ma non per questo l'esecrato (sacer) diventavaper ciò stesso eslege83, poichè questa scomunica politicanon fu pronunciata in Roma se non durante la lotta tra leclassi cittadine, e anche allora solo in via di eccezione ecome inasprimento della scomunica religiosa. Non toc-cava alle autorità civili, ai privati cittadini e tanto menoal sacerdote che non aveva alcuna giurisdizione esecuti-va, il mandare ad effetto la maledizione divina; quindilo scomunicato, non cadeva in potere degli uomini main potere degli dei. Nondimeno si comprende come ne-gli antichi tempi la viva fede del popolo, dalla quale pi-gliava forza la scomunica religiosa, avrà potuto esercita-re una pressione anche su nature d'uomini leggere emalvage.

Ma la scomunica non si limita a questo: soltanto il reera autorizzato a dare esecuzione alla scomunica e dopoaver accertato, secondo la sua coscienza, il fatto cheaveva determinato l'anatema, aveva l'obbligo di offrire

83 [Vogelfrei, dice il testo: libero come uccello, che è a direabbandonato all'arbitrio e alle offese d'ogni cacciatore, d'ogni ne-mico, o, che è lo stesso, non protetto dalla legge].

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sul ladro notturno delle biade ancora in erba, sull'insi-diatore della vita del re o dell'onore di una donna, pesa-va, oltre la pena civile, anche la maledizione del nume,a cui si era recata particolare offesa. Se il marito vende-va la moglie, se il padre vendeva il figlio ammogliato,se il figlio o la nuora battevano il padre o il suocero, seil patrono rompeva la fede verso l'ospite o il cliente, su-bito la maledizione divina si posava sul capo del delin-quente, ma non per questo l'esecrato (sacer) diventavaper ciò stesso eslege83, poichè questa scomunica politicanon fu pronunciata in Roma se non durante la lotta tra leclassi cittadine, e anche allora solo in via di eccezione ecome inasprimento della scomunica religiosa. Non toc-cava alle autorità civili, ai privati cittadini e tanto menoal sacerdote che non aveva alcuna giurisdizione esecuti-va, il mandare ad effetto la maledizione divina; quindilo scomunicato, non cadeva in potere degli uomini main potere degli dei. Nondimeno si comprende come ne-gli antichi tempi la viva fede del popolo, dalla quale pi-gliava forza la scomunica religiosa, avrà potuto esercita-re una pressione anche su nature d'uomini leggere emalvage.

Ma la scomunica non si limita a questo: soltanto il reera autorizzato a dare esecuzione alla scomunica e dopoaver accertato, secondo la sua coscienza, il fatto cheaveva determinato l'anatema, aveva l'obbligo di offrire

83 [Vogelfrei, dice il testo: libero come uccello, che è a direabbandonato all'arbitrio e alle offese d'ogni cacciatore, d'ogni ne-mico, o, che è lo stesso, non protetto dalla legge].

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lo scomunicato quale vittima espiatoria alla divinità of-fesa (supplicium) e quindi di purificare il comune daldelitto dell'individuo. Se il re non riteneva il delitto mol-to grave poteva ordinare che invece del colpevole fosseimmolato al nume un animale o ne fossero placate le irecon altri donativi. Così dunque, tutto il diritto penale èfondato sull'idea religiosa dell'espiazione.

L'Ellade, sotto questo aspetto, andò assai più innanzidi Roma: essa fu debitrice alla sua religione non solo ditutto il suo svolgimento spirituale ma anche della suaunione nazionale per quanto le fu dato di conquistarla.Poichè tutto ciò che nella vita ellenica si ebbe di grande,e più ancora, tutto ciò che in essa si ebbe di comune e dinazionale s'incardina sugli oracoli e sulle solennità diDelfo e di Olimpia, e si raccoglie intorno alle muse, fi-glie della fede. Ma a questo punto possiamo misurareanche quanto il Lazio fosse superiore all'Ellade. La reli-gione latina, che non s'innalza oltre l'ordinaria e volgareintuizione, è perciò appunto intelligibile ed accessibile atutti: ond'è, che la società romana potè mantenerel'eguaglianza civile, mentre l'Ellade, dove la religioneapriva immensi spazi al pensiero e stimolava i migliori asollevarsi sulle cime inaccessibili alle nature ordinarie,ebbe a sopportare fin dai tempi più remoti i vantaggi e ipericoli dell'aristocrazia spirituale. Non deve però cre-dersi che anche la religione latina, come tutte le altre,non tragga la sua originaria sorgente dall'infinita profon-dità della fede: e solo un osservatore superficiale, chevedendo le acque limpide e nitide giudichi ch'esse sieno

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lo scomunicato quale vittima espiatoria alla divinità of-fesa (supplicium) e quindi di purificare il comune daldelitto dell'individuo. Se il re non riteneva il delitto mol-to grave poteva ordinare che invece del colpevole fosseimmolato al nume un animale o ne fossero placate le irecon altri donativi. Così dunque, tutto il diritto penale èfondato sull'idea religiosa dell'espiazione.

L'Ellade, sotto questo aspetto, andò assai più innanzidi Roma: essa fu debitrice alla sua religione non solo ditutto il suo svolgimento spirituale ma anche della suaunione nazionale per quanto le fu dato di conquistarla.Poichè tutto ciò che nella vita ellenica si ebbe di grande,e più ancora, tutto ciò che in essa si ebbe di comune e dinazionale s'incardina sugli oracoli e sulle solennità diDelfo e di Olimpia, e si raccoglie intorno alle muse, fi-glie della fede. Ma a questo punto possiamo misurareanche quanto il Lazio fosse superiore all'Ellade. La reli-gione latina, che non s'innalza oltre l'ordinaria e volgareintuizione, è perciò appunto intelligibile ed accessibile atutti: ond'è, che la società romana potè mantenerel'eguaglianza civile, mentre l'Ellade, dove la religioneapriva immensi spazi al pensiero e stimolava i migliori asollevarsi sulle cime inaccessibili alle nature ordinarie,ebbe a sopportare fin dai tempi più remoti i vantaggi e ipericoli dell'aristocrazia spirituale. Non deve però cre-dersi che anche la religione latina, come tutte le altre,non tragga la sua originaria sorgente dall'infinita profon-dità della fede: e solo un osservatore superficiale, chevedendo le acque limpide e nitide giudichi ch'esse sieno

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poco profonde, può credere che il trasparente mondo re-ligioso dei Romani non avesse vita e rilievo, e fossequasi appena un'ombreggiatura. Certo l'intima fede do-vette scomparire col procedere dei tempi come la rugia-da del mattino si dilegua a mano a mano che il soles'innalza; e così dobbiamo trovare un'età, in cui le im-magini religiose sono forme aride e morte; ma è semprevero che i Latini conservarono le loro credenze più lun-gamente degli altri popoli, e principalmente dei Greci.Come i colori sono gli effetti della luce, ma sono ancheuna menomazione di essa e quasi un offuscamento, cosìl'arte e la scienza che vengono dalla fede, la adombrano,la alterano, e infine la distruggono. E come in questasuccessione, che trae dallo svolgimento la distruzione,predomina una legge di necessità, così certi effetti e ri-sultati sono concessi, anzi riservati alla prima e ingenuaepoca della fede, i quali indarno, con qualunque sforzo,si vorrebbero riprodurre più tardi. Lo stesso magnificosvolgimento spirituale degli Elleni, che creò la loro uni-tà ideale nella sfera della religione e della letteratura, fuappunto quello che impedì loro di conseguire una con-creta unione politica, giacchè in virtù della grandezza edella libertà intellettiva essi perdettero la semplicità, ladocilità, la pazienza, la fusibilità, che sono le condizionidi ogni unione civile. E però sarebbe tempo di smetterequesto andazzo puerile di non poter mai guardar la sto-ria se non da un lato, onde consegue che alcuni non san-no encomiare i Greci se non a scapito dei Romani, nè iRomani se non a scapito dei Greci. Come si stima la

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poco profonde, può credere che il trasparente mondo re-ligioso dei Romani non avesse vita e rilievo, e fossequasi appena un'ombreggiatura. Certo l'intima fede do-vette scomparire col procedere dei tempi come la rugia-da del mattino si dilegua a mano a mano che il soles'innalza; e così dobbiamo trovare un'età, in cui le im-magini religiose sono forme aride e morte; ma è semprevero che i Latini conservarono le loro credenze più lun-gamente degli altri popoli, e principalmente dei Greci.Come i colori sono gli effetti della luce, ma sono ancheuna menomazione di essa e quasi un offuscamento, cosìl'arte e la scienza che vengono dalla fede, la adombrano,la alterano, e infine la distruggono. E come in questasuccessione, che trae dallo svolgimento la distruzione,predomina una legge di necessità, così certi effetti e ri-sultati sono concessi, anzi riservati alla prima e ingenuaepoca della fede, i quali indarno, con qualunque sforzo,si vorrebbero riprodurre più tardi. Lo stesso magnificosvolgimento spirituale degli Elleni, che creò la loro uni-tà ideale nella sfera della religione e della letteratura, fuappunto quello che impedì loro di conseguire una con-creta unione politica, giacchè in virtù della grandezza edella libertà intellettiva essi perdettero la semplicità, ladocilità, la pazienza, la fusibilità, che sono le condizionidi ogni unione civile. E però sarebbe tempo di smetterequesto andazzo puerile di non poter mai guardar la sto-ria se non da un lato, onde consegue che alcuni non san-no encomiare i Greci se non a scapito dei Romani, nè iRomani se non a scapito dei Greci. Come si stima la

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quercia anche di fronte alla rosa, sarebbe tempo, non ditentennare tra encomi e biasimi alterni allorchè si parladelle due più grandi società spirituali e civili che l'anti-chità ci presenti, ma di comprendere che i pregi dell'unae dell'altra sono necessariamente condizionati ai lorostessi difetti. La più intima e determinante cagione delladifferenza delle due nazioni si deve ricercare nel fatto,che l'Ellade, e non il Lazio, si trovò, proprio nel suo pe-riodo genetico, in contatto coll'oriente. Nessuna razzaumana era per se stessa grande abbastanza per potercreare il miracolo della coltura ellenica, e più tardi il mi-racolo della coltura cristiana. Questi bagliori si riscon-trano nella storia là dove nel terreno indo-germanico sisono infiltrate le idee religiose della gente aramea. Mase l'Ellade è il prototipo del compiuto svolgimentodell'uomo, il Lazio rimarrà per tutti i tempi il prototipodello svolgimento nazionale: e i posteri debbono onora-re l'uno e l'altro modello; e trarre esempi e insegnamentidall'uno e dall'altro.

10 Culti stranieri. Tale era, e così operava la reli-gione romana nel suo sviluppo puro, libero e schietta-mente popolare. Nè al suo originale carattere nocquel'essere sin da antichissimi tempi venuti da paesi stranie-ri maestri di religione e tipi di culto, come l'aver accoltonella cittadinanza qualche straniero non snaturò l'ele-mento nazionale romana. Del resto non v'è dubbio, cheda epoche vetustissime, Greci e Latini si scambiasserole divinità come le merci. Più notevole è l'introduzione

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quercia anche di fronte alla rosa, sarebbe tempo, non ditentennare tra encomi e biasimi alterni allorchè si parladelle due più grandi società spirituali e civili che l'anti-chità ci presenti, ma di comprendere che i pregi dell'unae dell'altra sono necessariamente condizionati ai lorostessi difetti. La più intima e determinante cagione delladifferenza delle due nazioni si deve ricercare nel fatto,che l'Ellade, e non il Lazio, si trovò, proprio nel suo pe-riodo genetico, in contatto coll'oriente. Nessuna razzaumana era per se stessa grande abbastanza per potercreare il miracolo della coltura ellenica, e più tardi il mi-racolo della coltura cristiana. Questi bagliori si riscon-trano nella storia là dove nel terreno indo-germanico sisono infiltrate le idee religiose della gente aramea. Mase l'Ellade è il prototipo del compiuto svolgimentodell'uomo, il Lazio rimarrà per tutti i tempi il prototipodello svolgimento nazionale: e i posteri debbono onora-re l'uno e l'altro modello; e trarre esempi e insegnamentidall'uno e dall'altro.

10 Culti stranieri. Tale era, e così operava la reli-gione romana nel suo sviluppo puro, libero e schietta-mente popolare. Nè al suo originale carattere nocquel'essere sin da antichissimi tempi venuti da paesi stranie-ri maestri di religione e tipi di culto, come l'aver accoltonella cittadinanza qualche straniero non snaturò l'ele-mento nazionale romana. Del resto non v'è dubbio, cheda epoche vetustissime, Greci e Latini si scambiasserole divinità come le merci. Più notevole è l'introduzione

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di divinità di razze e di culti diversi. Già s'è detto delculto speciale sabino dei Tizii. È dubbio se anchedall'Etruria siano state introdotte immagini divine; poi-chè i Lasi, antica denominazione dei geni (da lascivus),e Minerva, la dea della memoria (mens, menervare), chesi vogliono ritenere d'origine etrusca, devono anzi, perriscontri filologici, giudicarsi originarie del Lazio84. Inogni modo è certo e conforme a tutto ciò che sappiamodella civiltà che prima, e assai più estesamente di ognialtro culto straniero, il culto greco venne in grandissimoonore presso i Romani. Questo si deve soprattutto aglioracoli greci. La favella degli dei di Roma non andavaoltre il sì e il no; o al massimo all'annunzio della lorovolontà mediante «il gettar delle sorti», che è, pare, cosadi origine assolutamente italica85, mentre da tempi anti-chissimi i più loquaci dei della Grecia davano veri re-sponsi. I Romani impararono di buon'ora a raccogliereun abbondante tesoro di siffatti consigli, e le copie deifogli della Sibilla cumana, indovina sacerdotessad'Apollo, erano perciò reputate un dono preziosissimodegli ospiti greci della Campania. Per leggere e spiegarequesto libro profetico il comune aveva nominato un ap-

84 Vulgata etimologia è quella che deriva lares da Lar, voceetrusca significante principe o capo. Sulla forma etrusca del nomedi Minerva veggasi il cap. IX di quest'opera. Si nota per memoriache altri già cercò di connettere l'etimologia di Minerva a meneoantica forma di moneo.

85 Sors, da Serere, Schieran, erano probabilmente tavolette dilegno attaccate ad un cordone, le quali, gettate, formavano diver-se figure; esse ricordano alquanto i segni runici.

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di divinità di razze e di culti diversi. Già s'è detto delculto speciale sabino dei Tizii. È dubbio se anchedall'Etruria siano state introdotte immagini divine; poi-chè i Lasi, antica denominazione dei geni (da lascivus),e Minerva, la dea della memoria (mens, menervare), chesi vogliono ritenere d'origine etrusca, devono anzi, perriscontri filologici, giudicarsi originarie del Lazio84. Inogni modo è certo e conforme a tutto ciò che sappiamodella civiltà che prima, e assai più estesamente di ognialtro culto straniero, il culto greco venne in grandissimoonore presso i Romani. Questo si deve soprattutto aglioracoli greci. La favella degli dei di Roma non andavaoltre il sì e il no; o al massimo all'annunzio della lorovolontà mediante «il gettar delle sorti», che è, pare, cosadi origine assolutamente italica85, mentre da tempi anti-chissimi i più loquaci dei della Grecia davano veri re-sponsi. I Romani impararono di buon'ora a raccogliereun abbondante tesoro di siffatti consigli, e le copie deifogli della Sibilla cumana, indovina sacerdotessad'Apollo, erano perciò reputate un dono preziosissimodegli ospiti greci della Campania. Per leggere e spiegarequesto libro profetico il comune aveva nominato un ap-

84 Vulgata etimologia è quella che deriva lares da Lar, voceetrusca significante principe o capo. Sulla forma etrusca del nomedi Minerva veggasi il cap. IX di quest'opera. Si nota per memoriache altri già cercò di connettere l'etimologia di Minerva a meneoantica forma di moneo.

85 Sors, da Serere, Schieran, erano probabilmente tavolette dilegno attaccate ad un cordone, le quali, gettate, formavano diver-se figure; esse ricordano alquanto i segni runici.

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posito collegio di due savii (duoviri sacris faciundis), iquali non erano secondi in onore che agli auguri ed aipontefici, e avevano inoltre destinati due schiavi praticidella lingua greca; a questi conservatori degli oracoli siricorreva in casi dubbi, quando per distornare una di-sgrazia che minacciasse la comunità, occorresse un attoreligioso e non si sapesse come farlo od a quale divinitàindirizzarlo. Perciò convien far risalire ai tempi remotile legazioni romane spedite a consultare l'Apollo delfi-co. Oltre le già menzionate leggende, che toccano diqueste relazioni, lo prova in parte l'introduzione dellaparola thesaurus in tutte le lingue italiche a noi note (pa-rola che è in tanta connessione coll'Apollo delfico), inparte la più antica forma romana del nome Apollon,Aperta, l'apritore, una storpiatura etimologica dell'Apol-lon dorico, il cui barbarismo è appunto indizio della suavetustà.

Anche il greco Heracles è presto conosciuto in Italiasotto i nomi di Herclus, Hercoles, Hercules, e compresoin modo originale forse come dio del rischio commer-ciale e delle ricchezze prosperose, per cui il capitano glioffriva, sull'ara massima del foro boario, il decimo dellapreda fatta, ed il mercante la decima parte dei beni ac-quistati. Egli divenne perciò il dio dei contratti che intempi antichi si concludevano frequentemente pressol'ara di Ercole ed erano sanzionati dal giuramento; percui esso coincide in qualche modo con l'antico dio latinodella fede mantenuta (deus fidius). Il culto di Ercole sidiffuse rapidamente e per dirla con un antico scrittore,

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posito collegio di due savii (duoviri sacris faciundis), iquali non erano secondi in onore che agli auguri ed aipontefici, e avevano inoltre destinati due schiavi praticidella lingua greca; a questi conservatori degli oracoli siricorreva in casi dubbi, quando per distornare una di-sgrazia che minacciasse la comunità, occorresse un attoreligioso e non si sapesse come farlo od a quale divinitàindirizzarlo. Perciò convien far risalire ai tempi remotile legazioni romane spedite a consultare l'Apollo delfi-co. Oltre le già menzionate leggende, che toccano diqueste relazioni, lo prova in parte l'introduzione dellaparola thesaurus in tutte le lingue italiche a noi note (pa-rola che è in tanta connessione coll'Apollo delfico), inparte la più antica forma romana del nome Apollon,Aperta, l'apritore, una storpiatura etimologica dell'Apol-lon dorico, il cui barbarismo è appunto indizio della suavetustà.

Anche il greco Heracles è presto conosciuto in Italiasotto i nomi di Herclus, Hercoles, Hercules, e compresoin modo originale forse come dio del rischio commer-ciale e delle ricchezze prosperose, per cui il capitano glioffriva, sull'ara massima del foro boario, il decimo dellapreda fatta, ed il mercante la decima parte dei beni ac-quistati. Egli divenne perciò il dio dei contratti che intempi antichi si concludevano frequentemente pressol'ara di Ercole ed erano sanzionati dal giuramento; percui esso coincide in qualche modo con l'antico dio latinodella fede mantenuta (deus fidius). Il culto di Ercole sidiffuse rapidamente e per dirla con un antico scrittore,

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egli veniva onorato in ogni paese d'Italia, e i suoi altarisorgevano dappertutto, sia nelle città che nelle vie mae-stre.

Anche gli iddii dei navigatori, Castore e Polydeukes,in romano Pollux (Polluce) e il dio della medicina,Asklapios o Eusculapio, non tardarono ad essere cono-sciuti dai Romani, sebbene il culto pubblico di questinon incominciasse che più tardi. Si può egualmente rite-nere che la festa della «buona dea» (bona Dea) damium,corrispondente al greco δάµιον, δήµιον, appartenesse aquell'epoca.

Certo si deve attribuire ad un antico scambio, piutto-sto che ad un'originaria comunanza delle rappresenta-zioni religiose, e se presso i Romani, come presso i Gre-ci, il dio del vino si chiamasse liberatore (Lyaelos, liberpater), se il dio romano dell'inferno si chiamasse il «di-spensatore delle ricchezze» (Pluton – Dis Pater), se suamoglie Persefone per assonanza e analogia di idee si tra-sformasse nella romana Proserpina, cioè la germogliatri-ce. Persino la dea della lega romano-latina, la Dianaaventina, pare copiata dalla dea della lega degli Joniidell'Asia minore, dall'Artemisia d'Efeso; almeno la sta-tua intagliata del tempio romano era imitata dal tipo efe-siaco. Soltanto su questa via, col mezzo dei miti apolli-nei, dionisiaci, plutonici, d'Eraclea e d'Artemisia, chepenetrarono presto colle idee orientali, la religione ara-mea ha esercitato una lontana e mediata influenzasull'Italia. Si riconosce da ciò chiaramente come la pe-netrazione della religione greca era anzitutto determina-

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egli veniva onorato in ogni paese d'Italia, e i suoi altarisorgevano dappertutto, sia nelle città che nelle vie mae-stre.

Anche gli iddii dei navigatori, Castore e Polydeukes,in romano Pollux (Polluce) e il dio della medicina,Asklapios o Eusculapio, non tardarono ad essere cono-sciuti dai Romani, sebbene il culto pubblico di questinon incominciasse che più tardi. Si può egualmente rite-nere che la festa della «buona dea» (bona Dea) damium,corrispondente al greco δάµιον, δήµιον, appartenesse aquell'epoca.

Certo si deve attribuire ad un antico scambio, piutto-sto che ad un'originaria comunanza delle rappresenta-zioni religiose, e se presso i Romani, come presso i Gre-ci, il dio del vino si chiamasse liberatore (Lyaelos, liberpater), se il dio romano dell'inferno si chiamasse il «di-spensatore delle ricchezze» (Pluton – Dis Pater), se suamoglie Persefone per assonanza e analogia di idee si tra-sformasse nella romana Proserpina, cioè la germogliatri-ce. Persino la dea della lega romano-latina, la Dianaaventina, pare copiata dalla dea della lega degli Joniidell'Asia minore, dall'Artemisia d'Efeso; almeno la sta-tua intagliata del tempio romano era imitata dal tipo efe-siaco. Soltanto su questa via, col mezzo dei miti apolli-nei, dionisiaci, plutonici, d'Eraclea e d'Artemisia, chepenetrarono presto colle idee orientali, la religione ara-mea ha esercitato una lontana e mediata influenzasull'Italia. Si riconosce da ciò chiaramente come la pe-netrazione della religione greca era anzitutto determina-

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ta dalle relazioni mercantili, e come i mercanti e i navi-gatori furono quelli che introdussero gli dei greci in Ita-lia. Queste speciali immagini, pigliate in prestito dallereligioni straniere, sono però di poco rilievo, come insi-gnificanti e sbiadite sono le reliquie del simbolismo co-smico dei tempi primitivi, per esempio la leggenda deibuoi di Caco. Tutto sommato, la religione romana devedirsi una creazione organica del popolo presso cui la tro-viamo.

11 Religione sabellica. I riti umbri erano basatisulle stesse intuizioni fondamentali di quelli dei Latini,con forme e colorito che variano secondo la località.Che però in qualche punto si differenziasse dal latino loprova nel modo più positivo l'istituzione d'una appositacompagnia in Roma, allo scopo di conservare i riti sabi-ni: ma appunto da ciò si può argomentare in che i dueriti differissero. L'osservazione del volo degli uccelli erapresso entrambe le schiatte il modo ordinario d'interro-gare gli dei; se non che i Tizii osservavano uccelli di di-versa specie di quelli osservati dagli auguri romani86. Intutti i casi, nei quali poi possiamo paragonare i due riti,vi troviamo gli stessi rapporti; il concetto degli dei comeastrazioni delle cose terrestri o la loro incorporea naturasono comuni alle due schiatte; ma diverso il rituale, di-

86 Sodales Titii dicti sunt a Titiis avibus quas in auguris certisobservare solent, VARR., IV, de ling lat.; e TACITO (Ann., I) asseri-sce che la compagnia dei Tizii era stata istituita retinendis Sabi-norum sacris.

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ta dalle relazioni mercantili, e come i mercanti e i navi-gatori furono quelli che introdussero gli dei greci in Ita-lia. Queste speciali immagini, pigliate in prestito dallereligioni straniere, sono però di poco rilievo, come insi-gnificanti e sbiadite sono le reliquie del simbolismo co-smico dei tempi primitivi, per esempio la leggenda deibuoi di Caco. Tutto sommato, la religione romana devedirsi una creazione organica del popolo presso cui la tro-viamo.

11 Religione sabellica. I riti umbri erano basatisulle stesse intuizioni fondamentali di quelli dei Latini,con forme e colorito che variano secondo la località.Che però in qualche punto si differenziasse dal latino loprova nel modo più positivo l'istituzione d'una appositacompagnia in Roma, allo scopo di conservare i riti sabi-ni: ma appunto da ciò si può argomentare in che i dueriti differissero. L'osservazione del volo degli uccelli erapresso entrambe le schiatte il modo ordinario d'interro-gare gli dei; se non che i Tizii osservavano uccelli di di-versa specie di quelli osservati dagli auguri romani86. Intutti i casi, nei quali poi possiamo paragonare i due riti,vi troviamo gli stessi rapporti; il concetto degli dei comeastrazioni delle cose terrestri o la loro incorporea naturasono comuni alle due schiatte; ma diverso il rituale, di-

86 Sodales Titii dicti sunt a Titiis avibus quas in auguris certisobservare solent, VARR., IV, de ling lat.; e TACITO (Ann., I) asseri-sce che la compagnia dei Tizii era stata istituita retinendis Sabi-norum sacris.

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versa l'espressione. Che al culto di quei tempi simili dif-ferenze di riti sembrassero di grande importanza è cosafacile a comprendersi; ma noi non possiamo più sottil-mente indovinare in che proprio consistesse la differen-za caratteristica, se pur differenza v'era.

12 Religione etrusca. Nei documenti che della reli-gione etrusca sono pervenuti sino a noi, si manifesta unospirito diverso. Vi domina una tetra e insieme monotonamisticità, un giuoco di numeri, una interpretazione di se-gni e quella solenne sicumera della scienza ciarlatanescache trova un uditorio in tutti i tempi. Noi non conoscia-mo, a dir vero, il culto degli Etruschi così chiaramente edirettamente come conosciamo quello dei Latini; maammesso anche che posteriori fantasticherie abbiano ap-piccicato alla religione etrusca molte cose che le eranoestranee, e supponendo inoltre che ci siano sopraggiuntesoltanto le parti più tetre e fantastiche del loro culto, equelle appunto che più si scostavano dalle idee religiosedei Latini – supposizioni entrambe che non devono es-sere molto lontane dal vero – malgrado tutto ciò, quelloche ci rimane basta per assicurarci che il misticismo e labarbarie di questo culto dipendevano veramentedall'intimo carattere del popolo etrusco. Non si potrebbeora determinare l'intrinseca antitesi tra l'idea della divi-nità presso gli Etruschi, pochissimo nota, e quella degliItalici; ma è certo che gli dei degli Etruschi si presenta-no a prima vista cattivi e maligni, e anche il culto è cru-dele e si spinge fino al sacrificio dei prigionieri – così si

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versa l'espressione. Che al culto di quei tempi simili dif-ferenze di riti sembrassero di grande importanza è cosafacile a comprendersi; ma noi non possiamo più sottil-mente indovinare in che proprio consistesse la differen-za caratteristica, se pur differenza v'era.

12 Religione etrusca. Nei documenti che della reli-gione etrusca sono pervenuti sino a noi, si manifesta unospirito diverso. Vi domina una tetra e insieme monotonamisticità, un giuoco di numeri, una interpretazione di se-gni e quella solenne sicumera della scienza ciarlatanescache trova un uditorio in tutti i tempi. Noi non conoscia-mo, a dir vero, il culto degli Etruschi così chiaramente edirettamente come conosciamo quello dei Latini; maammesso anche che posteriori fantasticherie abbiano ap-piccicato alla religione etrusca molte cose che le eranoestranee, e supponendo inoltre che ci siano sopraggiuntesoltanto le parti più tetre e fantastiche del loro culto, equelle appunto che più si scostavano dalle idee religiosedei Latini – supposizioni entrambe che non devono es-sere molto lontane dal vero – malgrado tutto ciò, quelloche ci rimane basta per assicurarci che il misticismo e labarbarie di questo culto dipendevano veramentedall'intimo carattere del popolo etrusco. Non si potrebbeora determinare l'intrinseca antitesi tra l'idea della divi-nità presso gli Etruschi, pochissimo nota, e quella degliItalici; ma è certo che gli dei degli Etruschi si presenta-no a prima vista cattivi e maligni, e anche il culto è cru-dele e si spinge fino al sacrificio dei prigionieri – così si

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macellavano in Cere i prigionieri focesi, come in Tar-queno i prigionieri romani. In luogo del silenzioso mon-do dei trapassati «buoni spiriti» che dominavano gli spa-zi dell'abisso, immaginato dai Latini, per gli Etruschiappare un vero inferno, ove, per esser tormentate conmazze e serpenti, vengono condotte le povere anime dalnocchiere della morte, figura di vecchio selvaggio, mez-zo bestia, munita di ali e d'un gran martello; figura cheservì più tardi ai Romani per mascherare l'uomo che tra-scinava fuori dell'arena i cadaveri degli uccisi. A questacondizione delle ombre va strettamente unita la primache accoglie persino il pensiero della redenzione, me-diante la quale, dopo alcuni misteriosi sacrifici, la pove-ra anima è ammessa tra gli dei superiori. È notevole cheper popolare il loro inferno gli Etruschi togliessero dibuon'ora dai Greci le più cupe immagini, e che per con-seguenza la dottrina acherontica e Caronte abbiano unagran parte nella scienza etrusca. Ma l'interpretazione deisegni e dei miracoli occupa sopra ogni altra cosa lamente dell'Etrusco. Anche i Romani udivano nella natu-ra la voce degli dei, ma il loro augure comprendeva soloi segni semplici, e sapeva in generale se ciò che era persuccedere avesse a portar fortuna o disgrazia. I turba-menti nel corso della natura erano da lui consideraticome funesti e suscitanti ostacoli alle opere; così, peresempio, durante il lampo e il tuono si scioglievano leadunanze popolari, e si procurava di sviarne il cattivoaugurio, come per esempio si faceva coi parti mostruosiche venivano subito uccisi. Ma al di là del Tevere ciò

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macellavano in Cere i prigionieri focesi, come in Tar-queno i prigionieri romani. In luogo del silenzioso mon-do dei trapassati «buoni spiriti» che dominavano gli spa-zi dell'abisso, immaginato dai Latini, per gli Etruschiappare un vero inferno, ove, per esser tormentate conmazze e serpenti, vengono condotte le povere anime dalnocchiere della morte, figura di vecchio selvaggio, mez-zo bestia, munita di ali e d'un gran martello; figura cheservì più tardi ai Romani per mascherare l'uomo che tra-scinava fuori dell'arena i cadaveri degli uccisi. A questacondizione delle ombre va strettamente unita la primache accoglie persino il pensiero della redenzione, me-diante la quale, dopo alcuni misteriosi sacrifici, la pove-ra anima è ammessa tra gli dei superiori. È notevole cheper popolare il loro inferno gli Etruschi togliessero dibuon'ora dai Greci le più cupe immagini, e che per con-seguenza la dottrina acherontica e Caronte abbiano unagran parte nella scienza etrusca. Ma l'interpretazione deisegni e dei miracoli occupa sopra ogni altra cosa lamente dell'Etrusco. Anche i Romani udivano nella natu-ra la voce degli dei, ma il loro augure comprendeva soloi segni semplici, e sapeva in generale se ciò che era persuccedere avesse a portar fortuna o disgrazia. I turba-menti nel corso della natura erano da lui consideraticome funesti e suscitanti ostacoli alle opere; così, peresempio, durante il lampo e il tuono si scioglievano leadunanze popolari, e si procurava di sviarne il cattivoaugurio, come per esempio si faceva coi parti mostruosiche venivano subito uccisi. Ma al di là del Tevere ciò

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non bastava. L'Etrusco, speculatore, leggeva nel balenoe nelle viscere delle vittime, all'uomo credulo, la suasorte sino nei più minuti particolari; e quanto più erastrana la favella degli dei, quanto più sorprendente il se-gno e il miracolo, con tanta maggior sicurezza egli indi-cava il senso della predizione e come si potesse preve-nirne il maleficio. Così nacque la dottrina della folgore,l'aruspicina, la interpretazione dei miracoli, tutte cose,particolarmente la scienza delle folgori, immaginate dal-le menti esaltate e smarrite nell'assurdo.

Un nano di figura infantile, coi capelli grigi, scopertocoll'aratro da un contadino presso Tarqueno, e chiamatoTage, fu il primo che svelò agli Etruschi la scienza dellefolgori e subito dopo morì; si sarebbe indotti a credereche quell'abbozzo di fanciullo e nello stesso tempo diuomo decrepito, volesse schernire se stesso. I suoi sco-lari e successori insegnarono quali divinità solesserolanciare le folgori, come dalla parte del cielo e dal colo-re del lampo si potesse riconoscere la folgore di ognidio, se la folgore indicasse uno stato duraturo o un sem-plice evento, se esso fosse già prestabilito irrevocalmen-te dal destino o se potesse essere rimosso sino a un certolimite; come si riuscisse a sotterrare il fulmine caduto ecome si obbligasse a cadere quello che minacciava, edaltre simili arti miracolose, dirette tutte alla cupidigiadella sportula. Quanto questa ciarlataneria contrastassecol carattere dei Romani lo dimostra la circostanza, chequando più tardi essa s'introdusse in Roma, non si tentògiammai di ammetterla nel culto cittadino; in quell'epo-

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non bastava. L'Etrusco, speculatore, leggeva nel balenoe nelle viscere delle vittime, all'uomo credulo, la suasorte sino nei più minuti particolari; e quanto più erastrana la favella degli dei, quanto più sorprendente il se-gno e il miracolo, con tanta maggior sicurezza egli indi-cava il senso della predizione e come si potesse preve-nirne il maleficio. Così nacque la dottrina della folgore,l'aruspicina, la interpretazione dei miracoli, tutte cose,particolarmente la scienza delle folgori, immaginate dal-le menti esaltate e smarrite nell'assurdo.

Un nano di figura infantile, coi capelli grigi, scopertocoll'aratro da un contadino presso Tarqueno, e chiamatoTage, fu il primo che svelò agli Etruschi la scienza dellefolgori e subito dopo morì; si sarebbe indotti a credereche quell'abbozzo di fanciullo e nello stesso tempo diuomo decrepito, volesse schernire se stesso. I suoi sco-lari e successori insegnarono quali divinità solesserolanciare le folgori, come dalla parte del cielo e dal colo-re del lampo si potesse riconoscere la folgore di ognidio, se la folgore indicasse uno stato duraturo o un sem-plice evento, se esso fosse già prestabilito irrevocalmen-te dal destino o se potesse essere rimosso sino a un certolimite; come si riuscisse a sotterrare il fulmine caduto ecome si obbligasse a cadere quello che minacciava, edaltre simili arti miracolose, dirette tutte alla cupidigiadella sportula. Quanto questa ciarlataneria contrastassecol carattere dei Romani lo dimostra la circostanza, chequando più tardi essa s'introdusse in Roma, non si tentògiammai di ammetterla nel culto cittadino; in quell'epo-

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ca bastavano ancora ai Romani gli oracoli indigeni deiGreci.

La religione trusca è superiore alla romana in quantoessa ha sviluppato almeno un principio di quella specu-lazione avvolta in forme religiose, che mancò intera-mente ai Romani. Sul mondo, coi suoi dei, signoreggia-no gli dei velati, i quali sono interrogati dallo stessoGiove etrusco; ma quel mondo è perituro, e come è sor-to così si dissolverà dopo il corso d'un determinato spa-zio di tempo, i cui periodi sono i secoli. È difficile giu-dicare dei valori morali che questa cosmogonia e filoso-fia etrusca possano aver avuto una volta: ma pare cheanche ad essa, sin da principio, si congiungesse un in-sulso fatalismo ed uno scipito giuoco di numeri.

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ca bastavano ancora ai Romani gli oracoli indigeni deiGreci.

La religione trusca è superiore alla romana in quantoessa ha sviluppato almeno un principio di quella specu-lazione avvolta in forme religiose, che mancò intera-mente ai Romani. Sul mondo, coi suoi dei, signoreggia-no gli dei velati, i quali sono interrogati dallo stessoGiove etrusco; ma quel mondo è perituro, e come è sor-to così si dissolverà dopo il corso d'un determinato spa-zio di tempo, i cui periodi sono i secoli. È difficile giu-dicare dei valori morali che questa cosmogonia e filoso-fia etrusca possano aver avuto una volta: ma pare cheanche ad essa, sin da principio, si congiungesse un in-sulso fatalismo ed uno scipito giuoco di numeri.

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TREDICESIMO CAPITOLOAGRICOLTURA, INDUSTRIA E COM-

MERCIO

1 Agricoltura. L'agricoltura e il commercio sonocosì strettamente legati alla costituzione sociale ed allastoria esterna degli stati, che già nel trattare di ciò abbia-mo dovuto più volte accennarvi. Ora tenteremo di de-scrivere, completando i cenni che già ne abbiamo dati,gli ordini economici d'Italia e specialmente quelli diRoma.

Abbiamo già notato come il passaggio dalla pastori-zia all'agricoltura avvenne prima della migrazione degliItalici nella penisola. L'agricoltura rimase il perno fon-damentale di tutte le società italiche, cioè delle sabelli-che e delle etrusche non meno che delle latine; nel tem-po storico non si riscontrano in Italia vere tribù pastora-li, sebbene vi si esercitasse dappertutto, a seconda dellanatura del suolo, accanto all'agricoltura, anche la pasto-rizia. Quanto fosse comune e profonda la persuasioneche base d'ogni repubblica dovesse essere l'agricoltura,lo prova l'aureo costume di iniziare la fondazione dellenuove città, tracciando coll'aratro un solco, ove dovevapoi sorgere il cerchio delle mura. La prova che Roma, lasola delle cui condizioni agrarie si possa parlare conqualche sicurezza, poneva sin da principio negli agricol-

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TREDICESIMO CAPITOLOAGRICOLTURA, INDUSTRIA E COM-

MERCIO

1 Agricoltura. L'agricoltura e il commercio sonocosì strettamente legati alla costituzione sociale ed allastoria esterna degli stati, che già nel trattare di ciò abbia-mo dovuto più volte accennarvi. Ora tenteremo di de-scrivere, completando i cenni che già ne abbiamo dati,gli ordini economici d'Italia e specialmente quelli diRoma.

Abbiamo già notato come il passaggio dalla pastori-zia all'agricoltura avvenne prima della migrazione degliItalici nella penisola. L'agricoltura rimase il perno fon-damentale di tutte le società italiche, cioè delle sabelli-che e delle etrusche non meno che delle latine; nel tem-po storico non si riscontrano in Italia vere tribù pastora-li, sebbene vi si esercitasse dappertutto, a seconda dellanatura del suolo, accanto all'agricoltura, anche la pasto-rizia. Quanto fosse comune e profonda la persuasioneche base d'ogni repubblica dovesse essere l'agricoltura,lo prova l'aureo costume di iniziare la fondazione dellenuove città, tracciando coll'aratro un solco, ove dovevapoi sorgere il cerchio delle mura. La prova che Roma, lasola delle cui condizioni agrarie si possa parlare conqualche sicurezza, poneva sin da principio negli agricol-

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tori il centro di gravità dello stato, e che anzi facevaogni sforzo per vincolare allo stato tutti i possidenti con-siderandoli come il nerbo della cosa pubblica, si hachiaramente nella riforma di Servio. Dopo che,coll'andar del tempo, una gran parte dei latifondi romanierano passati nelle mani di non cittadini e che per conse-guenza i diritti ed i doveri dei cittadini non si fondavanopiù sulla proprietà, la costituzione riformata tolse dimezzo simile sproporzione ed i pericoli che vi erano in-siti non per una volta soltanto, ma per tutti i tempi, clas-sificando gli abitanti di Roma, senza alcun riguardo allapolitica loro origine, in «possidenti» e in «procreatori diprole» e aggravando i possidenti di tutte le imposizionipubbliche, alle quali per conseguenza dovevano rispon-dere i diritti politici. Tutta la politica guerriera e conqui-statrice dei Romani era basata, come la costituzione,sulla proprietà; e allo stesso modo che nello stato noncontava se non il proprietario, così lo scopo della guerraera quello di aumentarne il numero degli abitanti condomicilio e proprietà nel comune.

Il comune conquistato, o costretto a scendere a patti,si vedeva o incorporato nel contado romano, o, quandonon si arrivava a tale estremo, in luogo delle contribu-zioni di guerra o tributi, veniva obbligato a cedere unaterza parte del suo territorio che era convertito in tenutereali romane.

Molti popoli hanno riportato vittorie e fatto conquistecome i Romani, ma nessuno al pari di essi ha saputo ap-propriarsi col sudore della fronte il suolo dei vinti e me-

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tori il centro di gravità dello stato, e che anzi facevaogni sforzo per vincolare allo stato tutti i possidenti con-siderandoli come il nerbo della cosa pubblica, si hachiaramente nella riforma di Servio. Dopo che,coll'andar del tempo, una gran parte dei latifondi romanierano passati nelle mani di non cittadini e che per conse-guenza i diritti ed i doveri dei cittadini non si fondavanopiù sulla proprietà, la costituzione riformata tolse dimezzo simile sproporzione ed i pericoli che vi erano in-siti non per una volta soltanto, ma per tutti i tempi, clas-sificando gli abitanti di Roma, senza alcun riguardo allapolitica loro origine, in «possidenti» e in «procreatori diprole» e aggravando i possidenti di tutte le imposizionipubbliche, alle quali per conseguenza dovevano rispon-dere i diritti politici. Tutta la politica guerriera e conqui-statrice dei Romani era basata, come la costituzione,sulla proprietà; e allo stesso modo che nello stato noncontava se non il proprietario, così lo scopo della guerraera quello di aumentarne il numero degli abitanti condomicilio e proprietà nel comune.

Il comune conquistato, o costretto a scendere a patti,si vedeva o incorporato nel contado romano, o, quandonon si arrivava a tale estremo, in luogo delle contribu-zioni di guerra o tributi, veniva obbligato a cedere unaterza parte del suo territorio che era convertito in tenutereali romane.

Molti popoli hanno riportato vittorie e fatto conquistecome i Romani, ma nessuno al pari di essi ha saputo ap-propriarsi col sudore della fronte il suolo dei vinti e me-

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ritare per la seconda volta, con l'aratro, quello che lalancia aveva loro acquistato. Ciò che la guerra dà, laguerra può togliere: ma non così le conquiste fattedall'agricoltore. Se i Romani, malgrado le molte batta-glie perdute, nel far la pace non cedettero quasi mai al-cuna parte della terra romana, essi ne andarono debitorial tenace amore dei contadini per i loro campi e per leloro proprietà. La forza dell'uomo e quella dello statostanno nel dominio della terra; la grandezza di Romacrebbe sulla base della più vasta e immediata signoriadei cittadini sul suolo e sulla serrata unità di codesta sal-da e radicata ruralità.

2 Comunanza agraria. Abbiamo già detto come ne'primi tempi il terreno aratorio venisse lavorato in comu-ne, probabilmente dai singoli consorzi gentilizi, come lerendite fossero divise tra le case appartenenti al consor-zio, come la comunanza del territorio e il consorzio gen-tilizio fossero intimamente connessi, come anche piùtardi si verificasse molto spesso in Roma la convivenzadei possidenti e l'amministrazione comune dei beni87.

87 La unione di proprietà distinte, ma lavorate in comune permezzo d'una società agricola, come si vede nella tedesca associa-zione di terreni, probabilmente non s'è mai verificata in Italia.Poichè se qui, come presso i Germani, ogni socio fosse stato con-siderato come un proprietario d'un pezzo di terreno in ogni circo-scrizione economica, più tardi, quando cominciò a prevalere laforma dell'economia separata, ne sarebbero risultati dei poderisminuzzati. Invece i nomi individuali dei latifondi romani (fundusCornelianus) provano chiaramente che il possesso fondiario ro-

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ritare per la seconda volta, con l'aratro, quello che lalancia aveva loro acquistato. Ciò che la guerra dà, laguerra può togliere: ma non così le conquiste fattedall'agricoltore. Se i Romani, malgrado le molte batta-glie perdute, nel far la pace non cedettero quasi mai al-cuna parte della terra romana, essi ne andarono debitorial tenace amore dei contadini per i loro campi e per leloro proprietà. La forza dell'uomo e quella dello statostanno nel dominio della terra; la grandezza di Romacrebbe sulla base della più vasta e immediata signoriadei cittadini sul suolo e sulla serrata unità di codesta sal-da e radicata ruralità.

2 Comunanza agraria. Abbiamo già detto come ne'primi tempi il terreno aratorio venisse lavorato in comu-ne, probabilmente dai singoli consorzi gentilizi, come lerendite fossero divise tra le case appartenenti al consor-zio, come la comunanza del territorio e il consorzio gen-tilizio fossero intimamente connessi, come anche piùtardi si verificasse molto spesso in Roma la convivenzadei possidenti e l'amministrazione comune dei beni87.

87 La unione di proprietà distinte, ma lavorate in comune permezzo d'una società agricola, come si vede nella tedesca associa-zione di terreni, probabilmente non s'è mai verificata in Italia.Poichè se qui, come presso i Germani, ogni socio fosse stato con-siderato come un proprietario d'un pezzo di terreno in ogni circo-scrizione economica, più tardi, quando cominciò a prevalere laforma dell'economia separata, ne sarebbero risultati dei poderisminuzzati. Invece i nomi individuali dei latifondi romani (fundusCornelianus) provano chiaramente che il possesso fondiario ro-

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Persino la tradizione giuridica dei Romani serba memo-ria che dal principio la sostanza consisteva in bestiame enell'usufrutto del suolo, e che il territorio fu solo più tar-di suddiviso fra i cittadini in proprietà separate88.

Miglior testimonianza ce ne fa l'antica formola usataper indicare gli averi come «stato di bestiame» o «statodegli schiavi e del bestiame» (pecunia, familia pecunia-que), e degli averi separati dei figli di casa e degli schia-vi, come «pecorella» (peculium); inoltre la più anticaforma dell'acquisto di proprietà colla «mancipazione»(mancipatio), ciò che poteva convenire solo per le cosemobili; e soprattutto la più antica misura del territorioproprio (heredium da herus in tedesco Herr, padrone) didue iugeri o giornate prussiane, spazio che non può cor-rispondere ad una tenuta rurale, ma appena ad un orto89.

mano fin da principio fu chiuso e compiuto di fatto.88 CICERONE (de rep. 2, 9, 14, cfr. PLUT., quest. rom., 15) rac-

conta: «Tura (al tempo di Romolo) erat res in pecore et locorumpossessionibus, ex quo pecuniosi et locupletes vocabuntur –(Numa) primum agros, quos bello Romulus ceperat, divisit viri-tim civibus». Così dice DIONIGI, che Romolo dividesse il paese intrenta distretti curiali, che Numa ponesse le pietre terminali e in-troducesse la festa dei termini (1, 7, 2, 74), da cui PLUTARCO,Numa, 16.

89 Poichè quest'asserzione è ancora sempre impugnata, parlinole cifre. Gli economisti rurali di Roma repubblicana calcolanocinque staja romane di sementi per ogni jugero, e la rendita delcinque per uno; la rendita di un heredium, anche considerandolotutto come terreno aratorio, e non ponendo in conto il maggese elo spazio necessario all'abitazione, sarà dunque di cinquanta staja,ossia di quaranta dedottone il seme. Catone calcola cinquantun

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Persino la tradizione giuridica dei Romani serba memo-ria che dal principio la sostanza consisteva in bestiame enell'usufrutto del suolo, e che il territorio fu solo più tar-di suddiviso fra i cittadini in proprietà separate88.

Miglior testimonianza ce ne fa l'antica formola usataper indicare gli averi come «stato di bestiame» o «statodegli schiavi e del bestiame» (pecunia, familia pecunia-que), e degli averi separati dei figli di casa e degli schia-vi, come «pecorella» (peculium); inoltre la più anticaforma dell'acquisto di proprietà colla «mancipazione»(mancipatio), ciò che poteva convenire solo per le cosemobili; e soprattutto la più antica misura del territorioproprio (heredium da herus in tedesco Herr, padrone) didue iugeri o giornate prussiane, spazio che non può cor-rispondere ad una tenuta rurale, ma appena ad un orto89.

mano fin da principio fu chiuso e compiuto di fatto.88 CICERONE (de rep. 2, 9, 14, cfr. PLUT., quest. rom., 15) rac-

conta: «Tura (al tempo di Romolo) erat res in pecore et locorumpossessionibus, ex quo pecuniosi et locupletes vocabuntur –(Numa) primum agros, quos bello Romulus ceperat, divisit viri-tim civibus». Così dice DIONIGI, che Romolo dividesse il paese intrenta distretti curiali, che Numa ponesse le pietre terminali e in-troducesse la festa dei termini (1, 7, 2, 74), da cui PLUTARCO,Numa, 16.

89 Poichè quest'asserzione è ancora sempre impugnata, parlinole cifre. Gli economisti rurali di Roma repubblicana calcolanocinque staja romane di sementi per ogni jugero, e la rendita delcinque per uno; la rendita di un heredium, anche considerandolotutto come terreno aratorio, e non ponendo in conto il maggese elo spazio necessario all'abitazione, sarà dunque di cinquanta staja,ossia di quaranta dedottone il seme. Catone calcola cinquantun

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

Non può ora dirsi con sicurezza quando e come si diviseil suolo aratorio. Solo possiamo dare storicamente perpositivo, che la più antica costituzione non ebbe riguar-do al domicilio, ma come surrogato badò al consorziodelle famiglie; la costituzione serviana suppone già av-venuta la ripartizione del suolo. Dalla stessa costituzio-

staja pel mantenimento annuo d'uno schiavo adulto e impiegato alavori faticosi. Si pensi se una famiglia romana potesse trarre ilvitto da un heredium. E siffatto risultato non cambierà di molto,se anche si volesse accennare ad altri vantaggi secondari, che of-fre la stessa agricoltura ed il pascolo comunale in fichi, legumi,latte, carne, ecc., poichè l'economia pastorizia fu sempre tenutadai Romani come cosa secondaria, e il nutrimento principale delpopolo fu notoriamente il frumento; nè cambierà per nulla quantosi disse, se si volesse magnificare la bontà dell'antica coltivazio-ne. Non v'è dubbio che i contadini di quel tempo avranno saputotrarre dai loro campi un prodotto maggiore di quello che ne otte-nessero i proprietari di piantagioni al tempo dell'antica repubblicae degli imperatori; ma anche in questo converrà stare nei limiti,trattandosi di cifre adeguate a pareggiare quell'enorme spropor-zione, solo immaginando miracoli di diligenza e d'arte agraria. Sipretende, a dir vero, che persino nei tempi storici vi siano esempidi assegnazioni di due jugeri; ma dagli esempi addotti l'uno ri-guarda (LIVIO, 4, 47) la colonia di Labici nell'anno 336, la qualeindicazione non sarà certo tenuta in alcun conto da quei dotti, chesanno quanto la tradizione sia poco attendibile, principalmentequando scende a particolarità; oltre di che contro di essa possonoanche muoversi non poche gravissime obiezioni. La seconda(tratta da LIVIO, 8, 11, 21) è, se fosse possibile, ancora meno auto-revole, poichè appartiene a quel racconto della prima guerra san-nitica di cui si parla nel lib. 2, cap. 5. Quand'anche poi si potesseprovare l'assegno di due jugeri, che non è in alcun modo provato,

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Non può ora dirsi con sicurezza quando e come si diviseil suolo aratorio. Solo possiamo dare storicamente perpositivo, che la più antica costituzione non ebbe riguar-do al domicilio, ma come surrogato badò al consorziodelle famiglie; la costituzione serviana suppone già av-venuta la ripartizione del suolo. Dalla stessa costituzio-

staja pel mantenimento annuo d'uno schiavo adulto e impiegato alavori faticosi. Si pensi se una famiglia romana potesse trarre ilvitto da un heredium. E siffatto risultato non cambierà di molto,se anche si volesse accennare ad altri vantaggi secondari, che of-fre la stessa agricoltura ed il pascolo comunale in fichi, legumi,latte, carne, ecc., poichè l'economia pastorizia fu sempre tenutadai Romani come cosa secondaria, e il nutrimento principale delpopolo fu notoriamente il frumento; nè cambierà per nulla quantosi disse, se si volesse magnificare la bontà dell'antica coltivazio-ne. Non v'è dubbio che i contadini di quel tempo avranno saputotrarre dai loro campi un prodotto maggiore di quello che ne otte-nessero i proprietari di piantagioni al tempo dell'antica repubblicae degli imperatori; ma anche in questo converrà stare nei limiti,trattandosi di cifre adeguate a pareggiare quell'enorme spropor-zione, solo immaginando miracoli di diligenza e d'arte agraria. Sipretende, a dir vero, che persino nei tempi storici vi siano esempidi assegnazioni di due jugeri; ma dagli esempi addotti l'uno ri-guarda (LIVIO, 4, 47) la colonia di Labici nell'anno 336, la qualeindicazione non sarà certo tenuta in alcun conto da quei dotti, chesanno quanto la tradizione sia poco attendibile, principalmentequando scende a particolarità; oltre di che contro di essa possonoanche muoversi non poche gravissime obiezioni. La seconda(tratta da LIVIO, 8, 11, 21) è, se fosse possibile, ancora meno auto-revole, poichè appartiene a quel racconto della prima guerra san-nitica di cui si parla nel lib. 2, cap. 5. Quand'anche poi si potesseprovare l'assegno di due jugeri, che non è in alcun modo provato,

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ne si desume che la gran massa della proprietà territoria-le consisteva in tenute medie, che occupavano e faceva-no vivere una famiglia, e permettevano l'applicazionedell'aratro e il mantenimento degli animali necessari adarare. Non fu possibile stabilire con sicurezza quale fos-se l'ordinaria superficie di queste tenute intere dei Ro-mani, ma si può, come già si è accennato, ritenere chenon fosse minore di venti jugeri90.

si dovrebbe supporre che la maggior parte del terreno destinato acostituire il vero podere fosse già stata venduta e a ciascuno deicompratori destinato un heredium gratuitamente, o arrischiandoqualche altra ipotesi, che sarebbe sempre preferibile a quella checombattiamo, la quale può stare nelle leggi di natura come il mi-racolo dei cinque pani e dei due pesci del Vangelo. I contadini ro-mani erano di gran lunga meno discreti dei loro storiografi; essiritenevano, come già si disse, di non poter vivere nemmeno sopratenute di sette jugeri, della rendita di 140 staja romane.

90 Forse il tentativo più nuovo, anche se non ultimo, di dimo-strare che la famiglia agricola latina abbia potuto vivere con duejugeri di terreno, è stato fondato specialmente sul fatto cheVARRONE (De r. r., 1, 44, 1), calcola nella seminagione cinque stajadi frumento per ogni jugero, e al contrario 10 staja di spelta, e facorrispondere a questo il raccolto, per cui si deduce che la colti-vazione della spelta offre, se non il doppio, certo un prodotto as-sai maggiore del frumento. Però è piuttosto vero il contrario, equella seminagione e quel raccolto, nominalmente assai superio-re, son da spiegare con la circostanza che i Romani seminavano ilfrumento già spoglio, e la spelta invece con la spoglia, (PLINIO, N.h., 18, 6, 61), la quale con la battitura non si separa dal seme. Perlo stesso motivo la spelta viene seminata ancora oggi in doppiaquantità che il frumento, e secondo la misura offre un raccoltodoppio, ma dopo la separazione della spoglia ne offre uno mino-

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ne si desume che la gran massa della proprietà territoria-le consisteva in tenute medie, che occupavano e faceva-no vivere una famiglia, e permettevano l'applicazionedell'aratro e il mantenimento degli animali necessari adarare. Non fu possibile stabilire con sicurezza quale fos-se l'ordinaria superficie di queste tenute intere dei Ro-mani, ma si può, come già si è accennato, ritenere chenon fosse minore di venti jugeri90.

si dovrebbe supporre che la maggior parte del terreno destinato acostituire il vero podere fosse già stata venduta e a ciascuno deicompratori destinato un heredium gratuitamente, o arrischiandoqualche altra ipotesi, che sarebbe sempre preferibile a quella checombattiamo, la quale può stare nelle leggi di natura come il mi-racolo dei cinque pani e dei due pesci del Vangelo. I contadini ro-mani erano di gran lunga meno discreti dei loro storiografi; essiritenevano, come già si disse, di non poter vivere nemmeno sopratenute di sette jugeri, della rendita di 140 staja romane.

90 Forse il tentativo più nuovo, anche se non ultimo, di dimo-strare che la famiglia agricola latina abbia potuto vivere con duejugeri di terreno, è stato fondato specialmente sul fatto cheVARRONE (De r. r., 1, 44, 1), calcola nella seminagione cinque stajadi frumento per ogni jugero, e al contrario 10 staja di spelta, e facorrispondere a questo il raccolto, per cui si deduce che la colti-vazione della spelta offre, se non il doppio, certo un prodotto as-sai maggiore del frumento. Però è piuttosto vero il contrario, equella seminagione e quel raccolto, nominalmente assai superio-re, son da spiegare con la circostanza che i Romani seminavano ilfrumento già spoglio, e la spelta invece con la spoglia, (PLINIO, N.h., 18, 6, 61), la quale con la battitura non si separa dal seme. Perlo stesso motivo la spelta viene seminata ancora oggi in doppiaquantità che il frumento, e secondo la misura offre un raccoltodoppio, ma dopo la separazione della spoglia ne offre uno mino-

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3 Coltivazione del frumento e della vite. L'eco-nomia rurale si fondava essenzialmente sulla coltivazio-ne del grano; il grano comune era la spelta (far), ma sicoltivano con molta cura anche legumi, erbaggi e larapa.

re. Secondo indicazioni del Würtemberg che G. Hanssen mi co-munica, si calcola colà come reddito medio per il jugero würtem-berghese, quanto al frumento (per una seminagione di un quarto amezzo stajo) tre staja di peso medio di 275 libbre (uguale 825 lib-bre); quanto alla spelta (per una seminagione da un mezzo stajo auno e mezzo), almeno sette staja del peso medio di 150 libbre(uguale 1050 libbre), che dopo la pulitura, si riducono a circaquattro staja. Così la spelta, paragonata al frumento, dà come rac-colto lordo più che il doppio, e in un buon terreno forse triplo rac-colto, secondo il peso specifico; ma prima della mondatura nonmolto di più, e dopo la mondatura (come «grano») meno che lametà. Non già per isbaglio, come è stato asserito; ma poichè è op-portuno di muovere, in calcoli di questa specie, da premesse tra-dizionali e concrete, noi abbiamo stabilito il calcolo già primadetto, relativamente al frumento; questo calcolo era giusto, perchètrasportato alla spelta, non se ne distacca essenzialmente, e il ri-sultato piuttosto che diminuire sale. La spelta è più soddisfacente,relativamente al terreno e al clima, ed esposta a minori pericolidel frumento; ma quest'ultimo offre nell'insieme, anche senza cal-colare le non trascurabili spese di mondatura, un introito netto su-periore (dopo cinquant'anni calcolati in media); il frumento maltonella regione di Francoforte, in Rheinbayern si mette a undici fio-rini e tre soldi; e la spelta malto a quattro fiorini e trenta soldi; ecome nella Germania meridionale, dove il terreno lo consente, lacoltivazione del frumento viene preferita, e d'altronde, nella pro-gressiva coltura, questo tenta respingere la coltivazione della

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3 Coltivazione del frumento e della vite. L'eco-nomia rurale si fondava essenzialmente sulla coltivazio-ne del grano; il grano comune era la spelta (far), ma sicoltivano con molta cura anche legumi, erbaggi e larapa.

re. Secondo indicazioni del Würtemberg che G. Hanssen mi co-munica, si calcola colà come reddito medio per il jugero würtem-berghese, quanto al frumento (per una seminagione di un quarto amezzo stajo) tre staja di peso medio di 275 libbre (uguale 825 lib-bre); quanto alla spelta (per una seminagione da un mezzo stajo auno e mezzo), almeno sette staja del peso medio di 150 libbre(uguale 1050 libbre), che dopo la pulitura, si riducono a circaquattro staja. Così la spelta, paragonata al frumento, dà come rac-colto lordo più che il doppio, e in un buon terreno forse triplo rac-colto, secondo il peso specifico; ma prima della mondatura nonmolto di più, e dopo la mondatura (come «grano») meno che lametà. Non già per isbaglio, come è stato asserito; ma poichè è op-portuno di muovere, in calcoli di questa specie, da premesse tra-dizionali e concrete, noi abbiamo stabilito il calcolo già primadetto, relativamente al frumento; questo calcolo era giusto, perchètrasportato alla spelta, non se ne distacca essenzialmente, e il ri-sultato piuttosto che diminuire sale. La spelta è più soddisfacente,relativamente al terreno e al clima, ed esposta a minori pericolidel frumento; ma quest'ultimo offre nell'insieme, anche senza cal-colare le non trascurabili spese di mondatura, un introito netto su-periore (dopo cinquant'anni calcolati in media); il frumento maltonella regione di Francoforte, in Rheinbayern si mette a undici fio-rini e tre soldi; e la spelta malto a quattro fiorini e trenta soldi; ecome nella Germania meridionale, dove il terreno lo consente, lacoltivazione del frumento viene preferita, e d'altronde, nella pro-gressiva coltura, questo tenta respingere la coltivazione della

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Non si può dire con precisione se la viticoltura venis-se introdotta nella penisola sin da quando vi giunsero gliItalici, o se invece sia stata introdotta in tempi remotidai coloni greci. A provare che questa coltivazione esi-stesse anche prima dei tempi greci si può ricordare, cheil primo e più antico sacerdote di Roma, il flamine diGiove, era quello che dava il permesso e l'esempio dellavendemmia, e che la festa del vino, cioè la solennitàdell'apertura delle botti, la quale in processo di tempo fufissata al 23 aprile, era dedicata al padre Giove, al padreliberatore e non già al più recente dio del vino, tolto inprestito dai Greci91. Nell'antichissima leggenda, la qualenarra che il re Mesenzio di Cere impose ai Latini ed aiRutuli un tributo di vino, e nell'altra tradizione moltosparsa e variamente concepita, la quale menziona comecausa principale, che indusse i Celti a passar l'Alpi, la

spelta, così anche l'uguale passaggio dell'economia rurale italicadalla coltivazione della spelta al frumento ha rappresentato unprogresso.

91 [Veramente il testo pone disgiuntamente il padre Gìove e ilpadre liberatore, ma come appunto Liber soprannominavasi ilBacco italico, che i Sabini chiamavano anche Lebasius (SERVIUS,ad Virg. Georg., 17); e che questo nome di Liber, a cui rispondeanche la Dea Libera, e il vocabolo italico libare, non potrebbe ap-plicarsi al Bacco Dioniso dei Greci, così abbiamo creduto di in-terpretare rettamente il testo, riavvicinando due espressioni tra lequali forse per l'indole della lingua tedesca, il Mommsen ha potu-to interporre un inciso. Ad ogni modo diamo qui il testo: demVater Iovis nicht dem iunaerem erst von den Griechen entlehntenWeingott, dem Vater Befreier gefeirrt wird].

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Non si può dire con precisione se la viticoltura venis-se introdotta nella penisola sin da quando vi giunsero gliItalici, o se invece sia stata introdotta in tempi remotidai coloni greci. A provare che questa coltivazione esi-stesse anche prima dei tempi greci si può ricordare, cheil primo e più antico sacerdote di Roma, il flamine diGiove, era quello che dava il permesso e l'esempio dellavendemmia, e che la festa del vino, cioè la solennitàdell'apertura delle botti, la quale in processo di tempo fufissata al 23 aprile, era dedicata al padre Giove, al padreliberatore e non già al più recente dio del vino, tolto inprestito dai Greci91. Nell'antichissima leggenda, la qualenarra che il re Mesenzio di Cere impose ai Latini ed aiRutuli un tributo di vino, e nell'altra tradizione moltosparsa e variamente concepita, la quale menziona comecausa principale, che indusse i Celti a passar l'Alpi, la

spelta, così anche l'uguale passaggio dell'economia rurale italicadalla coltivazione della spelta al frumento ha rappresentato unprogresso.

91 [Veramente il testo pone disgiuntamente il padre Gìove e ilpadre liberatore, ma come appunto Liber soprannominavasi ilBacco italico, che i Sabini chiamavano anche Lebasius (SERVIUS,ad Virg. Georg., 17); e che questo nome di Liber, a cui rispondeanche la Dea Libera, e il vocabolo italico libare, non potrebbe ap-plicarsi al Bacco Dioniso dei Greci, così abbiamo creduto di in-terpretare rettamente il testo, riavvicinando due espressioni tra lequali forse per l'indole della lingua tedesca, il Mommsen ha potu-to interporre un inciso. Ad ogni modo diamo qui il testo: demVater Iovis nicht dem iunaerem erst von den Griechen entlehntenWeingott, dem Vater Befreier gefeirrt wird].

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brama dei nobili frutti d'Italia e principalmente delle uvee del vino ch'essi agognavano di conoscere, si vedechiaro l'orgoglio dei Latini per le rigogliose loro vigne,invidia dei vicini. Di buon'ora e universalmente promos-sero i sacerdoti latini le sollecite loro cure per la coltiva-zione della vite. A quel modo che in Roma, come si dis-se, l'inizio della vendemmia doveva esser dato dal sacer-dote di Giove, così il diritto sacro tuscolano vietava lavendita del vino nuovo prima che il sacerdote avesseproclamato la festa dell'apertura delle botti. E qui ricor-deremo che non era solamente il rito, che introducevageneralmente nella celebrazione dei sacrifici la distribu-zione del vino, ma anche la prescrizione dei sacerdotiromani, promulgata come legge dal re Numa, che per lalibazione degli dei non si potesse versare il vino raccol-to da viti i cui tralci non fossero stati potati; allo stessomodo, che per introdurre il necessario disseccamentodel grano, sacerdoti proibirono l'offerta di grano nonsecco.

4 Olivo. L'olivo è di un'epoca più recente92. Si pre-tende che l'olivo si piantasse per la prima volta verso lafine del secondo secolo della città di Roma sulle costeoccidentali del mar Mediterraneo, e ciò si accorda colfatto che il ramo d'olivo e l'uliva hanno nel rituale diRoma una parte assai meno importante che non il succodella vite. In qual conto però il romano tenesse queste

92 Oleum, oliva sono derivati da ἔλαιον, ἔλαια; amurca (fecciadell'olio) da ἀµόργη.

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brama dei nobili frutti d'Italia e principalmente delle uvee del vino ch'essi agognavano di conoscere, si vedechiaro l'orgoglio dei Latini per le rigogliose loro vigne,invidia dei vicini. Di buon'ora e universalmente promos-sero i sacerdoti latini le sollecite loro cure per la coltiva-zione della vite. A quel modo che in Roma, come si dis-se, l'inizio della vendemmia doveva esser dato dal sacer-dote di Giove, così il diritto sacro tuscolano vietava lavendita del vino nuovo prima che il sacerdote avesseproclamato la festa dell'apertura delle botti. E qui ricor-deremo che non era solamente il rito, che introducevageneralmente nella celebrazione dei sacrifici la distribu-zione del vino, ma anche la prescrizione dei sacerdotiromani, promulgata come legge dal re Numa, che per lalibazione degli dei non si potesse versare il vino raccol-to da viti i cui tralci non fossero stati potati; allo stessomodo, che per introdurre il necessario disseccamentodel grano, sacerdoti proibirono l'offerta di grano nonsecco.

4 Olivo. L'olivo è di un'epoca più recente92. Si pre-tende che l'olivo si piantasse per la prima volta verso lafine del secondo secolo della città di Roma sulle costeoccidentali del mar Mediterraneo, e ciò si accorda colfatto che il ramo d'olivo e l'uliva hanno nel rituale diRoma una parte assai meno importante che non il succodella vite. In qual conto però il romano tenesse queste

92 Oleum, oliva sono derivati da ἔλαιον, ἔλαια; amurca (fecciadell'olio) da ἀµόργη.

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due nobili piante lo prova la piantagione dell'una edell'altra nel foro della città, non lungi dallo stagno diCurzio. Il primo degli alberi fruttiferi ad essere piantatofu il sostanzioso fico93 probabilmente indigeno d'Italia.La leggenda delle origini di Roma si è valsa dei vetustifichi che in grande abbondanza vegetavano sul Palatinoe nel foro romano, per tessere i suoi più ricchi orditi;anzi lo schiantamento dell'antichissimo fico dinanzi altempio di Saturno nell'anno 260 della città, è uno deiprimi avvenimenti in Roma che si possano cronologica-mente provare.

5 Economia rurale. Il contadino e i suoi figli guida-vano l'aratro e in generale accudivano a tutti i lavoricampestri. Non è verosimile che nei comuni fondi rusti-ci si adoperassero d'ordinario schiavi ovvero liberi brac-cianti pagati a giornata. All'aratro si attaccava il toro, eanche la vacca; per someggiare servivano cavalli, asini emuli. Non esisteva una vera economia pastorizia peraverne carni o latte, o almeno non esisteva nei fondi cheerano assegnati in proprietà alla famiglia, o se pur trova-va luogo non doveva però passare le più limitate propor-zioni; ma oltre il bestiame minuto, che si conduceva alpascolo comunale, si tenevano poi nel cascinale maiali epollame, particolarmente oche.

93 Ma la tradizione non dice che quello piantato innanzi altempio di Saturno sia stato abbattuto nell'anno 260 (PLIN., 15, 18,77); la cifra CCLX manca in tutti i buoni manoscritti e vi fu certoinserita in relazione a ciò che dice Livio, 2, 21.

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due nobili piante lo prova la piantagione dell'una edell'altra nel foro della città, non lungi dallo stagno diCurzio. Il primo degli alberi fruttiferi ad essere piantatofu il sostanzioso fico93 probabilmente indigeno d'Italia.La leggenda delle origini di Roma si è valsa dei vetustifichi che in grande abbondanza vegetavano sul Palatinoe nel foro romano, per tessere i suoi più ricchi orditi;anzi lo schiantamento dell'antichissimo fico dinanzi altempio di Saturno nell'anno 260 della città, è uno deiprimi avvenimenti in Roma che si possano cronologica-mente provare.

5 Economia rurale. Il contadino e i suoi figli guida-vano l'aratro e in generale accudivano a tutti i lavoricampestri. Non è verosimile che nei comuni fondi rusti-ci si adoperassero d'ordinario schiavi ovvero liberi brac-cianti pagati a giornata. All'aratro si attaccava il toro, eanche la vacca; per someggiare servivano cavalli, asini emuli. Non esisteva una vera economia pastorizia peraverne carni o latte, o almeno non esisteva nei fondi cheerano assegnati in proprietà alla famiglia, o se pur trova-va luogo non doveva però passare le più limitate propor-zioni; ma oltre il bestiame minuto, che si conduceva alpascolo comunale, si tenevano poi nel cascinale maiali epollame, particolarmente oche.

93 Ma la tradizione non dice che quello piantato innanzi altempio di Saturno sia stato abbattuto nell'anno 260 (PLIN., 15, 18,77); la cifra CCLX manca in tutti i buoni manoscritti e vi fu certoinserita in relazione a ciò che dice Livio, 2, 21.

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In generale erano instancabili nell'aratura che si ripe-teva più volte, e si considerava mal lavorato quel cam-po, su cui i solchi non fossero fitti in modo da renderesuperfluo l'erpice. Ma in questa solerzia vi era più labo-riosità che intelligenza, e il difettoso aratro, l'imperfettomodo di mietitura e di trebbiatura non fecero un passoverso il miglioramento, più per l'ostinazione dei contadi-ni di tenersi fermi agli usi antichi, che per gli scarsi pro-gressi della meccanica razionale; perchè all'italico, nonfaceva difetto quell'affettuosa devozione per le pratichetradizionali del lavoro pervenutegli insieme colla zollaavita, e pieno di spirito pratico non deve aver tardato adimitare dai popoli vicini, o a immaginare egli stesso, al-cuni evidenti miglioramenti nell'economia rurale, comead esempio la coltivazione degli erbaggi da pastura e ilsistema irriguo delle praterie; anzi la stessa letteraturaromana cominciò col trattare teoricamente l'agricoltura.

All'intelligente ed assiduo lavoro seguiva un dolce ri-poso, e qui pure la religione fece valere i suoi dirittitemperando le fatiche della vita anche per l'infimo deimortali con pause, ond'egli potesse rifar le forze e gode-re d'un più libero movimento. Ogni ottavo giorno (no-nae) s'apre il mercato settimanale (nundinae) e il conta-dino si reca in città per vendere, comperare e per altresue bisogne. Ma non trova compiuto riposo dal lavorose non nei veri giorni festivi e particolarmente nel mesedelle ferie, dopo finita la seminagione invernale (feriaeseminativae). Per comando degli dei, durante quest'epo-ca l'aratro si riposava, e non solo il contadino ma anche

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In generale erano instancabili nell'aratura che si ripe-teva più volte, e si considerava mal lavorato quel cam-po, su cui i solchi non fossero fitti in modo da renderesuperfluo l'erpice. Ma in questa solerzia vi era più labo-riosità che intelligenza, e il difettoso aratro, l'imperfettomodo di mietitura e di trebbiatura non fecero un passoverso il miglioramento, più per l'ostinazione dei contadi-ni di tenersi fermi agli usi antichi, che per gli scarsi pro-gressi della meccanica razionale; perchè all'italico, nonfaceva difetto quell'affettuosa devozione per le pratichetradizionali del lavoro pervenutegli insieme colla zollaavita, e pieno di spirito pratico non deve aver tardato adimitare dai popoli vicini, o a immaginare egli stesso, al-cuni evidenti miglioramenti nell'economia rurale, comead esempio la coltivazione degli erbaggi da pastura e ilsistema irriguo delle praterie; anzi la stessa letteraturaromana cominciò col trattare teoricamente l'agricoltura.

All'intelligente ed assiduo lavoro seguiva un dolce ri-poso, e qui pure la religione fece valere i suoi dirittitemperando le fatiche della vita anche per l'infimo deimortali con pause, ond'egli potesse rifar le forze e gode-re d'un più libero movimento. Ogni ottavo giorno (no-nae) s'apre il mercato settimanale (nundinae) e il conta-dino si reca in città per vendere, comperare e per altresue bisogne. Ma non trova compiuto riposo dal lavorose non nei veri giorni festivi e particolarmente nel mesedelle ferie, dopo finita la seminagione invernale (feriaeseminativae). Per comando degli dei, durante quest'epo-ca l'aratro si riposava, e non solo il contadino ma anche

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il servo ed il toro godevano dei dolci ozi festivi. In talmodo fu governato negli antichissimi tempi il podere ru-rale romano.

Gli eredi non avevano altri mezzi per garantirsi con-tro una cattiva amministrazione se non il diritto di farporre sotto tutela, come un mentecatto, lo sventato dila-pidatore dell'avita sostanza. Alle donne era inoltre toltoessenzialmente il diritto di disporre dei loro beni, e se simaritavano, affinchè il patrimonio si mantenesse unitonel casato, la legge si sforzava d'impedire che i beni sta-bili fossero sopraccaricati di debiti, e ordinava, ove sitrattasse d'un debito ipotecario, il pronto passaggio dellaproprietà dello stabile ipotecato dal debitore al credito-re; o in caso di semplici prestiti provvedeva colla severae pronta procedura esecutiva; ma questo ultimo mezzo,come vedremo, non raggiungeva che imperfettissima-mente lo scopo.

La libera divisibilità della proprietà rimase legalmen-te illimitata. Per quanto fosse desiderabile che i coeredidurassero proprietari della sostanza avita indivisa, l'anti-co diritto provvedeva a mantenere in ogni tempo apertoad ogni interessato il legale scioglimento della comu-nanza. Ottima cosa se i fratelli coabitano insieme pacifi-camente, ma costringerveli è cosa estranea allo spiritoliberale del diritto romano.

La costituzione serviana insegna, che fino dai tempidei re a Roma non si mancava di braccianti nè di pro-prietari di orti, i quali invece dell'aratro si servivano del-la vanga.

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il servo ed il toro godevano dei dolci ozi festivi. In talmodo fu governato negli antichissimi tempi il podere ru-rale romano.

Gli eredi non avevano altri mezzi per garantirsi con-tro una cattiva amministrazione se non il diritto di farporre sotto tutela, come un mentecatto, lo sventato dila-pidatore dell'avita sostanza. Alle donne era inoltre toltoessenzialmente il diritto di disporre dei loro beni, e se simaritavano, affinchè il patrimonio si mantenesse unitonel casato, la legge si sforzava d'impedire che i beni sta-bili fossero sopraccaricati di debiti, e ordinava, ove sitrattasse d'un debito ipotecario, il pronto passaggio dellaproprietà dello stabile ipotecato dal debitore al credito-re; o in caso di semplici prestiti provvedeva colla severae pronta procedura esecutiva; ma questo ultimo mezzo,come vedremo, non raggiungeva che imperfettissima-mente lo scopo.

La libera divisibilità della proprietà rimase legalmen-te illimitata. Per quanto fosse desiderabile che i coeredidurassero proprietari della sostanza avita indivisa, l'anti-co diritto provvedeva a mantenere in ogni tempo apertoad ogni interessato il legale scioglimento della comu-nanza. Ottima cosa se i fratelli coabitano insieme pacifi-camente, ma costringerveli è cosa estranea allo spiritoliberale del diritto romano.

La costituzione serviana insegna, che fino dai tempidei re a Roma non si mancava di braccianti nè di pro-prietari di orti, i quali invece dell'aratro si servivano del-la vanga.

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Ad impedire il soverchio sminuzzamento del suolonon si cercò altro rimedio fuorchè la consuetudine e ilbuon senso della popolazione; sul quale non si fece in-vano assegnamento, poichè il costume generale romanod'indicare i poderi con nomi individuali permanenti,prova che essi sono per lo più rimasti uniti. La repubbli-ca non pigliava in ciò alcuna diretta ingerenza legislati-va, ma fondava colonie, e con questo mezzo dava origi-ne alla instituzione di nuovi numerosi stabilimenti rura-li, e trasformava in proprietari moltissimi braccianti.

6 Proprietari di fondi. È di gran lunga più difficilericonoscere le condizioni dei maggiori latifondi. La po-sizione accordata ai cavalieri dalla costituzione servianaprova, senza alcun dubbio, che tali tenute sussistevanoin ragguardevole estensione, e lo si chiarisce poi anchefacilmente sia dalla divisione del territorio delle fami-glie – la quale, considerata la necessaria disparità nume-rica delle teste dei partecipanti nelle singole famiglie,doveva necessariamente dar vita ad uno stato di possi-denti maggiori – sia per la quantità di capitali mercantiliche affluivano a Roma. Ma una vera grande economiarurale con un ragguardevole numero di schiavi, comenoi la troviamo più tardi a Roma, non può essere esistitain quel tempo; anzi è il caso di attribuire a quel tempo ladefinizione antica, per cui i senatori furono detti padri,dai campi che essi, come fa il padre ai figli, distribuiva-no a povera gente; e il possidente avrà originariamentedistribuito la parte del suo podere che egli non poteva

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Ad impedire il soverchio sminuzzamento del suolonon si cercò altro rimedio fuorchè la consuetudine e ilbuon senso della popolazione; sul quale non si fece in-vano assegnamento, poichè il costume generale romanod'indicare i poderi con nomi individuali permanenti,prova che essi sono per lo più rimasti uniti. La repubbli-ca non pigliava in ciò alcuna diretta ingerenza legislati-va, ma fondava colonie, e con questo mezzo dava origi-ne alla instituzione di nuovi numerosi stabilimenti rura-li, e trasformava in proprietari moltissimi braccianti.

6 Proprietari di fondi. È di gran lunga più difficilericonoscere le condizioni dei maggiori latifondi. La po-sizione accordata ai cavalieri dalla costituzione servianaprova, senza alcun dubbio, che tali tenute sussistevanoin ragguardevole estensione, e lo si chiarisce poi anchefacilmente sia dalla divisione del territorio delle fami-glie – la quale, considerata la necessaria disparità nume-rica delle teste dei partecipanti nelle singole famiglie,doveva necessariamente dar vita ad uno stato di possi-denti maggiori – sia per la quantità di capitali mercantiliche affluivano a Roma. Ma una vera grande economiarurale con un ragguardevole numero di schiavi, comenoi la troviamo più tardi a Roma, non può essere esistitain quel tempo; anzi è il caso di attribuire a quel tempo ladefinizione antica, per cui i senatori furono detti padri,dai campi che essi, come fa il padre ai figli, distribuiva-no a povera gente; e il possidente avrà originariamentedistribuito la parte del suo podere che egli non poteva

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lavorare, o anche tutto il podere diviso in piccole por-zioni94 tra i suoi dipendenti per essere coltivate, come sipratica generalmente ancora oggi in Italia. Un poderepoteva essere assegnato o ad un figlio di casa, o ad unoschiavo di colui che faceva l'assegnazione; se era unuomo libero egli teneva il podere con quella condizioneche noi conosceremo più tardi sotto il nome di «posses-so ottenuto con preghiera» (precarium). Chi aveva aquesto modo accettato il podere ne rimaneva in possessosino a che fosse piaciuto al prestatore e non aveva alcunmezzo contro di lui per assicurarsi il continuo godimen-to del podere; dal quale lo poteva scacciare a piacimen-to. In simili concessioni non era necessario che l'utentedel fondo ricambiasse con alcuna prestazione i proprie-tario, ma pure si deve ritenere che nella maggior partedei casi tale prestazione si convenisse; la quale d'ordina-rio avrà consistito nella cessione di una data porzionedei prodotti; e in questa combinazione il precario si ap-prossima alle condizioni del posteriore affitto, benchèrimanga sempre sostanzialmente diverso dall'affitto, siaper la mancanza d'un termine fisso, sia per la mancanzadella possibilità di muover liti reciprocamente, stantel'assoluta facoltà che la legge consente al proprietario dipoter, quando che sia, scacciar l'utente. Questo era evi-dentemente un contratto che fondavasi sulla reciprocafede, e non poteva sussistere senza il concorso di unapotente e religiosa consacrazione; e questa consacrazio-

94 [Il Mommsen scrive Parzellen, dalla lingua tedesca del ca-tasto, che adottò questo francesismo].

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lavorare, o anche tutto il podere diviso in piccole por-zioni94 tra i suoi dipendenti per essere coltivate, come sipratica generalmente ancora oggi in Italia. Un poderepoteva essere assegnato o ad un figlio di casa, o ad unoschiavo di colui che faceva l'assegnazione; se era unuomo libero egli teneva il podere con quella condizioneche noi conosceremo più tardi sotto il nome di «posses-so ottenuto con preghiera» (precarium). Chi aveva aquesto modo accettato il podere ne rimaneva in possessosino a che fosse piaciuto al prestatore e non aveva alcunmezzo contro di lui per assicurarsi il continuo godimen-to del podere; dal quale lo poteva scacciare a piacimen-to. In simili concessioni non era necessario che l'utentedel fondo ricambiasse con alcuna prestazione i proprie-tario, ma pure si deve ritenere che nella maggior partedei casi tale prestazione si convenisse; la quale d'ordina-rio avrà consistito nella cessione di una data porzionedei prodotti; e in questa combinazione il precario si ap-prossima alle condizioni del posteriore affitto, benchèrimanga sempre sostanzialmente diverso dall'affitto, siaper la mancanza d'un termine fisso, sia per la mancanzadella possibilità di muover liti reciprocamente, stantel'assoluta facoltà che la legge consente al proprietario dipoter, quando che sia, scacciar l'utente. Questo era evi-dentemente un contratto che fondavasi sulla reciprocafede, e non poteva sussistere senza il concorso di unapotente e religiosa consacrazione; e questa consacrazio-

94 [Il Mommsen scrive Parzellen, dalla lingua tedesca del ca-tasto, che adottò questo francesismo].

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ne non mancava. L'istituzione assolutamente morale ereligiosa della clientela si fondava in ultima analisi, sen-za dubbio, sopra questa assegnazione di usufrutti. Lequali non divennero già possibili solo dopo la soppres-sione della proprietà collettiva del suolo, poichè primache fosse eseguita la spartizione dei campi, il privatopoteva concederne l'uso ai suoi dipendenti e durante ilperiodo della «comunanza campestre» questo dirittospettava alla stirpe, per cui la clientela romana non siconsiderava come personale, e fin dal principio il clientecon tutta la sua famiglia si raccomandava al patrono edalla sua famiglia per protezione e fedeltà. Da questa an-tichissima forma della proprietà rurale, deriva il fatto,per cui dalle grandi possidenze rurali nascesse in Romauna nobiltà campagnuola, ma non già una nobiltà citta-dina.

Siccome i Romani non conoscevano la rovinosa isti-tuzione del ceto intermedio, il proprietario romano eralegato ai suoi campi poco meno del fittavolo e dell'agri-coltore. Egli stesso curava ogni cosa e il più ricco roma-no riteneva quale massima delle lodi l'esser tenuto peresperto nel governare i propri beni. La sua vera casa erain mezzo ai campi; in città non aveva che un alloggioper accudire ai propri affari e forse per respirar l'ariapura durante la stagione estiva. Prima e fausta conse-guenza di queste disposizioni fu, che i rapporti tra imaggiorenti e il popolo minuto si stabilirono su di unfondamento morale, e così venne essenzialmente a sce-mare il pericolo della sproporzione tra le classi. I liberi

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ne non mancava. L'istituzione assolutamente morale ereligiosa della clientela si fondava in ultima analisi, sen-za dubbio, sopra questa assegnazione di usufrutti. Lequali non divennero già possibili solo dopo la soppres-sione della proprietà collettiva del suolo, poichè primache fosse eseguita la spartizione dei campi, il privatopoteva concederne l'uso ai suoi dipendenti e durante ilperiodo della «comunanza campestre» questo dirittospettava alla stirpe, per cui la clientela romana non siconsiderava come personale, e fin dal principio il clientecon tutta la sua famiglia si raccomandava al patrono edalla sua famiglia per protezione e fedeltà. Da questa an-tichissima forma della proprietà rurale, deriva il fatto,per cui dalle grandi possidenze rurali nascesse in Romauna nobiltà campagnuola, ma non già una nobiltà citta-dina.

Siccome i Romani non conoscevano la rovinosa isti-tuzione del ceto intermedio, il proprietario romano eralegato ai suoi campi poco meno del fittavolo e dell'agri-coltore. Egli stesso curava ogni cosa e il più ricco roma-no riteneva quale massima delle lodi l'esser tenuto peresperto nel governare i propri beni. La sua vera casa erain mezzo ai campi; in città non aveva che un alloggioper accudire ai propri affari e forse per respirar l'ariapura durante la stagione estiva. Prima e fausta conse-guenza di queste disposizioni fu, che i rapporti tra imaggiorenti e il popolo minuto si stabilirono su di unfondamento morale, e così venne essenzialmente a sce-mare il pericolo della sproporzione tra le classi. I liberi

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agricoltori che avevano avuto il fondo con preghiera(precarium), venuti o da famiglie contadine decadute, oda clienti o da liberti, costituivano la maggior parte delproletariato e non erano gran fatto più dipendenti dalproprietario del fondo, di quel che fosse, per forza dicose, il piccolo e temporaneo fittavolo dal grande possi-dente. I servi, che coltivavano la terra del padrone, era-no senza dubbio meno numerosi che i liberi fittavoli.Pare che gli schiavi fossero da principio in numero assailimitato in tutti quei paesi nei quali non era sopravvenu-to un popolo emigrante che avesse ridotta in ischiavitùl'intera popolazione primitiva; e perciò i liberi lavorato-ri, presso queste antiche genti, erano in tutt'altra condi-zione di quella, nella quale noi li troviamo più tardi. An-che in Grecia vediamo nei tempi antichi i mercenari(δῆτες) in molti casi, invece degli schiavi che venneropoi; anzi in parecchi stati, come ad esempio presso i Lo-cresi, non si riscontra la schiavitù se non dopo il princi-pio dei tempi storici. V'è di più: il servo, ordinariamen-te, era di origine italica; il prigioniero di guerra volsco,sabino, etrusco si presentava al suo signore ben diversa-mente di quel che in tempi posteriori il Siro e il Celto.Egli aveva inoltre, come proprietario di qualche porzio-ne di fondo, non di diritto ma di fatto, terre, bestiame,mogli e figli come il possidente, e dacchè fu introdottal'emancipazione egli non vedeva lontana la possibilità diriscattarsi.

Se tale era la condizione delle grandi possessioni fon-diarie del più antico tempo, convien dire ch'esse non

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agricoltori che avevano avuto il fondo con preghiera(precarium), venuti o da famiglie contadine decadute, oda clienti o da liberti, costituivano la maggior parte delproletariato e non erano gran fatto più dipendenti dalproprietario del fondo, di quel che fosse, per forza dicose, il piccolo e temporaneo fittavolo dal grande possi-dente. I servi, che coltivavano la terra del padrone, era-no senza dubbio meno numerosi che i liberi fittavoli.Pare che gli schiavi fossero da principio in numero assailimitato in tutti quei paesi nei quali non era sopravvenu-to un popolo emigrante che avesse ridotta in ischiavitùl'intera popolazione primitiva; e perciò i liberi lavorato-ri, presso queste antiche genti, erano in tutt'altra condi-zione di quella, nella quale noi li troviamo più tardi. An-che in Grecia vediamo nei tempi antichi i mercenari(δῆτες) in molti casi, invece degli schiavi che venneropoi; anzi in parecchi stati, come ad esempio presso i Lo-cresi, non si riscontra la schiavitù se non dopo il princi-pio dei tempi storici. V'è di più: il servo, ordinariamen-te, era di origine italica; il prigioniero di guerra volsco,sabino, etrusco si presentava al suo signore ben diversa-mente di quel che in tempi posteriori il Siro e il Celto.Egli aveva inoltre, come proprietario di qualche porzio-ne di fondo, non di diritto ma di fatto, terre, bestiame,mogli e figli come il possidente, e dacchè fu introdottal'emancipazione egli non vedeva lontana la possibilità diriscattarsi.

Se tale era la condizione delle grandi possessioni fon-diarie del più antico tempo, convien dire ch'esse non

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erano in nessun modo una piaga aperta della repubblica,ma che, al contrario le riuscirono di notevole vantaggio.I latifondi così governati non solo procuravano a moltefamiglie un'esistenza, benchè, in generale, meno agiatadi quella che una famiglia d'agricoltori poteva condurresu di un medio o su di piccolo podere proprio; ma inol-tre addestravano i possidenti, posti, rispetto alla moltitu-dine, in alta e libera condizione, a diventare i naturalicapi e reggitori della repubblica e preparavano nei fitta-voli per precario e negli agricoltori mercenari il veromateriale con cui Roma potesse fondare le sue colonie,giacchè la politica romana di condurre colonie non sa-rebbe riuscita mai senza questa classe laboriosa: poten-do ben lo stato dar terre a chi ne manca, ma non infon-dere a chi non è agricoltore coraggio e forza di guidarl'aratro ed affondare il vomere nel terreno.

7 Pastorizia. I pascoli non furono colpiti dalla divi-sione territoriale. È lo stato e non il consorzio delle fa-miglie che è considerato quale proprietario del pascolocomunale, e che ne profitta, sia per le proprie greggi,cresciute in gran numero in conseguenza delle multe inbestiame e destinate ai sacrifici e ad altro, sia per farneconcessione ai proprietari di bestiame che vi conduceva-no a pascolare le proprie greggi con un modico tributo(scriptura). Il diritto di condurre il gregge sul pascolocomunale sarà stato in origine effettivamente in una cer-ta proporzione col possesso di fondi; ma una connessio-ne legale del possesso di ciascun predio con un preciso

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erano in nessun modo una piaga aperta della repubblica,ma che, al contrario le riuscirono di notevole vantaggio.I latifondi così governati non solo procuravano a moltefamiglie un'esistenza, benchè, in generale, meno agiatadi quella che una famiglia d'agricoltori poteva condurresu di un medio o su di piccolo podere proprio; ma inol-tre addestravano i possidenti, posti, rispetto alla moltitu-dine, in alta e libera condizione, a diventare i naturalicapi e reggitori della repubblica e preparavano nei fitta-voli per precario e negli agricoltori mercenari il veromateriale con cui Roma potesse fondare le sue colonie,giacchè la politica romana di condurre colonie non sa-rebbe riuscita mai senza questa classe laboriosa: poten-do ben lo stato dar terre a chi ne manca, ma non infon-dere a chi non è agricoltore coraggio e forza di guidarl'aratro ed affondare il vomere nel terreno.

7 Pastorizia. I pascoli non furono colpiti dalla divi-sione territoriale. È lo stato e non il consorzio delle fa-miglie che è considerato quale proprietario del pascolocomunale, e che ne profitta, sia per le proprie greggi,cresciute in gran numero in conseguenza delle multe inbestiame e destinate ai sacrifici e ad altro, sia per farneconcessione ai proprietari di bestiame che vi conduceva-no a pascolare le proprie greggi con un modico tributo(scriptura). Il diritto di condurre il gregge sul pascolocomunale sarà stato in origine effettivamente in una cer-ta proporzione col possesso di fondi; ma una connessio-ne legale del possesso di ciascun predio con un preciso

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usufrutto parziale del pascolo comunale non può averluogo in Roma; e basterebbe a provarcelo, il fatto che laproprietà poteva essere acquistata anche dai semplicidomiciliati con beni stabili, mentre il diritto d'uso rima-se invece sempre un privilegio del cittadino, concessosolo, per grazia regia e in via d'eccezione, al possidentedomiciliato che non fosse cittadino. Ma pare che inquell'epoca i beni comunali non avessero che una partesecondaria nell'economia nazionale, se si considera cheil pascolo originario non era di grande estensione e cheil paese conquistato era per lo più immediatamente divi-so tra le famiglie, o più tardi, come terreno aratorio, tra isingoli coloni.

8 Mestieri. Che a Roma l'agricoltura fosse la princi-pale e la più estesa industria, ma che accanto ad essanon vi fosse penuria d'altre fonti di lavoro e di produzio-ne, ci è dimostrato dal rapido svolgimento della vita cit-tadina in questo emporio dei Latini; e difatti si annove-rano fra le istituzioni del re Numa, vale a dire fra le isti-tuzioni che esistevano in Roma fin da lontanissimi tem-pi, otto corporazioni di mestieri: i suonatori di flauto, gliorefici, i calderai, i legnaiuoli, i folloni (fullones), i tin-tori, i pentolai, i calzolai – con che, pei tempi remotissi-mi, quando ancora si ignorava il modo di cuocere ilpane, nè l'arte medica era una professione speciale,quando le donne di casa filavano esse stesse la lana peivestiti, viene a compiersi la sfera delle industrie che siesercitavano per conto altrui. È assai strano che non si

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usufrutto parziale del pascolo comunale non può averluogo in Roma; e basterebbe a provarcelo, il fatto che laproprietà poteva essere acquistata anche dai semplicidomiciliati con beni stabili, mentre il diritto d'uso rima-se invece sempre un privilegio del cittadino, concessosolo, per grazia regia e in via d'eccezione, al possidentedomiciliato che non fosse cittadino. Ma pare che inquell'epoca i beni comunali non avessero che una partesecondaria nell'economia nazionale, se si considera cheil pascolo originario non era di grande estensione e cheil paese conquistato era per lo più immediatamente divi-so tra le famiglie, o più tardi, come terreno aratorio, tra isingoli coloni.

8 Mestieri. Che a Roma l'agricoltura fosse la princi-pale e la più estesa industria, ma che accanto ad essanon vi fosse penuria d'altre fonti di lavoro e di produzio-ne, ci è dimostrato dal rapido svolgimento della vita cit-tadina in questo emporio dei Latini; e difatti si annove-rano fra le istituzioni del re Numa, vale a dire fra le isti-tuzioni che esistevano in Roma fin da lontanissimi tem-pi, otto corporazioni di mestieri: i suonatori di flauto, gliorefici, i calderai, i legnaiuoli, i folloni (fullones), i tin-tori, i pentolai, i calzolai – con che, pei tempi remotissi-mi, quando ancora si ignorava il modo di cuocere ilpane, nè l'arte medica era una professione speciale,quando le donne di casa filavano esse stesse la lana peivestiti, viene a compiersi la sfera delle industrie che siesercitavano per conto altrui. È assai strano che non si

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trovi alcuna corporazione di fabbri. Questo ci confermadi nuovo nell'opinione che nel Lazio si cominciasse re-lativamente tardi a lavorare il ferro, per cui nel ritualepel sacro aratro e per il coltello sacerdotale fu mantenu-to, fino a tempi più recenti, l'uso esclusivo del rame.

Per quell'epoca, queste industrie devono esser state digrandissima importanza per la vita civile di Roma ri-spetto ai paesi latini; importanza che è impossibile valu-tare dalle successive condizioni del lavoro manuale, sof-focate dalla concorrenza dei moltissimi schiavi-operai,che lavoravano per il padrone o per proprio conto, e dal-la crescente importazione di merci di lusso.

Le antiche canzoni di Roma non cantavano solo il po-tente dio delle battaglie Mamers, ma anche l'insigne ar-tefice delle armi Mamurio, il quale aveva saputo fabbri-care pe' suoi concittadini scudi simili al divino modellocaduto dal cielo; il dio del fuoco, Vulcano, appare giànell'antichissimo calendario romano; dunque anche nel-la più antica Roma, come dappertutto, l'arte di fabbrica-re e di maneggiare l'aratro e il brando è nata e cresciutanello stesso tempo: e non vi si trova la minima traccia diquell'orgoglioso disprezzo dei mestieri, che si riscontradi poi.

Dal tempo però in cui per la costituzione di Serviol'obbligo della milizia venne a gravare esclusivamentesui possidenti, gli artigiani non erano esclusi per leggedal diritto delle armi, ma lo erano di fatto in conseguen-za dell'instabile loro dimora, ad eccezione dei corpi or-ganizzati militarmente, composti di legnaiuoli, calderai

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trovi alcuna corporazione di fabbri. Questo ci confermadi nuovo nell'opinione che nel Lazio si cominciasse re-lativamente tardi a lavorare il ferro, per cui nel ritualepel sacro aratro e per il coltello sacerdotale fu mantenu-to, fino a tempi più recenti, l'uso esclusivo del rame.

Per quell'epoca, queste industrie devono esser state digrandissima importanza per la vita civile di Roma ri-spetto ai paesi latini; importanza che è impossibile valu-tare dalle successive condizioni del lavoro manuale, sof-focate dalla concorrenza dei moltissimi schiavi-operai,che lavoravano per il padrone o per proprio conto, e dal-la crescente importazione di merci di lusso.

Le antiche canzoni di Roma non cantavano solo il po-tente dio delle battaglie Mamers, ma anche l'insigne ar-tefice delle armi Mamurio, il quale aveva saputo fabbri-care pe' suoi concittadini scudi simili al divino modellocaduto dal cielo; il dio del fuoco, Vulcano, appare giànell'antichissimo calendario romano; dunque anche nel-la più antica Roma, come dappertutto, l'arte di fabbrica-re e di maneggiare l'aratro e il brando è nata e cresciutanello stesso tempo: e non vi si trova la minima traccia diquell'orgoglioso disprezzo dei mestieri, che si riscontradi poi.

Dal tempo però in cui per la costituzione di Serviol'obbligo della milizia venne a gravare esclusivamentesui possidenti, gli artigiani non erano esclusi per leggedal diritto delle armi, ma lo erano di fatto in conseguen-za dell'instabile loro dimora, ad eccezione dei corpi or-ganizzati militarmente, composti di legnaiuoli, calderai

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e di certe classi di suonatori, aggiunti all'esercito; e que-sta potrebbe essere stata l'origine di quel disprezzo natoin seguito e della successiva noncuranza politica che siebbe per le industrie manuali. L'organizzazione dellemaestranze aveva senza dubbio lo scopo medesimo del-le compagnie sacerdotali, alle quali rassomigliavanopersino nel nome: i periti si tenevano legati tra loro alloscopo di conservare più saldamente e più sicuramente latradizione. È verosimile, che si trovasse modo di esclu-dere gli inesperti, ma non vi sono tracce nè di tendenzeal monopolio, nè di misure protettrici contro la scadentemanifattura; è però da notarsi che su nessun'altra partedella vita popolare dei Romani ci mancano tanto le noti-zie quanto su quella dei mestieri.

9 Commercio interno degli italici. È naturale,che nelle epoche più antiche il commercio italico fosselimitato al traffico degli Italici fra loro. Le fiere romane(mercatus), che vanno distinte dai soliti mercati settima-nali (nundinae), sono antichissime. In origine esse aRoma non dovettero essere unite coi giuochi solenni,come fu praticato più tardi, ma fatte coincidere con lesolennità che si celebravano nel tempio della Concordiasul monte Aventino; i Latini, i quali a questo fine veni-vano a Roma ogni anno il 13 agosto, approfittavano diquesta opportunità per sbrigare i loro affari, e per fareacquisto di ciò che loro occorreva. Una simile, e forsemaggiore, importanza aveva per l'Etruria l'annuale con-vegno nazionale vicino al tempio di Voltumna (forse

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e di certe classi di suonatori, aggiunti all'esercito; e que-sta potrebbe essere stata l'origine di quel disprezzo natoin seguito e della successiva noncuranza politica che siebbe per le industrie manuali. L'organizzazione dellemaestranze aveva senza dubbio lo scopo medesimo del-le compagnie sacerdotali, alle quali rassomigliavanopersino nel nome: i periti si tenevano legati tra loro alloscopo di conservare più saldamente e più sicuramente latradizione. È verosimile, che si trovasse modo di esclu-dere gli inesperti, ma non vi sono tracce nè di tendenzeal monopolio, nè di misure protettrici contro la scadentemanifattura; è però da notarsi che su nessun'altra partedella vita popolare dei Romani ci mancano tanto le noti-zie quanto su quella dei mestieri.

9 Commercio interno degli italici. È naturale,che nelle epoche più antiche il commercio italico fosselimitato al traffico degli Italici fra loro. Le fiere romane(mercatus), che vanno distinte dai soliti mercati settima-nali (nundinae), sono antichissime. In origine esse aRoma non dovettero essere unite coi giuochi solenni,come fu praticato più tardi, ma fatte coincidere con lesolennità che si celebravano nel tempio della Concordiasul monte Aventino; i Latini, i quali a questo fine veni-vano a Roma ogni anno il 13 agosto, approfittavano diquesta opportunità per sbrigare i loro affari, e per fareacquisto di ciò che loro occorreva. Una simile, e forsemaggiore, importanza aveva per l'Etruria l'annuale con-vegno nazionale vicino al tempio di Voltumna (forse

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presso Montefiascone) nel territorio di Volsinio, duranteil quale bandivasi una fiera frequentata regolarmente an-che da mercanti romani.

Ma la più notevole di tutte le fiere italiche era quellache si teneva al Soratte, nella selvetta dedicata alla deaFerona, luogo tanto acconcio allo scambio delle mercitra le grandi nazioni, che difficilmente se ne sarebbe po-tuto trovare uno migliore. Quel monte, alto e isolato, po-sto come per provvidenza in mezzo alla pianura del Te-vere, quasi richiamo ai viandanti, trovasi sul confine tral'Etruria ed il paese dei Sabini, cui pare che abbia per lamaggior parte appartenuto95, e vi si giungeva con tuttafacilità anche dal Lazio e dall'Umbria; lo frequentavanoregolarmente i negozianti romani, le offese dei quali ca-gionavano non poche contese coi Sabini.

Senza dubbio in queste fiere si commerciava moltotempo innanzi che il primo naviglio greco o fenicioavesse solcato le acque del mare occidentale. Qui i paesisi aiutavano reciprocamente con i cereali negli anniscarsi; qui si scambiavano inoltre bestie, schiavi, metallie tutto ciò che in quei tempi remoti si desiderava, e dicui si abbisognava. La più antica merce, che si pigliavaper comun valore ad agevolare gli scambi erano i buoi ele pecore; si davano dieci pecore per un bue; tanto il va-lore fisso di questi oggetti, accettati come universale

95 Il Soratte, poi Monte di Sant'Oreste, è 26 miglia circa lungida Roma nella direzione di greco-tramontana, e quindi sul territo-rio che si suol assegnare all'Etruria. Aveva poco lungi Faleria anord, e vicinissima Capena a scirocco.

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presso Montefiascone) nel territorio di Volsinio, duranteil quale bandivasi una fiera frequentata regolarmente an-che da mercanti romani.

Ma la più notevole di tutte le fiere italiche era quellache si teneva al Soratte, nella selvetta dedicata alla deaFerona, luogo tanto acconcio allo scambio delle mercitra le grandi nazioni, che difficilmente se ne sarebbe po-tuto trovare uno migliore. Quel monte, alto e isolato, po-sto come per provvidenza in mezzo alla pianura del Te-vere, quasi richiamo ai viandanti, trovasi sul confine tral'Etruria ed il paese dei Sabini, cui pare che abbia per lamaggior parte appartenuto95, e vi si giungeva con tuttafacilità anche dal Lazio e dall'Umbria; lo frequentavanoregolarmente i negozianti romani, le offese dei quali ca-gionavano non poche contese coi Sabini.

Senza dubbio in queste fiere si commerciava moltotempo innanzi che il primo naviglio greco o fenicioavesse solcato le acque del mare occidentale. Qui i paesisi aiutavano reciprocamente con i cereali negli anniscarsi; qui si scambiavano inoltre bestie, schiavi, metallie tutto ciò che in quei tempi remoti si desiderava, e dicui si abbisognava. La più antica merce, che si pigliavaper comun valore ad agevolare gli scambi erano i buoi ele pecore; si davano dieci pecore per un bue; tanto il va-lore fisso di questi oggetti, accettati come universale

95 Il Soratte, poi Monte di Sant'Oreste, è 26 miglia circa lungida Roma nella direzione di greco-tramontana, e quindi sul territo-rio che si suol assegnare all'Etruria. Aveva poco lungi Faleria anord, e vicinissima Capena a scirocco.

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rappresentanza relativa, ossia come denaro, quanto laregola di proporzione tra il bestiame grosso ed il bestia-me minuto, risale, come lo prova la riproduzione di que-sti rapporti particolarmente presso i Tedeschi, non soloai tempi greco-italici, ma ancora più indietro, ai tempidella pastorizia96. In Italia, ove si abbisognava in gene-rale del metallo in gran copia, e particolarmente per lacoltivazione delle terre e per l'armamento, e dove pochipaesi soltanto producevano i metalli occorrenti, nasceassai presto un secondo mezzo di scambio, cioè il rame(aes); e i Latini, che per la scarsità che ne avevano, te-nevano il rame in gran pregio, chiamavano dal rame laestimazione, l'apprezzamento (aestimatio). In tale valu-tazione del rame, come equivalente universale ammessonegli scambi in tutta la penisola, e così pure nei semplicinumeri d'invenzione italica, nel sistema duodecimale, siriscontrano tracce di questo antichissimo commercio in-ternazionale dei popoli italici, prima che giungessero adintromettervisi gli stranieri.

96 Il valore proporzionale legale delle pecore e de' buoi risultònotoriamente dalla posteriore tariffa, quando le multe di bestiamefurono convertite in multe di denaro, e che la pecora fu valutatadieci, il bue cento assi (FESTUS, voce, Peculatus, p. 237, Cfr pag.24, 144, GELL., 11, 1, PLUTARCO, Poplicola, 11). Con questi rappor-ti riscontra il diritto irlandese, in cui dodici montoni equivalgonoa una vacca; colla differenza che in Irlanda come in Germania èsostituito il sistema duodecimale all'antico sistema decimale. Chel'indicazione del bestiame presso i Latini (pecunia) come presso iTedeschi (inglese fee) si convertisse in quella di denaro è cosa chesi sa.

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rappresentanza relativa, ossia come denaro, quanto laregola di proporzione tra il bestiame grosso ed il bestia-me minuto, risale, come lo prova la riproduzione di que-sti rapporti particolarmente presso i Tedeschi, non soloai tempi greco-italici, ma ancora più indietro, ai tempidella pastorizia96. In Italia, ove si abbisognava in gene-rale del metallo in gran copia, e particolarmente per lacoltivazione delle terre e per l'armamento, e dove pochipaesi soltanto producevano i metalli occorrenti, nasceassai presto un secondo mezzo di scambio, cioè il rame(aes); e i Latini, che per la scarsità che ne avevano, te-nevano il rame in gran pregio, chiamavano dal rame laestimazione, l'apprezzamento (aestimatio). In tale valu-tazione del rame, come equivalente universale ammessonegli scambi in tutta la penisola, e così pure nei semplicinumeri d'invenzione italica, nel sistema duodecimale, siriscontrano tracce di questo antichissimo commercio in-ternazionale dei popoli italici, prima che giungessero adintromettervisi gli stranieri.

96 Il valore proporzionale legale delle pecore e de' buoi risultònotoriamente dalla posteriore tariffa, quando le multe di bestiamefurono convertite in multe di denaro, e che la pecora fu valutatadieci, il bue cento assi (FESTUS, voce, Peculatus, p. 237, Cfr pag.24, 144, GELL., 11, 1, PLUTARCO, Poplicola, 11). Con questi rappor-ti riscontra il diritto irlandese, in cui dodici montoni equivalgonoa una vacca; colla differenza che in Irlanda come in Germania èsostituito il sistema duodecimale all'antico sistema decimale. Chel'indicazione del bestiame presso i Latini (pecunia) come presso iTedeschi (inglese fee) si convertisse in quella di denaro è cosa chesi sa.

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10 Commercio d'Italia oltremare. Abbiamo giàsommariamente indicato in qual modo il commerciod'oltre mare esercitasse il suo influsso sugli Italici rima-sti indipendenti. Ne rimasero quasi immuni le schiattesabelliche, le quali non occupavano se non breve ed ino-spitale lembo del littorale, e ciò che esse attinsero da na-zioni straniere, come ad esempio l'alfabeto, pervenneloro soltanto attraverso i Toschi ed i Latini, per cui adesse mancò lo sviluppo cittadino. Nè pare che le relazio-ni di Taranto coi Pugliesi e coi Messapi fossero inquell'epoca più importanti. Ben diversamente procede-vano le cose sulla costa occidentale, dove nella Campa-nia coabitavano pacificamente Greci ed Italici, gli uniaccanto agli altri, e dove nel Lazio, e più ancoranell'Etruria, si faceva un commercio esteso e regolare discambio. In che consistessero le prime merci d'importa-zione lo si può in parte dedurre dagli oggetti scavati ne-gli antichissimi sepolcreti di Cere, in parte dalle tracceconservate nella lingua e nelle istituzioni dei Romani, inparte ancora, anzi più sicuramente, dall'impulso che nericevette l'industria italica; perchè si dovettero continua-re per molto tempo a comperare le manifatture straniereprima che si cominciasse ad imitarle.

Certo non possiamo determinare il grado di sviluppoche i mestieri avevano raggiunto prima della separazio-ne delle razze e, successivamente, nell'epoca in cui l'Ita-lia fu abbandonata a se stessa; lasciamo da un canto laquestione, se i gualchieri, i tintori, i conciatori e i pento-lai abbiano ricevuto l'impulso dalla Grecia o dalla Feni-

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10 Commercio d'Italia oltremare. Abbiamo giàsommariamente indicato in qual modo il commerciod'oltre mare esercitasse il suo influsso sugli Italici rima-sti indipendenti. Ne rimasero quasi immuni le schiattesabelliche, le quali non occupavano se non breve ed ino-spitale lembo del littorale, e ciò che esse attinsero da na-zioni straniere, come ad esempio l'alfabeto, pervenneloro soltanto attraverso i Toschi ed i Latini, per cui adesse mancò lo sviluppo cittadino. Nè pare che le relazio-ni di Taranto coi Pugliesi e coi Messapi fossero inquell'epoca più importanti. Ben diversamente procede-vano le cose sulla costa occidentale, dove nella Campa-nia coabitavano pacificamente Greci ed Italici, gli uniaccanto agli altri, e dove nel Lazio, e più ancoranell'Etruria, si faceva un commercio esteso e regolare discambio. In che consistessero le prime merci d'importa-zione lo si può in parte dedurre dagli oggetti scavati ne-gli antichissimi sepolcreti di Cere, in parte dalle tracceconservate nella lingua e nelle istituzioni dei Romani, inparte ancora, anzi più sicuramente, dall'impulso che nericevette l'industria italica; perchè si dovettero continua-re per molto tempo a comperare le manifatture straniereprima che si cominciasse ad imitarle.

Certo non possiamo determinare il grado di sviluppoche i mestieri avevano raggiunto prima della separazio-ne delle razze e, successivamente, nell'epoca in cui l'Ita-lia fu abbandonata a se stessa; lasciamo da un canto laquestione, se i gualchieri, i tintori, i conciatori e i pento-lai abbiano ricevuto l'impulso dalla Grecia o dalla Feni-

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cia, o se si siano aperta una via propria ed indipendente.Ma è fuor di dubbio, che l'arte degli orefici, esistente inRoma da lontanissimi tempi, non può esser nata primache cominciasse il commercio oltremarino, e che tra gliabitanti della penisola trovassero smercio gli ornamentid'oro.

E così noi troviamo anche nelle più antiche celle mor-tuarie di Cere e di Vulci nell'Etruria ed in quelle di Pre-neste nel Lazio97 delle lamine d'oro con impressivi leonialati e simili ornamenti di fabbrica babilonese. Si po-trebbe lungamente disputare se questi oggetti rinvenutinelle tombe siano stati introdotti dall'estero, o se invecesi debbano ritenere imitazioni fatte in paese; ma in ge-nerale non vi è dubbio, che nei tempi antichissimis'introducessero su tutta la costa occidentale d'Italiamerci di metallo venute dal levante.

Quando in seguito si parlerà dell'arte, noi vedremopiù chiaramente che l'architettura e la plastica in terracotta e in metalli ha ricevuto in Italia, in tempi remotis-simi, un potente impulso dall'influenza greca; ciò vuoldire che i più antichi attrezzi ed i più antichi modellisono pervenuti dalla Grecia. Nelle celle mortuarie oranominate, oltre i gioielli d'oro, si trovarono vasi di ve-tro, di smalto azzurrino o di argilla verdastra, a giudicar-ne dalla materia, dallo stile e dai geroglifici impressivi,di origine egiziana98; vasi da unguento di alabastro

97 Anche nella sabina Capena furono ultimamente trovati neisepolcreti ornamenti d'oro simili a quelli di Cere.

98 Tempo fa è stata scoperta in Preneste una brocca d'argento340

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cia, o se si siano aperta una via propria ed indipendente.Ma è fuor di dubbio, che l'arte degli orefici, esistente inRoma da lontanissimi tempi, non può esser nata primache cominciasse il commercio oltremarino, e che tra gliabitanti della penisola trovassero smercio gli ornamentid'oro.

E così noi troviamo anche nelle più antiche celle mor-tuarie di Cere e di Vulci nell'Etruria ed in quelle di Pre-neste nel Lazio97 delle lamine d'oro con impressivi leonialati e simili ornamenti di fabbrica babilonese. Si po-trebbe lungamente disputare se questi oggetti rinvenutinelle tombe siano stati introdotti dall'estero, o se invecesi debbano ritenere imitazioni fatte in paese; ma in ge-nerale non vi è dubbio, che nei tempi antichissimis'introducessero su tutta la costa occidentale d'Italiamerci di metallo venute dal levante.

Quando in seguito si parlerà dell'arte, noi vedremopiù chiaramente che l'architettura e la plastica in terracotta e in metalli ha ricevuto in Italia, in tempi remotis-simi, un potente impulso dall'influenza greca; ciò vuoldire che i più antichi attrezzi ed i più antichi modellisono pervenuti dalla Grecia. Nelle celle mortuarie oranominate, oltre i gioielli d'oro, si trovarono vasi di ve-tro, di smalto azzurrino o di argilla verdastra, a giudicar-ne dalla materia, dallo stile e dai geroglifici impressivi,di origine egiziana98; vasi da unguento di alabastro

97 Anche nella sabina Capena furono ultimamente trovati neisepolcreti ornamenti d'oro simili a quelli di Cere.

98 Tempo fa è stata scoperta in Preneste una brocca d'argento340

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orientale, molti colla figura d'Iside; uova di struzzo sullequali erano dipinte e intagliate delle sfingi e dei grifoni;perle di vetro e d'ambra. Queste ultime possono esserevenute dal settentrione per la via di terra; gli altri oggettipoi provano l'introduzione dall'oriente di unguenti e diornamenti d'ogni specie. Di là venivano le tele e la por-pora, l'avorio e l'incenso, ciò che prova l'uso, che prestos'introdusse, delle bende di tela, del manto reale porpori-no, dello scettro reale eburneo e dell'incenso nei sacrifi-ci, come provano gli antichi nomi di questi oggetti presidal greco (λίνον, linum, lino; πορϕύρα, purpura, porpora;σκῆτρον, σκίπων, scipio, bastone, scettro; ed ancheἐλέϕας, ebur, avorio; ϑύος, thus, incenso). Così la deriva-zione di parecchi nomi riferibili a generi di vivanda o dibevanda, particolarmente il nome dell'olio (ἔλαιον,oleum); delle anfore (ἀµϕορεύς, amphora, ampulla;κρατήρ, cratera, cratere, tazza); del banchettare(κωµάξω, comissari); della pietanza ghiotta (ὀψώνιον,opsoniunm); della pasta (µᾶζα, massa); e di molti nomidi cucina (γλυκούς, lucuns, companatico; πλακοῦς, pla-centa, focaccia schiacciata; τυροῦς, turunda, polenta);mentre la parola latina patina, piatto, fu accolta nel gre-co siculo πατάνη.

Il più tardivo costume di porre negli avelli, accanto aimorti, dei vasi di lusso dell'Attica e di Corcira, prova,non meno di queste testimonianze linguistiche, l'antico

con una iscrizione fenicia e geroglifica (Mon. dell'Ist., X, tav. 32)che dimostra come tutto ciò che in Italia si trova di egiziano, vigiunse per mezzo dei Fenici.

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orientale, molti colla figura d'Iside; uova di struzzo sullequali erano dipinte e intagliate delle sfingi e dei grifoni;perle di vetro e d'ambra. Queste ultime possono esserevenute dal settentrione per la via di terra; gli altri oggettipoi provano l'introduzione dall'oriente di unguenti e diornamenti d'ogni specie. Di là venivano le tele e la por-pora, l'avorio e l'incenso, ciò che prova l'uso, che prestos'introdusse, delle bende di tela, del manto reale porpori-no, dello scettro reale eburneo e dell'incenso nei sacrifi-ci, come provano gli antichi nomi di questi oggetti presidal greco (λίνον, linum, lino; πορϕύρα, purpura, porpora;σκῆτρον, σκίπων, scipio, bastone, scettro; ed ancheἐλέϕας, ebur, avorio; ϑύος, thus, incenso). Così la deriva-zione di parecchi nomi riferibili a generi di vivanda o dibevanda, particolarmente il nome dell'olio (ἔλαιον,oleum); delle anfore (ἀµϕορεύς, amphora, ampulla;κρατήρ, cratera, cratere, tazza); del banchettare(κωµάξω, comissari); della pietanza ghiotta (ὀψώνιον,opsoniunm); della pasta (µᾶζα, massa); e di molti nomidi cucina (γλυκούς, lucuns, companatico; πλακοῦς, pla-centa, focaccia schiacciata; τυροῦς, turunda, polenta);mentre la parola latina patina, piatto, fu accolta nel gre-co siculo πατάνη.

Il più tardivo costume di porre negli avelli, accanto aimorti, dei vasi di lusso dell'Attica e di Corcira, prova,non meno di queste testimonianze linguistiche, l'antico

con una iscrizione fenicia e geroglifica (Mon. dell'Ist., X, tav. 32)che dimostra come tutto ciò che in Italia si trova di egiziano, vigiunse per mezzo dei Fenici.

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smercio delle stoviglie greche in Italia. Che i lavori dicuoio della Grecia trovassero diffusione nel Lazio, perlo meno come corredo d'armatura, lo prova l'uso dellaparola greca per indicare pelle (σκῦτος) presso i Latiniper lo scudo (scutum, come lorica, armatura, da lorum,correggia). Finalmente è bene parlare dei moltissimi ter-mini nautici, derivati dal greco, sebbene i nomi princi-pali che servono per la navigazione a vela, vele, albero eantenna, abbiano per una notevole singolarità una formaassolutamente latina99; inoltre la denominazione grecadella lettera (ἐπιστολή, epistula), della marca (tessera daτέσσαρα100, della stadera (στατήρ, statera) e della caparra

99 Velum è certo d'origine latina, e così malus, tanto più chenon significa solo l'albero della nave, ma l'albero in generale; an-che antenna può derivare da ἀνά (anhelare, antestare) e tendere =supertensa. Sono invece d'origine greca: gubernare, governare,κυβερνα̃ν; ancora, prora, prora, ἄγκυρα, πρῶρα; aplustre, poppa,ἄϕλαστον; anquina la fune che tiene strette le antenne ἄγκοινα;nausea, mal di mare, ναυσία.

I quattro venti principali, aquilo, il vento dell'aquila, la tra-montana del nord-est; volturnus (di origine incerta; forse il ventodell'avvoltoio vultur); l'austro, il disseccante vento di sud-est, loscirocco, il favonio, il vento favorevole del mar Tirreno, hannonomi indigeni che non si riferiscono alla navigazione; tutti gli al-tri nomi latini dei venti, sono però greci, come eurus, notus, o tra-dotti dal greco, come solanus = ἀ̉πηλιώτης, Africus = λίψ.

100 S'intendono le tessere nel servizio del campo, la ξυλὴϕιακατὰ ϕυλακὴν βραχέα τελέως χυρακτῆρα (POL., 6, 35 7); le quattrovigiliae del servizio notturno hanno d'altronde dato nome alle tes-sere. La divisione per quarti del servizio di guardia, è tanto grecache romana; la scienza greca guerresca può avere in qualche

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smercio delle stoviglie greche in Italia. Che i lavori dicuoio della Grecia trovassero diffusione nel Lazio, perlo meno come corredo d'armatura, lo prova l'uso dellaparola greca per indicare pelle (σκῦτος) presso i Latiniper lo scudo (scutum, come lorica, armatura, da lorum,correggia). Finalmente è bene parlare dei moltissimi ter-mini nautici, derivati dal greco, sebbene i nomi princi-pali che servono per la navigazione a vela, vele, albero eantenna, abbiano per una notevole singolarità una formaassolutamente latina99; inoltre la denominazione grecadella lettera (ἐπιστολή, epistula), della marca (tessera daτέσσαρα100, della stadera (στατήρ, statera) e della caparra

99 Velum è certo d'origine latina, e così malus, tanto più chenon significa solo l'albero della nave, ma l'albero in generale; an-che antenna può derivare da ἀνά (anhelare, antestare) e tendere =supertensa. Sono invece d'origine greca: gubernare, governare,κυβερνα̃ν; ancora, prora, prora, ἄγκυρα, πρῶρα; aplustre, poppa,ἄϕλαστον; anquina la fune che tiene strette le antenne ἄγκοινα;nausea, mal di mare, ναυσία.

I quattro venti principali, aquilo, il vento dell'aquila, la tra-montana del nord-est; volturnus (di origine incerta; forse il ventodell'avvoltoio vultur); l'austro, il disseccante vento di sud-est, loscirocco, il favonio, il vento favorevole del mar Tirreno, hannonomi indigeni che non si riferiscono alla navigazione; tutti gli al-tri nomi latini dei venti, sono però greci, come eurus, notus, o tra-dotti dal greco, come solanus = ἀ̉πηλιώτης, Africus = λίψ.

100 S'intendono le tessere nel servizio del campo, la ξυλὴϕιακατὰ ϕυλακὴν βραχέα τελέως χυρακτῆρα (POL., 6, 35 7); le quattrovigiliae del servizio notturno hanno d'altronde dato nome alle tes-sere. La divisione per quarti del servizio di guardia, è tanto grecache romana; la scienza greca guerresca può avere in qualche

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(ἀρραβῶν, arrabo, arra) in latino, e all'incontro l'introdu-zione di termini italici di diritto nel greco siculo e cosìlo scambio delle proporzioni e dei nomi di monete, dellemisure e dei pesi, di cui parleremo più tardi. La piùchiara prova della vetustà di tutte queste derivazioni èparticolarmente il carattere barbaro ch'esse portano infronte, e prima di tutto la caratteristica formazione delnominativo e dell'accusativo (placenta, πλακοῦντα; state-ra στατῆρα; amphora ἀµϕορέα). Anche la venerazionedel dio del commercio (Mercurio) pare sia originata dal-le rappresentazioni greche e perfino il suo anniversariopare sia messo negli idi di maggio perchè i poeti ellenicilo celebrarono come il figlio della bella Maia. La piùantica Italia riceveva quindi, come la Roma sotto i Cesa-ri, i suoi oggetti di lusso dall'Oriente, prima ch'essa siprovasse a fabbricarli secondo i modelli di là ricevuti;essa non aveva da dare in cambio se non i suoi prodottigreggi, quindi prima di tutto il suo rame, il suo argento eil suo ferro, poi schiavi e legname per costruzioni nava-li, l'ambra del Baltico, e frumento quando si facevanoscarsi raccolti all'estero.

11 Commercio attivo in Etruria, passivo nel La-zio. Tenendo conto delle merci straniere più ricercate edi ciò che si poteva offrire in cambio, riescono chiare le

modo influito sull'organizzazione del servizio di sicurezza nelcampo romano, forse per mezzo di Pirro (LIVIO, 35, 14). L'usodella forma non dorica stabilisce la tarda accettazione del vocabo-lo.

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(ἀρραβῶν, arrabo, arra) in latino, e all'incontro l'introdu-zione di termini italici di diritto nel greco siculo e cosìlo scambio delle proporzioni e dei nomi di monete, dellemisure e dei pesi, di cui parleremo più tardi. La piùchiara prova della vetustà di tutte queste derivazioni èparticolarmente il carattere barbaro ch'esse portano infronte, e prima di tutto la caratteristica formazione delnominativo e dell'accusativo (placenta, πλακοῦντα; state-ra στατῆρα; amphora ἀµϕορέα). Anche la venerazionedel dio del commercio (Mercurio) pare sia originata dal-le rappresentazioni greche e perfino il suo anniversariopare sia messo negli idi di maggio perchè i poeti ellenicilo celebrarono come il figlio della bella Maia. La piùantica Italia riceveva quindi, come la Roma sotto i Cesa-ri, i suoi oggetti di lusso dall'Oriente, prima ch'essa siprovasse a fabbricarli secondo i modelli di là ricevuti;essa non aveva da dare in cambio se non i suoi prodottigreggi, quindi prima di tutto il suo rame, il suo argento eil suo ferro, poi schiavi e legname per costruzioni nava-li, l'ambra del Baltico, e frumento quando si facevanoscarsi raccolti all'estero.

11 Commercio attivo in Etruria, passivo nel La-zio. Tenendo conto delle merci straniere più ricercate edi ciò che si poteva offrire in cambio, riescono chiare le

modo influito sull'organizzazione del servizio di sicurezza nelcampo romano, forse per mezzo di Pirro (LIVIO, 35, 14). L'usodella forma non dorica stabilisce la tarda accettazione del vocabo-lo.

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ragioni del diverso indirizzo preso dal commercio itali-co nel Lazio e nell'Etruria. I Latini, difettando di tutti iprincipali articoli d'esportazione, non potevano avereche un commercio passivo, ed erano quindi costrettisino dagli antichi tempi a procurarsi il rame, di cui ave-vano assoluto bisogno, dagli Etruschi, contro bestiame eschiavi; del traffico di questi sulla riva destra del Teverefu già fatta menzione. Il bilancio commerciale in Cere,in Populonia, in Capua, in Spina, doveva, viceversa, of-frire necessariamente un più vantaggioso risultato. Daciò la rapida prosperità dell'Etruria e la fiorente sua con-dizione commerciale, mentre il Lazio continua a rima-nere di preferenza un paese agricolo. E questo si ripetein tutti i singoli rapporti; così noi troviamo in Cere i piùantichi sepolcri di stile greco, ma eretti ed abbelliti conlusso non greco, mentre il paese latino non possiede al-cun sepolcro di lusso nei tempi antichi, e presso i Latinicome presso i Sabelli bastava una semplice zolla di terraper coprire il cadavere di chicchessia. Le più antichemonete, avuto riguardo al tempo, non molto inferiori aquelle della Magna Grecia, appartengono all'Etruria, eparticolarmente a Populonia; il Lazio si accontentò du-rante tutto il tempo dei re di contrattare col rame a peso,nè vi si introdussero monete straniere, che ben di rado visi trovarono, se si eccettua la moneta di Posidonia. Ar-chitettura, plastica, toreutica si offrivano coi medesimimodelli al Lazio e all'Etruria, e ne stimolavano del paril'imitazione; ma solo nell'Etruria le arti belle potevanofare assegnamento sulla ricchezza, che consente un la-

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ragioni del diverso indirizzo preso dal commercio itali-co nel Lazio e nell'Etruria. I Latini, difettando di tutti iprincipali articoli d'esportazione, non potevano avereche un commercio passivo, ed erano quindi costrettisino dagli antichi tempi a procurarsi il rame, di cui ave-vano assoluto bisogno, dagli Etruschi, contro bestiame eschiavi; del traffico di questi sulla riva destra del Teverefu già fatta menzione. Il bilancio commerciale in Cere,in Populonia, in Capua, in Spina, doveva, viceversa, of-frire necessariamente un più vantaggioso risultato. Daciò la rapida prosperità dell'Etruria e la fiorente sua con-dizione commerciale, mentre il Lazio continua a rima-nere di preferenza un paese agricolo. E questo si ripetein tutti i singoli rapporti; così noi troviamo in Cere i piùantichi sepolcri di stile greco, ma eretti ed abbelliti conlusso non greco, mentre il paese latino non possiede al-cun sepolcro di lusso nei tempi antichi, e presso i Latinicome presso i Sabelli bastava una semplice zolla di terraper coprire il cadavere di chicchessia. Le più antichemonete, avuto riguardo al tempo, non molto inferiori aquelle della Magna Grecia, appartengono all'Etruria, eparticolarmente a Populonia; il Lazio si accontentò du-rante tutto il tempo dei re di contrattare col rame a peso,nè vi si introdussero monete straniere, che ben di rado visi trovarono, se si eccettua la moneta di Posidonia. Ar-chitettura, plastica, toreutica si offrivano coi medesimimodelli al Lazio e all'Etruria, e ne stimolavano del paril'imitazione; ma solo nell'Etruria le arti belle potevanofare assegnamento sulla ricchezza, che consente un la-

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voro più accurato ed una tecnica più ricercata. In gene-rale saranno state le medesime merci quelle che si ac-quistavano, che si esitavano e si fabbricavano nel Lazioe nell'Etruria, ma il paese meridionale era di gran lungainferiore al nordico suo vicino nell'attività dei commer-ci. A ciò si deve se le merci di lusso, eseguite in Etruriasecondo il modello greco, trovarono smercio anche nelLazio, e specialmente in Preneste, anzi nella Greciastessa, mentre il Lazio ne ha difficilmente eseguite di si-mili.

12 Commercio etrusco-attico, latino-siculo. Unadiversità non meno notevole nel commercio dei Latini edegli Etruschi consisteva nella diversa direzione di esso.In quanto al più antico commercio dei Latini e degliEtruschi sul mare Adriatico noi non possiamo far altroche supporre che si facesse di preferenza da Spina eAdria a Corcira. Abbiamo già detto come gli Etruschioccidentali si cimentassero animosi sui mari orientali ecome nel loro traffico non si limitassero alla Sicilia, masi spingessero anche nella Grecia propria. Ad un anticotraffico coll'Attica accennano non solo le stoviglie atti-che di terra cotta, che in tanta abbondanza si rinvenneronelle tombe etrusche più recenti, e che si importavanogià fin da quell'epoca con altri scopi che quello di servi-re d'ornamento alle tombe; mentre, viceversa, nell'Atticai candelabri di bronzo e i nappi d'oro tirreni erano benpresto divenuti articoli ricercati, e molto più ancora lemonete.

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voro più accurato ed una tecnica più ricercata. In gene-rale saranno state le medesime merci quelle che si ac-quistavano, che si esitavano e si fabbricavano nel Lazioe nell'Etruria, ma il paese meridionale era di gran lungainferiore al nordico suo vicino nell'attività dei commer-ci. A ciò si deve se le merci di lusso, eseguite in Etruriasecondo il modello greco, trovarono smercio anche nelLazio, e specialmente in Preneste, anzi nella Greciastessa, mentre il Lazio ne ha difficilmente eseguite di si-mili.

12 Commercio etrusco-attico, latino-siculo. Unadiversità non meno notevole nel commercio dei Latini edegli Etruschi consisteva nella diversa direzione di esso.In quanto al più antico commercio dei Latini e degliEtruschi sul mare Adriatico noi non possiamo far altroche supporre che si facesse di preferenza da Spina eAdria a Corcira. Abbiamo già detto come gli Etruschioccidentali si cimentassero animosi sui mari orientali ecome nel loro traffico non si limitassero alla Sicilia, masi spingessero anche nella Grecia propria. Ad un anticotraffico coll'Attica accennano non solo le stoviglie atti-che di terra cotta, che in tanta abbondanza si rinvenneronelle tombe etrusche più recenti, e che si importavanogià fin da quell'epoca con altri scopi che quello di servi-re d'ornamento alle tombe; mentre, viceversa, nell'Atticai candelabri di bronzo e i nappi d'oro tirreni erano benpresto divenuti articoli ricercati, e molto più ancora lemonete.

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Le monete d'argento di Populonia, quasi del peso deididrammi secondo il sistema di Solone e pressochèeguali alle più antiche monete siracusane prima che ivis'introducessero i leggeri tetradrammi, sono copiate daun'antichissima moneta d'argento, avente da un lato im-pressa la Gorgone e dall'altro un quadrato, rinvenuta inAtene e lungo l'antica strada del commercio dell'ambranella Posnania, e che verosimilmente sarà stata coniatanella vera Grecia. E abbiamo già osservato come gliEtruschi, oltre questo commercio, trafficassero dopo losviluppo dell'alleanza marittima tra Cartagine e l'Etruria,preferibilmente coi Cartaginesi; è degno d'attenzione,che nelle più antiche tombe di Cere, oltre agli oggetti dibronzo e d'argento di fabbricazione indigena, si rinven-nero in maggior copia merci orientali che potevano be-nissimo derivare da trafficanti greci, ma che furono piùprobabilmente introdotte da negozianti fenici. Non si sa-prebbe però accordare a questo commercio punico unasoverchia importanza, e particolarmente lasciar passareinosservata la circostanza, che l'Etruria non va debitriceai Fenici, bensì ai Greci tanto dell'alfabeto che di tuttigli stimoli e gli esempi della sua coltura.

Il commercio dei Latini prese un'altra direzione. Perquanto siano pochi gli elementi, che noi abbiamo peristituire paralleli intorno alla diversa influenza dei pro-dotti ellenici sugli etruschi e sui romani, essi ci bastanoperò a provare, che l'una influenza agì indipendente-mente dall'altra, e ci permettono persino di indovinareche la stirpe greca che esercitò la sua influenza sugli

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Le monete d'argento di Populonia, quasi del peso deididrammi secondo il sistema di Solone e pressochèeguali alle più antiche monete siracusane prima che ivis'introducessero i leggeri tetradrammi, sono copiate daun'antichissima moneta d'argento, avente da un lato im-pressa la Gorgone e dall'altro un quadrato, rinvenuta inAtene e lungo l'antica strada del commercio dell'ambranella Posnania, e che verosimilmente sarà stata coniatanella vera Grecia. E abbiamo già osservato come gliEtruschi, oltre questo commercio, trafficassero dopo losviluppo dell'alleanza marittima tra Cartagine e l'Etruria,preferibilmente coi Cartaginesi; è degno d'attenzione,che nelle più antiche tombe di Cere, oltre agli oggetti dibronzo e d'argento di fabbricazione indigena, si rinven-nero in maggior copia merci orientali che potevano be-nissimo derivare da trafficanti greci, ma che furono piùprobabilmente introdotte da negozianti fenici. Non si sa-prebbe però accordare a questo commercio punico unasoverchia importanza, e particolarmente lasciar passareinosservata la circostanza, che l'Etruria non va debitriceai Fenici, bensì ai Greci tanto dell'alfabeto che di tuttigli stimoli e gli esempi della sua coltura.

Il commercio dei Latini prese un'altra direzione. Perquanto siano pochi gli elementi, che noi abbiamo peristituire paralleli intorno alla diversa influenza dei pro-dotti ellenici sugli etruschi e sui romani, essi ci bastanoperò a provare, che l'una influenza agì indipendente-mente dall'altra, e ci permettono persino di indovinareche la stirpe greca che esercitò la sua influenza sugli

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Etruschi è diversa da quella che l'esercitò sui Latini. Ciòrisulta in modo evidentissimo dall'alfabeto, il qualenell'Etruria è essenzialmente diverso da quello comuni-cato ai Latini; mentre l'uno è così primitivo da non po-tersene più trovare la patria, riscontriamo nell'altro esat-tamente i segni e le forme di cui si servivano le coloniecalcidiche e doriche d'Italia e di Sicilia.

Ma tale contraddizione si ripete anche in singole pa-role: il Polluce romano, il tosco Pultuke sono l'uno el'altro una corruzione del greco Polydeukes; il toscoUtuze ossia Uthuze è formato da Odisseo; il romanoUlisse rende completamente la forma del nome usato inSicilia; così corrisponde il tosco Aivas alla forma greco-antica di questo nome, il romano Ajace ad una forma se-condaria sicula; il romano Aperta o Apello, il sanniticoApellun sono derivati dal dorico Apelon, il tosco Apuluda Apollon. Così la lingua e la scrittura del Lazio accen-nano alla direzione del commercio latino coi Cumani ecoi Siculi; e appunto qui conduce ogni altra traccia ri-mastaci di tempi così remoti: la moneta di Posidoniatrovata nel Lazio, l'acquisto dei grani che, negli anni dicarestia, Roma faceva presso i Volsci, i Cumani e i Sicu-li, e, come è naturale, anche presso gli Etruschi; ma so-prattutto la situazione degli affari di denaro e di creditodei Latini di fronte a quelli dei Siciliani. Nel modo chela denominazione locale dorico-calcidica della monetad'argento νόµος e della misura siciliana ἡµίνα erano pas-sate nel Lazio con egual significato, nummus, moneta, ehemina, mina, così all'incontro erano penetrati in Sicilia

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Etruschi è diversa da quella che l'esercitò sui Latini. Ciòrisulta in modo evidentissimo dall'alfabeto, il qualenell'Etruria è essenzialmente diverso da quello comuni-cato ai Latini; mentre l'uno è così primitivo da non po-tersene più trovare la patria, riscontriamo nell'altro esat-tamente i segni e le forme di cui si servivano le coloniecalcidiche e doriche d'Italia e di Sicilia.

Ma tale contraddizione si ripete anche in singole pa-role: il Polluce romano, il tosco Pultuke sono l'uno el'altro una corruzione del greco Polydeukes; il toscoUtuze ossia Uthuze è formato da Odisseo; il romanoUlisse rende completamente la forma del nome usato inSicilia; così corrisponde il tosco Aivas alla forma greco-antica di questo nome, il romano Ajace ad una forma se-condaria sicula; il romano Aperta o Apello, il sanniticoApellun sono derivati dal dorico Apelon, il tosco Apuluda Apollon. Così la lingua e la scrittura del Lazio accen-nano alla direzione del commercio latino coi Cumani ecoi Siculi; e appunto qui conduce ogni altra traccia ri-mastaci di tempi così remoti: la moneta di Posidoniatrovata nel Lazio, l'acquisto dei grani che, negli anni dicarestia, Roma faceva presso i Volsci, i Cumani e i Sicu-li, e, come è naturale, anche presso gli Etruschi; ma so-prattutto la situazione degli affari di denaro e di creditodei Latini di fronte a quelli dei Siciliani. Nel modo chela denominazione locale dorico-calcidica della monetad'argento νόµος e della misura siciliana ἡµίνα erano pas-sate nel Lazio con egual significato, nummus, moneta, ehemina, mina, così all'incontro erano penetrati in Sicilia

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nell'uso comune della lingua sino al terzo secolo dellafondazione di Roma nelle corrotte forme λίτρα, τριᾶς,τετρᾶς, ἑξᾶς, ουγκία, i nomi italiani dei pesi, libra, triens,quadrans, sextans, uncia, che erano sorti nel Lazio permisurare il rame, il quale, secondo il peso, serviva diequivalente di denaro.

Il sistema dei pesi e delle monete della Sicilia fu per-fino l'unico sistema greco, che fosse stato messo in unaferma proporzione col sistema italico del rame, calco-lando tre mezze mine siciliane eguali a due libbre roma-ne, e aggiungendo poi, secondo la proporzione conven-zionale del valore del rame coll'argento di 125:1, piùtardi di 250:1 una libbra d'argento, corrispondente al va-lore di una mezza mina di rame. Quindi non vi può esserdubbio, che i pani di rame italici circolassero anche inSicilia invece di denaro, e ciò prova colla maggioreesattezza che il commercio dei Latini colla Sicilia era uncommercio passivo, e che per conseguenza il denaro la-tino affluiva in Sicilia.

Si è già parlato di altre prove dell'antico commerciotra l'antica Sicilia e l'Italia, particolarmente dell'adozio-ne delle denominazioni italiche dei prestiti commerciali,delle prigioni, dei piatti nel dialetto siciliano e vicever-sa. Ed altre, benchè meno sicure, traccie parlano anchedell'antico commercio dei Latini colle città calcidichedella bassa Italia, Cuma e Napoli, e coi Focesi in Elea ein Massalia. Ma che esso fosse molto meno intenso checon i Siculi lo prova il fatto notorio che tutte le parolegreche pervenute negli antichi tempi nel Lazio, presero

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nell'uso comune della lingua sino al terzo secolo dellafondazione di Roma nelle corrotte forme λίτρα, τριᾶς,τετρᾶς, ἑξᾶς, ουγκία, i nomi italiani dei pesi, libra, triens,quadrans, sextans, uncia, che erano sorti nel Lazio permisurare il rame, il quale, secondo il peso, serviva diequivalente di denaro.

Il sistema dei pesi e delle monete della Sicilia fu per-fino l'unico sistema greco, che fosse stato messo in unaferma proporzione col sistema italico del rame, calco-lando tre mezze mine siciliane eguali a due libbre roma-ne, e aggiungendo poi, secondo la proporzione conven-zionale del valore del rame coll'argento di 125:1, piùtardi di 250:1 una libbra d'argento, corrispondente al va-lore di una mezza mina di rame. Quindi non vi può esserdubbio, che i pani di rame italici circolassero anche inSicilia invece di denaro, e ciò prova colla maggioreesattezza che il commercio dei Latini colla Sicilia era uncommercio passivo, e che per conseguenza il denaro la-tino affluiva in Sicilia.

Si è già parlato di altre prove dell'antico commerciotra l'antica Sicilia e l'Italia, particolarmente dell'adozio-ne delle denominazioni italiche dei prestiti commerciali,delle prigioni, dei piatti nel dialetto siciliano e vicever-sa. Ed altre, benchè meno sicure, traccie parlano anchedell'antico commercio dei Latini colle città calcidichedella bassa Italia, Cuma e Napoli, e coi Focesi in Elea ein Massalia. Ma che esso fosse molto meno intenso checon i Siculi lo prova il fatto notorio che tutte le parolegreche pervenute negli antichi tempi nel Lazio, presero

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forme doriche e basterà ricordare classis, Aesculapius,Latona, Aperta, machina. Se il commercio colle cittàd'origine jonica, come Cuma, e colle colonie focesi fos-se stato soltanto pari a quello dei Dori siculi, si scorge-rebbero almeno alcune forme ioniche, quantunque nonvi è dubbio che il dorismo sia penetrato di buon'ora an-che in queste stesse colonie ioniche e che qui il dialettoabbia subìto molte variazioni.

Mentre dunque tutto concorre a provare il commercioattivo dei Latini coi Greci del mare occidentale e princi-palmente coi Greci della Sicilia, non si trovano quasiprove di sorta pel commercio con altri popoli. Il più an-tico trattato tra Roma e Cartagine prova sufficientemen-te che delle navi romane giungevano fino in Africa ed inSardegna, ma che questo trattato fosse concluso conRoma precipuamente in grazia dei Siculi viventi sotto ladenominazione fenicia, lo prova la compiuta eguaglian-za di diritto stipulatavi in favore de' mercanti romanisolo per la Sicilia. Ciò che risulta ancora più recisamen-te, se è possibile, dalla completa mancanza di prove in-contrastabili sull'antico commercio dei Latini colle po-polazioni di lingua aramea101.

101 Pare che il latino antico non possegga nemmeno una paro-la tratta immediatamente dal fenicio, ad eccezione di Sarranno eAjer e di altre denominazioni locali. Le pochissime parole con ra-dice fenicia che vi si trovano, come ad esempio arrabo o arra, efors'anche murra, nardus ecc., sono evidentemente tolte dal gre-co, che in simili parole orientali offre una grande quantità d'indiziper provare le antiche relazioni dei Greci cogli Aramei; l'ἐλέϕαςed ebur dello stesso originale fenicio, con o senza aggiunta

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forme doriche e basterà ricordare classis, Aesculapius,Latona, Aperta, machina. Se il commercio colle cittàd'origine jonica, come Cuma, e colle colonie focesi fos-se stato soltanto pari a quello dei Dori siculi, si scorge-rebbero almeno alcune forme ioniche, quantunque nonvi è dubbio che il dorismo sia penetrato di buon'ora an-che in queste stesse colonie ioniche e che qui il dialettoabbia subìto molte variazioni.

Mentre dunque tutto concorre a provare il commercioattivo dei Latini coi Greci del mare occidentale e princi-palmente coi Greci della Sicilia, non si trovano quasiprove di sorta pel commercio con altri popoli. Il più an-tico trattato tra Roma e Cartagine prova sufficientemen-te che delle navi romane giungevano fino in Africa ed inSardegna, ma che questo trattato fosse concluso conRoma precipuamente in grazia dei Siculi viventi sotto ladenominazione fenicia, lo prova la compiuta eguaglian-za di diritto stipulatavi in favore de' mercanti romanisolo per la Sicilia. Ciò che risulta ancora più recisamen-te, se è possibile, dalla completa mancanza di prove in-contrastabili sull'antico commercio dei Latini colle po-polazioni di lingua aramea101.

101 Pare che il latino antico non possegga nemmeno una paro-la tratta immediatamente dal fenicio, ad eccezione di Sarranno eAjer e di altre denominazioni locali. Le pochissime parole con ra-dice fenicia che vi si trovano, come ad esempio arrabo o arra, efors'anche murra, nardus ecc., sono evidentemente tolte dal gre-co, che in simili parole orientali offre una grande quantità d'indiziper provare le antiche relazioni dei Greci cogli Aramei; l'ἐλέϕαςed ebur dello stesso originale fenicio, con o senza aggiunta

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Quando noi finalmente volessimo indagare come sifacesse questo commercio, se da commercianti italiciall'estero, o da mercanti stranieri in Italia, pare, almenoin quanto al Lazio, che si possano ritenere in favore del-la prima alternativa tutti gli indizi di cui fu fatto menzio-ne. Ed è appena concepibile che quelle voci latine disurrogazione di denaro e di prestiti commerciali potes-sero spargersi universalmente nell'isola di Sicilia, pelsolo andare di mercanti siciliani ad Ostia a comperarerame contro vezzi e gioielli. Per ciò che finalmente ri-guarda le persone e i ceti, da cui questo commercio siesercitava nella penisola, è un fatto che a Roma non si èmai sviluppato un proprio ceto commerciale superiore,da restare indipendente di fronte a quello dei proprietari.Il motivo di questo caso sorprendente è, che nel Lazio ilcommercio all'ingrosso fu sino dalle origini nelle manidei grandi proprietari: la quale spiegazione non è, comepare a prima vista, molto lontana dall'ordinario anda-mento delle cose. Che in un paese attraversato da moltifiumi navigabili il grosso possidente, che riceve dai suoiaffittavoli in conto di canone una parte dei prodotti delleterre, e che nel tempo stesso si trova possessore di navi,

dell'articolo, è impossibile filologicamente che siano stati formaticiascuno indipendentemente, poichè l'articolo fenicio è piuttostoha e non viene neppure adoperato così; d'altronde la parola orien-tale originale non è stata scoperta ancora. Lo stesso dicasidell'enigmatica parola thesaurus, sia pur stata greca di origine, opresa dai Greci al fenicio o al persiano, nel latino essa è ad ognimodo, come lo dimostra l'aspirazione, una parola presa dal greco.

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Quando noi finalmente volessimo indagare come sifacesse questo commercio, se da commercianti italiciall'estero, o da mercanti stranieri in Italia, pare, almenoin quanto al Lazio, che si possano ritenere in favore del-la prima alternativa tutti gli indizi di cui fu fatto menzio-ne. Ed è appena concepibile che quelle voci latine disurrogazione di denaro e di prestiti commerciali potes-sero spargersi universalmente nell'isola di Sicilia, pelsolo andare di mercanti siciliani ad Ostia a comperarerame contro vezzi e gioielli. Per ciò che finalmente ri-guarda le persone e i ceti, da cui questo commercio siesercitava nella penisola, è un fatto che a Roma non si èmai sviluppato un proprio ceto commerciale superiore,da restare indipendente di fronte a quello dei proprietari.Il motivo di questo caso sorprendente è, che nel Lazio ilcommercio all'ingrosso fu sino dalle origini nelle manidei grandi proprietari: la quale spiegazione non è, comepare a prima vista, molto lontana dall'ordinario anda-mento delle cose. Che in un paese attraversato da moltifiumi navigabili il grosso possidente, che riceve dai suoiaffittavoli in conto di canone una parte dei prodotti delleterre, e che nel tempo stesso si trova possessore di navi,

dell'articolo, è impossibile filologicamente che siano stati formaticiascuno indipendentemente, poichè l'articolo fenicio è piuttostoha e non viene neppure adoperato così; d'altronde la parola orien-tale originale non è stata scoperta ancora. Lo stesso dicasidell'enigmatica parola thesaurus, sia pur stata greca di origine, opresa dai Greci al fenicio o al persiano, nel latino essa è ad ognimodo, come lo dimostra l'aspirazione, una parola presa dal greco.

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dia opera al commercio, non è cosa nè insolita nè strana.Possedendo i mezzi di trasporto e le materie di esporta-zione, esso solo poteva esercitare attivamente il com-mercio oltremarino. Ed è un fatto, che i Romani de' pri-mi tempi non conoscevano l'antitesi tra l'aristocrazia ter-ritoriale e l'aristocrazia di borsa: i grossi possidenti sonosempre nello stesso tempo gli speculatori ed i capitalisti.Con un commercio molto attivo sarebbe stato affattoimpossibile che continuasse a lungo questa unione inuna sola classe della proprietà territoriale e del commer-cio estero. Di più si deve notare, che questo commercio,come abbiamo cercato di provare fin qui colla nostranarrazione, si faceva in Roma, perchè questa città era ilmercato generale del Lazio; ma in sostanza Roma nonfu mai una piazza mercantile come Cere e Taranto, e fue restò sempre la fiera e il centro d'un paese d'agricolto-ri.

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dia opera al commercio, non è cosa nè insolita nè strana.Possedendo i mezzi di trasporto e le materie di esporta-zione, esso solo poteva esercitare attivamente il com-mercio oltremarino. Ed è un fatto, che i Romani de' pri-mi tempi non conoscevano l'antitesi tra l'aristocrazia ter-ritoriale e l'aristocrazia di borsa: i grossi possidenti sonosempre nello stesso tempo gli speculatori ed i capitalisti.Con un commercio molto attivo sarebbe stato affattoimpossibile che continuasse a lungo questa unione inuna sola classe della proprietà territoriale e del commer-cio estero. Di più si deve notare, che questo commercio,come abbiamo cercato di provare fin qui colla nostranarrazione, si faceva in Roma, perchè questa città era ilmercato generale del Lazio; ma in sostanza Roma nonfu mai una piazza mercantile come Cere e Taranto, e fue restò sempre la fiera e il centro d'un paese d'agricolto-ri.

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QUATTORDICESIMO CAPITOLOMISURE E SCRITTURA

L'uomo assoggetta il mondo coll'arte del misurare; ecoll'arte dello scrivere fa sì che la sua intelligenza cessidi essere effimera come è effimero egli stesso; entrambedanno all'uomo ciò che la natura gli ricusò: l'onnipoten-za e l'eternità. La storia ha il diritto e il dovere di consi-derare il progresso dei popoli anche su queste vie.

1 Misure italiche. Per poter misurare è necessarioprima di tutto sviluppare le idee tanto dell'unità di tem-po, di spazio e di peso, quanto dall'intero, formato daparti eguali, cioè del numero e del sistema di numera-zione. A quest'effetto la natura ci offre, come più imme-diati punti di riferimento, pel tempo il giro del sole edella luna, ossia il giorno ed il mese; per lo spazio lalunghezza del piede dell'uomo, che misura più facilmen-te del braccio; pel peso il carico che l'uomo, col braccioteso e sospeso in aria, può librare (librare) sulla mano,per cui l'unità di peso si chiama «un peso» (libra). Perstabilire l'idea d'un intero, il quale consti di parti uguali,non abbiamo cosa che meglio si presti della mano collesue cinque dita o delle mani con le loro dieci dita, e suquesto si fonda il sistema decimale.

Fu già osservato che questi elementi del numerare edel misurare risalgono non solo oltre la divisione delle

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QUATTORDICESIMO CAPITOLOMISURE E SCRITTURA

L'uomo assoggetta il mondo coll'arte del misurare; ecoll'arte dello scrivere fa sì che la sua intelligenza cessidi essere effimera come è effimero egli stesso; entrambedanno all'uomo ciò che la natura gli ricusò: l'onnipoten-za e l'eternità. La storia ha il diritto e il dovere di consi-derare il progresso dei popoli anche su queste vie.

1 Misure italiche. Per poter misurare è necessarioprima di tutto sviluppare le idee tanto dell'unità di tem-po, di spazio e di peso, quanto dall'intero, formato daparti eguali, cioè del numero e del sistema di numera-zione. A quest'effetto la natura ci offre, come più imme-diati punti di riferimento, pel tempo il giro del sole edella luna, ossia il giorno ed il mese; per lo spazio lalunghezza del piede dell'uomo, che misura più facilmen-te del braccio; pel peso il carico che l'uomo, col braccioteso e sospeso in aria, può librare (librare) sulla mano,per cui l'unità di peso si chiama «un peso» (libra). Perstabilire l'idea d'un intero, il quale consti di parti uguali,non abbiamo cosa che meglio si presti della mano collesue cinque dita o delle mani con le loro dieci dita, e suquesto si fonda il sistema decimale.

Fu già osservato che questi elementi del numerare edel misurare risalgono non solo oltre la divisione delle

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schiatte greche e latine, ma sino a' più remoti tempi pri-mitivi. Quanto sia antica la misurazione del tempo se-condo le lunazioni, lo prova la lingua; persino il mododi contare i giorni che passano tra le singole fasi lunari,non cominciando da quella in cui la luna è entrata, è piùantico della separazione dei Greci e dei Latini.

2 Sistema decimale. La più attendibile provadell'età e dell'originaria esclusività del sistema decimalepresso gli Indo-germani ci viene offerta dalla nota con-cordanza in tutte le lingue indo-germaniche delle vocinumerali sino a cento inclusivamente. Per quel che ri-guarda l'Italia, vi si rinvengono radicati tutti i più antichiragguagli del sistema decimale; e basterà ricordare latanto comune decina dei testimoni, de' mallevadori, de-gli inviati, dei magistrati, il pareggiamento legale d'unbue con dieci pecore, la divisione del distretto in diecicurie, e in generale le istituzioni decurionali, la limita-zione, la decima pei sacrifici e la decima dei campi, ledecimazioni e il prenome Decimo.

Applicazioni di questo antichissimo sistema decimalerispetto alla misura, alla notazione e alla scrittura sonole cifre italiche degne di grande considerazione. All'epo-ca della separazione dei Greci e degli Italici è evidenteche non esistevano ancora segni numerali. Noi troviamoinvece per le tre più antiche e indispensabili cifre, l'uno,il cinque e il dieci, tre segni I, V ovvero Λ, e X, i qualisono manifeste rappresentazioni del dito solo, dellamano aperta e d'entrambe le mani, che non sono tolte nè

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schiatte greche e latine, ma sino a' più remoti tempi pri-mitivi. Quanto sia antica la misurazione del tempo se-condo le lunazioni, lo prova la lingua; persino il mododi contare i giorni che passano tra le singole fasi lunari,non cominciando da quella in cui la luna è entrata, è piùantico della separazione dei Greci e dei Latini.

2 Sistema decimale. La più attendibile provadell'età e dell'originaria esclusività del sistema decimalepresso gli Indo-germani ci viene offerta dalla nota con-cordanza in tutte le lingue indo-germaniche delle vocinumerali sino a cento inclusivamente. Per quel che ri-guarda l'Italia, vi si rinvengono radicati tutti i più antichiragguagli del sistema decimale; e basterà ricordare latanto comune decina dei testimoni, de' mallevadori, de-gli inviati, dei magistrati, il pareggiamento legale d'unbue con dieci pecore, la divisione del distretto in diecicurie, e in generale le istituzioni decurionali, la limita-zione, la decima pei sacrifici e la decima dei campi, ledecimazioni e il prenome Decimo.

Applicazioni di questo antichissimo sistema decimalerispetto alla misura, alla notazione e alla scrittura sonole cifre italiche degne di grande considerazione. All'epo-ca della separazione dei Greci e degli Italici è evidenteche non esistevano ancora segni numerali. Noi troviamoinvece per le tre più antiche e indispensabili cifre, l'uno,il cinque e il dieci, tre segni I, V ovvero Λ, e X, i qualisono manifeste rappresentazioni del dito solo, dellamano aperta e d'entrambe le mani, che non sono tolte nè

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

dagli Elleni, nè dai Fenici ma sono usate comunementedai Romani, dai Sabelli e dagli Etruschi. Non si può nonriconoscere in queste cifre i più antichi ed esclusiva-mente nazionali principii della scrittura italiana, e nellostesso tempo una prova dell'attività dell'antichissimocommercio interno degl'Italici nell'età in cui ancora nonerano cominciati i commerci oltremarini. Quale tra letribù italiche abbia inventato questi segni, o da chi li ab-bia presi, non si può sapere. Del resto sono scarse letraccie del sistema decimale puro. In generale tra quellemisure italiche che non si associano a istituzioni grechee che furono probabilmente sviluppate dagli Italici pri-ma che essi entrassero in relazione coi Greci, è in gene-rale predominante la divisione dell'intiero (as) in dodici«unità» (unciae). Secondo il numero dodici si ordinanoappunto i più antichi sodalizi sacerdotali latini, i collegidei Salii e degli Arvali e così pure la lega delle cittàetrusche. Nel sistema romano dei pesi, domina il nume-ro dodici dividendosi la libbra in dodici parti come nellamisura lineare il piede (pes) si divide egualmente in do-dici parti; l'unità della misura romana della superfice èl'actus102 di 120 piedi in quadro, composto del sistema

102 La parola actus, e così quella anche più frequente del dop-pio actus, lo iugero, iugerum, sono, come la moderna «giornata»e il tedesco Morgen (mattinata), ordinariamente misure di lavoroe non di superficie; lo iugero indica il lavoro giornaliero, l'actusla metà del lavoro giornaliero, prima o dopo la siesta del lavorato-re, così indispensabile in Italia.

[Actus, il compito, il da fare, o, come dicono in alcuni dialettiitalici, la «fatta» è dall'autore tradotto col vocabolo tedesco Trieb,

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dagli Elleni, nè dai Fenici ma sono usate comunementedai Romani, dai Sabelli e dagli Etruschi. Non si può nonriconoscere in queste cifre i più antichi ed esclusiva-mente nazionali principii della scrittura italiana, e nellostesso tempo una prova dell'attività dell'antichissimocommercio interno degl'Italici nell'età in cui ancora nonerano cominciati i commerci oltremarini. Quale tra letribù italiche abbia inventato questi segni, o da chi li ab-bia presi, non si può sapere. Del resto sono scarse letraccie del sistema decimale puro. In generale tra quellemisure italiche che non si associano a istituzioni grechee che furono probabilmente sviluppate dagli Italici pri-ma che essi entrassero in relazione coi Greci, è in gene-rale predominante la divisione dell'intiero (as) in dodici«unità» (unciae). Secondo il numero dodici si ordinanoappunto i più antichi sodalizi sacerdotali latini, i collegidei Salii e degli Arvali e così pure la lega delle cittàetrusche. Nel sistema romano dei pesi, domina il nume-ro dodici dividendosi la libbra in dodici parti come nellamisura lineare il piede (pes) si divide egualmente in do-dici parti; l'unità della misura romana della superfice èl'actus102 di 120 piedi in quadro, composto del sistema

102 La parola actus, e così quella anche più frequente del dop-pio actus, lo iugero, iugerum, sono, come la moderna «giornata»e il tedesco Morgen (mattinata), ordinariamente misure di lavoroe non di superficie; lo iugero indica il lavoro giornaliero, l'actusla metà del lavoro giornaliero, prima o dopo la siesta del lavorato-re, così indispensabile in Italia.

[Actus, il compito, il da fare, o, come dicono in alcuni dialettiitalici, la «fatta» è dall'autore tradotto col vocabolo tedesco Trieb,

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decimale e duodecimale. Per la misura dei corpi questisistemi di partizioni si saranno perduti. Quando si vogliapor mente su di che si fondi il sistema duodecimale ecome possa essere avvenuto che nell'egual serie di nu-meri sia sorto così presto e così generalmente accanto alnumero dieci il numero dodici, non se ne potrà trovarela cagione se non nella comparazione del movimentodel sole e della luna. Dalla doppia misura di dieci dita edal giro del sole di circa dodici evoluzioni lunari è nataall'uomo la prima profonda immagine di una sopraunitàcomposta di altre unità eguali fra loro, e con essa il con-cetto d'un sistema di cifre, e il primo principio di un'ideamatematica. Sembra che il saldo sviluppo duodecimaledi questo concetto sia proprio ed originario degli Italicied avvenuto innanzi ch'essi praticassero gli Elleni.

3 Misure elleniche In Italia. Ma soltanto dopo cheil mercante elleno si fu aperta la via della costa occiden-tale italica cominciò una nuova e vitale rivoluzione nelsistema delle misure usate in Italia. La misura del tempoe quella della superficie non vennero alterate dalle in-fluenze greche; ma la misura lineare, il peso e partico-larmente la misura dei corpi, cioè quelle definizioni,senza le quali gli scambi e le vendite sono impossibili,risentirono delle conseguenze del commercio coi Greci.Il piede romano, anteriormente usato dai Romani che loavevano preso dai Greci, fu diviso, oltre la sua divisione

azione, moto, spinta].355

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decimale e duodecimale. Per la misura dei corpi questisistemi di partizioni si saranno perduti. Quando si vogliapor mente su di che si fondi il sistema duodecimale ecome possa essere avvenuto che nell'egual serie di nu-meri sia sorto così presto e così generalmente accanto alnumero dieci il numero dodici, non se ne potrà trovarela cagione se non nella comparazione del movimentodel sole e della luna. Dalla doppia misura di dieci dita edal giro del sole di circa dodici evoluzioni lunari è nataall'uomo la prima profonda immagine di una sopraunitàcomposta di altre unità eguali fra loro, e con essa il con-cetto d'un sistema di cifre, e il primo principio di un'ideamatematica. Sembra che il saldo sviluppo duodecimaledi questo concetto sia proprio ed originario degli Italicied avvenuto innanzi ch'essi praticassero gli Elleni.

3 Misure elleniche In Italia. Ma soltanto dopo cheil mercante elleno si fu aperta la via della costa occiden-tale italica cominciò una nuova e vitale rivoluzione nelsistema delle misure usate in Italia. La misura del tempoe quella della superficie non vennero alterate dalle in-fluenze greche; ma la misura lineare, il peso e partico-larmente la misura dei corpi, cioè quelle definizioni,senza le quali gli scambi e le vendite sono impossibili,risentirono delle conseguenze del commercio coi Greci.Il piede romano, anteriormente usato dai Romani che loavevano preso dai Greci, fu diviso, oltre la sua divisione

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romana in dodici dodicesimi, anche secondo l'uso grecoin quattro larghezze della mano (palmus) e in sedici lar-ghezze di dito (digitus). Oltre di che i pesi romani furo-no ragguagliati mediante proporzioni stabili cogli Attici,che erano in uso in tutta la Sicilia; non così a Cuma – al-tra chiarissima prova che il traffico latino si dirigeva dipreferenza verso l'isola; – si calcolavano quattro libbreromane eguali a tre mine attiche, o mezze mine. Ma lastereometria romana offre il più strano e più variato qua-dro, parte a cagion dei nomi che si trassero dal greco,per corruzione d'idiotismo (amphora, modius daµέδιµνος, congius da χοεύς, hemina, cyathus), o per veratraduzione (acetabulum da ὀξύβαϕον, mentre per controξέτης, è una corruzione di sextarius); parte a cagion deiragguagli stabiliti.

Non tutte le misure, ma certo le più comuni, sonoidentiche: per i liquidi il congius o chus, il sextarius, ilcyathus; queste due ultime misure servono anche per lemerci asciutte; l'anfora romana è pel peso d'acqua pa-reggiata al talento attico e sta nello stesso tempo nellaprecisa proporzione del 3:2 col greco metretes e del 2:1col greco medimnos. Per chi sa interpretare siffatta scrit-tura, in questi nomi e in queste cifre è espressa la storiadi tutta l'attività e di tutta l'importanza del commerciosiculo-latino. I numeri greci non furono adottati ma iRomani si servirono dell'alfabeto greco, quando loropervenne, per formare le tre cifre 50, 1000 e forse anchela cifra 100 con segni delle tre lettere aspirate che eranoloro inutili. Sembra che nell'Etruria si ottenesse in egual

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romana in dodici dodicesimi, anche secondo l'uso grecoin quattro larghezze della mano (palmus) e in sedici lar-ghezze di dito (digitus). Oltre di che i pesi romani furo-no ragguagliati mediante proporzioni stabili cogli Attici,che erano in uso in tutta la Sicilia; non così a Cuma – al-tra chiarissima prova che il traffico latino si dirigeva dipreferenza verso l'isola; – si calcolavano quattro libbreromane eguali a tre mine attiche, o mezze mine. Ma lastereometria romana offre il più strano e più variato qua-dro, parte a cagion dei nomi che si trassero dal greco,per corruzione d'idiotismo (amphora, modius daµέδιµνος, congius da χοεύς, hemina, cyathus), o per veratraduzione (acetabulum da ὀξύβαϕον, mentre per controξέτης, è una corruzione di sextarius); parte a cagion deiragguagli stabiliti.

Non tutte le misure, ma certo le più comuni, sonoidentiche: per i liquidi il congius o chus, il sextarius, ilcyathus; queste due ultime misure servono anche per lemerci asciutte; l'anfora romana è pel peso d'acqua pa-reggiata al talento attico e sta nello stesso tempo nellaprecisa proporzione del 3:2 col greco metretes e del 2:1col greco medimnos. Per chi sa interpretare siffatta scrit-tura, in questi nomi e in queste cifre è espressa la storiadi tutta l'attività e di tutta l'importanza del commerciosiculo-latino. I numeri greci non furono adottati ma iRomani si servirono dell'alfabeto greco, quando loropervenne, per formare le tre cifre 50, 1000 e forse anchela cifra 100 con segni delle tre lettere aspirate che eranoloro inutili. Sembra che nell'Etruria si ottenesse in egual

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modo almeno il segno pel numero 100. Più tardi il siste-ma dei numeri, come suol avvenire tra popoli vicini, siidentificò poichè quello dei Romani fu, nelle parti es-senziali, adottato nell'Etruria.

4 Il calendario italico e il tempo pre-ellenico. Nellostesso modo, col volger del tempo fu ridotto sottol'influenza greca, dopo aver cominciato a svilupparsi in-dipendentemente, il calendario romano. Nella divisionedel tempo ciò che all'uomo si impone prima di tutto è ilsorgere e il tramontare del sole, il novilunio e il plenilu-nio; quindi il giorno ed il mese, non già in forza d'uncalcolo ciclico, ma per immediata osservazione, hannoesclusivamente servito a misurare il tempo.

Dal pubblico banditore si annunziava, sino agli ultimitempi, nel foro romano la levata e il tramonto del soleed è probabile che una volta fossero dai sacerdoti pro-clamati nello stesso modo ognuno dei quattro giorni del-le fasi lunari. Si contava per conseguenza nel Lazio, econ molta verosimiglianza non solo presso i Sabelli maanche presso gli Etruschi, per giorni, che si numerava-no, come fu già detto, non dall'ultimo giorno della fase,ma dal primo prossimo regressivamente; per settimanelunari, che, vista la media durata di sette giorni e tre ot-tavi, si alternavano tra quelle di sette e quelle di ottogiorni; ed a mesi lunari, che, badando alla durata mediadel mese di 29 giorni 12 ore e 44 minuti, erano ora digiorni 29 ora di 30. Pel corso di molti anni la più brevedivisione del tempo fu per gli Italici il giorno, la più lun-

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modo almeno il segno pel numero 100. Più tardi il siste-ma dei numeri, come suol avvenire tra popoli vicini, siidentificò poichè quello dei Romani fu, nelle parti es-senziali, adottato nell'Etruria.

4 Il calendario italico e il tempo pre-ellenico. Nellostesso modo, col volger del tempo fu ridotto sottol'influenza greca, dopo aver cominciato a svilupparsi in-dipendentemente, il calendario romano. Nella divisionedel tempo ciò che all'uomo si impone prima di tutto è ilsorgere e il tramontare del sole, il novilunio e il plenilu-nio; quindi il giorno ed il mese, non già in forza d'uncalcolo ciclico, ma per immediata osservazione, hannoesclusivamente servito a misurare il tempo.

Dal pubblico banditore si annunziava, sino agli ultimitempi, nel foro romano la levata e il tramonto del soleed è probabile che una volta fossero dai sacerdoti pro-clamati nello stesso modo ognuno dei quattro giorni del-le fasi lunari. Si contava per conseguenza nel Lazio, econ molta verosimiglianza non solo presso i Sabelli maanche presso gli Etruschi, per giorni, che si numerava-no, come fu già detto, non dall'ultimo giorno della fase,ma dal primo prossimo regressivamente; per settimanelunari, che, vista la media durata di sette giorni e tre ot-tavi, si alternavano tra quelle di sette e quelle di ottogiorni; ed a mesi lunari, che, badando alla durata mediadel mese di 29 giorni 12 ore e 44 minuti, erano ora digiorni 29 ora di 30. Pel corso di molti anni la più brevedivisione del tempo fu per gli Italici il giorno, la più lun-

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ga il mese, o giro lunare. Solo più tardi si cominciò a di-videre il giorno e la notte ciascuno in quattro parti, e piùtardi ancora si usò la divisione delle ore. Concorda conciò il fatto che persino le schiatte più affini variano nellostabilire il momento in cui ha principio la giornata, e difatti per i Romani incomincia a mezzanotte, e per i Sa-belli e gli Etruschi a mezzodì. Si crede che, quando lestirpi greche si separarono dalle italiche, anche l'annonon avesse ancora una divisione e un ordinamento stabi-le, perchè la denominazione dell'anno e delle sue partihanno forma affatto diversa presso gli uni e presso glialtri. Poichè pare che gli Italici, già nel tempo preelleni-co, abbiano proceduto se non ad uno stabile ordinamen-to del calendario, alla disposizione di una doppia e mag-giore unità di tempo. La semplificazione del calcolo se-condo i mesi lunari coll'applicazione del sistema deci-male in uso presso i Romani, l'indicazione di un terminedi dieci mesi come quella d'un anello (annus) o d'unanno intero sono indizi della più remota antichità. Piùtardi, ma egualmente in un'epoca assai remota, e ante-riore all'influenza greca, fu, come abbiamo già detto,sviluppato in Italia il sistema duodecimale, ed essendoderivato appunto questo sistema dall'osservazione delgiro del sole che era di dodici volte quello della luna,esso fu senza dubbio tosto applicato alla misura del tem-po, e a conferma di ciò concorre l'osservazione, che inomi propri dei mesi che possono aver presa forma solodacchè il mese fu considerato come parte d'un anno so-lare, e specialmente i nomi di marzo e di maggio, si ac-

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ga il mese, o giro lunare. Solo più tardi si cominciò a di-videre il giorno e la notte ciascuno in quattro parti, e piùtardi ancora si usò la divisione delle ore. Concorda conciò il fatto che persino le schiatte più affini variano nellostabilire il momento in cui ha principio la giornata, e difatti per i Romani incomincia a mezzanotte, e per i Sa-belli e gli Etruschi a mezzodì. Si crede che, quando lestirpi greche si separarono dalle italiche, anche l'annonon avesse ancora una divisione e un ordinamento stabi-le, perchè la denominazione dell'anno e delle sue partihanno forma affatto diversa presso gli uni e presso glialtri. Poichè pare che gli Italici, già nel tempo preelleni-co, abbiano proceduto se non ad uno stabile ordinamen-to del calendario, alla disposizione di una doppia e mag-giore unità di tempo. La semplificazione del calcolo se-condo i mesi lunari coll'applicazione del sistema deci-male in uso presso i Romani, l'indicazione di un terminedi dieci mesi come quella d'un anello (annus) o d'unanno intero sono indizi della più remota antichità. Piùtardi, ma egualmente in un'epoca assai remota, e ante-riore all'influenza greca, fu, come abbiamo già detto,sviluppato in Italia il sistema duodecimale, ed essendoderivato appunto questo sistema dall'osservazione delgiro del sole che era di dodici volte quello della luna,esso fu senza dubbio tosto applicato alla misura del tem-po, e a conferma di ciò concorre l'osservazione, che inomi propri dei mesi che possono aver presa forma solodacchè il mese fu considerato come parte d'un anno so-lare, e specialmente i nomi di marzo e di maggio, si ac-

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cordarono fra loro nell'uso e nelle lingue gli Italici tutti,mentre non si trova alcuna rispondenza tra essi e i nomidei mesi greci.

Il problema di stabilire un calendario pratico corri-spondente nello stesso tempo alla luna ed al sole – com-pito in un certo senso paragonabile a quello della qua-dratura del circolo, cui occorsero parecchi secoli per es-sere riconosciuto insolubile – deve aver occupato lementi in Italia anche prima dell'inizio delle relazioni coiGreci; ma di questi tentativi prettamente italici non è ri-masta alcuna traccia.

Tutto ciò che sappiamo del più antico calendario diRoma e di alcune altre città latine, poichè nulla dice latradizione della misura del tempo presso i Sabelli e gliEtruschi, si fonda decisamente sul più antico sistemagreco, che seguiva nello stesso tempo le fasi lunari e lestagioni solari, ammettendo un'evoluzione lunare entro29 giorni e mezzo, quella solare entro dodici mesi emezzo lunari ossia 368 giorni e tre quarti ed il continuoalternare dei mesi pieni, ossia da trenta giorni, e degliscemi, ossia da giorni ventinove, come pure sugli annidi dodici e tredici mesi tenuto nello stesso tempo inqualche armonia colle effettive apparizioni celesti e ri-correndo ad arbitrarie inclusioni ed esclusioni.

È possibile che questo ordinamento greco dell'annosia stato adottato presso i Latini dapprima senza varian-ti; ma la più antica forma dell'anno romano, che si puòriconoscere storicamente, si scosta dal suo modello nongià nel suo risultato ciclico e nemmeno nell'alternare de-

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cordarono fra loro nell'uso e nelle lingue gli Italici tutti,mentre non si trova alcuna rispondenza tra essi e i nomidei mesi greci.

Il problema di stabilire un calendario pratico corri-spondente nello stesso tempo alla luna ed al sole – com-pito in un certo senso paragonabile a quello della qua-dratura del circolo, cui occorsero parecchi secoli per es-sere riconosciuto insolubile – deve aver occupato lementi in Italia anche prima dell'inizio delle relazioni coiGreci; ma di questi tentativi prettamente italici non è ri-masta alcuna traccia.

Tutto ciò che sappiamo del più antico calendario diRoma e di alcune altre città latine, poichè nulla dice latradizione della misura del tempo presso i Sabelli e gliEtruschi, si fonda decisamente sul più antico sistemagreco, che seguiva nello stesso tempo le fasi lunari e lestagioni solari, ammettendo un'evoluzione lunare entro29 giorni e mezzo, quella solare entro dodici mesi emezzo lunari ossia 368 giorni e tre quarti ed il continuoalternare dei mesi pieni, ossia da trenta giorni, e degliscemi, ossia da giorni ventinove, come pure sugli annidi dodici e tredici mesi tenuto nello stesso tempo inqualche armonia colle effettive apparizioni celesti e ri-correndo ad arbitrarie inclusioni ed esclusioni.

È possibile che questo ordinamento greco dell'annosia stato adottato presso i Latini dapprima senza varian-ti; ma la più antica forma dell'anno romano, che si puòriconoscere storicamente, si scosta dal suo modello nongià nel suo risultato ciclico e nemmeno nell'alternare de-

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gli anni di dodici e di tredici mesi, ma alla denominazio-ne e nella misura dei singoli mesi.

L’anno dei Romani incomincia colla primavera; il suoprimo mese, e l'unico che trae il nome da una divinità, sichiama Martius da Marte, i tre seguenti desumono inomi dal germinare, Aprilis, dal crescere, Maius, e dalprosperare, Junius; dal quinto al decimo, secondo l'ordi-ne numerico: quinctilis, sextilis, september, october, no-vember, december, l'undecimo porta il nome del princi-pio, januarius, alludente forse al ricominciamento deilavori campestri dopo il riposo generale, il duodecimo, enell'anno comune l'ultimo, dal purificare februarius. Aquesta serie, che ritorna incessantemente, si unisce perl'anno bisestile un altro mese senza nome, mercedonius,mese dei lavoratori, che succedeva al mese di febbraio.

Il calendario romano è originale tanto per riguardo ainomi dei mesi, tratti, a quanto pare, dagli antichi nominazionali, quanto per la sua durata: per i quattro anni delciclo greco ciascuno composto di sei mesi da trentagiorni e di sei da giorni ventinove, e d'un mese bisestilealternante ogni secondo anno in trenta e ventinove gior-ni (354+384+354+383 = 1475 giorni) furono posti nelcalendario latino quattro anni, ciascuno composto diquattro mesi – il primo, il terzo, il quinto e l'ottavo – dagiorni trentuno, da sette mesi di ventinove giorni, ed ilmese di febbraio, che nei primi tre anni contava ventottoe nel quarto anno ventinove giorni, più un mese bisestileogni secondo anno con giorni ventisette(355+383+355+382 = 1475 giorni). Questo calendario

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gli anni di dodici e di tredici mesi, ma alla denominazio-ne e nella misura dei singoli mesi.

L’anno dei Romani incomincia colla primavera; il suoprimo mese, e l'unico che trae il nome da una divinità, sichiama Martius da Marte, i tre seguenti desumono inomi dal germinare, Aprilis, dal crescere, Maius, e dalprosperare, Junius; dal quinto al decimo, secondo l'ordi-ne numerico: quinctilis, sextilis, september, october, no-vember, december, l'undecimo porta il nome del princi-pio, januarius, alludente forse al ricominciamento deilavori campestri dopo il riposo generale, il duodecimo, enell'anno comune l'ultimo, dal purificare februarius. Aquesta serie, che ritorna incessantemente, si unisce perl'anno bisestile un altro mese senza nome, mercedonius,mese dei lavoratori, che succedeva al mese di febbraio.

Il calendario romano è originale tanto per riguardo ainomi dei mesi, tratti, a quanto pare, dagli antichi nominazionali, quanto per la sua durata: per i quattro anni delciclo greco ciascuno composto di sei mesi da trentagiorni e di sei da giorni ventinove, e d'un mese bisestilealternante ogni secondo anno in trenta e ventinove gior-ni (354+384+354+383 = 1475 giorni) furono posti nelcalendario latino quattro anni, ciascuno composto diquattro mesi – il primo, il terzo, il quinto e l'ottavo – dagiorni trentuno, da sette mesi di ventinove giorni, ed ilmese di febbraio, che nei primi tre anni contava ventottoe nel quarto anno ventinove giorni, più un mese bisestileogni secondo anno con giorni ventisette(355+383+355+382 = 1475 giorni). Questo calendario

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si scosta egualmente dall'originaria divisione del mesein quattro settimane ora da sette, ora da otto giorni; posequindi una volta per sempre il primo quarto lunare neimesi da giorni trentuno, nel settimo giorno, in quelli dagiorni ventinove, nel quinto; nei primi il plenilunio nelgiorno quindicesimo, nel tredicesimo in questi; così chela seconda e la quarta settimana del mese furono di ottogiorni, la terza di nove; solo nel febbraio di giorni ven-totto, erano di giorni otto, nel mese bisestile da giorniventotto di giorni sette; la prima nel mese di trentungiorni era di giorni sei, le altre di giorni quattro. Consi-derata quindi la decorrenza essenzialmente eguale delletre ultime settimane del mese non occorreva se non diproclamare di volta in volta la lunghezza della primasettimana; da simile proclamazione ebbe il primo giornodella prima settimana il nome di giorno delle grida (Ka-lendae). I primi giorni delle seconde e delle quarte setti-mane tutte da otto giorni – comprendendovi secondo ilcostume romano il giorno che finisce il periodo – furonochiamati none (novene) (nonae, nundinae), mentre ilprimo giorno della terza settimana conservò il vecchionome di idus (forse giorno di divisione). La causa diquesta forma singolare del nuovo calendario pare debbaricercarsi specialmente nella credenza della forza propi-zia dei numeri dispari103. Dove poi ha riscontro nell'anti-

103 Per lo stesso motivo tutti i giorni festivi sono dispari, tantoquelli ritornanti ogni mese (Kalendae al primo, nonae al cinque osette, idus al tredici o quindici), come anche, con sole due ecce-zioni, le già menzionate quarantacinque feste annuali. Anzi nelle

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si scosta egualmente dall'originaria divisione del mesein quattro settimane ora da sette, ora da otto giorni; posequindi una volta per sempre il primo quarto lunare neimesi da giorni trentuno, nel settimo giorno, in quelli dagiorni ventinove, nel quinto; nei primi il plenilunio nelgiorno quindicesimo, nel tredicesimo in questi; così chela seconda e la quarta settimana del mese furono di ottogiorni, la terza di nove; solo nel febbraio di giorni ven-totto, erano di giorni otto, nel mese bisestile da giorniventotto di giorni sette; la prima nel mese di trentungiorni era di giorni sei, le altre di giorni quattro. Consi-derata quindi la decorrenza essenzialmente eguale delletre ultime settimane del mese non occorreva se non diproclamare di volta in volta la lunghezza della primasettimana; da simile proclamazione ebbe il primo giornodella prima settimana il nome di giorno delle grida (Ka-lendae). I primi giorni delle seconde e delle quarte setti-mane tutte da otto giorni – comprendendovi secondo ilcostume romano il giorno che finisce il periodo – furonochiamati none (novene) (nonae, nundinae), mentre ilprimo giorno della terza settimana conservò il vecchionome di idus (forse giorno di divisione). La causa diquesta forma singolare del nuovo calendario pare debbaricercarsi specialmente nella credenza della forza propi-zia dei numeri dispari103. Dove poi ha riscontro nell'anti-

103 Per lo stesso motivo tutti i giorni festivi sono dispari, tantoquelli ritornanti ogni mese (Kalendae al primo, nonae al cinque osette, idus al tredici o quindici), come anche, con sole due ecce-zioni, le già menzionate quarantacinque feste annuali. Anzi nelle

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chissima forma dell'anno greco, apparisce nei punti dideviazione una innegabile influenza della dottrina di Pi-tagora, che di quei tempi era in gran voga nella bassaItalia e particolarmente nella mistica combinazione deinumeri. Avvenne quindi che questo calendario romano,per quanto paia sforzarsi di mantenersi in accordo tantocolle evoluzioni lunari quanto colle solari, nel fatto nonconcordava assolutamente colle fasi lunari, vantaggioraggiunto pienamente dal suo modello greco, e non po-teva nemmeno seguire le stagioni solari se non con lostesso artifizio che usavasi nel più antico calendario gre-co, col mezzo cioè di frequenti arbitrarie esclusioni, arti-ficio, che avrà avuto un esito assai incompiuto, se vo-gliam credere, come a ragione deve credersi, che il ca-lendario sia stato regolato e mantenuto con senno nonmaggiore di quello con cui era stato ordinato. Dalla con-servazione del calcolo a mesi, o, ciò che vale lo stesso, aanni da dieci mesi, si può dedurre una tacita confessio-ne, che però non vuol essere esagerata, della irregolaritàe imperfezione del più antico anno solare romano.

Questo calendario potrà in grazia del suo schema fon-damentale essere considerato, per lo meno nelle lineegenerali, come latino. Nella generale mutabilità delprincipio dell'anno e dei nomi dei mesi, le piccole di-gressioni nei numeri ordinali e nelle denominazioni

feste che hanno la durata di più giorni, si tralasciano addirittura igiorni pari, così la festa dei boschi di Carmenta si celebra l'11 e15 gennaio, [Lucaria] il 19 e il 21 luglio, la festa degli spettri il 9,11 e 13 di maggio.

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chissima forma dell'anno greco, apparisce nei punti dideviazione una innegabile influenza della dottrina di Pi-tagora, che di quei tempi era in gran voga nella bassaItalia e particolarmente nella mistica combinazione deinumeri. Avvenne quindi che questo calendario romano,per quanto paia sforzarsi di mantenersi in accordo tantocolle evoluzioni lunari quanto colle solari, nel fatto nonconcordava assolutamente colle fasi lunari, vantaggioraggiunto pienamente dal suo modello greco, e non po-teva nemmeno seguire le stagioni solari se non con lostesso artifizio che usavasi nel più antico calendario gre-co, col mezzo cioè di frequenti arbitrarie esclusioni, arti-ficio, che avrà avuto un esito assai incompiuto, se vo-gliam credere, come a ragione deve credersi, che il ca-lendario sia stato regolato e mantenuto con senno nonmaggiore di quello con cui era stato ordinato. Dalla con-servazione del calcolo a mesi, o, ciò che vale lo stesso, aanni da dieci mesi, si può dedurre una tacita confessio-ne, che però non vuol essere esagerata, della irregolaritàe imperfezione del più antico anno solare romano.

Questo calendario potrà in grazia del suo schema fon-damentale essere considerato, per lo meno nelle lineegenerali, come latino. Nella generale mutabilità delprincipio dell'anno e dei nomi dei mesi, le piccole di-gressioni nei numeri ordinali e nelle denominazioni

feste che hanno la durata di più giorni, si tralasciano addirittura igiorni pari, così la festa dei boschi di Carmenta si celebra l'11 e15 gennaio, [Lucaria] il 19 e il 21 luglio, la festa degli spettri il 9,11 e 13 di maggio.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

sono conciliabili coll'ammissione di un piano fonda-mentale, e così potevano i Latini con quel modello dicalendario, che si scosta di fatto intieramente dall'evolu-zione lunare, facilmente pervenire alle loro arbitrarielunghezze mensuali, limitate forse da feste annuali allostesso modo che nel calendario albano i mesi fluttuanotra i sedici e i trentasei giorni. È quindi verosimile, chela greca Trieteris sia per tempo pervenuta dall'Italia me-ridionale al Lazio e fors'anche presso altre tribù italiche,e che abbia quindi subìti altri cambiamenti incidentalinei singoli calendari. Per misurare epoche che abbrac-ciassero parecchi anni ci si poteva servire con sicurezzadegli anni di regno dei re; ma è dubbio se questo uso dicalcolare il tempo, comune in oriente, sia stato introdot-to in Grecia ed in Italia fin dai tempi antichi. Pel qua-driennale periodo bisestile, che segnava il ritorno dellerinnovazioni del censimento e della purificazione delcomune, pare che si usasse la numerazione per olimpia-di. Se non che questa numerazione perdette ben prestola sua importanza cronologica pel fatto della irregolaritàintrodottavisi nella revisione del censo.

5 Alfabeti ellenici in Italia. Più recente dell'artedel misurare è l'arte della scrittura fonetica. Nè gli Italicinè gli Elleni l'hanno inventata, benchè nei numeri italicie forse anche nell'antichissimo uso italico, non derivatoda influenza ellenica, del gettare le sorti con tavolette dilegno, possono essere riscontrati i principii della scrittu-ra. Quanto sia stata difficile la prima individualizzazio-

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sono conciliabili coll'ammissione di un piano fonda-mentale, e così potevano i Latini con quel modello dicalendario, che si scosta di fatto intieramente dall'evolu-zione lunare, facilmente pervenire alle loro arbitrarielunghezze mensuali, limitate forse da feste annuali allostesso modo che nel calendario albano i mesi fluttuanotra i sedici e i trentasei giorni. È quindi verosimile, chela greca Trieteris sia per tempo pervenuta dall'Italia me-ridionale al Lazio e fors'anche presso altre tribù italiche,e che abbia quindi subìti altri cambiamenti incidentalinei singoli calendari. Per misurare epoche che abbrac-ciassero parecchi anni ci si poteva servire con sicurezzadegli anni di regno dei re; ma è dubbio se questo uso dicalcolare il tempo, comune in oriente, sia stato introdot-to in Grecia ed in Italia fin dai tempi antichi. Pel qua-driennale periodo bisestile, che segnava il ritorno dellerinnovazioni del censimento e della purificazione delcomune, pare che si usasse la numerazione per olimpia-di. Se non che questa numerazione perdette ben prestola sua importanza cronologica pel fatto della irregolaritàintrodottavisi nella revisione del censo.

5 Alfabeti ellenici in Italia. Più recente dell'artedel misurare è l'arte della scrittura fonetica. Nè gli Italicinè gli Elleni l'hanno inventata, benchè nei numeri italicie forse anche nell'antichissimo uso italico, non derivatoda influenza ellenica, del gettare le sorti con tavolette dilegno, possono essere riscontrati i principii della scrittu-ra. Quanto sia stata difficile la prima individualizzazio-

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ne dei suoni, che si presentavano così variamente com-binati, lo prova ad evidenza il fatto, che per tutta la ci-viltà aramea, indiana, greco-romana e per l'odierna, ba-stò un unico alfabeto, trasmesso da popolo a popolo, daschiatta a schiatta, e che basta tuttora; ed anche questoimportantissimo trovato dello spirito umano è una crea-zione, a cui concorsero tanto gli Aramei quanto gliIndo-germanici.

La lingua radicale semitica, in cui le vocali hanno unanatura incerta e secondaria, e in cui nessuna parola puòincominciare per vocale, facilita appunto per questol'individuazione delle consonanti; ond'è che il genio se-mitico trovò primamente l'alfabeto, ma all'alfabeto se-mitico mancavano ancora le vocali. Solo gli Indiani ed iGreci, gli uni indipendentemente dagli altri, e in diffe-rentissimo modo, hanno creato sulla scrittura arameatutta di consonanti, loro pervenuta per mezzo del com-mercio, il compiuto alfabeto, aggiungendo quattro lette-re che erano presso i Greci inservibili segni di conso-nante per le quattro vocali a, e, i, o e per mezzo dellacreazione di un segno per la u, dunque mediante l'intro-duzione delle sillabe nella scheletrica scrittura di soleconsonanti, o come dice Palamede in Euripide: «Avendoio solo ordinato le mute e le vocali, rimedio controall'oblio, ed avendo stabilito le sillabe, insegnai agli uo-mini la scienza dello scrivere».

Quest'alfabeto arameo-ellenico fu portato agli Italiciin tempi certo remotissimi, non già per mezzo delle co-lonie agricole della Magna Grecia, ma, forse, per mezzo

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ne dei suoni, che si presentavano così variamente com-binati, lo prova ad evidenza il fatto, che per tutta la ci-viltà aramea, indiana, greco-romana e per l'odierna, ba-stò un unico alfabeto, trasmesso da popolo a popolo, daschiatta a schiatta, e che basta tuttora; ed anche questoimportantissimo trovato dello spirito umano è una crea-zione, a cui concorsero tanto gli Aramei quanto gliIndo-germanici.

La lingua radicale semitica, in cui le vocali hanno unanatura incerta e secondaria, e in cui nessuna parola puòincominciare per vocale, facilita appunto per questol'individuazione delle consonanti; ond'è che il genio se-mitico trovò primamente l'alfabeto, ma all'alfabeto se-mitico mancavano ancora le vocali. Solo gli Indiani ed iGreci, gli uni indipendentemente dagli altri, e in diffe-rentissimo modo, hanno creato sulla scrittura arameatutta di consonanti, loro pervenuta per mezzo del com-mercio, il compiuto alfabeto, aggiungendo quattro lette-re che erano presso i Greci inservibili segni di conso-nante per le quattro vocali a, e, i, o e per mezzo dellacreazione di un segno per la u, dunque mediante l'intro-duzione delle sillabe nella scheletrica scrittura di soleconsonanti, o come dice Palamede in Euripide: «Avendoio solo ordinato le mute e le vocali, rimedio controall'oblio, ed avendo stabilito le sillabe, insegnai agli uo-mini la scienza dello scrivere».

Quest'alfabeto arameo-ellenico fu portato agli Italiciin tempi certo remotissimi, non già per mezzo delle co-lonie agricole della Magna Grecia, ma, forse, per mezzo

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dei mercanti di Cuma e di Taranto: però, dopo ch'essoaveva già raggiunto in Grecia un notevole grado di per-fezione, e che vi si erano introdotte parecchie riforme,principalmente l'aggiunta delle tre lettere nuove ξ, φ, χ ela variazione dei segni ι, γ, λ104.

Si è già notato che l'alfabeto etrusco ed il latino nonderivano l'uno dall'altro ma che entrambi sono derivati

104 La storia dell'alfabeto degli Elleni consiste specialmentein ciò, che, riguardo all'alfabeto originario di ventitrè lettere, cioèquello fenicio vocalizzato e aumentato della u, furono fatte le piùvarie proposte per il complemento e miglioramento di esso, e checiascuna di queste proposte ha la sua propria storia. Le più impor-tanti di queste proposte, che è utile conoscere anche per la storiadella scrittura italica, sono le seguenti:

1° Introduzione di singoli segni per i suoni ξ, φ, χ. Questa pro-posta è così antica che tutti gli alfabeti greci e in generale tuttiquelli derivati dal greco con unica eccezione di quelli delle isoleThera, Melos e Creta, stanno sotto la sua influenza. Sulle primeessa aggiunse i segni χ = ξῖ, φ = Φι, ψ = γι al fine dell'alfabeto, ein questa forma essa fu accetta sul continente dell'Ellade ad ecce-zione di Atene e Corinto, e così pure presso i Greci siciliani editalici. Invece i Greci dell'Asia minore e quelli delle isoledell'arcipelago e, sul continente, i Corinzii, sembrano aver giàavuto in uso per il suono ξῖ, il quindicesimo segno dell'alfabetofenicio (Samech Ξ) quando a loro giunse quella proposta; quindidei tre nuovi segni essi adoperarono bene il Φ anche per φῖ, manon il χ per ξῖ, ma per χῖ. Il terzo segno originariamente inventa-to per χι lo si lasciava ordinariamente cadere, solo nel continentedell'Asia minore lo si mantenne, ma gli fu dato il valore di ψι.Anche Atene seguì la scrittura dell'Asia minore, soltanto che nonaccettò il φι, nè il ξῖ, ma si scrissero invece come prima le conso-

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dei mercanti di Cuma e di Taranto: però, dopo ch'essoaveva già raggiunto in Grecia un notevole grado di per-fezione, e che vi si erano introdotte parecchie riforme,principalmente l'aggiunta delle tre lettere nuove ξ, φ, χ ela variazione dei segni ι, γ, λ104.

Si è già notato che l'alfabeto etrusco ed il latino nonderivano l'uno dall'altro ma che entrambi sono derivati

104 La storia dell'alfabeto degli Elleni consiste specialmentein ciò, che, riguardo all'alfabeto originario di ventitrè lettere, cioèquello fenicio vocalizzato e aumentato della u, furono fatte le piùvarie proposte per il complemento e miglioramento di esso, e checiascuna di queste proposte ha la sua propria storia. Le più impor-tanti di queste proposte, che è utile conoscere anche per la storiadella scrittura italica, sono le seguenti:

1° Introduzione di singoli segni per i suoni ξ, φ, χ. Questa pro-posta è così antica che tutti gli alfabeti greci e in generale tuttiquelli derivati dal greco con unica eccezione di quelli delle isoleThera, Melos e Creta, stanno sotto la sua influenza. Sulle primeessa aggiunse i segni χ = ξῖ, φ = Φι, ψ = γι al fine dell'alfabeto, ein questa forma essa fu accetta sul continente dell'Ellade ad ecce-zione di Atene e Corinto, e così pure presso i Greci siciliani editalici. Invece i Greci dell'Asia minore e quelli delle isoledell'arcipelago e, sul continente, i Corinzii, sembrano aver giàavuto in uso per il suono ξῖ, il quindicesimo segno dell'alfabetofenicio (Samech Ξ) quando a loro giunse quella proposta; quindidei tre nuovi segni essi adoperarono bene il Φ anche per φῖ, manon il χ per ξῖ, ma per χῖ. Il terzo segno originariamente inventa-to per χι lo si lasciava ordinariamente cadere, solo nel continentedell'Asia minore lo si mantenne, ma gli fu dato il valore di ψι.Anche Atene seguì la scrittura dell'Asia minore, soltanto che nonaccettò il φι, nè il ξῖ, ma si scrissero invece come prima le conso-

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dal greco e giunsero ai due popoli in forme diverse: inEtruria colla doppia s (signa s san sch) e colla k sempli-ce105 e dell'r solo la più antica forma P; il secondo nelLazio colla s semplice e colla k doppia (kappa k koppaq) e della r solo la più recente forma R. La più anticascrittura etrusca non conosce ancora la riga e si contorce

nanti doppie.2° Ugualmente di buon'ora si sforzarono d'impedire il facile

scambio delle forme per i spezzato ed s Σ; poichè tutti gli alfabetigreci che conosciamo portano le tracce della tendenza a distin-guere sempre più nettamente i due segni. Ma già in antichissimaepoca devono essere state fatte due proposte di modificazione,ciascuna delle quali trovò la propria zona di diffusione: O si ado-però per la sibilante (per la quale l'alfabeto fenicio aveva due se-gni, il quattordicesimo M per sch e il diciottesimo Σ per s), il se-gno M invece del segno Σ (così si scrisse nel tempo più anticosulle isole orientali in Corinto e Corcira e presso gli Achei italici)o si sostituì il segno dell'i mediante la linea /, ciò che divennemolto più comune e, in tempi non molto antichi si generalizzòtanto che l'i spezzato scomparve dappertutto, benchè i singoli co-muni mantenessero l's nella forma di M anche presso l'i spezzato.

3° Più recente è la sostituzione del λΓ facile a scambiarsi conΓγ per mezzo del segno ν che incontriamo in Atene e Beozia,mentre Corinto e i comuni dipendenti da Corinto raggiunsero lostesso scopo dando al γ la forma semicircolare C invece della for-ma uncinata.

4° Lo scambio, pure molto facile, delle forme p P ed r P fu evi-tato dalla trasformazione del secondo in R, la quale forma più re-cente rimase straniera solo ai Greci dell'Asia minore, ai Cretesi,agli Achei italici, ed a poche altre regioni, ed è invece prevalentenella Magna Grecia e in Sicilia. Pure la più antica forma dell'r Pnon è scomparsa qui così presto e così compiutamente come la

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dal greco e giunsero ai due popoli in forme diverse: inEtruria colla doppia s (signa s san sch) e colla k sempli-ce105 e dell'r solo la più antica forma P; il secondo nelLazio colla s semplice e colla k doppia (kappa k koppaq) e della r solo la più recente forma R. La più anticascrittura etrusca non conosce ancora la riga e si contorce

nanti doppie.2° Ugualmente di buon'ora si sforzarono d'impedire il facile

scambio delle forme per i spezzato ed s Σ; poichè tutti gli alfabetigreci che conosciamo portano le tracce della tendenza a distin-guere sempre più nettamente i due segni. Ma già in antichissimaepoca devono essere state fatte due proposte di modificazione,ciascuna delle quali trovò la propria zona di diffusione: O si ado-però per la sibilante (per la quale l'alfabeto fenicio aveva due se-gni, il quattordicesimo M per sch e il diciottesimo Σ per s), il se-gno M invece del segno Σ (così si scrisse nel tempo più anticosulle isole orientali in Corinto e Corcira e presso gli Achei italici)o si sostituì il segno dell'i mediante la linea /, ciò che divennemolto più comune e, in tempi non molto antichi si generalizzòtanto che l'i spezzato scomparve dappertutto, benchè i singoli co-muni mantenessero l's nella forma di M anche presso l'i spezzato.

3° Più recente è la sostituzione del λΓ facile a scambiarsi conΓγ per mezzo del segno ν che incontriamo in Atene e Beozia,mentre Corinto e i comuni dipendenti da Corinto raggiunsero lostesso scopo dando al γ la forma semicircolare C invece della for-ma uncinata.

4° Lo scambio, pure molto facile, delle forme p P ed r P fu evi-tato dalla trasformazione del secondo in R, la quale forma più re-cente rimase straniera solo ai Greci dell'Asia minore, ai Cretesi,agli Achei italici, ed a poche altre regioni, ed è invece prevalentenella Magna Grecia e in Sicilia. Pure la più antica forma dell'r Pnon è scomparsa qui così presto e così compiutamente come la

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come a spira di serpe; la più moderna in linee parallelecominciando dalla diritta verso la sinistra; i Romani vi-ceversa – fin dove giungono i nostri monumenti – scri-vono egualmente in linee parallele, indifferentementedalla sinistra verso la diritta o viceversa e più tardi,presso i Romani si tenne il primo uso, e presso i Falisci,

più antica forma dell'l; quindi questa innovazione vi ebbe luogocertamente più tardi.

La differenziazione dell'e lungo e breve e dell'o lungo e brevefu limitata, nei tempi più antichi, ai Greci dell'Asia minore, e aquelli delle isole del mare Egeo. Tutti questi miglioramenti tecni-ci sono in un certo modo di egual natura e di eguale valore stori-co, giacchè ciascuno di essi è sorto in un determinato tempo e inun determinato luogo, e ciascuno ha preso la sua propria via didiffusione e il suo speciale sviluppo. L'eccellente indagine diKIRCHOFF, Studi per la storia dell'alfabeto greco, la quale ha getta-to una chiara luce sulla storia fino allora così oscura dell'alfabetoellenico, ed ha pure stabilito alcuni dati essenziali per le più anti-che relazioni fra gli Elleni e gli Italici, determinando in modo in-confutabile la patria, fino allora incerta, dell'alfabeto etrusco, èpure in un certo modo unilaterale in quanto che dà troppo peso aduna di queste proposte. Se qui dovessimo separare i sistemi, nondovremmo dividere gli alfabeti secondo il valore dell'X come ξoppure come χ in due classi, ma si dovrebbe distinguere un alfa-beto di ventitrè e uno di venticinque o ventisei lettere, e forse inquest'ultimo anche l'anatolico-jonico, dal quale è sorto più tardil'alfabeto comune, e il greco volgare del tempo più antico. Piutto-sto nell'alfabeto le singole regioni si sono mantenute di fronte allevarie proposte di modificazione, sempre essenzialmente ecletti-che, e l'una proposta fu accolta qui e l'altra là.

Nello stesso modo la storia dell'alfabeto greco è ricca d'inse-gnamento poichè mostra come, nei mestieri e nell'arte, alcuni

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come a spira di serpe; la più moderna in linee parallelecominciando dalla diritta verso la sinistra; i Romani vi-ceversa – fin dove giungono i nostri monumenti – scri-vono egualmente in linee parallele, indifferentementedalla sinistra verso la diritta o viceversa e più tardi,presso i Romani si tenne il primo uso, e presso i Falisci,

più antica forma dell'l; quindi questa innovazione vi ebbe luogocertamente più tardi.

La differenziazione dell'e lungo e breve e dell'o lungo e brevefu limitata, nei tempi più antichi, ai Greci dell'Asia minore, e aquelli delle isole del mare Egeo. Tutti questi miglioramenti tecni-ci sono in un certo modo di egual natura e di eguale valore stori-co, giacchè ciascuno di essi è sorto in un determinato tempo e inun determinato luogo, e ciascuno ha preso la sua propria via didiffusione e il suo speciale sviluppo. L'eccellente indagine diKIRCHOFF, Studi per la storia dell'alfabeto greco, la quale ha getta-to una chiara luce sulla storia fino allora così oscura dell'alfabetoellenico, ed ha pure stabilito alcuni dati essenziali per le più anti-che relazioni fra gli Elleni e gli Italici, determinando in modo in-confutabile la patria, fino allora incerta, dell'alfabeto etrusco, èpure in un certo modo unilaterale in quanto che dà troppo peso aduna di queste proposte. Se qui dovessimo separare i sistemi, nondovremmo dividere gli alfabeti secondo il valore dell'X come ξoppure come χ in due classi, ma si dovrebbe distinguere un alfa-beto di ventitrè e uno di venticinque o ventisei lettere, e forse inquest'ultimo anche l'anatolico-jonico, dal quale è sorto più tardil'alfabeto comune, e il greco volgare del tempo più antico. Piutto-sto nell'alfabeto le singole regioni si sono mantenute di fronte allevarie proposte di modificazione, sempre essenzialmente ecletti-che, e l'una proposta fu accolta qui e l'altra là.

Nello stesso modo la storia dell'alfabeto greco è ricca d'inse-gnamento poichè mostra come, nei mestieri e nell'arte, alcuni

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il secondo. L'alfabeto modello, importato in Etruria,deve datare da un'epoca molto antica, benchè non sipossa con certezza determinare. Siccome le due sibilantisigma e san dagli Etruschi sono sempre state adoperateinsieme come suoni diversi, l'alfabeto greco pervenutoin Etruria deve aver posseduto questi due segni per due

gruppi delle regioni greche si scambiarono le innovazioni, mentrealtre non avevano fra loro simili rapporti. Per ciò che concerneparticolarmente l'Italia abbiamo già accennato al meravigliosocontrapposto delle città agricole achee verso le colonie piuttostomercantili calcidiche e doriche; in quelle si conservano assoluta-mente le forme primitive, in queste si accettano le forme miglio-rate, anche quelle che venendo da parti diverse si contraddiconoin certo modo come il C γ – presso al V l.

Gli alfabeti italici derivano, come il Kirchoff ha dimostrato,assolutamente dall'alfabeto dei Greci-italici, ed anzi dal calcidico-dorico; ma specialmente la diversa forma dell'r mette fuor di dub-bio che gli Etruschi e i Latini non ricevettero l'alfabeto gli uni da-gli altri, ma entrambi l'ebbero dai Greci. Poichè, mentre nellequattro già accennate modificazioni dell'alfabeto che riguardanospecialmente i Greco-italici, (la quinta fu limitata all'Asia mino-re), le tre prime erano già eseguite prima che l'alfabeto passasseagli Etruschi e ai Latini, e la differenziazione del p e dell'r nonaveva ancora avuto luogo quando esso giunse in Etruria, ma que-sta differenziazione era almeno già cominciata quando i Latini ri-cevettero l'alfabeto, per cui gli Etruschi non conoscono affatto laforma R per r, ma presso i Falisci ed i Latini, fatta eccezione peril vaso Dressel, si incontra sempre la forma più recente.

105 Non par dubbio che il koppa sia mancato sempre agliEtruschi, poichè non solo non s'incontra in nessun luogo una trac-cia sicura di esso, ma manca anche nell'alfabeto modello del vasogalassico. Il tentativo di trovarlo nel sillabario del medesimo è ad

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il secondo. L'alfabeto modello, importato in Etruria,deve datare da un'epoca molto antica, benchè non sipossa con certezza determinare. Siccome le due sibilantisigma e san dagli Etruschi sono sempre state adoperateinsieme come suoni diversi, l'alfabeto greco pervenutoin Etruria deve aver posseduto questi due segni per due

gruppi delle regioni greche si scambiarono le innovazioni, mentrealtre non avevano fra loro simili rapporti. Per ciò che concerneparticolarmente l'Italia abbiamo già accennato al meravigliosocontrapposto delle città agricole achee verso le colonie piuttostomercantili calcidiche e doriche; in quelle si conservano assoluta-mente le forme primitive, in queste si accettano le forme miglio-rate, anche quelle che venendo da parti diverse si contraddiconoin certo modo come il C γ – presso al V l.

Gli alfabeti italici derivano, come il Kirchoff ha dimostrato,assolutamente dall'alfabeto dei Greci-italici, ed anzi dal calcidico-dorico; ma specialmente la diversa forma dell'r mette fuor di dub-bio che gli Etruschi e i Latini non ricevettero l'alfabeto gli uni da-gli altri, ma entrambi l'ebbero dai Greci. Poichè, mentre nellequattro già accennate modificazioni dell'alfabeto che riguardanospecialmente i Greco-italici, (la quinta fu limitata all'Asia mino-re), le tre prime erano già eseguite prima che l'alfabeto passasseagli Etruschi e ai Latini, e la differenziazione del p e dell'r nonaveva ancora avuto luogo quando esso giunse in Etruria, ma que-sta differenziazione era almeno già cominciata quando i Latini ri-cevettero l'alfabeto, per cui gli Etruschi non conoscono affatto laforma R per r, ma presso i Falisci ed i Latini, fatta eccezione peril vaso Dressel, si incontra sempre la forma più recente.

105 Non par dubbio che il koppa sia mancato sempre agliEtruschi, poichè non solo non s'incontra in nessun luogo una trac-cia sicura di esso, ma manca anche nell'alfabeto modello del vasogalassico. Il tentativo di trovarlo nel sillabario del medesimo è ad

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suoni viventi. Tuttavia fra tutti i monumenti della linguagreca a noi noti, nessuno ci presenta l'uso simultaneo delsigma e del san.

L'alfabeto latino, come noi lo conosciamo, ha in ge-nerale un carattere più moderno; ma non è inverosimileche nel Lazio esso non sia stato introdotto ad un tratto ecompiuto come in Etruria, ma che i Latini, in conse-guenza dell'intenso loro traffico con i Greci vicini, simantenessero lungamente a livello dell'alfabeto ivi usa-to, e lo seguissero in tutte le sue varianti. Così noi tro-viamo ad esempio, che ai Romani non erano ignote leforme più antiche Σ e M P106, ma che nell'uso comune

ogni modo mancato, poichè esso non si occupa che dei segni etru-schi in uso anche più tardi, ai quali il koppa notoriamente non ap-partiene; d'altronde questo segno collocato alla fine non può ave-re, stante la sua posizione, altro valore che quello dell'f che è ap-punto l'ultimo dell'alfabeto etrusco e che non doveva mancare nelsillabario notante le deviazioni dell'alfabeto etrusco dal propriomodello. Veramente è strano che nell'alfabeto greco giunto inEtruria mancasse il koppa, mentre esistette a lungo nel calcidico-dorico, ma questa può essere stata una specialità locale di quellacittà, il cui alfabeto giunse primo in Etruria. In ogni tempo l'arbi-trio e il caso hanno stabilito se un segno, divenuto superfluo, ri-mane o si perde nell'alfabeto; così l'alfabeto attico ha perduto ildiciottesimo segno fenicio, mentre ha conservato gli altri segniscomparsi dalla scrittura.

106 La verga d'oro di Preneste (comunicazione dell'Istituto ro-mano 1887), il più antico dei documenti intelligibili della lingualatina e della scrittura latina, reca la più antica forma dell'm, el'enigmatico vaso di argilla del Quirinale (pubblicato dal Dresselnegli Annali dell'istituto, 1880), mostra la più antica forma dell'r.

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suoni viventi. Tuttavia fra tutti i monumenti della linguagreca a noi noti, nessuno ci presenta l'uso simultaneo delsigma e del san.

L'alfabeto latino, come noi lo conosciamo, ha in ge-nerale un carattere più moderno; ma non è inverosimileche nel Lazio esso non sia stato introdotto ad un tratto ecompiuto come in Etruria, ma che i Latini, in conse-guenza dell'intenso loro traffico con i Greci vicini, simantenessero lungamente a livello dell'alfabeto ivi usa-to, e lo seguissero in tutte le sue varianti. Così noi tro-viamo ad esempio, che ai Romani non erano ignote leforme più antiche Σ e M P106, ma che nell'uso comune

ogni modo mancato, poichè esso non si occupa che dei segni etru-schi in uso anche più tardi, ai quali il koppa notoriamente non ap-partiene; d'altronde questo segno collocato alla fine non può ave-re, stante la sua posizione, altro valore che quello dell'f che è ap-punto l'ultimo dell'alfabeto etrusco e che non doveva mancare nelsillabario notante le deviazioni dell'alfabeto etrusco dal propriomodello. Veramente è strano che nell'alfabeto greco giunto inEtruria mancasse il koppa, mentre esistette a lungo nel calcidico-dorico, ma questa può essere stata una specialità locale di quellacittà, il cui alfabeto giunse primo in Etruria. In ogni tempo l'arbi-trio e il caso hanno stabilito se un segno, divenuto superfluo, ri-mane o si perde nell'alfabeto; così l'alfabeto attico ha perduto ildiciottesimo segno fenicio, mentre ha conservato gli altri segniscomparsi dalla scrittura.

106 La verga d'oro di Preneste (comunicazione dell'Istituto ro-mano 1887), il più antico dei documenti intelligibili della lingualatina e della scrittura latina, reca la più antica forma dell'm, el'enigmatico vaso di argilla del Quirinale (pubblicato dal Dresselnegli Annali dell'istituto, 1880), mostra la più antica forma dell'r.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

erano poi ad esse sostituite le più recenti M, R e Z; ciòche non potrebbe in altro modo spiegarsi se non conl'ipotesi, che i Latini si siano per lungo tempo servitidell'alfabeto greco tanto per le loro annotazioni greche,quanto per quelle fatte nella loro propria lingua. Perciòdalle caratteristiche relativamente più moderne dell'alfa-beto greco che troviamo in Roma e da quello più anticoimportato nell'Etruria, si può dedurre che in Etruria siscrisse prima che in Roma. Quale profonda impressionefacesse sugli Italici la conquista del tesoro dell'alfabeto,e quanto vivamente presentissero la potenza latente inquei segni di nessuna appariscenza, lo prova un vasomeraviglioso di un'antichissima tomba di Cere, costruitaprima dell'invenzione dell'arco, sul quale è segnatol'antico modulo dell'alfabeto greco nel modo come erapervenuto in Etruria, con a lato un sillabario etrusco pa-ragonabile a quello di Palamede – preziosa e santa reli-quia dell'introduzione e del radicarsi della scritturanell'Etruria.

6 Svolgimento degli alfabeti in Italia. Non menoimportante dell'introduzione dell'alfabeto è, per la storia,l'ulteriore suo svolgimento tra le genti italiche, e forseancora più importante, poichè esso sparge un raggio diluce sull'interno commercio degli Italici, il quale è digran lunga più incerto ed oscuro che non il commerciolitoraneo da essi esercitato coi forestieri. Nell'epoca piùremota dell'alfabeto etrusco, in cui si faceva uso essen-zialmente e senza alcuna variazione dell'alfabeto intro-

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erano poi ad esse sostituite le più recenti M, R e Z; ciòche non potrebbe in altro modo spiegarsi se non conl'ipotesi, che i Latini si siano per lungo tempo servitidell'alfabeto greco tanto per le loro annotazioni greche,quanto per quelle fatte nella loro propria lingua. Perciòdalle caratteristiche relativamente più moderne dell'alfa-beto greco che troviamo in Roma e da quello più anticoimportato nell'Etruria, si può dedurre che in Etruria siscrisse prima che in Roma. Quale profonda impressionefacesse sugli Italici la conquista del tesoro dell'alfabeto,e quanto vivamente presentissero la potenza latente inquei segni di nessuna appariscenza, lo prova un vasomeraviglioso di un'antichissima tomba di Cere, costruitaprima dell'invenzione dell'arco, sul quale è segnatol'antico modulo dell'alfabeto greco nel modo come erapervenuto in Etruria, con a lato un sillabario etrusco pa-ragonabile a quello di Palamede – preziosa e santa reli-quia dell'introduzione e del radicarsi della scritturanell'Etruria.

6 Svolgimento degli alfabeti in Italia. Non menoimportante dell'introduzione dell'alfabeto è, per la storia,l'ulteriore suo svolgimento tra le genti italiche, e forseancora più importante, poichè esso sparge un raggio diluce sull'interno commercio degli Italici, il quale è digran lunga più incerto ed oscuro che non il commerciolitoraneo da essi esercitato coi forestieri. Nell'epoca piùremota dell'alfabeto etrusco, in cui si faceva uso essen-zialmente e senza alcuna variazione dell'alfabeto intro-

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dotto, sembra che l'uso di esso fosse limitato agli Etru-schi sul Po e sulla Toscana d'oggidì. Questo alfabetopartendo da Adria e da Spina si estese poi sino negliAbruzzi verso mezzodì percorrendo la costa orientale, everso settentrione si diffuse tra i Veneti e più tardi finotra i Celti al piede delle Alpi e oltre le medesime, inmodo che le ultime ramificazioni di questa penetrazionearrivano fino nel Tirolo e nella Stiria. L'epoca più recen-te comincia da una riforma dell'alfabeto, la quale consi-ste principalmente nell'allineare la scrittura rifacendosida capo, nella soppressione della o, che nella pronuncianon si distingueva più della u, e nella introduzione dellanuova lettera f, per la quale mancava il corrispondentesegno dell'alfabeto primitivo. Questa riforma fu fattaevidentemente presso gli Etruschi occidentali, e nonavendo potuto penetrare al di là dell'Appennino si è ra-dicata di contro presso tutte le schiatte sabelliche e par-ticolarmente presso gli Umbri. Col progredire del tempol'alfabeto ha dovuto sperimentare i suoi particolari desti-ni presso ogni singola schiatta; presso gli Etruschi, at-torno all'Arno e a Capua, presso gli Umbri e presso iSanniti, perdette spesso le medie o in tutto o in parte, ealtrove invece trovò nuove vocali e nuove consonanti.Ma codesta riforma etrusco-occidentale dell'alfabetonon solo risale alle più antiche tombe trovate in Etruria,ma è di gran lunga più remota; poichè il sillabario, dicui si è fatta menzione, e che fu trovato in una delle me-desime, ci porge l'alfabeto riformato, già essenzialmentemodificato e svecchiato; e siccome ciò che vi ha di ri-

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dotto, sembra che l'uso di esso fosse limitato agli Etru-schi sul Po e sulla Toscana d'oggidì. Questo alfabetopartendo da Adria e da Spina si estese poi sino negliAbruzzi verso mezzodì percorrendo la costa orientale, everso settentrione si diffuse tra i Veneti e più tardi finotra i Celti al piede delle Alpi e oltre le medesime, inmodo che le ultime ramificazioni di questa penetrazionearrivano fino nel Tirolo e nella Stiria. L'epoca più recen-te comincia da una riforma dell'alfabeto, la quale consi-ste principalmente nell'allineare la scrittura rifacendosida capo, nella soppressione della o, che nella pronuncianon si distingueva più della u, e nella introduzione dellanuova lettera f, per la quale mancava il corrispondentesegno dell'alfabeto primitivo. Questa riforma fu fattaevidentemente presso gli Etruschi occidentali, e nonavendo potuto penetrare al di là dell'Appennino si è ra-dicata di contro presso tutte le schiatte sabelliche e par-ticolarmente presso gli Umbri. Col progredire del tempol'alfabeto ha dovuto sperimentare i suoi particolari desti-ni presso ogni singola schiatta; presso gli Etruschi, at-torno all'Arno e a Capua, presso gli Umbri e presso iSanniti, perdette spesso le medie o in tutto o in parte, ealtrove invece trovò nuove vocali e nuove consonanti.Ma codesta riforma etrusco-occidentale dell'alfabetonon solo risale alle più antiche tombe trovate in Etruria,ma è di gran lunga più remota; poichè il sillabario, dicui si è fatta menzione, e che fu trovato in una delle me-desime, ci porge l'alfabeto riformato, già essenzialmentemodificato e svecchiato; e siccome ciò che vi ha di ri-

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formato, messo a fronte del primitivo, è realmente re-cente, il pensiero si rifiuta quasi a riportarsi ai tempi, incui questo alfabeto è pervenuto in Italia. Se quindi gliEtruschi furono quelli che sparsero l'alfabeto al setten-trione, al mezzodì e nell'oriente della penisola, l'alfabetolatino per contro è rimasto limitato nel Lazio e in gene-rale vi si è conservato con pochi cambiamenti e che soloa poco a poco si confusero vocalmente il γ e il κ, la ζ e ilσ; e la conseguenza ne fu che i segni omofonici (κ, ζ)scomparvero dalla scrittura l'uno dopo l'altro. Si ha laprova, che questi segni già erano andati in disuso primadella fine del quarto secolo107, e tutta la nostra tradizionemonumentale e letteraria, fatta una sola eccezione, nonli conosce108. Chi ora considera, che nelle antichissimeabbreviazioni si eseguisce ancora sempre la differenzadi γ c e di k κ109 e che quindi l'epoca, in cui i suoni della

107 In quest'epoca bisogna collocare quella indicazione delledodici tavole, che fu più tardi modello per i filologi romani, e del-la quale possediamo solo frammenti. Senza dubbio il libro delleleggi fu scritto appena apparve; ma che quei dotti non si riferisse-ro all'esemplare originale, bensì ad una copia ufficiale trovatadopo l'incendio gallico, lo dimostra il racconto della ricostruzionedelle tavole, e si spiega in quanto che il suo testo non segue l'orto-grafia antica ad essi certamente sconosciuta.

108 Questa è la già menzionata iscrizione della fibula di Pre-neste. Mentre sulle ciste di Ficoronio C ha già lo stesso valore diK.

109 Così si dice C Gaius, CN Gnaeus, ma K Kaeso. Natural-mente questo non si può dire per le abbreviazioni più moderne; inqueste il γ non viene indicato per mezzo del C, ma per mezzo delG (Gal Galeria), k regolarmente per mezzo di C (C centum, COS

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formato, messo a fronte del primitivo, è realmente re-cente, il pensiero si rifiuta quasi a riportarsi ai tempi, incui questo alfabeto è pervenuto in Italia. Se quindi gliEtruschi furono quelli che sparsero l'alfabeto al setten-trione, al mezzodì e nell'oriente della penisola, l'alfabetolatino per contro è rimasto limitato nel Lazio e in gene-rale vi si è conservato con pochi cambiamenti e che soloa poco a poco si confusero vocalmente il γ e il κ, la ζ e ilσ; e la conseguenza ne fu che i segni omofonici (κ, ζ)scomparvero dalla scrittura l'uno dopo l'altro. Si ha laprova, che questi segni già erano andati in disuso primadella fine del quarto secolo107, e tutta la nostra tradizionemonumentale e letteraria, fatta una sola eccezione, nonli conosce108. Chi ora considera, che nelle antichissimeabbreviazioni si eseguisce ancora sempre la differenzadi γ c e di k κ109 e che quindi l'epoca, in cui i suoni della

107 In quest'epoca bisogna collocare quella indicazione delledodici tavole, che fu più tardi modello per i filologi romani, e del-la quale possediamo solo frammenti. Senza dubbio il libro delleleggi fu scritto appena apparve; ma che quei dotti non si riferisse-ro all'esemplare originale, bensì ad una copia ufficiale trovatadopo l'incendio gallico, lo dimostra il racconto della ricostruzionedelle tavole, e si spiega in quanto che il suo testo non segue l'orto-grafia antica ad essi certamente sconosciuta.

108 Questa è la già menzionata iscrizione della fibula di Pre-neste. Mentre sulle ciste di Ficoronio C ha già lo stesso valore diK.

109 Così si dice C Gaius, CN Gnaeus, ma K Kaeso. Natural-mente questo non si può dire per le abbreviazioni più moderne; inqueste il γ non viene indicato per mezzo del C, ma per mezzo delG (Gal Galeria), k regolarmente per mezzo di C (C centum, COS

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pronuncia si confusero, e prima ancora l'epoca, in cui leabbreviazioni si stabilirono, è molto anteriore al princi-pio della guerra sannitica, e che finalmente tra l'introdu-zione della scrittura e lo stabilimento d'un sistema con-venzionale di abbreviazione deve necessariamente esse-re trascorso un tempo notevole, dovrà far risalire il prin-cipio dell'arte di scrivere per l'Etruria come pel Lazio adun'epoca, che si approssima più all'egizio periodo di Si-rio, all'anno 1322 avanti la nascita di Cristo, che all'anno776, col quale la Grecia comincia la cronologia delleOlimpiadi110.

Non mancano altri numerosissimi ed evidenti indiziad attestare la grande antichità dell'arte della scrittura inRoma. L'esistenza di documenti dell'epoca dei re è pro-vata sufficientemente; così quella del trattato tra Gabio eRoma conchiuso da un re Tarquinio, probabilmente nondall'ultimo di questo nome; trattato scritto sulla pelle deltoro sagrificato in tale occasione e che si custodiva neltempio di Sancus sul Quirinale, ricco di antichità, e for-

Consul, Col Collina), e davanti ad a per mezzo di K (KAR kar-mentalia, MERK merkatus), poichè per un certo tempo il suono kfu indicato davanti alle vocali e i o e davanti a tutte le consonantiper mezzo di C, mentre davanti ad a si indicò con K, davanti ad uper mezzo dell'antico segno del Koppa Q.

110 Se ciò è vero converrà riportare la comparsa dei poemid'Omero – sebbene non precisamente la redazione che a noi èpervenuta – ad un'epoca molto anteriore a quella, in cui Erodotofa fiorire Omero (100 anni prima di Roma); poichè l'introduzionedell'alfabeto ellenico in Italia, ed il principio del commercio fral'Ellade e l'Italia sono posteriori ad Omero.

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pronuncia si confusero, e prima ancora l'epoca, in cui leabbreviazioni si stabilirono, è molto anteriore al princi-pio della guerra sannitica, e che finalmente tra l'introdu-zione della scrittura e lo stabilimento d'un sistema con-venzionale di abbreviazione deve necessariamente esse-re trascorso un tempo notevole, dovrà far risalire il prin-cipio dell'arte di scrivere per l'Etruria come pel Lazio adun'epoca, che si approssima più all'egizio periodo di Si-rio, all'anno 1322 avanti la nascita di Cristo, che all'anno776, col quale la Grecia comincia la cronologia delleOlimpiadi110.

Non mancano altri numerosissimi ed evidenti indiziad attestare la grande antichità dell'arte della scrittura inRoma. L'esistenza di documenti dell'epoca dei re è pro-vata sufficientemente; così quella del trattato tra Gabio eRoma conchiuso da un re Tarquinio, probabilmente nondall'ultimo di questo nome; trattato scritto sulla pelle deltoro sagrificato in tale occasione e che si custodiva neltempio di Sancus sul Quirinale, ricco di antichità, e for-

Consul, Col Collina), e davanti ad a per mezzo di K (KAR kar-mentalia, MERK merkatus), poichè per un certo tempo il suono kfu indicato davanti alle vocali e i o e davanti a tutte le consonantiper mezzo di C, mentre davanti ad a si indicò con K, davanti ad uper mezzo dell'antico segno del Koppa Q.

110 Se ciò è vero converrà riportare la comparsa dei poemid'Omero – sebbene non precisamente la redazione che a noi èpervenuta – ad un'epoca molto anteriore a quella, in cui Erodotofa fiorire Omero (100 anni prima di Roma); poichè l'introduzionedell'alfabeto ellenico in Italia, ed il principio del commercio fral'Ellade e l'Italia sono posteriori ad Omero.

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se salvato dall'incendio dei Galli; quella del trattatod'alleanza conchiuso dal re Servio Tullio col Lazio, ve-duto ancora da Dionisio su una tavola di rame nel tem-pio di Diana sul monte Aventino, certamente in una co-pia fatta dopo l'incendio coll'aiuto d'un esemplare latino,non essendo probabile che ai tempi dei re s'incidesse giàsui metalli. Ma già allora si scalfiva (exarare, scribere,affine di scrobes111, o si dipingeva (linere da cui littera)sopra foglie (folium), scorze (liber) o sopra tavole di le-gno (tabula, album), e più tardi anche sopra pelli e sopratele. Le sacre scritture dei Sanniti e del clero di Anagnierano scritte su rotoli di tela come le più antiche seriedei magistrati romani, che si custodivano nel tempiodella dea della memoria (Iuno moneta) sul Campidoglio.E pare superfluo ricordare un'altra volta l'antichissimouso di marchiare il bestiame ammesso ai pascoli (scrip-tura), e d'apostrofare i senatori colla formola: «Padri ecoscritti» (patres conscripti), la vetustà dei libri delle fa-miglie, dei libri degli oracoli, del calendario albano e ro-mano.

Se la leggenda romana fa già menzione di portici cheesistevano nel foro verso i primissimi tempi della repub-blica nei quali i figli e le figlie dei grandi imparavano aleggere e scrivere, ciò può ben essere inventato, ma nul-la prova che lo sia. Non l'ignoranza della scrittura e for-se nemmeno il difetto di documenti ci hanno privati del-la conoscenza della più antica storia romana, sibbene

111 Appunto così il sassone antico writan, propriamente dise-gnare, in processo di tempo «scrivere».

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se salvato dall'incendio dei Galli; quella del trattatod'alleanza conchiuso dal re Servio Tullio col Lazio, ve-duto ancora da Dionisio su una tavola di rame nel tem-pio di Diana sul monte Aventino, certamente in una co-pia fatta dopo l'incendio coll'aiuto d'un esemplare latino,non essendo probabile che ai tempi dei re s'incidesse giàsui metalli. Ma già allora si scalfiva (exarare, scribere,affine di scrobes111, o si dipingeva (linere da cui littera)sopra foglie (folium), scorze (liber) o sopra tavole di le-gno (tabula, album), e più tardi anche sopra pelli e sopratele. Le sacre scritture dei Sanniti e del clero di Anagnierano scritte su rotoli di tela come le più antiche seriedei magistrati romani, che si custodivano nel tempiodella dea della memoria (Iuno moneta) sul Campidoglio.E pare superfluo ricordare un'altra volta l'antichissimouso di marchiare il bestiame ammesso ai pascoli (scrip-tura), e d'apostrofare i senatori colla formola: «Padri ecoscritti» (patres conscripti), la vetustà dei libri delle fa-miglie, dei libri degli oracoli, del calendario albano e ro-mano.

Se la leggenda romana fa già menzione di portici cheesistevano nel foro verso i primissimi tempi della repub-blica nei quali i figli e le figlie dei grandi imparavano aleggere e scrivere, ciò può ben essere inventato, ma nul-la prova che lo sia. Non l'ignoranza della scrittura e for-se nemmeno il difetto di documenti ci hanno privati del-la conoscenza della più antica storia romana, sibbene

111 Appunto così il sassone antico writan, propriamente dise-gnare, in processo di tempo «scrivere».

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l'insufficienza degli storici di quel tempo tanto propizioalle storiche investigazioni, i quali non le seppero im-piegare utilmente cercando negli archivi e rettificandonelle tradizioni le inesattezze delle narrazioni dei motivie dei caratteri, nelle relazioni delle battaglie e nei rac-conti delle rivoluzioni, come lo avrebbe potuto fare uninvestigatore coscienzioso.

7 Risultati. La storia della scrittura conferma quindiprimieramente la poca e indiretta influenza dello spiritoellenico sui Sabelli, all'opposto di quello che avvenivarispetto ai popoli italici più occidentali. Che i Sabelliavessero ricevuto l'alfabeto dagli Etruschi e non dai Ro-mani ci è indicato con molta verosimiglianza dal fatto,ch'essi conoscevano già l'alfabeto prima di cominciare ascendere verso mezzodì lungo la cresta degli Appennini:onde può dirsi che i Sabini e i Sanniti portassero con sèl'alfabeto partendo dalle loro sedi originarie. Questa sto-ria della scrittura ci mette da un altro lato in guardiacontro il sistema idoleggiato dalla più tarda coltura ro-mana, tutta divota al misticismo ed alle anticaglie degliEtruschi, e che fu poi ripetuto compiacentemente in tuttigli studi più o meno recenti, che cioè la civiltà romanaabbia derivato dall'Etruria il suo germe ed il suo nerbo.Se ciò fosse vero, prima di tutto se ne dovrebbe trovaretraccia nell'alfabeto; ma avviene appunto il contrario: ilgerme dell'arte scrittoria latina è greco, e questo germesi è svolto in un modo così nazionale ed originale, chel'alfabeto latino non si è appropriato nemmeno il tanto

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l'insufficienza degli storici di quel tempo tanto propizioalle storiche investigazioni, i quali non le seppero im-piegare utilmente cercando negli archivi e rettificandonelle tradizioni le inesattezze delle narrazioni dei motivie dei caratteri, nelle relazioni delle battaglie e nei rac-conti delle rivoluzioni, come lo avrebbe potuto fare uninvestigatore coscienzioso.

7 Risultati. La storia della scrittura conferma quindiprimieramente la poca e indiretta influenza dello spiritoellenico sui Sabelli, all'opposto di quello che avvenivarispetto ai popoli italici più occidentali. Che i Sabelliavessero ricevuto l'alfabeto dagli Etruschi e non dai Ro-mani ci è indicato con molta verosimiglianza dal fatto,ch'essi conoscevano già l'alfabeto prima di cominciare ascendere verso mezzodì lungo la cresta degli Appennini:onde può dirsi che i Sabini e i Sanniti portassero con sèl'alfabeto partendo dalle loro sedi originarie. Questa sto-ria della scrittura ci mette da un altro lato in guardiacontro il sistema idoleggiato dalla più tarda coltura ro-mana, tutta divota al misticismo ed alle anticaglie degliEtruschi, e che fu poi ripetuto compiacentemente in tuttigli studi più o meno recenti, che cioè la civiltà romanaabbia derivato dall'Etruria il suo germe ed il suo nerbo.Se ciò fosse vero, prima di tutto se ne dovrebbe trovaretraccia nell'alfabeto; ma avviene appunto il contrario: ilgerme dell'arte scrittoria latina è greco, e questo germesi è svolto in un modo così nazionale ed originale, chel'alfabeto latino non si è appropriato nemmeno il tanto

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desiderato segno etrusco per la f112. Anzi là dove vi èplagio, come nei numeri, sono piuttosto gli Etruschiquelli che tolsero ai Romani per lo meno il segno del 50.

In fine è un fatto caratteristico, che in tutte le tribùitaliche il primo passo tentato per sviluppare secondo iloro bisogni l'alfabeto greco consiste in una specie dicorruzione.

8 Corruzione della lingua e della scrittura. Cosìin tutti i dialetti etruschi scomparvero le lettere medie,mentre gli Umbri perdettero la γ e la d, i Sanniti la d, iRomani furono anche in pericolo di vedere la d confon-dersi con la r. Nello stesso modo presso gli Etruschi siconfusero ben presto la o e la u, e anche presso i Latinisi trovarono accenni a questa corruzione. Quasi il con-trario accadde delle sibilanti; poichè mentre l'Etruscomantiene i tre segni z, s, sch, l'Umbro rigetta quest'ulti-mo, ma sviluppa in sua vece due nuove sibilanti; il San-nita e il Falisco si limitano alla s e alla z come il Greco eil Romano più tardi alla sola s. Si vede che le più squisi-te differenze vocali erano state ben sentite dagli intro-

112 Il mistero come mai i Latini sono giunti a scambiare il se-gno greco corrispondente al v con l'f di suono assai diverso, fu ri-velato dalla verga di Preneste, col suo Fhefhaked per fecit, ed haquindi provata la derivazione dell'alfabeto latino dalle coloniecalcidiche dell'Italia meridionale poichè in una iscrizione beoticaappartenente allo stesso alfabeto, nella parola fhekadamoe la stes-sa unione dei suoni, ed un v aspirato, poteva bene avvicinarsi nelsuono f latino. (GUSTAVO MEYER, Gramm. greca, paragrafo 244).

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desiderato segno etrusco per la f112. Anzi là dove vi èplagio, come nei numeri, sono piuttosto gli Etruschiquelli che tolsero ai Romani per lo meno il segno del 50.

In fine è un fatto caratteristico, che in tutte le tribùitaliche il primo passo tentato per sviluppare secondo iloro bisogni l'alfabeto greco consiste in una specie dicorruzione.

8 Corruzione della lingua e della scrittura. Cosìin tutti i dialetti etruschi scomparvero le lettere medie,mentre gli Umbri perdettero la γ e la d, i Sanniti la d, iRomani furono anche in pericolo di vedere la d confon-dersi con la r. Nello stesso modo presso gli Etruschi siconfusero ben presto la o e la u, e anche presso i Latinisi trovarono accenni a questa corruzione. Quasi il con-trario accadde delle sibilanti; poichè mentre l'Etruscomantiene i tre segni z, s, sch, l'Umbro rigetta quest'ulti-mo, ma sviluppa in sua vece due nuove sibilanti; il San-nita e il Falisco si limitano alla s e alla z come il Greco eil Romano più tardi alla sola s. Si vede che le più squisi-te differenze vocali erano state ben sentite dagli intro-

112 Il mistero come mai i Latini sono giunti a scambiare il se-gno greco corrispondente al v con l'f di suono assai diverso, fu ri-velato dalla verga di Preneste, col suo Fhefhaked per fecit, ed haquindi provata la derivazione dell'alfabeto latino dalle coloniecalcidiche dell'Italia meridionale poichè in una iscrizione beoticaappartenente allo stesso alfabeto, nella parola fhekadamoe la stes-sa unione dei suoni, ed un v aspirato, poteva bene avvicinarsi nelsuono f latino. (GUSTAVO MEYER, Gramm. greca, paragrafo 244).

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duttori dell'alfabeto, uomini colti e bilingui; ma dopo lacompiuta separazione della scrittura nazionale dall'alfa-beto ellenico, che l'aveva generata, le medie e le tenui apoco a poco si confusero e le sibilanti e le vocali furonoguaste; dalle quali trasposizioni di suono, o piuttosto di-struzioni del suono, le scritture nazionali italiche ne ac-quistarono un carattere antigreco.

La distruzione delle forme di flessione e di derivazio-ne procede di pari passo con queste obliterazioni dellevocali. La causa di questo barbarismo non è dunque, ingenerale, nessun'altra che la inevitabile corruzione cherode continuamente ogni lingua non infrenata e direttadalla coltura letteraria; colla sola differenza, che nellevariazioni della scrittura si conservarono le prove diquei mutamenti, che di solito si compiono senza lasciarealcuna traccia. E se è vero che questo barbarismo colpi-sce con maggior forza gli Etruschi che qualunque altraschiatta italica, questa è una prova di più da aggiungerealle altre numerose della loro minore attitudine per lacoltura; e se questa corruzione delle lingue colpì tra ipopoli italici più profondamente gli Umbri, meno i Ro-mani e più lievemente di tutti i Sabelli meridionali, sidovrà ammettere che in questa singolare varietà di risul-tati deve avere avuto gran parte il commercio abituale epiù attivo degli uni cogli Etruschi, degli altri coi Greci.

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duttori dell'alfabeto, uomini colti e bilingui; ma dopo lacompiuta separazione della scrittura nazionale dall'alfa-beto ellenico, che l'aveva generata, le medie e le tenui apoco a poco si confusero e le sibilanti e le vocali furonoguaste; dalle quali trasposizioni di suono, o piuttosto di-struzioni del suono, le scritture nazionali italiche ne ac-quistarono un carattere antigreco.

La distruzione delle forme di flessione e di derivazio-ne procede di pari passo con queste obliterazioni dellevocali. La causa di questo barbarismo non è dunque, ingenerale, nessun'altra che la inevitabile corruzione cherode continuamente ogni lingua non infrenata e direttadalla coltura letteraria; colla sola differenza, che nellevariazioni della scrittura si conservarono le prove diquei mutamenti, che di solito si compiono senza lasciarealcuna traccia. E se è vero che questo barbarismo colpi-sce con maggior forza gli Etruschi che qualunque altraschiatta italica, questa è una prova di più da aggiungerealle altre numerose della loro minore attitudine per lacoltura; e se questa corruzione delle lingue colpì tra ipopoli italici più profondamente gli Umbri, meno i Ro-mani e più lievemente di tutti i Sabelli meridionali, sidovrà ammettere che in questa singolare varietà di risul-tati deve avere avuto gran parte il commercio abituale epiù attivo degli uni cogli Etruschi, degli altri coi Greci.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

QUINDICESIMO CAPITOLOL'ARTE

1 Doti artistiche degli Italici. Il linguaggio appas-sionato è poesia, il suo accento commosso è musica: percui non vi è popolo senza poesia e senza musica. Ma lanazione italiana non può ora, nè poteva in antico anno-verarsi tra le nazioni dotate a preferenza della virtù poe-tica; all'Italiano manca la passione del cuore, il bisognodi idealizzare le cose umane e di umanizzare le cose ina-nimate, e con ciò l'elemento più sacro dell'arte poetica.La penetrazione, la piacevolezza, la destrezza rendonofacili all'Italiano l'ironia e il novellare, come ne abbiamola prova in Orazio e nel Boccaccio; le lepidezze amoro-se, che troviamo in Catullo e nelle migliori canzoni po-polari napoletane, e più di tutto riescono all'Italiano labassa commedia e le burlette.

Nell'età antica sopra il suolo italico fiorì la parodiadella tragedia, e nei tempi moderni la parodia dell'epo-pea. Non v'è popolo, nè vi ebbe, che possa pareggiaregli Italiani nel particolare pregio della rettorica e dellarappresentazione comica. Ma nelle più perfette speciedell'arte, essi non poterono andar oltre una certa abili-tà113, e in nessuna epoca la loro letteratura ha prodotto

113 [Non è necessario indugiarsi a confutare questi arbitrarigiudizi del Mommsen, seppelliti dall'immensa ricchezza artisticache, per la gioia dell'umanità, in ogni tempo, e in ogni campo, gli

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

QUINDICESIMO CAPITOLOL'ARTE

1 Doti artistiche degli Italici. Il linguaggio appas-sionato è poesia, il suo accento commosso è musica: percui non vi è popolo senza poesia e senza musica. Ma lanazione italiana non può ora, nè poteva in antico anno-verarsi tra le nazioni dotate a preferenza della virtù poe-tica; all'Italiano manca la passione del cuore, il bisognodi idealizzare le cose umane e di umanizzare le cose ina-nimate, e con ciò l'elemento più sacro dell'arte poetica.La penetrazione, la piacevolezza, la destrezza rendonofacili all'Italiano l'ironia e il novellare, come ne abbiamola prova in Orazio e nel Boccaccio; le lepidezze amoro-se, che troviamo in Catullo e nelle migliori canzoni po-polari napoletane, e più di tutto riescono all'Italiano labassa commedia e le burlette.

Nell'età antica sopra il suolo italico fiorì la parodiadella tragedia, e nei tempi moderni la parodia dell'epo-pea. Non v'è popolo, nè vi ebbe, che possa pareggiaregli Italiani nel particolare pregio della rettorica e dellarappresentazione comica. Ma nelle più perfette speciedell'arte, essi non poterono andar oltre una certa abili-tà113, e in nessuna epoca la loro letteratura ha prodotto

113 [Non è necessario indugiarsi a confutare questi arbitrarigiudizi del Mommsen, seppelliti dall'immensa ricchezza artisticache, per la gioia dell'umanità, in ogni tempo, e in ogni campo, gli

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

una vera epopea e un vero dramma. Anche le più cele-brate opere letterarie che ebbero voga in Italia, poemidivini, come la Commedia di Dante, storie come quelladi Sallustio, di Machiavelli, di Tacito e di Colletta, sonopiuttosto l'espressione di una passione rettorica chespontanea. Fin nella musica si è rivelato nell'Italia, siaantica che moderna, molto meno il vero genio creatoreche il facile ingegno, il quale s'innalza speditamenteall'eccellenza dell'esecuzione, e invece dell'arte vera eprofonda mette sugli altari un idolo vuoto ed arido.

L'Italiano non ebbe dalla natura il dono del mondo in-teriore – se pure, trattandosi d'arte, si può distinguerel'interiore dall'esteriore. Il fascino della bellezza perchèfaccia impressione sull'Italiano, non deve apparire adesso idealmente solo dinanzi all'anima ma anche sen-sualmente dinanzi agli occhi. Ed è perciò ch'egli pri-meggia nelle arti plastiche architettoniche ed è quindi inesse il miglior discepolo dell'Elleno nell'età antica, ed asua volta il maestro di tutte le nazioni nell'età moderna.

Colla nostra difettosa tradizione non ci è possibile te-ner dietro allo svolgersi delle concezioni artistiche pres-so i diversi gruppi dei popoli antichi d'Italia, e partico-larmente non ci è possibile parlare della poesia italiana,ma conviene restringerci alla storia della poesia nel La-zio.

Italiani han profusa per il mondo].379

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una vera epopea e un vero dramma. Anche le più cele-brate opere letterarie che ebbero voga in Italia, poemidivini, come la Commedia di Dante, storie come quelladi Sallustio, di Machiavelli, di Tacito e di Colletta, sonopiuttosto l'espressione di una passione rettorica chespontanea. Fin nella musica si è rivelato nell'Italia, siaantica che moderna, molto meno il vero genio creatoreche il facile ingegno, il quale s'innalza speditamenteall'eccellenza dell'esecuzione, e invece dell'arte vera eprofonda mette sugli altari un idolo vuoto ed arido.

L'Italiano non ebbe dalla natura il dono del mondo in-teriore – se pure, trattandosi d'arte, si può distinguerel'interiore dall'esteriore. Il fascino della bellezza perchèfaccia impressione sull'Italiano, non deve apparire adesso idealmente solo dinanzi all'anima ma anche sen-sualmente dinanzi agli occhi. Ed è perciò ch'egli pri-meggia nelle arti plastiche architettoniche ed è quindi inesse il miglior discepolo dell'Elleno nell'età antica, ed asua volta il maestro di tutte le nazioni nell'età moderna.

Colla nostra difettosa tradizione non ci è possibile te-ner dietro allo svolgersi delle concezioni artistiche pres-so i diversi gruppi dei popoli antichi d'Italia, e partico-larmente non ci è possibile parlare della poesia italiana,ma conviene restringerci alla storia della poesia nel La-zio.

Italiani han profusa per il mondo].379

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2 Il ballo, il canto e la mimica nel Lazio. L'artepoetica latina è nata, come ogni altra, dalla lirica, o piut-tosto dalle primitive manifestazioni di gioia, nelle qualisi contessevano indissolubilmente la danza, la musica ela rappresentazione. Si deve por mente, che nei più anti-chi riti religiosi sempre si riscontrano la danza e i giuo-chi con spiccata prevalenza sul canto. Nella magnificaprocessione, con cui si apriva la grande solennità popo-lare in Roma, intorno alle immagini degli dei ed ai lotta-tori tenevano il primo luogo i danzatori serii e burleschi;gli uni ordinati in tre gruppi, uomini, giovani e fanciulli,tutti vestiti di rosso, con cinture di rame, brandenti da-ghe e giavellotti, e gli uomini con l'elmo e con tutto losfoggio dell'armatura guerresca; gli altri divisi in dueschiere, quella delle pecore con pellicce di montone esopravvesti screziate, e quella dei capri, nudi fino allacintura e ammantati di pelli caprine. Cotali erano i «Sal-tatori», il più antico forse ed il più sacro fra i consorziisacerdotali di Roma, e i ballerini (ludii, ludiones), chenon mancavano mai nelle pubbliche solennità e nemme-no nelle feste funerarie; donde si ritrae che la danza, sindai tempi antichi, era già un mestiere ordinario. Madove intervengono i danzatori seguono di necessità an-che i suonatori, ciò che nell'antichità italica voleva dire isuonatori di flauto. Anch'essi non mancavano a nessunsagrificio, e figuravano nelle nozze e nei funerali; e afianco del vetusto sacerdozio pubblico de' saltatori sitrova, egualmente antico, comechè inferiore di gran lun-ga in grado, il corpo dei suonatori di flauto (collegium

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

2 Il ballo, il canto e la mimica nel Lazio. L'artepoetica latina è nata, come ogni altra, dalla lirica, o piut-tosto dalle primitive manifestazioni di gioia, nelle qualisi contessevano indissolubilmente la danza, la musica ela rappresentazione. Si deve por mente, che nei più anti-chi riti religiosi sempre si riscontrano la danza e i giuo-chi con spiccata prevalenza sul canto. Nella magnificaprocessione, con cui si apriva la grande solennità popo-lare in Roma, intorno alle immagini degli dei ed ai lotta-tori tenevano il primo luogo i danzatori serii e burleschi;gli uni ordinati in tre gruppi, uomini, giovani e fanciulli,tutti vestiti di rosso, con cinture di rame, brandenti da-ghe e giavellotti, e gli uomini con l'elmo e con tutto losfoggio dell'armatura guerresca; gli altri divisi in dueschiere, quella delle pecore con pellicce di montone esopravvesti screziate, e quella dei capri, nudi fino allacintura e ammantati di pelli caprine. Cotali erano i «Sal-tatori», il più antico forse ed il più sacro fra i consorziisacerdotali di Roma, e i ballerini (ludii, ludiones), chenon mancavano mai nelle pubbliche solennità e nemme-no nelle feste funerarie; donde si ritrae che la danza, sindai tempi antichi, era già un mestiere ordinario. Madove intervengono i danzatori seguono di necessità an-che i suonatori, ciò che nell'antichità italica voleva dire isuonatori di flauto. Anch'essi non mancavano a nessunsagrificio, e figuravano nelle nozze e nei funerali; e afianco del vetusto sacerdozio pubblico de' saltatori sitrova, egualmente antico, comechè inferiore di gran lun-ga in grado, il corpo dei suonatori di flauto (collegium

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tibicinum), del cui vero genere d'arte musicale può darciun'idea l'antico privilegio di girar per le strade il giornodella loro annua festa mascherati ed ebbri di dolce vinoanche malgrado i severi principii della polizia romana.E mentre così la danza ottiene un posto fra le onorevoliprofessioni, e la musica le tien dietro come un subordi-nato ma necessario accompagnamento, e a quest'uopovengono istituiti per ambedue pubblici e sacri consorzi,la poesia compare nulla più che un accessorio, e quasi,si direbbe, come una cosa indifferente, sia che si mani-festasse di per sè sola, o che servisse al saltatore di ac-compagnamento alla sua danza.

I Romani consideravano come la prima delle canzoniquella che nella verde solitudine delle selve mormorava-no le foglie tra loro. Quel che lo «spirito fausto» (faunusda favere) bisbiglia nel bosco, o suona sul flauto deiventi, l'uomo savio (vates) o la savia donna (casmena,carmenta), a cui è dato di ascoltare le sacre canzoni del-la natura, le traducono poi agli uomini accompagnando-le col flauto e vestendole di favella ritmica (casmen, piùtardi carmen, da canere), e i nomi di alcuni di questi uo-mini ispirati dal dio, e prima di tutti quello di un vecchioveggente e cantore, Marcio, si conservarono lungo tem-po nella memoria dei posteri. Affini a questi canti vati-dici erano i veri mottetti magici, le formole per scaccia-re le malattie ed altri fastidi e le cattive canzoni, collequali s'impedisce la pioggia e si fa cadere il fulmine, o siattira la seminagione da un campo sull'altro; però inquesti incantesimi entrano, originariamente, insieme

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tibicinum), del cui vero genere d'arte musicale può darciun'idea l'antico privilegio di girar per le strade il giornodella loro annua festa mascherati ed ebbri di dolce vinoanche malgrado i severi principii della polizia romana.E mentre così la danza ottiene un posto fra le onorevoliprofessioni, e la musica le tien dietro come un subordi-nato ma necessario accompagnamento, e a quest'uopovengono istituiti per ambedue pubblici e sacri consorzi,la poesia compare nulla più che un accessorio, e quasi,si direbbe, come una cosa indifferente, sia che si mani-festasse di per sè sola, o che servisse al saltatore di ac-compagnamento alla sua danza.

I Romani consideravano come la prima delle canzoniquella che nella verde solitudine delle selve mormorava-no le foglie tra loro. Quel che lo «spirito fausto» (faunusda favere) bisbiglia nel bosco, o suona sul flauto deiventi, l'uomo savio (vates) o la savia donna (casmena,carmenta), a cui è dato di ascoltare le sacre canzoni del-la natura, le traducono poi agli uomini accompagnando-le col flauto e vestendole di favella ritmica (casmen, piùtardi carmen, da canere), e i nomi di alcuni di questi uo-mini ispirati dal dio, e prima di tutti quello di un vecchioveggente e cantore, Marcio, si conservarono lungo tem-po nella memoria dei posteri. Affini a questi canti vati-dici erano i veri mottetti magici, le formole per scaccia-re le malattie ed altri fastidi e le cattive canzoni, collequali s'impedisce la pioggia e si fa cadere il fulmine, o siattira la seminagione da un campo sull'altro; però inquesti incantesimi entrano, originariamente, insieme

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colle formole di parole, anche delle mere cadenze ono-matopeiche114. Non meno antiche sono le litanie religio-se, che vennero tenacemente conservate e trasmessecome erano cantate e ballate dai saltatori e da altri sacer-doti, e delle quali l'unica che è pervenuta sino a noi, pro-babilmente una ballata dei fratelli arvali, in lode di Mar-te, che vale la pena di riportare:

«Enos, Lases, iuvate!Neve lue rue, Marmar, sins incurrere in pleores!Satur fu, fere Mars! Limen sali! Sta! berber!Semunis alternei advocapit conctos!Enos, Marmor, iuvato!Triumpe!»115.

114 Catone il vecchio (d. r. r., 160), indica come efficace con-tro le slogature la sentenza: hauat hauat hauat ista pista damiabodannaustra, che verosimilmente sarà stata tanto incomprensibi-le al suo inventore quanto è ora a noi. Vi sono naturalmente inqueste cantafère anche delle formole di parole, p. e. è un rimediocontro la podagra, se a digiuno si pensa ad altri, e tre volte novevolte toccando la terra e sputando si dica: «Io penso a te, ajuta aimiei piedi. Che la terra riceva il mio malanno, salute sia mia par-te» (terra pestem teneto, salus hic maneto. VARRONE, de r. r., 1, 2,27).

115 Nos, Lares, iuvate! Ne veluem (= malam luem) ruem (=ruinam) Mamers, sinas incurrere in plures! Satur esto, fere Mars!In limen insiti! sta! Verbera (limen?)! Semones alterni advocatecunctos! Nos, Mamers, iuvato! Tripudia!

Le prime cinque righe si ripetono tre volte. La traduzione spe-cialmente dell'ultima riga è molto incerta. Le tre iscrizioni delvaso d'argilla del Quirinale dicono: ioue sat deiuosqoi med mitatnei ted endo gosmis uirgo sied – asted noisi ope toitesiai paka-

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colle formole di parole, anche delle mere cadenze ono-matopeiche114. Non meno antiche sono le litanie religio-se, che vennero tenacemente conservate e trasmessecome erano cantate e ballate dai saltatori e da altri sacer-doti, e delle quali l'unica che è pervenuta sino a noi, pro-babilmente una ballata dei fratelli arvali, in lode di Mar-te, che vale la pena di riportare:

«Enos, Lases, iuvate!Neve lue rue, Marmar, sins incurrere in pleores!Satur fu, fere Mars! Limen sali! Sta! berber!Semunis alternei advocapit conctos!Enos, Marmor, iuvato!Triumpe!»115.

114 Catone il vecchio (d. r. r., 160), indica come efficace con-tro le slogature la sentenza: hauat hauat hauat ista pista damiabodannaustra, che verosimilmente sarà stata tanto incomprensibi-le al suo inventore quanto è ora a noi. Vi sono naturalmente inqueste cantafère anche delle formole di parole, p. e. è un rimediocontro la podagra, se a digiuno si pensa ad altri, e tre volte novevolte toccando la terra e sputando si dica: «Io penso a te, ajuta aimiei piedi. Che la terra riceva il mio malanno, salute sia mia par-te» (terra pestem teneto, salus hic maneto. VARRONE, de r. r., 1, 2,27).

115 Nos, Lares, iuvate! Ne veluem (= malam luem) ruem (=ruinam) Mamers, sinas incurrere in plures! Satur esto, fere Mars!In limen insiti! sta! Verbera (limen?)! Semones alterni advocatecunctos! Nos, Mamers, iuvato! Tripudia!

Le prime cinque righe si ripetono tre volte. La traduzione spe-cialmente dell'ultima riga è molto incerta. Le tre iscrizioni delvaso d'argilla del Quirinale dicono: ioue sat deiuosqoi med mitatnei ted endo gosmis uirgo sied – asted noisi ope toitesiai paka-

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

Noi Lasi, aiutate

agli deiNon la mala peste, Marte, Marte, la-

sciar irrompere su molti!Sii sazio, d'infuriare, o Marte!

ai singoli fratelli Sulla soglia balza!Desisti dal saltellare!

a tutti i fratelli: Semoni alternativamente invocate tutti!al dio: Noi, Marte, Marte, aiuta!ai singoli fratelli: Tripudia!

Il latino di questa canzone e degli affini frammentidei canti salii, considerati dai filologi dei tempi di Au-gusto come i più antichi documenti della loro madre lin-gua, sta al latino delle dodici tavole presso a poco comela lingua dei Nibelungi sta alla lingua di Lutero, e noipotremmo benissimo paragonare queste venerabili lita-nie, sia per la lingua, sia pel contenuto, ai Veda degli In-diani.

Le canzoni di lode e di scherno sono di un'epoca piùrecente. Che nel Lazio abbondassero già negli antichitempi le canzoni satiriche, lo si potrebbe argomentaredal carattere popolaresco degli Italiani, se non lo pro-vassero chiaramente le antichissime misure di polizia

riuois – duenos med feked (= bonus fee fecit) enmanom einomdze noine (probabilmente = die noni) med malo statod. Solo alcu-ne parole sono certamente comprensibili; sono notevoli anzituttole formole che noi conoscevamo come umbre ed osche, comel'aggettivo pacer e la particella, einom, equivalente ad et e che quici appaiono verosimilmente come antiche latine.

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Noi Lasi, aiutate

agli deiNon la mala peste, Marte, Marte, la-

sciar irrompere su molti!Sii sazio, d'infuriare, o Marte!

ai singoli fratelli Sulla soglia balza!Desisti dal saltellare!

a tutti i fratelli: Semoni alternativamente invocate tutti!al dio: Noi, Marte, Marte, aiuta!ai singoli fratelli: Tripudia!

Il latino di questa canzone e degli affini frammentidei canti salii, considerati dai filologi dei tempi di Au-gusto come i più antichi documenti della loro madre lin-gua, sta al latino delle dodici tavole presso a poco comela lingua dei Nibelungi sta alla lingua di Lutero, e noipotremmo benissimo paragonare queste venerabili lita-nie, sia per la lingua, sia pel contenuto, ai Veda degli In-diani.

Le canzoni di lode e di scherno sono di un'epoca piùrecente. Che nel Lazio abbondassero già negli antichitempi le canzoni satiriche, lo si potrebbe argomentaredal carattere popolaresco degli Italiani, se non lo pro-vassero chiaramente le antichissime misure di polizia

riuois – duenos med feked (= bonus fee fecit) enmanom einomdze noine (probabilmente = die noni) med malo statod. Solo alcu-ne parole sono certamente comprensibili; sono notevoli anzituttole formole che noi conoscevamo come umbre ed osche, comel'aggettivo pacer e la particella, einom, equivalente ad et e che quici appaiono verosimilmente come antiche latine.

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per reprimerle. Più importanti divennero i canti laudati-vi. Quando si portava a seppellire un cittadino, il feretroera seguito da una donna sua parente od amica, la qualeintuonava la nenia (nenia) coll'accompagnamento delflauto. Nello stesso modo al banchetto si cantavano daigarzoncelli canzoni in lode degli antenati poichè, secon-do l'uso di quei tempi, i figli seguivano il padre al ban-chetto anche fuori di casa. Questi giovanetti cantori era-no accompagnati talvolta dal flauto, e talaltra cantavanosenza accompagnamento (assa voce canere). Al ban-chetto cantavano l'uno dopo l'altro anche gli uomini; maquesto è un costume più recente, tolto verosimilmentedai Greci. Noi non sappiamo nulla di più di queste can-zoni genealogiche; ma non occorre osservare che essedescrivevano e narravano e insieme col genere lirico co-minciavano a trattar l'epico, anzi dal momento liricotraevano i primordi dell'epopea.

Nell'antichissimo carnevale del popolo, oltre la danzagioviale o satura che senza dubbio risale al di làdell'epoca della separazione delle schiatte, erano in usoaltri generi di poesia. Non vi sarà certo mancato il can-to; ma era nella natura dei fatti, che in questi giuochi,rappresentati particolarmente in occasione di feste co-munali e di nozze, si incontrassero d'ordinario più balle-rini, od anche più schiere di ballerini, e il canto dessemotivo ad una cotal maniera di azione, che, come è bennaturale, prendeva di preferenza un carattere burlesco espesso lubrico. Così nacquero in queste occasioni nonsolo le canzoni a intreccio come più tardi le vediamo

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per reprimerle. Più importanti divennero i canti laudati-vi. Quando si portava a seppellire un cittadino, il feretroera seguito da una donna sua parente od amica, la qualeintuonava la nenia (nenia) coll'accompagnamento delflauto. Nello stesso modo al banchetto si cantavano daigarzoncelli canzoni in lode degli antenati poichè, secon-do l'uso di quei tempi, i figli seguivano il padre al ban-chetto anche fuori di casa. Questi giovanetti cantori era-no accompagnati talvolta dal flauto, e talaltra cantavanosenza accompagnamento (assa voce canere). Al ban-chetto cantavano l'uno dopo l'altro anche gli uomini; maquesto è un costume più recente, tolto verosimilmentedai Greci. Noi non sappiamo nulla di più di queste can-zoni genealogiche; ma non occorre osservare che essedescrivevano e narravano e insieme col genere lirico co-minciavano a trattar l'epico, anzi dal momento liricotraevano i primordi dell'epopea.

Nell'antichissimo carnevale del popolo, oltre la danzagioviale o satura che senza dubbio risale al di làdell'epoca della separazione delle schiatte, erano in usoaltri generi di poesia. Non vi sarà certo mancato il can-to; ma era nella natura dei fatti, che in questi giuochi,rappresentati particolarmente in occasione di feste co-munali e di nozze, si incontrassero d'ordinario più balle-rini, od anche più schiere di ballerini, e il canto dessemotivo ad una cotal maniera di azione, che, come è bennaturale, prendeva di preferenza un carattere burlesco espesso lubrico. Così nacquero in queste occasioni nonsolo le canzoni a intreccio come più tardi le vediamo

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comparire sotto il nome di canti fescennini, ma ancora igermi d'una commedia popolare, che, considerandol'ingegno arguto degli Italici, la loro attitudine per lerappresentazioni esteriori e pel comico, e il loro dilettoper la gesticolazione e pel travestimento, dovevano dirsiseminati su di un eccellente terreno. Nulla fu conservatodi questi incunaboli dell'epopea e del dramma dei Ro-mani. Non è necessario avvertire che le canzoni in lodedegli antenati erano tradizionali, ed è provato inoltrech'esse venivano d'ordinario recitate da fanciulli; se nonche, sino dai tempi di Catone il vecchio, esse erano giàinteramente in disuso. Le commedie poi, quando ci sivoglia passare questo nome, furono allora, e molto tem-po di poi, generalmente improvvisate. Di questa poesiae di questa musica popolare non fu possibile trasmetterealtro che il metro, l'accompagnamento musicale e cora-le, e forse le maschere.

Si può dubitare se negli antichissimi tempi esistesseciò che noi chiamiamo metro o misura del verso; la lita-nia dei fratelli Arvali difficilmente si presta ad uno sche-ma metrico fissato meccanicamente e ci si presenta piut-tosto come una animata declamazione. Nei tempi poste-riori si trova un antichissimo metro, il così detto versosaturnio116 o faunico, di cui non si ha riscontro nella pro-

116 Il nome non indica che il «metro della canzone» in quantoche la satura è la canzone cantata originariamente in carnevale.Dalla stessa radice piglia il nome anche il dio della seminagioneSaeturnus o Saiturnus, più tardi Saturnus; ma l'immediata con-nessione del versus saturnius con Saturno o l'allungamento della

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comparire sotto il nome di canti fescennini, ma ancora igermi d'una commedia popolare, che, considerandol'ingegno arguto degli Italici, la loro attitudine per lerappresentazioni esteriori e pel comico, e il loro dilettoper la gesticolazione e pel travestimento, dovevano dirsiseminati su di un eccellente terreno. Nulla fu conservatodi questi incunaboli dell'epopea e del dramma dei Ro-mani. Non è necessario avvertire che le canzoni in lodedegli antenati erano tradizionali, ed è provato inoltrech'esse venivano d'ordinario recitate da fanciulli; se nonche, sino dai tempi di Catone il vecchio, esse erano giàinteramente in disuso. Le commedie poi, quando ci sivoglia passare questo nome, furono allora, e molto tem-po di poi, generalmente improvvisate. Di questa poesiae di questa musica popolare non fu possibile trasmetterealtro che il metro, l'accompagnamento musicale e cora-le, e forse le maschere.

Si può dubitare se negli antichissimi tempi esistesseciò che noi chiamiamo metro o misura del verso; la lita-nia dei fratelli Arvali difficilmente si presta ad uno sche-ma metrico fissato meccanicamente e ci si presenta piut-tosto come una animata declamazione. Nei tempi poste-riori si trova un antichissimo metro, il così detto versosaturnio116 o faunico, di cui non si ha riscontro nella pro-

116 Il nome non indica che il «metro della canzone» in quantoche la satura è la canzone cantata originariamente in carnevale.Dalla stessa radice piglia il nome anche il dio della seminagioneSaeturnus o Saiturnus, più tardi Saturnus; ma l'immediata con-nessione del versus saturnius con Saturno o l'allungamento della

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sodia greca, e che nacque verosimilmente colla più anti-ca poesia popolare latina. La seguente poesia, di un'epo-ca certo di gran lunga posteriore, ne potrà dare un'idea.

Quod ré suá difeídens – ásperé afleictaParéns timéns heic vóvit – vóto hóc solútoDecumá factá poloúcta – leibereís lubéntesDomi danúnt Hercolei – maxsumé méretoSemól te oránt se vóti – crébo cón démnes

Ciò che diffidando del suo stato – posto a gravi angustie,Il genitor tremendo qui votò, – sciolto questo voto,Fatta la decima e l'offerta, – i figliuoli volenterosiDànno in dono ad Ercole, – sommamente benemerito,E infine anche te pregano – affinchè tu spesso li esaudisca.

Sembra che tanto le laudi come le canzonette burle-sche siano state cantate egualmente sul metro saturnio,con accompagnamento di flauto, e probabilmente inmodo che la cesura fosse marcata fortemente in ogni li-nea, e che nelle canzoni a intreccio il secondo cantoreripigliasse il verso. Il verso saturnio è come qualunquealtro verso dell'antichità romana e greca di genere quan-titativo; ma fra tutti gli antichi metri esso è anche il piùimperfetto e il più rozzo, poichè oltre parecchie altre li-cenze esso tollera anche l'omissione delle brevi e questiversi quasi iambici e trocaici opposti l'uno all'altro, sono

prima sillaba col medesimo connessa, dev'essere di un'epoca po-steriore.

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sodia greca, e che nacque verosimilmente colla più anti-ca poesia popolare latina. La seguente poesia, di un'epo-ca certo di gran lunga posteriore, ne potrà dare un'idea.

Quod ré suá difeídens – ásperé afleictaParéns timéns heic vóvit – vóto hóc solútoDecumá factá poloúcta – leibereís lubéntesDomi danúnt Hercolei – maxsumé méretoSemól te oránt se vóti – crébo cón démnes

Ciò che diffidando del suo stato – posto a gravi angustie,Il genitor tremendo qui votò, – sciolto questo voto,Fatta la decima e l'offerta, – i figliuoli volenterosiDànno in dono ad Ercole, – sommamente benemerito,E infine anche te pregano – affinchè tu spesso li esaudisca.

Sembra che tanto le laudi come le canzonette burle-sche siano state cantate egualmente sul metro saturnio,con accompagnamento di flauto, e probabilmente inmodo che la cesura fosse marcata fortemente in ogni li-nea, e che nelle canzoni a intreccio il secondo cantoreripigliasse il verso. Il verso saturnio è come qualunquealtro verso dell'antichità romana e greca di genere quan-titativo; ma fra tutti gli antichi metri esso è anche il piùimperfetto e il più rozzo, poichè oltre parecchie altre li-cenze esso tollera anche l'omissione delle brevi e questiversi quasi iambici e trocaici opposti l'uno all'altro, sono

prima sillaba col medesimo connessa, dev'essere di un'epoca po-steriore.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

pure poco adatti a sviluppare una costruzione ritmica ca-pace di più elevate costruzioni poetiche.

Gli elementi fondamentali della musica popolare edella coreutica117 del Lazio che appunto intorno a questitemi dovettero cominciar a fiorire, scomparvero poi sen-za lasciar traccia durevole, meno la descrizione che civien fatta del flauto latino come d'un istrumento corto esottile munito di soli quattro buchi, formato originaria-mente, come lo prova il nome, da un osso leggero dellatibia d'un animale.

Che infine le maschere tipiche e di carattere dellacommedia popolare latina, o delle così dette atellane ve-nute più tardi: Maccus l'arlecchino, Bucco il mangiato-re, Pappus il buon babbo, il savio Dossenus – maschereche si possono paragonare assai ai due servitori, al Pan-talone e al «dottore» della commedia italiana di Pulci-nella – che queste maschere figurassero già nella primi-tiva commedia popolare dei Latini non lo si può vera-mente provare; siccome però l'uso delle maschere sulvolto per la scena popolare data nel Lazio da antichissi-mo tempo, mentre la scena greca in Roma adottò le ma-schere sul volto soltanto un secolo dopo la sua institu-

117 [L'autore intende l'arte di porre in azione i cori, o di accor-dare le canzoni che si intonavano da molti insieme, e dice Cho-reutica che conservammo. Se non avessimo temuto l'uso esclusi-vo invalso oggidì avremmo potuto dire «coreografia», poichècome il χορός vuol dire una brigata di cantanti e mimi, cosìχορεία indica una danza, in cui si mescoli musica e canto; e ilχορεῖος può applicarsi principalmente al canto].

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pure poco adatti a sviluppare una costruzione ritmica ca-pace di più elevate costruzioni poetiche.

Gli elementi fondamentali della musica popolare edella coreutica117 del Lazio che appunto intorno a questitemi dovettero cominciar a fiorire, scomparvero poi sen-za lasciar traccia durevole, meno la descrizione che civien fatta del flauto latino come d'un istrumento corto esottile munito di soli quattro buchi, formato originaria-mente, come lo prova il nome, da un osso leggero dellatibia d'un animale.

Che infine le maschere tipiche e di carattere dellacommedia popolare latina, o delle così dette atellane ve-nute più tardi: Maccus l'arlecchino, Bucco il mangiato-re, Pappus il buon babbo, il savio Dossenus – maschereche si possono paragonare assai ai due servitori, al Pan-talone e al «dottore» della commedia italiana di Pulci-nella – che queste maschere figurassero già nella primi-tiva commedia popolare dei Latini non lo si può vera-mente provare; siccome però l'uso delle maschere sulvolto per la scena popolare data nel Lazio da antichissi-mo tempo, mentre la scena greca in Roma adottò le ma-schere sul volto soltanto un secolo dopo la sua institu-

117 [L'autore intende l'arte di porre in azione i cori, o di accor-dare le canzoni che si intonavano da molti insieme, e dice Cho-reutica che conservammo. Se non avessimo temuto l'uso esclusi-vo invalso oggidì avremmo potuto dire «coreografia», poichècome il χορός vuol dire una brigata di cantanti e mimi, cosìχορεία indica una danza, in cui si mescoli musica e canto; e ilχορεῖος può applicarsi principalmente al canto].

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zione, e siccome le maschere atellane sono di pretta ori-gine italica, e inoltre non può immaginarsi possibile laproduzione e l'esecuzione di commedie improvvisatesenza maschere fisse che assegnino una volta per sem-pre a ciascun attore la sua posizione nella commedia,sarà permesso di far risalire le maschere tipiche ai pri-mordi del teatro romano stesso, o piuttosto di conside-rarle come i primi elementi di esso.

3 La più antica influenza ellenica. Se poveresono le sorgenti, a cui possiamo attingere notizie dellapiù antica coltura indigena e dell'arte del Lazio, non èmeraviglia se sappiamo ancor meno dei primi incita-menti, che i Romani ricevettero dagli stranieri alla col-tura delle belle arti. In un certo senso si può annoveraretra questi eccitamenti la conoscenza delle lingue stranie-re e particolarmente della lingua greca, la quale, è bennaturale, non era nota al popolo latino, come ce ne faprova la disposizione relativa al modo di interpretare glioracoli sibillini, ma non doveva però essere affatto igno-ta tra i commercianti; e lo stesso può dirsi della cono-scenza del leggere e dello scrivere, la quale è stretta-mente congiunta colla conoscenza del greco. Ma la col-tura dei popoli antichi non si fondava già sulla notizia dilingue straniere, o di elementari pratiche tecniche; e perla civiltà latina, più che tali comunicazioni, importavanogli elementi delle concezioni poetiche, che essi avevanogià in tempi anteriori ricevuti dagli Elleni. Poichè a que-sto riguardo nè i Fenici, nè gli Etruschi, nè gli Elleni

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zione, e siccome le maschere atellane sono di pretta ori-gine italica, e inoltre non può immaginarsi possibile laproduzione e l'esecuzione di commedie improvvisatesenza maschere fisse che assegnino una volta per sem-pre a ciascun attore la sua posizione nella commedia,sarà permesso di far risalire le maschere tipiche ai pri-mordi del teatro romano stesso, o piuttosto di conside-rarle come i primi elementi di esso.

3 La più antica influenza ellenica. Se poveresono le sorgenti, a cui possiamo attingere notizie dellapiù antica coltura indigena e dell'arte del Lazio, non èmeraviglia se sappiamo ancor meno dei primi incita-menti, che i Romani ricevettero dagli stranieri alla col-tura delle belle arti. In un certo senso si può annoveraretra questi eccitamenti la conoscenza delle lingue stranie-re e particolarmente della lingua greca, la quale, è bennaturale, non era nota al popolo latino, come ce ne faprova la disposizione relativa al modo di interpretare glioracoli sibillini, ma non doveva però essere affatto igno-ta tra i commercianti; e lo stesso può dirsi della cono-scenza del leggere e dello scrivere, la quale è stretta-mente congiunta colla conoscenza del greco. Ma la col-tura dei popoli antichi non si fondava già sulla notizia dilingue straniere, o di elementari pratiche tecniche; e perla civiltà latina, più che tali comunicazioni, importavanogli elementi delle concezioni poetiche, che essi avevanogià in tempi anteriori ricevuti dagli Elleni. Poichè a que-sto riguardo nè i Fenici, nè gli Etruschi, nè gli Elleni

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esercitarono alcuna influenza sugli Italici; e presso diessi non si incontra il menomo indizio d'imitazione checi faccia pensare a Cartagine o a Cere; e ben può dirsiche le forme della coltura fenicia non meno chedell'etrusca sono da porre fra le sterili e inette a fecondapropagazione118. Ma non mancò la proficua influenzagreca. La lira greca dalle sette corde, detta lecorde (fi-des da σϕίδη budello, anche barbitus βάρβιτος) non è in-digena del Lazio come il flauto, e vi fu sempre conside-rata come istrumento straniero; ma quanto presto vi siastata introdotta lo prova in parte la barbara sineddochedel nome greco, in parte la sua introduzione nel ritua-le119. La rispettosa accoglienza fatta alle statue greche

118 Il racconto, che i «fanciulli romani un tempo avesseroavuto istruzione etrusca, e più tardi istruzione greca» (LIVIO, 9,36) si accorda così poco coi principii elementari dell'educazionedella gioventù romana, che non si può immaginare che cosadall'Etruria imparassero i fanciulli romani. Che in quei tempi lostudio della lingua etrusca fosse per Roma ciò che oggidì è pernoi lo studio della lingua francese, non vorranno sostenere neppu-re i più caldi odierni ammiratori del culto di Tagete. E per veritàera considerata, per chi non fosse etrusco, cosa vergognosa, anziimpossibile (MÜLLER, Etr., 2, 4) anche presso coloro che si servi-vano dell'aruspicina etrusca, il volerne capire qualche cosa. È ve-rosimile, che questo racconto sia stato ordito dagli archeologietruschi degli ultimi tempi della repubblica sulle tradizioni pram-matiche de' più antichi annali, i quali p. e. fanno imparare la lin-gua etrusca a Muzio Scevola essendo ancora fanciullo, affinchèpossa intrattenersi con Porsenna. (DIONISIO, 5, 28; PLUTARCO, Po-plicola, 17; cfr. DIONISIO, 3, 70).

119 L'uso della lira nel rituale è affermata da CICERONE, de389

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esercitarono alcuna influenza sugli Italici; e presso diessi non si incontra il menomo indizio d'imitazione checi faccia pensare a Cartagine o a Cere; e ben può dirsiche le forme della coltura fenicia non meno chedell'etrusca sono da porre fra le sterili e inette a fecondapropagazione118. Ma non mancò la proficua influenzagreca. La lira greca dalle sette corde, detta lecorde (fi-des da σϕίδη budello, anche barbitus βάρβιτος) non è in-digena del Lazio come il flauto, e vi fu sempre conside-rata come istrumento straniero; ma quanto presto vi siastata introdotta lo prova in parte la barbara sineddochedel nome greco, in parte la sua introduzione nel ritua-le119. La rispettosa accoglienza fatta alle statue greche

118 Il racconto, che i «fanciulli romani un tempo avesseroavuto istruzione etrusca, e più tardi istruzione greca» (LIVIO, 9,36) si accorda così poco coi principii elementari dell'educazionedella gioventù romana, che non si può immaginare che cosadall'Etruria imparassero i fanciulli romani. Che in quei tempi lostudio della lingua etrusca fosse per Roma ciò che oggidì è pernoi lo studio della lingua francese, non vorranno sostenere neppu-re i più caldi odierni ammiratori del culto di Tagete. E per veritàera considerata, per chi non fosse etrusco, cosa vergognosa, anziimpossibile (MÜLLER, Etr., 2, 4) anche presso coloro che si servi-vano dell'aruspicina etrusca, il volerne capire qualche cosa. È ve-rosimile, che questo racconto sia stato ordito dagli archeologietruschi degli ultimi tempi della repubblica sulle tradizioni pram-matiche de' più antichi annali, i quali p. e. fanno imparare la lin-gua etrusca a Muzio Scevola essendo ancora fanciullo, affinchèpossa intrattenersi con Porsenna. (DIONISIO, 5, 28; PLUTARCO, Po-plicola, 17; cfr. DIONISIO, 3, 70).

119 L'uso della lira nel rituale è affermata da CICERONE, de389

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colle loro rappresentazioni mitologiche, che erano fon-date sul mondo poetico degli Elleni, prova che già fin daque' tempi erano note ai Latini le leggende e le tradizio-ni greche; e anche le antiche storpiature barbariche deiLatini, che mutarono il Ciclope in Cocles, Laomedontein Alumentus, Persefone in Proserpina, Bellerofonte inMelerpanta, Ganimede in Catamitus, Neilos in Melus,Semele in Stimula, ci persuadono che questi racconti fu-rono uditi per la prima volta e ripetuti dai Latini in tem-pi antichissimi. Finalmente la principale festa romanadella città (ludi maximi romani) non può non aver avuto,se non la sua origine, almeno il suo ultimo ordinamento,dall'influenza greca. Questa festa era istituita in segno digrazie straordinarie, di solito dietro il voto fatto da ungenerale prima della battaglia, e solennemente al ritornodella milizia cittadina in autunno, ed era destinata a Gio-ve capitolino ed agli dei conviventi con esso. Si andavain processione solenne sull'arena situata tra il Palatino e

orat., 3, 51, 197; Tusc., 4, 2, 4; da DIONIGI, 7, 72; da APPIANO,Pun., 66 e dalle iscrizioni di ORELLI, 2448, confr. 1803. Essa fuanche in uso nelle nenie (Varrone presso NONIO sotto nenia epraeficiae). Ma il suonar la lira non parve per ciò meno sconve-niente (Scipione presso MACROB., sat., 2, 10 e altrove); dalla proi-bizione della musica nell'anno 639 furono eccettuati solo i suona-tori di flauto latino, i cantori, non già i suonatori di lira; e gli ospi-ti cantavano al banchetto accompagnati dal flauto (Catone pressoCIC., Tusc., 1, 2, 3, 4, 2, 3); Varrone presso NONIO sotto assa voce;ORAZIO, carm., 4, 15, 39). Quintiliano il quale dice il contrario(inst., 1, 10, 20) ha riportato inesattamente sui banchetti privaticiò che CICERONE, de or., 3, 51 racconta sui banchetti degli dei.

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colle loro rappresentazioni mitologiche, che erano fon-date sul mondo poetico degli Elleni, prova che già fin daque' tempi erano note ai Latini le leggende e le tradizio-ni greche; e anche le antiche storpiature barbariche deiLatini, che mutarono il Ciclope in Cocles, Laomedontein Alumentus, Persefone in Proserpina, Bellerofonte inMelerpanta, Ganimede in Catamitus, Neilos in Melus,Semele in Stimula, ci persuadono che questi racconti fu-rono uditi per la prima volta e ripetuti dai Latini in tem-pi antichissimi. Finalmente la principale festa romanadella città (ludi maximi romani) non può non aver avuto,se non la sua origine, almeno il suo ultimo ordinamento,dall'influenza greca. Questa festa era istituita in segno digrazie straordinarie, di solito dietro il voto fatto da ungenerale prima della battaglia, e solennemente al ritornodella milizia cittadina in autunno, ed era destinata a Gio-ve capitolino ed agli dei conviventi con esso. Si andavain processione solenne sull'arena situata tra il Palatino e

orat., 3, 51, 197; Tusc., 4, 2, 4; da DIONIGI, 7, 72; da APPIANO,Pun., 66 e dalle iscrizioni di ORELLI, 2448, confr. 1803. Essa fuanche in uso nelle nenie (Varrone presso NONIO sotto nenia epraeficiae). Ma il suonar la lira non parve per ciò meno sconve-niente (Scipione presso MACROB., sat., 2, 10 e altrove); dalla proi-bizione della musica nell'anno 639 furono eccettuati solo i suona-tori di flauto latino, i cantori, non già i suonatori di lira; e gli ospi-ti cantavano al banchetto accompagnati dal flauto (Catone pressoCIC., Tusc., 1, 2, 3, 4, 2, 3); Varrone presso NONIO sotto assa voce;ORAZIO, carm., 4, 15, 39). Quintiliano il quale dice il contrario(inst., 1, 10, 20) ha riportato inesattamente sui banchetti privaticiò che CICERONE, de or., 3, 51 racconta sui banchetti degli dei.

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l'Aventino, ove era tracciato l'arengo con tutto intorno iposti per gli spettatori: precedevano i giovani di Romaordinati secondo le divisioni della milizia cittadina a ca-vallo e a piedi; venivano poi i lottatori e i gruppi deidanzatori già descritti, ognuno colla propria musica; indii servi degli dei coi loro incensieri e gli altri sacri arredi;finalmente le barelle colle statue degli dei. Lo spettacoloera una immagine della guerra come la si faceva negliantichi tempi e quindi il combattimento sui carri, a ca-vallo e a piedi. I primi a cimentarsi erano i carri da bat-taglia, ognuno dei quali, al modo omerico, portava unauriga ed un giostratore essediario, quindi gli stessi gio-stratori balzati giù dai carri; poi i cavalieri, ognuno de'quali, seguendo la maniera romana di combattere, entra-va nella lizza a cavallo e con un altro cavallo condotto amano (desultor): finalmente i giostratori a piedi, affattonudi meno una cintura alle anche, che si misuravanonella corsa, nella lotta e nel pugilato. In ogni specie dicombattimento non si veniva alle prese che una solavolta e sempre tra due campioni. Il vincitore era premia-to con una corona, e in qual conto si tenesse quel sem-plice ramo lo prova la legge che permetteva di porlo sul-la bara del vincitore dopo la sua morte. La festa duravaun sol giorno: è però verosimile che le lotte lasciasseroancora tempo pel vero carnevale, in cui i gruppi dei dan-zatori avranno spiegato la loro abilità e particolarmentele loro buffonerie, ed avranno avuto luogo altri spettaco-li, come ad esempio, giuochi ginnastici della cavalleria

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l'Aventino, ove era tracciato l'arengo con tutto intorno iposti per gli spettatori: precedevano i giovani di Romaordinati secondo le divisioni della milizia cittadina a ca-vallo e a piedi; venivano poi i lottatori e i gruppi deidanzatori già descritti, ognuno colla propria musica; indii servi degli dei coi loro incensieri e gli altri sacri arredi;finalmente le barelle colle statue degli dei. Lo spettacoloera una immagine della guerra come la si faceva negliantichi tempi e quindi il combattimento sui carri, a ca-vallo e a piedi. I primi a cimentarsi erano i carri da bat-taglia, ognuno dei quali, al modo omerico, portava unauriga ed un giostratore essediario, quindi gli stessi gio-stratori balzati giù dai carri; poi i cavalieri, ognuno de'quali, seguendo la maniera romana di combattere, entra-va nella lizza a cavallo e con un altro cavallo condotto amano (desultor): finalmente i giostratori a piedi, affattonudi meno una cintura alle anche, che si misuravanonella corsa, nella lotta e nel pugilato. In ogni specie dicombattimento non si veniva alle prese che una solavolta e sempre tra due campioni. Il vincitore era premia-to con una corona, e in qual conto si tenesse quel sem-plice ramo lo prova la legge che permetteva di porlo sul-la bara del vincitore dopo la sua morte. La festa duravaun sol giorno: è però verosimile che le lotte lasciasseroancora tempo pel vero carnevale, in cui i gruppi dei dan-zatori avranno spiegato la loro abilità e particolarmentele loro buffonerie, ed avranno avuto luogo altri spettaco-li, come ad esempio, giuochi ginnastici della cavalleria

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de' giovani120. In questa solennità avevano una parte an-che le onoranze concesse per la vera guerra: il valorosocampione esponeva in questo giorno le armature degliavversari uccisi e riceveva dal comune, con gli encomi,la corona civica. La festa della città di Roma era tale,che essa secondo tutte le apparenze ha servito d'esempioanche per tutte le altre feste pubbliche di Roma. La festadella vittoria, la «danza», era una solenne processionedel tutto eguale alla festa urbana, e alla quale andavanouniti spesse volte eguali divertimenti popolari; nei pub-blici funerali vi erano d'ordinario dei danzatori, e quan-do si voleva uno sfarzo maggiore, vi si davano dellecorse, di cui il pubblico banditore dava notizia ai cittadi-

120 La festa della città nelle sue origini non può aver duratoche un sol giorno, poichè ancora nel sesto secolo si componeva diquattro giorni di spettacoli scenici e di un giorno di giuochi cir-censi (RITSCHL, Parerga, 1, 313), ed è notorio che gli spettacoliscenici vennero aggiunti solo più tardi. Che originariamente si di-scendesse nella lizza una sola volta per ogni specie di combatti-mento lo dice LIVIO, 44, 9; se più tardi in un giorno solenne corse-ro venticinque paia di carri di seguito (Varrone presso SERVIO,georg., 3, 18) fu questa un'innovazione. Che combattessero sol-tanto due carri, e quindi soltanto due cavalieri e due giostratoriper ottenere il premio, è una conseguenza del fatto, che in tutti itempi nelle corse delle bighe dei Romani non correvano nellostesso tempo che tanti carri, quante erano le così dette fazioni, edi queste in origine non ve n'erano che due, la bianca e la rossa. Igiuochi ginnastici a cavallo de' giovani patrizi, la cosiddetta gio-stra (troia), furono, come è noto, richiamati in vita da Cesare: essisi univano senza dubbio nella processione alla milizia cittadinadei giovani a cavallo, di cui parla DIONISIO, 7, 72.

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de' giovani120. In questa solennità avevano una parte an-che le onoranze concesse per la vera guerra: il valorosocampione esponeva in questo giorno le armature degliavversari uccisi e riceveva dal comune, con gli encomi,la corona civica. La festa della città di Roma era tale,che essa secondo tutte le apparenze ha servito d'esempioanche per tutte le altre feste pubbliche di Roma. La festadella vittoria, la «danza», era una solenne processionedel tutto eguale alla festa urbana, e alla quale andavanouniti spesse volte eguali divertimenti popolari; nei pub-blici funerali vi erano d'ordinario dei danzatori, e quan-do si voleva uno sfarzo maggiore, vi si davano dellecorse, di cui il pubblico banditore dava notizia ai cittadi-

120 La festa della città nelle sue origini non può aver duratoche un sol giorno, poichè ancora nel sesto secolo si componeva diquattro giorni di spettacoli scenici e di un giorno di giuochi cir-censi (RITSCHL, Parerga, 1, 313), ed è notorio che gli spettacoliscenici vennero aggiunti solo più tardi. Che originariamente si di-scendesse nella lizza una sola volta per ogni specie di combatti-mento lo dice LIVIO, 44, 9; se più tardi in un giorno solenne corse-ro venticinque paia di carri di seguito (Varrone presso SERVIO,georg., 3, 18) fu questa un'innovazione. Che combattessero sol-tanto due carri, e quindi soltanto due cavalieri e due giostratoriper ottenere il premio, è una conseguenza del fatto, che in tutti itempi nelle corse delle bighe dei Romani non correvano nellostesso tempo che tanti carri, quante erano le così dette fazioni, edi queste in origine non ve n'erano che due, la bianca e la rossa. Igiuochi ginnastici a cavallo de' giovani patrizi, la cosiddetta gio-stra (troia), furono, come è noto, richiamati in vita da Cesare: essisi univano senza dubbio nella processione alla milizia cittadinadei giovani a cavallo, di cui parla DIONISIO, 7, 72.

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ni nell'invitarli alla funebre solennità. Ma questa festaurbana, così strettamente conforme ai costumi e agli usidi Roma, assomiglia in tutte le parti essenziali alle festepopolari elleniche: e così prima di tutto è comune alleune e all'altra il pensiero fondamentale dell'unione d'unafesta religiosa e di una gara di esercizi e simulacri belli-ci; poi è uguale la scelta dei vari esercizi, i quali sonoquelli stessi che, giusta la testimonianza di Pindaro, sicelebravano nelle feste olimpiche, e che consistevanonella corsa, nella lotta, nel pugilato, nella gara dei carri,nel lanciare aste e pietre; eguali le disposizioni pel pre-mio del vincitore, che tanto in Roma, quanto nelle festenazionali della Grecia consisteva in una corona, e chenell'un paese come nell'altro non era data all'auriga, sib-bene al proprietario dei cavalli; si riscontra finalmentenella festa universale del popolo anche l'uso di solenniz-zare le azioni e le ricompense patriottiche. Questa con-cordanza non può essere accidentale, ma, o deve essereun resto dell'antichissima comunanza preistorica dei duepopoli, o l'effetto di antiche relazioni internazionali; e laverosimiglianza ci fa pendere per quest'ultima ipotesi.

La festa urbana, come noi la conosciamo, non è giàuna delle più vetuste instituzioni di Roma, poichè lapiazza delle corse appartiene già al novero di quelle delmeno antico tempo dei re e nel modo come allora av-venne la riforma sotto l'influenza greca così nella festadella città possono essere state sostituite le corse grechea qualche antico divertimento – forse all'altalena, anti-chissimo divertimento in Italia, rimasto lungamente in

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ni nell'invitarli alla funebre solennità. Ma questa festaurbana, così strettamente conforme ai costumi e agli usidi Roma, assomiglia in tutte le parti essenziali alle festepopolari elleniche: e così prima di tutto è comune alleune e all'altra il pensiero fondamentale dell'unione d'unafesta religiosa e di una gara di esercizi e simulacri belli-ci; poi è uguale la scelta dei vari esercizi, i quali sonoquelli stessi che, giusta la testimonianza di Pindaro, sicelebravano nelle feste olimpiche, e che consistevanonella corsa, nella lotta, nel pugilato, nella gara dei carri,nel lanciare aste e pietre; eguali le disposizioni pel pre-mio del vincitore, che tanto in Roma, quanto nelle festenazionali della Grecia consisteva in una corona, e chenell'un paese come nell'altro non era data all'auriga, sib-bene al proprietario dei cavalli; si riscontra finalmentenella festa universale del popolo anche l'uso di solenniz-zare le azioni e le ricompense patriottiche. Questa con-cordanza non può essere accidentale, ma, o deve essereun resto dell'antichissima comunanza preistorica dei duepopoli, o l'effetto di antiche relazioni internazionali; e laverosimiglianza ci fa pendere per quest'ultima ipotesi.

La festa urbana, come noi la conosciamo, non è giàuna delle più vetuste instituzioni di Roma, poichè lapiazza delle corse appartiene già al novero di quelle delmeno antico tempo dei re e nel modo come allora av-venne la riforma sotto l'influenza greca così nella festadella città possono essere state sostituite le corse grechea qualche antico divertimento – forse all'altalena, anti-chissimo divertimento in Italia, rimasto lungamente in

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uso nella festa del monte Albano. E a dir vero, nell'Ella-de v'è indizio e prova che i carri si siano veramente usatiin guerra; nel Lazio no. Di più vi è perfino una testimo-nianza positiva, che i Romani hanno tolto le corse deicavalli e dei carri dai Turi, quantunque un'altra indica-zione li voglia derivare dall'Etruria. Pare dopo tutto ciò,che i Romani, oltre gl'insegnamenti nella musica e nellapoesia, abbiano attinto dagli Elleni anche il fecondopensiero della gara ginnastica.

4 Carattere della poesia e della educazione del-la gioventù. Esistevano dunque nel Lazio non solo glistessi elementi, dai quali in Grecia era sorta la coltura el'arte, ma questa stessa coltura e quest'arte greca aveva-no persino ne' più antichi tempi avuta una grandissimainfluenza sul Lazio. I Latini possedevano gli elementidella ginnastica non solo perchè il giovanetto romanosapeva guidare cavalli e carri come qualunque garzon-cello della campagna e trattar l'asta da caccia; non soloperchè era educato alla milizia, come tutti i cittadini diRoma; ma perchè l'arte della danza era sempre stata col-tivata con pubblico onore, e perchè alla ginnastica erastato dato uno stimolo non lieve coll'istituzione dellegare circensi all'uso greco. Rispetto alla poesia poi, la li-rica greca e la tragedia erano nate da quelle stesse can-zoni che si dicevano nelle solennità romane; le laudi de-gli avi portavano in sè i germi dell'epopea come le bur-lette delle maschere quelli della commedia; ed anche inciò non mancava l'influenza greca. Tanto più deve pare-

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uso nella festa del monte Albano. E a dir vero, nell'Ella-de v'è indizio e prova che i carri si siano veramente usatiin guerra; nel Lazio no. Di più vi è perfino una testimo-nianza positiva, che i Romani hanno tolto le corse deicavalli e dei carri dai Turi, quantunque un'altra indica-zione li voglia derivare dall'Etruria. Pare dopo tutto ciò,che i Romani, oltre gl'insegnamenti nella musica e nellapoesia, abbiano attinto dagli Elleni anche il fecondopensiero della gara ginnastica.

4 Carattere della poesia e della educazione del-la gioventù. Esistevano dunque nel Lazio non solo glistessi elementi, dai quali in Grecia era sorta la coltura el'arte, ma questa stessa coltura e quest'arte greca aveva-no persino ne' più antichi tempi avuta una grandissimainfluenza sul Lazio. I Latini possedevano gli elementidella ginnastica non solo perchè il giovanetto romanosapeva guidare cavalli e carri come qualunque garzon-cello della campagna e trattar l'asta da caccia; non soloperchè era educato alla milizia, come tutti i cittadini diRoma; ma perchè l'arte della danza era sempre stata col-tivata con pubblico onore, e perchè alla ginnastica erastato dato uno stimolo non lieve coll'istituzione dellegare circensi all'uso greco. Rispetto alla poesia poi, la li-rica greca e la tragedia erano nate da quelle stesse can-zoni che si dicevano nelle solennità romane; le laudi de-gli avi portavano in sè i germi dell'epopea come le bur-lette delle maschere quelli della commedia; ed anche inciò non mancava l'influenza greca. Tanto più deve pare-

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re singolare che tutta questa ricchezza di germi non sisviluppasse, e riuscisse a nulla. L'educazione fisica dellagioventù latina rimase aspra e vigorosa, ma estranea alpensiero di quel perfezionamento artistico del corpo, acui tendeva la ginnastica ellenica. Le lotte pubbliche de-gli Elleni non cambiavano in Italia la loro forma esterio-re, ma il loro spirito e la loro sostanza. Mentre dovevanoessere gare dei cittadini – e tali senza alcun dubbio furo-no appunto nei primordi di Roma – divennero in seguitolotte di cavallerizzi e schermidori; e se la prima condi-zione per l'ammissione ai giuochi solenni della Greciaera quella di un'origine libera ed ellenica, i giuochi so-lenni romani finivano presto nelle mani di liberti e distranieri, e persino di schiavi. Il popolo dei combattentisi cambiò per conseguenza in un pubblico di spettatori,e appena più tardi nel Lazio si parlò della corona delvincitore, che con ragione si chiamò l'insegna della no-biltà ellenica. La stessa sorte ebbero la poesia e le artisorelle. I soli Greci ed i Tedeschi posseggono la sponta-nea, non artificiosa e zampillante scaturigine delle can-zoni; sul verde suolo d'Italia sono appena cadute alcunepoche goccie dall'aurea coppa delle muse. Il pensieropoetico non potè colorirsi a vera forma di leggenda. Glidei d'Italia erano e rimasero astrazioni, nè mai poteronolevarsi, o se si vuole mai si sono abbassati ad una veraforma personale. E così gli uomini, anche i più grandi epiù ammirati, sono rimasti però sempre e senza eccezio-ne presso gli Italici colle loro forme umane, e non furo-no, come in Grecia, abbelliti dalla poesia della ricordan-

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re singolare che tutta questa ricchezza di germi non sisviluppasse, e riuscisse a nulla. L'educazione fisica dellagioventù latina rimase aspra e vigorosa, ma estranea alpensiero di quel perfezionamento artistico del corpo, acui tendeva la ginnastica ellenica. Le lotte pubbliche de-gli Elleni non cambiavano in Italia la loro forma esterio-re, ma il loro spirito e la loro sostanza. Mentre dovevanoessere gare dei cittadini – e tali senza alcun dubbio furo-no appunto nei primordi di Roma – divennero in seguitolotte di cavallerizzi e schermidori; e se la prima condi-zione per l'ammissione ai giuochi solenni della Greciaera quella di un'origine libera ed ellenica, i giuochi so-lenni romani finivano presto nelle mani di liberti e distranieri, e persino di schiavi. Il popolo dei combattentisi cambiò per conseguenza in un pubblico di spettatori,e appena più tardi nel Lazio si parlò della corona delvincitore, che con ragione si chiamò l'insegna della no-biltà ellenica. La stessa sorte ebbero la poesia e le artisorelle. I soli Greci ed i Tedeschi posseggono la sponta-nea, non artificiosa e zampillante scaturigine delle can-zoni; sul verde suolo d'Italia sono appena cadute alcunepoche goccie dall'aurea coppa delle muse. Il pensieropoetico non potè colorirsi a vera forma di leggenda. Glidei d'Italia erano e rimasero astrazioni, nè mai poteronolevarsi, o se si vuole mai si sono abbassati ad una veraforma personale. E così gli uomini, anche i più grandi epiù ammirati, sono rimasti però sempre e senza eccezio-ne presso gli Italici colle loro forme umane, e non furo-no, come in Grecia, abbelliti dalla poesia della ricordan-

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za, e dall'amorosissima tradizione trasfigurati nella men-te della moltitudine in eroi pari agli dei. E innanzi tuttonel Lazio non si giunse allo sviluppo d'una poesia nazio-nale. Il più magnifico miracolo che operano le muse, eparticolarmente la poesia, è questo, che esse tolgono viale barriere, le quali dividono le diverse società politiche,e che dalle tribù suscitano un popolo, dai popoli unmondo. Come al giorno d'oggi vengono ad armonizzarsile antitesi delle nazioni civili nella nostra letteraturamondiale, che per la sua universalità le riassume, cosìl'arte poetica greca mutò l'angusto ed egoistico senti-mento di razza in una coscienza nazionale ellenica edallargò questa coscienza sino al presentimento dell'uma-nità. Ma nel Lazio non avvenne nulla di simile. Se an-che vi siano stati poeti a Roma ed a Tuscolo, non vi sor-se però alcuna epopea latina, e nemmeno, ciò che sareb-be stato più facile, un catechismo latino pei contadini amodo delle «Opere e i giorni» d'Esiodo. La festa latinadella federazione ben avrebbe potuto diventare una festanazionale delle muse, come presso i Greci lo divennero igiuochi olimpici ed istmici; intorno alla caduta d'Albaben avrebbe potuto annodarsi un ciclo di tradizioni e dileggende, come intorno all'espugnazione d'Ilio, ed ognicomune ed ogni nobile gente del Lazio ritrovarvi o inne-starvi le sue proprie origini; ma non si fece nè l'una nèl'altra cosa, e l'Italia rimase senza poesia e senza arte na-zionale. Da ciò è forza trarre l'illazione, la quale vieneanche chiaramente confermata dalla tradizione, che ilprocesso delle belle arti nel Lazio fosse piuttosto una

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za, e dall'amorosissima tradizione trasfigurati nella men-te della moltitudine in eroi pari agli dei. E innanzi tuttonel Lazio non si giunse allo sviluppo d'una poesia nazio-nale. Il più magnifico miracolo che operano le muse, eparticolarmente la poesia, è questo, che esse tolgono viale barriere, le quali dividono le diverse società politiche,e che dalle tribù suscitano un popolo, dai popoli unmondo. Come al giorno d'oggi vengono ad armonizzarsile antitesi delle nazioni civili nella nostra letteraturamondiale, che per la sua universalità le riassume, cosìl'arte poetica greca mutò l'angusto ed egoistico senti-mento di razza in una coscienza nazionale ellenica edallargò questa coscienza sino al presentimento dell'uma-nità. Ma nel Lazio non avvenne nulla di simile. Se an-che vi siano stati poeti a Roma ed a Tuscolo, non vi sor-se però alcuna epopea latina, e nemmeno, ciò che sareb-be stato più facile, un catechismo latino pei contadini amodo delle «Opere e i giorni» d'Esiodo. La festa latinadella federazione ben avrebbe potuto diventare una festanazionale delle muse, come presso i Greci lo divennero igiuochi olimpici ed istmici; intorno alla caduta d'Albaben avrebbe potuto annodarsi un ciclo di tradizioni e dileggende, come intorno all'espugnazione d'Ilio, ed ognicomune ed ogni nobile gente del Lazio ritrovarvi o inne-starvi le sue proprie origini; ma non si fece nè l'una nèl'altra cosa, e l'Italia rimase senza poesia e senza arte na-zionale. Da ciò è forza trarre l'illazione, la quale vieneanche chiaramente confermata dalla tradizione, che ilprocesso delle belle arti nel Lazio fosse piuttosto una

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pietrificazione che una fioritura. La poesia nascente hadappertutto piuttosto del femmineo che del virile; lacanzone magica ed il cantico funebre appartengono dipreferenza alle donne, e non a caso furono immaginatidi sesso femminile, nel Lazio, i numi del canto, le camè-ne, come nell'Ellade le muse. Ma nell'Ellade venne ilmomento in cui il poeta sottentrò alla cantatrice, e Apol-lo si pose alla testa delle muse. Non deve credersi chenel Lazio sia mancato ogni indizio di questa mutazionedi concetti poetici, e sebbene non vi fosse un dio nazio-nale latino del canto, rimase però tra i Latini un profon-do e misterioso fascino a nome del sacro poeta, delvate121. Ma questa potenza ideale appena sorta decadde,nè mai si levò a quell'autorità che in Grecia, come ce loprova indubbiamente il veder dal costume e dalla leggeconfinato l'esercizio delle arti belle alle donne, ai fan-ciulli, agli artieri o legati in corporazioni o isolati. Giànotammo che le nenie erano cantate dalle donne, le can-zoni del banchetto dai fanciulli, i quali erano preferitianche pel canto delle litanie religiose. I suonatori eranoordinati in maestranze; i ballerini e le piagnone (praefi-cae) non formavano corporazione. Se nell'Ellade la dan-za, la mimica ed il canto rimasero sempre, come daprincipio erano state anche nel Lazio, occupazioni ono-

121 Vates è dapprima il cantore che predice (così è il vate deiSalii e si avvicina poi, nel più antico uso della lingua al grecoπροϕήτες; è una parola appartenente al rituale religioso, ed anchepiù tardi, quando è adoperata pel poeta, conserva sempre il con-cetto secondario del cantore inspirato, del sacerdote delle muse.

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pietrificazione che una fioritura. La poesia nascente hadappertutto piuttosto del femmineo che del virile; lacanzone magica ed il cantico funebre appartengono dipreferenza alle donne, e non a caso furono immaginatidi sesso femminile, nel Lazio, i numi del canto, le camè-ne, come nell'Ellade le muse. Ma nell'Ellade venne ilmomento in cui il poeta sottentrò alla cantatrice, e Apol-lo si pose alla testa delle muse. Non deve credersi chenel Lazio sia mancato ogni indizio di questa mutazionedi concetti poetici, e sebbene non vi fosse un dio nazio-nale latino del canto, rimase però tra i Latini un profon-do e misterioso fascino a nome del sacro poeta, delvate121. Ma questa potenza ideale appena sorta decadde,nè mai si levò a quell'autorità che in Grecia, come ce loprova indubbiamente il veder dal costume e dalla leggeconfinato l'esercizio delle arti belle alle donne, ai fan-ciulli, agli artieri o legati in corporazioni o isolati. Giànotammo che le nenie erano cantate dalle donne, le can-zoni del banchetto dai fanciulli, i quali erano preferitianche pel canto delle litanie religiose. I suonatori eranoordinati in maestranze; i ballerini e le piagnone (praefi-cae) non formavano corporazione. Se nell'Ellade la dan-za, la mimica ed il canto rimasero sempre, come daprincipio erano state anche nel Lazio, occupazioni ono-

121 Vates è dapprima il cantore che predice (così è il vate deiSalii e si avvicina poi, nel più antico uso della lingua al grecoπροϕήτες; è una parola appartenente al rituale religioso, ed anchepiù tardi, quando è adoperata pel poeta, conserva sempre il con-cetto secondario del cantore inspirato, del sacerdote delle muse.

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rate, anzi considerate come pregio e ornamento dei cit-tadini non meno che del comune, nel Lazio invece lamiglior parte dei cittadini rifuggiva sempre più da que-ste vane arti, tanto più risolutamente quanto più diventa-vano pubblico spettacolo e si mostravano sotto l'aspettod'imitazioni di costumi stranieri. Il flauto indigeno futollerato, ma non si volle ammettere la lira; e se si per-mettevano le nazionali farse colle maschere, gli spetta-coli stranieri della lotta venivano man mano giudicatinon solo indifferenti, ma disonorevoli. Mentre le artimusicali in Grecia diventavano sempre più un bene co-mune della nazione, e che per esse fiorisce e si propagauna coltura generale, esse vanno cancellandosi semprepiù dalla coscienza popolare dei Latini, scadono e si av-viliscono sino a diventare umili professioni, e coll'eclis-sarsi di questa luce ideale si perde anche l'idea di comu-nicare alla gioventù una generale coltura nazionale.L'educazione dei giovani rimase perciò interamente ri-stretta nei limiti della più angusta vita domestica. Il fi-glio non si scostava dal padre e lo accompagnava nonsolo nei campi coll'aratro e colla roncola, ma ancora nel-la casa dell'amico e nell'aula delle udienze se il padreera invitato a pranzo o se doveva recarsi a consiglio.

Questa educazione domestica era ben adatta a conser-vare l'uomo interamente per la casa e per lo stato; suquesta continua comunanza di vita tra padre e figlio, esulla reciproca soggezione dell'uomo che vien forman-dosi accanto all'uomo fatto, dell'uomo maturo accanto algiovanetto inesperto, si fondava la forza della tradizione

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rate, anzi considerate come pregio e ornamento dei cit-tadini non meno che del comune, nel Lazio invece lamiglior parte dei cittadini rifuggiva sempre più da que-ste vane arti, tanto più risolutamente quanto più diventa-vano pubblico spettacolo e si mostravano sotto l'aspettod'imitazioni di costumi stranieri. Il flauto indigeno futollerato, ma non si volle ammettere la lira; e se si per-mettevano le nazionali farse colle maschere, gli spetta-coli stranieri della lotta venivano man mano giudicatinon solo indifferenti, ma disonorevoli. Mentre le artimusicali in Grecia diventavano sempre più un bene co-mune della nazione, e che per esse fiorisce e si propagauna coltura generale, esse vanno cancellandosi semprepiù dalla coscienza popolare dei Latini, scadono e si av-viliscono sino a diventare umili professioni, e coll'eclis-sarsi di questa luce ideale si perde anche l'idea di comu-nicare alla gioventù una generale coltura nazionale.L'educazione dei giovani rimase perciò interamente ri-stretta nei limiti della più angusta vita domestica. Il fi-glio non si scostava dal padre e lo accompagnava nonsolo nei campi coll'aratro e colla roncola, ma ancora nel-la casa dell'amico e nell'aula delle udienze se il padreera invitato a pranzo o se doveva recarsi a consiglio.

Questa educazione domestica era ben adatta a conser-vare l'uomo interamente per la casa e per lo stato; suquesta continua comunanza di vita tra padre e figlio, esulla reciproca soggezione dell'uomo che vien forman-dosi accanto all'uomo fatto, dell'uomo maturo accanto algiovanetto inesperto, si fondava la forza della tradizione

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domestica e politica, l'intrinsichezza dei legami di fami-glia, e in generale l'austera gravità (gravitas) nonchè ilcarattere morale e dignitoso della vita dei Romani. Que-sta educazione della gioventù era anch'essa una di quelleispirazioni di saviezza semplice e appena conscia di sè,ispirazioni ingenue e profonde nel tempo stesso; mal'ammirazione ch'essa desta non deve farci dimenticarech'essa non poteva essere e non fu praticata senza il sa-crificio dello sviluppo colturale dell'individuo e senzaperdere in tutto i seducenti non meno che pericolosidoni delle Muse.

5 Danza, mimica e canto presso gli Etruschi edi Sabelli. Abbiamo così scarse notizie delle belle artipresso gli Etruschi ed i Sabelli, che tanto varrebbe nemancassimo affatto122. Si può tutt'al più accennare, che iballerini (histri, histriones) ed i suonatori di flauto (su-bulones) anche nell'Etruria devono assai presto, e forseprima che in Roma, aver fatto dell'arte loro un mestierepoichè non solo nella loro patria ma anche a Roma siproducevano pubblicamente per poca mercede e senzaonore. È poi rimarchevole, che nella festa nazionaleetrusca, solennizzata dalle dodici città unite col mezzod'un sacerdote della confederazione, si eseguissero giuo-chi come quelli in occasione della festa della città diRoma; ma noi non possiamo ora rispondere alla questio-

122 Proveremo a suo luogo, che le Atellane e i Fescennini nonappartengono all'arte dei Campani e degli Etruschi, sibbene aquella degli Italici.

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domestica e politica, l'intrinsichezza dei legami di fami-glia, e in generale l'austera gravità (gravitas) nonchè ilcarattere morale e dignitoso della vita dei Romani. Que-sta educazione della gioventù era anch'essa una di quelleispirazioni di saviezza semplice e appena conscia di sè,ispirazioni ingenue e profonde nel tempo stesso; mal'ammirazione ch'essa desta non deve farci dimenticarech'essa non poteva essere e non fu praticata senza il sa-crificio dello sviluppo colturale dell'individuo e senzaperdere in tutto i seducenti non meno che pericolosidoni delle Muse.

5 Danza, mimica e canto presso gli Etruschi edi Sabelli. Abbiamo così scarse notizie delle belle artipresso gli Etruschi ed i Sabelli, che tanto varrebbe nemancassimo affatto122. Si può tutt'al più accennare, che iballerini (histri, histriones) ed i suonatori di flauto (su-bulones) anche nell'Etruria devono assai presto, e forseprima che in Roma, aver fatto dell'arte loro un mestierepoichè non solo nella loro patria ma anche a Roma siproducevano pubblicamente per poca mercede e senzaonore. È poi rimarchevole, che nella festa nazionaleetrusca, solennizzata dalle dodici città unite col mezzod'un sacerdote della confederazione, si eseguissero giuo-chi come quelli in occasione della festa della città diRoma; ma noi non possiamo ora rispondere alla questio-

122 Proveremo a suo luogo, che le Atellane e i Fescennini nonappartengono all'arte dei Campani e degli Etruschi, sibbene aquella degli Italici.

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ne che viene naturalmente in seguito a questa, se cioègli Etruschi abbiano raggiunto meglio dei Latini la mètad'un'arte bella nazionale che fosse accettata da tutti i co-muni della lega. Può darsi d'altra parte che già per tem-pissimo si sia cominciato nell'Etruria a porre il fonda-mento di quel frivolo tesoro di dotti arzigogoli, princi-palmente teologici e astrologici, in base al quale poi iToschi, quando nell'universale decadimento venne infiore la scienza codina e pedantesca, divisero cogliEbrei, coi Caldei e cogli Egizi l'onore di essere ammiraticome primaria fonte di divina sapienza. Meno ancorasappiamo dell'arte sabellica; nè per questo possiamo ra-gionevolmente argomentare, che essa sia stata in condi-zioni inferiori di quella dei paesi vicini. Anzi, avvisandoal noto carattere delle tre schiatte principali italiche, sipuò supporre, che i Sanniti nelle doti artistiche si ap-prossimassero di più agli Elleni, e gli Etruschi piùd'ogni altro popolo italico se ne allontanassero; e il fattoseguente offre una certa conferma a questa opinione,che cioè i più ragguardevoli, i più singolari tra i poetiromani, come Nevio, Ennio, Lucilio, Orazio, apparten-gono ai paesi sannitici, mentre l'Etruria non ha nella let-teratura romana quasi altri rappresentanti fuori dell'areti-no Mecenate, il più insopportabile di tutti gli sbiaditi emelliflui poeti cortigiani, e di Persio da Volterra, verotipo di giovane poeta orgoglioso e codardo.

6 Antichissima architettura italica. Gli elementidell'architettura sono, come abbiamo già detto, un anti-

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ne che viene naturalmente in seguito a questa, se cioègli Etruschi abbiano raggiunto meglio dei Latini la mètad'un'arte bella nazionale che fosse accettata da tutti i co-muni della lega. Può darsi d'altra parte che già per tem-pissimo si sia cominciato nell'Etruria a porre il fonda-mento di quel frivolo tesoro di dotti arzigogoli, princi-palmente teologici e astrologici, in base al quale poi iToschi, quando nell'universale decadimento venne infiore la scienza codina e pedantesca, divisero cogliEbrei, coi Caldei e cogli Egizi l'onore di essere ammiraticome primaria fonte di divina sapienza. Meno ancorasappiamo dell'arte sabellica; nè per questo possiamo ra-gionevolmente argomentare, che essa sia stata in condi-zioni inferiori di quella dei paesi vicini. Anzi, avvisandoal noto carattere delle tre schiatte principali italiche, sipuò supporre, che i Sanniti nelle doti artistiche si ap-prossimassero di più agli Elleni, e gli Etruschi piùd'ogni altro popolo italico se ne allontanassero; e il fattoseguente offre una certa conferma a questa opinione,che cioè i più ragguardevoli, i più singolari tra i poetiromani, come Nevio, Ennio, Lucilio, Orazio, apparten-gono ai paesi sannitici, mentre l'Etruria non ha nella let-teratura romana quasi altri rappresentanti fuori dell'areti-no Mecenate, il più insopportabile di tutti gli sbiaditi emelliflui poeti cortigiani, e di Persio da Volterra, verotipo di giovane poeta orgoglioso e codardo.

6 Antichissima architettura italica. Gli elementidell'architettura sono, come abbiamo già detto, un anti-

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chissimo patrimonio comune delle razze. La casa d'abi-tazione forma il tema fondamentale d'ogni architettura;tema affatto identico presso i Greci e presso gli Italici.Fabbricata di legno, con un tetto acuminato coperto dipaglia o di assicelle, essa forma uno spazio quadrato diabitazione, dal quale esce il fumo per un'apertura del tet-to (cavum oedium), per cui penetra la luce, e la qualecombina col buco fatto nel suolo per raccogliervi l'acquapiovana. Sotto questo «nero coperto» (atrium) si prepa-rano e si mangiano le vivande, si adorano gli dei dome-stici; qui si pone il letto matrimoniale, qui la bara; qui ilmarito riceve gli ospiti, qui la donna siede e fila in mez-zo alle sue fantesche. La casa non aveva vestibolo, ameno che come tale non si volesse considerare lo spazioscoperto tra la porta della casa e la strada, che prese ilnome di vestibulum, cioè luogo per vestirsi, poichè incasa si usava di stare colla sottoveste, e s'indossava latoga solo quando si usciva. Mancava anche una divisio-ne delle camere, ma d'intorno allo spazio d'abitazione sipotevano praticare camere da letto e dispense; sarebbepoi ozioso parlare di scale e di piani superiori. Se e inqual modo da questi rudimenti nascesse un'architetturaitalica nazionale non si può stabilire giacchè sino da'primi tempi l'influenza greca sopravvenne apportando isuoi ornamenti a quei primi germi architettonici che pre-esistevano in Italia.

Già la più antica architettura italica, di cui ci giunsenotizia, ci si mostra dominata dall'influenza greca nonmolto meno di quel che sia stata ai tempi di Augusto.

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chissimo patrimonio comune delle razze. La casa d'abi-tazione forma il tema fondamentale d'ogni architettura;tema affatto identico presso i Greci e presso gli Italici.Fabbricata di legno, con un tetto acuminato coperto dipaglia o di assicelle, essa forma uno spazio quadrato diabitazione, dal quale esce il fumo per un'apertura del tet-to (cavum oedium), per cui penetra la luce, e la qualecombina col buco fatto nel suolo per raccogliervi l'acquapiovana. Sotto questo «nero coperto» (atrium) si prepa-rano e si mangiano le vivande, si adorano gli dei dome-stici; qui si pone il letto matrimoniale, qui la bara; qui ilmarito riceve gli ospiti, qui la donna siede e fila in mez-zo alle sue fantesche. La casa non aveva vestibolo, ameno che come tale non si volesse considerare lo spazioscoperto tra la porta della casa e la strada, che prese ilnome di vestibulum, cioè luogo per vestirsi, poichè incasa si usava di stare colla sottoveste, e s'indossava latoga solo quando si usciva. Mancava anche una divisio-ne delle camere, ma d'intorno allo spazio d'abitazione sipotevano praticare camere da letto e dispense; sarebbepoi ozioso parlare di scale e di piani superiori. Se e inqual modo da questi rudimenti nascesse un'architetturaitalica nazionale non si può stabilire giacchè sino da'primi tempi l'influenza greca sopravvenne apportando isuoi ornamenti a quei primi germi architettonici che pre-esistevano in Italia.

Già la più antica architettura italica, di cui ci giunsenotizia, ci si mostra dominata dall'influenza greca nonmolto meno di quel che sia stata ai tempi di Augusto.

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Gli antichissimi sepolcri di Cere e d'Alsio, e verosimil-mente anche quello trovato ultimamente in Preneste,sono coperti interamente, come i tesori di Orcomeno edi Micene, con strati di pietre sovrapposte le une alle al-tre, a poco a poco rientranti e coronati con una gran pie-tra. Nello stesso modo è coperto un antichissimo edifi-zio presso le mura della città di Tuscolo e così era origi-nariamente coperto il pozzo (tullianum) posto ai piedidel Campidoglio sino a che non ne fu distrutto il culmi-ne a cagione dell'edifizio che vi si piantò sopra. Le portecostruite col medesimo sistema in Arpino ed in Miceneinteramente si rassomigliano. L'emissario del lagod'Albano ha la massima rassomiglianza con quello dellago Copaide. Le così dette mura ciclopiche sono fre-quenti in Italia, particolarmente nell'Etruria,nell'Umbria, nel Lazio e nella Sabina, e in quanto allacostruzione devono risolutamente noverarsi tra le piùantiche opere architettoniche d'Italia, benchè la più granparte di quelle tutt'ora esistenti sia stata edificata secon-do ogni apparenza molto più tardi; e certo ve ne ha chenon furono costruite prima del settimo secolo della cittàdi Roma. Esse ci si presentano, appunto come gli edificigreci, ora interamente greggie, composte di grandi mas-si di pietre non lavorate, a cui son frapposte pietre pic-cole, ora in istrati quadrati orizzontali123, ora in blocchi

123 Di questa specie sono le mura di Servio ed è qui il luogod'inserire la seguente descrizione inviata da Roma sulla recentescoperta di alcune reliquie di queste mura: «Sul decliviodell'Aventino volto verso S. Paolo ed il piano del Testaccio, di

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Gli antichissimi sepolcri di Cere e d'Alsio, e verosimil-mente anche quello trovato ultimamente in Preneste,sono coperti interamente, come i tesori di Orcomeno edi Micene, con strati di pietre sovrapposte le une alle al-tre, a poco a poco rientranti e coronati con una gran pie-tra. Nello stesso modo è coperto un antichissimo edifi-zio presso le mura della città di Tuscolo e così era origi-nariamente coperto il pozzo (tullianum) posto ai piedidel Campidoglio sino a che non ne fu distrutto il culmi-ne a cagione dell'edifizio che vi si piantò sopra. Le portecostruite col medesimo sistema in Arpino ed in Miceneinteramente si rassomigliano. L'emissario del lagod'Albano ha la massima rassomiglianza con quello dellago Copaide. Le così dette mura ciclopiche sono fre-quenti in Italia, particolarmente nell'Etruria,nell'Umbria, nel Lazio e nella Sabina, e in quanto allacostruzione devono risolutamente noverarsi tra le piùantiche opere architettoniche d'Italia, benchè la più granparte di quelle tutt'ora esistenti sia stata edificata secon-do ogni apparenza molto più tardi; e certo ve ne ha chenon furono costruite prima del settimo secolo della cittàdi Roma. Esse ci si presentano, appunto come gli edificigreci, ora interamente greggie, composte di grandi mas-si di pietre non lavorate, a cui son frapposte pietre pic-cole, ora in istrati quadrati orizzontali123, ora in blocchi

123 Di questa specie sono le mura di Servio ed è qui il luogod'inserire la seguente descrizione inviata da Roma sulla recentescoperta di alcune reliquie di queste mura: «Sul decliviodell'Aventino volto verso S. Paolo ed il piano del Testaccio, di

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poligonali incastonati insieme. Dalla scelta dell'uno odell'altro sistema dipendeva ordinariamente il materialeche vi si impiegava; e per esempio in Roma, ove nei piùantichi tempi non si fabbricava se non col tufo, non sitrova per tal motivo la costruzione a poligono. È neces-sario far risalire la somiglianza dei due primi più sem-

fronte a Santa Prisca nella vigna Maccarena, proprietà de' Gesuiti,dopo lo sgombramento di parecchi edifizi in mattoni dei tempi diCesare – alcuni dei quali ornati di buone pitture – si scoprirono fi-nalmente costruzioni di tufo, di cui non si conobbe subito l'impor-tanza e quindi si distrussero, come si demolirono anche i ruderid'una porta per venderne le pietre, fintantochè, avvertita l'impor-tanza del fatto, se ne sospese la demolizione. Ora se ne trova sco-perto un tratto della lunghezza di metri trentadue e d'altezza dicirca metri dieci, composto di quattordici strati. Più in su si trovaun altro pezzo di muro coperto interamente con più recente opusreticulatum, il quale, essendo rotto, ne lascia scorgere la grossez-za che è di cinque metri. I ceppi di tufo sono tagliati in quadrato eposti in opera regolarmente; gli strati delle pietre si alternano traloro con regolarità mentre uno è messo di coltello e l'altro sul latolargo. In un punto della parte superiore del muro si scorge ungrand'arco regolare, il quale pare di epoca alquanto posteriore. Sisono inoltre scoperte altre reliquie delle mura di Servio nella par-te dell'Aventino volta al Tevere, nel giardino dei Domenicani diS. Sabina, come una sottomuratura della parte superiore del me-desimo, ma esse sono interamente coperte dall'opus reticulatum eda edifizii del medio evo. Il muro si prolungava evidentementesull'orlo della collina. Continuando questi scavi si scoprironocave e gallerie, che attraversano questa collina appunto come ilCampidoglio in tutte le direzioni. Queste gallerie appartengono alsistema delle chiaviche della cui importanza ed estensionenell'antica Roma ebbe già a parlare con molta erudizione il BRAUN

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poligonali incastonati insieme. Dalla scelta dell'uno odell'altro sistema dipendeva ordinariamente il materialeche vi si impiegava; e per esempio in Roma, ove nei piùantichi tempi non si fabbricava se non col tufo, non sitrova per tal motivo la costruzione a poligono. È neces-sario far risalire la somiglianza dei due primi più sem-

fronte a Santa Prisca nella vigna Maccarena, proprietà de' Gesuiti,dopo lo sgombramento di parecchi edifizi in mattoni dei tempi diCesare – alcuni dei quali ornati di buone pitture – si scoprirono fi-nalmente costruzioni di tufo, di cui non si conobbe subito l'impor-tanza e quindi si distrussero, come si demolirono anche i ruderid'una porta per venderne le pietre, fintantochè, avvertita l'impor-tanza del fatto, se ne sospese la demolizione. Ora se ne trova sco-perto un tratto della lunghezza di metri trentadue e d'altezza dicirca metri dieci, composto di quattordici strati. Più in su si trovaun altro pezzo di muro coperto interamente con più recente opusreticulatum, il quale, essendo rotto, ne lascia scorgere la grossez-za che è di cinque metri. I ceppi di tufo sono tagliati in quadrato eposti in opera regolarmente; gli strati delle pietre si alternano traloro con regolarità mentre uno è messo di coltello e l'altro sul latolargo. In un punto della parte superiore del muro si scorge ungrand'arco regolare, il quale pare di epoca alquanto posteriore. Sisono inoltre scoperte altre reliquie delle mura di Servio nella par-te dell'Aventino volta al Tevere, nel giardino dei Domenicani diS. Sabina, come una sottomuratura della parte superiore del me-desimo, ma esse sono interamente coperte dall'opus reticulatum eda edifizii del medio evo. Il muro si prolungava evidentementesull'orlo della collina. Continuando questi scavi si scoprironocave e gallerie, che attraversano questa collina appunto come ilCampidoglio in tutte le direzioni. Queste gallerie appartengono alsistema delle chiaviche della cui importanza ed estensionenell'antica Roma ebbe già a parlare con molta erudizione il BRAUN

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plici modi di costruzione all'analogia del materiale dicostruzione e dello scopo delle fabbriche; ma difficil-mente si potrà considerare come un effetto di coinciden-za accidentale anche l'ingegnosa costruzione delle muraa poligono e la porta colla via, che ad essa fa capo, laquale, sempre incurvata alla sinistra, lascia scoperta edesposta ai difensori la destra degli assalitori; avvedi-mento tecnico proprio delle fortezze italiche come dellegreche. Ed altri importanti accenni abbiamo nel fatto,che soltanto in quella parte d'Italia, la quale non fu sog-giogata dagli Elleni, nè esclusa dal commercio con essi,era in uso codesta architettura murale e che la vera ar-chitettura murale a poligono in Etruria s'incontra solo inPirgi e nelle città non molto distanti da Cosa e Saturnia.La costruzione delle mura di Pirgi si può, particolarmen-te per l'indizio del nome (torri), attribuire ai Greci cosìsicuramente come si trattasse delle mura di Tirinto, everosimilmente abbiamo in esse sotto gli occhi uno deimodelli, dal quale gl'Italici impararono la costruzionemurale. E finalmente il tempio, che nelle età degli impe-ratori si chiamava tempio toscano e che era consideratocome modellato su uno stile proprio, nel quale si fossero

(Annali dell'Instit., 1852, p. 331). D'un altro pezzo del muro ser-viano, scoperto già prima non lungi da porta Capena, si trova undisegno in GELL (Topography of Rome, p. 494). Essenzialmentedel genere delle serviane sono le mura scoperte nella vigna Nussi-ner sul pendio del Palatino verso il Campidoglio (Braun), le qualifurono, verosimilmente con ragione, dichiarate reliquie dell'anti-chissima cinta della Roma quadrata».

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plici modi di costruzione all'analogia del materiale dicostruzione e dello scopo delle fabbriche; ma difficil-mente si potrà considerare come un effetto di coinciden-za accidentale anche l'ingegnosa costruzione delle muraa poligono e la porta colla via, che ad essa fa capo, laquale, sempre incurvata alla sinistra, lascia scoperta edesposta ai difensori la destra degli assalitori; avvedi-mento tecnico proprio delle fortezze italiche come dellegreche. Ed altri importanti accenni abbiamo nel fatto,che soltanto in quella parte d'Italia, la quale non fu sog-giogata dagli Elleni, nè esclusa dal commercio con essi,era in uso codesta architettura murale e che la vera ar-chitettura murale a poligono in Etruria s'incontra solo inPirgi e nelle città non molto distanti da Cosa e Saturnia.La costruzione delle mura di Pirgi si può, particolarmen-te per l'indizio del nome (torri), attribuire ai Greci cosìsicuramente come si trattasse delle mura di Tirinto, everosimilmente abbiamo in esse sotto gli occhi uno deimodelli, dal quale gl'Italici impararono la costruzionemurale. E finalmente il tempio, che nelle età degli impe-ratori si chiamava tempio toscano e che era consideratocome modellato su uno stile proprio, nel quale si fossero

(Annali dell'Instit., 1852, p. 331). D'un altro pezzo del muro ser-viano, scoperto già prima non lungi da porta Capena, si trova undisegno in GELL (Topography of Rome, p. 494). Essenzialmentedel genere delle serviane sono le mura scoperte nella vigna Nussi-ner sul pendio del Palatino verso il Campidoglio (Braun), le qualifurono, verosimilmente con ragione, dichiarate reliquie dell'anti-chissima cinta della Roma quadrata».

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coordinati i diversi generi di architettura dei templi gre-ci, ci appare interamente conforme al tipo greco tantonel suo assieme, che è uno spazio murato (cella) d'ordi-nario quadrangolare sul quale sorgono pareti e colonneche sostengono come librato in aria l'acuminato tetto,quanto nei particolari e principalmente nella colonna enelle proporzioni architettoniche. Dopo tutto ciò è vero-simile e credibile che l'architettura italica, prima chegl'Italici fossero in relazione cogli Elleni, si limitasse acapanne di legno, a steccati, a ripari di terra e di sassi, eche la costruzione in muratura vi si introdusse soltantodietro l'esempio dei Greci e col sussidio dei loro miglio-ri strumenti. Non sapremmo dubitare che gl'Italici solodai Greci apprendessero l'uso del ferro e da essi impa-rassero a preparare la malta (cal[e]x da χάλιξ), la mac-china (macchina, µηχανή), la squadra (groma, guasto daγνώµον, γνῶµα) e l'ingegnosa inferriata (clathriκλῆϑρον). Si può quindi appena parlare d'una propria ar-chitettura italica a meno che nella costruzione in legnodella casa italica di abitazione, oltre ai cambiamenti an-che in essa avvenuti per influenza greca, fosse rimasto osi fosse per caso sviluppato alcunchè di proprio e nazio-nale, e che questo elemento alla sua volta influisse sullacostruzione dei templi italici. Ma lo sviluppo architetto-nico della casa in Italia è dovuto agli Etruschi. I Latini,e persino i Sabelli, rimanevano ancora rigorosamente fe-deli all'avita capanna di legno ed all'antico costume diassegnare a dio ed allo spirito non un'abitazione sacrata,ma solo uno spazio sacrato, quando gli Etruschi aveva-

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coordinati i diversi generi di architettura dei templi gre-ci, ci appare interamente conforme al tipo greco tantonel suo assieme, che è uno spazio murato (cella) d'ordi-nario quadrangolare sul quale sorgono pareti e colonneche sostengono come librato in aria l'acuminato tetto,quanto nei particolari e principalmente nella colonna enelle proporzioni architettoniche. Dopo tutto ciò è vero-simile e credibile che l'architettura italica, prima chegl'Italici fossero in relazione cogli Elleni, si limitasse acapanne di legno, a steccati, a ripari di terra e di sassi, eche la costruzione in muratura vi si introdusse soltantodietro l'esempio dei Greci e col sussidio dei loro miglio-ri strumenti. Non sapremmo dubitare che gl'Italici solodai Greci apprendessero l'uso del ferro e da essi impa-rassero a preparare la malta (cal[e]x da χάλιξ), la mac-china (macchina, µηχανή), la squadra (groma, guasto daγνώµον, γνῶµα) e l'ingegnosa inferriata (clathriκλῆϑρον). Si può quindi appena parlare d'una propria ar-chitettura italica a meno che nella costruzione in legnodella casa italica di abitazione, oltre ai cambiamenti an-che in essa avvenuti per influenza greca, fosse rimasto osi fosse per caso sviluppato alcunchè di proprio e nazio-nale, e che questo elemento alla sua volta influisse sullacostruzione dei templi italici. Ma lo sviluppo architetto-nico della casa in Italia è dovuto agli Etruschi. I Latini,e persino i Sabelli, rimanevano ancora rigorosamente fe-deli all'avita capanna di legno ed all'antico costume diassegnare a dio ed allo spirito non un'abitazione sacrata,ma solo uno spazio sacrato, quando gli Etruschi aveva-

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no già cominciato a riformare artisticamente la casad'abitazione e, prendendo ad esempio l'abitazionedell'uomo, avevano eretto un tempio al dio ed una tom-ba allo spirito. Che nel Lazio si procedesse a siffatte co-struzioni di lusso solo sotto l'influenza etrusca, lo provail nome del più antico stile di architettura religiosa e delpiù antico stile di architettura domestica chiamato etru-sco124. Per ciò che concerne il carattere di siffatto pas-saggio dalla casa al tempio, è vero che il tempio grecoimita anch'esso i generali contorni della tenda e dellacasa d'abitazione, ma esso è costituito essenzialmente dipietre riquadrate e coperto di tegole; e per esso le leggidella necessità e della bellezza si sono svolte sempre inrelazione alla pietra e alla terracotta. All'Etrusco invecerimase ignota la spiccata antitesi greca tra la casa d'abi-tazione dell'uomo, costruita necessariamente di legno, el'abitazione degli dei, costruita necessariamente di pie-tra. Le proprietà del tempio etrusco, la pianta che più siavvicina al quadrato, il frontone più alto, la maggioredistanza degli intercolonni e più di tutto il timpano piùacuminato e lo straordinario protendersi delle teste delletravi del tetto sulle sostenenti colonne, derivano dallamaggiore approssimazione del tempio alla casa d’abita-zione e dalle proprietà delle costruzioni in legno.

7 Plastica in Italia. Le arti della scultura e del dise-gno sono più recenti dell'architettura: bisogna fabbricare

124 Ratio Tuscanica; cavum aedium Tuscanicum.406

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no già cominciato a riformare artisticamente la casad'abitazione e, prendendo ad esempio l'abitazionedell'uomo, avevano eretto un tempio al dio ed una tom-ba allo spirito. Che nel Lazio si procedesse a siffatte co-struzioni di lusso solo sotto l'influenza etrusca, lo provail nome del più antico stile di architettura religiosa e delpiù antico stile di architettura domestica chiamato etru-sco124. Per ciò che concerne il carattere di siffatto pas-saggio dalla casa al tempio, è vero che il tempio grecoimita anch'esso i generali contorni della tenda e dellacasa d'abitazione, ma esso è costituito essenzialmente dipietre riquadrate e coperto di tegole; e per esso le leggidella necessità e della bellezza si sono svolte sempre inrelazione alla pietra e alla terracotta. All'Etrusco invecerimase ignota la spiccata antitesi greca tra la casa d'abi-tazione dell'uomo, costruita necessariamente di legno, el'abitazione degli dei, costruita necessariamente di pie-tra. Le proprietà del tempio etrusco, la pianta che più siavvicina al quadrato, il frontone più alto, la maggioredistanza degli intercolonni e più di tutto il timpano piùacuminato e lo straordinario protendersi delle teste delletravi del tetto sulle sostenenti colonne, derivano dallamaggiore approssimazione del tempio alla casa d’abita-zione e dalle proprietà delle costruzioni in legno.

7 Plastica in Italia. Le arti della scultura e del dise-gno sono più recenti dell'architettura: bisogna fabbricare

124 Ratio Tuscanica; cavum aedium Tuscanicum.406

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la casa prima di pensare ad adornare le pareti e la fac-ciata. Non è verosimile, che queste arti siano venute infiore in Italia durante l'epoca dei re di Roma; solonell'Etruria, ove col commercio e colla pirateria si con-centrarono molte ricchezze, avrà attecchito di buon'oral'arte, o per dir meglio il mestiere. Quando l'arte grecacominciò ad esercitare la sua influenza sull'Etruria, essasi trovava ancora nei primordi, come ce lo provano lesue copie; e gli Etruschi non avranno tardato lungamen-te ad imparare dai Greci a lavorare le terre cotte e i me-talli in quel tempo appunto, in cui essi da loro appreserol'alfabeto. Le monete d'argento di Populonia, quasi gliunici lavori assegnati con qualche sicurezza a quest'epo-ca, non danno una grande idea dell'abilità artistica degliEtruschi di quei tempi; ma le migliori opere in bronzofra le etrusche, quelle stesse che i critici d'arte venuti dipoi hanno elevato al cielo, devono aver appartenuto ap-punto a quell'epoca primitiva, ed anche le terrecotteetrusche non dovrebbero essere state di poco conto, se lepiù antiche opere poste nei templi romani, come la sta-tua di Giove capitolino e la quadriga collocata sul suotetto, furono commesse in Vejo, e se i grandi ornamentidi simil genere collocati sui frontoni dei templi passava-no, presso i Romani venuti poi, generalmente come«opere etrusche».

Presso gli Italici invece, e non solo presso le schiattesabelliche, ma persino presso i Latini, la scultura indige-na ed il disegno erano ancora in fascie. Pare che i capo-lavori più ragguardevoli siano stati lavorati all'estero.

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la casa prima di pensare ad adornare le pareti e la fac-ciata. Non è verosimile, che queste arti siano venute infiore in Italia durante l'epoca dei re di Roma; solonell'Etruria, ove col commercio e colla pirateria si con-centrarono molte ricchezze, avrà attecchito di buon'oral'arte, o per dir meglio il mestiere. Quando l'arte grecacominciò ad esercitare la sua influenza sull'Etruria, essasi trovava ancora nei primordi, come ce lo provano lesue copie; e gli Etruschi non avranno tardato lungamen-te ad imparare dai Greci a lavorare le terre cotte e i me-talli in quel tempo appunto, in cui essi da loro appreserol'alfabeto. Le monete d'argento di Populonia, quasi gliunici lavori assegnati con qualche sicurezza a quest'epo-ca, non danno una grande idea dell'abilità artistica degliEtruschi di quei tempi; ma le migliori opere in bronzofra le etrusche, quelle stesse che i critici d'arte venuti dipoi hanno elevato al cielo, devono aver appartenuto ap-punto a quell'epoca primitiva, ed anche le terrecotteetrusche non dovrebbero essere state di poco conto, se lepiù antiche opere poste nei templi romani, come la sta-tua di Giove capitolino e la quadriga collocata sul suotetto, furono commesse in Vejo, e se i grandi ornamentidi simil genere collocati sui frontoni dei templi passava-no, presso i Romani venuti poi, generalmente come«opere etrusche».

Presso gli Italici invece, e non solo presso le schiattesabelliche, ma persino presso i Latini, la scultura indige-na ed il disegno erano ancora in fascie. Pare che i capo-lavori più ragguardevoli siano stati lavorati all'estero.

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Abbiamo già detto delle statue di terracotta che si sup-pongono plasmate in Vejo; gli ultimi scavi hanno mo-strato che le opere di bronzo lavorate nell'Etruria e por-tanti inscrizioni etrusche furono in uso, se non in tutto ilLazio, almeno in Preneste; la statua di Diana nel tempiolatino-romano della Concordia sull'Aventino, la quale siriteneva per la più antica statua in Roma125, rassomiglia-va compiutamente alla massaliota dell'Artemisia efesia-ca e fu forse lavorata in Elea o in Massalia. Le mae-stranze dei pentolai, dei battirame e degli orefici esisten-ti in Roma da antico tempo, sono quasi i soli indizi cheprovano l'anteriore esistenza d'una indigena scultura ed'una propria arte del disegno; ma non è in alcun modopossibile formarsi un'adeguata idea dello stato in cuil'arte si trovasse.

8 Relazioni e qualità artistiche degli Etruschi edegli Italici. Se noi ci poniamo a cavare un estrattostorico da questi archivi delle antiche tradizioni e dallereliquie dell'arte, giungiamo prima di tutto a veder chia-ro che l'arte italica, appunto come il sistema metrico e lascrittura, si è sviluppata interamente sotto gli influssi el-

125 Se Varrone (AGOSTINO, de civ. Dei, 4, 31, confr. PLUTARCO,Numa, 8) dice che i Romani avessero adorato gli dei più di 170anni senza ergerne statue, esso intende evidentemente accennare aquesta statua, che secondo la cronologia convenzionale fu dedica-ta alla città fra l'anno 176 ed il 219 e fu senza dubbio la prima sta-tua di divinità, della cui consacrazione fanno menzione le sorgen-ti, cui attinse Varrone.

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Abbiamo già detto delle statue di terracotta che si sup-pongono plasmate in Vejo; gli ultimi scavi hanno mo-strato che le opere di bronzo lavorate nell'Etruria e por-tanti inscrizioni etrusche furono in uso, se non in tutto ilLazio, almeno in Preneste; la statua di Diana nel tempiolatino-romano della Concordia sull'Aventino, la quale siriteneva per la più antica statua in Roma125, rassomiglia-va compiutamente alla massaliota dell'Artemisia efesia-ca e fu forse lavorata in Elea o in Massalia. Le mae-stranze dei pentolai, dei battirame e degli orefici esisten-ti in Roma da antico tempo, sono quasi i soli indizi cheprovano l'anteriore esistenza d'una indigena scultura ed'una propria arte del disegno; ma non è in alcun modopossibile formarsi un'adeguata idea dello stato in cuil'arte si trovasse.

8 Relazioni e qualità artistiche degli Etruschi edegli Italici. Se noi ci poniamo a cavare un estrattostorico da questi archivi delle antiche tradizioni e dallereliquie dell'arte, giungiamo prima di tutto a veder chia-ro che l'arte italica, appunto come il sistema metrico e lascrittura, si è sviluppata interamente sotto gli influssi el-

125 Se Varrone (AGOSTINO, de civ. Dei, 4, 31, confr. PLUTARCO,Numa, 8) dice che i Romani avessero adorato gli dei più di 170anni senza ergerne statue, esso intende evidentemente accennare aquesta statua, che secondo la cronologia convenzionale fu dedica-ta alla città fra l'anno 176 ed il 219 e fu senza dubbio la prima sta-tua di divinità, della cui consacrazione fanno menzione le sorgen-ti, cui attinse Varrone.

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

lenici. Non vi ha una sola delle arti italiche che non tro-vi il suo preciso modello nell'antica arte greca, e la leg-genda dice perfettamente il vero, quando essa attribuiscela fabbricazione in Italia delle statue di terra dipinta, chesono indubbiamente dell'antico genere d'arte, ai tre arti-sti greci Eucheir, Diopos e Eugrammos, che è quantodire: lo scultore, l'ornatista ed il disegnatore; sebbened'altra parte sia più che dubbio che quest'arte venisse daCorinto e arrivasse dapprima a Tarquinia. Non v'è indi-zio che si sia mai pigliato ad imitare direttamente qual-che modello orientale, come non v'è traccia d'una formaartistica sviluppata indipendentemente; se i lapidarietruschi non si spostarono mai dalla forma originariadello scarafaggio o da quella dello scarabeo egizio, con-vien notare che anche in Grecia si trovarono di questiscarabei, come ad esempio uno tagliato in pietra conun'antichissima inscrizione ne fu trovato in Egina; ond'èche questo tipo può essere benissimo pervenuto agliEtruschi per mezzo dei Greci. Dal Fenicio ben si potevacomperare, ma non si poteva imparare che dal Greco.

Se poi si vuole indagare da quale delle tribù grechesiano prima venuti agli Etruschi i modelli dell'arte, noiconfessiamo di non poter dare una risposta categorica,come non la potemmo dare a simile domanda relativa-mente all'alfabeto. Vi sono ciò non ostante dei rapportidegni di attenzione tra l'arte etrusca e la più antica arteattica. Le tre forme artistiche, che almeno più tardi furo-no esercitate in Etruria su vasta scala, cioè la pittura del-le tombe, il disegno sugli specchi e l'arte del lapidario,

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lenici. Non vi ha una sola delle arti italiche che non tro-vi il suo preciso modello nell'antica arte greca, e la leg-genda dice perfettamente il vero, quando essa attribuiscela fabbricazione in Italia delle statue di terra dipinta, chesono indubbiamente dell'antico genere d'arte, ai tre arti-sti greci Eucheir, Diopos e Eugrammos, che è quantodire: lo scultore, l'ornatista ed il disegnatore; sebbened'altra parte sia più che dubbio che quest'arte venisse daCorinto e arrivasse dapprima a Tarquinia. Non v'è indi-zio che si sia mai pigliato ad imitare direttamente qual-che modello orientale, come non v'è traccia d'una formaartistica sviluppata indipendentemente; se i lapidarietruschi non si spostarono mai dalla forma originariadello scarafaggio o da quella dello scarabeo egizio, con-vien notare che anche in Grecia si trovarono di questiscarabei, come ad esempio uno tagliato in pietra conun'antichissima inscrizione ne fu trovato in Egina; ond'èche questo tipo può essere benissimo pervenuto agliEtruschi per mezzo dei Greci. Dal Fenicio ben si potevacomperare, ma non si poteva imparare che dal Greco.

Se poi si vuole indagare da quale delle tribù grechesiano prima venuti agli Etruschi i modelli dell'arte, noiconfessiamo di non poter dare una risposta categorica,come non la potemmo dare a simile domanda relativa-mente all'alfabeto. Vi sono ciò non ostante dei rapportidegni di attenzione tra l'arte etrusca e la più antica arteattica. Le tre forme artistiche, che almeno più tardi furo-no esercitate in Etruria su vasta scala, cioè la pittura del-le tombe, il disegno sugli specchi e l'arte del lapidario,

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mentre in Grecia erano limitatissime, furono fino aitempi di cui parliamo, conservate sul suolo greco sola-mente in Atene e in Egina. Il tempio etrusco non corri-sponde compiutamente nè al dorico nè allo jonico: manei più importanti punti di carattere differenziale, nelperistilio che con un colonnato circonda la cella, e nellozoccolo sottoposto come base a ciascuna colonna, lo sti-le etrusco segue lo jonico meno antico; e appunto lo sti-le dell'architettura jonico-attica, che ritiene ancora assaidell'elemento dorico, si avvicina nella pianta generale altoscano più che tutti gli altri stili greci. Se dunque, comeconvien crederlo appena che si consideri la materia conqualche attenzione, i generali rapporti di commercio e ditraffico furono decisivi anche pei modelli dell'arte, sipuò ritenere con certezza, benchè ci manchi ogni indiziodelle prime relazioni artistiche di questo paese, che gliElleni della Campania e della Sicilia siano stati i maestridei Latini nelle arti belle come lo furono nell'alfabeto; ese questo assunto non è confermato, almeno non è con-traddetto dall'analogia della Diana dell'Aventinocoll'Artemisia di Efeso. La primitiva arte etrusca, comeera ben naturale, servì nello stesso tempo di modello an-che pel Lazio. D'altra parte, come l'alfabeto greco cosìanche l'arte greca della scultura e dell'architettura giunsesino alle genti sabelliche, benchè forse solo per intro-missione delle schiatte italiche più occidentali.

Se infine si voglia portare un giudizio sul genio arti-stico delle diverse nazioni italiche, si può già fin da que-sti primordi scorgere quello che si fa sempre più manife-

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mentre in Grecia erano limitatissime, furono fino aitempi di cui parliamo, conservate sul suolo greco sola-mente in Atene e in Egina. Il tempio etrusco non corri-sponde compiutamente nè al dorico nè allo jonico: manei più importanti punti di carattere differenziale, nelperistilio che con un colonnato circonda la cella, e nellozoccolo sottoposto come base a ciascuna colonna, lo sti-le etrusco segue lo jonico meno antico; e appunto lo sti-le dell'architettura jonico-attica, che ritiene ancora assaidell'elemento dorico, si avvicina nella pianta generale altoscano più che tutti gli altri stili greci. Se dunque, comeconvien crederlo appena che si consideri la materia conqualche attenzione, i generali rapporti di commercio e ditraffico furono decisivi anche pei modelli dell'arte, sipuò ritenere con certezza, benchè ci manchi ogni indiziodelle prime relazioni artistiche di questo paese, che gliElleni della Campania e della Sicilia siano stati i maestridei Latini nelle arti belle come lo furono nell'alfabeto; ese questo assunto non è confermato, almeno non è con-traddetto dall'analogia della Diana dell'Aventinocoll'Artemisia di Efeso. La primitiva arte etrusca, comeera ben naturale, servì nello stesso tempo di modello an-che pel Lazio. D'altra parte, come l'alfabeto greco cosìanche l'arte greca della scultura e dell'architettura giunsesino alle genti sabelliche, benchè forse solo per intro-missione delle schiatte italiche più occidentali.

Se infine si voglia portare un giudizio sul genio arti-stico delle diverse nazioni italiche, si può già fin da que-sti primordi scorgere quello che si fa sempre più manife-

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sto nelle successive evoluzioni dell'arte, cioè che gliEtruschi cominciarono bensì prima di ogni altro popoloitalico ad esercitare l'arte, e lavorarono più riccamente epiù abbondantemente in grandi masse, ma che le loroopere rimasero inferiori alle sabelliche e latine per in-tento e utilità, non meno che per significazione e bellez-za. Questa inferiorità etrusca sulle prime non si può ve-dere che nell'architettura. La maniera di costruzioni apoligono, congrua quanto bella, è frequente nel Lazio enei vicini paesi interni, rara nell'Etruria, ove nemmenole mura di Cere sono costruite di masse poligonali. Per-sino nella singolare importanza religiosa e storico-arti-stica dell'arco e del ponte nel Lazio si può riconoscereun presentimento dei futuri acquedotti romani e delle ro-mane vie consolari. Gli Etruschi invece hanno ripetuto ilmodo di costruzione degli Elleni, ma l'hanno anche gua-stato, poichè applicarono non di rado e con poca de-strezza all'architettura in legno le leggi stabilite perl'architettura murale, e col tetto acuminato ed erto e coni vasti intercolonni diedero al loro tempio, per parlarecon un antico architetto, un «aspetto largo, basso, pun-tellato e pesante». Nella ricca abbondanza dell'arte grecai Latini hanno trovato ben pochi elementi che rispondes-sero al loro energico e geniale modo di sentire, ma quelpoco che presero se lo appropriarono idealmente e inti-mamente, e nello sviluppo delle costruzioni delle mura apoligono essi hanno superarto i loro maestri; l'arte etru-sca è un meraviglioso testimonio di attitudini appresemeccanicamente e meccanicamente conservate, ma in-

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sto nelle successive evoluzioni dell'arte, cioè che gliEtruschi cominciarono bensì prima di ogni altro popoloitalico ad esercitare l'arte, e lavorarono più riccamente epiù abbondantemente in grandi masse, ma che le loroopere rimasero inferiori alle sabelliche e latine per in-tento e utilità, non meno che per significazione e bellez-za. Questa inferiorità etrusca sulle prime non si può ve-dere che nell'architettura. La maniera di costruzioni apoligono, congrua quanto bella, è frequente nel Lazio enei vicini paesi interni, rara nell'Etruria, ove nemmenole mura di Cere sono costruite di masse poligonali. Per-sino nella singolare importanza religiosa e storico-arti-stica dell'arco e del ponte nel Lazio si può riconoscereun presentimento dei futuri acquedotti romani e delle ro-mane vie consolari. Gli Etruschi invece hanno ripetuto ilmodo di costruzione degli Elleni, ma l'hanno anche gua-stato, poichè applicarono non di rado e con poca de-strezza all'architettura in legno le leggi stabilite perl'architettura murale, e col tetto acuminato ed erto e coni vasti intercolonni diedero al loro tempio, per parlarecon un antico architetto, un «aspetto largo, basso, pun-tellato e pesante». Nella ricca abbondanza dell'arte grecai Latini hanno trovato ben pochi elementi che rispondes-sero al loro energico e geniale modo di sentire, ma quelpoco che presero se lo appropriarono idealmente e inti-mamente, e nello sviluppo delle costruzioni delle mura apoligono essi hanno superarto i loro maestri; l'arte etru-sca è un meraviglioso testimonio di attitudini appresemeccanicamente e meccanicamente conservate, ma in-

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sieme una prova di scarsa intuizione ed assimilazioneartistica, che può paragonarsi alla meravigliosa destrez-za manuale e all'impotenza ideale dell'arte cinese. In-somma, per quanto si vada a rilento, converrà risolversidi posporre nella storia dell'arte italica gli Etruschi dalprimo all'ultimo posto, come già da gran tempo si smisel'uso di far derivare l'arte greca dall'etrusca.

FINE DEL PRIMO VOLUME

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sieme una prova di scarsa intuizione ed assimilazioneartistica, che può paragonarsi alla meravigliosa destrez-za manuale e all'impotenza ideale dell'arte cinese. In-somma, per quanto si vada a rilento, converrà risolversidi posporre nella storia dell'arte italica gli Etruschi dalprimo all'ultimo posto, come già da gran tempo si smisel'uso di far derivare l'arte greca dall'etrusca.

FINE DEL PRIMO VOLUME

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

INDICE

Rifare la storia di Roma (A. G. QUATTRINI)Teodoro Mommsen (VITTORIO SCIALOIA)Prefazione dell'autore

CAPITOLO PRIMOIntroduzione

1 – Storia antica2 – Italia3 – Storia d'Italia

CAPITOLO SECONDOLe più antiche immigrazioni in Italia

1 – Tribù indigene d'Italia2 – Japigi3 – Rapporti degli Italici coi Greci4 – Rapporti dei Latini e degli Umbro-Sanniti5 – Cultura indo-germanica6 – Cultura greco-italica7 – Agricoltura8 – Antitesi interna tra Greci e Italici9 – La famiglia e lo stato

10 – La religione

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INDICE

Rifare la storia di Roma (A. G. QUATTRINI)Teodoro Mommsen (VITTORIO SCIALOIA)Prefazione dell'autore

CAPITOLO PRIMOIntroduzione

1 – Storia antica2 – Italia3 – Storia d'Italia

CAPITOLO SECONDOLe più antiche immigrazioni in Italia

1 – Tribù indigene d'Italia2 – Japigi3 – Rapporti degli Italici coi Greci4 – Rapporti dei Latini e degli Umbro-Sanniti5 – Cultura indo-germanica6 – Cultura greco-italica7 – Agricoltura8 – Antitesi interna tra Greci e Italici9 – La famiglia e lo stato

10 – La religione

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11 – L'arte

CAPITOLO TERZOLe colonie dei latini

1 – Migrazione indogermanica2 – Estensione dei Latini in Italia3 – Il Lazio4 – Colonie latine e villaggi consorziali5 – Luoghi antichissimi

CAPITOLO QUARTOLe origini di Roma

1 – I Ramni2 – I Luceri e i Tizi3 – Roma, emporio del Lazio4 – La città palatina e i sette colli5 – I Romani sul colle del Quirinale6 – Relazione tra i comuni palatini e romani

CAPITOLO QUINTOLa costituzione originaria di Roma

1 – La casa e la famiglia romana2 – Famiglia e schiatta3 – Clienti della casa4 – Il comune romano5 – Il re6 – Il senato7 – Comune popolare

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11 – L'arte

CAPITOLO TERZOLe colonie dei latini

1 – Migrazione indogermanica2 – Estensione dei Latini in Italia3 – Il Lazio4 – Colonie latine e villaggi consorziali5 – Luoghi antichissimi

CAPITOLO QUARTOLe origini di Roma

1 – I Ramni2 – I Luceri e i Tizi3 – Roma, emporio del Lazio4 – La città palatina e i sette colli5 – I Romani sul colle del Quirinale6 – Relazione tra i comuni palatini e romani

CAPITOLO QUINTOLa costituzione originaria di Roma

1 – La casa e la famiglia romana2 – Famiglia e schiatta3 – Clienti della casa4 – Il comune romano5 – Il re6 – Il senato7 – Comune popolare

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Storia di Roma Vol. I Theodor Mommsen

8 – Uguaglianza tra i cittadini9 – Oneri dei cittadini

10 – Diritti dei cittadini11 – Originaria costituzione romana

CAPITOLO SESTOI non-cittadini e la riforma della costituzione

1 – Fusione del comune latino e del Quirinale2 – Clienti e ospiti3 – I domiciliati sotto la protezione del comune4 – Costituzione serviana5 – Distretti di leva6 – Ordinamento dell'esercito7 – Censimento8 – Conseguenze politiche degli ordinamenti di

Servio9 – Epoca e causa della riforma

CAPITOLO SETTIMOL'egemonia di Roma nel Lazio

1 – Estensione del territorio romano2 – Territorio dell'Aniene3 – Come si estendevano i territori4 – Egemonia di Roma sul Lazio5 – Posizione di Roma rispetto al Lazio6 – Estensione del territorio romano dopo la cadu-

ta d'Alba7 – Allargamento della città di Roma

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8 – Uguaglianza tra i cittadini9 – Oneri dei cittadini

10 – Diritti dei cittadini11 – Originaria costituzione romana

CAPITOLO SESTOI non-cittadini e la riforma della costituzione

1 – Fusione del comune latino e del Quirinale2 – Clienti e ospiti3 – I domiciliati sotto la protezione del comune4 – Costituzione serviana5 – Distretti di leva6 – Ordinamento dell'esercito7 – Censimento8 – Conseguenze politiche degli ordinamenti di

Servio9 – Epoca e causa della riforma

CAPITOLO SETTIMOL'egemonia di Roma nel Lazio

1 – Estensione del territorio romano2 – Territorio dell'Aniene3 – Come si estendevano i territori4 – Egemonia di Roma sul Lazio5 – Posizione di Roma rispetto al Lazio6 – Estensione del territorio romano dopo la cadu-

ta d'Alba7 – Allargamento della città di Roma

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CAPITOLO OTTAVOLe schiatte umbro sabelliche – Primordi dei Sanniti

1 – Migrazioni umbro-sabelliche2 – Sanniti

CAPITOLO NONOGli etruschi

1 – Nazionalità etrusche2 – La patria degli Etruschi3 – Dimora degli Etruschi in Italia4 – Costituzione etrusca

CAPITOLO DECIMOGli Elleni in Italia

Signoria sui mari degli Etruschi e dei Cartaginesi

1 – L'Italia e i paesi stranieri2 – I Fenici in Italia3 – I Greci In Italia4 – Epoca dell'immigrazione greca5 – Carattere dell'immigrazione greca6 – Città jonico-doriche7 – Relazione del paese adriatico coi Greci8 – Relazioni degli Italici occidentali coi Greci9 – Elleni e Latini

10 – Elleni e Etruschi – Potenza marittima degliEtruschi

11 – Rivalità tra Fenici ed Elleni12 – Fenici e Italici contro gli Elleni

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CAPITOLO OTTAVOLe schiatte umbro sabelliche – Primordi dei Sanniti

1 – Migrazioni umbro-sabelliche2 – Sanniti

CAPITOLO NONOGli etruschi

1 – Nazionalità etrusche2 – La patria degli Etruschi3 – Dimora degli Etruschi in Italia4 – Costituzione etrusca

CAPITOLO DECIMOGli Elleni in Italia

Signoria sui mari degli Etruschi e dei Cartaginesi

1 – L'Italia e i paesi stranieri2 – I Fenici in Italia3 – I Greci In Italia4 – Epoca dell'immigrazione greca5 – Carattere dell'immigrazione greca6 – Città jonico-doriche7 – Relazione del paese adriatico coi Greci8 – Relazioni degli Italici occidentali coi Greci9 – Elleni e Latini

10 – Elleni e Etruschi – Potenza marittima degliEtruschi

11 – Rivalità tra Fenici ed Elleni12 – Fenici e Italici contro gli Elleni

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CAPITOLO UNDECIMOLeggi e giudizi

1 – Carattere moderno della civiltà italica2 – Giurisdizione3 – Delitti4 – Diritto privato5 – Contratti6 – Processo privato7 – Tutela – Diritto ereditario8 – Emancipazione9 – Clienti e stranieri

10 – Caratteri del diritto romano

CAPITOLO DODICESIMOReligione

1 – Religione romana2 – Natura delle divinità3 – Spiriti4 – Sacerdoti5 – I salii6 – Auguri7 – Pontefici8 – Feciali9 – Caratteri del culto

10 – Culti stranieri11 – Religione sabellica12 – Religione etrusca

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CAPITOLO UNDECIMOLeggi e giudizi

1 – Carattere moderno della civiltà italica2 – Giurisdizione3 – Delitti4 – Diritto privato5 – Contratti6 – Processo privato7 – Tutela – Diritto ereditario8 – Emancipazione9 – Clienti e stranieri

10 – Caratteri del diritto romano

CAPITOLO DODICESIMOReligione

1 – Religione romana2 – Natura delle divinità3 – Spiriti4 – Sacerdoti5 – I salii6 – Auguri7 – Pontefici8 – Feciali9 – Caratteri del culto

10 – Culti stranieri11 – Religione sabellica12 – Religione etrusca

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CAPITOLO TREDICESIMOAgricoltura – Industria – Commercio

1 – Agricoltura2 – Comunanza agraria3 – Coltivazione del frumento e della vite4 – Olivo5 – Economia rurale6 – Proprietari di fondi7 – Pastorizia8 – Mestieri9 – Commercio interno degli Italici

10 – Commercio d'Italia oltremare11 – Commercio attivo in Etruria, passivo nel La-

zio12 – Commercio etrusco-attico, latino-siculo

CAPITOLO QUATTORDICESIMOMisure e scrittura

1 – Misure italiche2 – Sistema decimale3 – Misure elleniche in Italia4 – Il calendario italico e il tempo pre-ellenico5 – Alfabeti ellenici in Italia6 – Svolgimento degli alfabeti in Italia7 – Risultati8 – Corruzione della lingua e della scrittura

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CAPITOLO TREDICESIMOAgricoltura – Industria – Commercio

1 – Agricoltura2 – Comunanza agraria3 – Coltivazione del frumento e della vite4 – Olivo5 – Economia rurale6 – Proprietari di fondi7 – Pastorizia8 – Mestieri9 – Commercio interno degli Italici

10 – Commercio d'Italia oltremare11 – Commercio attivo in Etruria, passivo nel La-

zio12 – Commercio etrusco-attico, latino-siculo

CAPITOLO QUATTORDICESIMOMisure e scrittura

1 – Misure italiche2 – Sistema decimale3 – Misure elleniche in Italia4 – Il calendario italico e il tempo pre-ellenico5 – Alfabeti ellenici in Italia6 – Svolgimento degli alfabeti in Italia7 – Risultati8 – Corruzione della lingua e della scrittura

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CAPITOLO QUINDICESIMOL'arte

1 – Doti artistiche degli Italici2 – Il ballo, il canto e la mimica nel Lazio3 – La più antica influenza ellenica4 – Carattere della poesia e della educazione della

gioventù5 – Danza, mimica e canto presso gli Etruschi ed i

Sabelli6 – Antichissima architettura italica7 – Plastica in Italia8 – Relazioni e qualità artistiche degli Etruschi e

degli Italici

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CAPITOLO QUINDICESIMOL'arte

1 – Doti artistiche degli Italici2 – Il ballo, il canto e la mimica nel Lazio3 – La più antica influenza ellenica4 – Carattere della poesia e della educazione della

gioventù5 – Danza, mimica e canto presso gli Etruschi ed i

Sabelli6 – Antichissima architettura italica7 – Plastica in Italia8 – Relazioni e qualità artistiche degli Etruschi e

degli Italici

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